Origine e funzioni della particella giapponese wo Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea Magistrale in Lingue e Civiltà Orientali Cattedra di Glottologia Relatore Correlatore Prof.ssa Claudia A. Ciancaglini Prof. Luca Milasi Candidato Corinne D'Antonio matr. 1212124 A/A 2014/2015
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Origine e funzioni della particellagiapponese wo
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea Magistrale in Lingue e Civiltà Orientali
Cattedra di Glottologia
Relatore Correlatore
Prof.ssa Claudia A. Ciancaglini Prof. Luca Milasi
Candidato
Corinne D'Antonio
matr. 1212124
A/A 2014/2015
Indice
Convenzioni 4
Periodizzazione della lingua e basi del verbo in giapponese antico e classico 6
Lista delle abbreviazioni 7
Introduzione 9
Cap. 1: La classificazione delle particelle e la categoria di “caso” in giapponese 16
1.1 助詞 joshi: la classificazione delle particelle giapponesi 18
1.1.1 Le particelle finali 20
1.1.2 Le particelle interiezionali 21
1.1.3 Le particelle di congiunzione 23
1.1.4 Le particelle restrittive 25
1.1.5 Le particelle pragmatiche 26
1.1.6 Le particelle “di caso” 29
1.2 La categoria del “caso” e la sua identificazione in giapponese 33
1.2.1 Casi analitici e casi sintetici 37
1.2.2 Casi grammaticali e casi semantici 43
1.2.3 La categoria del “caso” in giapponese 48
Cap. 2: La classificazione e le funzioni della particella wo 55
2.1 La particella wo in funzione di particella grammaticale 56
2.1.1 La funzione grammaticale di wo 57
2.1.2 Le funzioni concrete di wo 60
2.1.3 Criteri sintattici per riconoscere la particella grammaticale wo 78
2.2 La particella wo in funzione di particella interiezionale 82
2.2.1 Criteri sintattici per riconoscere la particella interiezionale wo 86
2.3 La particella wo in funzione di particella finale 92
2.3.1 Criteri sintattici per riconoscere la particella finale wo 92
2.4 La particella wo in funzione di particella di congiunzione 96
2.5 Il costrutto in -mi ( ミ語法 mi-gohō) 97
2.6 Osservazioni conclusive 107
Introduzione ai Capitoli 3 e 4: La funzione originaria di wo 110
Cap. 3: La teoria interiezionale 113
3.1 Lo studio di Matsuo 114
3.2 Lo studio successivo di Hiroi e Oyama 129
3.3 L'origine interiezionale di wo 134
3.4 Osservazioni conclusive 140
Cap. 4: L'allineamento morfosintattico e l'alternanza wo-ø in giapponese antico 144
4.1 L'allineamento morfosintattico del giapponese antico 145
4.1.1 Allineamenti morfosintattici 145
4.1.2 L'allineamento ergativo-assolutivo nel giapponese antico 153
4.1.3 L'allineamento nominativo-accusativo nel giapponese antico 160
4.1.4 L'allineamento attivo-stativo nel giapponese antico 163
4.2 L'alternanza wo-ø e il differential object marking (DOM) 176
4.2.1 La ragione morfosintattica dell'alternanza wo-ø 177
4.2.2 La ragione pragmatica dell'alternanza wo-ø: il DOM 188
Cap. 5: Applicazione e validità delle teorie sull'alternanza wo-ø 199
5.1 Esempi con 都 miyako + 見る miru 201
5.2 Esempi con 花 pana + 折る woru 206
5.3 Osservazioni conclusive 212
Conclusioni 214
Bibliografia 224
2
Desidero ringraziare tutte le persone che hanno contribuito e sono state d'aiuto
nella realizzazione della mia tesi.
I miei ringraziamenti vanno innanzitutto alla mia relatrice, la Prof.ssa Ciancaglini,
per il costante supporto, i preziosi consigli, e per avermi trasmesso l'amore per la
linguistica; al Prof. Milasi, mio correlatore, per la grande disponibilità e cortesia
dimostratami e per l'aiuto nella ricerca; al Prof. Keidan, per il contributo e la revisione
di una sezione particolarmente complessa come quella sugli allineamenti
morfosintattici.
Un ringraziamento particolare al Prof. Vovin per la sua immensa gentilezza e per
essere stato di grande aiuto nell'avermi fornito il materiale da lui prodotto e nell'avermi
suggerito preziosi spunti di riflessione.
Nella ricerca dei materiali, un doveroso ringraziamento alla mia collega Roberta
Gattodoro per avermi aiutato nelle ricerche nella biblioteca a SOAS per reperire molti
dei testi consultati durante la stesura di questo lavoro; alla Sig.ra Alessandra Polidori e
al personale della biblioteca del Dipartimento di Studi Orientali, per la rapidità con cui
mi hanno reso disponibili gli articoli di cui avevo bisogno.
Vorrei ringraziare tutta la mia famiglia per aver condiviso gioie e dolori della mia
esperienza universitaria. Grazie a mia mamma per avermi aiutato, essere presente nei
momenti migliori e in quelli più difficili e per avere sempre la soluzione giusta al
momento giusto; a mio papà per aver avuto fiducia nelle mie scelte, per aver gioito con
me in ogni successo e confortatomi in ogni avversità; a mia nonna Elisa, per aver
aspettato questo momento con più trepidazione di me. Grazie a Sebastian, per aver dato
ascolto giorno e notte ai miei dubbi e alle mie teorie e per essermi accanto in ogni
momento, e al mio gruppo stretto di amici, per aver condiviso esami e tazze di tè,
supportandomi e sopportandomi sempre.
Questo lavoro è dedicato ai miei nonni, Gigetto e Oretta.
3
Convenzioni
Il sistema utilizzato per la romanizzazione delle parole giapponesi moderne è il
sistema Hepburn. Per quanto riguarda le parole in giapponese antico e classico, esse
sono qui traslitterate secondo la pronuncia ricostruita del periodo in cui è stato scritto il
testo.
Alcuni elementi degni di nota per quanto riguarda le consonanti sono i seguenti. Le
consonanti sonore, che foneticamente erano probabilmente prenasalizzate [nt] e si erano
sviluppate a partire da nessi di nasale+consonante sorda, sono qui trascritte come
consonanti sonore semplici. Un fenomeno importante riguarda il fonema /p/. In
posizione intervocalica /-p-/ > /-w-/ davanti a tutte le vocali nel tardo decimo secolo, e
fra il 1000 e il 1300 -w- > ø ma solo davanti ad /e, i, o/ (per cui kapo > kawo > kao ma
kapa > kawa); nel tardo medio giapponese, in posizione iniziale di parola /p-/ > /f-/ e nel
nuovo giapponese /f-/ > /h-/ (pana > fana > hana): la traslitterazione è appropriata per
ognuna di queste fasi, in base alla datazione del testo da cui si prendono gli esempi. La
realizzazione fonetica della sibilante /s/ in giapponese antico non è chiara e non vi è
accordo fra gli studiosi (a seconda delle teorie, sarebbero state pronunciate come
affricate o fricative, palatoalveolari o alveolari): per semplicità qui si segue la pronuncia
odierna, fricativa alveolare con allofono palatoalveolare davanti ad /i/ (allofono che
probabilmente si realizzava in giapponese antico anche davanti ad /e/). Per quanto
riguarda le affricate che si hanno nel giapponese moderno, esse sorgono nel tardo medio
giapponese in cui /t/ e /d/ si assibilano davanti a vocali alte, mutando in [tʃi; tsu] e [dʒi;
dzu], e queste ultime confluiscono definitivamente in [zi; zu], anch'esse affricate: si
tratta di un mutamento posteriore al periodo studiato in questo lavoro, quindi le affricate
non sono mai riportate negli esempi proposti.
Per quanto riguarda le vocali, la tradizionale distinzione tra kō-rui 甲類 (tipo A) e
otsu-rui 乙類 (tipo B) non è mai riportata graficamente qui, in quanto non vi è accordo
in merito alla realizzazione fonetica di queste due serie, la cui opposizione non riguarda
i fonemi /u; a/ ma soltanto /e; i; o/. Tra gli altri, Vovin (2005; 2009b) utilizza la seguente
ricostruzione [yi; ye; wo] (kō) e [iy; ey; ø] (otsu), mentre Frellesvig (2010) ricostruisce
[i; ye; wo] (kō) e [wi; e; o] (otsu), ma altri studiosi ne hanno proposte di differenti.
Un'ultima considerazione grafica: per facilitare la lettura del testo giapponese, si è
deciso di trascrivere i testi (anche quelli originariamente scritti in man'yōgana, un
sistema per cui i caratteri cinesi potevano essere usati per il loro valore fonetico o
semantico) utilizzando kanji e kana. Si deve quindi notare che gli esempi presi dal
Man'yoshu, dal Kojiki o dal corpus dei senmyō sono in originale scritti in modo molto
differente da ciò che sarà proposto qui.
5
Periodizzazione della lingua giapponese
Basi del verbo in giapponese antico e classico
MZ Mizen-kei 未然形 Base imperfettiva
RY Ren'yō-kei 連用形 Base continuativa/avverbiale/infinitiva
SS Shushi-kei 終止形 Forma di fine frase
RT Rentai-kei 連体形 Base attributiva
IZ Izen-kei 已然形 Base perfettiva
MR Meirei-kei 命令形 Forma imperativa
6
Lista delle abbreviazioni
AG agente
ATTR attributivo
BEN benefattivo
CAUSAL causale
CLASS classificatore
COM comitativo
COMP comparativo
CONC concessivo
COND condizionale
CONG congetturale
COP copula
DES desiderativo
DIR moto a luogo
ESCL esclamativo
ENF enfatico
FIN (particella) finale
FOC focus
GER gerundio
HON onorifico/sonkeigo 尊敬語
HUM umile/kenjōgo 謙譲語
IMP imperativo
INTER interrogativo
IPOT ipotetico
LOC locativo
NEG negativo
NMLZ nominalizzatore
OGG oggetto diretto
OGIN oggetto indiretto
PART particella
7
PASS passato
PASV passiva
PERF perfettivo
PLUR plurale
PREF prefisso
QUOT citazione
RIS risultativo
SING singolare
SOGG soggetto
STAT stativo
SUFF suffisso
TEMP temporale
TOP topic
TOPEN topic enfatico
8
Introduzione
Lo studio delle joshi 助詞 'particelle', termine che raggruppa elementi molto
differenti fra loro come ad esempio morfemi legati che fungono da congiunzione o
morfemi più liberi che esprimono relazioni semantiche o grammaticali, è uno degli
argomenti più diffusi e importanti nelle ricerche sulla lingua giapponese sia antica che,
in particolar modo, moderna. Le particelle sono state studiate sin dai primi tentativi di
analisi della lingua giapponese ad opera degli studiosi della corrente detta 國 學
kokugaku 'studi nazionali' di epoca Edo, come Fujitani Nariakira ( 富士谷 成章 1738–
1779) e Motoori Norinaga (本居宣長 1730-1801)1, ma ancora non sembra trattarsi di
vere e proprie descrizioni organiche di questo complesso sistema. Una classificazione
definitiva sarebbe giunta soltanto nel secolo scorso, grazie a Yamada Yoshio (山田孝雄
1873-1958). Yamada nel Nihon bunpō-ron 日 本 文 法 論 del 1908 teorizzò una
categorizzazione valida per il giapponese antico e moderno, basata sulla posizione e la
funzione delle particelle, e ne riconobbe sei tipologie ovvero finali, interiezionali, di
congiunzione, restrittive, pragmatiche e di “caso”. È una classificazione molto rigida,
che non sembra permettere connessioni tra le diverse tipologie: una particella può e
deve appartenere ad una classe soltanto, in un rapporto biunivoco tra forma e funzione.
Tale presupposto ha avuto come conseguenza il fatto che, nel caso in cui ad un unico
morfema fossero attribuibili in sincronia due o più funzioni, numerosi studiosi giunsero
a classificare più particelle omofone piuttosto che una singola particella a cui connettere
diversi valori. Ad esempio, nel giapponese classico esisterebbe una particella ya
interiezionale e una ya pragmatica, e allo stesso modo ga sarebbe identificata come
particella di congiunzione e “di caso”, due morfemi differenti con due funzioni
differenti.
È opportuno soffermarsi proprio sulle particelle di “caso”. Già João Rodriguez (ca.
1560-1634) e Diego Collado (tardo 1600-1638), missionari cristiani che operarono in
Giappone e produssero due importantissimi testi di grammatica del giapponese
1 Del primo si veda il testo Ayui shō 脚結抄 del 1778, in cui Fujitani analizza le particelle e i verbiausiliari, di Norinaga si può vedere il Teniwoha himo kagami てにをは ひも鏡 del 1771 e ilcommentario Kotoba no tama no o 詞の玉緒 del 1779, che spiegano la funzione e l'utilizzo di quelleche oggi vengono chiamate “particelle di topic e focus” o “particelle pragmatiche” (si veda §1.1.5).
9
dell'epoca, si interessarono di questa tipologia di particelle: esse compaiono sin
dall'inizio nei due testi, e sono utilizzate per spiegare la declinazione dei sostantivi
giapponesi, utilizzando come modello di base la flessione del sostantivo in latino. Nello
studio dei due missionari, le particelle che vengono postposte ai nomi corrispondono
infatti ai casi del latino e la loro presenza determina quindi le differenze di caso. In
questi testi l'impostazione basata sul latino si rendeva necessaria a causa dello scopo per
cui essi erano stati compilati, ovvero insegnare rapidamente il giapponese ad altri
missionari cristiani che si trovavano in Giappone, per i quali il latino era lingua ben
conosciuta e di cultura. Eppure l'utilizzo del latino come modello esplicativo,
paradigmatico e universalistico, per descrivere il giapponese secondo la morfologia di
una lingua in cui il sostantivo si declina secondo i casi nominativo, genitivo, dativo e
così via, si è perpetrato fino ai giorni nostri, e ancora oggi le descrizioni della lingua
giapponese ad opera di studiosi occidentali tendono a basarsi su questa impostazione,
presupponendo l'esistenza di una categoria di “caso” in giapponese e identificando
morfemi di “caso” (particelle) che vengono messi in parallelo con le desinenze di caso
tradizionali del latino e del greco. Collegare un caso della grammatica latina o greca a
una particella giapponese non permetterebbe però di attribuire alle particelle una serie di
valori differenti, che non sono desumibili dall'etichetta di nominativo o accusativo, ma
che pure questi morfemi presentano in modo indiscutibile. Ad esempio la particella che
viene collegata con il nominativo nel giapponese moderno è ga, ma la funzione primaria
di essa non è grammaticale, come l'etichetta “nominativo” potrebbe suggerire, ma
piuttosto pragmatica, in quanto esprime il focus, ed è identificabile con il nominativo se
il focus coincide con il soggetto. La natura pragmatica della funzione di ga è stata
riconosciuta in modo definitivo solo negli ultimissimi anni2, ma gran parte degli gli
studiosi tende ancora a identificarne il valore grammaticale primario di espressione del
soggetto: la stessa sorte è toccata anche a wo, la particella oggetto di questo studio.
Il problema che si pone nello studio delle particelle giapponesi, che complica
l'attuazione di una descrizione linguistica imparziale e univoca, è quindi di duplice
natura e sarà uno dei fili conduttori di tutto questo lavoro. Da un lato, non si deve cadere
nell'errore di istituire un rapporto biunivoco tra forma e funzione, come sembrano fare
2 Per un'ottima analisi e uno studio delle occorrenze di ga nel parlato si veda l'articolo Ono, Thompson&Suzuki (2000).
10
gli studiosi (principalmente giapponesi) che si basano sulla classificazione proposta da
Yamada: un morfema in sincronia può avere differenti valori e una particella giapponese
può condividere, ad esempio, alcune funzioni con la classe delle particelle pragmatiche
e altre funzioni con la classe delle particelle di “caso”. Tale questione si concretizza poi
anche sul piano espressivo, in quanto nei testi degli autori che si rifanno alla
classificazione di Yamada si legge ad esempio “wo come kantō joshi (particella
interiezionale)” senza mai far riferimento al fatto che il valore interiezionale possa
invece essere una delle tante funzioni della particella wo e non una vera e propria
particella interiezionale. Dall'altro lato, si deve eludere l'impostazione occidentale, in
cui si utilizzano categorie che possono non essere riconosciute necessariamente in tutte
le lingue ma su cui anche gli specialisti tendono a basarsi nelle loro discussioni: si tratta
del concetto di “caso”, ad esempio, ma anche di una parte del discorso come l'aggettivo,
della categoria del plurale e così via. Questi sono elementi che tradizionalmente si
identificano all'interno di lingue occidentali antiche o moderne3, ma non è automatico
riconoscerli anche in lingue molto differenti, genealogicamente e tipologicamente.
A tale proposito, può costituire un esempio molto esplicativo il caso della particella
wo, che secondo la tradizione degli studi segnalava l'oggetto diretto in giapponese
antico e mantiene questa funzione anche nella lingua moderna: a causa di questa sua
funzione primaria viene spesso definita “particella dell'accusativo”. Per quanto riguarda
la fase del giapponese antico e classico, questa particella viene però classificata in
diverse delle categorie individuate da Yamada e alcuni studiosi riconoscono l'esistenza
di un ampio numero di particelle omofone wo, ognuna con una funzione particolare:
interiezionale, finale, di congiunzione, di “caso” (accusativo). Condivide con i valori
che generalmente si attribuiscono all'accusativo delle lingue indoeuropee alcuni utilizzi
(oltre il segnalare l'oggetto, ha funzioni locative e temporali e un valore interiezionale),
ma assume anche funzioni non ricoperte dal caso accusativo di lingue come il latino o il
greco. Inoltre, contrariamente alle desinenze di accusativo nelle lingue indoeuropee, wo
tendeva in antico giapponese ad alternare con il morfema ø: le ragioni di questa
3 La categoria dell'aggettivo, ad esempio, viene riconosciuta come parte del discorso a sé stante solo nelmedioevo (e successivamente nella grammatica di Port Royal), in quanto la tradizione degli studigreci e latini identificava soltanto le due categorie di verbo e nome: l'aggettivo (epiteto) si situavacome distinzione di secondo livello all'interno della categoria del nome. Per una analisi della nascitadella categoria di aggettivo, si veda Alfieri (2014).
11
alternanza sarebbero, secondo gli studi più recenti, di tipo morfosintattico o pragmatico,
ma la prima ipotesi che venne formulata dagli studiosi era connessa ad un valore
meramente interiezionale di wo, secondo cui la presenza della particella avrebbe
innalzato il livello emotivo del discorso senza convogliare alcun valore pragmatico o
morfologico.
Molti studiosi ritengono infatti che la particella wo avesse avuto in origine un valore
solamente esclamativo o enfatico e alcuni di essi utilizzano questa ipotesi a supporto
della teoria secondo cui il giapponese avrebbe una connessione genealogica con le
lingue altaiche. Non è assolutamente scopo di questo lavoro determinare la veridicità
delle teorie sulla parentela genealogica del giapponese, che spaziano da una possibile
parentela con il coreano, a una presunta parentela con le lingue austronesiane o una
ipotetica connessione con lingue altaiche, fino a ipotizzare un sostrato austronesiano e
un superstrato altaico4, ma è interessante notare che la particella wo riveste un ruolo
importante anche nelle ricerche su questo argomento. Il primo studioso ad analizzare la
particella wo in questo senso è Murayama5, che nel 1957 compara il giapponese wo, che
secondo lui avrebbe avuto origine da un ricostruito *wә e avrebbe avuto funzione di
accusativo, con il suffisso accusativo del mancese -be e con il proto-tunguso *-wa/*-wә:
Miller critica in parte questo approccio e afferma che Murayama non avrebbe prestato
attenzione anche agli altri utilizzi di wo, come quello temporale o locativo6. Infatti
Miller propone alcuni esempi che presentano il morfema del proto-tunguso, che lui
afferma essere *-ba (seguendo la ricostruzione di Benzing e prendendo le distanze da
Murayama), utilizzato in funzione di marca dei complementi di tempo e luogo e mette
4 Si è anche ipotizzata una connessione con le lingue indoeuropee o con altre lingue isolate, ma la teoriaaustronesiana e quella altaica, insieme alla teoria coreana, sono effettivamente sostenute e dibattute daun numero molto maggiore di studiosi. Per una panoramica generale si può vedere Shibatani (1990:94-118). Numerose critiche a queste ipotesi, con particolare riguardo alla teoria della parentela con lelingue altaiche, sono mosse in Ciancaglini (2009); si veda anche Vovin (2011b). Per quanto riguarda iconcetti di sostrato e superstrato si veda Thomason&Kaufman (1988: 111 ss.), ma si noti che “thetheory that Japanese involves an Austronesian substratum and an Altaic superstratum says nothingabout the Japanese genealogy, namely the linguistic layer lying between the two strata”: a questoproposito si veda Ciancaglini (2009: 313).
5 Murayama è citato in Shibatani (1990: 99) e in Miller (1971: 26-7).6 Miller (1971: 26). Come noto e come si vedrà in dettaglio (§1.2.2), anche le espressioni di tempo e
luogo sono molto comunemente espresse tramite il caso accusativo, quindi non sono chiare le basisulle quali Miller critica Murayama: una spiegazione possibile è che Miller intenda erroneamente per“accusativo” solo l'espressione dell'oggetto diretto e non anche le altre funzioni concrete tipicamenteespresse tramite il caso accusativo.
12
questi due utilizzi in parallelo con le funzioni del giapponese wo: “the parallel [...] is
immediately apparent”, conclude Miller. Anche la funzione enfatica ed esclamativa di
wo è presa in considerazione da Miller, e lo studioso spiega che, così come in
giapponese questo morfema avrebbe la funzione di marcare un “emphatic object”, allo
stesso modo il mancese -be avrebbe la stessa funzione7. La discussione venne portata
avanti di nuovo da Murayama, che nel 1973 mise in parallelo la funzione prettamente
esclamativa che molti studiosi attribuiscono alle occorrenze di wo in giapponese antico
con la funzione del morfema *ba/*bә del proto-mancio-tunguso, che secondo
Murayama avrebbe avuto una funzione di segnalare “emphasis and exclamation rather
than a grammatical object”8. Le funzioni principali che si attribuiscono alla particella
giapponese wo, quindi, sarebbero identiche alle funzioni del morfema del proto-mancio-
tunguso con cui essa viene comparata.
La teoria di Miller e Murayama è sicuramente molto interessante, ma manca di un
criterio fondamentale per dimostrare una parentela genealogica fra lingue: la
paradigmaticità. Per poter dimostrare una parentela genealogica ci si deve basare su
corrispondenze regolari e sistematiche sia a livello di fonologia che di morfologia;
inoltre le corrispondenze morfologiche non possono essere confinate a pochi e limitati
elementi: si deve trattare di interi sistemi o subsistemi “with a good deal of internal
paradigmaticity, ideally multiple paradigmaticity”9, ovvero la co-occorrenza e
l'ordinamento in serie stabile di un gruppo chiuso e ben preciso di forme. Solo in questo
modo si potrà escludere la possibilità che le corrispondenze siano dovute al caso. Un
esempio di corrispondenze morfologiche paradigmatiche che si può proporre è lo
schema delle desinenze attive primarie del PIE, ricostruite come *-mi (prima persona
forme attestate nelle lingue indoeuropee antiche si riconoscono corrispondenze regolari,
sistematiche e il criterio della paradigmaticità è rispettato, ed è infatti bassissima la
probabilità che questi morfemi occorrano in tutte le lingue, con la stessa funzione e
nello stesso ordine. Un secondo esempio è il sistema delle desinenze di caso ricostruite
del PIE, e tutte le lingue indoeuropee antiche mostrano un pradigma composto da esiti
7 Della funzione di marcare ciò che Miller chiama “emphatic object” si parlerà diffusamente in §4.2.8 Murayama è citato in Shibatani (1990: 99).9 Su questo argomento si veda Ciancaglini (2009: 307-8), in cui si cita Nichols (1996: 48).
13
regolari a partire da esse: si tratta di “co-occurrences and an ordering on a set of forms
each of which, if taken individually, would be much too short for its consonantal
segments to reach the individual-identifying threshold”10. Basare la comparazione su
forme che consistono solo di singoli morfemi, senza alcun grado di paradigmaticità, non
dimostra nulla sulla parentela genealogica delle lingue in esame. Quindi, solo nel caso
in cui Miller o Murayama riuscissero a dimostrare che, oltre alla particella wo, anche
altre particelle di “caso” come ga, no, ni, pe > he e così via avessero forme comparabili
in mancese e tunguso, allora si potrebbe essere dinanzi ad un buon indizio a favore
dell'ipotesi di una parentela genealogica fra queste tre lingue: eppure questi studiosi non
sembrano essere stati in grado di identificare tali corrispondenze. Su questo argomento
si può però vedere la grammatica di Vovin11, in cui egli riporta in modo sistematico le
possibili corrispondenze tra morfemi giapponesi e morfemi delle altre lingue che
secondo gli studiosi potrebbero essere imparentate con il giapponese (a partire dalla
lingua delle Ryūkyū fino al coreano o al mancese). Per quanto riguarda le particelle di
“caso”, eccezion fatta per un ristrettissimo numero di morfemi che secondo Vovin
sarebbero prestiti coreani, nessuna di esse, eccetto wo, ha un parallelo dimostrabile in
lingue del gruppo altaico: il criterio della paradigmaticità non è quindi rispettato. Come
è stato detto, infatti, se si riesce a dimostrare l'esistenza di forme corrispondenti in altre
lingue di una sola e unica forma (in questo caso wo) all'interno di una serie, senza
trovare paralleli di un intero gruppo chiuso e ben preciso di forme, non si dimostra nulla
riguardo la parentela genealogica, in quanto potrebbe trattarsi di mera casualità.
Per questo motivo si è deciso di non analizzare in questo studio il problema delle
corrispondenze tra la particella giapponese wo e i morfemi paralleli nelle lingue
altaiche, ma di soffermarsi invece sui valori che essa aveva in giapponese antico e le
funzioni che ricopre sin dalle prime fonti scritte.
Questo lavoro è organizzato nel modo che segue: nel primo capitolo si tratterà la
classificazione delle particelle ad opera di Yamada e l'utilizzo del termine “caso”
applicato alla lingua giapponese; nel secondo capitolo si esporranno le diverse funzioni
della particella giapponese wo nel giapponese antico e classico, discutendo la
categorizzazione di wo all'interno delle rigide classi di Yamada; nel terzo capitolo verrà
10 Nichols (1996: 52).11 Si vedano i due volumi Vovin (2005; 2009b).
14
analizzata la teoria secondo cui la particella wo inizialmente non avrebbe avuto una
connessione con l'oggetto diretto, ma una funzione meramente enfatica; nel quarto
capitolo si discuterà il ruolo di wo all'interno delle diverse teorie sull'allineamento
morfosintattico del giapponese antico e le ragioni morfosintattiche o pragmatiche
dell'alternanza wo-ø; nel quinto e ultimo capitolo dimostrerà la veridicità delle teorie
discusse nelle sezioni precedenti, applicandole ad alcune frasi del Man'yoshu per. Nelle
conclusioni si proverà infine a tracciare lo sviluppo della particella wo a partire dalle
prime attestazioni del giapponese antico fino ai giorni nostri.
15
Capitolo 1
La classificazione delle particelle e
la categoria di caso in giapponese
La suddivisione delle parti del discorso in giapponese ha sempre posto numerosi
problemi, in quanto gli studiosi hanno spesso tentato di riconoscere, anche in questa
lingua, quelle categorie che la classificazione convenzionale occidentale identifica.
Negli studi tradizionali, in giapponese vengono distinte tre parti del discorso: 名 na,
働き言葉 hataraki-kotoba e てにをは teniwoha.
Il gruppo denominato na, 'nomi', include gli elementi che non vengono flessi, quindi
ad esempio nomi, pronomi, numerali, avverbi12, ma anche quelli che Frellesvig chiama
“nomi aggettivali”, ovvero una sottocategoria di aggettivi, emersa nel medio
giapponese, i cui membri devono essere sempre accompagnati dalla copula nari, ad
esempio 静かなり shizuka nari 'silenzioso'13.
Con il termine hataraki-kotoba, letteralmente 'parole in azione' o 'parole che
lavorano', si identificano al contrario gli elementi che vengono flessi, ovvero
principalmente verbi e aggettivi (che al contrario dei nomi aggettivali non hanno
bisogno della copula nari). Verbi e aggettivi insieme vengono identificati anche con il
termine 用言 yōgen 'parole d'uso', mentre Sansom le definisce “parole predicative”,
poiché sono le uniche a poter fungere da predicato di una frase senza l'utilizzo della
copula14.
La parola teniwoha invece è costituita semplicemente dall'unione di quattro dei
morfemi appartenenti a questa categoria, ovvero te (particella di congiunzione che segue
la forma continuativa del verbo, rende il gerundio), ni (particella spesso glossata come
“dativo”), wo (glossata come “accusativo”), ha (tramite il kana は , oggi letto ha ma
pronunciato pa in giapponese antico, si segnalava la particella del topic, che in medio
giapponese divenne wa15). La scelta di questi quattro elementi è connessa alla pratica
12 Aston (1904: 39).13 Frellesvig (2010: 235).14 Sansom (1928: 88).15 Per una spiegazione dei mutamenti che coinvolsero il fonema /p/ sia in posizione intervocalica (-p- >
-w- > ø) che in posizione iniziale di parola (p- > f- > h-), si vedano le pagine successive.
16
del kanbun-kundoku. Per kanbun-kundoku, si intende la decodifica di un testo in cinese
in modo da renderlo comprensibile ad un lettore giapponese, tramite l'aggiunta di
appositi segni grafici come diacritici, in modo da segnalare la necessità, ad esempio, di
invertire l'ordine di verbo e oggetto (l'ordine delle parole è VO in cinese, OV in
giapponese) o di aggiungere morfemi per permettere la flessione verbale. Tra i diacritici
più importanti, vi sono gli ヲコト点 wokototen, puntini che venivano posizionati in un
punto preciso al lato del carattere (si veda la Fig. 1) per indicare la particella o il suffisso
che avrebbe accompagnato l'elemento per una corretta lettura in giapponese. I quattro
morfemi te, ni, wo, ha venivano rappresentati tramite wokototen ai quattro angoli del
logogramma, e fu per questo che la scelta ricadde su di loro16.
Nei teniwoha venivano incluse non
soltanto le particelle (ad esempio
appunto quelle “di caso”, particelle di
topic e focus, particelle restrittive), ma
anche i suffissi che seguono verbi e
aggettivi: Aston infatti suddivide
ulteriormente questa categoria in due
gruppi, da un lato le particelle e i
suffissi verbali che non vengono flessi
(ad esempio ba, che unito alla MZ17,
base imperfettiva del verbo, rende il
condizionale), dall'altro i suffissi verbali che devono essere flessi (ad esempio nu,
suffisso che viene flesso, MZ na, RY ni, SS nu, RT nuru, IZ nure, MR ne, il suffisso
segue la forma attributiva del verbo e ha funzione perfettiva)18.
16 Per ulteriori dettagli sull'origine del termine teniwoha, si veda Hashimoto (1969: 3-7). Sul kanbun-kundoku si veda anche §3.1.
17 Le basi verbali giapponesi sono le seguenti: base imperfettiva (未然形 mizen-kei), base continuativa(detta anche avverbiale, infinitiva, sospensiva) ( 連用形 ren'yō-kei), forma di fine frase ( 終止形
shūshi-kei), base attributiva (連体形 rentai-kei), base perfettiva (已然形 izen-kei) e forma imperativa(命令形 meirei-kei). Lungo tutto il testo si utilizzano le abbreviazioni MZ (mizen-kei), RY (ren'yō-kei), SS (shūshi-kei), RT (rentai-kei), IZ (izen-kei) e MR (meirei-kei).
18 Si veda Aston (1904: 39), per un elenco esaustivo si vedano i suoi capitoli V, VI, VII. Nei testimoderni, i suffissi che non si flettono (ad esempio -ba, -te, -do) vengono generalmente identificaticome particelle di congiunzione, setsuzoku joshi, mentre i suffissi flessi di Aston (ad esempio -raru,-sasu, -tu, -nu) sono identificati come ausiliari, in giapponese 助動詞 jodōshi. Ad esempio inFrellesvig (2010) e Shibatani (1990).
17
Fig. 1: Le posizioni degli wokototen rispetto al carattere
Il termine teniwoha, già in uso dal periodo Kamakura, identificava quindi un'ampia
gamma di elementi: desinenze verbali (ad esempio -mu in 読む yomu 'leggere', dove il
verbo yomu era classificato hataraki-kotoba), ausiliari, particelle di congiunzione, altre
tipologie di particelle, suffissi che indicano il plurale (ad esempio -ra). Oggigiorno
invece, con il termine teniwoha si indicano soltanto le particelle, in giapponese 助詞
joshi19.
1.1 助詞 joshi: la classificazione delle particelle giapponesi
Il termine joshi (letteralmente 'parole ausiliarie') sarebbe, secondo Miller, entrato
in scena per la prima volta nel 1856 come calco dell'olandese hulpwerkwoord 'verbo
ausiliare'20. Il termine joshi venne però curiosamente utilizzato per identificare gli
elementi non flessi che seguono altri elementi, ovvero le particelle postposte.
Diversamente, i verbi ausiliari veri e propri delle lingue occidentali vengono chiamati
助動詞 jodōshi in giapponese (letteralmente appunto 'verbo ausiliare'), termine usato
anche per i suffissi verbali giapponesi che si flettono e che indica in generale tutti gli
elementi che si possono aggiungere al verbo giapponese. Quelli che dalla grammatica
giapponese vengono identificati come verbi ausiliari autoctoni sono chiamati 補助動詞
hojodōshi e sono verbi come shimau 'finire per', morau 'ricevere', che seguono
generalmente la base continuativa del verbo o il gerundio te, ma che possono anche
essere utilizzati da soli.
Le particelle sono morfemi grammaticali postposti, ed hanno funzioni sintattiche,
semantiche, pragmatiche. Non è noto con certezza quanto siano legate alla parola a cui
sono connesse in antico giapponese, ma alcuni mutamenti fonologici avvenuti nel
periodo successivo permettono a Frellesvig di ipotizzare che in parte lo fossero. Intorno
al tardo decimo secolo /-p-/ in posizione intervocalica, non iniziale di parola, confluì nel
fonema già esistente /-w-/; fra il 1000 e il 1300, si ebbe un secondo mutamento in cui
/-w-/ > ø solo davanti a /e, i, o/ (ad esempio 顔 kapo > kawo > kao 'volto'): infatti una
parola come 川 kapa > kawa 'fiume' non subì questo secondo mutamento, e così anche
19 Hashimoto (1969: 5-6).20 Miller (1967: 315).
18
la particella di topic pa > wa21. Per quanto riguarda invece il fonema /p-/ ad inizio
parola, nel tardo medio giapponese esso subì un processo di fricativizzazione, /p-/ > /f-/,
e nel nuovo giapponese si ebbe /f-/ > /h-/ (ad esempio 花 pana > fana > hana 'fiore').
Il mutamento /-p-/ > /-w-/ > ø coinvolse alcune particelle ad esempio wo > o oppure
pe > we > e (particella del moto a luogo), ma anche, come appena accennato, la
particella del topic pa > wa: se le particelle non fossero state affatto legate alla parola
precedente, non avrebbero subito tale mutamento, che avvenne soltanto nel caso in
cui /p/ si trovava in posizione intervocalica22.
La classificazione delle particelle non è univoca fra gli studiosi. La distinzione più
utilizzata è stata creata dal linguista giapponese Yamada Yoshio (山田孝雄 1873-1958)
nel Nihon bunpō-ron del 1908 (infatti Aston, il cui lavoro è precedente, non la usa), è
valida per il giapponese antico come per il giapponese moderno ed è accettata sia da
studiosi giapponesi che da autori occidentali, anche se, principalmente nei testi
occidentali, raramente ne viene attribuita la paternità a Yamada. Essa si basa su due
elementi fondamentali, la posizione e la funzione, e riconosce sei tipologie di
joshi (particelle di congiunzione fra due frasi), due categorie di particelle avverbiali,
dette fuku joshi (particelle restrittive) e kakari joshi (particelle pragmatiche), e infine le
kaku joshi (particelle “di caso”).
Le diverse tipologie di particelle appaiono, secondo Shirane, in un ordine ben
stabilito nella frase, dalle più oggettive alle più soggettive: le particelle “di caso” sono le
prime ad essere espresse immediatamente accanto al sostantivo, seguono le particelle
21 Nell'ortografia corrente, però, l'antico kana は pa > wa, in posizione intervocalica, è stato sostituitostabilmente dal kana già esistente わ wa, (quindi 川 kawa non viene scritto più かは ma かわ ),eccezion fatta nel caso in cui questo kana venga utilizzato per trascrivere la particella di topic (cheviene tutt'oggi scritta appunto は wa, mantenendo l'utilizzo storico del kana). Questo moderno utilizzodel sillabario è dovuto ad una legge del 1946, che mirava ad uniformare maggiormente la pronunciamoderna con la scrittura, dato che non vi era più motivo di segnare in modo differente opposizioniormai da tempo perdute a seguito dei diversi mutamenti fonetici (ad esempio ぢ di > ji e じ ji: ormai,salvo rarissime occorrenze, si utilizza じ in entrambi i casi).
22 Frellesvig (2010: 124; 243).23 Shibatani (1990: 334). Questa classificazione viene utilizzata tra gli altri da Hashimoto (1969), Koji
(1988), Shibatani (1990), Shirane (2005), Frellesvig (2010). Sansom (1928) non utilizza laterminologia giapponese ma le categorie che suddivide sono effettivamente molto affini. Vovin (2005;2009b) cita la classificazione tradizionale ma ne adotta, come si vedrà, almeno parzialmente unapropria.
19
avverbiali, solo successivamente le particelle interiezionali e finali24. Probabilmente
Shirane intende come particelle soggettive quelle tramite cui si può esprimere uno stato
d'animo o un'emozione (come le particelle interiezionali), mentre particelle oggettive
possono essere definite quelle “di caso”, grazie alla loro funzione, che viene
generalmente reputata strettamente morfologica25. Più che da una questione di
oggettività, questo ordine fisso sembrerebbe dipendere piuttosto dalla possibilità di
queste particelle di essere omesse senza modificare il senso della frase: come si vedrà,
le particelle interiezionali e finali sono molto libere e possono essere omesse in quanto
non necessarie alla costruzione della frase, mentre le particelle “di caso” sono legate
strettamente al sostantivo o sintagma che seguono.
1.1.1 Le particelle finali
Le shū joshi 終助詞 , particelle finali, sono definite in base alla loro posizione
nella frase, anche se non devono essere espresse obbligatoriamente: sono dette particelle
finali in quanto occorrono soltanto a fine frase e vengono utilizzate proprio per
sottolineare la conclusione della frase. Esprimono la posizione o l'atteggiamento
dell'autore nei confronti di quanto espresso nella frase oppure una diretta richiesta verso
il lettore26, richiedendo consenso o partecipazione da parte dell'ascoltatore27. La loro
funzione è principalmente esclamativa, enfatica, desiderativa, proibitiva, e sottolineano
quindi la modalità della frase. Tokieda Motoki28, infatti, pur non utilizzando il termine
tradizionale ma definendole “particelle che esprimono uno stato d'animo”, le divide in:
particelle che esprimono emozioni (ad esempio ka, ya, wo), che esprimono desiderio (ad
esempio na, ga), che esprimono rafforzamento (koso, zo), e che esprimono divieto
(ancora una volta na). Tokieda sembra includere in questa categoria particelle
appartenenti a gruppi che, secondo la classificazione di Yamada, sarebbero differenti
24 Shirane (2005: 156).25 Come si vedrà, in realtà non sempre le particelle di “caso” svolgono una funzione morfologica, sia
nella lingua antica che in quella moderna: per quanto riguarda la lingua moderna si può prendere adesempio ga (§1.2.3; §2.6), particella che indica secondo la grammatica tradizionale il soggetto, ma cheha la funzione pragmatica di esprimere il focus.
26 Shirane (2005: 238).27 Izuhara (2011: 11).28 Citato in Koji (1988: 11).
20
(koso come si vedrà è una particella pragmatica, wo in questo senso sembra più una
particella esclamativa): questo studioso infatti non distingue il gruppo delle particelle
finali da quelle esclamative, ma le considera come un gruppo unico29. Tokieda non
rispetta quindi la distinzione di Yamada, e questo già lascia immaginare che la
classificazione delle particelle non sia così netta come sembra.
Hashimoto divide le particelle finali nel giapponese moderno in due gruppi: quelle
che possono seguire soltanto il verbo o aggettivi ad esempio ze, na (che indica divieto),
no (che esprime dubbio), e quelle che possono seguire anche sostantivi o altri elementi,
come ad esempio ka (che esprime una interrogativa)30. Nel giapponese antico alcune di
queste particelle avevano una funzione diversa: comuni nella lingua antica erano ka,
kamo (con funzione esclamativa), na e so (che esprimono una dichiarazione o una
richiesta).
Vovin, come si vedrà anche per quanto riguarda le altre tipologie di particelle, non
applica rigidamente la distinzione tradizionale di Yamada. Le tradizionali particelle
finali e interiezionali sono interpretate in maniera diversa da Vovin, che distingue:
particelle “desiderative” (moga e mogamo, utilizzate entrambe per esprimere un
desiderio o una volontà) e particelle “enfatiche”, in cui include sia morfemi
tradizionalmente inseriti nel gruppo delle particelle finali (come kamo o na) sia morfemi
che invece sono tradizionalmente riconosciuti come particelle interiezionali (come si
vedrà, ya, yo, wo)31.
1.1.2 Le particelle interiezionali
Kantō joshi 間投助詞 è un termine di Yamada Yoshio, e significa letteralmente
“particelle che vengono gettate nel mezzo”, ad indicare il fatto che esse possano essere
inserite in qualsiasi punto della frase in cui vi sia una pausa e si voglia innalzare il
livello emotivo di ciò che viene espresso. Sono particelle interiezionali che possono
occorrere liberamente all'interno della frase, possono seguire qualsivoglia elemento,
come un verbo, un sostantivo, o altre tipologie di particelle e non influiscono sulla
struttura della frase: secondo Shirane, le particelle interiezionali attirano l'attenzione del
lettore aggiungendo un particolare significato emotivo o enfatico, indicando una
esclamazione o dando ritmo alla frase32. In giapponese antico le principali sono ya, yo,
wo. Come già detto, Vovin le inserisce in un gruppo denominato “particelle enfatiche”
insieme ad alcune particelle finali. Non è infatti condivisa da tutti gli studiosi la
distinzione fra particelle finali e interiezionali, in quanto le loro funzioni spesso si
sovrappongono: diversi studiosi hanno infatti proposto di dividere queste due categorie
solo sulla base della posizione della particella nella frase (se la particella si trova in
posizione finale è una particella finale, se si trova al centro di frase è interiezionale)
oppure di interpretare le interiezionali come un sottogruppo delle finali (o viceversa), e
in ultimo di non distinguere affatto queste due tipologie (come già visto, questa
posizione è adottata da Tokieda)33.
Come si vedrà (§2.2), è inoltre difficile distinguere in modo netto una particella
interiezionale con funzione enfatica da altre particelle con funzioni morfologiche o
pragmatiche: alcuni studiosi34 ipotizzano una “origine interiezionale” per almeno la
maggioranza delle particelle, se non tutte. Esse quindi sarebbero nate originariamente
come particelle enfatiche o esclamative in senso generale e solo successivamente
avrebbero sviluppato una funzione grammaticale. Questa teoria è sostenuta, come si
vedrà, da molti studiosi per la particella wo, ma allo stesso modo anche per la particella
i35, che avrebbe avuto un antico utilizzo enfatico per venire poi usata per segnalare il
soggetto nei testi più antichi, e la particella wa, che avrebbe poi assunto la funzione di
segnalare il topic già nel giapponese antico. Altri studiosi sono concordi invece
nell'attribuire a queste particelle una funzione morfologica sin dai primi testi storici
(risalenti agli inizi del 700), quindi wo avrebbe già marcato l'oggetto diretto36, wa
32 Shirane (2005: 250).33 Per le diverse teorie su come classificare le particelle finali e quelle interiezionali, si veda
l'interessante articolo Izuhara (2011).34 Uno dei sostenitori di questa teoria è ad esempio Sansom (1928). I testi successivi, principalmente a
opera di studiosi giapponesi, si concentrano invece sullo sviluppo di una particella in particolare,piuttosto che cercare di ricostruire una teoria generale dell'origine delle particelle giapponesi (adesempio Matsuo (1938), Oyama (1958) e molti altri, si veda §3.1).
35 Delle teorie riguardo la funzione di i si parlerà più diffusamente in §4.1.4.36 Come si vedrà, il ruolo di wo in giapponese antico non è affatto chiaro. Per ora si dirà soltanto che
segnala l'oggetto diretto, ma differenti teorie lo identificano come marca del paziente, come casoobliquo e via dicendo (§4.1): si tratta comunque di una funzione grammaticale, secondo alcuni autorianche pragmatica, ma non genericamente “enfatica”.
22
avrebbe già segnalato il topic e i il soggetto o l'agente o un “broad focus subject” (gli
studiosi non sono concordi, come si vedrà §4.1.4). Si tratterebbe quindi di ricostruire nel
proto-giapponese una situazione in cui tutte queste particelle avrebbero avuto soltanto
una funzione genericamente e indifferenziatamente interiezionale o enfatica. Ma si
dovrebbe anche spiegare su che base una determinata particella enfatica venne poi
utilizzata per una particolare funzione (grammaticale o pragmatica) piuttosto che per
un'altra, ovvero il motivo per cui wo e wa, entrambe originariamente particelle
semplicemente enfatiche, andarono poi a segnalare elementi diversi, come l'oggetto e il
topic. È forse infatti vero ciò che afferma Frellesvig: l'uso di queste particelle in
giapponese antico viene studiato su testi a larghissima maggioranza poetici,
appartenenti ad uno stile letterario e retorico ricco ovviamente di esclamazioni, di
lamenti, di invocazioni (ad esempio le canzoni del Kojiki o l'intero corpus del
Man'yōshū). Lo studio di particelle in testi soltanto di questo tipo, secondo Frellesvig,
avrebbe fuorviato gli studiosi, che avrebbero interpretato queste particelle come
“enfatiche”, mentre in realtà la loro funzione era ben diversa37.
1.1.3 Le particelle di congiunzione
Una teoria simile a quella dell' “origine interiezionale” delle particelle è stata
proposta da molti studiosi anche per alcune particelle di congiunzione (setzuzoku joshi).
Anche setsuzoku joshi 接続助詞 è un termine di Yamada Yoshio, e indica particelle di
congiunzione, la cui funzione è appunto quella di congiungere due frasi. Seguono
generalmente il verbo alla fine della frase e mostrano che relazione ha questo predicato
con quello della frase successiva. Anche le particelle di congiunzione moderne vengono
divise da Hashimoto in due categorie: particelle che esprimono una frase coordinata
(Hashimoto utilizza la parola 対等 taidō 'uguaglianza, parità') ad esempio tari, e
particelle che indicano una frase subordinata ( 従属 jūzoku) ad esempio la causale kara,
l'ipotetica ba38.
Nella lingua antica le particelle di congiunzione seguono in genere la RT, forma
attributiva del verbo, ad esempio mono wo (in funzione concessiva), ga (ha funzione
avversativa, si tratta di un utilizzo particolare e in diacronia successivo della particella
di “caso” ga39), wo (in funzione causale, concessiva, temporale), gani ('come se', che
però segue la forma di fine frase del verbo). Come accennato, questa categoria include
anche un secondo gruppo di elementi, ovvero suffissi verbali che rendono forme verbali
non finite. Un primo esempio è ba: a livello formale ha origine dalla sonorizzazione
di /p/ nella particella del topic pa (successivamente pa > wa), mentre la sua funzione si
sviluppò a partire dall'uso contrastivo della particella del topic40. Il suffisso ba viene
utilizzato in giapponese antico e classico con due funzioni, in base alla forma del verbo
che esso segue: ha funzione ipotetica se segue la forma imperfettiva del verbo (MZ),
mentre assume funzione causale o temporale se segue un verbo in forma perfettiva (IZ).
Altre particelle di questo tipo sono ad esempio do (che esprime una concessiva e segue
la forma perfettiva IZ), te (che segue la forma continuativa RY ed esprime un gerundio).
Frellesvig nota che, benché i due gruppi appartengano a tipi di morfemi diversi, in
quanto i secondi prendono parte alla formazione della parola mentre i primi seguono
parole già formate, c'è comunque una sovrapposizione a livello funzionale, perché
entrambi contribuiscono all'espressione della sintassi interfrasale41. L'eterogeneità delle
particelle di congiunzione viene notata anche da Vovin, che infatti scrive che questa
categoria è composta da: alcune particelle “di caso”, congiunzioni, suffissi e ausiliari del
gerundio42. L'utilizzo di particelle “di caso” in funzione di congiunzione è attestato ad
esempio dall'uso come congiunzione di wo oppure ni (utilizzato per marcare una
concessiva o una causale). Quelle che Vovin considera congiunzioni vere e proprie sono
ad esempio mono, monowo, gani e hanno la funzione di connettere differenti parti di
frasi complesse. Il gerundio invece viene formato tramite diversi morfemi: Vovin
distingue innanzitutto i due utilizzi del suffisso ba, ovvero il gerundio condizionale
(l'utilizzo di ba con la forma imperfettiva del verbo) e il gerundio congiuntivo (quando
il suffisso ba segue la forma perfettiva), e successivamente cita il gerundio concessivo
(il suffisso do, oppure domo)43. Ulteriori morfemi del gerundio, tradizionalmente
identificati come particelle di congiunzione, vengono trattati da Vovin come ausiliari e
39 Shirane (2005: 188).40 Sansom (1928: 273-4). La particella wa è una particella pragmatica, si veda §1.1.5.41 Frellesvig (2010: 125).42 Vovin (2009b: 1156).43 Vovin (2005: 726).
24
seguono tutti la forma continuativa del verbo: si tratta del gerundio di subordinazione te
(che indica una azione iniziata prima dell'azione espressa dal verbo della principale), e
di differenti gerundi di coordinazione come tutu (che identifica lo svolgimento di una
azione parallela alla principale o azione ripetuta e abituale) e nagara (più raro di tutu
nei testi antichi, ma suo sinonimo). Vovin infatti, in tutti i suoi testi, distingue sempre
ausiliari (come te) e affissi (ad esempio ba). Gli ausiliari hanno un confine di morfema
ben netto, che li separa dalla forma verbale che seguono, mentre i suffissi non sono più
separabili dalla forma verbale che precede: ad esempio, spiega l'autore44, in antico
giapponese, -i-keri (morfema che indica un passato di cui non si ha esperienza diretta
oppure un fatto venuto in mente improvvisamente) è un ausiliare e segue sempre una
forma infinitiva (RY) che, però, può anche essere differente da -i, ad esempio la RY
della forma negativa -zu; nel giapponese classico l'ausiliare -(i)keri diverrà un suffisso
vero e proprio, non più separabile dall'infinitiva precedente. Frellesvig invece non
distingue queste due categorie, identificando soltanto gli ausiliari, e definendoli come
suffissi che si flettono45.
L'etichetta generale “particelle di congiunzione” (setsuzoku joshi) viene quindi
assegnata ad elementi molto differenti fra loro, che hanno la sola caratteristica comune
di connettere due frasi all'interno di un unico periodo. È quindi evidente che si tratta di
una categoria creata sulla base della funzione di questi elementi piuttosto che sulla base
di considerazioni strutturali.
1.1.4 Le particelle restrittive
Due tipologie di particelle vengono definite “avverbiali”: fuku joshi 'particelle
restrittive' e kakari joshi 'particelle pragmatiche'.
Le fuku joshi 副助詞, 'particelle restrittive', possono seguire sostantivi, verbi o altre
particelle: modificano il predicato indicando quantità, grado, limite, approssimazione.
Fra queste ad esempio nomi, che indica una restrizione senza alcun tipo di
connotazione, dani, che esprime il limite minimo, sura che esprime il limite massimo46.
44 Vovin (2009b: 892-3).45 Ad esempio Frellesvig (2010: 58).46 Vovin (2009b: 1274 ss.)
25
Altri esempi sono bakari, che esprime un grado, una misura e ha significato di 'appena,
Le kakari joshi 係助詞 sono particelle con funzione principalmente pragmatica:
sottolineano un elemento, lo enfatizzano, o lo pongono in discussione. Sono particelle
che segnalano il topic e il focus: sono infatti chiamate nei testi moderni anche “particelle
di topic e focus”47, mentre lungo il testo si userà il termine “particelle pragmatiche”.
Non esprimono alcun tipo di relazione sintattica fra l'elemento marcato e il predicato48,
né modificano una relazione già esistente che l'elemento che seguono ha con gli altri
elementi della frase. Queste particelle pragmatiche sono pa (successivamente wa), mo,
so (nel medio giapponese zo), namo (successivamente namu), koso, ka e ya
Differenti autori hanno inserito queste particelle pragmatiche in diversi sottogruppi.
Frellesvig, ad esempio, le divide in due classi49: la prima è formata da particelle che
segnalano il focus, ovvero so, namo e koso che aggiungerebbero enfasi, ma anche ka e
ya che verrebbero invece utilizzate per rendere un dubbio o una interrogativa retorica;
alla seconda classe invece appartengono wa < pa e mo, che marcherebbero il topic della
frase. Secondo Frellesvig, wa marcherebbe il topic ma avrebbe anche la funzione di
enfatizzare un elemento distinguendolo dagli altri (topic contrastivo), dove mo
esprimerebbe un parallelo fra più elementi, ma anche enfasi (topic enfatico)50. Anche
Vovin le divide in due gruppi, ma diversi da quelli individuati da Frellesvig51: da un lato
le particelle interrogative ka e ya, che possono essere posizionate in qualsiasi punto
della frase, e dall'altro le particelle che marcano il focus, gruppo in cui include anche
quella che segnala il topic. Secondo Vovin, la particella wa sarebbe l'unica particella che
marcherebbe il topic, essa sposterebbe il focus della frase dagli elementi che questa
particella segue verso il resto della frase, e, come in Frellesvig, avrebbe anche un
possibile utilizzo contrastivo. Al contrario di Frellesvig però, Vovin interpreta mo come
47 Ad esempio Vovin (2009b: 1157); Frellesvig (2010: 132).48 Frellesvig (2010: 132).49 Frellesvig (2010: 132).50 Dello stesso avviso anche Shirane (2005: 201).51 Vovin (2009b: 1157).
26
una particella che marca il focus, al pari di so, namo e koso, che enfatizzerebbero la
parola precedente.
È importante sottolineare che queste particelle pragmatiche (kakari joshi)
partecipano al fenomeno del 係り結び kakari-musubi (“the rule of linking”, nella
traduzione di Vovin52): il termine kakari joshi venne coniato infatti da Yamada Yoshio
proprio per sottolineare questo fatto. Frellesvig scrive che il fenomeno del kakari-
musubi è tradizionalmente stato interpretato come una “automatic agreement rule”, in
cui la presenza di una particella pragmatica provoca la modifica della forma del verbo di
fine frase, che viene espresso in forma attributiva o perfettiva e non nella forma
conclusiva (SS)53. Ad esempio, le particelle zo, namu, ya, ka richiedono la forma
attributiva del predicato (RT), koso la forma perfettiva (IZ). La funzione di una frase in
cui compare il kakari-musubi, continua Frellesvig, sarebbe quella di una focus
construction, in cui l'elemento preceduto dalla particella sarebbe identificato come
focus e la parte rimanente della frase come presupposizione.
Motoori Norinaga (1730-1801), scrive Frellesvig, includeva nelle particelle che
prendono parte al kakari-musubi anche quelle che marcano il topic (wa, e secondo
Frellesvig anche mo), oltre alle particelle che segnalano il focus, anche se wa e mo, al
contrario delle particelle che esprimono il focus, non provocano una modifica della
forma del verbo di fine frase, che rimane quella conclusiva (SS). Negli studi più recenti,
infatti, quando si utilizza il termine kakari-musubi, si tende ad escludere le particelle wa
e mo, e ci si riferisce soltanto alle particelle ka, ya, zo, namo, koso e alla loro relazione
con il predicato. La relazione fra l'elemento che precede la particella e il predicato che si
vede in una costruzione con il kakari-musubi, conclude Frellesvig, potrebbe essere a
grandi linee intesa come una costruzione tema/rema, in cui il tema (kakari) sarebbe
segnalato dalla particella pragmatica e il resto della frase fungerebbe da rema (musubi).
proposta da molti studiosi anche per le particelle “di caso”. Sono teorie sicuramente
suggestive, ma, se accettate in toto, implicherebbero che il giapponese di epoca
antecedente alle prime fonti scritte avesse un grandissimo numero di interiezioni, da cui
poi si sarebbero sviluppate le particelle di topic, focus e quelle “di caso” (e a partire da
queste anche le particelle di congiunzione). Oltre a queste interiezioni esterne alla frase
(che poi sarebbero pian piano state inserite all'interno), sarebbero esistite soltanto alcune
particelle restrittive, le particelle finali (che esprimono l'atteggiamento dell'autore nei
confronti dell'enunciato, quindi hanno anche una sfumatura emotiva), ed una serie di
morfemi dal significato più concreto che storicamente sono grammaticalizzazioni di
sostantivi (come kara, particella del moto da luogo, grammaticalizzazione del sostantivo
omofono che indica 'volontà, modo, misura' o 'clan, relazione', oppure he, che esprime il
moto a luogo, da un sostantivo che indica 'lato, direzione'57). Si avrebbe quindi una
completa assenza di morfemi post-nominali con funzione pragmatica o di espressione
dei ruoli semantici centrali. Infatti, come già accennato (§1.1.2), si è ipotizzato che la
marca dell'agente fosse i (l'odierna particella ga era utilizzata principalmente in
funzione attributiva), ma i è una delle particelle che avrebbero origine interiezionale;
allo stesso modo, wo esprimeva il paziente con verbi bivalenti (ma, come si vedrà,
alcuni studiosi ritengono che wo fosse l'unica marca del paziente anche nei verbi
monovalenti che hanno come attante unico il paziente), ma anche wo avrebbe origine
interiezionale. Si dovrebbe quindi necessariamente identificare un diverso mezzo
morfosintattico per segnalare l'agente e il paziente, come ad esempio l'ordine delle
parole. Oltretutto, come già visto, nessuna spiegazione viene proposta per capire perché
proprio la particella i sarebbe poi stata utilizzata per marcare l'agente, perché proprio wa
per il topic e così via.
1.1.6 Le particelle “di caso”
L'ultima, ma forse più importante, categoria è quella delle kaku joshi 格助詞 ,
termine che viene generalmente tradotto nelle lingue occidentali appunto “particella di
caso” o “case marker”58. Anche kaku joshi è un termine di Yamada, che utilizza il
57 Per questi ed altri esempi si veda Frellesvig (2010: 134-5). Su kara si veda Vovin (2005: 207).58 Si veda Shibatani (1990: 334), Bentley (2001: 88), Shirane (2005: 155), Vovin (2005: 109), Frellesvig
29
termine 格 kaku, tradotto in tutti i testi occidentali 'caso', ma letteralmente 'grado,
status', in quanto gli attribuisce il “significato di un valore costante che un elemento
costitutivo di una frase conserva nei confronti della struttura della frase”59. Le kaku
joshi seguono sostantivi, detti 体言taigen in giapponese (termine che identifica tutto ciò
che non può essere flesso, opposto a 用言 yōgen, termine che – come visto – identifica
verbi e aggettivi, che sono flessi) o frasi nominalizzate (ad esempio tramite la forma
attributiva del verbo, RT) e indicano la relazione grammaticale60, semantica o logica61,
che l'elemento che seguono ha con un altro elemento nominale (ad esempio tramite la
funzione attributiva che anticamente apparteneva a ga o no, nel giapponese moderno
solo a no) o verbale, esprimendo ad esempio il soggetto o l'oggetto dell'azione. Esempi
di kaku joshi sono ga (che si dice marchi il soggetto62 nel giapponese moderno, ma più
comune in funzione attributiva nella lingua antica), no (il cui uso anticamente si
sovrapponeva a quello di ga), wo (marca dell'oggetto diretto, ma utilizzato come
vedremo con moltissime altre funzioni), ni (a indicare l'oggetto indiretto, ma utilizzato
anche in funzione temporale, locativa).
Si è discusso molto sulla natura di questi elementi: come visto, la tradizione degli
studi giapponesi, e la gran parte degli studiosi occidentali che da essa prende le mosse,
le identificano come particelle o marker di caso.
Per quanto riguarda il loro legame con il sostantivo precedente, Frellesvig aveva
notato, grazie al fatto che i fonemi iniziali di queste particelle subiscono mutamenti
fonologici tipici di fonemi al centro di parola e non ad inizio parola, che queste
particelle erano effettivamente morfemi legati al sostantivo precedente (§1.1). Ma Vovin
riporta alcune interpretazioni diverse che gli studiosi della scuola russa hanno proposto.
Gli studiosi russi hanno identificato questi elementi in tre modi: come suffissi
agglutinanti, come postposizioni, o come marker di caso agglutinanti63. L'autore afferma
(2010: 125).59 Citato in Koji (1988: 6).60 Frellesvig (2010: 125).61 Shibatani (1990: 334).62 Il “soggetto” è l'elemento che governa l'accordo con il verbo: in giapponese questo non avviene quindi
ad essere identificabile non è il soggetto ma piuttosto ruoli semantici come agente o paziente. Glistudiosi però, nelle diverse descrizioni della lingua giapponese, utilizzano sempre il termine“soggetto” (si veda Shibatani (1990), Vovin (2005), Frellesvig (2010) e altri) arrivando alcune volte adidentificare criteri differenti rispetto all'accordo per riconoscere il soggetto in una frase giapponese,come si vedrà successivamente (§1.2).
63 Vovin (2003: 47) per il giapponese classico, ma il discorso è ripreso negli stessi termini in Vovin
30
di concordare con questa terza ipotesi per alcune ragioni. Innanzitutto, questi elementi
non sono suffissi come quelli che esprimono il caso nelle lingue indoeuropee, in quanto
da un lato non vengono flessi, dall'altro non sono cumulativi, quindi ad ogni elemento
corrisponde un'unica funzione (a differenza di ciò che succede nelle lingue indoeuropee
antiche, in cui tramite un unico affisso si esprimono caso, numero e genere, ad esempio
in latino). Oltretutto, non mostrano alcun grado di fusione con il tema e a livello
fonetico sembrano essere completamente indipendenti da esso: Vovin sembrerebbe voler
escludere ogni tipo di sandhi (in giapponese 連声 renjō), ma Hashimoto64 nota che
alcune particelle andarono in realtà incontro a sandhi. Ad esempio in una frase come 天
を 見 れ ば ten wo mireba 'quando si guarda il cielo', la particella wo veniva
effettivamente pronunciata [no] ([ten no mireba]), e questo fatto non era limitato alla
nasale ma avveniva anche nel caso in cui wo fosse preceduta da つ tsu (wo allora veniva
pronunciato come [to]). Non è noto quando questo fenomeno ebbe inizio, ma è
sicuramente presente nei periodi Kamakura e Muromachi, scrive Hashimoto, e si perse
nel periodo Edo. Il fatto di essere comunque ben legate all'elemento precedente,
continua Vovin, e quindi di essere differenti da particelle o postposizioni che invece
sono più libere, è testimoniato dal fatto che nulla si può inserire fra il marker di caso e il
sostantivo precedente eccetto suffissi di plurale (ad esempio -ra), particelle restrittive
come bakari o dani, e altri marker di caso. Vovin infatti confronta il modo in cui questi
marker si aggiungono al tema in giapponese con quello di un'altra lingua agglutinante
come il turco: al tema che non viene in alcun modo modificato (ad esempio la parola
“uomo” in entrambe le lingue, pito in giapponese antico, adam in turco) segue prima il
suffisso del plurale (pito-domo in giapponese, adam-lar in turco 'gli uomini') e
successivamente il marker di caso, nell'esempio addotto da Vovin il marker di moto da
luogo (pito-domo-yori in giapponese, adam-lar-dan in turco 'dagli uomini'). Altre
particelle come quelle restrittive o quelle di topic e focus sono invece molto meno legate
al tema, ed infatti molti più elementi si possono inserire fra queste e l'elemento a cui si
riferiscono. Ultima prova che Vovin porta a conferma della sua teoria è che, a differenza
di ciò che accade nel giapponese moderno, in giapponese classico i marker di caso
(2005: 110) per quanto riguarda la lingua antica. Non è ben chiaro, però, quale sia la differenza fra isuffissi agglutinanti e i marker di caso agglutinanti.
64 Hashimoto (1969: 116).
31
avevano un loro accento indipendente dal sostantivo precedente. Per dar conto di questo
fatto, Vovin cita Martin, che a sua volta cita Wenck65. Martin spiega che in alcuni testi
antichi come il 類聚名義抄 Ruiju Myōgi Shō, glossario di caratteri cinesi risalente al
1081, si utilizzava un unico sistema di diacritici per segnalare sia l'opposizione sei-
daku, sia “the pitch patterns of the word”66: questo permetteva di segnalare un
innalzamento o un abbassamento di frequenza su quella determinata sillaba. Wenck,
continua Martin, studiò l'utilizzo di questi diacritici legato alle particelle nel Ruiju
Myōgi Shō e notò che queste particelle avevano, in questo testo, “independent pitch
patterns” rispetto al sostantivo che seguono, e non erano quindi, conclude Martin,
connesse come clitici al sostantivo precedente. Ad esempio, Wenck spiega che ga, ni,
wo, ya, ka, ed altre particelle venivano pronunciate con un innalzamento di frequenza,
dove invece mo e zo venivano pronunciate con un abbassamento di frequenza. Particelle
costituite da due o tre sillabe come koso o nomi avevano generalmente un pattern
costituito da frequenza alta sulla prima sillaba e bassa sulla seconda (bassa anche la
frequenza della terza sillaba in particelle trisillabiche come bakari). Esempi simili sono
portati anche da altri autori come Sakurai, anch'egli citato in Martin, che studiò alcuni
manoscritti del Nihon Shoki, uno dei due principali testi in giapponese antico, del 720:
gli esempi proposti da Sakurai mostrano che, ad esempio per quanto riguarda la
particella wo, essa veniva sempre pronunciata con un innalzamento di frequenza, a
prescindere dal pattern accentuativo del sostantivo precedente (tati wo 'la spada', kimi
wo 'il signore', ware wo 'io' e pito wo 'la persona'), mentre le particelle moderne non
sembrano avere una frequenza alta o bassa stabilita a priori (nel dialetto di Tōkyō, ad
esempio, soko ga 'il fondo' ma oto ga 'il suono'67). Questa caratteristica delle particelle
65 Martin (1987: 169-70). 66 Con seion 清音 e dakuon 濁音 si intendono sillabe la cui consonante iniziale è generalmente
interpretata come sorda (sei) e sonora (daku), ma Frellesvig (2010: 35) le definisce tenui e medie,ovvero contraddistinte dal tratto teso (sei) e rilassato (daku), in quanto la sonorità non era distintiva inantico giapponese. L'opposizione era resa graficamente, all'inizio, tramite l'utilizzo di due caratteridifferenti, ad esempio ka 加; ga 我, ma pian piano questa distinzione venne ignorata a livello grafico,sicché quando vennero creati i due sillabari in epoca Heian, lo stesso grafema venne utilizzato persegnalare sia la tenue che la media corrispondente. In testi specializzati (ad esempio buddhisti), però,spesso si rendeva necessario segnalare esplicitamente la natura del fonema, e differenti metodi furonoutilizzati: il più comune è appunto l'utilizzo di un punto al lato del carattere, la cui posizione indicavail pitch, e la cui forma indicava la natura sei o daku del fonema (punto singolo per le tenui, due puntiper le medie). Si veda Frellesvig (2010: 162-5).
67 Si veda Martin (1987: 163) per uno schema che include esempi tratti da differenti dialetti moderni.
32
antiche le allontana ancor di più dai suffissi.
Akiba68 fa notare un ulteriore elemento: questi marker possono non seguire
direttamente un sostantivo, ma occorrere dopo una intera frase nominalizzata che funge
da soggetto o oggetto della frase principale (quindi generalmente dopo il verbo di questa
frase nominalizzata, a maggior ragione nella lingua antica in cui i nominalizzatori come
koto non erano obbligatori). Questo conferma ancor di più il loro legame non saldo con
l'elemento precedente.
Questi marker nel giapponese antico non sono quindi né suffissi, in quanto, come
dimostrato da Vovin, non sono ben legati al tema che seguono, ma nemmeno
postposizioni del tutto indipendenti: occupano quindi una posizione intermedia fra
suffissi e particelle postposte, ed è per questo che Vovin giustamente li identifica come
“marker di caso agglutinanti”.
1.2 La categoria del “caso” e la sua identificazione in giapponese
Per quanto riguarda la funzione di questi “marker di caso”, Sansom afferma che
essi svolgerebbero la stessa funzione che in altre lingue è svolta dalla flessione
nominale o da preposizioni: quella di segnalare il caso. Secondo Sansom, il caso
verrebbe soltanto indicato da particelle, e non formato da esse. La parola, continua
Sansom, sarebbe sintatticamente in quel caso: sarebbe principalmente l'ordine delle
parole che determinerebbe il caso in giapponese69. L'autore ritiene quindi che i ruoli
semantici in giapponese antico fossero espressi tramite l'ordine dei costituenti:
sostenitore della teoria interiezionale (§1.1.2), Sansom crede che particelle come wo o i
non avessero in origine una funzione morfologica, e diventa quindi per lui necessario
identificare un altro espediente per segnalare i ruoli semantici. In questo modo però non
risulta chiaro quale sia, secondo Sansom, la funzione delle particelle di caso una volta
che esse svilupparono una funzione morfologica, dato che il ruolo semantico di un
elemento sarebbe espresso solo tramite un mezzo sintattico.
68 Akiba (1978: 102).69 Sansom (1928: 224) “Particles are affixed to words which are syntactically in those cases, they do not
form the case, but merely indicate it.”. Sansom (1928: 236) “in Japanese cases are marked, but notformed, by particles. It is primarily word-order which determines case in Japanese.”.
33
Si nota un abuso del termine “caso” da parte di Sansom: si può anche ammettere che
in giapponese sia possibile determinare la relazione grammaticale che un dato sintagma
ha nei confronti del verbo (soggetto, oggetto), o, meglio, il suo ruolo semantico (agente,
paziente), grazie all'ordine delle parole, ma questo non implica né rende affatto
necessaria l'identificazione della categoria di caso in giapponese.
Sembrerebbe che dai primissimi testi occidentali scritti da missionari cristiani, in cui
si studiava il giapponese sfruttando come schemi di base quelli del latino, non siano
stati fatti molti passi in avanti. Rodriguez nel 1604 scriveva che i sostantivi e pronomi
giapponesi non si declinano per casi come quelli latini ma esistono particelle o articoli
che, postposti ai nomi, corrispondono ai casi del latino. L'utilizzo del termine “articolo”
da parte di Rodriguez non è chiaro, ma sembrerebbe come se volesse intendere che
grazie alla presenza/assenza di queste particelle si segnalasse anche la definitezza del
sostantivo: ancora oggi nel giapponese moderno si utilizzano alcune particelle in questa
funzione, ad esempio 本書くhon kaku 'scrivere libri' in generale, ma 本を書く hon wo
kaku 'scrivere il libro' nel particolare70. Collado, sulla falsa riga di Rodriguez, affermava
che in giapponese non esistono declinazioni come in latino, ma vi sono alcune particelle
che, postposte ai nomi, determinano le differenze di caso71. Ma in questi antichi testi la
necessità pratica di insegnare il giapponese ai missionari giustificava una impostazione
basata sul latino, lingua di cultura e nota ai potenziali apprendenti. Eppure ancora oggi,
anche in testi scientifici, l'approccio non è cambiato: a esclusione di rarissime eccezioni
che vedremo, viene dato per assodato che il giapponese (antico e moderno) abbia i casi,
senza neppure spiegare cosa si intenda per “caso”. Quindi la particella ga esprimerebbe
il nominativo (nel giapponese moderno, nella lingua antica anche il genitivo), no
esprimerebbe il genitivo (e nella lingua antica anche il nominativo)72, wo l'accusativo, ni
il dativo e così via. Gli studiosi spesso utilizzano erroneamente il modello dei casi latini
70 Rodriguez (1604: 11). Questo concetto può essere messo in parallelo col concetto pragmatico di“specificity” proposto – come si vedrà (§4.2.2) – da Frellesvig, Yanagida e Horn, grazie a cui si riescea dar conto, secondo questi studiosi, dell'alternanza wo-ø nel giapponese antico.
71 Collado (1632: 6).72 Non è chiaro se l'alternanza abbia una qualche ragione morfosintattica o semantica. Come “caso
nominativo”, ga e no venivano utilizzati principalmente in subordinate (in frase principale in genere ilsoggetto non era marcato). Sembrerebbe che ga venisse utilizzato con referenti umani o animati, doveno poteva marcare tutti i sostantivi anche quelli ammessi da ga. Con questi sostantivi ammessi conentrambe le particelle, queste si alternavano ad esempio kimi no imashiseba 'se il mio signore fosseancora stato qui' e kimi ga imasaba 'se il mio signore è qui'. Si veda anche §4.1.3 e §4.1.4.
34
o greci come un valido quadro teorico utilizzabile per lo studio di tutte le lingue del
mondo: si identifica un morfema “di caso” in una lingua, e lo si mette in parallelo con i
casi tradizionali del greco e del latino73. È invece necessario, a maggior ragione quando
si tratta di lingue non indoeuropee, non presupporre l'esistenza di determinate categorie
riscontrabili invece in alcune lingue flessive antiche, solo perché più note.
Anche Shibatani74, che pure propone una importante riflessione sulla confusione
che anche gli specialisti fanno fra relazioni grammaticali e casi, è convinto che il
concetto di caso sia applicabile al giapponese. Il punto iniziale della sua trattazione è la
distinzione fra i diversi livelli di descrizione linguistica, legati ai diversi tipi di relazioni
che è possibile riconoscere. Da un lato, il livello semantico, in cui si identificano ruoli
come agente, paziente, beneficiario; un secondo livello è quello grammaticale, in cui le
relazioni sono soggetto, oggetto diretto e indiretto, ed ogni relazione grammaticale
copre differenti ruoli semantici (il soggetto grammaticale può esprimere ora l'agente, ora
il paziente); un terzo livello è quello superficiale, formale (che Shibatani chiama
“surface-syntactic level”75), in cui si inseriscono le categorie morfologiche con cui le
relazioni precedenti vengono espresse, ovvero i suffissi (tra cui quelli che esprimono il
caso). Shibatani afferma che un errore molto comune fra gli studiosi è quello di
confondere questi differenti piani. Si tende a confondere, a causa del fatto che spesso vi
è una effettiva corrispondenza, la relazione grammaticale di soggetto con il caso
(superficiale) di nominativo, espresso dalla particella ga, ed allo stesso modo la
relazione di oggetto diretto con l'accusativo, espresso da wo. La sua trattazione si
concentra principalmente sulla particella del “nominativo” ga, e spiega quali sono i
criteri grazie a cui è possibile riconoscere il soggetto, come relazione grammaticale, in
giapponese76, ovvero il sintagma deve essere il fulcro, da un lato, della
riflessivizzazione, in cui un sintagma coreferenziale al soggetto viene identificato con la
forma riflessiva 自分 jibun, dall'altro, dell'onorificazione del soggetto, in cui la forma
onorifica del verbo viene utilizzata soltanto se è il referente del soggetto ad essere
73 Fillmore (1968: 5-8).74 Si veda il suo articolo Grammatical relation and surface cases del 1977.75 Shibatani (1977: 789).76 Come è già stato accennato (§1.1.6), non è automatico riconoscere il soggetto in una lingua: il
soggetto è un concetto dell'analisi logica che implica l'accordo con il verbo, che in giapponese nonsussiste.
35
ritenuto degno di rispetto. Shibatani afferma, adducendo numerosi esempi, che un
sintagma al caso nominativo non identifica necessariamente il soggetto grammaticale
(casi in cui ga marca l'oggetto, ad esempio, come si vedrà §1.2.3), ed allo stesso modo il
soggetto grammaticale non è sempre espresso con il caso nominativo. Il piano delle
relazioni grammaticali e quello dei casi di superficie devono essere ben distinti quindi,
cosa che spesso non viene presa in considerazione anche dagli studiosi più accreditati.
Ma questo discorso conferma l'accettazione di Shibatani del fatto che in giapponese
possa essere riconosciuta una categoria di “caso”.
Riconoscere la categoria di “caso” in giapponese non è però affatto automatico, né
sembra essere necessario. Si può partire dalla definizione di De Mauro nel suo studio
sui casi greci: un “caso” è concepito come una “classe di forme avente una funzione
unitaria” e questa funzione è “l'indicazione delle categorie di rapporti che legano tra
loro le cose designate dai nomi presenti nella proposizione”77. Due elementi quindi
devono essere sottolineati. Da un lato, la funzione del “caso” è quella di permettere di
specificare la relazione sintattico-semantica che un sostantivo ha con il verbo e gli altri
elementi all'interno della frase. Dall'altro lato, il termine “caso” tradizionalmente è
connesso con lingue tipologicamente flessive: tramite la categoria di “caso”
(grammaticale) è possibile dar conto delle differenti funzioni morfosintattiche di un
morfema, che ha allomorfi differenti (“classe di forme” di De Mauro) nelle diverse
declinazioni e, trattandosi di lingue flessive, è anche cumulativo (quindi non esprime
soltanto il caso, ma anche numero e genere, ad esempio). Ad esempio, la dicitura “caso
ablativo” in latino permette di dar conto di moltissime funzioni (come quelle di
allontanamento, strumento, agente nella frase passiva e molte altre) che i diversi
allomorfi come -ā, -ō, ma anche i plurali -īs, -ibus e così via esprimono. Questa è
l'interpretazione più tradizionale del termine “caso”.
Un testo più recente come Blake (1994) definisce il caso come un sistema per
marcare sostantivi dipendenti in base al tipo di relazione che hanno con la loro testa78.
La testa, afferma Blake, è il verbo, che determina quali sostantivi possono essere
presenti e propone il seguente esempio in turco:
77 De Mauro (1965: 55).78 Blake (1994: 1).
36
Mehmet adam-a elma-lar-ı ver-di
Mehmet-NOM uomo-DAT mela-PLUR-ACC dare-PASS.3SING
'Mehmet diede le mele all'uomo'.
Secondo Blake, in questa frase, la testa è il verbo “dare”, che richiede la presenza del
ruolo semantico di agente (espresso, nell'esempio, a livello grammaticale dal soggetto e
al caso nominativo), di tema (nell'esempio, l'oggetto a livello grammaticale, al caso
accusativo) e di beneficiario (l'oggetto indiretto nell'esempio, al caso dativo). Blake
sembrerebbe quindi adottare una definizione più generale di “caso”, non relegando il
riconoscimento di questa categoria soltanto alle lingue flessive che utilizzano morfemi
cumulativi.
1.2.1 Casi analitici e casi sintetici
Nell'interpretazione tradizionale, quindi, il caso è espresso tramite morfemi
legati, affissi al tema, e cumulativi (che esprimono anche altre categorie, come genere e
numero). Secondo Blake79, invece, i marker che esprimono il caso possono essere più o
meno legati al tema: in lingue agglutinanti un affisso di caso è separabile da altri affissi
(ad esempio quelli che esprimono il plurale), come in turco (si veda l'esempio sopra),
mentre in lingue flessive si avrà – come già detto – un unico affisso cumulativo.
Benché spesso sia difficile stabilire, come si è visto nel caso del giapponese, se un
determinato morfema grammaticale sia ben legato al tema o libero, molti studiosi
distinguono marker di caso analitici e marker sintetici: i secondi sono ad esempio quelli
del turco o del latino, che esprimono i casi tramite affissi (quindi con morfemi legati), i
primi sono invece morfemi liberi, e, secondo Blake, sono proprio quelli del giapponese.
Blake infatti definisce i marker del giapponese postposizioni, a parer suo
completamente slegate dal sostantivo precedente al pari delle preposizioni inglesi: Blake
si scosta quindi effettivamente dal problema, posto invece da Frellesvig e Vovin
(§1.1.6), riguardo al (seppur minimo) legame che questi elementi hanno con il tema.
Tradizionalmente però, i “casi analitici” vengono identificati con quelle costruzioni
79 Blake (1994: 9-11).
37
formate da preposizione e sostantivo, ma non tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere
le preposizioni come mezzi di espressione della categoria caso.
Si noti che questo è un problema strettamente formale: il fatto che un caso possa
essere espresso in modo analitico o sintetico, quindi tramite morfemi liberi o legati,
oppure tramite altri espedienti, è completamente slegato dalla funzione del caso, che è
quella di indicare “categorie di rapporti” fra i diversi elementi della frase.
Fillmore riporta che in numerosi studi (cita ad esempio Jespersen e Cassidy) si
ritiene errato parlare di “casi analitici” ed il termine “caso” dovrebbe essere utilizzato
soltanto quando si possono riscontrare espliciti morfemi flessivi di caso nella flessione
nominale (quindi i “casi sintetici” di Blake): il caso è quindi legato strettamente alla
flessione, come nella visione tradizionale. È quella che Hjelmslev chiama “teoria
desinenziale”80: i casi, per eccellenza, si esprimono tramite declinazioni, come accade in
latino, greco e sanscrito. Le relazioni espresse tramite apposizioni non hanno nulla a che
vedere con la categoria del caso.
Hjelmslev invece ritiene che il sistema di casi sia identico a quello delle
preposizioni, in quanto entrambi esprimerebbero la relazione fra due elementi: lo
studioso afferma che le relazioni, espresse da desinenze di caso in alcune lingue,
potrebbero essere in altre lingue espresse tramite l'ordine delle parole o preposizioni
(ma il discorso sarebbe ovviamente valido anche per le postposizioni)81. L'idea di fondo
sembra corretta, in quanto – come già accennato – con differenti forme si possono
esprimere le stesse funzioni, dato che forma e funzione sono indipendenti. Ciò che è
opportuno sottolineare, però, è che, benché la relazione espressa da un morfema affisso
in una lingua e da un morfema libero in un'altra sia la stessa (ogni lingua esprime con
mezzi differenti una stessa funzione), se la funzione espressa è una soltanto e il
morfema tramite cui la si esprime (legato o meno) non ha allomorfi, non siamo di fronte
a una espressione di “caso”: il “caso”, come già detto, è una “classe di forme”
(allomorfi) che indicano “categorie di rapporti” fra i referenti extra-linguistici (e quindi
differenti relazioni morfosintattiche o semantiche). Quindi è vero che differenti forme
possano esprimere una stessa funzione, ma non è automatico che questa funzione debba
Anche Fillmore si dice contrario all'idea tradizionale, e afferma di concordare con
Hjelmslev nel dire che si dovrebbe abbandonare la credenza che il caso debba essere
espresso necessariamente con un morfema affisso al sostantivo. Si dovrebbe invece
identificare con il termine “caso” la relazione sintattico-semantica, espressa
formalmente in modo diverso in ogni lingua, tramite un affisso, una particella o un
ordine delle parole fisso (l'espressione formale del caso viene chiamata “case form”)82.
Fillmore, però, con il termine “caso”, in tutto il suo testo, identifica i “casi profondi “
(deep cases), ovvero quelli che definiamo ruoli semantici (agente, paziente): la nozione
di “caso” in Fillmore sembra quindi ben distante da quella degli altri studiosi, in quanto
quelli che lui identifica come “casi” non hanno nulla a che fare con i “casi” tradizionali.
Numerosi altri studiosi si sono espressi a favore della ragionevolezza dell'utilizzo
della terminologia di caso anche in presenza di apposizioni, che esprimerebbero in
modo analitico ciò che la flessione esprime in modo sintetico83, ma anche quando si
sfrutta l'ordine delle parole o l'alternanza tonale84. Moravcsik afferma che “a case
marker is a formal device associated with a noun phrase that signals the grammatical
role of that noun phrase”85: tale metodo formale, spiega successivamente, include da un
lato morfemi come affissi, adposizioni, ma anche modifiche interne al tema, dall'altro
lato sovrasegmentali (variazioni di intensità o di frequenza).
Anche Lyons non si esprime a favore della limitazione della categoria del caso alle
sole lingue in cui è presente la flessione nominale: quelle che, come si vedrà (§1.2.2),
sono identificate come funzioni grammaticali e locali dei casi sarebbero indipendenti
dall'espressione formale e potrebbero essere realizzate tramite flessione, ordine delle
parole o apposizioni (l'autore porta come esempio di lingua che usa le postposizioni
proprio il giapponese). Anche secondo Lyons quindi il termine “caso” dovrebbe essere
esteso al di là della sua applicazione tradizionale, dato che l'unico fattore importante
sarebbe che le funzioni grammaticali e locali legate alla categoria del caso possano
essere distinte sia in lingue che utilizzano la flessione nominale, sia in lingue che
utilizzano le apposizioni: a patto quindi che possano essere riconosciute le funzioni
82 Fillmore (1968: 19-20).83 Di questo avviso Haspelmath (2009: 509-510).84 Il World Atlas of Linguistic Structures, citato in Spencer (2009: 185), riporta quattro lingue che
esprimono i casi con alternanze di tono, e due che li esprimono con alternanze di tema.85 Moravcsik (2009: 231).
39
grammaticali e locali, la categoria del caso potrebbe essere identificata86.
In tutti questi studi, sembra come se si assumesse che, in qualsivoglia contesto si
utilizzi un espediente morfologico (o sintattico) per esprimere relazioni grammaticali o
ruoli semantici, allora quella costruzione utilizzata deve necessariamente avere la
denominazione “caso”87. È chiaro, però, che tutte le lingue hanno a disposizione mezzi
(differenti da lingua a lingua) per esprimere le relazioni grammaticali e semantiche, ma
non è detto che tutti questi mezzi debbano essere necessariamente etichettati sotto la
categoria di caso. Se così fosse, si deve dare per assunto che in tutte le lingue, senza
esclusione, sia presente la categoria di caso, che verrebbe quindi considerata in un senso
più ampio (e formalmente espressa da affissi, clitici, adposizioni, parole autonome,
alternanze di tono o di accento, ordine delle parole). È forse opportuno allora
distinguere la nozione formale di caso, ovvero la forma flessa di un sostantivo (quindi la
visione tradizionale del caso), e una nozione funzionale di caso, legata alla funzione che
il singolo sintagma nominale ha all'interno di una frase, che poi a livello formale può
essere espressa in modi differenti.
Contro l'applicazione dell'idea di caso a qualunque espediente le lingue utilizzino per
esprimere le relazioni fra diversi elementi si scagliano Spencer e Otoguro88: ai differenti
marker che una determinata lingua utilizza, si può anche dare l'etichetta teorica (e
sicuramente comprensibile immediatamente) di “caso”, ma questo non implica affatto
che in quella lingua vi sia la necessità di postulare un tratto [Caso]. I due autori
chiamano in causa il Criterio di Beard, secondo cui il tratto [Caso] sarebbe riscontrabile
in una lingua se e soltanto se esso fosse necessario per racchiudere differenti forme che
abbiano le stesse funzioni (ad esempio nelle differenti declinazioni/classi, come avviene
in latino o in sanscrito, le “classi di forme” di De Mauro §1.2): in queste lingue, grazie
all'idea di caso, si potrà dar conto di tutte le diverse forme. Quindi, ad esempio, in latino
si deve utilizzare l'etichetta di “caso ablativo” per dar conto di tutte le diverse desinenze
di ablativo nelle differenti declinazioni (come -ā, -ō, ē, ū ma anche i plurali -īs, -ibus e
così via), essendo una lingua in cui il suffisso da utilizzare non è prevedibile in base al
86 Lyons (1968: 302-4).87 Spencer&Otoguro (2005: 119; 143). Questo assunto avrà la sua logica conclusione nell'idea di “caso
astratto” di Chomsky, in cui Caso sarà un meccanismo operativo in tutte le lingue, espressione di unaproprietà di UG, indipendentemente dalla sua realizzazione morfologica.
88 Spencer, Otoguro (2005).
40
contesto. In lingue, invece, in cui ogni presunto caso viene espresso con un morfema
invariabile, in cui lo stesso marker viene utilizzato per ogni sostantivo, ipotizzare un
tratto [Caso] è fuorviante. I due autori portano l'esempio del turco, lingua in cui
tradizionalmente viene identificata la categoria del caso. Il turco ha un unico suffisso
per esprimere un determinato caso, suffisso che ha una serie di allomorfi prevedibili in
base al contesto, che dipendono dall'armonia vocalica: ad esempio, il suffisso del
genitivo -in ne ha quattro (-in, -ın, -ün o -un scelti sulla base dell'arrotondamento e
dell'avanzamento della vocale del tema). Secondo il Criterio di Beard, non è necessario
ipotizzare una categoria di caso in turco, dato che l'alternanza di questi suffissi dipende
da un fattore prevedibile, l'armonia vocalica. I due autori quindi propongono di non
utilizzare l'etichetta “caso genitivo”, ma piuttosto una dicitura come “forma -in”, per
identificare questo affisso: si tratta di un solo e unico affisso (con allomorfi prevedibili)
e non vi sono marker differenti che devono essere racchiusi sotto l'etichetta “caso”.
Questa etichetta quindi non sarebbe necessaria.
L'applicazione rigorosa di un criterio come quello di Beard è forse eccessiva, si
giungerebbe ad un punto in cui soltanto in poche lingue (indoeuropee e semitiche) possa
essere riconosciuta una categoria di caso, che invece viene ormai identificata in lingue
molto differenti89. Eppure la teorizzazione di questo criterio può far riflettere
sull'effettiva necessità di non ipotizzare una categoria “caso” ogniqualvolta si ha di
fronte un mezzo morfologico (ma anche sintattico) per esprimere relazioni grammaticali
o semantiche: le lingue esprimono differenti tipi di relazioni utilizzando una grande
varietà di mezzi, e non è detto che il caso sia necessariamente fra questi. Il caso non è
una categoria universale, non si può riconoscere un “accusativo” o un “dativo” in ogni
lingua, a prescindere dalla espressione formale di questa categoria.
Anche a livello di funzione, inoltre, non è possibile definire in modo rigoroso cosa si
identifichi in generale per “accusativo” o “dativo”. La terminologia dei casi è figlia
della filosofia greca, giunta a noi tramite la mediazione del latino che l'ha fatta propria
(aggiungendo il sesto caso, l'ablativo, assente in greco)90, ma l'interpretazione
89 Per una critica al Criterio di Beard e una serie di esempi problematici che non ne permetterebbero unacieca applicazione, si veda la revisione di Arkadiev (2010: 417-8).
90 Si veda De Mauro (1965: 34-5). L'autore fa risalire ad Aristotele il termine πτῶσις, ma in Aristoteleidentificava anche procedimenti di suffissazione e derivazione, mentre spetta agli stoici il merito diaver ristretto questa nozione alla sola flessione nominale. Sull'interpretazione del dativo si veda De
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tradizionale di termini come “dativo”, “accusativo”, “genitivo”, è spesso erronea e
fuorviante. Se il dativo è interpretato tradizionalmente come “caso del dare” o “caso di
colui al quale si dà”, lettura che non rispecchia affatto il vero utilizzo del dativo in greco
(l'utilizzo del dativo con verbi come δίδωμι non è affatto frequente in greco, scrive De
Mauro), De Mauro propone invece di interpretarlo in senso più generale come il caso
che esprime “tutte le realtà concrete delle quali il processo deve tener conto e con le
quali esso opera, realtà concrete entro i cui limiti il processo si sviluppa”: in questo
senso, conclude l'autore, queste realtà sono tutte “dati”. Per quanto riguarda l'accusativo,
l'interpretazione antica di “caso dell'accusato” viene messa in discussione da De Mauro,
che interpreta “accusativo” come il caso in cui appare l'eventus o fructus dell'azione, ciò
che “l'azione reca in se stessa come una sua indispensabile qualificazione”. In rapporto
a un “dire” l'accusativo denota quindi ciò che viene detto, senza il quale l'azione non
sarebbe possibile, mentre il dativo denota il luogo, il tempo, le circostanze, gli
strumenti, che sono “dati” all'azione91. Questo è chiaramente possibile in greco, mentre
in latino questi “dati” sarebbero spesso espressi in ablativo e in indiano anche in
strumentale o locativo: se si recupera il significato originario dei termini dei “casi”
come fa De Mauro, questa classificazione, così come viene prodotta dall'ambiente
filosofico greco, si confà sì al greco, ma non perfettamente alle altre lingue indoeuropee.
Occorre sottolineare quindi un secondo punto. I casi sono entità specifiche di ogni
lingua e quindi una determinata etichetta di caso è valida soltanto per la singola lingua
in questione: sebbene per convenienza siano spesso utilizzate le stesse diciture
(nominativo, accusativo, dativo), si deve sempre pensare al caso particolare come
inserito nel sistema della lingua e non come entità astratta applicabile alle diverse
lingue. In breve, è giusto dire che il dativo latino abbia un utilizzo più ampio del dativo
turco, ma non che un'entità astratta come il caso dativo abbia un utilizzo più ampio in
latino che in turco92. Tanto più che anche fra le stesse lingue indoeuropee antiche non vi
è una corrispondenza completa fra le funzioni di un singolo caso. Ad esempio, un
cospicuo gruppo di funzioni del dativo greco è paragonabile in blocco agli usi dello
Mauro (1965: 52), sull'accusativo De Mauro (1965: 47; 52; 58-61).91 De Mauro (1965: 53-4).92 Haspelmath (2009: 510), ammesso che in trurco si possa identificare una categoria di “caso”, cosa
che, come visto nelle pagine precedenti, non è necessariamente vera.
42
strumentale indiano e dell'ablativo latino: il dativo indiano infatti è una categoria molto
più specializzata di quello greco, e svolge soltanto alcuni dei compiti del dativo greco
(ad esempio esprime la destinazione in connessione con verbi di moto, il beneficiario
con verbi di “dare” e così via)93. Se non vi è un parallelismo fra le funzioni dei diversi
casi nelle lingue indoeuropee antiche, si può immaginare sin da ora che l'utilizzo della
stessa terminologia dei casi applicata al giapponese sia quantomeno fuorviante, in
quanto si dovrebbe spiegare in modo preciso cosa si intende per “particella del dativo”
ni o “particella dell'accusativo” wo, dato che nemmeno negli studi di indoeuropeistica si
ha una definizione univoca di “dativo” o “accusativo”.
Eppure queste sono le diciture che più frequentemente si riscontrano negli studi sulle
“particelle di caso” giapponesi. In molti testi, ad esempio, si glossa ni come “dativo” e
si propongono come esempi una serie di frasi in cui ni viene utilizzato in connessione
con verbi di dare e parlare, e si aggiunge in seguito una dicitura “allativo” e “locativo”94.
Questa interpretazione sembra necessariamente implicare un riferimento soltanto alla
tradizionale (ma non veritiera) definizione del dativo come “caso di colui al quale si
dà”. Infatti, il dativo utilizzato per esprimere la direzione è ben comune in indiano,
come visto, dove invece la funzione locativa è espressa tramite un caso a sé stante,
mentre in greco il dativo riassume anche la funzione locativa (che, secondo De Mauro, è
oltretutto la funzione più frequentemente espressa con il caso dativo in greco): se si
prendesse come esempio il dativo greco, non sarebbe affatto necessario specificare
ulteriormente le funzioni “allative” e “locative” della particella ni. Sembrerebbe quindi
necessario, se si vuole rimanere legati alla categoria dei casi, spiegare espressamente
cosa si intenda nello specifico, ad esempio, per “dativo” in giapponese.
1.2.2 Casi grammaticali e casi semantici
Una seconda distinzione che viene tradizionalmente proposta è quella fra caso
grammaticale (o sintattico) e caso semantico (o concreto)95.
93 De Mauro (1965: 10; 18). Il dativo greco ha molte più funzioni rispetto al dativo indiano a causa delfatto che il dativo greco non ha un ablativo, uno strumentale o un locativo pienamente efficientiaccanto, come accade in indiano.
94 Due esempi sono Vovin (2003: 46) e Bentley (2001: 103).95 Per una panoramica generale, si veda Blake (1994: 31-33).
43
Il primo gruppo comprende nominativo, accusativo, alcuni studiosi vi includono
anche il genitivo e raramente (ma giustamente) il dativo96: essendo una classificazione
basata sulle lingue indoeuropee antiche, non vengono citati i casi assolutivo e ergativo
delle lingue con allineamento ergativo-assolutivo, che però rientrerebbero a buon diritto
nel gruppo dei casi grammaticali. Anche i due casi utilizzati nelle lingue ad
allineamento attivo-stativo vengono inseriti nel gruppo dei casi grammaticali:
Haspelmath definisce questi due casi come agentivo (in quanto esprime l'agente sia del
verbo transitivo che di una parte di intransitivi la cui valenza dell'attante sia l'agente) e
pazientivo (con cui si indica il paziente dei transitivi e quello di una seconda parte di
intransitivi la cui valenza dell'attante sia il paziente)97.
I casi invece definiti semantici sono concreti e principalmente “locali”, ad esempio
quelli che esprimono moto a, moto per, moto da luogo. Negli studi di indoeuropeistica,
casi concreti sono identificati ad esempio con lo strumentale, il locativo e (forse
erroneamente) l'ablativo, a cui si aggiunge eventualmente (anche qui erroneamente) il
dativo98: si tratta quindi non solo di casi “locali”, come appunto il locativo, l'allativo o il
perlativo, ma anche di casi come lo strumentale, il comitativo e così via. Haspelmath
infatti pone una distinzione99: da un lato casi concreti di natura non spaziale, fra cui
inserisce, oltre ai già menzionati strumentale e comitativo, anche ad esempio l'abessivo
(che esprime l'assenza durante l'azione del sostantivo a cui si riferisce), il comparativo,
il causale o motivativo; dall'altro casi concreti spaziali, che appunto hanno la funzione
di esprimere relazioni spaziali. Vengono raggruppati in quattro grandi classi direzionali,
ovvero il caso che esprime il luogo dell'azione (il locativo), il caso che indica il moto a
luogo (allativo), quello che esprime il moto da luogo (detto in alcune trattazioni
ablativo, da non confondersi però con l'ablativo di molte lingue indoeuropee antiche,
che ha funzioni molto più ampie) e quello che indica il moto per luogo (detto perlativo):
in alcune lingue si può anche avere una distinzione più ampia, che può portare ad avere
ricchi e complessi sistemi di casi locativi, sistemi basati su una combinazione di
96 Ad esempio Kuryłowicz (1964: 179) include il genitivo, ma afferma che la posizione del dativorimane incerta. Hjelmslev (1935: 57) anche include il genitivo nei casi grammaticali, il dativo nei casilocali.
97 Haspelmath (2009: 513). Vovin (2005), uno degli studiosi a identificare il giapponese come linguaattivo-stativa (§4.1.4), denomina questi casi “attivo” e “assolutivo” (e non “pazientivo”).
direzione e orientamento (orizzontale, verticale).
Il criterio per distinguere le due grandi categorie dei casi grammaticali e concreti è
legato alle relazioni che questi casi esprimono. I casi grammaticali esprimono relazioni
grammaticali (come soggetto, oggetto diretto e indiretto), i casi concreti esprimono
differenti specifici ruoli semantici (ad esempio luogo o origine). Eppure questa
distinzione non è così netta come sembrerebbe: è impossibile mantenere le due
categorie completamente distinte100. I casi grammaticali non esprimono soltanto
relazioni grammaticali ma spesso anche specifici ruoli semantici. Ad esempio, in latino,
tramite il caso (grammaticale) accusativo si esprime da un lato la relazione
grammaticale di oggetto diretto, ma dall'altro anche il ruolo semantico della
destinazione. Allo stesso modo tramite un singolo caso che viene identificato
(erroneamente) come semantico è possibile esprimere differenti ruoli semantici: tramite
l'ablativo in latino si esprime il ruolo semantico di origine, di luogo, di strumento e così
via, ma l'ablativo latino è utilizzato anche per esprimere l'agente in frase passiva. Ruolo
semantico e caso di superficie non hanno una corrispondenza biunivoca, quindi, ed allo
stesso modo, come già detto, una relazione grammaticale non deve necessariamente
essere sempre espressa in un determinato caso101. I tre piani devono sempre essere tenuti
distinti.
Si può quindi affermare che i casi abbiano una funzione primaria
sintattica/grammaticale o semantica/concreta: nelle lingue indoeuropee, molti casi
hanno entrambe le funzioni, ma la funzione sintattica è primaria nei casi grammaticali e
secondaria nei casi concreti; la funzione semantica, viceversa, è primaria nei casi
concreti e secondaria nei casi grammaticali.
Si prenda ad esempio l'accusativo. Kuryłowicz suggerisce che l'espressione
dell'oggetto diretto sia la funzione primaria dell'accusativo, e tutte le altre funzioni (che
lui definisce avverbiali) sarebbero determinate dal contesto, ed è questo che le definisce
secondarie: sono secondarie perché sono marginali rispetto alla funzione primaria,
centrale102. L'accusativo di oggetto diretto si definisce solo su basi sintattiche, ed è
indipendente dal contesto semantico: non vi è alcun significato comune o denominatore
100 Jespersen (1924: 185).101 Blake (1994: 48), ma si ricordi che questa stessa affermazione si trova anche in Shibatani (1977).102 Kuryłowicz (1964: 181-3). Si veda anche De Mauro (1959: 239-40).
45
semantico comune a tutti i verbi transitivi, eccetto il fatto che essi richiedano
l'accusativo per esprimere l'oggetto diretto. Al contrario, tutte le funzioni semantiche
dell'accusativo sono determinate dal contesto, Kuryłowicz cita Delbrück e ne enumera
diverse. L'accusativo di direzione o moto a luogo (allativo) è connesso a verbi di
movimento, quindi contestualmente determinato da questi. L'accusativo “di contenuto”
si ha quando il sostantivo in accusativo è etimologicamente o semanticamente connesso
con il verbo (transitivo o intransitivo): ad esempio in latino vitam vivere o sanscrito
tapas tapyate 'espiare una penitenza' (connessione etimologica), aetatem vivere
(connessione semantica). Questa costruzione viene chiamata “cognate object
construction”, ed anche questa seconda funzione è contestualmente determinata dalla
relazione fra nome e verbo. Una terza funzione concreta è quella di esprimere
l'estensione temporale, con sostantivi che denotano un lasso di tempo (nox, annus), e
l'estensione spaziale, con sostantivi che indicano una misura o una distanza: anche
queste funzioni sono contestualmente definite dal contenuto semantico del sostantivo in
accusativo. Ulteriore funzione semantica è l'accusativo di relazione, che dipende da
alcuni aggettivi ed esprime una limitazione (πόδας ὠκὺς “piè veloce”, “veloce quanto ai
piedi”): è contestualmente determinata dallo stesso aggettivo. Chiaramente si potrebbero
postulare anche ulteriori categorie come l'accusativo di argomento (con verbi come
doceo), l'accusativo laborativo (o accusativus algeticus) che designa la parte dolente
con verbi connessi al soffrire, e così via: non v'è limite alle categorie che possono essere
distinte e i confini fra queste sono molto sfumati103. Luraghi prova a spiegare a livello
cognitivo alcuni di questi utilizzi dell'accusativo, sulla base dell'idea del “completo
coinvolgimento” (affectedness)104. Come oggetto diretto, l'accusativo esprime il
paziente, il cui tratto fondamentale è il coinvolgimento nell'azione; il coinvolgimento
spiegherebbe anche l'utilizzo dell'accusativo di direzione, e metaforicamente anche
quello di estensione spaziale (tramite la nozione di “fictive motion”, scrive Luraghi);
dall'uso di estensione spaziale deriva quello temporale grazie alla metafora. Da ultimo,
l'uso avverbiale dell'accusativo di relazione è legato a quello di estensione, spostato su
un piano più astratto. Ma un'idea affine è citata anche da De Mauro105: si tratta della
103 De Mauro (1959: 241).104 Luraghi (2009: 145-6). 105 De Mauro (1959: 233; 246-7).
46
prima formulazione di Brugmann e Delbrück, secondo i quali l'accusativo designa
l'oggetto più immediatamente e totalmente colpito o toccato dall'azione verbale. De
Mauro però critica questa interpretazione, scrivendo che, da un lato, vi sono molti
esempi in cui un rapporto diretto e totale fra la cosa designata e l'azione verbale viene
espresso con altri casi e non con l'accusativo (fruor e utor richiedono che la cosa usata o
fruita sia espressa in ablativo), dall'altro, vi sono numerose occorrenze in cui
l'accusativo compare senza esprimere relazioni dirette fra la cosa designata e l'azione
verbale (ad esempio gli accusativi di estensione spaziale o temporale, a parere
dell'autore).
Che i differenti utilizzi dell'accusativo nelle lingue indoeuropee antiche possano
essere spiegati unitariamente a livello cognitivo o meno, sta di fatto che questo caso
combina la funzione di espressione dell'oggetto diretto con altre funzioni come quella di
moto a luogo e di estensione spaziale e temporale106: è quindi identificabile come un
caso grammaticale, grazie al fatto che ha differenti funzioni morfosintattiche e
semantiche (e, come già accennato, il morfema è cumulativo e ha diversi allomorfi per
le differenti declinazioni).
Allo stesso modo i casi concreti hanno una funzione avverbiale primaria, e
rispondono alle domande “con chi?”, “verso chi?”, “da dove?” e così via. Sono
generalmente determinati contestualmente dal verbo reggente, ma possono avere anche
una funzione sintattica: ad esempio lo strumentale in sanscrito viene utilizzato per
rendere l'agente di una frase passiva, e questo porta Kuryłowicz ad ipotizzare di
includere questo caso nel gruppo dei casi grammaticali107. In senso stretto, si possono
probabilmente identificare come casi concreti soltanto quelli espressi da un morfema
che non ha allomorfi per le diverse declinazioni/classi, ed esprime una singola e unica
funzione concreta, ad esempio -δε in greco, che ha funzione unica di allativo. Questo
tipo di morfemi però stentano ad essere riconoscibili come morfemi di “caso”: è un
unico morfema e non una “classe di forme” (secondo la definizione di De Mauro §1.2),
ed ha una sola funzione concreta e non diverse funzioni. Anche secondo il Criterio di
106 Jespersen (1924: 179).107 Kuryłowicz (1964: 188). Discorso analogo, come già accennato, può essere fatto per quanto riguarda
l'ablativo latino, che può essere a buon diritto inserito nel gruppo dei casi grammaticali piuttosto chein quello dei casi concreti.
47
Beard (§1.2.1), che afferma che la categoria del “caso” è riconoscibile in una lingua
solo se permette di dar conto di differenti forme che hanno le medesime funzioni,
morfemi come -δε non sarebbero identificabili come espressioni di “caso”. Si avrebbe
quindi una biunivocità nel rapporto fra forma e funzione che contraddice il concetto di
“caso”: questi morfemi possono piuttosto essere identificati come semplici morfemi
postposti con funzione allativa, locativa e così via, senza necessariamente riconoscerne
un “caso”.
La categoria dei casi concreti risulta quindi piuttosto ambigua: come visto, da un
lato, alcuni studiosi identificano come “caso concreto” l'ablativo del latino o lo
strumentale dell'indiano, che però hanno funzioni grammaticali ben riconoscibili,
dall'altro, i “casi concreti” in senso stretto (come -δε) non possono essere
definitivamente identificati come “caso”, non avendo allomorfi né molteplici funzioni.
È forse in definitiva più corretto parlare di funzioni grammaticali (o astratte o
sintattiche) e funzioni concrete (o semantiche) di un determinato caso, piuttosto che di
veri e propri casi grammaticali e concreti: le funzioni grammaticali riguardano
l'espressione delle relazioni grammaticali di soggetto, oggetto diretto e indiretto, le
funzioni locali (o meglio concrete) includono invece distinzioni spaziali e temporali e
così via108. In linea generale, si può probabilmente anche parlare di funzioni
grammaticali e semantiche di un affisso o di una adposizione (anche a prescindere dal
concetto di caso), che può avere come funzione centrale quella di esprimere, ad
esempio, l'oggetto diretto, e come funzioni secondarie quelle locative o temporali: come
si vedrà queste sono le funzioni della particella giapponese wo.
1.2.3 La categoria del “caso” in giapponese
Non si è dibattuto molto sul fatto che in giapponese possa essere identificabile
una categoria di caso, benché questa non sia una questione affatto scontata: come si è
visto e si vedrà a breve, nella maggior parte dei testi scientifici si presuppone che questa
categoria possa essere riconosciuta in giapponese e ben raramente gli studiosi
intervengono sulla questione.
108 Lyons (1968: 295 ss.)
48
Ammesso e non concesso, però, che anche in questa lingua il caso possa essere
identificato, gli studiosi sono concordi nell'identificare i casi del giapponese come
analitici, in quanto le particelle (o marker) che esprimono il caso non sono affisse al
tema109.
Allo stesso modo, anche in questa lingua molti studiosi hanno riscontrato
l'opposizione fra funzioni grammaticali e concrete del caso. Fra questi Ono e Otoguro110,
secondo cui è possibile distinguere nettamente particelle di caso che marcano relazioni
sintattiche e particelle di caso che esprimono relazioni semantiche specifiche. Come
particelle di caso sintattico gli autori identificano la particella del nominativo ga, quella
dell'accusativo wo e una terza particella, che in Ono è quella del dativo ni, in Otoguro è
quella del genitivo no: queste marcano gli argomenti centrali (quindi sembrerebbe più
corretto inserirvi il marker dell'oggetto indiretto rispetto a quello con funzione
attributiva) e le loro funzioni concrete sono secondarie. Al gruppo delle particelle di
caso concreto appartengono invece il genitivo no (il dativo ni in Otoguro), l'allativo pe >
he > e, lo strumentale de, il comitativo to, l'ablativo kara, il comparativo yori111. Questa
stessa distinzione si trova in Tsujimura, che curiosamente non utilizza questi termini.
Tsujimura da un lato presenta le postposizioni, ovvero le espressioni del caso semantico,
che hanno un contenuto semantico specifico e non possono essere omesse (come ad
esempio de, kara o to), dall'altro le particelle di caso (i casi sintattici, a cui però
aggiunge il genitivo no e, erroneamente, il topic wa) la cui funzione è quella di
esprimere le relazioni grammaticali e possono essere omesse112. Un fatto su cui gli
109 Si veda §1.1.6 per i diversi studi a questo riguardo. La proposta di Vovin, secondo cui le particellegiapponesi non sono né postposizioni completamente libere, né affissi legati ma “marker agglutinanti”(una posizione intermedia), è quella più accreditata.
110 Ono è citato in Spencer, Otoguro (2005: 134-5). Si veda anche Otoguro (2006: 213-14). Il discorsodei due autori è riferito al giapponese moderno, ma la distinzione può essere valida anche nelgiapponese antico, fatta eccezione per il “nominativo” di Ono e Otoguro (il caso del soggetto comerelazione grammaticale) che in giapponese antico raramente veniva marcato da una particella (equando lo era, poteva essere alternativamente no o ga, che avevano al tempo stesso anche funzioneattributiva).
111 Si noti che, dalla spiegazione proposta da Otoguro, sembrerebbe esserci una biunivocità del rapportofra forma e funzione, che – come visto – contraddice il concetto di “caso”.
112 Tsujimura (1996: 133-137). La particella di topic wa non esprime alcuna relazione grammaticale, masi situa, come detto più volte, su un piano diverso, quello pragmatico. Per quanto riguarda l'omissionedi particelle che esprimono i ruoli semantici centrali, accenniamo per ora il fatto che ga e wo nonhanno principalmente una funzione grammaticale, come sembra suggerire Tsujimura, ma un valorepragmatico ben riconoscibile, e forse è questo che permette di ometterle. Sull'omissione delleparticelle, si vedano anche le pagine successive.
49
studiosi concordano è una differenza fondamentale fra i due gruppi: le particelle di caso
grammaticale come ga e wo (il discorso non vale invece per ni), possono essere
sostituite da particelle come quelle restrittive ad esempio dake 'soltanto' o sae 'perfino' o
quelle di topic e focus come wa e mo, mentre le particelle di caso semantico possono
solo essere accompagnate (e non sostituite) da queste.
Ovviamente, se si accetta il riconoscimento della categoria del caso anche in
giapponese, è più corretto parlare di funzioni sintattiche (o grammaticali) e funzioni
concrete: come si vedrà, la particella wo, oltre a marcare l'oggetto diretto (funzione
tradizionalmente definita grammaticale ma si veda §4.2), ha anche funzioni concrete
legate all'espressione di tempo e luogo, ed allo stesso modo ni da un lato marca l'oggetto
indiretto, dall'altro ha anche una funzione locativa. Anche in giapponese quindi, le
particelle che esprimono i casi grammaticali hanno principalmente una funzione
grammaticale ma anche, secondariamente, una concreta.
Fin qui sono stati analizzati i pochi studi che, pur approvando in definitiva il
riconoscimento della categoria di “caso” nel giapponese, tentano di trattare in modo
appena più rigoroso questo problema. La maggioranza degli studiosi assume come
principio che si possa parlare di “particelle (o marker) di caso”, ma vi sono anche rari
studiosi che non sono così concordi nell'utilizzare il termine “caso” per identificare le
funzioni dei marker giapponesi.
Spencer113 utilizza il Criterio di Beard, secondo cui la categoria di caso è necessaria
in una lingua solo se permette di racchiudere differenti forme che hanno le medesime
funzioni. In giapponese, stando a questo Criterio, la categoria di caso sarebbe superflua
e la particella potrebbe essere definita anche soltanto in base alla sua espressione
formale (come già visto nel caso del turco, anche qui si propone di non utilizzare
l'etichetta “caso accusativo” ma piuttosto “forma wo”). Forma (marker) e funzione
(caso) hanno una relazione biunivoca, non si trovano alternanze formali in base alle
proprietà del sostantivo marcato114, anche se è chiaro che le relazioni (grammaticali o
semantiche) che è possibile esprimere con quel determinato marker sono numerose.
A prescindere dal Criterio di Beard, che, come già detto, rischia di risultare
oltremodo restrittivo, la dicitura caso sembra essere oltretutto limitante per il
113 Spencer (2009: 186).114 Otoguro (2006: 233).
50
giapponese: ad esempio si può prendere il marker del “nominativo” moderno ga. Questa
particella marca il soggetto, animato o inanimato, definito o indefinito, ma ci sono casi
in cui, secondo Kuno, marca anche l'oggetto in predicati stativi che esprimono possesso,
esistenza, stato psicologico, percezione (visiva o uditiva), desiderio115, ad esempio:
英語 が わかる
eigo ga wakaru
inglese-PART capire
'Capisco l'inglese'.
In questi casi, si ha la conferma che ga non marchi il soggetto in quanto il sostantivo
marcato non risponde ai criteri posti da Shibatani per identificare il soggetto in
giapponese (§1.2), ovvero il fatto che il sostantivo debba fungere da antecedente per il
pronome riflessivo e debba essere il fulcro dell'onorificazione; inoltre alcuni di questi
predicati (ad esempio proprio wakaru) permettono l'alternanza di ga con la particella
dell'oggetto diretto wo. Ma come giustamente è stato fatto notare116, in questi casi (come
in quelli successivi), ga marca il focus, e quindi non vi sarebbe affatto necessità di
distinguere questo utilizzo di ga dal terzo utilizzo che Kuno riconosce.
Il terzo utilizzo di ga è quello che Kuno chiama “elenco esaustivo”, ma può
anch'esso essere identificato come una espressione di focus117. Questa terza
interpretazione di ga è principalmente suggerita da Kuno quando il verbo che segue è un
predicato stativo, ad esempio:
115 Kuno (1973: 79, si veda anche Otoguro (2006: 220-1). Questi predicati sono elencati più in bassonella lista dei gruppi di predicati bivalenti di Tsunoda (1985: 388-9), creata in base a quanto ècoinvolto il paziente nell'azione (il concetto di affectedness). I verbi sono divisi in: quelli che hannodiretto effetto sul paziente, di percezione, di ricerca, di conoscenza, di sensazione, di relazione e diabilità. Nei primi il coinvolgimento del paziente è più alto (quindi tende ad essere marcato dalcanonico marker dell'oggetto), negli ultimi più basso (quindi il paziente spesso viene marcato con altrimarker che non siano quelli di default). Si noti che i verbi di percezione intesi da Tsunoda sono verbicome vedere, sentire, ascoltare, mentre qui Otoguro si riferisce a verbi come 見える mieru 'esserevisibile, si vede', 聞こえる kikoeru 'essere udibile, si sente', potenziali, che hanno una sfumatura dipercezione spontanea.
116 Ono, Thompson, Suzuki (2000: 74-5)117 Kuno (1973: 38), il discorso è poi ripreso in Otoguro (2006: 225-7), che espone anche alcune
spiegazioni alternative che sono state proposte.
51
彼 が 日本語 が できる
kare ga nihongo ga dekiru
lui-PART giapponese-PART essere capace
'Lui (e solo lui) sa il giapponese'.
Questa è una delle frasi che la grammatica tradizionale interpreta come occorrenze di
un doppio soggetto, in quanto appare due volte la marca del nominativo ga. Seguendo
invece l'interpretazione di Kuno, dato che si è di fronte a un predicato stativo, in questa
frase il primo ga in kare ga indica il focus (il terzo utilizzo di ga), il secondo ga in
nihongo ga l'oggetto diretto (secondo utilizzo di ga).
Ora, questi usi di ga che esulano dal mero indicare il soggetto della frase non
potrebbero essere spiegati se semplicemente identifichiamo ga con l'etichetta di
“particella del nominativo”. Allo stesso modo, nel giapponese antico, l'alternanza no/ga
sia nell'espressione del soggetto (in cui alterna anche con ø) sia in funzione attributiva
non è spiegabile in termini di “nominativo” e “genitivo”.
Oltretutto, come già accennato e notato da Tsujimura, alcune di queste particelle
possono essere liberamente omesse nel giapponese moderno, e così anche nel
giapponese antico, benché, come si vedrà, numerose teorie sono state proposte per
spiegare se si tratti di una libera omissione o se invece i casi in cui la particella viene
omessa siano dovuti a questioni morfosintattiche o pragmatiche: il soggetto era espresso
con ø, con ga o con no, l'oggetto con wo o con ø, ad esempio118. Allo stesso modo,
queste stesse particelle possono essere sostituite da particelle avverbiali (sae, dake, ma
anche dalla particella del topic wa), nel giapponese moderno come in quello antico. Si
deduce che, almeno per quanto riguarda i due argomenti centrali (soggetto e oggetto), la
categoria di caso non può essere postulata: una categoria esiste in una lingua quando
deve essere necessariamente espressa. Ad esempio, in latino la categoria di caso viene
118 Per quanto riguarda l'espressione del soggetto, si ritiene generalmente che ø sia l'espressione didefault nelle frasi principali, dove no e ga alternano nelle subordinate (no è ammesso da tutti isostantivi, ga soltanto da quelli animati). Si veda Frellesvig (2010: 127-9), di questo si accenneràanche in §4.1. Per quanto riguarda l'oggetto, numerose teorie sono state proposte riguardo l'alternanzawo-ø, e saranno discusse nel §4.2: quella a cui, a mio parere, si può dar più credito è l'ultimariformulazione comune dello studio di Frellesvig insieme a Horn e Yanagida, che ritengono, come sivedrà, che la presenza o assenza di wo dipenda da una questione pragmatica di specificità dell'oggetto.Si veda Frellesvig, Horn, Yanagida (2013).
52
identificata in quanto nessun sostantivo può essere espresso senza il suffisso
cumulativo, che indica caso, numero e genere, con il caso nominativo utilizzato come
forma di citazione: il morfema con cui si indica il caso può anche non avere espressione
fonica (quindi essere ø), ma ø non alterna con altri morfemi nello stesso caso con un
determinato tema (cor ha il nominativo singolare in ø, ma non può alternare, non ha mai
il nominativo in -us o -a). In giapponese invece, almeno per quanto riguarda soggetto e
oggetto, la categoria del caso può essere elusa. Se i due casi fondamentali (nominativo e
accusativo) vengono a mancare, è anche difficile identificare i restanti: Blake119 riporta
una gerarchia fra casi, spiegando che se una lingua ha un caso come il locativo o lo
strumentale, deve necessariamente avere anche nominativo, accusativo (o ergativo),
genitivo e così via. La gerarchia è la seguente:
nom acc/erg gen dat loc abl/strum altro
Se in una lingua è attestato un caso, dovrà anche avere i casi alla sua sinistra: infatti,
se una lingua ha attestati soltanto due casi, questi sono nominativo e accusativo (o
ergativo e assolutivo).
Ne segue che non si trovano casi grammaticali e concreti in giapponese, ma piuttosto
un numero di morfemi con funzioni grammaticali primarie e concrete secondarie (ad
esempio ni). Forse sarà anche possibile riconoscere una funzione grammaticale in
morfemi che hanno come funzione primaria quella concreta, come accade nel caso dello
strumentale in sanscrito (un esempio che è possibile portare è l'utilizzo di kara in
funzione di agente nelle frasi passive con verbi che presuppongono un destinatario,
come 送る okuru 'spedire', 与える ataeru 'dare').
Ovviamente, se invece si segue una definizione funzionale, in cui “caso” identifica
qualsiasi mezzo utilizzabile per esprimere relazioni grammaticali e ruoli semantici,
allora chiaramente anche in giapponese, come in tutte le lingue del mondo, sarà
possibile postulare una categoria di caso.
È possibile concludere che, benché indiscutibilmente comode e comprensibili a tutti,
non è quindi propriamente corretto utilizzare le diciture di caso “nominativo”,
119 Blake (1994: 156).
53
“accusativo”, “dativo” nel giapponese. Quindi se si dice che l'accusativo in giapponese
indica sia l'oggetto diretto che estensioni di tipo temporale si dovrà intendere soltanto
che la stessa particella wo esprime entrambe le funzioni, non che esiste un “caso
accusativo” in giapponese120.
Come visto, il termine kaku 'caso' (in kaku joshi) venne introdotto da Yamada nel
1908, probabilmente sotto l'impulso della diffusione degli studi di grammatica
occidentale che erano stati tradotti proprio nei primi anni dell'epoca Meiji. La
terminologia delle grammatiche occidentali venne rapidamente assorbita in Giappone e
applicata alla lingua autoctona: questo risultò quindi in una descrizione del giapponese
in cui si utilizzavano le stesse categorie delle lingue occidentali, applicate
indiscriminatamente ad una lingua invece molto diversa dal punto di vista tipologico e
strutturale121. È difficile scardinare questo (ormai) tradizionale metodo di descrizione,
che viene accettato indistintamente da studiosi autoctoni e occidentali, persino in testi
specializzati. Piuttosto che “particelle (o marker) di caso”, infatti, soltanto due autori
hanno proposto denominazioni differenti: Miller le chiama particelle referenti, che
occorrono dopo sostantivi ad indicare una relazione, Otoguro le chiama particelle post-
nominali, in base semplicemente alla loro posizione122.
Mantenendo quindi la distinzione fra funzioni grammaticali e concrete di un caso (o
in generale di un morfema), nel testo si tenterà di evitare la terminologia canonica di
“particella (o marker) di caso” e si utilizzerà una distinzione fra particelle con funzione
grammaticale e secondariamente concreta (wo, ni ad esempio) e particelle con funzione
principalmente concreta (kara, made, to). Per una questione di semplicità, entrambe le
tipologie verranno identificate come “particelle grammaticali”, sottolineando di volta in
volta, quando opportuno, la loro funzione propriamente grammaticale o concreta.
120 Otoguro (2006: 7)121 Miller (1967: 312-4). Un altro esempio di una parte del discorso sempre identificata in giapponese,
ma sul cui riconoscimento non si può che dubitare, è l'aggettivo.122 Miller (1967: 343). Purtroppo l'autore non spiega il perché di queste diciture. Il termine di Otoguro
(2006: 212; 214) include invece anche i suffissi per indicare il plurale e fa riferimento alla posizione di questi elementi, che seguono immediatamente il sostantivo.
54
Capitolo 2
La classificazione e le funzioni della particella wo
Non vi è accordo fra gli studiosi nel suddividere le occorrenze di wo nel
giapponese antico e medio e nel classificare questa particella all'interno dei diversi
gruppi di Yamada (§1.1): wo viene categorizzata nei diversi studi come particella
grammaticale, di congiunzione, finale o interiezionale in base al suo significato o la sua
posizione nella frase123, mentre pochi studi sono stati condotti per classificare wo sulla
base di criteri formali e sintattici.
Come si vedrà, l'articolo più interessante a questo proposito è Kondō (1980), in cui
l'autore riconosce la confusione creatasi nella classificazione della particella, fino a quel
momento basata solo su criteri semantici o legati alla posizione: come è già stato detto, i
testi antico giapponesi sono principalmente poetici, quindi da un lato la posizione degli
elementi non è fissa e dall'altro l'interpretazione semantica può essere soggettiva ed
arbitraria. A causa di questo, le classificazioni risultano differenti di autore in autore.
Kondō invece, tentando di utilizzare criteri sintattici nella suddivisione, e grazie anche
alla enorme varietà di testi presi in esame (fra gli altri, le canzoni del 古事記 Kojiki, del
日本書紀 Nihonshoki, dei 風土記 Fudoki e dello 続日本紀 Shoku Nihongi, il 歌経標
式 Kakyō Hyōshiki, i 宣命 senmyō dello Shoku Nihongi, i 祝詞 norito dello 延喜式
Enghishiki)124, è riuscito a definire in modo molto rigoroso la distribuzione della
particella wo.
Un secondo elemento che si deve notare sin da ora, è che numerosi studiosi,
principalmente giapponesi, tendono a distinguere differenti “particelle wo” (wo come
particella grammaticale, wo interiezionale, wo congiunzione e via dicendo) e non
diverse funzioni attribuibili ad un unica particella: in diversi studi infatti si spiega
123 Kōji (1988) riporta numerosi studi precedenti in cui wo viene inclusa in tutte e quattro questecategorie, Konoshima (1966) cita invece soltanto l'utilizzo come particella interiezionale e comeparticella grammaticale, Iwai (1974) riporta numerosi esempi riguardo l'utilizzo grammaticale e trattasolo brevemente l'uso come particella di congiunzione.
124 Kondō (1980: 51). Kojiki (712) e Nihonshoki (720) narrano le origini mitologiche del Giappone edella casa imperiale, i Fudoki sono documenti e registri delle province del Giappone antico, lo ShokuNihongi (797) riporta le decisioni imperiali del periodo (appunto senmyō), il Kakyō Hyōshiki (772) èuno studio sulla poesia dell'epoca, lo Engishiki (927) riporta usi, costumi e leggi del periodo, e lepreghiere, dette norito.
55
espressamente che queste diverse particelle wo avrebbero una differente origine, o che
comunque la loro origine comune non sarebbe mai stata provata125. Diversa invece è la
posizione di molti studiosi occidentali, che ritengono di essere di fronte ad un'unica
particella wo, le cui funzioni sono via via grammaticale, concreta, interiezionale e così
via: infatti, dal punto di vista funzionale, le differenti funzioni di wo possono essere
facilmente connesse l'un l'altra.
2.1 La particella wo in funzione di particella grammaticale
Nella sua funzione di particella grammaticale, nei differenti studi si afferma
spesso che la particella wo esprima il caso accusativo ( 目的格 mokutekikaku lett. 'caso
oggetto' oppure 対 格 taikaku, termine utilizzato proprio per tradurre 'caso
accusativo')126. Come si è detto, la categoria del caso non è propriamente riconoscibile
in giapponese, ma si deve pur dare atto che le funzioni prototipiche della particella
grammaticale wo sono comparabili con quelle del caso accusativo indoeuropeo,
descritte precedentemente (§1.2.2).
Konoshima127 afferma che la funzione di wo in giapponese corrisponderebbe sì a
quella dell'accusativo nelle lingue indoeuropee, ma non perfettamente: secondo l'autore,
l'accusativo indoeuropeo esprimerebbe soltanto l'oggetto di un verbo transitivo mentre
la particella giapponese avrebbe anche molti altri utilizzi, che non apparterrebbero al
caso accusativo delle lingue occidentali. Ad esempio, wo viene utilizzato comunemente
per esprimere il moto per luogo ( 道を行く michi wo iku 'andare per la strada'), il tempo
( 一日を遊ぶ ichinichi wo asobu 'giocare tutto il giorno'), moto da luogo (門を出る
mon wo deru 'uscire dal cancello'). Chiaramente, a differenza di quanto ritiene
Konoshima, questi utilizzi possono essere in realtà sovrapponibili con quelli avverbiali
dell'accusativo nelle lingue indoeuropee (§1.2.2): i primi due esempi ricordano
l'accusativo di estensione spaziale e temporale, mentre nell'ultima frase l'utilizzo di wo
differisce da quello dell'accusativo indoeuropeo, in quanto il moto da luogo, ad
125 Questa è la posizione che sostengono, ad esempio, Kondō (1980: 64-5) e Matsuo (1938: 1412).126Fra gli altri, si possono citare Shibatani (1990) e Frellesvig (2010).127Konoshima (1966: 60). Konoshima parla di 国語 kokugo 'lingua nazionale' in generale, quindi
sembrerebbe che la sua affermazione sia relativa al giapponese moderno.
56
esempio, in sanscrito è espresso in ablativo, allo stesso modo in latino, per lo più con
preposizione, mentre in accusativo si esprime il moto a luogo ma anche, con
preposizione, il moto per luogo .
Questi utilizzi di wo non emergono nella lingua moderna. Infatti, anche nell'antico e
medio giapponese, la particella wo seguiva sostantivi e frasi nominalizzate (con o senza
nominalizzatore)128, ma anche alcune particelle avverbiali129, e poteva esprimere
l'oggetto di un verbo transitivo, il moto per luogo, il moto da luogo, l'oggetto di una
azione causativa. Poteva inoltre apparire in combinazione con altre forme come にて
nite, per esprimere assunzione o supposizione, o con il suffisso み mi in una costruzione
denominata ミ語 法 mi-gohō, per esprimere una proposizione causale.
2.1.1 La funzione grammaticale di wo
Si ritiene generalmente che la funzione principale di wo fosse, come nella lingua
odierna, quella di marcare l'oggetto diretto, ad esempio130:
父母 を 見れば 尊し
titipapa wo mire-ba taputoshi
genitori- OGG guardare.IZ-TEMP venerabile.SS
'quando guardo i miei genitori, sono degni di venerazione'
(Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 800).
Questa funzione della particella sarebbe quindi rimasta quella fondamentale lungo
tutta la storia della lingua giapponese, ad esempio nel seguente esempio di Vovin in
giapponese classico131:
128 Shirane (2005: 159-161).129 Iwai (1974: 352).130 Hashimoto (1969: 110). Per altri esempi si veda Iwai (1974: 352-353).131 Vovin (2003: 65). Per la sua analisi dell'utilizzo della particella fino al periodo Nara, nella sua ipotesi
in cui il giapponese antico viene visto come lingua con un allineamento attivo, si veda §4.1.4.
57
この 子 を 見つけて 後
kono ko wo mituke-te noti
questa bambina-OGG trovare.RY-GER dopo
'dopo aver trovato questa bambina' (Taketori Monogatari 竹取物語, I).
L'oggetto poteva essere anche una frase nominalizzata, in forma attributiva e spesso
(ma non sempre) accompagnata da un nominalizzatore come こと koto. In questo
'vedendo che il fumo si alzava sulla vetta di Asama'
(Ise Monogatari 伊勢物語, VIII).
La sua funzione grammaticale fondamentale sarebbe quindi l'espressione
dell'oggetto diretto in una frase transitiva attiva (ruolo del paziente/tema in un verbo
bivalente132), ma differenti ipotesi sono state formulate – come si vedrà (§4.1) – riguardo
diverse o ulteriori funzioni della particella e quindi riguardo il possibile allineamento
morfosintattico del giapponese antico. La base che sorregge la formulazione di queste
differenti ipotesi è il fatto che, da un lato wo ha anche molte altre funzioni oltre a quella
di marcare l'oggetto e dall'altro molte occorrenze dell'oggetto in giapponese antico non
erano affatto marcate da alcuna particella.
Le diverse posizioni degli studiosi verranno analizzate in §4.1, per ora verranno
accennate soltanto le differenti teorie. Alcuni studiosi ritengono che wo sarebbe sin dalle
prime attestazioni una particella dell'oggetto diretto in un sistema nominativo-
accusativo e che i casi in cui l'oggetto non era marcato sarebbero definibili come “case
drop”; una differente teoria vorrebbe provare che wo fosse una particella con funzione
assolutiva in un allineamento ergativo-assolutivo; una terza posizione identifica wo
come una particella che esprimerebbe il paziente in un allineamento attivo-stativo, e due
132 Motohashi (1989: 51); Katō (2006: 144).
58
diverse proposte sono state formulate: da un lato wo si comporterebbe in alcuni casi
come una marca di caso pazientivo, ma di preferenza l'allineamento sarebbe quello
nominativo-accusativo, dall'altro l'allineamento attivo sarebbe limitato solo alle
subordinate, in cui l'oggetto diretto, di base, non verrebbe marcato e wo lo marcherebbe
solo quando l'oggetto è specifico133.
Una lingua in cui si marca allo stesso modo l'attante di un verbo monovalente e
l'agente di un verbo bivalente (caso134 nominativo), mentre con una marca differente si
esprime il paziente del verbo bivalente (caso accusativo) è denominata nominativo-
accusativa. Viceversa, una lingua in cui il paziente di un verbo bivalente è espresso con
la stessa marca dell'attante del verbo monovalente (caso assolutivo), mentre l'agente del
verbo bivalente è espresso differentemente (caso ergativo), è denominata ergativo-
assolutiva. Lingua attivo-stativa è una lingua in cui i verbi monovalenti sono
differenziati in base al ruolo semantico dell'attante: quando questo è un agente, è
codificato come l'agente del verbo bivalente, quando questo è un paziente è marcato
come il paziente del verbo bivalente. Benché grazie agli esempi visti fino ad ora
potrebbe sembrare che la funzione fondamentale di wo sia proprio quella dell'esprimere
l'oggetto diretto, quindi, non vi è affatto accordo a riguardo: wo potrebbe non essere
stata la marca di default dell'oggetto ma essere utilizzata solo in caso di oggetto
specifico, o potrebbe aver espresso altre relazioni grammaticali, oppure la particella
potrebbe esser stata legata ad un ruolo semantico come il paziente. Gli studiosi non sono
quindi affatto concordi nell'identificare le sue funzioni.
133 Riguardo la prima teoria, si veda Wrona (2007b) e Wrona&Frellesvig (2009) (§4.1.3).Sull'allineamento ergativo si veda Yanagida (2005) e Motohashi (2009) (§4.1.2). Sulle due proposteriguardo l'allineamento attivo, da un lato Vovin (1997; 2005), dall'altro Whitman&Yanagida (2009;2012) (§4.1.4). Per una spiegazione in generale sul problema dell'allineamento morfosintattico si veda§4.1.1.
134 Per identificare i diversi allineamenti, si utilizza la terminologia dei diversi casi (nominativo,accusativo, ergativo e così via). Chiaramente, la codifica tramite casi grammaticali è una delletecniche più utilizzate di marcatura grammaticale dei ruoli semantici, ma identificare la categoria delcaso in una lingua non è affatto necessario per connetterla con uno dei possibili allineamentimorfosintattici: ciò che è importante è che i due ruoli semantici principali (agente e paziente)ricevano o meno lo stesso trattamento formale (a prescindere quindi dalla categoria del caso). Questadistinzione è quindi valida anche per le lingue che non utilizzano la flessione (casi sintetici, come lidefiniva Blake), ma particelle, adposizioni e così via (casi analitici in Blake), per marcare i ruolisemantici fondamentali.
59
2.1.2 Le funzioni concrete di wo
Quanto alle funzioni concrete della particella, queste sono principalmente legate
alle espressioni del luogo e del tempo e risultano – come già accennato – comparabili
con quelle dell'accusativo nelle lingue indoeuropee antiche.
Quando il verbo che segue esprimeva un attraversamento, un passaggio, la particella
indicava il luogo attraverso cui si passa135. Verbi come 越ゆ koyu 'attraversare' (odierno
越える koeru), 渡る wataru 'passare', 過ぐ sugu 'passare' (odierno 過ぎる sugiru), ma
anche verbi come ありく ariku 'camminare' (odierno 歩く aruku) o 行く yuku 'andare',
reggevano in giapponese antico la particella wo, che marcava il moto per luogo.
大阪 を わが 越え来れば
Ōsaka wo wa ga koekure-ba
Ōsaka-PART io-SOGG passare.IZ-TEMP
'quando passo per Ōsaka' (Man'yōshū 万葉集, maki 10, n. 2185).
Motohashi136 definisce questa funzione “route”, identificabile con il ruolo semantico
di “path” 'percorso': la particella wo viene ancora utilizzata in questa funzione, e si trova
spesso in opposizione alla particella ni, che invece veniva e viene tutt'oggi utilizzata per
esprimere il moto a luogo (l'opposizione fra 道を歩くmichi wo aruku 'camminare lungo
la strada' e 道に歩く michi ni aruku 'camminare verso la strada')137. Questo utilizzo di
wo è comparabile con quello dell'accusativo di estensione a livello spaziale nelle lingue
indoeuropee.138
Quando il verbo esprimeva un allontanamento o un abbandono, la particella
identificava il luogo di partenza, che avrebbe potuto anche essere espresso da より yori,
ma il sostantivo non poteva mai occorrere senza alcuna particella139. Si tratta di verbi
come 離る panaru 'allontanarsi' (odierno 離れる hanareru), 別る wakaru 'separarsi,
135 Hashimoto (1969: 110); Iwai (1974: 353).136 Motohashi (1989: 52).137 Kuno (1973: 96-101).138 Si confronti ad esempio il greco ἄγειν στρατιὰν στενὰς ὁδούς 'condurre gli eserciti per strade strette'
(Senofonte, Ciropedia 1.6.43).139 Per l'alternanza con yori, si veda Vovin (2003: 68). Sull'impossibilità dell'occorrenza senza particelle
'gli uomini si uniscono alle donne, le donne gli uomini'
(Taketori Monogatari 竹取物語, II).
Il verbo apu, in giapponese antico, oltre che il senso generale di 'incontrare' (che
pure ha in alcuni casi), ha anche il significato di 'sposarsi', 'unirsi (in matrimonio)', ed
infatti nel Taketori Monogatari viene sempre utilizzato il logogramma 婚, che si ritrova
nel giapponese moderno 結婚する kekkon suru 'sposarsi'. Delle dodici totali occorrenze
di apu nel Taketori, eccezion fatta per tre casi in cui il verbo non appare connesso ad
alcun sostantivo e due occorrenze in cui l'oggetto non è marcato da particelle, apu regge
sempre ni. L'unico caso in cui regge wo è il primo esempio citato.
Altri esempi portati da Motohashi di verbi che reggono wo con funzione di
“destinazione” sono 問ふ topu (giapponese moderno tou) 'chiedere', 祈る inoru e 祈む
nomu 'pregare', ma anche 答ふ kotapepu o irapu (kotaeru nel giapponese moderno)
'rispondere', 背く somuku 'trasgredire, ribellarsi, offendere', ad esempio:
神 を 祈りて
kami wo inori-te
dei-PART pregare.RY-GER
'pregando gli dei' (Man'yōshū 万葉集, maki 7, n. 1232).
Nel giapponese moderno tutti questi verbi si costruiscono con ni: Motohashi spiega
che questo mutamento era già in fieri in antico giapponese e sembra suggerire che nel
periodo in cui fu scritto lo 平家物語 Heike Monogatari148 (la prima parte del 1300) la
particella ni avesse già sostituito stabilmente wo in questa funzione. L'autore riporta
numerosi esempi tratti dallo Heike Monogatari in cui questi verbi reggono ni, ma già
nel giapponese antico si trovano anche frasi come la seguente:
148 Lo Heike Monogatari narra la guerra nota con il nome di Genpei (1180-1185) fra le due casate deiTaira 平 (da cui il nome Heike 平家) e dei Minamoto 源.
64
神に そ 我が 祈む
kami ni so wa ga nomu
dio-PART ENF io-SOGG pregare.SS
'prego gli dei' (Man'yōshū 万葉集, maki 13, n. 3283).
Rodriguez149 definisce questi verbi che reggono alternativamente wo o ni come
“verbi neutri che reggono l'accusativo o il dativo”: somuku (somuqu nella trascrizione
dell'autore) può reggere デウスを deusuo o デウスに deusni 'disobbedire a Dio'. Si
può dedurre che quindi la sostituzione di wo con ni non era ancora avvenuta del tutto
nel 1600, al contrario di quanto visto in Motohashi, e che questa alternanza si trova sin
dai testi più antichi.
Non è ben chiaro il motivo dell'alternanza fra wo e ni nella costruzione di questi
verbi e diverse ipotesi sono state formulate. Konoshima150 cita la teoria di Yamada
Yoshio. Egli ritiene che sia wo che ni, in connessione a questi verbi, esprimerebbero
l'oggetto diretto, con la differenza che wo esprimerebbe l'oggetto dinamico, dove ni
esprimerebbe l'oggetto statico. Nel Taketori però, a parità di oggetto (ad esempio, かぐ
や姫 la principessa Kaguya), vengono usati sia wo sia ni; inoltre ni viene utilizzato sia
quando apu indica 'andare incontro' (ad una persona che sta arrivando, nella fattispecie),
sia quando indica 'sposarsi', a prescindere quindi dalla staticità dell'oggetto. Una
differente proposta è invece sostenuta da Konoshima stesso: dato che, come visto, in
tutti questi utilizzi che possiamo definire concreti, wo può essere sostituita non solo da
ni ma anche da yori (o da to, riporta l'autore), egli interpreta queste occorrenze di wo
come una particella interiezionale (una kantō joshi) che andrebbe a sostituire la
particella necessaria. Konoshima è infatti uno degli studiosi che ritiene che tutte le
occorrenze di wo che non possano essere classificate espressamente come particella di
oggetto diretto siano da identificarsi con una occorrenza della particella interiezionale
omofona (Cap. 3). L'autore riporta numerosi esempi a supporto di questa sua teoria, ma
alcuni di questi contravvengono ad uno dei criteri sintattici stabiliti da Kondō (1980) per
riconoscere a quale delle differenti categorie di particelle appartiene quella analizzata151.
149 Rodriguez (1604: 101).150 Konoshima (1966: 66). Si veda lo stesso Konoshima (1966: 65-7) per la proposta propria dell'autore.151 Come si vedrà, Kondō ritiene che esistano tre diverse particelle omofone wo, la cui origine non deve
65
Uno di questi criteri infatti, come si vedrà (§2.1.3), è il seguente: solo la particella
grammaticale (kaku joshi) wo può essere accompagnata da altre tipologie di particelle
(ad esempio quelle restrittive o quelle pragmatiche), mentre quando wo viene
riconosciuta come una particella interiezionale o finale questo non è possibile.
Konoshima riporta alcuni esempi in cui questo avviene, ad esempio:
あこぎを だに いかで あはむ
akogi wo dani ikade awa-mu
Akogi-PART almeno a tutti i costi incontrare.MZ-DES.SS
'voglio a tutti i costi incontrare almeno Akogi' (Ochikubo Monogatari 落窪物語, I).
In questa frase wo è seguita dalla particella restrittiva dani, mentre in altri esempi di
Konoshima si trova anche la particella di focus zo. In base al criterio di Kondō, quindi,
quelle riportate da Konoshima sono occorrenze di wo in funzione grammaticale e non
interiezionale.
Devono essere sottolineati due aspetti. Da un lato che, se è vero che il ruolo
semantico connesso a questi verbi è quello della destinazione (goal), non sembra affatto
illogico che wo, che ha funzione di destinazione solo con questi verbi, alterni con ni, che
invece è la particella che esprime il ruolo della destinazione con tutti i verbi. Dall'altro,
apu 'incontrare', topu 'chiedere', inoru e nomu 'pregare', kotapepu o irapu 'rispondere',
somuku 'ribellarsi', sono tutti “interaction verbs” (Blume 1998). I verbi di interazione
sono verbi bivalenti che hanno tipicamente due attanti senzienti e sono divisi in: verbi di
comunicazione (topu 'chiedere', kotapepu 'rispondere'), verbi di moto (apu 'incontrare') e
verbi legati all'obbedire (quindi anche somuku 'ribellarsi'). Blume ha notato che questi
verbi invece di reggere l'accusativo possono reggere il dativo. In giapponese moderno
infatti questi verbi reggono la particella ni (particella che viene glossata come “dativo”,
caso con cui condivide effettivamente molte funzioni), anche se possono comunque
alternare con la particella to (la sfumatura che questa alternanza implica è la reciprocità
dell'azione: se è presente ni l'azione è unidirezionale, se invece è presente to l'azione è
necessariamente essere comune: l'autore non riconosce quindi affatto un'unica particella a cuiattribuire differenti funzioni ma vere e proprie particelle differenti.
66
reciproca152). In giapponese antico questi verbi reggono alternativamente ni, particella
che in tutte le fasi del giapponese esprime la direzione, oppure wo, che esprimeva nella
lingua antica la direzione solo in connessione a questi verbi ed i cui utilizzi sono andati
pian piano riducendosi.
Infatti, oltre a numerose funzioni che – come si è visto – la particella ha mantenuto
anche nel giapponese moderno, alcuni impieghi che la particella wo aveva nel
giapponese antico sono caduti in disuso153.
Una di queste ulteriori funzioni concrete, anch'essa affine all'accusativo
indoeuropeo, è quella temporale. La particella esprimeva il tempo continuato in cui
l'azione espressa dal verbo viene svolta. Ad esempio:
長き 夜を ひとりや 寝む
nagaki yoru wo pitori ya ne-mu
lunga.RT notte-PART da solo-INTER dormire.MZ-CONG.SS
'dormirò da solo in questa lunga notte?' (Man'yōshū 万葉集, maki 3, n. 462);
このくにに あまたの 年を 経ぬる
kono kuni ni amata no toshi wo pe-nuru
questo paese-LOC molti-ATTR anni-PART passare.RY-PERF.RT
'passare molti anni in questo paese' (Taketori Monogatari 竹取物語, IX).
Questo impiego della particella wo è controverso, ed infatti non tutti gli studiosi sono
concordi da un lato nel riconoscere a wo questa funzione, dall'altro nell'identificarla
ancora nel giapponese moderno154. Iwai ad esempio non fa affatto menzione di questo
possibile utilizzo. Hashimoto scrive invece che wo può esprimere il tempo in
connessione con verbi che indicano 'passare, scorrere' ( 経 過 keika) ma afferma
espressamente che questa sarebbe una delle funzioni di wo non più attestate in
giapponese moderno, e riporta l'esempio seguente:
152 Kuno (1973: 102-7).153 Per semplicità, si segue Hashimoto (1969) nella divisione fra le funzioni ancora in uso e quelle ormai
scomparse, anche se, come si vedrà, non sempre la distinzione di Hashimoto sembra esatta.154 I riferimenti degli studiosi citati di seguito sono: Hashimoto (1969: 112); Konoshima (1966: 65); Iwai
(1974); Vovin (2003: 66-8) e (2005: 169-170);
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年の 八年を 待てど
toshi no ya-tose wo mate-do
anni-ATTR otto-CLASS-PART aspettare.IZ-CONC
'benché abbia aspettato tutti questi anni' (Man'yōshū 万葉集, maki 16, n. 3865).
Anche Konoshima riconosce questa funzione di wo, e la mette in parallelo con
l'impiego di questa particella per esprimere il moto per luogo: l'autore scrive che
sostanzialmente le due funzioni sono identiche, in quanto da un lato wo esprime
l'estensione spaziale, dall'altro l'estensione temporale155. Al contrario di Hashimoto,
però, Konoshima riporta l'utilizzo di wo in funzione temporale anche nella lingua
contemporanea, nella frase 一日を遊ぶ ichinichi wo asobu 'giocare tutto il giorno'.
Vovin non riconosce questa funzione come un impiego particolare ma ne inserisce
alcuni esempi fra quelli che chiama “peculiarities of usage”, in cui include anche tutte le
funzioni locative citate precedentemente. Vovin scrive che alcuni verbi di moto reggono
wo, e fra questi elenca da un lato wataru 'attraversare', sugu e 経 pu (odierno 経る heru)
'passare' (quindi i verbi che reggono il complemento di moto per luogo), dall'altro verbi
come panaru o tatu 'lasciare, partire' (verbi che reggono il moto da luogo). Fra gli
esempi del primo gruppo cita proprio alcune frasi in cui questi stessi verbi reggono
'(le) faceva visite notturne durante gli anni' (Ise Monogatari 伊勢物語, VI).
Un generale accordo fra gli studiosi si trova soltanto quindi nell'identificare i verbi
da cui la particella wo (in questa funzione) può essere retta: sono verbi connessi ad un
155 Si noti che l'affinità fra le due funzioni era stata notata anche nell'accusativo indoeuropeo ed era stataspiegata da Luraghi (2009: 145-6) in ottica cognitiva, grazie alla metafora, attraverso cui dall 'utilizzospaziale si giungeva a quello temporale (§1.2.2).
156 Si deve notare che, anche se nella traduzione della frase è riportato “durante gli anni”, in realtà ilsostantivo toshi 'anni' marcato da wo è retto dal verbo peru 'passare', mentre il verbo successivowataru regge yobapi e non toshi. Una traduzione più letterale sarebbe “passavano gli anni e (le)faceva visite notturne”.
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generale senso di 'passare, trascorrere'. Con verbi analoghi, wo viene tutt'ora utilizzata:
comunissime sono espressioni come 時間をかける jikan wo kakeru 'impiegare tempo',
時間を過ごす jikan wo sugosu 'passare il tempo', con verbi transitivi. Rimane il dubbio
se identificare queste occorrenze di wo come una marca del complemento di tempo
continuato o di oggetto, ed infatti nel giapponese moderno sono anche molto diffuse
espressioni con verbi intransitivi come 時間が立つ jikan ga tatsu 'il tempo passa', 3年
が過ぎた san-nen ga sugita 'tre anni sono trascorsi', in cui jikan 'tempo' e 3 年 san-nen
'tre anni' sono identificabili come soggetti. Nel giapponese antico invece, tutti questi
verbi sono intransitivi e reggono wo soltanto nell'espressione di tempo o luogo: Vovin li
chiama “quasi-intransitivi”, rifacendosi alla terminologia di Samuel Martin, che in
questo modo identificava verbi che possono reggere wo ma non possono essere costruiti
in forma passiva157. Questi verbi “quasi-intransitivi”, però, sembrano reggere wo non
tanto in qualità di marca di complemento di tempo o luogo quanto piuttosto come marca
dell'oggetto, anche se poi non è possibile trasformare questo oggetto nel soggetto della
passiva corrispondente.
Non sono affatto numerosi, nei testi antichi, esempi con verbi differenti da questi, ma
è possibile comunque notare che wo segnalava il tempo continuato con verbi come
'vivere' o 'stare'. Motohashi158 riporta due esempi, il primo dei quali viene proposto
anche da Konoshima:
雨 の 降る 日を ただ
ame no puru pi wo tada
pioggia-ATTR cadere.RT giorno-PART soltanto
157 Vovin (2003: 66). L'unico tipo di passiva che questi verbi possono formare è quella avversativa oindiretta, che esprime il fatto che il soggetto è negativamente influenzato dall'azione. Questo tipo dipassiva può essere costruita anche con verbi intransitivi (come in questo caso), oltre che chiaramentecon verbi transitivi: con verbi transitivi, l'oggetto della frase attiva non diventa soggetto della passivaindiretta (come accade in una passiva diretta), ma appare anche in questa come oggetto. Ad esempio:Frase attiva: Hanako ga piano wo hiku
Hanako-SOGG pianoforte-OGG suonare'Hanako suona il pianoforte'
Frase passiva indiretta: Tarō wa Hanako ni piano wo hika-reruTarō-TOP Hanako-AG pianoforte-OGG suonare-PASV'Tarō è negativamente influenzato dal fatto che Hanako suoni il pianoforte'
Si veda Shibatani (1990: 317-33) per ulterirori spiegazioni e numerosi altri esempi.158 Motohashi (1989: 98-9).
69
ひとり 山辺 に をれば
pitori yama-be ni wore-ba
da solo montagna-dintorni LOC essere.IZ-CAUSAL
'stando tutto solo ai piedi della montagna in un giorno piovoso'
(Man'yōshū 万葉集, maki 4, n. 769);
年ごろを 住みし 所
toshigoro wo sumi-shi tokoro
tanti anni-PART vivere.RY-PASS.RT luogo
'il luogo dove ho vissuto molti anni' (Tosa Nikki 土佐日記, 1.29).
In queste frasi, wo segnala il tempo continuato durante cui si svolge l'azione. Anche
Motohashi connette questa funzione a quella di estensione spaziale ed al ruolo
semantico di “path”, 'percorso', e, come Hashimoto, ritiene che questo impiego sia
caduto in disuso nel giapponese moderno.
Come già detto, questo utilizzo di wo può essere messo in parallelo con quello
dell'accusativo di estensione temporale nelle lingue indoeuropee: si può confrontare un
esempio in latino come Multos annos nostrae domi vixit 'visse molti anni nella nostra
casa' (Cicerone, Tusculanae Disputationes L.5.113) con l'ultimo esempio proposto in
giapponese Toshigoro wo sumishi tokoro 'il luogo dove ho vissuto molti anni'.
Una ulteriore funzione della particella wo, che secondo Hashimoto sopravvisse
soltanto fino al periodo Heian ed è ormai scomparsa, è quella dell'espressione del
“cognate object”. La costruzione del cognate object o figura etymologica159 si ha
quando il sostantivo è etimologicamente o semanticamente connesso con il verbo
(transitivo o intransitivo). Anche nelle lingue indoeuropee, come si è visto, la
costruzione del cognate object regge l'oggetto in accusativo, il cosiddetto “accusativo
dell'oggetto interno”. L'esempio che riporta Hashimoto160 è preso da una poesia del
Man'yōshū, in cui la costruzione del cognate object è espressa tramite il sostantivo い i
'non dormendo nemmeno un sonno tranquillo la notte'
(Taketori Monogatari 竹取物語, II).
Iwai presenta una più ampia casistica, che spazia dal Man'yōshū ai Monogatari di
epoca Heian, dei casi in cui “[wo] esprime come oggetto una cosa il cui concetto sia
simile all'azione”164: Iwai parla espressamente di “concetto che somiglia al significato
del verbo”, riferendosi quindi principalmente ai casi in cui sostantivo e verbo sono
riferiti alla stessa area semantica, e non a connessioni etimologiche. L'autore cita
espressioni come いを寝 i wo nu 'dormire un sonno', 音を泣く ne wo naku 'piangere
rumorosamente' (lett. “piangere un suono”), 香をにほふ ka wo nipopu 'sentire un
odore'.
Un interessante fatto notato da Iwai è che le occorrenze di wo nella costruzione del
161 Vovin (2013: 163) afferma che questo rappresenta l'unico esempio di negativa -zu seguita dal verbo diesistenza e indicava un aspetto continuativo negativo. Rare sono anche le occorrenze del verbo diesistenza preceduto dall'infinitiva positiva, ed anche di queste Vovin ricostruisce un aspettocontinuativo.
162 Noguchi (1979: 11).163 Come già detto, も mo è una particella pragmatica, identificata in Frellesvig (2010: 132) come topic
enfatico come a dire 'anche, perfino', in opposizione a は pa > wa topic contrastivo, in Vovin (2009b:1172) come focus.
164 Iwai (1974: 354). La traduzione dal testo originale in giapponese è mia.
71
cognate object, rispetto ad altre particelle oppure rispetto a ø, non sono affatto
numerose. Ad esempio, Iwai spiega che, prendendo in esame soltanto il Man'yōshū, nel
caso di い + 寝 i + nu le occorrenze di wo sono ridotte ad appena una, mentre ben sei
sono gli esempi di mo (presente come visto anche nell'unica occorrenza nel Taketori
Monogatari), otto quelli con no, ma poteva anche accadere che non venisse espressa
alcuna particella. Iwai non approfondisce gli sviluppi successivi di questa forma, ma si
può notare che nei testi composti nel periodo seguente, in epoca Heian, questa
costruzione può essere retta anche dalla particella ni (cosa che nel Man'yoshu,
suggerisce Iwai, non accade) oppure da particelle pragmatiche o restrittive (come già
'ho dormito pensando solo a te' (Kokinshū 古今集, n. 608).
Nel caso di 音 + 泣く ne + naku, invece, nel Man'yoshu si trovano soltanto tre
occorrenze di wo su un totale di 46 esempi: in questi tre esempi wo è sempre
accompagnata da altre particelle, ovvero la particella pragmatica so (enfatica) o quella
restrittiva nomi ('soltanto'). Questa particolarità si conserva anche nei testi successivi, ad
esempio:
この 女 ねを のみ 泣きて
kono wonna ne wo nomi naki-te
questa donna suono-OGG soltanto piangere.RY-GER
物も くはず
mono mo kupa-zu
cosa-TOPEN mangiare.MZ-NEG.SS
'la donna piangeva solo rumorosamente e non mangiava nulla'
(Yamato Monogatari 大和物語, 103).
72
Nella maggior parte delle occorrenze rimanenti del Man'yoshu si vede la sola
particella nomi, spesso seguita da una seconda particella restrittiva come shi (che
esprimeva enfasi165), e si trova anche un unico esempio in cui non viene espressa alcuna
particella.
Per quanto riguarda la costruzione 香 + にほふ ka + nipopu, nel Kokinshū ad
esempio si trova un'unica occorrenza di wo (non vicina ad altre particelle come quelle
restrittive) mentre numerose sono le occorrenze di ni, e lungo tutta l'epoca Heian
l'utilizzo di ni è stato molto più frequente di quello di wo: della particella wo in questa
costruzione si trova appena una seconda occorrenza nello Shinshūi wakashū166 nel
quattordicesimo secolo.
Marcare l'oggetto della cognate object construction con wo non era quindi affatto
obbligatorio: wo alternava con ni o con particelle pragmatiche e restrittive (che però non
hanno funzione grammaticale). Il fatto che in alcune costruzioni potesse alternare con ni
è perfettamente parallelo a ciò che accadeva anche in altre costruzioni come ad esempio
quelle in cui wo identificava il moto a luogo o il moto da luogo. Le occorrenze di questa
costruzione in connessione con particelle restrittive (nomi) o pragmatiche (mo) si
spiegano invece grazie al fatto che questa forma era utilizzata appositamente per
sottolineare l'evento espresso o per dare enfasi all'azione.
Hashimoto ritiene che questa costruzione non abbia più un impiego nel giapponese
moderno, ma in realtà esistono alcune occorrenze del cognate object anche oggi, con
verbi come 踊る odoru 'ballare', 笑う warau 'ridere' e così via. Ed anche nel giapponese
moderno si nota un' alternanza ni/wo, quindi si possono incontrare sia お笑いに笑う
owarai ni warau 'ridere di cuore' sia 共感の笑いを笑う kyōkan no warai wo warau
'fare un sorriso di simpatia', ma può anche accadere che la particella non sia espressa
affatto, ad esempio ひと歩き歩く hito-aruki aruku 'fare una piccola passeggiata'167. Per
giustificare la possibile presenza di ni, è stato ipotizzato che questa particella nella
costruzione del cognate object sia utilizzata in senso avverbiale, ad indicare una azione
ripetuta, intensiva, o a sottolineare un risultato o una condizione considerevole168. Ad
165 Riguardo la particella shi, si veda Shirane (2005: 235).166 Lo Shinshūi wakashū 新拾遺和歌集 è una antologia poetica datata 1363-4.167 Matsumoto (1996: 88).168 Kondō, Kondō (1993), per una panoramica generale si veda p. 10 del loro articolo.
73
esempio 待ちに待つ machi ni matsu lett. 'aspettare dall'attesa' avrebbe il senso di
'aspettare continuamente, per lungo tempo', 'aspettare e aspettare', dove 神秘的な微笑
み を微笑 む shinpitekina hohoemi wo hohoemu 'fare un sorriso misterioso' non
convoglierebbe una sfumatura simile. È possibile che una spiegazione simile sia
ipotizzabile anche per le occorrenze della cognate object construction nel giapponese
antico.
Infine, Iwai propone che una forma come 夜を寝 yo wo nu 'dormire una notte' possa
essere interpretata come una cognate object construction mentre, come già detto,
tradizionalmente wo in questa espressione veniva interpretata come un complemento di
tempo indicante la durata temporale. Un esempio che era già stato citato è il seguente:
長き 夜を ひとりや 寝む
nagaki yo wo pitori ya ne-mu
lunga.RT notte-ACC da solo-INTER dormire.MZ-CONG.SS
'dormirò forse questa lunga notte da solo? ' (Man'yōshū 万葉集, maki 3, n. 462).
L'autore propone ulteriori due frasi dal Man'yoshu, del tutto simili all'esempio sopra
(nella seconda si omette hitori ya, nella terza hitori appare con una diversa particella
interrogativa, kamo) e ammette che queste occorrenze sono molto rare sia nel
Man'yoshu stesso che nei periodi successivi. Non avendo a disposizione esempi
differenti, la frase nagaki yo wo (hitori ya/kamo) nemu può essere interpretata
arbitrariamente in diversi modi, ma se effettivamente non ha mai mostrato alternanze
wo/ni o altre particelle enfatiche o restrittive, è difficile poter dimostrare che si tratti di
una costruzione con il cognate object piuttosto che di un utilizzo in funzione temporale
di wo. L'interpretazione di Iwai sembra quindi ingiustificata e sembra basarsi
principalmente su principi semantici.
Come ultimi due utilizzi ormai scomparsi della particella, Hashimoto169 cita da un
lato la costruzione ミ語 法 mi-gohō, di cui wo indica il soggetto ( 主語 shugo) e di cui si
discuterà in seguito (§2.5), dall'altro l'utilizzo in una subordinata oggettiva retta da verbi
come 'sentire', 'pensare', 'dire': in questo utilizzo wo marca il soggetto della frase, a cui
169 Hashimoto (1969: 113).
74
poi si postpone la particella とto. Questo impiego è simile al soggetto in accusativo di
una frase infinitiva in latino, l'Accusativus cum infinitivo, di cui proprio Hashimoto
propone un esempio in latino: Platonem ferunt, ut Pythagoreos cognosceret, in Italiam
venisse 'Dicono che Platone sia venuto in Italia per conoscere i Pitagorici' (Cicerone,
Tusculanae Disputationes L.I.39). Purtroppo, per quanto riguarda il giapponese antico,
Hashimoto riporta soltanto un esempio:
くはしめ を あり と きこして170
kupashime wo ari to kikoshi-te
bella donna-ACC essere.SS QUOT171 sentire.RY-GER
'avendo sentito che ci fosse una bella donna' (Kojiki 古事記, 2).
Vovin propone una diversa interpretazione di questa frase: come si vedrà in seguito
(§4.1.4), Vovin presenta nei suo scritti una teoria secondo cui nel giapponese di epoca
Nara la particella wo, oltre a marcare l'oggetto diretto di verbi transitivi, marcava anche
il soggetto di alcuni verbi intransitivi (ad esempio la già citata costruzione con -mi) e
sarà solo nel giapponese di epoca Heian che wo acquisirà lo status di marca del solo
oggetto diretto. Questa frase ne è un esempio, poiché qui wo ha, secondo Vovin, la
funzione di marca del soggetto del verbo intransitivo ari 'essere'. Vovin scrive che si
potrebbe anche ipotizzare che kupashime sia l'oggetto diretto del verbo 'sentire', ma
l'autore si oppone a questa interpretazione: il verbo delle frasi che precedono la
particella to appare sempre in forma conclusiva, e questa è una prova del fatto che
queste frasi debbano essere considerate indipendenti rispetto alla loro reggente172.
Un utilizzo affine a questo si troverebbe, secondo Vovin, anche nel Taketori
Monogatari:
170 Nel testo originale 久波志売遠 阿理登伎許志弖.171 La particella to qui viene segnata come QUOT “citazione” (perché è postposta a discorsi diretti e
indiretti), in molti testi (ad esempio in Vovin) viene segnata come DV, ovvero un verbo difettivo to, lacui forma infinitiva precede verbi come “dire, ascoltare, pensare” e segue la frase citata.
172 Vovin (1997: 279). Se la frase che precede la particella to deve essere considerata indipendente rispetto alla proposizione principale, in quanto il verbo occorre in forma conclusiva, si ha una differenza rispetto al latino, in cui la subordinata è al modo infinito e quindi non è indipendente dalla reggente.
'All'improvviso, poiché (le) fecero indossare la veste di piume del cielo, smise di
pensare che il vecchio fosse povero e degno di compassione'.
(Taketori Monogatari 竹取物語, XI).
Anche in questo caso, Vovin spiega che okina non può essere oggetto diretto di 思す
obosu 'pensare' (obosu è la forma onorifica di 思う omopu), perché farebbe parte di una
frase indipendente (ovvero quella marcata dalla particella to e che termina in forma
conclusiva)174.
Hashimoto Shinkichi non fa menzione di questo secondo esempio presente in Vovin,
ma allo stesso modo anche questa frase potrebbe essere associata all'Accusativus cum
infinitivo: okina potrebbe essere identificato come soggetto della subordinata seguita da
to e dal verbo 'pensare'.
Hashimoto non riporta alcun altro esempio oltre al primo citato. Vovin elenca invece
differenti esempi riguardo il verbo difettivo to in antico giapponese, ma non si rivelano
utili per chiarire meglio le due particolari occorrenze nel Kojiki e nel Taketori, dato che
wo compare solo nella frase proposta anche da Hashimoto (delle altre frasi, alcune
173 Nella edizione critica in bibliografia羽衣を pa-goromo wo appare non marcato da wo, 羽衣うち着
せ pa-goromo uti-kise-, mentre nel testo citato da Vovin appare marcato. Non è questa occorrenza cheè in discussione però, dato che 羽衣 pa-goromo è chiaramente l'oggetto diretto di kiseru.
174 Vovin (2003: 68).
76
hanno soggetto sottinteso, altre hanno soggetto marcato con la particella di topic pa,
altre presentano wo ma si spiega grazie alla presenza della costruzione -mi). Per quanto
riguarda il giapponese di epoca Heian, Vovin riporta altri tre esempi simili, in cui wo
marca il soggetto della subordinata retta da omofu 'pensare', affermando che questi sono
rari casi in cui wo veniva ancora impiegato come soggetto di verbi intransitivi inattivi,
come accadeva in giapponese antico. L'autore scrive che in questo tipo di subordinate,
già in epoca Heian, era molto più comune marcare il soggetto con le particelle ga o no,
quindi le occorrenze di wo sarebbero meri retaggi di un utilizzo antico. A causa della
scarsità di esempi (anche se Hashimoto definisce frequente questo utilizzo in epoca
Nara ma più raro in epoca Heian), non è semplice esprimere ulteriori considerazioni,
dato che Hashimoto e Vovin sono gli unici due autori a studiare le occorrenze di wo in
subordinate di questo tipo.
Le differenti funzioni grammaticali e concrete della particella wo, in conclusione,
sono quindi: espressione dell'oggetto diretto (ma la sua espressione non è obbligatoria,
come visto: secondo alcuni studiosi l'oggetto deve essere specifico, mentre secondo altri
studiosi si tratterebbe del paziente e non dell'oggetto), del moto per luogo, del moto da
luogo, del moto a luogo (solo in connessione con alcuni verbi particolari), del tempo
continuato, utilizzo come accusativo dell'oggetto interno, espressione del soggetto in
una subordinata oggettiva retta da to, costruzione in -mi (§2.5).
Yamada diede una definizione generale riguardo l'utilizzo della particella wo
scrivendo che “veniva utilizzata per indicare ciò che fa da obiettivo del tragitto
dell'azione”175. In questa sua definizione si possono sicuramente includere i due utilizzi
che sopravvivono ancora oggi della particella wo, ovvero quelli di marca dell'oggetto e
di espressione del moto per luogo.
Come si è visto invece, nelle funzioni di moto da luogo, di cognate object e con
verbi come 'chiedere', 'pregare', 'incontrare', wo già alternava con altre particelle nel
giapponese antico e la situazione non appare molto mutata nel giapponese moderno.
L'impiego come marca del soggetto in una subordinata retta da to e un verbo come
'pensare' o 'dire' è scomparso in epoca moderna, ed allo stesso modo – come si vedrà –
la costruzione in -mi, in cui la maggior parte degli studiosi concordano nel dire che wo
175 Yamada è citato in Konoshima (1966: 61). La traduzione è mia.
77
marchi il soggetto, continuò ad avere rari utilizzi nelle poesie di epoca Heian, ma cadde
in disuso poco dopo. Anche l'utilizzo di wo come marca del tempo continuato sembra
essere scomparso. Dopo il periodo Heian, gli usi della particella wo si restrinsero
ampiamente.
Come si è visto, molte delle funzioni concrete di wo, oltre chiaramente alla sua
funzione grammaticale primaria, sono comparabili con quelle del caso accusativo delle
lingue indoeuropee: è quindi comprensibile il fatto che molti studiosi, non estranei alle
lingue europee, abbiano identificato wo come “particella dell'accusativo”. Altri studiosi
hanno invece, forse giustamente, tentato di prendere le distanze, come già detto, da
questa dicitura, affermando che la particella in questione ha impieghi ben più ampi
dell'accusativo: Konoshima scriveva che la particella wo non esprimerebbe il caso
accusativo in quanto essa sarebbe impiegata anche in funzione temporale e locativa,
cosa che, a parer suo, l'accusativo delle lingue indoeuropee non farebbe. Quindi questo
tentativo, pur apprezzabile, di affrancarsi dall'etichetta tradizionale viene minato dal
fatto che autori come Konoshima non sembrano avere molta familiarità con le lingue
indoeuropee.
Sia per quanto riguarda wo sia per le altre particelle, si deve sempre tener presente
che, se pure si vogliano utilizzare le diciture “accusativo”, “dativo” o “nominativo”,
queste etichette nascono e sono quindi legate alla tradizione occidentale (greca, in
origine) e quindi possono non coprire tutte le funzioni delle particelle giapponesi, come
afferma (con presupposti errati) Konoshima e come è stato già visto anche nel caso di
ga (§1.2.3), e possono anche includere utilizzi differenti, che le particelle giapponesi in
questione non hanno.
2.1.3 Criteri sintattici per riconoscere la particella grammaticale wo
Come si è già detto, in diversi casi non è chiaro se la particella wo in una
determinata frase possa essere identificata come una particella avente funzione
grammaticale (kaku joshi), interiezionale (kantō joshi) o altra funzione: poiché
raramente nei diversi studi si applicano criteri formali, la diversa interpretazione spesso
dipende da una scelta soggettiva e arbitraria da parte dello studioso.
78
Kondō è forse l'unico studioso a categorizzare le diverse occorrenze di wo dal punto
di vista sintattico, riuscendo quindi a stabilire criteri molto rigorosi per la
classificazione. Come già accennato e come si noterà nelle pagine che seguono, l'autore
è fermamente convinto che non si tratti di un'unica particella wo a cui attribuire
differenti funzioni, ma di diverse particelle omofone, la cui origine comune non è mai
stata dimostrata: sarà dato risalto a questa idea dell'autore nel seguire la sua spiegazione.
Innanzitutto, Kondō considera wo una particella grammaticale quando è presente
uno yōgen (predicato che deve essere flesso, come già visto), a cui collegare un taigen
(sostantivo, ma anche una frase nominalizzata, detta juntai) che possa fungere da
oggetto, che viene marcato da wo176. Kondō sembrerebbe qui riferirsi soltanto alla
funzione grammaticale principale della particella wo, ovvero quella di marcare l'oggetto
diretto, ma – come si vedrà – ne riconosce lungo il testo anche le funzioni concrete.
Kondō nota alcune differenze nella distribuzione fra la particella grammaticale wo e
gli altri tipi di particella wo (wo interiezionale, wo finale). Una prima differenza che
l'autore identifica è che la particella grammaticale può essere seguita da altre particelle
come quelle pragmatiche, restrittive o interiezionali, a differenza degli altri tipi di wo
che invece non possono essere seguiti da queste particelle. Tale caratteristica di poter
essere accompagnata da altre tipologie di particelle è riscontrabile anche nella altre
particelle grammaticali come ni o ga, mentre generalmente le particelle interiezionali e
finali (come や ya, し shi, ね ne) non possono essere seguite da particelle pragmatiche
o restrittive. Un esempio è la forma を ば woba, utilizzata per porre enfasi
sull'oggetto177: Vovin la identifica come un'occorrenza della marca dell'oggetto wo
seguita dalla particella di topic pa, era già comune nei senmyō e il suo utilizzo divvene
sempre più frequente nel giapponese classico178.
妹 をば 見ず
imo wo-ba mi-zu
amata- OGG-TOP vedere.MZ-NEG.RY
'non vedere l'amata' (Man'yōshū 万葉集, maki 15, n. 3739);
'gioire vedendo la forma bianca' (Senmyō 宣命 46, 3).
Le particelle che più comunemente seguono la particella grammaticale wo sono
appunto la particella di topic pa (woba), la particella pragmatica mo, quella enfatica shi,
quella interrogativa o esclamativa ka, ma anche le restrittive dani, nomi, sura.
Questo criterio permette di riconoscere come particelle grammaticali una serie di
occorrenze che spesso erano state interpretate differentemente. Un esempio era già stato
visto in Konoshima (§ 2.1.2): lo studioso aveva analizzato alcune occorrenze in cui wo
compariva seguita dalla particella restrittiva dani o da quella di focus zo come
occorrenze di una particella interiezionale, ma questo contravviene al primo criterio di
Kondō.
La seconda caratteristica notata da Kondō è che la particella grammaticale wo può
trovarsi all'interno di proposizioni in forma attributiva (RT), quando questa forma viene
utilizzata come modificatore dei sostantivi: anche questa caratteristica è condivisa dalle
altre particelle grammaticali come ga o ni, ma non dalle particelle interiezionali o finali.
Ad esempio:
高佐士野 を 七 行く をとめども
Takasaziino wo nana yuku wotome-domo
Takasajino-PART sette andare.RT fanciulla-PLUR
'le fanciulle che in sette vanno per Takasajino' (Kojiki 古事記, 15).
La particella wo in questa frase chiaramente è utilizzata nella funzione concreta
dell'espressione del moto per luogo.
Infine, l'autore elenca gli elementi che nel giapponese antico potevano precedere
questa particella grammaticale e nei capitoli seguenti del suo articolo mette a confronto
questo elenco con quello stilato per le altre tipologie di particella wo. La particella wo in
funzione grammaticale poteva seguire: sostantivi (taigen); base attributiva del verbo
80
seguita da un nominalizzatore (RT+koto); una costruzione denominata ク語法 ku-gohō,
utilizzata anch'essa per nominalizzare un verbo (ad esempio il verbo す su 'fare', odierno
する suru, diviene すらく suraku, costruzione molto comune ad esempio nel Taketori
Monogatari nella forma 言はく ipaku, da 言ふ ipu > iu, 'dire'); due tipologie di frasi
nominalizzate anch'esse in forma attributiva, denominate 作用性準体 sayōsei juntai e
形状性準体 keijōsei juntai. Purtroppo Kondō non spiega esattamente cosa queste due
espressioni significhino, ma scrive soltanto che nel primo caso si tratta di “parole
declinabili (yōgen) che vengono sostantivizzate”, mentre nel secondo caso “un qualche
sostantivo viene omesso”179. Entrambe sono appunto frasi nominalizzate che fungono da
oggetto diretto della frase, ma si differenziano in base al pronome che deve essere
sottinteso: nel primo caso si sottintende こと koto '(il) fatto (che)', nel secondo 者 mono
'persona'. Un esempio di keijōsei juntai è180:
友 の 遠方 より 訪れたる を もてなす
tomo no enpō yori otozure-taru wo motenasu
amico- SOGG lontano-PART far visita.RY-PASS OGG accogliere.SS
'accogliere l'amico che ha fatto visita da lontano'.
Secondo Yoshimura e Nashina, in questo caso, si deve sottintendere mono e rendono
la frase in modo più esplicito come 友が遠くから訪ねてきてくれた (者) をもてな
す tomo ga tōku kara otozunete kite kureta (mono) wo motenasu 'accogliere (la persona
che è) l'amico che ha fatto visita da lontano'. Il sostantivo che viene modificato dalla
subordinata il cui verbo è in forma attributiva non viene espresso apertamente, si deve
quindi sottintendere mono, 'persona'. Vediamo invece un esempio di sayōsei juntai:
友 の 遠方 より 訪れたる を 喜ぶ
tomo no enpō yori otozure-taru wo yorokobu
amico-SOGG lontano-PART far visita.RY-PASS OGG gioire.SS
'gioisco che l'amico sia venuto a far visita da lontano'.
179 Kondō (1980: 56).180 Gli esempi che seguono sono presi da Yoshimura, Nashina (2004: 57), si veda questo articolo per
ulteriori esempi.
81
I due autori anche in questo caso aiutano il lettore spiegando la frase esplicitamente:
友が遠くから訪ねてきてくれた (こと) を喜ぶ tomo ga tōku kara otozunete kite
kureta (koto) wo yorokobu 'gioire (del fatto che) l'amico sia venuto a far visita da
lontano'.
Questi due tipi di frasi nominalizzate possono essere seguite soltanto da wo kaku
joshi e non dalle altre tipologie di particelle wo.
Il seguente è uno schema riassuntivo degli elementi che possono precedere la
particella grammaticale wo nei testi principali del giapponese antico, lo schema è stato
modificato dal testo di Kondō181:
2.2 La particella wo in funzione di particella interiezionale
Molti studiosi classificano diverse occorrenze di wo come una particella
interiezionale (kantō joshi)182, ma, come si è già detto più volte, non vi è assolutamente
un accordo su quali occorrenze siano effettivamente interpretabili come interiezionali e
quali non lo siano.
In linea generale possiamo distinguere tre differenti posizioni fra gli studiosi. Da un
lato si trovano autori, principalmente giapponesi, che ritengono che wo come particella
grammaticale sia nata successivamente e tutte le occorrenze di wo nel giapponese antico
181 Kondō (1980: 56). L'autore riporta il numero di occorrenze per ogni testo che ha preso in esame, persemplificazione qui si riportano soltanto le occorrenze nei testi principali: Kojiki, Nihonshoki, Fudoki,Man'yōshū, Senmyō e Norito.
182 Anche l'utilizzo interiezionale di wo è affine all'accusativo di alcune lingue indoeuropee come illatino, in cui con questo caso si esprimevano le esclamazioni, come in mē miserum.
82
Fig. 2: Distribuzione di wo in funzione grammaticale
debbano essere classificate come interiezionali: come si vedrà (§3.1; §3.2), questa è la
posizione fra gli altri di Matsuo e Oyama. All'estremo opposto, rari studiosi che
interpretano la maggior parte delle occorrenze di wo in antico giapponese in funzione
grammaticale (o concreta), e riconoscono solo poche incontrovertibili occorrenze di una
funzione interiezionale di wo nei testi più antichi: Vovin sostiene fermamente questa
posizione, ma anche Kondō riconosce un numero davvero scarso di wo interiezionali
nella lingua antica. Una teoria intermedia è supportata da studiosi come Hashimoto, che,
pur riconoscendo l'origine interiezionale della particella grammaticale wo, identificano
molte occorrenze di entrambi gli utilizzi, distinguendo gli impieghi di wo come
particella grammaticale e quelli come particella interiezionale sia nel periodo antico che
nel periodo classico: questa posizione intermedia permette di interpretare ogni
occorrenza di wo in modo differente183. La particella interiezionale viene quindi
generalmente divisa in modo netto (ma non condiviso fra tutti gli studiosi) dalla
particella grammaticale, anche se alcuni autori riconoscono occorrenze che oscillano fra
la particella grammaticale e quella interiezionale184.
Shirane afferma che wo, come particella interiezionale, può posizionarsi sia al centro
di frase che alla fine, segue sostantivi, altre particelle, forme attributive o imperative del
verbo, e indica esclamazione o enfasi185.
Alcuni degli studiosi che ritengono che wo come particella grammaticale abbia avuto
origine da quella interiezionale (la posizione che qui è stata definita intermedia) credono
anche che l'origine della stessa particella interiezionale sia una interiezione
indipendente wo, che si trova sia nei testi più antichi, sia nel periodo Heian: lo sviluppo
teorizzato sarebbe dunque da una interiezione ad una particella interiezionale, e da
quest'ultima ad una particella grammaticale186. Hashimoto Shinkichi spiega che wo
veniva utilizzata come particella enfatica nel periodo Nara, e tale uso continuò lungo
tutto il periodo Heian: questa particella esprimeva un forte coinvolgimento emotivo e
183 Matsuo (1938: 1403); Oyama (1958: 118). Vovin (2009b: 1273); Kondō (1980: 59). Hashimoto(1969: 118) appoggia la teoria dell'origine interiezionale, allo stesso modo Konoshima (1966: 62-7),fra gli studiosi occidentali Aston (1904: 113) e Samson (1928: 235); Shirane (2005: 187-8) ritiene chewo compaia sin dai primi testi sia come particella grammaticale che come particella interiezionale.
184 Si veda Konoshima (1966: 63) per diversi esempi.185 Shirane (2005: 253).186 Aston (1904: 113-5); Sansom (1928: 235-6).
83
spesso veniva utilizzata per introdurre una pausa nel discorso187. L'autore aggiunge che,
una volta scomparso questo utilizzo di wo, la particella venne sostituita in questa
funzione dal costrutto ものを monowo, formato dal sostantivo もの mono (già
utilizzato anticamente per inserire una pausa nel discorso) e la particella interiezionale
を wo: questo costrutto venne utilizzato come congiunzione fra due frasi o alla fine di
un periodo (§2.4).
Come detto, non è semplice trovare occorrenze di wo come particella interiezionale
sulle quali tutti gli studiosi siano concordi: uno degli esempi più famosi e che viene
interpretato in modo diverso da studioso a studioso riguarda la prima canzone del
Kojiki.
八雲 立つ 出雲 八 重 垣
ya-kumo tatu idumo ya- pe- gaki
otto nuvola alzarsi.RT Izumo otto-CLASS-recinzione
妻 籠み に 八 重 垣 作る
tuma- gomi ni ya- pe- gaki tukuru
moglie-ritirarsi(NMLZ)- LOC otto-CLASS-recinzione costruire.SS
その 八 重 垣 を
sono ya- pe- gaki wo
quella otto-CLASS-recinzione PART
'costruisco una ottuplice recinzione, in cui mia moglie si ritiri, una ottuplice
recinzione in Izumo dove si alzano otto nuvole, quella ottuplice recinzione'
(Kojiki 古事記, 1).
Le interpretazioni della particella alla fine della poesia non sono affatto univoche.
Aston ritiene che wo in questa frase sia una interiezione esterna, come a dire “oh, quella
ottuplice recinzione!”, ed anche Samson condivide questa interpretazione. Nella
tradizione giapponese in questa frase wo viene interpretata come una vera e propria
particella interiezionale, mentre Konoshima ne riconosce un utilizzo che oscilla fra la
particella interiezionale e quella grammaticale. Vovin invece identifica questa
187 Hashimoto (1969: 178; 209).
84
occorrenza come un utilizzo grammaticale della particella: ci troviamo di fronte ad un
esempio dell'uso anaforico del dimostrativo sono, che si riferisce alla recinzione
menzionata precedentemente già due volte, e wo funge da marca dell'oggetto
'recinzione' 垣 kaki che il soggetto sottinteso in prima persona sta costruendo 作る
tukuru188.
Anche esempi riportati da un unico autore (su cui autori diversi non hanno mai
dibattuto) possono essere interpretati in maniera non univoca. Un esempio che riporta
solo Hashimoto, che altri studiosi non hanno discusso, è il seguente:
possibile infatti che questa sia una occorrenza della particella grammaticale wo nella sua
funzione concreta di marca del moto per luogo, in cui wo sia riferito al sostantivo
'campi' e connesso con il verbo 'andare': se così non fosse, si deve necessariamente
sottintendere un luogo verso cui o attraverso cui andare (moto a o moto per luogo), ma
la presenza di wo, una delle cui funzioni concreta principali è proprio quella di
esprimere il moto per luogo, può orientare fortemente verso la prima interpretazione.
2.2.1 Criteri sintattici per riconoscere la particella interiezionale wo
Kondō ritiene che la particella interiezionale wo sia molto rara in letteratura, e
compaia soltanto in alcuni waka del Man'yōshū (poco più di una decina in tutto)189.
Anche per quanto riguarda questa particella enfatica, l'autore identifica alcuni criteri
sintattici per poterne senza dubbio alcuno riconoscere le occorrenze. Secondo lo
studioso, la particella interiezionale segue sempre una forma sospensiva del verbo
oppure altre particelle come ni oppure to, e non è mai utilizzata a fine frase (questo
quindi permetterebbe di escludere a priori esempi molto discussi come sono yapegaki
wo 'quella ottuplice recinzione' §2.2). Un secondo criterio è il seguente: la frase in cui si
trova questa particella presenta sempre alla fine una forma imperativa del verbo, o in
alternativa può terminare con particelle che esprimono desiderio, oppure con un
predicato seguito dalla forma di fine frase dell'ausiliare desiderativo/congetturale む mu.
Ad esempio:
三枝 の 中 に を 寝む
sakikusa190 no naka ni wo ne-mu
sakikusa-COMP mezzo-LOC PART dormire.MZ-DES.SS
'vorrei dormire fra (voi) come un sakikusa' (Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 904);
189 Kondō (1980: 57). Giova ripetere ancora una volta che l'autore ritiene che la particella interiezionalewo sia semplicemente una particella differente rispetto a quella grammaticale, e non si tratti difunzioni differenti di un'unica particella.
190 Sakikusa è una pianta, non è chiaro a che pianta si alluda precisamente ma è evidente dal contesto cheil suo gambo si divida in tre. Vovin lo traduce come “three stems grass”, si veda Vovin (2011: 169).
86
夜 の 夢に を つぎて 見えこそ
yoru no ime ni wo tugi-te mi-e-koso
notte-ATTR sogni-LOC PART seguire.RY-GER vedere-PASV.RY-BEN-IMP
'di grazia, continua ad apparire nei miei sogni notturni'
(Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 807).
Entrambe le frasi sono proposte come esempio sia da Kondō che da Vovin: entrambi
gli studiosi ritengono che wo in funzione di particella interiezionale sia molto rara nei
testi di epoca Nara da loro studiati191, e infatti Kondō riporta esplicitamente solo sei
esempi della particella interiezionale wo (ma riconosce l'esistenza di almeno 13
occorrenze in tutto il corpus da lui studiato), Vovin soltanto quattro (e scrive
espressamente che solo questi quattro sono esempi incontrovertibili di un utilizzo
enfatico di wo). Tre dei sei esempi di Kondō sono confermati anche da Vovin: nei
quattro esempi riportati da Vovin della particella wo utilizzata con funzione enfatica nel
Man'yōshū, wo appare dopo la particella del locativo ni (come infatti accade nelle due
frasi sopra), ma vista la scarsità di materiale, Vovin afferma che rimane difficile poter
stabilire la funzione della particella enfatica wo sulla base di queste sole quattro
occorrenze192. L'unico esempio che Vovin cita e che non si trova in Kondō rispecchia
comunque i criteri posti da quest'ultimo:
八 つ 代 に を いませ 我が 背子
ya- tu yo- ni wo imase wa-ga seko
otto-CLASS generazioni-LOC PART esistere(HON).MR io-ATTR fratello
'fratello mio, vivi per otto generazioni!' (Man'yōshū 万葉集, maki 20, n. 4448).
In questa frase la particella esclamativa segue la particella ni (come richiesto sia in
Kondō sia in Vovin) e si trova in una frase che si conclude in forma imperativa. Vovin
spiega che si potrebbe esser tentati di interpretare la particella wo, nelle quattro frasi che
cita, come una particella grammaticale, ma purtroppo non spiega precisamente come
191 Come si vedrà nel Cap. 3, nell'epoca successiva, l'epoca Heian, si riconoscono invece un grandissimonumero di occorrenze della particella wo in funzione interiezionale.
192 Vovin (2009b: 1273).
87
interpretare questa sequenza formata dalla particella del locativo ni e da wo. È proprio
però quest'ultimo esempio a non consentire questa interpretazione: in questa frase wo
compare accanto al verbo di esistenza, e questo non permette di identificare questa
particella come una marca di “accusativo”193. Come si è già visto, però, l'utilizzo della
particella wo nella sua funzione concreta di esprimere il tempo continuato si trova anche
con verbi di esistenza, benché raramente: ne sono già stati discussi alcuni esempi
precedentemente, come 日を[...] をれば pi wo [...] woreba 'stare [...] per tutto il giorno'
(§2.1.2). Se Vovin riuscisse davvero a dimostrare che tutti gli altri esempi da lui citati
sono connessi ad occorrenze della particella grammaticale wo (quindi alla particella
come marca dell' “accusativo”), si potrebbe effettivamente affermare che non esistono
occorrenze nel Man'yoshu in cui la particella wo sia utilizzata soltanto in funzione
esclamativa senza alcuna funzione grammaticale o concreta.
Alcuni esempi che Vovin spiega come occorrenze di wo come particella
grammaticale sono infatti interpretati differentemente da Kondō. Ad esempio la frase
'vieni a cantare qui vicino!' (Man'yōshū 万葉集, maki 20, n. 4438).
Kondō identifica la particella in questa frase come una particella interiezionale, e
stessa interpretazione si trova anche in Hashimoto, Motohashi e Shibatani194. Vovin
conferma che la posizione tradizionale ricostruisce questa occorrenza di wo come una
particella enfatica ma propone una diversa interpretazione: dato che non si trova alcun
altro esempio attendibile di desinenza infinitiva dell'aggettivo -ku195 seguita da wo
193 Come già notato precedentemente, Vovin, come tanti altri studiosi, definisce le diverse particellesecondo la terminologia dei casi delle lingue occidentali. Un elemento che deve essere sottolineatoperò, è che Vovin non cita mai la funzione esclamativa che nelle lingue indoeuropee antiche può avereil caso accusativo, ed è per questo che, nel suo studio, se una determinata occorrenza deve essereinterpretata come esclamativa, questo esclude la sua interpretazione come “caso accusativo”, cosa nonnecessariamente vera (come si vedrà §3.4).
194 Hashimoto (1969: 117); Motohashi (1989: 45); Shibatani (1990: 342).195 Per quanto riguarda la flessione dell'aggettivo in antico giapponese, si veda Vovin (2009b: 429 ss.),
ma anche Frellesvig (2010: 80-90).
88
enfatico, Vovin identifica questo wo come una occorrenza di particella grammaticale
connessa al verbo di moto 'venire'. L'aggettivo sarebbe dunque stato nominalizzato, cosa
che, seppur raramente, può accadere anche in antico giapponese196.
Il terzo criterio proposto da Kondō è che la particella wo come particella
interiezionale non può trovarsi in proposizioni in forma attributiva e frasi nominalizzate
(juntai), né può essere seguita da altre particelle: queste due possibilità sono invece
realizzabili quando la particella wo ha la funzione di marcare l'oggetto, come già visto.
Oltretutto, la particella interiezionale wo si trova sempre immediatamente prima di un
verbo o un aggettivo: questa è una caratteristica unica della particella interiezionale wo,
non condivisa dalle altre tipologie di wo.
L'unica eccezione a questi criteri riportata dall'autore è una costruzione in cui una
forma imperativa del verbo è seguita dalle due particelle wo e to (MR+wo+to), in cui
wo si presenta subito dopo un verbo (e non prima). Vengono riportati tre esempi molto
simili, in due frasi il costrutto è seguito dal verbo 呼ぶ yobu 'chiamare', 'dire', nella terza
frase il verbo è sottinteso: sembrerebbe, spiega l'autore, una costruzione ormai
codificata e non produttiva, infatti non se ne trovano altri esempi.
船 渡せ を と 呼ぶ 声
funa- watase wo to yobu kowe
nave-trasportare.MR ENF QUOT chiamare.RT voce
'una voce che diceva di trasportare con la nave'
(Man'yōshū 万葉集, maki 10, n. 2072).
Questa, secondo Kondō, sarebbe una particolare occorrenza di particella
interiezionale, che differirebbe dalla particella finale in quanto non esistono occorrenze
di wo come particella finale seguita da to, ed inoltre la particella finale, se posta dopo il
verbo – come si vedrà – segue una forma attributiva e non imperativa. Purtroppo Vovin
non cita questi esempi nei suoi testi, quindi non è sicuro quale interpretazione dia a
queste occorrenze di wo.
Anche in questo caso, per chiarezza si riporta lo schema proposto da Kondō197 sulla
196 Vovin (2013: 208).197 Kondō (1980: 57).
89
distribuzione di wo come particella interiezionale, eccezion fatta per il costrutto
MR+wo+to:
Per poter identificare, in conclusione, un'occorrenza della particella interiezionale
wo, questa deve quindi rispecchiare, secondo Kondō, i seguenti criteri: deve seguire una
forma sospensiva del verbo (RY) o altre particelle (ni, to, tutu) – definiti “elementi
precedenti” nella tabella – e il verbo alla fine della frase deve essere in forma imperativa
(MR) oppure seguito dall'ausiliare congetturale mu, o una forma desiderativa. Come si
nota, le occorrenze della particella interiezionale wo sono soltanto 13, ed infatti grazie
alla sua ricerca rigorosa legata ai criteri sintattici, l'autore riesce ad escludere molte
occorrenze che tradizionalmente erano state interpretate come interiezionali.
Si noti la discordanza fra i due studi di Kondō e di Shirane riguardo la
distribuzione di wo come particella interiezionale. In Shirane, wo interiezionale
seguirebbe sostantivi, altre particelle o forme attributive del verbo e potrebbe essere
utilizzata sia al centro che alla fine della frase; secondo Kondō, seguirebbe particelle
oppure forme continuative del verbo e non occorrerebbe mai in finale di frase.
Questo può essere forse spiegato grazie al duplice valore che Shirane attribuisce alla
particella interiezionale: essa potrebbe esprimere enfasi oppure esclamazione.
Come esempio di occorrenze in cui wo come particella interiezionale esprimerebbe
enfasi, Shirane propone una frase che presenta wo al centro di frase, preceduto dal verbo
見つけて mitukete, formato dalla base continuativa e la particella te (rispecchiando
90
Fig. 3: Distribuzione di wo in funzione interiezionale
quindi i requisiti di Kondō). Questo esempio è affine a quello proposto da Hashimoto
precedentemente. Si deve oltretutto notare che, benché Kondō asserisca che le
occorrenze della particella interiezionale siano un numero molto ridotto, l'autore si
riferisce soltanto alle prime fonti di epoca Nara, ma questo, come si vedrà, non è
necessariamente vero per l'epoca Heian (periodo in cui venne scritto il testo da cui
Shirane cita l'esempio).
いかで なほすこし ひがごと
ikade nafo sukoshi figagoto
in qualche modo un poco errore
見つけて を やまん
mituke-te wo yama-n
trovare.RY-GER PART finire.MZ-CONG
'voglio trovare in qualche modo anche il minimo errore e porvi una fine'
(Makura no Sōshi 枕草子, XXIII 19: 62).
La particella interiezionale di Shirane, quando esprime enfasi come in questo
esempio, corrisponde quindi perfettamente alla descrizione della particella
interiezionale di Kondō: segue un verbo in forma continuativa e il verbo di fine frase è
seguito dall'ausiliare congetturale/desiderativo mu.
Dall'altro lato questa particella potrebbe esprimere esclamazione, ed in questo caso
Shirane riporta due esempi in cui wo è presente alla fine della frase. Uno di questi è il
seguente:
つひに 行く 道 と は かねて
tupini yuku miti to pa kanete
alla fine andare.RT strada QUOT TOP in precedenza
聞きしかど 昨日今日と は
kiki-shika-do kinopu kepu to pa
sentire.RY-PASS.IZ-CONC ieri oggi QUOT TOP
91
思はざりし を
omopa-zari-shi wo
pensare.MZ-NEG.RY-PASS.RT PART
'anche se ho sentito in precedenza che alla fine (questa è) la strada da prendere, non
avrei mai pensato che sarebbe stato ieri o oggi' (Ise Monogatari 伊勢物語, CXXV).
La particella interiezionale wo, in funzione esclamativa, di Shirane appare più vicina
ad una particella finale: la particella finale segue la forma attributiva del verbo e si trova
generalmente alla fine della frase.
2.3 La particella wo in funzione di particella finale
Generalmente alla particella wo non viene attribuita anche la funzione di
particella finale: come è già stato detto (§1.1.1), le particelle finali sono così denominate
a causa della loro posizione obbligata alla fine della frase e hanno una funzione
principalmente esclamativa, enfatica, desiderativa o proibitiva.
Kondō è uno dei pochi autori a classificare wo anche come particella finale198, ma –
come si vedrà – le occorrenze che lui classifica come occorrenze di particella finale
vengono interpretate come funzioni diverse della particella wo (principalmente una
funzione di congiunzione) da altri autori.
2.3.1 Criteri sintattici per riconoscere la particella finale wo
Kondō spiega che questa particella si presenta in frasi in cui non esiste un
predicato alla fine della frase a cui collegarla, ma si trova un sostantivo o una forma
attributiva del verbo, che precedono questa particella, con cui essa può essere
connessa199. Segue generalmente quindi forme attributive del verbo (RT), sostantivi o
forme attributive seguite dal sostantivo mono (RT+mono): delle tre possibilità,
198 Un altro studioso a farlo è, come già visto (§1.1.1), Tokieda Motoki.199 Kondō (1980: 54). Come già sottolineato più volte, l'autore ritiene che le differenti funzioni della
particella wo debbano essere intese come tre particelle diverse, di cui non è mai stata dimostrataun'origine comune: è per questo che, nel seguire il suo studio, si parla di una particella finale wo e nondi una funzione finale della particella wo.
92
quest'ultima è quella più frequente.
Il costrutto mono+wo viene inteso da Vovin come una congiunzione concessiva: nei
testi antichi si trovano anche rare occorrenze del solo sostantivo mono, in questa
funzione, e a questo sostantivo sarebbe stata aggiunta successivamente la particella
'benché se l'autunno passerà, potremo incontrarci, (mi chiedo) perché debba
addolorarti così che (il tuo respiro) si innalzi come nebbia'
(Man'yōshū 万葉集, maki 15, n. 3581).
Si notano quindi alcune differenze rispetto alla particella grammaticale wo:
quest'ultima si trova più frequentemente preceduta da un sostantivo, mentre la particella
finale dalla forma RT+mono; la particella grammaticale ammette i costrutti con
entrambi i nominalizzatori mono e koto, mentre quella finale ammette solo mono; infine,
la particella grammaticale può essere preceduta dalla costruzione ク語法 ku-gohō (che
permette di nominalizzare il verbo), mentre la particella finale non può.
Come la particella interiezionale corrispondente, prosegue Kondō, non può trovarsi
in frasi in forma attributiva o nominalizzata (RT o juntai), né può essere accompagnata
200 Vovin (2009b: 1138).201 Vovin (2009a: 37) glossa l'intera forma monowo come CONJ (congiunzione), mentre in Kondō è una
occorrenza della particella finale, come detto. Per diverse interpretazioni di questa poesia si veda iltesto di Vovin (qui si riporta l'analisi proposta dell'autore).
93
da altre particelle. A differenza invece della particella interiezionale, non deve trovarsi
in contesti ben definiti (si ricordi che la particella interiezionale deve essere inserita in
una frase che termini con una delle tre forme obbligate §2.2.1), e non viene utilizzata
soltanto in poesia.
La particella interiezionale wo, continua Kondō, non ha una corretta resa nella lingua
moderna, mentre la particella finale wo equivale al giapponese moderno のに noni
'benché'. Questa affermazione dell'autore lascia quindi immaginare che la particella che
lui interpreta come finale sia in realtà una particella di congiunzione: è già stato detto
che le particelle finali esprimono un valore desiderativo, proibitivo, enfatico (e infatti
non vi è un criterio netto per distinguerle dalle particelle interiezionali), mentre la
particella finale wo, così come viene analizzata da Kondō, ha una funzione di
congiunzione concessiva, che nulla ha a che vedere con le particelle finali.
Inoltre, la particella finale avrebbe una relazione molto più stretta con la frase a cui
si riferisce: nel solo Man'yōshū si trovano ben 131 occorrenze della forma monowo,
mentre in solo tre casi si legge mono202. Vovin nota però come le occorrenze di mono
come congiunzione (quindi come setsuzoku joshi) siano molto più comuni nei testi più
antichi come Kojiki e Nihonshoki, mentre monowo e forme molto simili a livello di
funzione e costruzione come monokara sono più frequenti a partire proprio dal
Man'yōshū203. Hashimoto ipotizza che wo sia stato aggiunto successivamente per
inserire un valore emotivo, e dello stesso parere è anche Shirane: in contrasto con
Vovin, quindi, i due autori credono che la particella aggiunta sia una particella
interiezionale e non grammaticale204.
Un rapido sguardo all'origine delle congiunzioni, affini per funzione e costruzione a
monowo, può far chiarezza anche sull'origine di quest'ultima. La congiunzione
monokara è formata dal sostantivo mono seguito, secondo Shirane, dalla particella di
moto da luogo kara, secondo Vovin dal sostantivo kara 'clan, relazione, natura' che
successivamente verrà grammaticalizzato nella particella omofona; monono ha origine
nel sostantivo mono seguito dalla particella attributiva (che poteva anche marcare il
soggetto) no, monoyue ha invece origine nel sostantivo yuwe > yue 'origine, causa'. Dato
che questa altre congiunzioni hanno tutte origine in sostantivi o particelle grammaticali,
appare a mio avviso più probabile che monowo abbia origine dall'uso grammaticale di
wo piuttosto che dal suo uso interiezionale.
In conclusione, Kondō nota molte differenze fra la particella finale wo e le altre
tipologie di particella wo, cosa che gli permette di classificare le tre tipologie in modo
distinto, ma quelle che lui identifica come occorrenze di una particella finale vengono
generalmente interpretate dagli altri autori come occorrenze di particelle esclamative o
di congiunzione. Ad esempio, la frase seguente:
汝 等 を 星朝 は ここだく 高く治め 賜ふ を
imashi-tati wo sumera ga mikado pa kokodaku takaku wosame-tamapu wo205
tu-PLUR-OGG imperatore- TOP molto alto.RY governare.RY-HON.RT PART
'nonostante l'imperatrice abbia governato voi con altissima (benevolenza)'
(Senmyō 宣命 18, 4).
Kondō propone questa frase come uno degli esempi nella sua discussione riguardo la
particella finale wo, mentre Vovin la cita in tutt'altro contesto, ma evidenzia come il
secondo wo abbia funzione di congiunzione concessiva206. Quella che Kondō in questa
frase identifica come una particella finale, viene interpretata da Vovin come una
particella di congiunzione, una setsuzoku joshi: Kondō infatti, nel suo articolo, non
studia affatto la particella di congiunzione, perché “nell'antichità la setsuzoku joshi non
è individuabile” e si sarebbe sviluppata soltanto successivamente207, ma le attestazioni
riportate da Vovin già a partire dal Kojiki ed anche da Iwai sul Man'yōshū dimostrano il
contrario208.
Anche in questo caso, si riporta la tabella di Kondō209 riguardo le occorrenze di wo
come particella finale:
205 La discussione riguarda questo secondo wo, non il primo in imashitati wo, che è invece unaindiscutibile occorrenza di wo in funzione grammaticale.
206 Vovin (2009b: 1108).207 Kondō (1980: 51), l'autore parla espressamente di una particella non individuabile e non di una
funzione, più recente e non ancora individuabile, di una particella già esistente, dato che – come si ègià detto – secondo l'autore esisterebbero differenti particelle wo e non una soltanto.
Come nel caso di wo nel costrutto monowo, anche per quanto riguarda la
particella di congiunzione, si hanno due differenti teorie sull'origine. Vovin afferma che
questa funzione concessiva sia legata ad un utilizzo particolare della particella
grammaticale wo, che poteva essere utilizzata dopo la forma attributiva di un verbo
fungendo da congiunzione ed aveva la caratteristica di essere utilizzata quando il
soggetto della principale e della concessiva era lo stesso212. Hashimoto invece ritiene
che l'origine di questa particella sia nella particella interiezionale wo: come già visto,
essa aveva la funzione di esprimere una sfumatura emotiva, e grazie a questa sua
funzione spesso era utilizzata per inserire una pausa nel discorso. A partire da questa sua
funzione di inserire una pausa, si sviluppò la funzione di congiunzione fra due frasi213.
2.5 Il costrutto in -mi ( ミ語法 mi-gohō)
La cosiddetta ミ 語法 mi-gohō (in inglese spesso tradotta come Mi-Usage) è una
costruzione formata da un sostantivo marcato generalmente dalla particella wo, seguito
dal tema dell'aggettivo ( 形容詞語幹 keiyōshi gokan) e il suffisso -mi.
Sostantivo + wo + Aggettivo (tema) + mi
Viene utilizzata in funzione causale, e corrisponde al giapponese moderno ので
node 'poiché'214.
Un primo esempio è il seguente:
月読 の 光 を 清み
Tukuyomi no pikari wo kiyo-mi
luna- ATTR luce- PART puro-SUFF
'poiché la luce della luna era pura' (Man'yōshū 万葉集, maki 15, n. 3599).
Il tema dell'aggettivo deve appartenere a una delle due tipologie di aggettivi del
giapponese antico (-ku e -shiku215), ad esempio l'aggettivo in -ku まねし maneshi
212 Vovin (2009b: 170).213 Hashimoto (1969: 209).214 Kōji (1988: 865).215 In giapponese antico vengono categorizzate due classi di aggettivi, quelli in -ku e quelli in -shiku, che
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'molto' che si costruisce con la forma -mi come mane-mi, e l'aggettivo in -shiku 懐かし
natukashi 'caro, prezioso' che diviene natukashi-mi. Possono chiaramente essere
aggiunti avverbi di grado all'aggettivo, ad esempio nella frase seguente è presente
l'avverbio di grado ito 'estremamente'216:
梅 の 花 いまだ 咲かなく いと 若み かも
ume no hana imada saka-naku ito waka-mi kamo217
pruno-ATTR fiori non ancora fiorire.MZ-NEG.RY troppo giovani-SUFF PART
'il fatto che i fiori di pruno non siano ancora fioriti, è perché sono troppo giovani, mi
chiedo?' (Man'yōshū 万葉集, maki 4, n. 786).
Quanto al suffisso -mi, non vi è accordo fra gli studiosi riguardo il valore che deve
essere ad esso attribuito. Viene interpretato, nel dizionario 時代別大辞典 jidaibetsu
daijiten citato da Kōji, come suffisso sospensivo o condizionale218, ma gli studi più
recenti attribuiscono al suffisso -mi un valore diverso. Frellesvig, che lo identifica come
una seconda forma infinitiva dell'aggettivo (insieme alla infinitiva più diffusa -ku),
scrive che la presenza di -mi determinerebbe una forma verbale non finita, un gerundio,
con valore causale219. Anche Vovin conferma che la sua funzione di base sarebbe quella
di un gerundio a cui si si attribuisce un valore causale, in quanto sarebbe utilizzato per
spiegare la ragione dell'azione espressa dalla frase principale, oppure un valore
consecutivo, in quanto potrebbe esprimere anche la natura consecutiva dell'azione
seguente220. Sia Frellesvig che Vovin, inoltre, riportano che questa costruzione potrebbe
fungere da verbo di una proposizione subordinata retta da verbi come 'pensare, ritenere,
non possono essere distinti grazie alla loro forma conclusiva (SS), che è la stessa in entrambe le classi,ma in base alle altre forme della flessione, in quanto negli aggettivi in -shiku i suffissi si aggiungonoal tema in -shi. Ad esempio l'aggettivo yoshi 'buono' forma la SS appunto come yoshi, mentre vuole laforma continuativa (RY) in yoku e quella attributiva (RT) in yoki: viene quindi classificato comeaggettivo in -ku. La SS dell'aggettivo ashi 'cattivo' è allo stesso modo ashi, ma la sua RT è ashiki e lasua RY ashiku, e viene quindi inserito nella classe degli aggettivi in -shiku. Si veda Frellesvig (2010:90).
216 Motohashi (2009: 288-289).217 Vovin (2009b: 1235) spiega che la particella enfatica kamo può indicare esclamazione o domanda
fatta a causa di una incertezza: Vovin infatti lo traduce come “I wonder”.218 Kōji (1988: 866).219 Frellesvig (2010: 87).220 Vovin (2009b: 485).
98
trattare' e, in questa differente funzione, la costruzione in -mi non implicherebbe più un
valore causale. Ad esempio:
いま の まさか も うるはしみ すれ
ima no masaka mo urupashi-mi sure
adesso-ATTR questo momento- TOPEN bellissimo-SUFF fare.IZ221
'trovo questo momento bellissimo' (Man'yōshū 万葉集, maki 18, n. 4088).
Non si ha ancora una spiegazione sicura della costruzione in -mi. Gli autori
giapponesi sono generalmente concordi nell'identificare il sostantivo marcato da wo
come soggetto della frase, mentre il predicato è costituito dal tema dell'aggettivo con
suffisso -mi, che si comporta nella coniugazione come un verbo 四 段 yodan
appartenente alla マ行 ma-gyō (quindi come verbi che hanno la forma di fine frase
-mu), di cui -mi rappresenta la forma continuativa222: il fatto che si tratti di una forma
continuativa sembrerebbe essere confermato anche da alcune occorrenze in cui
l'aggettivo con suffisso -mi appare seguito da ausiliari come te (che coordina due frasi) o
tutu (che indica una azione ripetuta), dato che entrambi gli ausiliari devono essere
preceduti dalla forma continuativa223. Vovin nota però che questa costruzione può anche
essere retta dal verbo difettivo to 'dire, pensare'224, e il verbo che precede to deve essere
necessariamente in forma conclusiva: questo fatto lascerebbe pensare che il suffisso -mi
non rappresenti una forma continuativa del verbo, bensì conclusiva225. Ad esempio:
くらはし 山 を さがしみ と
kurapashi yama wo sagashi-mi to
kurapashi monte- PART ripido-SUFF QUOT
'(penso che) il monte Kurapashi sia scosceso' (Kojiki 古事記, 69).
221 La forma sure è una IZ e in frase principale segnalava una esclamativa, si veda Frellesvig (2010: 55).222 Hashimoto (1969: 112-113); Kōji (1988: 865) che cita anche due dizionari di giapponese antico a
supporto della sua idea.223 Ma si veda Motohashi (2009: 293) per una diversa interpretazione di queste occorrenze.224 Vovin (2009b: 488). Come già detto, Vovin glossa to come DV, un verbo difettivo che ha una forma
infinitiva to che introduce verbi come 'dire, pensare', una forma di fine frase in cui to è utilizzato dasolo senza verbo a seguire (con il significato ugualmente di 'dire'), e una forma di gerundio to-te(Vovin 2009b: 549 ss.).
225 Motohashi (2009: 292).
99
A partire da questo utilizzo, Vovin conclude che la costruzione in -mi avrebbe avuto
una funzione di forma di fine frase nel periodo precedente all'epoca Nara, mentre la
funzione di subordinata causale sarebbe sorta solo successivamente226.
Frellesvig propone invece una diversa interpretazione dell'esempio precedente. Nel
suo studio, to in questo caso viene identificato come una forma di gerundio irregolare,
che si sostituisce al regolare te, creando una forma -mito. Quindi Frellesvig glossa la
frase precedente in questo modo227:
くらはし 山 を さがしみと
kurapashi yama wo sagashi-mito
kurapashi monte- ACC228 ripido-ACOP.GER
'essendo il monte Kurapashi scosceso'
Un elemento però non risulta chiaro nella spiegazione di Frellesvig: dato che il
valore di base che l'autore attribuisce alla costruzione -mi è quello di un gerundio, si
dovrebbe spiegare il motivo per cui il suffisso -mi reggerebbe un secondo suffisso di
gerundio e quale sarebbe la differenza fra -mi e -mito. La teoria di Vovin, secondo cui to
rappresenterebbe un'occorrenza del verbo difettivo to in forma di fine frase con il
significato di 'dire, pensare' (oppure, che dir si voglia, che si tratti della particella to, che
sottintenderebbe verbi come 'pensare, dire, ritenere') sembra a mio parere più
attendibile.
Il problema fondamentale, però, su cui si è molto discusso è il motivo per cui il
sostantivo che compare in questa costruzione sia marcato della particella wo. Anche in
questo caso, differenti teorie sono state proposte, da un lato per tentare di identificare se
la particella wo che compare nel costrutto in -mi abbia un valore grammaticale o
interiezionale, dall'altro, ammesso che la sua funzione sia quella grammaticale, per
capire se il sostantivo marcato possa essere inteso come il soggetto o come l'oggetto del
226 Vovin (1997: 278).227 Frellesvig (2010: 88-89). Frellesvig glossa -mi come ACOP, “adjectival copula” perché così definisce
tutte le desinenze aggettivali dell'antico giapponese (la conclusiva SS -shi, adnominale RT -ki,infinitiva1 RY -ku, infinitiva2 -mi etc.) a causa della loro funzione e del loro sviluppo in diacronia, checondividono in gran parte con la copula ni.
228 Frellesvig è uno degli autori che definisce wo “particella dell'accusativo”, quindi glossa le sue occorrenze come ACC.
100
costrutto.
Un primo elemento che deve essere notato, è che il sostantivo che compare in questa
costruzione può essere marcato o meno da una particella, ma se è marcato, la particella
è sempre wo. Motohashi infatti correttamente nota come alcuni casi in cui
apparentemente il sostantivo della costruzione -mi è marcato dalle particelle ga oppure
no, siano in realtà errori di interpretazione. Ad esempio:
吉野 川 行く 瀬 の 早み
Yoshino gawa yuku se no haya-mi
Yoshino fiume andare.RT corrente-GEN veloce-SUFF
しましく も 淀む こと なく
shimashiku mo yodomu koto naku
un attimo PART ristagnare.RT NMLZ NEG.RY
(Man'yōshū 万葉集, maki 2, n. 119).
Questo verso viene interpretato erroneamente come una costruzione in -mi, ovvero
una proposizione causale il cui senso sarebbe 'poiché la corrente è veloce'. Motohashi
invece suggerisce che hayami sia un sostantivo, e il verso debba essere correttamente
interpretato come 'la velocità della corrente' (preceduto infatti dalla relativa con il verbo
yuku 'andare'): la corretta traduzione sarebbe quindi 'senza alcun ristagno, come la
velocità della corrente del fiume Yoshino che corre (veloce)'229.
Secondo Hashimoto la particella wo utilizzata nel costrutto -mi marcherebbe il
soggetto, ma avrebbe il valore di una particella interiezionale e non grammaticale: lo
studioso però non sa spiegare perché si usi sempre wo e mai una vera e propria
particella di soggetto230. Kōji concorda con l'interpretazione di Hashimoto riguardo wo:
questa particella non sarebbe una particella grammaticale ma piuttosto una che esprime
enfasi, e questo comporterebbe che il sostantivo non sia marcato da alcuna particella
grammaticale, cosa che lo identificherebbe come soggetto della frase231.
229 Motothashi (2009: 289).230 Hashimoto (1969: 113).231 Kōji (1988: 865). Come già accennato, e come si vedrà in dettaglio più avanti (§4.1), la particella del
soggetto moderna ga aveva anticamente un valore attributivo e raramente veniva impiegata permarcare il soggetto, e stessa funzione aveva no. Poteva essere presente l'antica marca del
101
Diversa è invece la posizione di altri studiosi come ad esempio Shirane, che
identifica la particella wo presente in questo costrutto come particella grammaticale232.
Allo stesso modo, Kondō, applicando il suo studio rigoroso sulla distribuzione anche
alla costruzione in -mi, riesce a concludere che questa occorrenza di wo
rappresenterebbe un caso del suo uso come particella grammaticale233. Lo studio di
Kondō parte anche qui dalle forme che precedono la particella wo nelle occorrenze della
costruzione in -mi: wo è preceduta da sostantivi, forme attributive del verbo seguite dal
nominalizzatore koto, costruzioni in -ku (con funzione di nominalizzatore) e frasi
nominalizzate. Come si può notare, questo schema è assai simile a quello della
particella wo utilizzata in funzione grammaticale (§2.1.3). Inoltre, non esistono esempi
in cui, in questo costrutto, wo sia accompagnata da ni (la forma ni wo era tipica della
particella interiezionale §2.2.1), né occorrenze di mono wo (comuni invece con la
particella finale §2.3.1). La particella presente in questo costrutto sembra svolgere una
funzione grammaticale anche in quanto può precedere altre particelle come quelle
restrittive o pragmatiche (ad esempio nella combinazione wo namo), cosa che non è
permessa alle altre tipologie di particelle. Lo schema proposto dall'autore è il seguente,
ed è fortemente affine a quello, già visto, della particella grammaticale:
Ci sono anche casi in cui wo non è presente a marcare il sostantivo della costruzione
in -mi, ad esempio la frase seguente:
soggetto/agente i, ma molto più frequentemente (soprattutto in frase principale ma anche in frasesubordinata) il soggetto non era affatto marcato.
232 Shirane (2005: 161).233 Kondō (1980: 60-61).
102
Fig. 5: Distribuzione di wo nella costruzione in -mi
散ら ま く をしみ
tira- ma- ku woshi-mi
cadere.MZ-CONG-NMLZ ø dispiaciuto-SUFF
'perché si dispiace che (i fiori) sarebbero caduti'
(Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 842),
E' stato ipotizzato, scrive Kondō, che questa alternanza wo-ø dimostrasse che la
particella in questione non fosse una particella grammaticale, interpretandola – come
visto – come una particella esclamativa che può essere omessa senza modificare il senso
della frase: invece è proprio la particella nella sua funzione grammaticale ad essere
spesso sostituita da ø234. L'autore conclude che il sostantivo marcato da wo fungerebbe
da oggetto della costruzione in -mi, che deve essere interpretata come una costruzione
transitiva.
L'alternanza wo-ø viene presa in considerazione anche da Motohashi, uno degli
studiosi che riconosce un allineamento ergativo-assolutivo nel giapponese antico. Ciò
che interessa qui è che Motohashi identifica la particella wo come marca del caso
assolutivo e come tale segnalerebbe l'oggetto dei verbi transitivi e il soggetto dei verbi
intransitivi235. Questo permette a Motohashi di giustificare la presenza di wo e non di
altre particelle in questo costrutto intransitivo. Per quanto riguarda l'alternanza wo-ø
nella costruzione -mi (e per quanto riguarda anche tutte le occorrenze di wo in funzione
marca dell'oggetto), come si vedrà (§4.2) l'autore propone di legarla a parametri come
umano/inanimato, nome proprio/comune e così via ad esempio236:
234 L'alternanza wo-ø nei testi giapponesi antichi, quindi a prescindere dalla costruzione -mi, è stataoggetto, come si vedrà (§4.2), di studi recenti da parte di numerosi autori, si veda ad esempio, fra glialtri, Frellesvig (2010) e Miyagawa (1989; 2011 ).
235 Il riferimento qui è a Motohashi (2009: 284-6), ma questa non è la prima formulazione propostadall'autore: in Motohashi (1989), la teoria formulata è differente. La sua teoria sull'allineamentomorfosintattico del giapponese antico è spiegata in §4.1.2.Per quanto rigarda una panoramicasull'allineamento morfosintattico si veda §4.1.1.
236 Motohashi (1989: 125-6). L'autore dice di aver ripreso questi parametri dallo studio sulla transitivitàdi Hopper e Thompson (1980): la transitività viene interpretata come una scala basata su dieci criteriche determinano quanto una frase è transitiva. Quanti più tratti sono presenti, tanto più la frase ètransitiva. Questi criteri riguardano i partecipanti all'azione (due partecipanti o uno soltanto), lavolontarietà, se la frase è affermativa o negativa, se l'oggetto è altamente individuabile o meno (cosache dipende da una serie di altri criteri come appunto umano/inanimato, nome proprio/comune,concreto/astratto, e così via). Anche in questo caso, questo discorso può essere ricondotto al parametrodella “specificità” proposto da Frellesvig, Horn e Yanagida nella loro ultima formulazione del 2013.
'poiché la montagna è alta' 'poiché la cima del monte Fuji è alta'
(Man'yōshū 万葉集, maki 6, n. 1039); (Man'yōshū 万葉集, maki 3, n. 321).
Nella prima frase la particella wo non è richiesta in quanto il sostantivo che avrebbe
dovuto essere marcato è espresso con un nome comune, yama 'montagna'; viceversa
nella seconda frase il sostantivo è rappresentato da un nome proprio, il monte Fuji, per
cui viene marcato da wo.
L'ipotesi che, nella costruzione in -mi, wo sia una particella di caso assolutivo è
sostenuta apertamente anche da Vovin. L'autore spiega che wo, oltre a marcare l'oggetto
di verbi transitivi, marcava anche il soggetto in frasi in cui il predicato è rappresentato
da un verbo intransitivo inattivo, ad esempio proprio la costruzione in -mi, in cui il
predicato è un “quality stative verb”237: wo marca quindi quello che Haspelmath
definisce “caso pazientivo”. A differenza infatti di Motohashi, Vovin non considera il
giapponese una lingua con allineamento ergativo (perché nella teoria di Vovin wo non
marca tutti gli intransitivi ma solo un limitato numero di questi) ma, come si vedrà
(§4.1.4), una lingua che combini la tipologia attiva e quella nominativo-accusativa, con
una forte preferenza per quest'ultima.
Diversa è invece la posizione di Wrona e Frellesvig, che considerano il giapponese
antico una lingua con allineamento nominativo-accusativo ed interpretano tutte le
occorrenze della particella grammaticale wo come particella del caso accusativo238. La
presenza della particella wo nella costruzione in -mi viene giustificata dai due studiosi
come marca dell'oggetto diretto di un predicato sottinteso. Come già visto, l'aggettivo
con suffisso -mi può essere utilizzato come predicato di una frase dipendente seguita
dal verbo omopu 'pensare', ad esempio:
237 Vovin (1997: 276). Vovin preferisce questa definizione a quella più tradizionale di “aggettivo” perdifferenziare la categoria degli aggettivi giapponesi da quella degli aggettivi nelle lingue europee.
casuale che le differenti funzioni siano espresse dallo stesso morfema, e che queste
funzioni siano in qualche modo connesse fra di loro: questa è la posizione portata avanti
da Hashimoto.
Una posizione opposta, che però sembrerebbe non essere accolta in modo radicale da
nessuno studioso è quella monosemista: secondo Haspelmath, gli studiosi che
aderiscono a questa impostazione ritengono che il morfema avrebbe un significato
astratto e tutte le differenti funzioni sarebbero semplicemente date dal contesto. Questa
posizione è chiaramente presa in considerazione quando si studia ad esempio
l'accusativo occidentale (§1.2.2), che come visto ha una funzione di base grammaticale
e tutte le altre funzioni sono determinate dal contesto. Per quanto riguarda la particella
wo, soltanto due studi hanno una impostazione simile. Il primo è la recente congiunta
proposta di Frellesvig, Horn e Yanagida. Gli studiosi identificano, fra i vari usi di wo
come accusativo, quello di marca dell'oggetto, quello di marca di locativi e temporali,
quello di marca nella costruzione assolutiva -mi e quello esclamativo: vengono incluse
in questo studio sia la funzione grammaticale (kaku joshi) che la funzione interiezionale
(kantō joshi), ma non non viene però citato l'utilizzo di congiunzione. Il secondo è lo
studio di Vovin. L'autore definisce l'utilizzo come congiunzione uno “special usage” del
“marker accusativo/assolutivo” wo; per quanto riguarda invece l'utilizzo enfatico di wo,
come si è visto (§2.2), Vovin ritiene che almeno tre degli unici quattro indiscutibili
esempi di utilizzo della particella in questa funzione potrebbero essere interpretati come
un accusativo. Come si è già accennato, Vovin studia soltanto le occorrenze di wo in
funzione enfatica nel Man'yoshu, ma è nel periodo Heian che si nota un gran numero di
occorrenze di wo con valore enfatico.
Anche il valore interiezionale sembra essere in realtà riconducibile ad una funzione
della particella grammaticale wo. Come già accennato, non è raro che la stessa
espressione utilizzata per marcare l'oggetto venga anche utilizzata come esclamazione,
si veda ad esempio l'accusativo esclamativo latino. Inoltre, come è già stato sottolineato
(§1.2.3), può accadere che le particelle giapponesi non esprimano solamente un ruolo
semantico o una relazione grammaticale ma anche un valore pragmatico, e che quindi i
differenti piani siano sovrapposti (come già è stato visto con la moderna particella ga).
Si può ipotizzare, quindi, che anche wo nell'antico giapponese avesse avuto sia una
108
funzione interiezionale (che permetta di enfatizzare un determinato elemento, come un
verbo) sia una funzione che viene tradizionalmente definita grammaticale, ma – come si
vedrà in §4.2 – si tratterebbe in realtà di un valore pragmatico (essa marcherebbe solo
oggetti specifici): questo valore pragmatico potrebbe fungere da collegamento tra la
funzione interiezionale e quella definita grammaticale. Una teoria simile era già stata
proposta da Yanagida e da Kuroda244 che però ritengono che wo non avesse affatto
funzione grammaticale, in quanto secondo i due autori la marca dell'oggetto di default
sarebbe ø, ma avesse una funzione affine a quella delle particelle pragmatiche (come
koso o namo §1.1.5): i sintagmi marcati dalle particelle pragmatiche precedono i
soggetti marcati da ga/no, e anche i sostantivi marcati da wo tenderebbero a precedere
questi soggetti (l'ordine delle parole sarebbe quindi OSV). La particella wo avrebbe
secondo gli autori un'unica funzione, quella di marcare il focus (ma secondo Yanagida
potrebbe segnalare anche il topic), e comparirebbe a marcare oggetti enfatizzati che
vengono posti prima del soggetto (ordine OSV): wo avrebbe quindi una funzione
strettamente e unicamente pragmatica. Solo successivamente wo sarebbe diventata la
marca dell'oggetto di default. Si dovrebbe però spiegare perché una particella che
segnali il focus, e come tale quindi non debba necessariamente marcare l'oggetto ma
possa segnalare un focus anche su altri elementi, sarebbe poi diventata una particella
grammaticale che marchi l'oggetto diretto. È invece possibile che vi fosse già una forte
connessione fra l'oggetto e la particella wo nel giapponese antico, e si tenterà di
dimostrare questo nel Cap. 3.
Si può quindi concludere, per ora, che la posizione che Haspelmath chiama
monosemista sia probabilmente la più corretta, in quanto tutti i valori che possono
essere attribuiti alla particella wo nel giapponese antico, a partire da quello di
espressione dell'oggetto (o del paziente), quello di espressione di elementi concreti
come i complementi di luogo o tempo (che, come visto, non è affatto raro che si
esprimano con la stessa marca dell'oggetto), fino a quello interiezionale o enfatico,
possono perfettamente essere riconducibili ad un'unica particella wo, le cui funzioni
sono in parte comparabili con le funzioni dell'accusativo delle lingue indoeuropee.
244 Yanagida (2006: 47); Kuroda (2007: 22).
109
Introduzione ai Capitoli 3 e 4
La funzione originaria di wo
Le questioni che sono state principalmente dibattute, e che sono state accennate
di tanto in tanto nei due capitoli precedenti, sono due.
Un primo problema è legato alla distribuzione della particella wo nella sua funzione
grammaticale, ovvero all'alternanza wo-ø limitatamente all'espressione delle relazioni
grammaticali (escludendo quindi le funzioni concrete locative o temporali) nella lingua
antica e classica. Un primo esempio, proposto da Shibatani per mostrare questa
alternanza, è il seguente:245
古き 都 を 見れば 悲しき
puruki miyako wo mire-ba kanashiki
antica.RT capitale-OGG guardare.IZ-TEMP triste.RT
'sono triste quando guardo l'antica capitale' (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 32);
荒れたる 都 見れば 悲しも
are-taru miyako mire-ba kanashi mo
essere in rovina.RY-PASS.RT capitale ø guardare.IZ-TEMP triste.SS PART
'sono triste quando guardo la capitale in rovina' (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 33).
L'alternanza wo-ø venne notata già dagli studiosi del periodo Edo, ad esempio
Fujitani Nariakira246 ( 富士谷 成章 1738–1779), che la spiegò affermando che quando vi
fosse stata una ovvia relazione fra verbo e oggetto, la particella non sarebbe stata
utilizzata, mentre se la relazione fra l'oggetto e il verbo non fosse stata evidente, allora
245 L'esempio è stato preso da Shibatani (1990: 340). La prima frase ha il verbo in forma attributivaperché nella prima parte della poesia (qui non riportata) è presente la particella ya, che provoca lamodifica del verbo di fine frase (§ 1.1.5), mentre la seconda presenta il verbo regolarmente in formadi fine frase. Non è ben chiaro il motivo della presenza di wo nella prima frase e della sua assenzanella seconda, una possibile spiegazione è connessa con le necessità metriche del verso nelle poesiegiapponesi. Sull'alternanza wo-ø si veda §4.2, su questa coppia di frasi si veda anche §5.1.
246 Citato in Bentley (2001: 117-8).
110
si sarebbe utilizzata la particella per enfatizzare l'oggetto.
Questo fenomeno venne investigato approfonditamente nel secolo scorso da molti
studiosi, che giunsero a conclusioni molto differenti. Da un lato, Matsuo (1938), Oyama
(1958), Hiroi (1957), e sulla loro scia anche studiosi più recenti come Konoshima o
Hashimoto (di cui si è già parlato, §2.2), che ritengono che la particella wo non avesse
affatto funzione grammaticale nella lingua antica, ma avesse soltanto una funzione
interiezionale: la particella quindi non potrebbe essere classificata come particella
grammaticale (kaku joshi), sin dai primi testi, ma solo come particella interiezionale
(kantō joshi). Sarà poi a partire dal periodo Heian che, pian piano, grazie anche – come
si vedrà (§3.1) – all'influsso dei testi cinesi, la particella wo avrebbe iniziato ad essere
stabilmente utilizzata per marcare l'oggetto. Dall'altro lato, vi sono studiosi
(generalmente occidentali) che invece attribuiscono alla particella wo una funzione
grammaticale sin dai primi testi, e tentano di spiegare questa alternanza in base a fattori
differenti (di questo si è già accennato a proposito della costruzione in -mi, §2.5):
Miyagawa&Ekida (2003) ad esempio sostengono che l'alternanza dipenda dalla forma
del verbo della proposizione in cui l'oggetto compare (un verbo in forma di fine frase
permetterebbe ø, un verbo in forma attributiva richiederebbe wo); Wrona&Frellesvig
(2009) propongono una spiegazione in cui wo sarebbe la marca dell'oggetto di default e
le occorrenze di ø sarebbero spiegabili come “case drop” e dovute alla vicinanza
dell'oggetto al verbo e alla non-definitezza dell'oggetto; Motohashi (1989), similmente,
spiega che a determinare l'alternanza siano tratti come l'individuazione dell'oggetto (con
cui si distinguono gli oggetti umani e non umani, definiti e non definiti) o la modalità
della frase (affermativa o negativa, realtà o irrealtà); infine, nell'ultima riformulazione di
Frellesvig, Horn&Yanagida (2013), si propone che la presenza o assenza di wo dipenda
dalla specificità dell'oggetto (wo sarebbe presente solo in caso di oggetto specifico).
Il secondo problema è strettamente connesso al primo: ammesso che si possa
identificare una funzione grammaticale della particella wo sin dai testi antichi, non è
affatto chiaro quale sia questa funzione (di questa questione si era già accennato al
§2.1.1). Se, come ritengono alcuni studiosi, questa particella deve essere identificata
come marca dell'oggetto sin dai primi testi, non si spiega perché essa venga utilizzata
anche in costruzioni in cui wo marca quello che sembra essere il soggetto (come la
111
costruzione in -mi). Questo problema potrebbe essere risolto identificando wo come
marca del paziente nel periodo Nara (così facendo il giapponese di quell'epoca avrebbe
un allineamento attivo-stativo), come propongono altri studiosi, ma non è ben chiaro
come sia possibile che, nel periodo subito successivo, essa vada a marcare soltanto
l'oggetto (in un allineamento nominativo-accusativo), e che quindi possa esserci stato un
mutamento così repentino a livello di allineamento morfosintattico.
112
Capitolo 3
La teoria interiezionale
In questo capitolo verrà analizata la teoria di numerosi autori giapponesi, che
sostengono che la funzione grammaticale della particella wo si sia sviluppata solo
successivamente e che tutte le occorrenze di questa particella nei testi antichi debbano
essere intese come interiezionali. L'alternanza wo-ø nel marcare l'oggetto, quindi, non
dovrebbe necessariamente essere spiegata tramite fattori morfosintattici (legando la
presenza di wo a determinate forme del verbo di fine frase), oppure come un caso di
“case drop”, o legandola al fatto che wo marcherebbe soltanto gli oggetti specifici, o
come una semplice questione di scelta a discrezione dell'autore: nella lingua antica non
sarebbe esistito affatto un morfema che marcasse l'oggetto diretto, l'oggetto di default
non sarebbe stato marcato e la particella wo che poteva comparire accanto all'oggetto
avrebbe avuto una mera funzione interiezionale.
È importante notare sin da subito due fatti.
Il primo è che i più grandi sostenitori di questa teoria, Matsuo (1938), Hiroi (1957) e
Oyama (1958), partono dallo studio dei testi di epoca Heian, mentre i testi più antichi,
risalenti all'epoca Nara, non vengono discussi in modo preciso da questi studiosi, che
infatti riportano ben pochi esempi tratti da essi. Questa scelta dei tre studiosi vizia in
parte la loro discussione riguardo l'originaria funzione della particella wo, anche a causa
del fatto che il periodo Heian vede la nascita di generi letterari differenti come i
monogatari (racconti) o i nikki (diari), i cui autori, chiaramente, avevano necessità
espressive completamente diverse rispetto a quelle degli autori delle poesie del
Man'yoshu o i compilatori degli editti imperiali (senmyō) di epoca Nara. Come si vedrà,
infatti, una possibile spiegazione del valore emotivo che viene da questi studiosi
attribuito alla particella wo nel periodo Heian, è proprio legata a questo problema.
Il secondo è il fatto che la discussione viene incentrata, come accennato, sulla
funzione strettamente grammaticale di wo, che gli autori giapponesi chiamano 客語表
示 kyakugo hyōji 'espressione dell'oggetto': in questa definizione non vengono inclusi
gli utilizzi più concreti di wo, come l'uso temporale o quello di moto per luogo, ma
113
soltanto appunto la funzione di marca dell'oggetto diretto247. Le funzioni concrete di
questa particella non vengono mai poste in discussione né viene mai data una
spiegazione riguardo al fatto che la stessa particella marchi elementi differenti come
locativi o temporali, funzioni in cui l'utilizzo di wo non è affatto raro, e – come visto
(§2.1.2) – in cui wo spesso alterna con altre particelle come ni o yori ma non con ø. Si
può chiaramente ipotizzare che, dato che questi studiosi affermano che wo avesse solo
ed esclusivamente una funzione interiezionale nei testi antichi, anche queste occorrenze
in funzione concreta sarebbero, secondo loro, in realtà una espressione della funzione
interiezionale di wo: se così fosse, però, wo andrebbe a sostituire, curiosamente, la
particella grammaticale (come ni) piuttosto che accompagnarla (una forma come ni wo),
come invece la particella nella sua funzione interiezionale è solita fare248. È interessante
notare che questo problema non è mai stato discusso esplicitamente da Matsuo o da
Oyama. L'unico autore, successivo però rispetto ai primi sostenitori della teoria
interiezionale, a porre questo problema è Konoshima249, che – come già visto (§2.1.2) –
interpreta tutti gli utilizzi in funzione concreta di wo come una espressione della
particella interiezionale wo, che sostituisce, appunto, la particella grammaticale
necessaria.
3.1. Lo studio di Matsuo
Il punto di partenza dello studio di Matsuo è, come accennato, l'alternanza wo-ø.
Matsuo scrive espressamente che, nelle occorrenze in cui l'oggetto non è marcato da
alcuna particella, “la relazione di caso viene espressa tramite il rapporto fra parole”250.
Sembra che l'autore stia facendo riferimento alla possibilità che i ruoli semantici in
247 Si noti che, essendo la teoria interiezionale una ipotesi non recentissima, nessun esponente ha maidiscusso riguardo la possibilità che wo marchi il paziente in un allineamento attivo-stativo, comeinvece propongono alcuni autori contemporanei, sebbene studiosi come Matsuo si chiesero il motivoper cui alcune volte wo marcasse un sostantivo che potesse essere definito come soggetto. Nellospiegare questa teoria interiezionale, quindi, nel testo si farà riferimento soltanto alla funzionegrammaticale di wo come marca dell'oggetto, ma, come già accennato e come si vedràsuccessivamente(§4.1), la questione è tutt'altro che chiusa.
248 Come già accennato (§2.2.1), infatti, uno dei criteri di Kondō (1980: 57) per riconoscere la funzioneinteriezionale di wo è proprio il fatto che la particella wo accompagni (e non sostituisca) altreparticelle come ni, e questo è anche confermato da Vovin (2009b: 1273).
249 Konoshima (1966: 56-7)250 Matsuo (1938:1390)
114
giapponese antico fossero espressi tramite l'ordine dei costituenti: dato che non
attribuisce alcun valore grammaticale alla particella wo, lo studioso deve
necessariamente identificare un altro espediente morfo-sintattico per segnalare i ruoli
semantici251. Infatti, sulla scia di Matsuo, anche Hashimoto Shinkichi sottolinea il fatto
che per indicare la relazione espressa da wo in funzione grammaticale, non servirebbe
un morfema esplicito in particolare, ma basterebbe la contiguità fra oggetto e verbo e
che quindi le occorrenze di wo nel giapponese antico e classico debbano essere
ricondotte a una funzione interiezionale252.
Questo metodo di esprimere l'oggetto con il morfema ø, continua Matsuo, ha un
impiego anche nella lingua moderna ma era molto più comune nella lingua antica: lo si
osserva infatti già nel periodo Nara e nel periodo Heian.
Il primo problema che Matsuo si pone è capire in che rapporto statistico si trovino
queste due possibilità di espressione dell'oggetto. Per quanto riguarda l'epoca Nara,
l'autore studia le occorrenze di wo e di ø, limitatamente all'espressione dell'oggetto, nei
maki 17 e 18 del Man'yoshu (testi chiaramente poetici) e nel corpus dei senmyō (editti
imperiali, in prosa) e propone questo schema:
Man'yoshu 17 wo 51 ø 96
Man'yoshu 18 wo 42 ø 72
Senmyō wo 519 ø 298253
Il rapporto, calcolato da Matsuo, sarebbe quindi di 3:7 nel maki 17 del Man'yoshu in
favore di ø, 4:6 nel maki 18 in favore di ø, ma 6:4 in favore dell'espressione di wo nei
senmyō: nei testi in poesia sembra quindi essere più comune l'espressione dell'oggetto
senza particella, nei testi in prosa, viceversa, sembra più diffuso l'utilizzo della particella
wo per marcare l'oggetto.
Per provare a spiegare questo diverso rapporto mostrato da un lato nei due maki del
Man'yoshu e dall'altro nel corpus dei senmyō, Matsuo propone di mettere a confronto
251 Come già visto (§1.2), anche Sansom, sostenitore della teoria interiezionale, scriveva espressamenteche “particles are affixed to words which are syntactically in those cases”. Secondo Sansom è l'ordinedelle parole a determinare la relazione grammaticale o il ruolo semantico, da lui definiti “caso”, e nonla presenza delle particelle.
252 Hashimoto (1969: 117).253 I testi dei senmyō sono stati studiati anche da Wrona e Frellesvig, che arrivano ad una conclusione
simile quanto a rapporto percentuale ma, curiosamente, differente quanto a numeri (wo 497, ø 251):dato che in nessuno dei due studi vengono portate motivazioni legate al conteggio, non è possibileipotizzare il perché di questa differenza. Si veda Wrona&Frellesvig (2009: 575).
115
queste statistiche con quelle calcolate su alcuni testi del primo periodo Heian, ovvero 竹
取 物 語 Taketori Monogatari (sicuramente prima del 909 d.C.), 伊 勢 物 語 Ise
Monogatari (a cavallo fra il IX e il X secolo), 土佐日記 Tosa Nikki (935 d.C.),
l'introduzione al 古今集 Kokinshū (920 d.C. circa), 庵主 Ionushi o Anshu (un diario di
viaggio risalente alla seconda metà del X secolo) e 大和物語 Yamato Monogatari (951
d.C.)254.
Il rapporto fra wo e ø, in questi testi, è differente in base alla tipologia testuale. Nelle
parti in prosa, l'espressione di wo per marcare l'oggetto tende ad essere più comune in
tutti i testi (si va da un massimo di 7:3 nello Ionushi e 6:4 nel Taketori a una quasi
perfetta parità nel Tosa Nikki). Nelle parti dialogiche, si osservano due tendenze diverse:
lo Ionushi e il Taketori mostrano lo stesso identico rapporto che si vede nelle parti in
prosa fra wo e ø (7:3 nello Ionushi e 6:4 nel Taketori), negli altri testi l'oggetto tende
più spesso a non essere marcato da alcuna particella (ad esempio, il rapporto è 4:6 nello
Yamato, nell'Ise e nel Tosa Nikki in favore di ø). Nelle poesie, infine, la differenza in
percentuale fra le occorrenze dell'oggetto marcato dalla particella e quelle dell'oggetto
non marcato è davvero minima, ma il rapporto è comunque in favore dell'espressione di
wo nel Taketori, nello Ionushi e nello Yamato, è invece leggermente in favore della non
espressione della particella nell'Ise, mentre le occorrenze di wo e di ø nel Tosa Nikki
sono in pari numero255.
Grazie alle diverse tendenze nell'esprimere o meno la particella wo nel segnalare
l'oggetto, Matsuo può dividere questi testi in due gruppi: un primo gruppo formato da
Taketori e Ionushi, in cui si tende generalmente a un più ampio utilizzo della particella
(come nei senmyō), un secondo composto da Ise, Yamato e Tosa Nikki, in cui è più
frequente la non espressione di wo (come nei due maki del Man'yoshu che Matsuo
aveva studiato), se si esclude la particolarità dello Yamato che mostra un maggior
numero di occorrenze di wo nelle poesie.
Sulla base dello studio di queste statistiche, l'autore suggerisce alcune conclusioni.
Un primo elemento che Matsuo sottolinea è il fatto che queste statisiche dimostrino
come la particella wo ancora non si fosse affermata come marca dell'oggetto nella
254 Ad esclusione dell' introduzione in prosa alle poesie del Kokinshū, si tratta di testi che presentanoparti in prosa, parti dialogiche e numerose poesie al loro interno.
255 Si veda Matsuo (1938: 1400-1) per gli schemi e le statistiche dettagliate.
116
lingua parlata del periodo in cui furono scritti il Tosa Nikki, l'Ise Monogatari e lo
Yamato Monogatari. In questi testi infatti è molto comune la non espressione di wo nel
marcare l'oggetto, e questo accade principalmente nelle parti dialogiche, che sono
esattamente le parti del testo la cui la tipologia testuale è considerata da Matsuo più
affine al parlato dell'epoca. Come si vedrà successivamente, infatti, una delle
conclusioni che Matsuo propone è che proprio la lingua utilizzata in questi testi sia più
vicina al parlato rispetto ad altri testi come il Taketori.
Per quanto riguarda le altre due tipologie testuali, però, sorge un problema. Il
maggior utilizzo di wo rispetto alla non espressione della particella, nelle parti in prosa,
è facilmente spiegabile, a parere di Matsuo, grazie al fatto che tramite questa tipologia
testuale si narra in modo sequenziale un avvenimento o si esprime in modo logico un
pensiero. Eppure, anche in poesia, un dominio molto conservativo della lingua, che
quindi dovrebbe riflettere l'utilizzo più arcaico (ovvero la fase in cui wo ancora non
fungeva da marca dell'oggetto), e che inoltre Matsuo considera affine alla lingua parlata
dell'epoca, l'espressione di wo è molto frequente. Si tornerà su questo punto fra un
attimo.
La particella wo, limitatamente alle poesie, subì il seguente sviluppo: a partire dai
due maki del Man'yoshu che Matsuo studia, in cui è molto più frequente il non utilizzo
della particella (93 occorrenze totali di wo, 168 occorrenze in cui wo non è espressa), si
giunge nel periodo Heian, in cui nelle poesie dell'Ise Monogatari e del Tosa Nikki
l'espressione di wo e di ø è quasi in parità a livello numerico, ma nello Yamato
Monogatari, di venti anni successivo, l'espressione di wo è notevolmente più frequente.
Per semplicità, si riporta uno schema riassuntivo delle occorrenze di wo nelle poesie
di questi testi:
Man'yoshu 17, 18 wo 93 ø 168 rapporto (3.5:6.5)
Ise Monogatari wo 62 ø 66 rapporto (5:5)
Tosa Nikki wo 25 ø 25 rapporto (5:5)
Yamato Monogatari wo 99 ø 68 rapporto (6:4)
Matsuo conclude che fu proprio il periodo in cui venne scritto lo Yamato Monogatari
che segnò l'inizio del processo di consolidamento della funzione grammaticale di wo:
nel periodo Nara e nei primi anni del periodo Heian, era comune non marcare l'oggetto
117
tramite alcuna particella, e fu soltanto a partire dagli anni in cui venne scritto lo Yamato
Monogatari che la particella wo iniziò ad essere stabilmente utilizzata per marcare
l'oggetto. La funzione della particella wo, utilizzata fino a quel momento, è quindi
interpretabile come una funzione interiezionale piuttosto che grammaticale: nei termini
di Matsuo, si può dire che questa particella non sia una particella grammaticale (kaku
joshi) ma una particella interiezionale (kantō joshi), in quanto l'oggetto diretto è di
default marcato da ø256. Prova di questo mutamento è il lento ma continuo aumento del
numero di occorrenze di wo nella tipologia testuale delle poesie.
Un elemento, però, come già visto, non è chiaro dalla spiegazione di Matsuo. Come
è stato accennato, non è semplice spiegare il motivo per cui, in prosa, il marcare
l'oggetto con la particella wo era il metodo più frequente, sia nel periodo Nara (il corpus
dei senmyō) che nel periodo Heian, dove invece i dialoghi mostrano un maggior numero
di occorrenze senza particella. Matsuo prova a spiegare questa incongruenza, come si è
visto, affermando che la tendenza ad un maggiore utilizzo di wo in prosa è connessa alle
caratteristiche di questa tipologia testuale: la prosa, scrive l'autore, permette
l'espressione logica di un pensiero, mentre il dialogo è molto più legato all'emotività dei
parlanti, ma non propone ulteriori spiegazioni. Da questa affermazione di Matsuo, però,
possiamo concludere che la particella wo avesse già una funzione grammaticale sin dal
periodo Heian: nella prosa, tipo di testo che lui definisce “logico” e non “emotivo”,
anche la presenza di wo deve necessariamente esser connessa con l'espressione di una
relazione “logica”, grammaticale, come l'oggetto diretto e non con una funzione
strettamente “emotiva”. Ed è invece proprio l'assenza della particella wo a essere una
delle caratteristiche principali delle parti dialogiche, parti più “emotive”: questo
porterebbe ad ipotizzare che wo avesse già una funzione grammaticale, e per questo, nei
dialoghi, tipologia testuale più legata all'emotività, vi sia la tendenza a non marcare
l'oggetto con wo.
Inoltre, come è stato accennato, due tipologie testuali, i dialoghi e le poesie di epoca
Heian, entrambe reputate molto vicine alla lingua parlata del periodo, mostrano in realtà
tendenze opposte: nei dialoghi è più frequente il non utilizzo di wo, nelle poesie invece
accade molto spesso che la particella wo venga espressa.
256 Matsuo (1944: 625).
118
La spiegazione più attendibile, per tentare di dare una ratio a questa incongruenza, è
proposta da Shibatani257. Come è già stato accennato, e come si vedrà anche in seguito,
secondo molti studiosi, pian piano la particella wo si sarebbe diffusa come marca
obbligatoria dell'oggetto. Questo mutamento, secondo Shibatani, si sarebbe manifestato
maggiormente nei registri più formali della lingua, quindi la lingua scritta, rispetto ai
registri meno formali, ovvero il parlato spontaneo: questa spiegazione, ma anche il fatto
che la lingua parlata tende, allora come oggi, ad essere più soggetta a fenomeni di
elisione di particelle, permetterebbe di dar conto della maggior frequenza delle
occorrenze di wo nella prosa e nella poesia, rispetto ai dialoghi.
La motivazione della diffusione della particella wo come marca dell'oggetto diretto
(quindi nella sua funzione grammaticale) è oggetto di discussione nella seconda parte
dell'articolo di Matsuo (1938). I motivi che l'autore identifica sono principlamente due,
ovvero il fatto che la struttura della frase diventi sempre più complessa e l'influsso del
materiale sino-giapponese.
Per quanto riguarda la crescente complessità della struttura della frase, questa
sarebbe provocata, secondo l'autore, dall'inserimento di modificatori fra l'oggetto e il
verbo: si iniziano ad inserire singoli avverbi (come nel seguente primo esempio), ma
anche complementi indiretti o intere proposizioni subordinate, con il risultato che la
distanza fra l'oggetto e il verbo nella frase divenne sempre più ampia. Si vedano, ad
esempio, le seguenti due frasi:
笛 を いと おもしろく 吹きて
pue wo ito omoshiroku puki-te
flauto-OGG assai splendido.RY suonare.RY-GER
'suonava il flauto assai splendidamente' (Ise Monogatari 伊勢物語, LXV);
國王 の 仰せ 言を まさに 世に 住み給はむ
kokuwau no oposegoto wo masa ni yo ni sumi-tamapa-mu
'(Vi) offro la pelliccia del ratto del fuoco, (trovata) con difficoltà, avendo mandato
uomini a cercarla' (Taketori Monogatari 竹取物語, V).
Questa discrepanza è spiegata dall'autore tramite il fatto che, secondo lui, la
particella wo ancora non si era ben stabilizzata come marca dell'oggetto in periodi
complessi, e questo è il motivo per cui nello stesso testo (ad esempio il Taketori
120
Monogatari) si trovano sia periodi complessi in cui l'oggetto, se lontano dal verbo, è
marcato da wo, sia periodi complessi in cui l'oggetto non è marcato. E il fatto che nello
Yamato Monogatari invece si trovino molte più occorrenze di wo a marcare l'oggetto di
periodi complessi dimostra ancora una volta, secondo Matsuo, che è proprio durante
questo periodo che wo si starebbe diffondendo come marca dell'oggetto258.
Se accettiamo la teoria di Matsuo, secondo cui tutte le occorrenze di wo nel periodo
Nara e nel primo periodo Heian debbano essere interpretate come interiezionali, si può
allora ipotizzare che è proprio nel momento in cui nei testi si iniziano a incontrare frasi
di questo tipo, in cui oggetto marcato e verbo reggente sono separati da numerosi altri
elementi, che wo inizierebbe ad assumere una funzione grammaticale, benché Matsuo
non lo scriva espressamente. Matsuo aveva affermato che fosse stato a partire dal
periodo in cui venne composto lo Yamato Monogatari (951 d.C.) che wo avesse iniziato
ad essere utilizzata stabilmente per marcare l'oggetto, mentre gli esempi che Matsuo
stesso riporta per spiegare la crescente complessità della frase sono tratti anche da opere
precedenti come il Taketori Monogatari (prima del 909 d.C.). Questo deve
necessariamente portare a ipotizzare che fosse già dal periodo in cui venne scritto il
Taketori, che wo potesse aver avuto la funzione di marcare l'oggetto diretto. L'inizio del
processo di grammaticalizzazione di wo (se accettiamo il fatto che la funzione originaria
di wo fosse solo interiezionale) deve quindi essere posto necessariamente più indietro
nel tempo, anche se si può ammettere che la particella iniziò ad essere stabilmente
utilizzata in funzione grammaticale a partire dal periodo in cui venne composto lo
Yamato. Questo però porta ad un problema. Come è già stato accennato, lo studio di
Matsuo è basato principalmente su testi di epoca Heian, un periodo di grande fioritura
per la letteratura giapponese, che vide la nascita di nuovi generi letterari come racconti
(monogatari) o i diari delle dame di corte (nikki), composti da molte parti in prosa, ma
anche dialoghi e poesie. I testi di epoca Nara scritti in giapponese, erano invece legati a
editti imperiali, preghiere, registri delle province, brevi iscrizioni su statue e altri reperti,
canzoni in giapponese presenti all'interno dei due testi di cronaca storica, Kojiki e
Nihonshoki (scritti in cinese), e l'immenso corpus delle poesie del Man'yoshu259: si tratta
258 Matsuo (1938: 1405-6).259 Chiaramente questa differenza di generi letterari è legata a doppio filo con la questione della
scrittura: fu proprio nei secoli VII e VIII (a cavallo quindi con il periodo Nara) che i giapponesi
121
quindi di testi altamente codificati, spesso molto brevi o in versi260, le cui finalità
espressive erano ben differenti da quelle delle opere del periodo successivo.
È chiaro, anche solo giudicando dalla tipologia testuale, che è ben difficile nei testi
del periodo Nara incorrere in frasi complesse, elaborate, formate da numerose
subordinate, cosa invece ovviamente molto comune nei testi di prosa del periodo
successivo. Questo però non permette di decretare che nel periodo Nara non fosse
possibile comporre lunghi e complessi periodi, benché non riportarti a livello scritto da
alcuna fonte. Proprio a causa della non abbondanza e diversità del materiale scritto in
giapponese in epoca Nara e del fatto che la lingua giapponese scritta sia attestata solo
molto tardi, non è semplice ricostruire la lingua parlata dell'epoca. Questo non può e
non deve implicare che in epoca Heian la struttura della frase diventi più complessa
rispetto all'epoca Nara, e che questo vada di pari passo con la progressiva
complicazione del pensiero degli uomini dell'epoca Heian, che sarebbero diventati più
consci, rispetto ai loro antenati, della necessità di marcare l'oggetto261. Semplicemente,
non avendo fonti dirette che siano testimoni in modo preciso del parlato dell'epoca, non
si può affrontare la questione sotto questo punto di vista. Si può chiaramente ipotizzare
che la distribuzione di wo sia legata alla vicinanza fra verbo e oggetto, ovvero che un
oggetto espresso immediatamente prima del verbo sia tendenzialmente non marcato,
mentre un oggetto più distante dal verbo venga marcato da wo262, ma questo non ha
nulla a che fare con una teoria secondo cui in epoca Heian la frase tenda ad essere
sempre più complessa e il pensiero dei parlanti più articolato.
Lo stesso Matsuo nota infatti alcune eccezioni a questa sua ipotesi, che però
attribuisce ad un fattore completamente diverso, ovvero quella che lui identifica come la
seconda motivazione che portò alla diffusione di wo come marca dell'oggetto: l'influsso
inziarono ad adattare la scrittura cinese alle necessità della lingua giapponese, dando origine alsistema di scrittura detto man'yōgana (l'utilizzo dei caratteri cinesi secondo il loro valore fonetico: sidistinguono ongana, utilizzati sulla base della loro lettura sino-giapponese, e kungana, utilizzati sullabase della lettura giapponese). A partire dall'utilizzo fonetico dei caratteri, in epoca Heian sisvilupparono i due sillabari, hiragana (che ha origine graficamente dalla stilizzazione del carattere) ekatakana (che ha origine nella pratica di scrivere solo una parte del carattere): gran parte dellaletteratura Heian venne scritta in hiragana con un limitato uso di kanji. Per approfondimenti sullastoria della scrittura in Giappone, si veda Seeley (1991).
260 Il Man'yoshu, ad esempio, è composto a grandissima maggioranza da poesie dette 短歌 tanka,formate da 5 versi per un totale di 31 more (la scansione dei 5 versi è 5-7-5-7-7).
261 Questa teoria è di Matsuo ma è riportata anche in Shibatani (1990: 344).262 Come si vedrà, questa è una delle proposte di Wrona e Frellesvig (§4.1.3).
122
del materiale sino-giapponese.
L'autore infatti nota giustamente che, se è vero che la particella wo nella sua
funzione grammaticale di marcare l'oggetto divenne sempre più utilizzata grazie alla
sempre maggiore complessità dei rapporti fra sintagmi all'interno della frase, si potrebbe
dedurre che, nel caso in cui oggetto e verbo siano immediatamente adiacenti, wo non
dovrebbe essere presente, almeno nei primi testi di epoca Heian. Invece, in alcuni di
questi testi, avviene il contrario: nel Taketori Monogatari e nei senmyō (che, come è già
stato detto, sono i testi in cui wo è maggiormente utilizzato per marcare l'oggetto e in
cui si nota una minore occorrenza di ø) wo tende a occorrere molto frequentemente
anche in periodi in cui l'oggetto è adiacente al verbo reggente. Matsuo attribuisce questa
incongruenza al fatto che testi come Taketori e senmyō subiscano, più di altri testi,
l'influsso del materiale sino-giapponese, e che quindi questi testi non possano essere
considerati uno specchio della lingua parlata dell'epoca, mentre testi come Tosa Nikki e
Ise Monogatari (in cui la percentuale di occorrenza di wo è nettamente minore)
mostrerebbero un linguaggio che viene reputato essere ben aderente al parlato del
periodo.
L'influsso del materiale sino-giapponese è dovuto alla pratica del 漢文訓読 kanbun-
kundoku. Come è già stato accennato precedentemente (Cap.1), con il termine kanbun-
kundoku si intende l'interpretazione e decodifica di un testo in cinese classico (漢文
kanbun), principalmente testi buddhisti ma non solo, in modo da renderlo comprensibile
ad un lettore giapponese: questo avviene tramite l'aggiunta di appositi segni grafici
(detti 訓点 kunten) come punteggiatura, diacritici, e successivamente anche grafemi in
katakana. Questi segni grafici segnalavano, ad esempio, la necessità di invertire l'ordine
di verbo e oggetto (l'ordine delle parole è VO in cinese, OV in giapponese), o di
aggiungere morfemi per permettere la flessione verbale, o di inserire particelle per
marcare il topic o l'oggetto della proposizione. Per sua natura, quindi, il linguaggio del
kanbun-kundoku (detto訓点語kuntengo) tende ad essere molto esplicito e caratterizzato
da molte meno elisioni di elementi (come particelle) rispetto alla lingua giapponese vera
e propria, sia parlata che scritta: la funzione di questa pratica era proprio quella di
permettere al lettore giapponese di capire ed interpretare un testo in cinese, per cui ogni
elemento utile alla comprensione doveva necessariamente essere espresso in modo
123
puntuale. La pratica del kanbun-kundoku ebbe notevole influsso sul giapponese
dell'epoca: da un lato si ebbero numerosi prestiti principalmente morfologici e lessicali
dal cinese al giapponese263, dall'altro l'espressione di determinati elementi, che
tendevano ad essere omessi in giapponese, divenne sotto la spinta del kanbun-kundoku
sempre più diffusa (ad esempio, nel caso delle particelle).
L'influsso del kanbun-kundoku è ben visibile, secondo Matsuo, nei testi in cui wo è
più frequente. Dal momento che, in ambito formale e scritto, il cinese (kanbun) era
molto utilizzato, si può ritenere a ragione che i compilatori dei senmyō, editti imperiali,
materiale ufficiale e legato al sovrano, avessero una profonda conoscenza della lingua
cinese, i cui testi venivano letti secondo la pratica del kanbun-kundoku: si può di
conseguenza ipotizzare un influsso diretto di questa pratica su questo corpus, che
pertanto avrebbe la caratteristica di mostrare un maggiore utilizzo di wo rispetto alla
non espressione della particella. Per quanto riguarda il Taketori Monogatari, invece, a
parere di Matsuo si tratta di una questione legata al periodo storico in cui il racconto
narrato in questo testo è stato formulato per la prima volta. Il testo scritto è datato
sicuramente prima 909 d.C., secondo alcuni studiosi anche prima del 905 d.C., in
quanto nell'ultima parte del racconto si fa menzione del fumo che esce dal monte Fuji, e
si sa che questo accadde fino al 905 e non più negli anni successivi, ma la formulazione
del racconto originale risale probabilmente ad un periodo precedente264. Matsuo la fa
risalire ad un periodo a cavallo fra gli ultimi anni del VII secolo e i primi ottanta anni
del VIII secolo, un periodo (detto 国風暗黒時代 kokufū ankoku jidai lett. 'l'epoca buia
dello stile nazionale') di grande prosperità per i testi in lingua cinese ( 漢文 kanbun) a
discapito dei testi in lingua giapponese (和文wabun), e questo gli permette di spiegare
l'influsso del cinese sul testo del Taketori Monogatari.
A causa dell'influsso del materiale sino-giapponese, quindi, in questi testi sono molto
più frequenti le occorrenze di wo rispetto al non utilizzo della particella per marcare
l'oggetto, anche in casi in cui oggetto e verbo siano adiacenti. La struttura
verbo+oggetto, afferma Matsuo, è comunissima nei testi in cinese e, nella pratica del
263 Per una visione d'insieme dell'ampissimo influsso che la pratica del kanbun-kundoku ebbe sullalingua giapponese dell'epoca, si veda Frellesvig (2010: 258-94), principalmente pp. 270-4.
264 Si può vedere l'introduzione alla traduzione italiana del Taketori Monogatari a opera di AdrianaBoscaro, in particolare Boscaro (1994: 13-15).
124
kanbun-kundoku, l'utilizzo della particella wo permette di segnalare il fatto che l'oggetto
occorra immediatamente dopo il verbo (e non prima, come invece avverrebbe se il testo
fosse in giapponese). Allo stesso modo, l'immediata vicinanza di verbo e oggetto,
chiaramente in ordine invertito come d'uso in giapponese, è comune in testi come i
senmyō e il Taketori, e l'alta di frequenza di queste occorrenze e il fatto che venga
utilizzata molto spesso la particella wo a marcare l'oggetto, come accade nel kanbun-
kundoku, è ascrivibile all'influsso del materiale sino-giapponese in questi testi.
Matsuo quindi conclude che “la causa fondamentale del fatto che wo si diffonde
sempre più nell'espressione dell'oggetto logico, che segnali il caso parallelamente alla
sempre maggiore complicazione dei rapporti di caso, è la particella wo del kanbun-
kundoku”: fu sotto l'influsso del kanbun-kundoku che “la particella interiezionale wo del
periodo precedente pian piano perse il suo significato emotivo e si trasformò in una
particella di espressione dell'oggetto”265. Quindi la particella wo, che fino ai primi anni
del periodo Heian avrebbe avuto soltanto una funzione interiezionale, sotto l'influsso del
materiale sino-giapponese avrebbe subito pian piano un processo di
grammaticalizzazione che sarebbe andato di pari passo con la complicazione dei
rapporti fra i diversi sintagmi della frase.
Matsuo afferma espressamente nelle righe successive che la particella wo utilizzata
nel kanbun-kundoku e la particella wo utilizzata nei testi giapponesi (che inizialmente ha
funzione interiezionale e poi si grammaticalizza) siano due particelle diverse: esse
avrebbero avuto, secondo l'autore, due origini diverse (non meglio identificate), e si
sarebbero fuse nel periodo Heian in un'unica particella che esprime l'oggetto diretto.
Rimangono chiaramente dubbi su questa spiegazione di Matsuo. Non è affatto chiaro
il motivo per cui si debbano ricostruire due differenti particelle wo, una utilizzata nelle
glosse dei testi cinesi, l'altra utilizzata nei testi giapponesi. Il primo testo a cui sia mai
stata applicata la pratica del kanbun-kundoku la cui data è nota è il 成實論 Jōjitsuron
(traduzione cinese del Satyasiddhi-śāstra, le glosse giapponesi sul testo cinese risalgono
al 828 d.C.), e in questo testo i segni grafici aggiunti già ricordano da vicino quelli del
sillabario katakana. Si ritiene, però, che questa pratica abbia avuto inizio negli ultimi
venti anni del VIII secolo, e in questa prima fase venivano aggiunti nei testi soltanto
265 Entrambe le citazioni sono prese da Matsuo (1938: 1411). La traduzione è mia.
125
punteggiatura e segni grafici per indicare la necessità di dover invertire l'ordine di due
elementi (questi segni sono detti 返り点 kaeriten); in una seconda fase immediatamente
successiva, si iniziarono ad utilizzare segni grafici per annotare la pronuncia dei
caratteri cinesi; nella terza fase si aggiunsero anche gli wokototen, puntini scritti in un
punto preciso al lato del carattere che segnalavano la particella necessaria o il morfema
necessario per la flessione verbale266. Lo schema secondo cui segnalare i morfemi
tramite gli wokototen varia in base a molti fattori (il periodo storico, la setta buddhista e
così via): quello più famoso (da cui è preso l'esempio in Fig. 1 nel Cap. 1) pare sia stato
preso in prestito dalla setta buddhista Tendai e utilizzato anche in testi profani, ma ne
esistono moltissime altre varianti. Queste varianti però si differenziano soltanto in base
alla diversa corrispondenza fra la posizione del puntino e il morfema indicato: se nello
schema utilizzato dalla setta Tendai, ad esempio, la particella wo è segnalata tramite un
puntino in alto a destra del carattere, e ni con un puntino in alto a sinistra, in altre
tradizioni il puntino che indica wo viene posto in alto a sinistra mentre la presenza della
particella ni è segnalata dal puntino in alto a destra267.
Sembrerebbe infatti che, almeno a partire da questa terza fase in cui si inziano a
segnare graficamente sul testo cinese anche le particelle, wo venisse stabilmente
utilizzata per marcare l'oggetto in questi testi, probabilmente a causa della sentita
necessità di evitare una errata interpretazione, segnalando che l'elemento che seguiva il
verbo dovesse essere inteso come oggetto (ordine VO), cosa di non immediata
comprensione per un lettore giapponese la cui lingua utilizza l'ordine OV. Shibatani
infatti riporta che “in this Sinico-Japanese reading tradition, o was regularly employed
to mark the direct object”, e anche Matsuo stesso conferma che la particella wo nel
kanbun-kundoku veniva sempre utilizzata in questa funzione268. Se fu proprio la
particella wo ad essere utilizzata in modo regolare per marcare l'oggetto nella pratica del
kanbun-kundoku, appare piuttosto improbabile che essa non avesse già una funzione
simile nella lingua giapponese: non si capisce altrimenti il perché gli studiosi che
glossarono i testi cinesi a quel tempo avrebbero scelto esattamente la particella wo per
266 Seeley (1991: 62-3). Degli wokototen si era già parlato al Cap.1. I segni grafici aggiunti al testo delJōjitsuron sembrano quindi molto avanzati, se confrontati con queste tre fasi, ma mostrano come lapratica era ormai ben avviata.
267 A questo proposito si veda Kosukegawa (2014: 5-6).268 Shibatani (1990: 345); Matsuo (1938: 1411).
126
marcare l'oggetto piuttosto che altre particelle. Se nella loro lingua la funzione della
particella wo fosse stata a quel tempo solo ed esclusivamente enfatica, avrebbero potuto
scegliere una qualsivoglia altra particella enfatica per marcare l'oggetto della frase
cinese, e inoltre questa particella enfatica scelta avrebbe verosimilmente potuto
alternare con altre particelle che avessero avuto la stessa funzione. Se invece è vero che
sempre wo veniva usata per marcare l'oggetto nella pratica del kanbun-kundoku, questo
porta necessariamente a credere che, contrariamente a quanto ritiene Matsuo, questa
particella avesse già un utilizzo grammaticale come marca dell'oggetto diretto nel
giapponese dell'epoca: il linguaggio utilizzato nel kanbun-kundoku ha chiaramente
come modello la lingua giapponese dell'epoca (chi glossava i testi cinesi lo faceva sulla
base della propria lingua, il giapponese), e se wo non avesse avuto la funzione di
marcare l'oggetto in giapponese, non la avrebbe avuta nemmeno nella pratica del
kanbun-kundoku. Ammesso e non concesso che wo avesse avuto una funzione
interiezionale nella lingua antica (cosa che – come si è visto – non è condivisa da tutti
gli studiosi, §2.2), questa sicuramente non era la sua unica funzione: un utilizzo come
marca dell'oggetto (non obbligatoria) deve necessariamente essere ricostruito per dar
conto del valore dato a questa particella nei materiali sino-giapponesi. E questo
testimonia ancor di più come, nei termini di Matsuo, i parlanti dell'epoca fossero già ben
consci della necessità di marcare l'oggetto.
Il fatto invece che il frequente utilizzo della particella wo nel kanbun-kundoku abbia
potuto dare impulso alla diffusione dell'utilizzo di una particella che già marcasse in
alcuni casi – come si vedrà (§4.2) – l'oggetto diretto, è una teoria condivisa da altri
autori269, e se si considera il grandissimo influsso che questa pratica ebbe sulla lingua
giapponese, tale sviluppo appare verosimile.
Una prima ipotesi che si può quindi formulare è la seguente: nel periodo Nara, in cui
compare un primo corpus estensivo di fonti in giapponese, in alcuni casi wo marcava
casi l'oggetto diretto, ma non era una marca obbligatoria270, ed è proprio grazie a questo
suo valore (in parte) grammaticale che venne utilizzata come regolare marca
dell'oggetto nei materiali sino-giapponesi. Uno degli elementi su cui la pratica del
269 Dello stesso avviso, ad esempio, è anche Shibatani (1990: 347).270 Del cosìddetto DOM (differential object marking) nel periodo Nara, si parlerà successivamente
(§4.2).
127
kanbun-kundoku ebbe influenza fu proprio la diffusione dell'espressione di wo a
marcare l'oggetto, e nel periodo Heian questa particella iniziò ad essere utilizzata più
frequentemente: una seconda ragione per giustificare questo fatto può anche essere la
grammaticalizzazione di altre particelle come ga e no, che avrebbe influito sulla
diffusione della marca dell'oggetto nei testi Heian271. Questo chiaramente non esclude
un possibile utilizzo enfatico di questa particella, sia nel periodo Nara ma soprattutto nel
periodo Heian: è infatti possibile, come già accennato (§2.6) e come si vedrà, che questa
particella avesse in realtà anche una funzione pragmatica. Le particelle giapponesi,
come la moderna particella ga, non hanno necessariamente soltanto un valore
grammaticale o pragmatico, ma possono assumere entrambi. È infatti possibile che la
funzione di wo fosse anche quella di porre in enfasi l'elemento precedente: questo
permetterebbe di connettere l'utilizzo grammaticale con l'utilizzo interiezionale, e di
dare anche una ratio all'alternanza wo-ø nel periodo Nara, grazie al fatto che wo avrebbe
avuto la funzione di specificatore dell'oggetto (e questo giustificherebbe la sua presenza
non obbligatoria), ma poi a causa dell'influsso del materiale sino-giapponese la sua
espressione divenne molto più frequente. Di questa ipotesi si discuterà nelle pagine
successive, ma ciò che è necessario sottolineare e che si è tentato di dimostrare qui è che
la particella wo, sin dai tempi delle prime fonti giapponesi, dovesse avere già una forte
connessione con l'oggetto diretto, pur non essendone marca obbligatoria: questo è
testimoniato dall'uso puntuale di questa particella per marcare l'oggetto nel materiale
sino-giapponese e dal fatto che essa fosse utilizzata per marcare l'oggetto quando questo
si fosse trovato in posizione distante dal verbo. Se wo non avesse già avuto un valore
anche di specificatore dell'oggetto, se non proprio di marca dell'oggetto (ma in tal caso
sarebbe stata obbligatoria), nei due casi appena menzionati si sarebbe potuto usare
qualsivoglia altra particella enfatica. La funzione interiezionale di wo, benché
271 Si veda Shibatani (1990: 346). Come già accennato più volte, ga e no erano utilizzate in funzioneattributiva ma potevano macare il soggetto in giapponese antico, e in questa funzione venivanoutilizzate principalmente in frasi subordinate e nominalizzate (con il verbo in forma attributiva, RT),mentre nelle frasi principali (con il verbo in forma di fine frase, SS) il soggetto era generalmente nonmarcato. Quando nella prima parte del periodo Kamakura, la SS e la RT confluirono in un'unicaforma, sicché la RT venne utilizzata sia nelle frasi subordinate sia in principale, queste particelle sidiffusero come marca del soggetto anche in frasi principali. Fino al periodo Muromachi, poi, lefunzioni delle due particelle erano sostanzialmente identiche: fu solo dal periodo Edo che no assunsela funzione di particella attributiva e ga la funzione di marca del soggetto. Per numerosi esempi eapprofondimenti, si veda Shibatani (1990: 347-57).
128
riconoscibile, non appare dunque né l'unica né la principale funzione di questa particella
nella lingua antica.
3.2 Lo studio successivo di Hiroi e Oyama
Lo studio di Matsuo è stato supportato da ulteriori ricerche ad opera di Oyama e
Hiroi, le quali, come Matsuo, concludono che la particella wo non avesse affatto la
funzione grammaticale di marca di (almeno alcuni) oggetti diretti nel periodo Nara e
nella prima parte del periodo Heian, ma esprimesse una particolare enfasi a livello
emotivo: col passare del tempo, secondo loro, queste esclamazioni e interiezioni
espresse tramite wo sarebbero state percepite come espressione di una particella
grammaticale, dando avvio al processo di grammaticalizzazione di wo.
Come Mastuo, anche queste due autrici studiano testi di epoca Heian: la ricerca di
Hiroi è incentrata sul 宇津保物語 Utsubo Monogatari, testo risalente al 970-1000 d.C.
circa, mentre Oyama si occupa del 源氏物語 Genji Monogatari, una delle opere più
famose della letteratura giapponese, scritta poco dopo l'anno mille272. Particolarmente
interessante risulta lo studio del Genji Monogatari, testo scelto da Oyama a causa della
sua immensa ricchezza di tematiche toccate e di personaggi, differenti per sesso, età,
strato sociale: questo permette al Genji Monogatari di essere un ottimo testimone delle
varietà diastratiche e diafasiche del giapponese dell'epoca.
Le ricerche di Oyama e Hiroi – come quelle di Matsuo – muovono dall'alternanza
wo-ø. Valutando minuziosamente ogni occorrenza di wo e di ø nei due testi, Hiroi e
Oyama concludono che wo tenderebbe ad apparire più frequentemente in determinate
situazioni, ovvero: quando si esprime emozione, esclamazione, tristezza o cordoglio (ad
esempio relazioni sentimentali, descrizione di paesaggi naturali, allontanamento da una
persona o decesso), in occasioni solenni o austere (quindi principalmente legate alla
corte), in casi in cui si riconosce chiaramente un influsso del materiale sino-giapponese
(connessi al confucianesimo o al buddhismo) e in porzioni di testo relative a un
personaggio particolare. La particella non viene invece espressa frequentemente quando
si descrive una situazione di estrema urgenza, ma anche di inquietudine, quando in
272 Le conclusioni dello studio di Hiroi sono citate in Oyama (1958: 119) e Shibatani (1990: 345). Perquanto riguarda Oyama, si veda il suo articolo, Oyama (1958: 120-38).
129
prosa si elencano una serie di elementi (come doni ricevuti o strumenti musicali suonati)
e nei casi di parlato rapido (wo viene spesso omessa nei dialoghi).
Per quanto riguarda i dialoghi, Oyama compie una approfondita ricerca distinguendo
volta per volta fattori come il sesso e lo status sociale del parlante, e il suo rapporto con
l'interlocutore273: l'autrice chiaramente tenta di dar conto delle differenze che nota
basandosi sulla sua ipotesi secondo cui wo non aveva affatto una funzione grammaticale
in quel periodo. Come risulta prevedibile, quando il parlante è un monaco buddhista o è
particolarmente abile nello studio dei classici cinesi, la frequenza di wo nel suo parlato è
ben più alta rispetto a tutti gli altri personaggi: questo è facilmente spiegabile grazie
all'influsso del materiale sino-giapponese, che – come già visto (§3.1) – aveva una forte
connessione con il buddhismo. La particella è anche molto frequente nei casi in cui il
parlante sia l'imperatore o una persona appartenente alla famiglia imperiale: Oyama
spiega questo fenomeno affermando che il modo di parlare di queste persone era più
raffinato, solenne ed elegante di quello dei loro sudditi e questo giustificherebbe la
maggiore presenza di elementi enfatici come wo. Si nota poi una differenza nel parlato
di uomini e donne in tutto il Genji Monogatari: gli uomini in media utilizzano la
particella wo meno frequentemente rispetto alle donne, negli uomini la frequenza di wo
oscilla fra 52-54%, nelle donne è i media 61%. Purtroppo l'autrice non prova a dare una
spiegazione a questa differenza, accennando soltanto al fatto che le donne sarebbero più
emotive rispetto agli uomini, ma non sembra affatto una motivazione sufficiente. Molto
interessante è invece la connessione che Oyama nota fra la frequenza di utilizzo di wo e
il rapporto fra gli interlocutori: wo si tende ad utilizzare maggiormente nei casi in cui
l'interlocutore appartiene a un rango sociale più elevato rispetto al parlante e nei casi in
cui il parlante non si sente a proprio agio con l'interlocutore. Ad esempio, wo viene
maggiormente utilizzato quando il protagonista, Genji, parla con l'imperatore, mentre ø
è più frequente quando Genji parla con donne con cui ha relazioni sentimentali o
comunque un rapporto più intimo, e con cui quindi si sente a proprio agio.
Oyama tenta di dar conto di tutti questi dati grazie alla sua ipotesi: la studiosa crede
che wo, in quel periodo, aggiungesse nella frase soltanto una generale enfasi a livello
emotivo e che quindi a questa particella non potesse essere ancora attribuito un valore
273 Oyama (1958: 129-36)
130
(anche) grammaticale. L'imperatore e gli appartenenti alla famiglia imperiale
tenderebbero a parlare in modo più solenne, le donne tenderebbero ad essere più
sentimentalmente coinvolte rispetto agli uomini e con persone di più alto rango si
tenderebbe a tenere un registro più elevato rispetto ai casi in cui l'interlocutore sia una
persona con cui si intrattengono rapporti più confidenziali: in tutti questi casi la
particella wo è più frequente. Questa particella quindi, secondo Oyama, aveva lo scopo
di esprimere il coinvolgimento emotivo da parte del parlante nei confronti dell'evento
descritto o della situazione.
Come fa giustamente notare Shibatani274, però, è possibile proporre anche un'altra
interpretazione. Come si è già accennato e contrariamente a quanto ritenuto da Matsuo e
Oyama, la particella wo aveva già la funzione di marcare l'oggetto (se specifico) nel
giapponese antico. È possibile che wo avrebbe assunto una sfumatura semantica durante
il periodo Heian, sotto l'influsso di diversi mutamenti che avvennero in quel periodo,
come lo sviluppo di un elaborato linguaggio onorifico, legato a una società che ruotava
intorno alla corte: si iniziò ad utilizzare wo principalmente in connessione con persone
particolari, come l'imperatore, o quando si dovesse esprimere un forte attaccamento o
emozione. Questa sfumatura semantica andò poi gradualmente a sparire, e l'espressione
di wo per segnalare l'oggetto divenne sempre più diffusa, principalmente nella lingua
scritta, sotto l'impulso del materiale sino-giapponese in cui l'espressione di wo era per
sua natura obbligatoria e della grammaticalizzazione di altre particelle come ga e no,
che nel periodo Kamakura si diffusero nella loro funzione di marca del soggetto (§3.1).
Shibatani fa notare espressamente come il fatto di marcare morfologicamente
soltanto alcuni particolari oggetti diretti non sia raro nelle lingue del mondo: in alcune
lingue (l'autore cita turco e hindi), l'oggetto viene marcato soltanto se è referenziale,
ovvero definito o animato. Si tratterebbe della marcatura differenziale dell'oggetto
(differential object marking, DOM), un fenomeno in cui l'oggetto diretto viene marcato
espressamente o meno sulla base delle sue proprietà semantiche o pragmatiche, come
animatezza, definitezza, specificità. L'alternanza wo-ø nel periodo Heian sarebbe quindi
spiegabile, secondo Shibatani, grazie al fenomeno del differential object marking, ma
secondo altri studiosi questo fenomeno era già presente nel periodo Nara275, periodo in
274 Shibatani (1990: 345-7).275 Come già accennato, questa è la spiegazione che Frellesvig, Horn e Yanagida danno all'alternanza
131
cui secondo Shibatani, l'utilizzo di wo era soltanto facoltativo.
Anche Matsuo276 aveva notato che, nel periodo Heian, l'utilizzo di wo era limitato in
particolare a quattro categorie di oggetti diretti: quando l'oggetto è un sostantivo il cui
referente è un essere umano (nomi propri o pronomi personali), quando l'oggetto è un
pronome dimostrativo, quando si tratta di frasi nominalizzate in cui sia presente un
nominalizzatore come こと koto o よし yoshi, o frasi nominalizzate senza testa (juntai).
Viceversa, la non espressione di wo è più comune se i referenti dell'oggetto diretto sono
cose, poesie o canzoni (la parola fumi 'poesia, testo, lettera' spesso occorre con ø),
vestiti, capelli e bevande come il sake. Anche a causa di questo, Matsuo poteva
confermare la sua teoria secondo cui wo non avesse affatto una funzione grammaticale
ma solo enfatica: altrimenti, questa particella avrebbe dovuto avere un utilizzo molto
più ampio, e non connesso soltanto alle quattro categorie di oggetti diretti che Matsuo
riconosce.
In realtà, gli esempi di Matsuo possono essere ricondotti, secondo Motohashi, al
parametro dell'identificazione dell'oggetto: questo è uno dei criteri tramite cui, secondo
Hopper e Thompson, si può riconoscere il livello di transitività di una frase277. Come già
accennato (§2.5), Hopper e Thompson interpretano la transitività come una scala, basata
su dieci criteri che riguardano tratti come ad esempio il numero di partecipanti all'azione
(due partecipanti o uno soltanto), la volontarietà, se la frase è affermativa o negativa, se
l'oggetto è altamente individuabile o meno. Tramite il parametro dell'identificazione
dell'oggetto si distinguono gli oggetti umani e animati dagli oggetti inanimati, gli
oggetti denominati con nome proprio dagli oggetti con nome comune, gli oggetti
definiti e referenziali (per referenziali intendono il fatto che il parlante debba avere in
mente un referente particolare e specifico) dagli oggetti non definiti e così via: i primi
sono altamente identificabili, i secondi hanno una identificabilità più bassa. Secondo
Motohashi, tutti gli oggetti diretti presenti negli esempi proposti da Matsuo sono
caratterizzati dal fatto di essere altamente identificabili, e per questo sono marcati da
wo. Ad esempio, si vedano le seguenti frasi:
wo-ø nel periodo Nara. Di questo fenomeno si parlerà in §4.2, a cui si rimanda per una spiegazionepiù dettagliata.
276 Matsuo (1944: 626-7; 630-1).277 Si veda Motohashi (1989: 76-9). Per quanto riguarda i criteri di Hopper e Thompson, si veda
Hopper&Thompson (1980: 252-3). Gli esempi successivi sono presi da Motohashi.
132
竹取 の 翁 この 子を 見つけて 後
taketori no okina kono ko wo mituke-te noti
tagliabambù-ATTR vecchio questa bambina-OGG trovare.RY-GER dopo
'il vecchio tagliabambù, dopo aver trovato questa bambina'
'l'uomo compose (la poesia) in quale occasione, in cui pensò cosa?'
(Ise Monogatari 伊勢物語, CXXIV).
Motohashi spiega che tutti questi elementi (ko 'bambina' nel primo esempio, il
pronome kore 'questo' nella seconda frase, e la nominalizzata ikanarikeru koto 'cosa
pensò' nel terzo esempio) sono oggetti altamente individuabili: ad esempio, il primo ha
come referente un essere umano, il secondo è caratterizzato dal tratto definito278.
Gli oggetti che invece generalmente non sono marcati da wo sono caratterizzati da
una bassa individuabilità, sono infatti spesso nomi comuni, inanimati e non referenziali.
Si veda il seguente esempio proposto da Matsuo e ripreso da Motohashi:
278 Dell'utilizzo di wo come marca dell'oggetto quando questo è una frase nominalizzata (con il verbo informa attributiva, come nel terzo esempio), che Motohashi accenna soltanto ma non spiega, tenterà didar conto Akiba (si veda §3.1.3).
133
さけ のませて 詠める
sake noma-se-te yome-ru
sake ø bere.MZ-HON.RY-GER comporre.IZ-RIS.RT
'compose (la poesia) bevendo sake' (Ise Monogatari 伊勢物語, CXV).
Come si è visto, Matsuo si limita a studiare i testi di epoca Heian, ma Motohashi
afferma che l'applicabilità del criterio dell'individuazione dell'oggetto non è legata solo
al giapponese classico, ma anche al giapponese antico di epoca Nara. L'intuizione di
Motohashi è particolarmente affine allo studio di Frellesvig, Yanagida e Horn
sull'alternanza wo-ø nei testi del giapponese antico, secondo cui l'oggetto viene marcato
solo se specifico: un oggetto è specifico solo se il referente è stato precedentemente
stabilito ed è identificabile nella mente del parlante. Di questa teoria si parlerà in §4.2.
3.3 L'origine interiezionale di wo
Come è stato visto, i principali studiosi che sostengono l'origine interiezionale di
wo, ritengono che questa particella nel periodo Nara e nel primo periodo Heian non
avesse ancora assunto alcuna funzione grammaticale e che questa funzione si fosse
sviluppata solo successivamente. Ciò che non viene mai spiegato da questi studiosi è il
motivo per cui una particella con funzione meramente interiezionale possa poi assumere
la funzione di marca dell'oggetto279. Matsuo e Oyama hanno tentato di spiegare cosa
diede impulso alla grammaticalizzazione di wo, ovvero l'influsso del materiale sino-
giapponese e la progressiva complicazione dei rapporti fra i diversi sintagmi, ma anche
la grammaticalizzazione di altre particelle (secondo Shibatani), che fecero sì che
l'espressione di wo per marcare l'oggetto divenne sempre più obbligatoria. Ma questo
spiega soltanto come sia stato possibile che, a partire da una fase in cui l'espressione di
wo era opzionale, pian piano l'uso di questa particella si sia diffuso sino ad arrivare ad
un utilizzo che si possa definire obbligatorio, almeno nella lingua scritta. Non è chiaro
invece, se accettiamo la teoria secondo cui wo avrebbe avuto una funzione solo enfatica
nei primi testi, lo sviluppo che portò questa particella ad avere la funzione di marca
279 Di questo discorso, legato alle particelle interiezionali in generale e non soltanto a wo, si è giàaccennato (§1.1.2).
134
dell'oggetto, benché ancora non obbligatoria (quindi, come si è accennato, la funzione di
marca dell'oggetto specifico o altamente individuabile), a partire dalla funzione
interiezionale.
Akiba è uno dei pochissimi studiosi che tentano di spiegare questo sviluppo di wo da
particella con funzione interiezionale a particella con funzione, almeno in parte,
grammaticale280. Anche lo studio di Akiba parte dall'alternanza wo-ø, e anche questo
autore nota una tendenza, già riscontrata da Matsuo (§3.2): wo è presente molto più
frequentemente quando il sostantivo marcato ha referente animato, quando l'oggetto è
composto da una frase nominalizzata (con verbo in forma attributiva, RT), quando
l'oggetto è un sostantivo derivato da un verbo in forma sospensiva (questo è uno degli
utilizzi della forma sospensiva del verbo, RY).
L'alta frequenza delle occorrenze della particella in connessione con sostantivi
animati è facilmente spiegabile, continua Akiba, se si pensa al fatto che in giapponese
antico il soggetto generalmente non veniva marcato: il soggetto di una frase transitiva
tende ad essere animato (e non marcato), e se anche l'oggetto è animato (e non marcato)
si può creare confusione nell'interpretazione in quanto entrambi i sostantivi potrebbero
essere intesi come soggetto281. Si trovano chiaramente numerose eccezioni, ad esempio:
この女 もし 奉りたる もの ならば
kono wonna moshi tatematuri-taru mono nara-ba
questa donna ø se consegnare.RY-PASS-RT NMLZ essere.MZ-IPOT
翁に 冠を などか
okina ni kauburi wo nado ka
vecchio-OGIN rango-OGG PART PART
280 Akiba (1978: 104-113). Un altro autore che tenta la stessa spiegazione è Sansom (1928: 281-2), cheperò non propone uno studio ben dettagliato come quello di Akiba, limitandosi a proporre qualcheesempio e a concludere che “it is not possible to trace its transition from an emphatic to a caseparticle, but it is easy to see how it may have occurred”.
281 Akiba cita la topicality hierarchy di Givon, una scala grazie a cui si può prevedere quale elementopossa con più probabilità sottostare ad alcune regole grammaticali o provocarne altre, come adesempio l'accordo con il verbo. È basata su tratti come umano/non umano, definito/indefinito,partecipante più coinvolto/meno coinvolto, prima persona/seconda persona/terza persona. Il terminetopicality è legato al fatto che l'elemento più alto nella gerarchia ha anche la maggiore probabilità diessere inteso come topic della frase.
135
賜はせざらむ
tamapa-se-zara-mu
concedere.MZ-HON.MZ-NEG.MZ-CONG.SS
'se (mi) darà questa donna, al vecchio potremmo concedere un qualche rango (di
corte)' (Taketori Monogatari 竹取物語, VIII).
In questo esempio, nella subordinata ipotetica l'oggetto animato onna 'donna' non è
marcato da alcuna particella. Secondo Akiba questo si spiega a causa del fatto che in
questa frase il verbo utilizzato è in forma onorifica, cosa che permetterebbe di
identificare senza possibilità di errore l'oggetto. Il verbo tatematuru 'consegnare, dare'
indica che colui che dà si trova ad un livello socialmente inferiore rispetto a colui che
riceve: in questo contesto, la frase è rivolta dall'imperatore al vecchio, padre della donna
che l'imperatore vorrebbe che gli fosse consegnata. Chiaramente, la non ambiguità della
frase è anche permessa da fattori pragmatici: il lettore conosce perfettamente in che
contesto viene pronunciata la frase, sa chi è il parlante (l'imperatore) e chi è l'ascoltatore
(il vecchio). È quindi molto difficile interpretare in modo errato questa frase, per cui,
Akiba conclude, non è necessaria la particella wo.
Per quanto riguarda l'alta frequenza di wo nelle frasi con verbo in forma attributiva,
Akiba fornisce due motivazioni: da un lato, alcune classi di verbi non distinguono la
forma attributiva (RT) dalla forma di fine frase (SS), ad esempio il verbo 言ふ ipu > iu
'dire', le cui RT e SS sono entrambe ipu; dall'altro SS e RT confluirono in un'unica
forma, e fu a livello formale RT a prendere il posto della SS e ad essere utilizzata sia
nelle frasi subordinate sia in principale. Le due forme del verbo (RT e SS) quindi non
erano così differenziate come sembrerebbe, né formalmente né funzionalmente, e
l'utilizzo di una particella che seguisse il verbo in RT segnalava al lettore che quella
forma del verbo fosse effettivamente una forma attributiva e non una forma di fine
frase, con cui poteva essere confusa. La particella wo in queste occorrenze avrebbe
quindi funzione sia di marca dell'oggetto sia di nominalizzatore, che permette di
distinguere una forma verbale attributiva da una forma del verbo di fine frase282.
Questa spiegazione non tiene conto però di alcuni elementi. Innanzitutto, la
282 Akiba (1978: 108-9).
136
particella wo veniva utilizzata anche dopo verbi o affissi nella cui flessione era ben
distinta la forma di fine frase da quella attributiva: Akiba propone l'esempio del verbo
'dire' (la cui RT è identica alla SS), ma anche solo nel Taketori Monogatari si trovano
anche esempi come 月の [...] 出 で た る を 見 て tuki no [...] idetaru wo mite
'contemplando (il fatto che) la luna appariva', in cui compare il suffisso -tari, la cui
forma di fine frase è -tari e la forma attributiva è -taru. La particella wo sembra quindi
comparire anche nei casi in cui non vi è possibilità di confusione. Inoltre, la confluenza
fra forma di fine frase e forma attributiva è posteriore rispetto ai primi testi di epoca
Heian che studia Akiba, dato che risale all'ultima parte dell'epoca Heian e al periodo
Kamakura283: sembra quindi improbabile che wo venisse inserito per distinguere due
forme che ancora non erano confluite nella forma attributiva. In ultimo, un ulteriore
elemento di cui Akiba non tiene conto è il fatto che, come riportato da Matsuo (§3.2), la
particella wo seguiva sia frasi nominalizzate (con forma del verbo attributiva) senza
nominalizzatore, sia frasi nominalizzate in cui fossero presenti nominalizzatori come
koto o yoshi, che seguono sempre anch'essi una forma attributiva. Quando compare un
nominalizzatore, sembra piuttosto difficile poter confondere una forma attributiva con
una forma di fine frase. La spiegazione di Akiba non sembra quindi riuscire a dar conto
in modo convincente di questo utilizzo della particella wo.
Per quanto riguarda invece la terza possibilità, ovvero il fatto che wo segua una
forma sospensiva del verbo con funzione di sostantivo (ad esempio 祈る inoru 'pregare'
> 祈り inori 'preghiera'), Akiba spiega che questo avviene, anche in questo caso, per
non dare possibilità di interpretazioni errate. La forma sospensiva, infatti, viene
utilizzata (nel giapponese antico e nella lingua moderna) sia in funzione verbale,
esprimendo una frase coordinata alla principale, sia in funzione nominale: l'utilizzo
della particella wo permetterebbe, secondo l'autore, di interpretare la forma sospensiva
come un sostantivo e non come una verbo.
Si può concludere che, secondo Akiba, la particella wo venisse utilizzata per marcare
il sostantivo (o la frase nominalizzata) che fungesse da oggetto della frase, quando
questo potesse essere interpretato diversamente: come soggetto, ad esempio, ma anche
come forma verbale piuttosto che nominale284.
283 Si veda Frellesvig (2010: 328-9).284 Come si vedrà, questo è definito da Akiba il “quarto stadio” della funzione di wo.
137
Ammesso che sia vero ciò che affermano gli studiosi giapponesi, ovvero che la
funzione grammaticale di wo ebbe origine da quella interiezionale, l'autore a questo
punto si chiede come sia stato possibile questo mutamento285. Akiba ipotizza uno stadio
intermedio fra l'utilizzo esclusivamente interiezionale e l'utilizzo grammaticale, uno
stadio in cui wo sarebbe stata utilizzata come particella enfatica, ma limitata solo agli
oggetti diretti. L'autore propone alcuni esempi, presi dal Taketori Monogatari, in cui i
pronomi dimostrativi kore 'questo' e sore 'quello' sono utilizzati in senso anaforico, e si
riferiscono a qualcosa che è già stato citato nelle frasi precedenti.
Ad esempio:
佛 の 御石の 鉢 といふ 物 あり
potoke no mi-ishi no pati to ipu mono ari
Buddha-ATTR HON-pietra-ATTR ciotola QUOT dire.RT cosa essere.SS
それを とりて 賜へ
sore wo tori-te tamape
quello-OGG prendere.RY-GER dare.MR
'Esiste una cosa chiamata ciotola di pietra del Buddha. Prendetela e consegnatemela'
(Taketori Monogatari 竹取物語, II).
L'utilizzo di wo in sore wo, secondo Akiba, si spiega perché l'oggetto è enfatizzato:
la frase avrebbe quindi il senso di 'prendete esattamente quella ciotola che ho appena
nominato'.
Si ricorderà che l'utilizzo di wo in connessione con pronomi dimostrativi era già
stato notato da Matsuo e studiato da Motohashi (§3.2), che ne spiegava la presenza sulla
base del parametro dell'alta identificabilità dell'oggetto: nel caso dei pronomi
dimostrativi, l'oggetto è definito e referenziale, in quanto il parlante ha in mente un
referente extra-linguistico ben preciso. Un concetto simile è proposto – come si vedrà
(§4.2) – da Frellesvig, Horn e Yanagida, che si basano sul concetto di specificità
dell'oggetto, secondo cui l'oggetto è marcato da wo solo se è specifico, ovvero se il
referente è connesso ad un altro referente precedentemente stabilito (o è stato esso
285 Akiba (1978: 109-13).
138
stesso precedentemente stabilito) ed è identificabile nella mente del parlante. Akiba
sembra intendere una situazione molto simile, un utilizzo che si può definire pragmatico
di wo, in cui la particella marcherebbe (in questo stadio intermedio individuato dallo
studioso) soltanto oggetti enfatizzati, ovvero sostantivi precedentemente nominati di cui
si sottolinea la relazione grammaticale in cui si trovano: wo segnala che quel sostantivo
deve essere inteso come oggetto diretto e non come soggetto o oggetto indiretto della
frase286. A partire da questo utilizzo pragmatico di wo, la particella venne sempre più
frequentemente utilizzata per marcare l'oggetto diretto e la sua funzione enfatica si
indebolì progressivamente, fino a scomparire.
Akiba conclude quindi elencando cinque fasi lungo cui la funzione di wo sarebbe
pian piano mutata da interiezionale a grammaticale. Durante la prima fase, wo aveva
una funzione solamente interiezionale ed enfatica e poteva occorrere in connessione con
qualsivoglia costituente della frase; nella seconda fase, la particella iniziò ad essere
utilizzata per porre enfasi su tutti gli elementi della frase ad esclusione del soggetto; si
passa così alla terza fase, in cui wo venne utilizzata per porre enfasi soltanto
sull'oggetto, e non più su altri costituenti (questa sembra la fase in cui si pongono gli
esempi legati ai pronomi dimostrativi, proposti sopra); nella quarta fase, wo venne
utilizzato per marcare l'oggetto quando questo poteva essere interpretato erroneamente
come soggetto (in questa fase vi sono gli esempi, che Akiba proponeva, in cui gli
oggetti sono animati o frasi nominalizzate); nella quinta e ultima fase, la funzione
enfatica di wo si indebolisce sempre più fino ad arrivare ad un punto in cui la sua unica
funzione è quella grammaticale, cosa che porta all'espressione obbligatoria della
particella, almeno nella lingua scritta e formale.
La teoria di Akiba è sicuramente molto interessante, tanto più che egli è uno dei
primi autori a intuire la possibile presenza di un valore pragmatico fra i diversi valori
espressi tramite la particella wo nella lingua classica, ma manca di contestualizzazione
storica. Le uniche due fasi di cui l'autore propone esempi concreti sono quelle che
identifica come terza e quarta fase (ovvero le fasi in cui l'espressione di wo avrebbe
permesso di porre enfasi solo sull'oggetto e in cui era usata per evitare confusione fra
soggetto e oggetto): gli esempi per spiegare entrambi gli stadi sono tratti dal Taketori
286 Akiba (1978: 112).
139
Monogatari, quindi rimane complesso capire come queste fasi possano essere
interpretate in diacronia. A livello diacronico, ammesso che la terza e quarta fase siano
rappresentate da testi del periodo storico in cui venne scritto il Taketori, la prima e la
seconda fase devono necessariamente essere poste nell'epoca Nara, epoca in cui quindi
non si potrebbe ricostruire un'utilizzo come marca dell'oggetto (specifico o altamente
identificabile – un valore pragmatico quindi –, ma pur sempre oggetto) di questa
particella: questo – come si è già ripetuto più volte – non sembra corrispondere al vero,
in quanto sin dalle prime fonti, wo sembra avere una fortissima connessione con
l'oggetto, pur non essendone marca obbligatoria.
Ad Akiba deve comunque essere riconosciuto il merito di essere uno dei primi
studiosi ad aver tentato di spiegare come fosse stato possibile il mutamento che fece sì
che la particella wo, da particella con funzione interiezionale, venne alla fine utilizzata
in funzione grammaticale287: studiosi come Matsuo e Oyama hanno sorvolato su questo
problema e non hanno mai tentato mai di spiegare le fasi di questo mutamento.
3.4 Osservazioni conclusive
La teoria interiezionale, postulata da autori come Matsuo e Oyama, ha
influenzato anche studiosi più recenti come Hashimoto e Konoshima. Come si è visto,
secondo gli esponenti della teoria interiezionale, le occorrenze di wo nel giapponese
antico sarebbero tutte riconducibili a una particella interiezionale (kantō joshi) wo, che
pian piano avrebbe visto modificare la sua funzione fino ad assumere ad una funzione
soltanto grammaticale (wo come kaku joshi). Questa teoria venne sviluppata partendo
dal fatto che non era chiaro come fosse possibile che una particella, nell'ipotesi che
avesse funzione grammaticale, marcasse soltanto alcuni determinati elementi (sostantivi
animati, frasi nominalizzate, pronomi) e in determinate tipologie testuali (più utilizzata
nella prosa e in poesia, meno nei dialoghi). Questo portò a ritenere che wo non
esprimesse alcun tipo di relazione grammaticale, ma solo un maggiore coinvolgimento
287 Uno studioso, precedente rispetto ad Akiba, che giunse alla stessa conclusione ma effettivamente nondiscusse del problema in modo così approfondito, fu Aston (1904: 114), che afferma, di sfuggita, che“intermediate between its use as an interjection and as the sign of the accusative case may be placedthose istances where wo seems to be merely an emphatic particle”.
140
dell'autore nei confronti dell'evento descritto o della persona interessata: questa sua
funzione era quindi perfettamente compatibile con la sua funzione che si reputava
originaria, ovvero quella esclamativa. Matsuo, quindi, postula l'esistenza di due
particelle wo completamente differenti quanto ad origine e a funzione: l'una è una
particella grammaticale utilizzata nel materiale sino-giapponese per segnalare l'oggetto
grammaticale, l'altra è una particella interiezionale e enfatica ed è usata nei testi in
giapponese. Matsuo quindi non sembra ammettere la possibilità che ad un'unica forma
corrispondano differenti funzioni, che una particella che marchi l'oggetto possa anche
essere utilizzata in funzione esclamativa.
In realtà, l'utilizzo della marca che segnala l'oggetto per porre in enfasi un elemento
o per evidenziare l'oggetto di un'esclamazione non è affatto raro fra le lingue del mondo.
Ad esempio, il caso accusativo (la cui funzione grammaticale è l'espressione
dell'oggetto) viene utilizzato regolarmente in latino anche in funzione esclamativa (il
cosiddetto “accusativo di esclamazione”), con una interiezione esterna (come edepol,
heu) o senza: il caso accusativo in questa funzione ha già un utilizzo molto frequente in
Plauto, ad esempio Lepidum te! 'che gentile!' (Bacch. 1178). L'utilizzo dell'accusativo
esclamativo diverrà via via più diffuso, sino al latino tardo in cui l'accusativo venne
utilizzato non solo nelle esclamazioni ma anche, ad esempio, ad indicare un comando288.
Non è raro nemmeno fra le lingue moderne: è utilizzato in lingue tipologicamente e
genealogicamente diversissime come l'ungherese o l'arabo289.
Non sembrerebbe quindi affatto errato postulare un utilizzo esclamativo o enfatico di
una particella, una delle principali funzioni della quale sia anche quella di marcare
alcuni tipi di oggetti (specifici o altamente individuabili, una funzione quindi che
possiamo definire pragmatica piuttosto che grammaticale). Il fatto che studiosi
giapponesi come Matsuo, non sembrino ammettere la possibilità che una determinata
particella che viene classificata come particella grammaticale (kaku joshi) possa anche
288 Cennamo (2011: 179-80). Si noti che l'utilizzo nelle frasi che indicano un comando è frequente anchein giapponese: una delle frasi che spesso vengono citate come esempio della particella interiezionalewo esprime proprio un ordine. La frase è la seguente:
家 をらませ をie woramase wocasa stare.MZ-HON.MR PART'sta in casa!' (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 91).
289 Benucchi (2004: 17).
141
avere una funzione enfatica, interiezionale, o di altro tipo (o viceversa), sembrerebbe
legato alla rigida categorizzazione di Yamada (§1.1) a cui questi studiosi si rifanno:
Yamada aveva classificato in modo molto rigoroso sei tipologie di particelle, ma non
sembra aver inserito in questa classificazione la possibilità che un'unica particella
avesse funzioni diverse e quindi potesse appartenere a più categorie. Se, quindi, nello
studio di Matsuo (§3.1.1), la particella wo utilizzata nel materiale sino-giapponese ha
funzione grammaticale in quanto segue obbligatoriamente l'oggetto, allora la particella
usata nei testi giapponesi deve necessariamente essere una particella differente: non
possono entrambe essere funzioni differenti di un'unica particella. Allo stesso modo,
Akiba (§3.3), postulando le differenti fasi di sviluppo della particella wo, che all'inizio
avrebbe avuto una funzione solamente enfatica e successivamente una funzione
esclusivamente grammaticale (con un passaggio intermedio di funzione pragmatica),
sembra muovere dallo stesso presupposto secondo cui una particella non può essere
classificata in due categorie di Yamada differenti, ovvero non si può avere una forma
con differenti funzioni in sincronia.
Nonostante la sua posizione chiaramente omonimista (§2.6), soltanto Kondō si pose
questo problema. La sua teoria – come si è visto – è che, a partire dall'epoca delle prime
fonti letterarie, esistessero tre particelle wo differenti (grammaticale, interiezionale,
finale) e la particella grammaticale wo differisse in modo chiaro dalle altre particelle
wo, perché la sua distribuzione è ben diversa: questo identifica la posizione dell'autore
come omonimista. Eppure, le due caratteristiche spesso messe in luce da molti studiosi
– continua Kondō –, ovvero che la particella wo venisse più facilmente utilizzata in
contesti in cui si voleva enfatizzare una condizione emotiva e che fosse usata quando si
voleva indicare un oggetto in particolare, con particolari restrizioni legate al tipo di
oggetto (l'autore cita proprio Matsuo e Oyama), possono perfettamente convivere con
una particella grammaticale, così come, al giorno d'oggi, si pensa che la particella di
soggetto odierna ga trasmetta anche un significato enfatico e restrittivo290. Si noti inoltre
che fu proprio Kondō uno dei principali autori che, grazie al suo rigoroso studio dal
punto di vista sintattico, riconobbe le funzioni concrete di wo come utilizzi della
particella grammaticale, cosa non condivisa affatto da tutti gli studiosi291. Da queste
290 Kondō (1980: 51-2). La particella odierna ga indica il focus, ma l'autore non ne fa menzione.291 Dello studio di Kondō sulla particella grammaticale wo si era già parlato (§2.1.2 e §2.1.3). Del
142
premesse teoriche, Kondō avrebbe potuto concludere che tutti i differenti utilizzi che
riconosce della particella wo non siano identificabili come “particelle wo” differenti, ma
facciano capo ad un'unica particella, utilizzata di volta in volta con funzioni differenti,
ma connesse fra loro. Ed invece, benché la sua intuizione sembri corretta, l'autore non
riconosce che la sua particella grammaticale wo, utilizzata anche per enfatizzare una
condizione emotiva o per indicare un oggetto in particolare, possa avere anche una
funzione interiezionale: quella interiezionale è, secondo Kondō, una particella
differente. L'autore quindi non ammette una situazione affine a quella in cui si trova il
caso accusativo in latino, utilizzato sia in funzione grammaticale (e concreta) sia in
funzione esclamativa.
In questo caso quindi, l'utilizzo della dicitura “caso accusativo” per definire la
particella wo non risulta affatto fuorviante: anzi, è curioso come molti studiosi che
identificano wo come “caso accusativo” non abbiano mai riconosciuto che una delle
funzioni del caso accusativo in molte lingue sia proprio quella esclamativa e quindi non
siano mai riusciti a dar conto di entrambi gli utilizzi (grammaticale/pragmatico e
esclamativo) di wo, se non postulando due particelle diverse.
parere opposto, Konoshima, che ,come era già stato accennato, ritiene invece che tutte le occorrenzedi wo che che non abbiano funzione di marca dell'oggetto diretto debbano essere interpretate comeinteriezionali, quindi anche le occorrenze di wo in funzione concreta (locativa, temporale e così via).
143
Capitolo 4
L'allineamento morfosintattico e l'alternanza wo-ø in
giapponese antico
Moltissimi studiosi ritengono, contrariamente alla teoria sostenuta da autori
come Matsuo e Oyama, che la particella wo avesse già la funzione di esprimere una
relazione grammaticale o un ruolo semantico centrale, sin dal giapponese antico. Lo
studio della funzione grammaticale e non esclusivamente interiezionale di wo è legato a
due problemi. Da un lato è connesso allo studio dell'allineamento morfosintattico del
giapponese antico (§4.1): a seconda delle diverse teorie, wo marcherebbe l'oggetto
diretto in un allineamento nominativo-accusativo, oppure il paziente in un allineamento
attivo-stativo o sarebbe la marca del caso assolutivo in un allineamento ergativo-
assolutivo. Dall'altro, è legato alla marcatura differenziale dell'oggetto (differential
object marking, DOM), ovvero il fenomeno in cui l'oggetto diretto viene marcato
espressamente o meno sulla base delle sue proprietà semantiche o pragmatiche, come
animatezza, definitezza, specificità (§4.2): si tratta quindi dello studio dei criteri da cui
dipende l'alternanza wo-ø.
Si deve notare che gli autori di cui si tratterà in questo capitolo generalmente non
negano l'esistenza di occorrenze in cui questa particella venisse utilizzata in funzione
interiezionale, ma affermano che si possa attribuire a wo anche una funzione
grammaticale (o pragmatica) sin dalle prime fonti scritte, cosa apertamente smentita da
Matsuo (1938) o Oyama (1958): mentre questi ultimi interpretano tutte le occorrenze di
wo come espressione di una particella interiezionale, studiosi come Vovin o Frellesvig,
pur non essendo concordi riguardo la funzione grammaticale di wo, riconoscono
l'esistenza di occorrenze in cui questa particella avrebbe funzione interiezionale e
occorrenze in cui avrebbe funzione grammaticale (pragmatica), sin dal giapponese
antico.
144
4.1 L'allineamento morfosintattico del giapponese antico
I diversi studiosi attribuiscono al giapponese antico uno di questi tre
allineamenti morfosintattici: nominativo-accusativo, ergativo-assolutivo o attivo-stativo.
Il problema di quale allineamento morfosintattico debba essere riconosciuto nel
giapponese antico è molto vasto: di questo argomento gli studiosi stanno discutendo
anche in questi ultimi anni, ed esula dallo scopo di questo lavoro proporre una soluzione
definitiva. Per tali motivi, la spiegazione delle differenti teorie non sarà sicuramente
esaustiva, e si rimanda quindi agli articoli dei diversi studiosi per maggiori dettagli ed
esempi. Ciò che si cercerà di mettere in luce è la funzione che la particella wo ricopre
all'interno del sistema teorizzato dal singolo autore, per cui si porrà una maggiore
attenzione sulle proposte che più si basano sulla distribuzione di questa particella
piuttosto che sulle teorie in cui wo ricopre un ruolo marginale.
Un elemento che deve essere notato è che, se – come visto (Cap. 3) – i sostenitori
della teoria interiezionale difficilmente studiano le occorrenze in cui wo è utilizzata in
funzione concreta (quando marca locativi, temporali e così via), queste occorrenze sono
invece prese in considerazione ad esempio da Wrona&Frellesvig (2009) o da Yanagida
(2005; 2006), che le utilizzano a sostegno della teoria che propongono. Come si vedrà,
l'utilizzo di wo per marcare complementi di luogo o tempo, nello studio di Frellesvig e
Wrona, costituirebbe una prova del fatto che questa particella marchi il caso accusativo,
mentre secondo Yanagida dimostrerebbe esattamente il contrario.
Prima di esaminare le differenti teorie, è opportuno soffermarsi su cosa si intenda per
allineamento morfosintattico e sulle differenze fra i diversi tipi di allineamento che
vengono identificati nel giapponese antico.
4.1.1 Allineamenti morfosintattici
Per allineamento morfosintattico si intende “the identical vs. distinct coding or
treatment or behaviour of argument roles that are different at some other level or in
some other part of the grammar”292.
292 Bickel&Nichols (2009: 305).
145
Per “argument roles” tradizionalmente si identificano il soggetto di un verbo
intransitivo (detto S), il soggetto di un verbo transitivo (detto A) e l'oggetto di un verbo
transitivo (detto O): l'allineamento è quindi connesso al fatto che il trattamento o il
comportamento morfosintattico dei tre argomenti centrali sia lo stesso oppure sia
differente.
La codifica o il comportamento degli argomenti centrali si può avere a livello
morfologico o sintattico. Infatti, vengono generalmente distinti da un lato l'allineamento
sintattico, che ha a che fare con l'ordine dei costituenti, la possibilità di un elemento di
essere antecedente del pronome riflessivo o di una frase relativa, fenomeni di
conjunction reduction e così via, e dall'altro lato l'allineamento morfologico, che si
manifesta principalmente tramite l'accordo con il verbo e la codifica morfologica degli
argomenti (ad esempio tramite i casi grammaticali). È quest'ultimo quello che ha
maggiormente interessato gli studiosi riguardo il giapponese antico, e quindi quello su
cui è opportuno soffermarsi.
Nell'allineamento morfologico, due dei tre argomenti ricevono lo stesso trattamento
formale (ad esempio, marcati dallo stesso caso grammaticale), mentre il terzo
argomento viene trattato formalmente in maniera differente (ad esempio, con un
differente caso grammaticale). Benché generalmente si utilizzi il termine “caso”, come
già accennato (§2.1.1) la codifica tramite casi grammaticali è soltanto una delle tecniche
più comuni di marcatura morfologica degli argomenti293, ma identificare la categoria del
caso in una lingua non è affatto necessario per connetterla con uno dei possibili
allineamenti morfosintattici: questa distinzione è infatti valida anche per le lingue che
non utilizzano la flessione (l'interpretazione tradizionale del termine “caso” §1.2), ma
morfemi più liberi come appunto le particelle (preposte o postposte), alternanze tonali e
così via.
Le due possibilità di allineamento più comuni e più studiate sono quella nominativo-
accusativa, in cui S è trattato formalmente come A (caso nominativo), mentre O riceve
un trattamento formale differente (caso accusativo) e quella ergativo-assolutiva, in cui S
e O sono trattati formalmente allo stesso modo (caso assolutivo), mentre A riceve un
trattamento formale diverso (caso ergativo). Questa distinzione è tradizionalmente
293 Keidan (2008: 67; 75).
146
riportata secondo lo schema di Dixon294:
Difficilmente però si riconosce una precisa e netta linea di confine fra lingue con
allineamento nominativo-accusativo e lingue con allineamento ergativo-assolutivo295, e
infatti accade spesso che non si possa identificare un unico allineamento all'interno di
una lingua: in molti casi è preferibile parlare, ad esempio, di una determinata
“costruzione ergativa” in una lingua piuttosto che di una vera e propria “lingua
ergativa”296. In molti casi infatti si trovano sistemi scissi, in cui si riscontra
l'allineamento ergativo-assolutivo in alcune circostanze e l'allineamento nominativo-
accusativo in altre: ci si riferisce alla particolarità di questi sistemi con il termine di
split-ergativity (ergatività scissa), ma, nota McGregor, sarebbe più corretto definirli split
case-marking systems297.
L'allineamento può variare all'interno della stessa lingua in base a numerosi fattori, e
chiaramente in molte lingue non entra in gioco un solo fattore, ma una combinazione di
294 Dixon (1994: 9).295 Comrie (1978: 350-1): “it is rather misleading to speak of ergative languages, as opposed to
nominative-accusative languages, [...] it is possible for one phenomenon in a language to be controlledon an ergative-absolute basis while another phenomenon in the same language is controlled on anominative-accusative basis. Thus one should ask rather to what extent a language is ergative-absoluteor nominative-accusative, or, more specifically, which constructions in a particular language operateon the one basis and which on the other”. Il concetto espresso da Comrie è ripreso anche in Vovin(1997: 273).
296 Bickel&Nichols (2009: 305); Kibrik (1985: 269).297 Dixon (1994: 55) spiega che effettivamente questi sistemi potrebbero essere definiti allo stesso modo
con la definizione split-accusativity, ma si preferisce split-ergativity “simply because accusativity isthe familiar pattern which linguists until recently thought was the basic structure for all languages(some probably still do think this), with ergativity being regarded as a novel and unusualarrangement”. McGregor (2009: 503) per questo propone di non prendere come punto di riferimentoné il sistema ergativo né quello accusativo ma di usare la definizione split case-marking system. DaDixon (1994) e McGregor (2009) sono ripresi i fattori che influenzano l'allineamento.
Un primo fattore è il tipo di sintagma nominale: in alcune lingue i pronomi personali
e i sostantivi con referente umano utilizzano un tipo di marca nominativo-accusativa,
mentre sostantivi con referente inanimato utilizzano un tipo di marca ergativo-
assolutiva. Può anche accadere che il confine non sia semantico, ma grammaticale: in
dyirbal, ad esempio, i pronomi di prima e seconda persona si flettono secondo
l'allineamento accusativo (e non hanno marcatura esplicita), i pronomi di terza persona e
tutti i sostantivi (con alcune eccezioni) secondo l'allineamento ergativo (con il morfema
-ŋgu). Questi split a livello di codifica morfologica sono generalmente spiegati tramite
la scala di animatezza di Silverstein (Fig. 7), secondo cui se un elemento segue
l'allineamento ergativo, anche tutti gli elementi alla sua destra osserveranno
l'allineamento ergativo.
Un secondo fattore è legato al tempo, l'aspetto o il modo del verbo: è generalmente il
tempo passato a essere connesso con l'allineamento ergativo mentre al tempo presente si
osserva un allineamento accusativo (ad esempio nelle lingue indoarie moderne o in
georgiano). Allo stesso modo può accadere che il modo imperativo sia associato
all'allineamento accusativo mentre altri modi seguano l'allineamento ergativo.
Un terzo elemento che può influenzare la variazione di allineamento è il tipo di
proposizione. In molte lingue accade che la codifica morfologica dei sostantivi dipenda
dalla loro presenza in frase principale o subordinata: ad esempio, accade che la frase
principale segua un allineamento ergativo, e la frase subordinata un allineamento
accusativo, o viceversa.
In generale, l'allineamento ergativo tende quindi ad essere connesso con sintagmi
nominali inanimati, tempi passati e aspetto perfettivo mentre l'allineamento accusativo è
connesso con una maggiore animatezza del referente del sostantivo, tempo presente e
148
Fig. 7: Animacy hierarchy di Silverstein
aspetto imperfettivo298.
In ultimo, in alcune lingue il soggetto di verbi intransitivi (S) viene codificato
morfologicamente a volte come il soggetto del verbo transitivo (A), a volte come
l'oggetto (O). L'opposizione dipende generalmente dal ruolo semantico del soggetto (se
è un agente, viene codificato come A, se è un paziente, si codifica come O), ma può
essere connessa con diversi altri fattori299. Questo tipo di allineamento viene chiamato
attivo-stativo o split-S (S è il soggetto del verbo intransitivo), benché non tutti gli
studiosi siano concordi nel riconoscere questo sistema come un allineamento a sé stante,
ma piuttosto un tipo di sistema in cui si ha ergatività scissa, come si vedrà a breve.
Prima di proseguire, però, è necessario fare un'osservazione. L'opposizione
generalmente accettata fra l'allineamento ergativo e allineamento accusativo si basa sui
tre argomenti centrali che fino ad ora sono stati considerati, ovvero S come soggetto del
verbo intransitivo, A come soggetto del verbo transitivo e O come oggetto, ma – come
già accennato più volte – questi sono concetti legati all'analisi logica, che non
necessariamente possono essere riconosciuti in tutte le lingue. Questa opposizione fra i
due allineamenti “takes as its point of departure the universality of these syntactic
concepts and their cross-linguistically uniform realization”, e ha origine in una
concezione assolutamente eurocentrica dello studio delle lingue300. I concetti di soggetto
e oggetto, per avere una classificazione universalmente valida, non possono essere posti
come nozioni di base: si devono piuttosto scegliere concetti universali come i due ruoli
semantici di agente (A) e paziente (P)301, e distinguere i verbi in base al numero e alla
qualità delle valenze possedute. Si avranno quindi verbi monovalenti il cui attante è un
agente (VA detti agentivi), verbi monovalenti il cui attante è un paziente (VP detti
pazientivi) e verbi bivalenti le cui valenze hanno i ruoli di agente e paziente (VAP)302.
298 Plank (1979: 5).299 Bickel&Nichols (2009: 318). Riprenderemo questo argomento nelle pagine successive.300 Kibrik (1985: 269).301 Agente e paziente possono essere presi come nozioni di base per una classificazione universale in
quanto spesso i ruoli semantici più periferici vengono espressi con gli stessi procedimenti di questidue ruoli centrali: ad esempio la codifica del ruolo di esperiente può essere modellata su quelladell'agente, ma non viceversa. Si veda Keidan (2008: 73), in cui si riprende anche lo schema di Kibrik(1985: 273).
302 La denominazione “verbi agentivi” corrisponde a ciò che nella letteratura generativa si definisce“verbo inergativo”, e allo stesso modo i “verbi pazientivi” sono detti dagli studiosi legati algenerativismo “verbi inaccusativi”. La dicitura “verbo inaccusativo/inergativo” è utilizzata dallamaggioranza degli studiosi di cui si parlerà nei paragrafi successivi.
149
Si può quindi formulare il seguente schema:
A partire da questo diagramma, si possono schematizzare gli allineamenti
morfosintattici di cui si è parlato, ovvero allineamento nominativo-accusativo, ergativo-
assolutivo e attivo-stativo.
In un allineamento nominativo-accusativo, si codifica allo stesso modo l'attante del
verbo monovalente (a prescindere dal suo ruolo semantico) e l'agente del verbo
bivalente, e in modo differente il paziente del verbo bivalente; nell'allineamento
ergativo-assolutivo, si codifica l'attante del verbo monovalente e il paziente del verbo
bivalente allo stesso modo, mentre diversa è la codifica dell'agente del verbo bivalente.
Una lingua che utilizza l'allineamento attivo-stativo distingue in modo preciso i ruoli
semantici, codificando l'agente in maniera differente rispetto al paziente a prescindere
dal numero delle valenze del verbo: nel caso in cui fossero presenti i casi grammaticali,
si direbbe che l'agente è codificato con il caso detto “agentivo”, il paziente con il caso
150
Fig. 8: Ruoli semantici e valenzedel verbo
Fig. 9: Schema degli allineamenti morfosintattici
“pazientivo”. Chiaramente, è anche possibile osservare un sistema neutro: si tratta di un
allineamento in cui agente (A di VA e di VAP) e paziente (P di VP e di VAP) vengono
trattati formalmente allo stesso modo, ad esempio non venendo marcati da alcun
morfema esplicito. Un allineamento neutro può essere rappresentato in questo modo:
La classificazione proposta da Kibrik è forse più efficace rispetto a quella di Dixon:
tramite questa infatti si riescono a spiegare fenomeni difficilmente analizzabili in
termini di S, A, O, come ad esempio l'allineamento attivo-stativo. Nell'analisi delle
diverse teorie sull'allineamento del giapponese antico si utilizzerà quindi questa
classificazione piuttosto che quella di Dixon, anche se molti fra gli studiosi di cui si
parlerà si basano sullo schema di Dixon.
Si deve sottolineare però un problema legato alla tipologia attivo-stativa, notato da
moltissimi studiosi. Si potrebbe pensare che vi sia una distinzione netta e universale fra
i casi in cui l'attante unico del verbo monovalente viene trattato come un agente (quindi
codificato con il caso agentivo) e i casi in cui questo è trattato come un paziente
(codificato con il caso pazientivo) e che tale distinzione sia valida in tutte le lingue che
utilizzano questo allineamento. Invece “the semantic motivation for splitting the one-
place predicates into two groups varies from language to language”303. La scelta può
dipendere da numerosi parametri, ad esempio l'Aktionsart, grazie a cui si distinguono
verbi che indicano attività o risultati e che denotano un cambiamento nel tempo
(agentivi) da verbi che implicano una stabilità nel tempo (pazientivi), o l'agentività,
tramite cui si distinguono casi in cui il partecipante compie, provoca e controlla l'azione
(caso agentivo) e casi in cui non ha alcun controllo e ne è influenzato (caso pazientivo).
Alcune volte non è un parametro che coinvolge molti fattori come l'agentività ad essere
303 Blake (1994: 124-5).
151
Fig. 10: Allineamento neutro
il parametro di riferimento, ma singoli fattori come il controllo, legato al fatto che il
partecipante controlli o meno l'azione (con verbi come “singhiozzare”, il partecipante
compie l'azione ma non ha il controllo), o il coinvolgimento, ad esempio nel caso di
verbi di stato, si distinguono casi in cui il partecipante è maggiormente coinvolto (un
predicato come “aver freddo”) e casi in cui è meno coinvolto (“essere alto”)304.
Come si è già accennato, non tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere la tipologia
attivo-stativa una tipologia a parte piuttosto che un sistema ergativo scisso. Dixon
inserisce questa tipologia fra gli split-systems, e anche McGregor ritene che sia un
sistema ergativo scisso, ma riporta numerosi autori contrari a questa interpretazione305.
Anche Bickel e Nichols sono contrari a identificare questa tipologia come un
allineamento a sé stante per alcune ragioni306. Il primo motivo è il fatto che in quasi tutte
le lingue del mondo esistono verbi monovalenti in cui l'attante è codificato in modo
atipico, quindi l'allineamento attivo sarebbe, secondo loro, presente in tutte le lingue in
gradi diversi. Se è vero però che – come visto – è preferibile non definire una lingua
“ergativa” o “accusativa” perché il confine non è netto, e in gran parte delle lingue che
utilizzano un allineamento si trovano costruzioni in cui si utilizza l'altro allineamento,
allora si può concludere che ciò che affermano Bickel e Nichols è valido per almeno la
maggior parte delle lingue del mondo: è raro trovare lingue totalmente “accusative”,
“ergative” o “attive”. La seconda motivazione è connessa alla prima. Nelle lingue
attivo-stative si nota spesso che o gli attanti del verbo monovalente codificati come
agenti sono pochi numericamente mentre numerosi sono quelli codificati come pazienti,
o viceversa: una categoria è molto limitata e piccola, l'altra è aperta e produttiva. Questo
fatto potrebbe permettere, secondo gli autori, di considerare le lingue attivo-stative in
304 Per numerosi esempi e ulteriori spiegazioni si vedano i due interessantissimi articoli Mithun (1991) eVan Valin (1990). In linea generale, alcuni studiosi spiegano la scelta della codifica con caso agentivoo pazientivo in base al seguente criterio: tante più proprietà di un agente prototipico (o pazienteprototipico) ha il partecipante, tanto più questo verrà codificato con più probabilità come un agente (ocome un paziente). Le proprietà dell'agente prototipico sono fattori come il coinvolgimento volontarionell'azione, movimento, la capacità di causare un cambiamento e così via, mentre le proprietà delpaziente prototipico sono elementi come il subire un cambiamento di stato o la staticità. Questa peròpuò essere considerata solo una tendenza generale, in quanto sono numerossissimi i controesempi. Siveda Arkadiev (2005).
305 Dixon (1994: 71); McGregor (2009: 487-8). Fra coloro che ritengono che questa tipologia non debbaessere considerata un tipo di ergatività scissa, si trova Mithun (1991: 511-2).
306 Bickel&Nichols (2009: 318). Le ragioni qui citate sono solo alcune di quelle proposte dagli autori, sirimanda al loro articolo per ulteriori spiegazioni.
152
cui questo avviene come appartenenti a un tipo accusativo o ergativo, quindi un chiaro e
ben identificabile allineamento di base, in cui poi si trovino anche attanti di verbi
monovalenti codificati in modo atipico. Un ulteriore motivo è che sia il numero che il
tipo di attanti di verbi monovalenti codificati come agenti o come pazienti varia di
lingua in lingua, e così – come si è già detto – variano anche i fattori sulla base di cui
distinguerli.
Non è quindi sempre possibile porre una distinzione netta fra lingue con tipologia
ergativa, attiva o accusativa. Infatti, anche nei diversi studi sull'allineamento
morfosintattico del giapponese antico, difficilmente gli studiosi riconoscono un
allineamento di base, ad esempio ergativo, valido per tutte le costruzioni giapponesi, ma
piuttosto costruzioni o occorrenze particolari in cui il giapponese antico sembra
mostrare un allineamento attivo o ergativo.
Un ulteriore elemento deve essere notato prima di esporre le diverse teorie. Come è
stato visto all'inizio di questo paragrafo, l'allineamento viene distinto in morfologico e
sintattico, e gli autori che hanno studiato questo argomento applicandolo al giapponese
antico si sono principalmente concentrati sull'allineamento morfologico. L'allineamento
morfologico si manifesta tramite due elementi fondamentali, ovvero l'accordo con il
verbo e la codifica morfologica dei ruoli semantici: il giapponese antico e moderno non
presenta accordo con il verbo, quindi l'allineamento morfologico può necessariamente
essere studiato solo in termini di codifica morfologica di agente e paziente307.
4.1.2 L'allineamento ergativo-assolutivo nel giapponese antico
Sono principalmente due gli autori che attribuiscono al giapponese antico un
allineamento ergativo-assolutivo: Motohashi (1989) e Yanagida (2005; 2006) nella sua
prima formulazione.
Per quanto riguarda Motohashi (1989), i punti fondamentali della sua teoria sono
la distribuzione di wo in alternanza con ø per quanto riguarda l'espressione dell'oggetto,
e la funzione in generale dei bare nominals, ovvero quei sintagmi nominali che vengono
marcati da ø, siano essi soggetto o oggetto.
307 Vovin (1997: 273).
153
Quanto al primo punto, come già accennato (§3.2) e come si vedrà in seguito (§4.2),
l'autore scrive che ciò che determina la distribuzione di wo e ø nell'espressione
dell'oggetto sono i tratti legati alla scala di transitività di Hopper e Thompson: l'oggetto
viene marcato da wo se è altamente identificabile, mentre non viene marcato affatto se
non è altamente identificabile. La particella wo, a causa di questa sua funzione, viene
definita dall'autore un accusative case marker308, che marca quello che Dixon aveva
definito O ovvero l'oggetto di verbi transitivi, e che nella formulazione di Kibrik è
identificabile come P di VAP (§4.1.1), ovvero il paziente di un verbo bivalente. Una
differente costruzione in cui occorre wo in alternanza con ø è la costruzione in -mi,
costrutto con valore causale formato da un sostantivo marcato o meno da wo e un
aggettivo con suffisso -mi (si veda §2.5). In questa costruzione il sostantivo è
identificabile secondo Motohashi come soggetto. Il predicato della costruzione in -mi è
un verbo intransitivo inaccusativo (ovvero un verbo il cui attante unico è il paziente, un
VP): questo dimostrerebbe, secondo l'autore, che la particella wo può essere utilizzata
per marcare il soggetto di verbi intransitivi inaccusativi (VP). In realtà, purtroppo
Motohashi riporta solo esempi in cui il predicato è un aggettivo con suffisso -mi e non
altri tipi di predicato o altre costruzioni inaccusative (VP), quindi questa sua conclusione
sembra quantomeno azzardata. Anche nel caso della costruzione in -mi, l'alternanza wo-
ø è determinata dai fattori della scala di transitività di Hopper e Thompson309. La
particella wo quindi sembrerebbe marcare, almeno nella costruzione in -mi, il paziente
di un verbo monovalente, ovvero P di VP nella formulazione di Kibrik. Purtroppo però
Motohashi non dà seguito a questa sua intuizione, e – come si vedrà – conclude, almeno
in questa sua prima formulazione, che wo sia interpretabile come marca dell'accusativo,
senza sollevare di nuovo il problema della funzione di questa particella nel costrutto in
-mi: questo problema verrà poi ripreso dall'autore in un suo articolo successivo,
Motohashi (2009).
Per quanto riguarda il secondo punto, ovvero la funzione dei costituenti non marcati
da alcuna particella (bare nominals), Motohashi nota a ragione che questi occorrono
come soggetti di verbi sia transitivi che intransitivi, sia in frasi principali sia in frasi
subordinate, e chiaramente come oggetti. Si vedano ad esempio le seguenti frasi310:
かはづ つま よぶ
kapadu tuma yobu
rana ø moglie ø chiamare.SS
'la rana chiama la moglie' (Man'yōshū 万葉集, maki 10, n. 2156);
霞 立つ ながき 春 日
kasumi tatu nagaki haru hi
nebbia ø sollevarsi.RT lungo.RT primavera giorno
'il lungo giorno di primavera in cui la nebbia si innalza'
(Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 5);
Il primo esempio presenta una frase principale in cui né il soggetto né l'oggetto sono
marcati da alcuna particella311, nel secondo esempio kasumi 'nebbia' è soggetto non
marcato da particelle di un verbo intransitivo in una frase subordinata.
Motohashi conclude, inaspettatamente, che i bare nominals (soggetti e oggetti non
marcati da particelle) dovrebbero essere intesi come marcati dal caso assolutivo.
Seguendo Dixon, l'autore spiega che il caso assolutivo marca i soggetti dei verbi
intransitivi S e gli oggetti dei verbi transitivi O, dove invece il caso ergativo compare a
marcare i soggetti dei verbi transitivi A (si veda §4.1.1). Eppure, anche i soggetti dei
verbi transitivi occorrono spesso non marcati. Per risolvere questo problema, Motohashi
cita Dixon e il suo esempio del burushaski, lingua isolata parlata in alcune zone del
Pakistan. Questa lingua presenta un sistema di ergatività scissa in cui in alcuni casi A è
marcato con il caso ergativo ed è quindi distinto da S e O marcati con il caso assolutivo
(che formalmente non ha espressione fonica, è un morfema ø), in altri casi nessuno dei
tre argomenti è marcato (quindi un allineamento neutro). Allo stesso modo, Motohashi
310 Questi esempi sono ripresi da Motohashi (1989: 134-5).311 Motohashi purtroppo non si sofferma a spiegare questo esempio. Si noti però che l'assenza di wo nel
marcare l'oggetto tuma 'moglie' non è spiegabile attraverso i criteri di Hopper e Thompson: si tratta diun referente animato, non plurale, referenziale e definito, quindi perfettamente identificabile. Quindi,in teoria, secondo lo studio di Motohashi, l'oggetto tuma avrebbe dovuto essere marcato regolarmenteda wo. Una spiegazione all'assenza della particella in contesti come questo verrà proposta daFrellesvig, Yanagida e Horn nel loro studio sul DOM (§4.2).
155
sostiene che il giapponese antico avrebbe avuto un sistema di ergatività scissa
caratterizzato da un allineamento in parte ergativo-assolutivo (e il caso assolutivo
sarebbe marcato da ø) e in parte nominativo-accusativo (in cui la marca dell'accusativo
sarebbe stata wo).
Numerosi elementi rimangono però oscuri nella spiegazione dell'autore. Motohashi
non menziona il fatto che in burushaski si utilizza un allineamento o l'altro in base al
tempo verbale: se il tempo del verbo è passato (perfetto, participio passato e così via), è
obbligatorio marcare con il caso ergativo il soggetto del verbo transitivo A, se il tempo
del verbo non è passato non si utilizza il caso ergativo per marcare A. Come si è visto
(§4.1.1), tempo, modo e aspetto verbale sono elementi che molto frequentemente
condizionano l'allineamento morfosintattico. Motohashi però non tenta affatto di
spiegare quale sarebbe il criterio che determinerebbe la variazione di allineamento in
giapponese antico. Inoltre, Motohashi parla di un allineamento ergativo-assolutivo
senza mai definire quale particella marcherebbe il caso ergativo nel momento in cui
questo venisse espresso, anche a prescindere dalle condizioni che ne determinino
l'espressione obbligatoria. L'autore insiste sul fatto che il caso assolutivo sarebbe
marcato da ø, ma non definisce mai quale sarebbe la marca del caso ergativo. Lo stesso
problema si pone per quanto riguarda l'allineamento nominativo-accusativo.
Innanzitutto, Motohashi afferma che wo sarebbe la marca dell'accusativo. Se così fosse,
però, non sarebbe chiaro per quale motivo essa fosse utilizzata anche in costruzioni
come il costrutto in -mi, in cui wo marcherebbe, secondo Motohashi, il soggetto e
l'aggettivo sarebbe interpretabile come un predicato inaccusativo (ovvero un VP).
Inoltre, ammesso che wo si configuri come marca del caso accusativo, Motohashi non
spiega quale sia la marca del nominativo, se anche questa sia ø o un'altra particella
come ga o no.
Solo in un suo articolo di molto posteriore, Motohashi (2009), l'autore tenterà come
accennato di dare una ratio a tutti questi problemi rimasti insoluti nella sua prima
formulazione. In questo articolo Motohashi sostiene che il giapponese antico avrebbe
avuto un allineamento ergativo-assolutivo, abbandonando la precedente proposta legata
al sistema scisso. La particella wo si configurerebbe come particella assolutiva (e non
più accusativa), che marcherebbe indistintamente tutti i soggetti di verbi intransitivi e
156
gli oggetti dei verbi transitivi: in questa funzione wo alternerebbe con ø, che, come
marca del caso assolutivo, sarebbe ben più diffusa e frequente rispetto a wo. Per quanto
riguarda il caso ergativo, l'autore accenna al fatto che questo che sarebbe stato
precedentemente marcato da ni, ma che ormai il caso ergativo sarebbe stato in via di
sparizione e sarebbe stato presente solo in espressioni fisse e contesti limitati. Possiamo
quindi schematizzare il pensiero dell'autore nel seguente diagramma:
L'unico esempio di ni come caso ergativo che riporta Motohashi è il seguente:
君が 下紐 我 さへ に 今日 結びて な
kimi ga shita-bimo ware sape ni kepu musubi-te na
tu-ATTR sotto-cintura ø io PART PART oggi legare.RY-GER DES
'anche io vorrei oggi legare la tua cintura' (Man'yōshū 万葉集, maki 12, n. 3181).
Secondo Motohashi in questa frase ni (qui glossato PART) marca un sostantivo al
caso ergativo, ma la sua spiegazione rimane dubbia. Vovin infatti interpreta la forma
sape ni in questa e numerose altre frasi come una particella restrittiva sape 'perfino',
seguita dal verbo difettivo n- 'essere' nella sua forma infinitiva ni, in un utilizzo
avverbiale312. Data la scarsità degli esempi proposti da Motohashi, l'interpretazione di
Vovin sembra molto più convincente.
Accenniamo solo brevemente, invece, alla prima formulazione della teoria di
Yanagida, dato che la stessa autrice negli ultimi anni ha rettificato e ricorretto in molti
312 Vovin (2009b: 1285-6). Come si è già visto, anche altri elementi che vengono generalmenteinterpretati come particelle sono invece intesi da Vovin come verbi difettivi (DV): un altro esempio èto, particella che introduce un discorso diretto o indiretto, che Vovin glossa sempre come DV.
157
Fig. 11: L'allineamento delgiapponese antico secondo Motohashi
punti la sua iniziale interpretazione secondo cui il giapponese antico avrebbe avuto un
allineamento che lei definisce ergativo: la più recente proposta di Yanagida, nel suo
studio in collaborazione con Whitman, è che il giapponese antico avesse un sistema
scisso nominativo-accusativo in frase principale e attivo-stativo in frase subordinata
(§4.1.4). In realtà, sin dai suoi primi articoli sull'argomento, Yanagida sembra andare già
nella stessa direzione degli studi successivi condotti insieme a Whitman, e il fatto di
aver definito inizialmente il giapponese una lingua ad allineamento ergativo sembra in
parte un mero problema teminologico.
Nella sua prima formulazione313, la teoria di Yanagida, in breve, è la seguente. Il
morfema ø marca il soggetto di verbi intransitivi S e l'oggetto di verbi transitivi O: il
morfema ø può quindi essere riconosciuto come marca del caso assolutivo. Per quanto
riguarda la marca del caso ergativo, Yanagida pone una distinzione fra frasi principali e
subordinate. Nelle frasi subordinate, la marca del caso ergativo, secondo Yanagida,
sarebbe la particella ga, che marcherebbe il soggetto di verbi transitivi e il soggetto di
verbi intransitivi attivi detti anche inergativi (VA): la particella no condividerebbe le
stesse funzioni di ga, ma sarebbe utilizzata anche per segnalare il soggetto di verbi
intransitivi inaccusativi (VP) e quindi non è identificabile come marca di caso ergativo.
Come si può notare, benché Yanagida sostenga che ga sia la marca del caso ergativo,
questa particella marca l'agente A di VA e di VAP e quindi sembra piuttosto una marca di
caso agentivo in un sistema attivo-stativo, limitato alle subordinate: infatti, esattamente
questa sarà la proposta di Yanagida e Whitman negli studi successivi. Yanagida nei suoi
primi studi invece non definisce l'allineamento morfosintattico utilizzato nelle frasi
principali, ma – come si vedrà – nei suoi lavori successivi propone che il giapponese
antico nelle frasi principali avrebbe un sistema nominativo-accusativo.
La funzione della particella wo in questo sistema non è ancora quella della marca
dell'accusativo314. È vero che questa particella marca l'oggetto di verbi transitivi, ma allo
stesso modo segnalerebbe anche il soggetto di verbi intransitivi inattivi (P di VP) come
nella costruzione -mi, ed è utilizzata per esprimere complementi come temporali e
313 Si vedano principalmente Yanagida (2005) e Yanagida (2006).314 Yanagida (2005: 2). Per “caso accusativo” l'autrice non sembra intendere il caso grammaticale
accusativo, le cui funzioni sono sia grammaticali sia concrete, ma piuttosto la marca del paziente P inverbi bivalenti VAP.
158
locativi (le funzioni che erano state definite concrete, come visto in §2.1.2)315.
Inoltre, l'elemento marcato da wo non può, secondo l'autrice, posizionarsi accanto al
verbo, ma deve essere posto prima del soggetto (marcato o meno). Quindi, quando un
elemento è marcato da wo, l'ordine di costituenti nella frase diviene OSV. Si veda ad
esempio questa frase:
我れを 闇 に や 妹が
ware wo yami ni ya imo ga
io-OGG oscurità-LOC PART amata-SOGG
恋ひつつ あらむ
kopi-tutu ara-mu
desiderare.RY-GER esistere.MZ-CONG.RT
'la mia amata continuerà a desiderarmi nell'oscurità?'
(Man'yōshū 万葉集, maki 15, n. 3669).
Il soggetto imo 'amata', in questo caso marcato da ga, è immediatamente adiacente al
verbo, mentre l'oggetto marcato da wo è situato in posizione lontana dal verbo. In realtà,
si trovano numerose eccezioni all'ordine OSV con O marcato da wo, ed è quindi forse
315 Accenniamo soltanto al fatto che l'autrice conclude che questa particella avesse in origine unafunzione di caso obliquo in costruzioni antipassive, che sarebbe stato successivamente rianalizzato inun caso accusativo. La costruzione antipassiva nelle lingue con allineamento ergativo ha una funzionedel tutto simile a quella della costruzione passiva nelle lingue nominativo-accusative. Nelle lingueaccusative, come il sanscrito o il latino, l'oggetto O di una frase attiva (in accusativo) diviene soggetto(grammaticale) S al nominativo della frase passiva e il soggetto/agente A della frase attiva, se espressonella frase passiva, viene marcato nella passiva con un caso diverso (obliquo), ad esempio unostrumentale o un ablativo. Nelle lingue ergative come il dyirbal, il soggetto/agente A della frase attiva(al caso ergativo) diviene soggetto S della frase antipassiva e quindi viene marcato al caso assolutivo,mentre l'oggetto O della frase attiva (al caso assolutivo) viene marcato nell'antipassiva con un casoobliquo, ad esempio con il dativo. Si veda Dixon (1994: 146-52). Nei primi studi di Yanagida, laparticella wo avrebbe avuto la funzione di questo caso obliquo utilizzato nell'antipassiva, per poi venirrianalizzato in un caso accusativo: questo permette a Yanagida di spiegare l'utilizzo di wo nelle suefunzioni concrete e nell'espressione del soggetto in costruzioni intransitive (come la costruzione in-mi). Questa ipotesi è poi stata scartata negli studi successivi dell'autrice in collaborazione conWhitman. È interessante sottolineare uno dei motivi per cui questa ipotesi è stata messa indiscussione. L'elemento marcato dal caso obliquo nell'antipassiva (l'oggetto grammaticale nella fraseattiva corrispondente) è, secondo Dixon (1994: 148), generalmente indefinito e non referenziale,mentre come è stato sottolineato più volte la funzione di wo sembra proprio quella di marcare unoggetto definito, specifico o referenziale: sembra quindi molto improbabile che wo fosse un anticocaso obliquo, che esprime tipicamente elementi non definiti. Si veda Yanagida&Whitman (2009: 105-6), a cui si rimanda per ulteriori spiegazioni. Ulteriori critiche a questa teoria di Yanagida sono mosseda Wrona (2007b: 12-5).
159
meglio considerare questo fenomeno una tendenza e non una regola fissa316.
Yanagida conclude che la funzione di questa particella non sarebbe quindi una
funzione grammaticale, in quanto la funzione di accusativo secondo l'autrice non
sarebbe compatibile con gli altri suoi utilizzi (concreti e come marca del soggetto nella
costruzione in -mi). La funzione di wo sarebbe piuttosto pragmatica, in quanto la
posizione distante dal verbo in cui occorrono gli elementi marcati da wo ricorda da
vicino ciò che avviene in presenza di particelle pragmatiche (di questo si era già
accennato in §2.6). Il sintagma marcato da una particella pragmatica, che segnali il
topic o il focus come ad esempio ka, namo o koso (§1.1.5), occorre sempre prima del
soggetto della frase, e la stessa caratteristica hanno, nello studio di Yanagida, i
costituenti marcati da wo. Questo permette a Yanagida di concludere che la funzione di
wo sarebbe principalmente una funzione pragmatica: wo marcherebbe il topic o il focus
della frase317, una funzione pragmatica e non grammaticale.
4.1.3 L'allineamento nominativo-accusativo nel giapponese antico
Frellesvig e Wrona sono i due studiosi che maggiormente hanno tentato di
dimostrare che l'allineamento morfosintattico del giapponese antico sarebbe stato
nominativo-accusativo, al pari di quello del giapponese moderno318.
L'analisi dei due autori distingue l'espressione di soggetto e oggetto in frasi
principali e in frasi subordinate. Per quanto riguarda le frasi principali, non vi era un
morfema esplicito che segnalasse il soggetto, che compariva quindi non marcato da
alcuna particella. Nelle frasi subordinate, invece, il soggetto poteva essere espresso
tramite ga, no o ø: la distribuzione delle particelle ga e no, secondo i due studiosi, era in
parte differente, in quanto ga tendeva a marcare soggetti umani e animati, mentre no
poteva marcare tutti i soggetti, inclusi quelli ammessi da ga319. Come era già stato
accennato (§1.2), in presenza di sostantivi animati queste due particelle potevano
316 La stessa autrice riscontra alcune eccezioni nel Man'yoshu, in Yanagida (2006: 59-63), ma ulterioricontroesempi si trovano in Vovin (2005: 159) e in Wrona&Frellesvig (2009: 577): Wrona e Frellesvigammettono che la vicinanza fra verbo e oggetto tende a favorire la non occorrenza di wo, ma questa èappunto una tendenza e non una regola.
317 Yanagida (2006: 47-8).318 L'articolo di riferimento è Wrona&Frellesvig (2009), ma si veda anche Frellesvig (2010: 128-9).319 Frellesvig (2010: 128); Wrona&Frellesvig (2009: 566).
160
alternare, ad esempio nelle due frasi kimi no imashiseba 'se il mio signore fosse ancora
stato qui' e kimi ga imasaba 'se il mio signore è qui'. Wrona320 quindi avanza l'ipotesi
che la distribuzione di ga e no sarebbe connessa con la scala di animatezza di
Silverstein (§4.1.1): ga marcherebbe gli elementi che si trovano più in alto nella scala di
animatezza, no quelli che si trovano invece più in basso, ma non è raro che segnali
anche i sostantivi animati.
Per quanto riguarda invece l'espressione dell'oggetto, esso sia in frase principale che
in frase subordinata poteva o meno essere marcato da wo, e i due autori intepretano la
presenza di ø come “case drop”. Ci sono chiaramente alcuni fattori che condizionano o
comunque favoriscono l'utilizzo di wo e Wrona e Frellesvig ne identificano
principalmente due: il primo è la distanza dal verbo, che tenderebbe a favorire la
presenza di wo e infatti quasi tutti gli oggetti non marcati occorrono immediatamente
accanto al verbo; il secondo è la definitezza e referenzialità dell'oggetto, in quanto
oggetti definiti e referenziali tendono ad essere marcati da wo321. Questi due elementi in
realtà non rendono obbligatoria l'espressione di wo, e infatti si notano numerosi
controesempi, come il seguente322:
320 Wrona (2007b: 7-8). Wrona sembra intendere, pur non scrivendolo espressamente, la possibilità chela distribuzione di ga sia connessa con una marcatura differenziale del soggetto (differential subjectmarking, DSM), un fenomeno del tutto simile al DOM (differential object marking, di cui si parlerà in§4.2.2). In generale per “marcatura differenziale” si intende un fenomeno in cui un determinato ruolosemantico o relazione grammaticale viene marcato espressamente o meno sulla base di proprietàsemantiche o pragmatiche come animatezza, definitezza, specificità. La posizione dell'elemento sullascala di animatezza di Silverstein (§4.1.1) è uno dei criteri maggiormente utilizzati nelle lingue pereffettuare la marcatura differenziale e si tende a marcare esplicitamente l'elemento quando questo hacaratteristiche diverse da quelle prototipiche. L'agente A è prototipicamente animato, il paziente Pinanimato: il paziente è oggetto di marcatura differenziale (DOM) se in quella determinata occorrenzaè animato (anche per non confonderlo con l'agente, prototipicamente animato), l'agente in teoriadovrebbe essere marcato (DSM) se non è animato. Se nel DOM generalmente nelle lingue si rispettaquesto criterio, nel DSM spesso non lo si fa e in molte lingue accade, viceversa, che l'agente siamarcato solo se alto nella scala di animatezza: questo sarebbe ciò che accadrebbe in giapponese, in cuisi avrebbe la marcatura differenziale del soggetto, se animato, tramite ga. A proposito del rapporto frala marcatura differenziale e l'animatezza, si veda l'interessantissimo articolo Malchukov (2008).
321 Wrona&Frellesvig (2009: 577-8). L'idea che la definitezza e referenzialità influenzerebbero lapresenza di wo è stata poi ripresa da Frellesvig nel 2013, nello studio in cui lui, Yanagida e Hornhanno concluso che l'espressione di wo dipenderebbe dalla specificità dell'oggetto (§4.2).
322 Frellesvig (2010: 130). Riguardo questa frase si veda anche §5.2.
161
青柳 梅 との 花を 折り
awo-yanagi ume to no pana wo wori
verde-salice pruno-COM-ATTR fiori-OGG spezzare.RY
'spezzare i fiori del salice verde e del pruno' (Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 821).
In questa frase l'oggetto, pur comparendo immediatamente accanto al verbo, è
marcato da wo. L'adiacenza al verbo e la non definitezza e referenzialità dell'oggetto
tenderebbero quindi a sfavorire la presenza di wo, ma si tratterebbe appunto di una
tendenza e non di una vera e propria regola.
Wrona e Frellesvig, inoltre, sono fra i pochissimi autori a riconoscere che anche le
funzioni concrete della particella grammaticale wo non sono in conflitto con la sua
funzione grammaticale principale, che secondo i due studiosi sarebbe quella di
segnalare l'oggetto diretto. Come è stato già esaminato (§2.1.2) la particella wo poteva
marcare anche ruoli semantici come il percorso (moto per luogo) o l'origine (moto da
luogo), ma anche il complemento di tempo continuato. I due studiosi, correttamente,
asseriscono che non è affatto raro che il morfema che marca l'oggetto diretto (da loro
definito marca dell'accusativo) venga utilizzato in queste funzioni concrete: questo
avviene in coreano, ungherese, finlandese, latino323. L'utilizzo in funzione concreta di
wo confermerebbe quindi la sua funzione di marca dell'accusativo, secondo i due autori.
La teoria di Wrona e Frellesvig sull'allineamento del giapponese antico è quindi
schematizzabile nel diagramma della Fig. 12.
323 Wrona&Frellesvig (2009: 573).
162
Fig. 12: L'allineamento del giapponese antico secondo Wrona e Frellesvig
4.1.4 L'allineamento attivo-stativo nel giapponese antico
Sono principalmente due gli studi in cui si attribuisce al giapponese antico un
allineamento almeno parzialmente attivo-stativo: lo studio di Yanagida e Whitman da un
lato e quello di Vovin dall'altro. Una differenza fondamentale che si noterà fra i due
studi è il ruolo che si ritiene svolto dalla particella wo nel sistema attivo-stativo: se,
come si vedrà, Yanagida e Whitman non tengono molto in considerazione la
distribuzione di questa particella nel loro studio (wo avrebbe una funzione differente,
ovvero pragmatica, connessa alla specificità dell'oggetto) e tendono a impostare la
ricerca sulla base delle occorrenze della particella ga in alternanza con ø, al contrario le
occorrenze e la funzione di wo assumono un'importanza centrale nella ricerca di Vovin.
Ed è probabilmente a causa della differenza nell'importanza assunta da wo nei due studi
che gli esiti delle due ricerche sono ben differenti.
Come accennato (§4.1.2), Yanagida e Whitman324 hanno tentato, nelle loro
ricerche più recenti, di dimostrare che il giapponese antico sarebbe stato caratterizzato
da un sistema scisso: un allineamento nominativo-accusativo nelle frasi principali e uno
attivo-stativo nelle frasi subordinate.
Per quanto riguarda le frasi principali, i due autori affermano che sia i soggetti di
verbi transitivi e intransitivi sia l'oggetto sono marcati da ø e questo permetterebbe di
definire l'allineamento del giapponese antico nominativo-accusativo325. In realtà, se tutti
gli argomenti sono trattati formalmente allo stesso modo (in questo caso marcati dal
morfema ø), l'allineamento può essere definito in modo più corretto neutro, e non
nominativo-accusativo, in quanto il paziente del verbo bivalente (P di VAP) non viene
codificato in maniera differente.
La questione è invece più complessa per quanto riguarda le frasi subordinate: per
frasi subordinate i due studiosi intendono tutte le proposizioni in cui il verbo si trovi in
forma attributiva (RT), imperfettiva (MZ), perfettiva (IZ) e i casi in cui occorrono
costruzioni che permettono di nominalizzare il verbo (ad esempio la costruzione -ku,
324 Due testi di riferimento sono Whitman&Yanagida (2009) e Whitman&Yanagida (2012). Lungo la spiegazione della loro teoria verranno comunque forniti riferimenti puntuali alle pagine dei due articoli.
325 Whitman&Yanagida (2012: 188).
163
tramite cui il verbo suru 'fare' diviene suraku e ha funzione di verbo nominalizzato).
Nella frase subordinata, il soggetto in giapponese antico poteva essere codificato in
tre modi diversi, come già visto anche nella teoria di Wrona e Frellesvig (§4.1.3):
tramite le particelle ga o no, oppure con ø. Come è già stato accennato, vi è un generale
accordo fra gli studiosi nell'affermare che ga veniva utilizzato con referenti umani o
animati, mentre no poteva marcare tutti i sostantivi, anche quelli ammessi da ga. Infatti,
visto che no poteva marcare ogni tipo di soggetto nelle frasi subordinate, Yanagida e
Whitman non prendono in considerazione questa particella nella loro spiegazione
dell'allineamento attivo-stativo del giapponese antico: l'alternanza su cui si concentrano
nel loro studio è ga-ø, nella loro funzione di marca dei soggetti delle subordinate.
Secondo i due autori l'alternanza si basa su due elementi fondamentali: la scala di
animatezza di Silverstein (questo era già stato notato anche da Wrona §4.1.3) e il ruolo
semantico assegnato dal verbo326. La distribuzione della particella ga è ristretta a
sostantivi il cui referente è alto nella scala dell'animatezza (come accennato, referenti
animati, soprattutto se umani e specifici, ad esempio i pronomi personali), mentre
l'assenza di marcatura esplicita è invece più frequente se il sostantivo ha referente
inanimato. Ad esempio:
我が 背子が 琴 取る なへ に
wa ga seko ga koto327 toru nape ni
io-ATTR amato-SOGG koto ø prendere.RT non appena PART
'non appena il mio amato prese il koto' (Man'yōshū 万葉集, maki 18, n. 4135);
海石 に ぞ 深 海松 生ふる
ikuri ni zo puka -miru opuru
scogliera-LOC FOC profonda-alga ø crescere.RT
'le alghe profonde crescono sulle scogliere' (Man'yōshū 万葉集, maki 2, n. 135).
Come si nota dagli esempi, il soggetto seko 'l'amato' è animato e specifico ed è
marcato da ga, mentre il soggetto miru 'alghe' è inanimato e non è marcato da alcuna
326 Whitman&Yanagida (2012: 189).327 Il koto è uno strumento musicale tradizionale, a corda, molto diffuso in Giappone.
164
particella.
Il secondo fattore che condiziona l'alternanza ga-ø è il ruolo semantico assegnato dal
verbo. L'agente A di un verbo monovalente VA e di un verbo bivalente VAP verrebbe
marcato da ga, mentre il paziente P di un verbo monovalente VP sarebbe marcato da ø:
la scelta, accennano brevemente Yanagida e Whitman, verrebbe fatta sulla base di criteri
come il controllo e l'intenzionalità328. Negli stessi esempi visti sopra, il verbo toru
'prendere' è un verbo bivalente, e il suo agente è marcato da ga, invece il verbo opu
'crescere' è monovalente e l'attante ha il ruolo semantico del paziente, quindi non viene
marcato da alcuna particella.
I due fattori, posizione nella scala di animatezza e ruolo semantico assegnato, sono
chiaramente collegati, anche se i due autori non ne fanno menzione: un sostantivo il cui
referente sia situato più in alto nella scala di animatezza tenderà con più probabilità ad
avere il ruolo di agente A, anche perché tenderà a essere maggiormente connesso con il
controllo dell'azione, mentre un sostantivo il cui referente si trovi più in basso tenderà
ad essere identificato come paziente P, e generalmente non ha il controllo dell'azione329.
In base a questo, si può anche ipotizzare che la particella ga, in funzione di marca del
soggetto, sia strettamente connessa soltanto alla scala di animatezza, e sia proprio per
questo che spesso si trova a marcare un agente A: come fa notare Wrona, è anche
possibile che la distribuzione di ga sia “related to animacy rather than case-marking
patterns”330 e quindi l'alternanza ga-ø non abbia nulla a che fare con un allineamento
attivo-stativo.
Ad ogni modo, secondo Whitman e Yanagida, quindi, la particella ga marcherebbe
soggetti con referente umano o animato, che abbiano il ruolo semantico di agente A,
mentre con ø si segnalerebbero i soggetti inanimati che abbiano il ruolo semantico di
paziente P.
Per quanto riguarda l'oggetto in frase subordinata, secondo i due autori la marca di
default è ø.331 Il paziente P del verbo bivalente VAP non è marcato da alcun morfema
esplicito, esattamente come nessun morfema esplicito marca il paziente P del verbo
328 Whitman&Yanagida (2009: 114).329 Si veda anche Dixon (1994: 85).330 Wrona (2007b: 7-8). 331 Whitman&Yanagida (2012: 190).
165
monovalente il cui attante unico abbia il ruolo semantico di paziente (VP). Se la marca
del paziente in verbi bivalenti in frase subordinata è ø (ma, come visto, lo è anche in
frase principale), la funzione della particella wo non può essere una funzione
grammaticale: Yanagida e Whitman sono infatti fra gli autori che sostengono con più
forza l'idea di un valore anche pragmatico in giapponese antico di wo, che infatti
marcherebbe l'oggetto a patto che questo sia specifico (si veda §4.2)332. Questa particella
quindi non ha un ruolo di primo piano nella teoria proposta da Yanagida e Whitman.
Essa non si configura né come marca grammaticale dell'oggetto né come marca di caso
pazientivo nell'allineamento attivo-stativo, ma ha una funzione ben diversa: quella di
segnalare che il sostantivo che marca debba essere considerato specifico, funzione che
quindi si discosta dal problema dell'allineamento morfosintattico del giapponese antico.
Inoltre, come già accennato (§4.1.2), quando è presente la particella wo l'oggetto
marcato tende a non occorrere accanto al verbo ma a posizionarsi prima del soggetto in
un ordine OSV.
L'analisi del trattamento formale di agente e paziente nelle frasi subordinate permette
in conclusione ai due autori di ipotizzare un allineamento attivo-stativo, limitato
appunto alle frasi subordinate: la particella ga marcherebbe l'agente A sia in verbi
monovalenti VA che in verbi bivalenti VAP, mentre il paziente P di verbi monovalenti VP e
bivalenti VAP non sarebbe marcato da alcun morfema. L'interpretazione di Yanagida e
Whitman può essere quindi schematizzata nel diagramma seguente:
Come si può vedere, nelle frasi principali l'allineamento, benché definito dagli autori
332 Whitman&Yanagida (2009: 126).
166
Fig. 13: L'allineamento del giapponese antico secondoYanagida e Whitman
nominativo-accusativo, sembrerebbe piuttosto un allineamento neutro, mentre nelle frasi
subordinate l'allineamento è attivo-stativo, e l'agente A è codificato in modo diverso
rispetto al paziente P.
Vediamo alcuni esempi di verbi categorizzati agentivi o pazientivi da Yanagida333.
Esempi di verbi monovalenti agentivi (VA) il cui soggetto viene generalmente marcato
da ga in frase subordinata sono のる noru 'cavalcare', なく naku 'piangere', 行く yuku
'andare'; verbi monovalenti pazientivi (VP), il cui soggetto non è marcato da alcuna
particella sono ad esempio 咲く saku 'fiorire', 散る tiru 'cadere', ふく puku 'soffiare', 住
む sumu 'vivere', 立つ tatu 'stare in piedi', く ku 'venire'. Questi esempi permettono di
notare immediatamente un problema nello studio di Yanagida: non è chiaro il criterio
secondo cui si distinguono verbi agentivi e verbi pazientivi. Yanagida e Whitman
accennano – come già visto – che uno dei criteri, oltre all'animatezza del soggetto, è
legato al controllo e all'intenzionalità. Questo può giustificare il fatto che un verbo come
tiru 'cadere' sia classificato come verbo pazientivo, in quanto il soggetto generalmente
non ha controllo dell'azione e non la compie intenzionalmente, tanto più che spesso
questo verbo è utilizzato con un soggetto come 'fiori, petali'. Ma questo criterio non
permette affatto di capire perché anche verbi come ku (odierno kuru) 'venire' o tatu
'stare in piedi' debbano essere classificati all'interno del gruppo dei verbi pazientivi, pur
essendo verbi che denotano azioni in cui il soggetto sembra essere ben in controllo, al
pari di verbi come yuku 'andare' e kaperu (odierno kaeru) 'tornare', classificati invece
come agentivi. Sembra che gli autori abbiano categorizzato i verbi sulla base della
codifica formale dell'attante, e non abbiano tentato fino in fondo di dare una ratio a
livello semantico a questa distinzione, accennando soltanto a criteri legati
all'intenzionalità e al controllo, che però non sembrano essere del tutto coerenti con la
classificazione dei verbi.
Mentre lo studio di Yanagida e Whitman non prende molto in considerazione la
particella wo e i due autori non ritengono che essa segnali una relazione grammaticale
o un ruolo semantico, ma che abbia un valore principalmente pragmatico (il ruolo svolto
da wo quindi esulerebbe dal problema dell'allineamento), la ricerca circa l'allineamento
333 Yanagida (2005: 4). L'elenco dei verbi viene fornito dalla studiosa in questo articolo, e negli articoli successivi non è più stato riproposto ma sembra essere stato ampiamente utilizzato in Whitman&Yanagida (2009) e Whitman&Yanagida (2012).
167
morfosintattico del giapponese antico ad opera di Vovin è molto più incentrata sulla
funzione di questa particella: nella teorizzazione di Vovin wo si configura come marca
morfologica del ruolo semantico del paziente, ovvero la marca del caso pazientivo.
Il punto di partenza di Vovin è infatti la distribuzione di wo: essa era utilizzata per
marcare l'oggetto sia nelle frasi principali sia nelle frasi subordinate, ma poteva anche
marcare il soggetto di frasi in cui il predicato fosse un verbo intransitivo non attivo (un
VP). L'esempio più evidente è la costruzione -mi (§2.5), costrutto in cui sono presenti un
sostantivo marcato da wo (ma poteva occorrere anche non marcato) e un aggettivo con
suffisso -mi, e questo aggettivo viene definito da Vovin “quality stative verb”334: gli
esempi che Vovin riporta sono numerosissimi, dato che in epoca Nara questa
costruzione era molto frequente. Ma gli esempi in cui wo marcherebbe un soggetto di un
verbo pazientivo non sono limitati solo alla costruzione -mi: Vovin propone cinque frasi
in cui wo marca il soggetto di verbi come aru 'esserci', naku 'piangere', nadumu
'attaccarsi'335. Ad esempio:
紫の にほへる 妹を
murasaki no nipoperu imo wo
violetta-COMP essere bello.IZ-RIS.RT amata-ABS336
憎く あらば
nikuku ara-ba
detestabile.RY essere.MZ-IPOT
'se la mia amata, che è bella come una violetta, fosse detestabile (per me)'
(Man'yōshū 万葉集, maki 2, n. 21);
334 Vovin (1997: 276). Come già accennato (§2.5), l'autore preferisce questa definizione a quellatradizionale di “aggettivo” per evitare errate analogie con la categoria degli aggettivi delle lingueeuropee.
335 Questi cinque esempi sono proposti in Vovin (1997: 278-9) e Vovin (2005: 166-9). Si noti che ilverbo naku 'piangere' è uno dei verbi che Yanagida aveva inteso come agentivi (VA) il cui soggetto èmarcato da ga, mentre Vovin lo intende, almeno nell'occorrenza da lui citata, come pazientivo (VP).Ancora una volta si può vedere come i criteri che permettono di distinguere verbi pazientivi e verbiagentivi non sono univoci e condivisi. Anche qui si nota che Vovin, come Yanagida, non definisce uncriterio secondo cui distinguere le due tipologie di verbi, ma sembra riconoscere questa distinzionesolo sulla base del morfema che marca il soggetto del verbo in questione. Il verbo naku nel suoesempio è intransitivo inattivo (VP) e sembra essere interpretato come tale solo in quanto il suosoggetto è marcato da wo, e non in base a criteri come controllo, volontarietà e così via.
336 Si riporta qui la glossa di Vovin. Il caso pazientivo viene chiamato da lui assolutivo, quindi wo vieneglossato dall'autore come ABS, absolutive.
168
妹 を 下泣き に
imo wo shita-naki ni
amata-ABS sotto-piangere.RY COP
'l'amata pianse segretamente' (Kojiki 古事記, 78);
くはしめ を あり と きこして
kupashime wo ari to kikoshi-te
bella donna-ABS essere.SS DV337 sentire.RY-GER
'avendo sentito che ci fosse una bella donna' (Kojiki 古事記, 2).
In queste frasi wo segnala il soggetto di un verbo intransitivo che Vovin definisce
inattivo: in queste occorrenze quindi la particella sarebbe utilizzata come marca del
paziente. In funzione di marca del soggetto di verbi intransitivi pazientivi (VP), wo
avrebbe avuto un uso molto raro già nella lingua giapponese di epoca Nara e nell'epoca
Heian questo utilizzo sarebbe scomparso lasciando solo pochi retaggi nei primi testi del
periodo. La funzione primaria di wo sarebbe stata quindi quella di segnalare l'oggetto
sin dal giapponese antico, ma in alcune costruzioni di epoca Nara wo avrebbe anche
potuto marcare il soggetto di verbi intransitivi pazientivi. La particella wo quindi
marcherebbe il paziente P di VP e di VAP.
Per quanto riguarda la marca dell'agente, che – come si ricorderà – secondo
Yanagida e Whitman sarebbe la particella ga, Vovin ritiene che sarebbe identificabile
con la particella i338. Questa particella non è affatto diffusa nei testi del giapponese
antico: non ne abbiamo traccia nel Kojiki e nel Nihonshoki, in tutto il Man'yoshu appare
solo cinque volte, e i testi in cui occorre con più frequenza sono i Senmyō in cui
compare dodici volte. Un ampissimo uso ne fu fatto invece nelle glosse utilizzate nella
pratica del kanbun-kundoku (§3.1.1) nel periodo Heian e infatti ve ne sono moltissimi
337 Anche qui seguiamo la glossa di Vovin. Questa frase era già stata riportata in §2.1.2, dove laparticella to era stata glossata QUOT “citazione”, perché essa segue discorsi diretti e indiretti. Vovininvece la glossa DV, verbo difettivo. Era già stato fatto notare in §2.1.2 che Hashimoto ritiene questoun utilizzo particolare della particella wo, in cui wo marcherebbe il soggetto di frasi a cui si postponela particella to, similmente all'utilizzo dell'accusativo per marcare il soggetto di frasi infinitiveoggettive in latino (accusativus cum infinitivo).
338 Vovin (1997: 281). Di questa particella si è già accennato nel §1.1.2.
169
esempi nei testi buddhisti di quel periodo339. Secondo Vovin, la funzione di questa
particella in queste sue rare occorrenze sarebbe quella di segnalare il caso agentivo: i
marcherebbe quindi l'agente A di verbi monovalenti agentivi (VA) e di verbi bivalenti
(VAP). Un esempio portato da Vovin è il seguente:
奈良麻呂古麻呂等 い 逆しま に ある
Naramaro Komaro-ra i sakashima ni aru
Naramaro Komaro-PLUR-AG opposto COP essere.RT
ともがら を 誘ひ 率ゐて
tomo-gara wo izanapi- pikiwi-te
compagno-SUFF-OGG istigare.RY-condurre.RY-GER
'Naramaro, Komaro e altri istigarono e condussero un gruppo di ribelli'
(Senmyō 宣命 19, 2).
In questo esempio la particella i marca l'agente in una frase il cui predicato è
composto da due verbi transitivi, izanapu 'istigare' e pikiwiru 'condurre'. Negli altri
esempi proposti da Vovin, la particella i, come marca del caso agentivo, segnala il
soggetto di verbi transitivi come とどむ todomu 'fermare', 結ぶ musubu 'legare', 仰ぐ
apugu 'guardare (in alto)', 申す mawosu (o mōsu) 'dire', ma anche un verbo intransitivo
attivo come 帰り参る kaperimawiru 'tornare indietro'340.
Benché secondo la teoria di Vovin wo possa segnalare il paziente P e i possa marcare
l'agente A, lo studioso non conclude affatto che il giapponese antico fosse una lingua
con allineamento attivo-stativo. Anzi, accadeva molto più frequentemente che il
soggetto di un verbo transitivo S e l'agente del verbo intransitivo A (che nella
formulazione di Kibrik sono identificabili con l'agente A di VA e di VAP e il paziente P di
VP) occorressero marcati con ø. L'oggetto O del verbo transitivo (P di VAP) invece
occorreva spesso marcato da wo, benché anche questa particella potesse alternare con ø.
Questo permette a Vovin di affermare che il giapponese antico combinerebbe un
339 Frellesvig (2010: 131-132); Whitman&Yanagida (2012b: 128).340 Si vedano i numerosi esempi in Vovin (2005: 111-4). L'unico esempio in cui i sembra marcare il
soggetto di un verbo intransitivo è proprio nella frase in cui segnala il soggetto del verbo 'tornareindietro': in tutti gli altri esempi, il verbo è transitivo.
170
allineamento nominativo-accusativo e un allineamento attivo-stativo, con una ben ampia
preferenza per quello accusativo: il sistema di base sembrerebbe essere quello
nominativo-accusativo, quindi, ma il giapponese di epoca Nara presenterebbe anche
alcune costruzioni in cui l'allineamento sarebbe attivo-stativo. Il sistema teorizzato da
Vovin è quindi così schematizzabile:
Quella che è stata esposta fin qui è la prima formulazione della teoria di Vovin, ma in
realtà lo stesso studioso e molti altri autori hanno ampimente discusso sul ruolo che
debba essere attribuito alla particella i e sull'origine di questa particella.
L'interpretazione non è affatto concorde tra gli studiosi, principalmente a causa della sua
non ampia distribuzione all'interno dei testi in giapponese antico: come è stato detto, se
si escludono le occorrenze nelle glosse dei testi sino-giapponesi, gli esempi della
particella i nei testi antichi sono circa venti in tutto. Fra le diverse soluzioni proposte
dagli studiosi si deve citare quella di Miller, che ipotizzò che questa particella avesse
funzione di accusativo, e allo stesso modo Itabashi propose che i sarebbe stata utilizzata
come marca del caso accusativo, ma avrebbe marcato anche il soggetto nel discorso
indiretto; negli studi più recenti sembra esservi un generale accordo invece sul fatto che
i segnalerebbe il soggetto o l'agente: secondo Frellesvig ad esempio marcherebbe
soggetti, e sarebbe utilizzata principalmente in frasi subordinate341.
Anche l'origine della particella i non è chiara, e un'importante teoria è stata proposta
solo negli ultimi anni. Era stato ipotizzato da molti studiosi nel secolo scorso che questa
particella fosse imparentata con il morfema coreano i, che avrebbe marcato il soggetto
in un sistema nominativo-accusativo in coreano medio (nel XV secolo circa); una teoria
341 Miller è citato in Frellesvig (2010: 131), Itabashi in Vovin (2005: 113). Anche la teoria di Frellesvig èesposta in Frellesvig (2010: 131).
171
Fig. 14: L'allineamento del giapponese antico secondo Vovin
successiva propone che questo morfema avrebbe avuto in coreano una funzione
ergativa, quindi avrebbe marcato solo il soggetto di verbi transitivi342. Recentemente è
stato ipotizzato che i due morfemi non sarebbero imparentati, ma piuttosto che si
tratterebbe di un prestito dal coreano al giapponese343, e questo permetterebbe anche di
spiegare la sua diffusione nei senmyō e nei testi cinesi glossati tramite la pratica del
kanbun-kundoku (pratica che, come accennato §3.1.1, avrebbe influenzato molto la
lingua utilizzata nei senmyō): vi fu un “heavy continental, and in particular Sillan,
component in the establishment of kunten glossing practice in Japan”344. Una pratica
identica al kanbun-kundoku era infatti in uso anche in Corea (e veniva chiamata kugyŏl),
e Yanagida e Whitman ricordano che le glosse giapponesi di testi buddhisti in cinese
(come l'Avataṃsaka sūtra) furono spesso composte prendendo ad esempio le glosse
coreane. Il morfema i venne quindi preso in prestito proprio all'interno della pratica del
kanbun-kundoku ed è nelle glosse dei testi cinesi che venne utilizzato maggiormente:
questo morfema non può essere originario giapponese, altrimenti sarebbe stato presente
anche in testi come Kojiki e Nihonshoki.
La sua funzione in coreano quindi non è chiara, ma sembra che vi sia un accordo fra
gli studiosi nell'affermare che si tratti di una funzione grammaticale: i viene intesa come
marca del nominativo (marcherebe il soggetto di tutti i verbi transitivi e intransitivi),
come marca agentiva (marcherebbe l'agente in verbi transitivi e intransitivi attivi), o
come marca del caso ergativo (segnalerebbe solo l'agente di verbi transitivi). Secondo
Yanagida e Whitman, la presenza della particella i in giapponese non sarebbe invece
determinata soltanto dalla relazione grammaticale (soggetto) o dal ruolo semantico
(agente) del sostantivo che marca, come in coreano: questa particella avrebbe anche una
funzione pragmatica di “broad focus subject”345. A causa di questa sua funzione anche
pragmatica e legata alla struttura informativa dell'enunciato, la particella i tenderebbe ad
342 La prima teoria è proposta da Aston, Martin e altri, la seconda da King: queste teorie vengono citate in Vovin (1997: 288) che in quell'articolo si rifà all'ipotesi di King.
343 Vovin (2005: 111-6); Whitman&Yanagida (2012b: 130-1).344 Whitman&Yanagida (2012b: 133). Silla è uno dei tre regni (insieme a Paekche e Koguryŏ) che
occuparono la Corea e parte della Manciuria fino al VII secolo, quando il regno di Silla si impose sugli altri due. Per kunten, come già visto, si intendono i segni grafici come punteggiatura o diacritici, ma anche grafemi in katakana, che vengono utilizzati nella pratica del kanbun-kundoku.
345 Whitman&Yanagida (2012: 133). Si noti inoltre che l'origine coreana di i e la sua funzionegrammaticale in coreano contraddicono necessariamente la teoria interiezionale (§1.1.2), secondo cuiquesta particella sarebbe stata in origine appunto una particella interiezionale poi grammaticalizzatasi.
172
alternare con ø: la presenza di i segnalerebbe il fatto che il soggetto o l'agente viene
nominato per la prima volta nel testo o che non può essere dedotto da ciò che è stato
detto precedentemente, mentre un soggetto o agente già nominato oppure “discourse-
presupposed” come la prima e la seconda persona o l'imperatore verrebbero espressi
senza particella (infatti i pronomi personali non sono mai marcati con i). La particella i
sembra quindi segnalare un'informazione nuova (new), mentre ø un'informazione data
(given).
Questa idea della particella i come marca di un “broad focus subject” non sembra
necessariamente contraddire l'interpretazione di Vovin, secondo cui i marcherebbe
l'agente. Questa interpretazione aggiungerebbe semplicemente un valore pragmatico alla
particella che marca l'agente, così come un valore similmente pragmatico viene
attribuito da molti studiosi anche alla particella wo (§4.2), che nell'ipotesi di Vovin
marcherebbe il paziente. L'espressione di entrambe le particelle è legata anche, ma non
solo, alla struttura informativa dell'enunciato: la presenza di i segnalerebbe il fatto che il
soggetto non è stato precedentemente identificato, wo segnalerebbe il fatto che l'oggetto
è specifico, ovvero che il referente è connesso ad un altro referente precedentemente
stabilito ed è identificabile nella mente del parlante. Non si tratta quindi di una funzione
strettamente grammaticale (se così fosse, la presenza di queste particelle sarebbe
obbligatoria), ma non sembra nemmeno trattarsi di una funzione esclusivamente
pragmatica: sia wo sia i occorrono in connessione con relazioni grammaticali (o ruoli
semantici) ben precisi, wo con l'oggetto (o il paziente P, secondo Vovin) e i con il
soggetto (o l'agente A, in Vovin). Se si trattasse di una funzione esclusivamente
pragmatica, la particella i ad esempio dovrebbe poter essere utilizzata per segnalare il
focus su qualsiasi elemento della frase, come accade con altre particelle pragmatiche
quali koso, namo e così via (§1.1.6). Anche in questo caso, come già visto riguardo alla
particella ga moderna (§1.2.3; §2.6), i piani grammaticale, semantico e pragmatico
sembrano sovrapporsi, e questo non permette di assegnare facilmente un valore solo
grammaticale o solo pragmatico a una particella.
A causa dell'ipotesi formulata da Vovin e da Yanagida e Whitman riguardo l'origine
coreana della particella i, però, sembra difficile riconoscere proprio nella particella i la
marca del caso agentivo di un allineamento anche parzialmente attivo-stativo. Proprio a
173
causa del fatto che i avrebbe origine come prestito dal coreano, questa particella è infatti
attestata tardi (non se ne trova traccia nel Kojiki o nel Nihonsoki), e usata
principalmente in ambienti molto specializzati legati alla pratica del kanbun-kundoku
(se escludiamo cinque occorrenze nel Man'yoshu). Al contrario, la particella wo, che
Vovin identifica come marca del caso pazientivo, è attestata sin dai primissimi testi,
sicuramente in funzione di marca dell'oggetto, e nella teoria di Vovin anche come marca
del paziente con verbi intransitivi inattivi. Gran parte delle occorrenze della costruzione
-mi, ad esempio, si trovano nel Man'yoshu, ma questa costruzione è utilizzata
diffusamente anche nel Kojiki.
È possibile ipotizzare, piuttosto, che il giapponese antico avesse effettivamente
presentato alcune costruzioni in cui si possa riconoscere un allineamento attivo-stativo,
ma che questo fenomeno fosse limitato solo a verbi monovalenti pazientivi (VP). Questo
permetterebbe di spiegare il motivo per cui wo segnalerebbe il soggetto in presenza di
alcuni predicati o costrutti intransitivi, come la costruzione in -mi, già nel Kojiki. Come
è già stato visto (§4.1.1), secondo alcuni studiosi in quasi tutte le lingue del mondo
esisterebbero verbi monovalenti in cui l'attante verrebbe codificato in modo atipico:
l'allineamento attivo sarebbe presente in tutte le lingue in gradi diversi. Si potrebbe
quindi spesso identificare una lingua come appartenente a un tipo accusativo o ergativo,
un chiaro e ben identificabile allineamento di base, in cui poi si trovino anche attanti di
verbi monovalenti codificati in modo atipico. Questo potrebbe essere proprio il caso del
giapponese antico. A prescindere dal fatto che l'allineamento di base sia neutro o
nominativo-accusativo, la particella che marca l'oggetto specifico (in una situazione di
differential object marking §4.2) verrebbe utilizzata in alcuni casi per segnalare l'attante
unico di verbi monovalenti pazientivi, codificato in modo atipico. Ed è per questo che si
incontrerebbero in giapponese antico alcune costruzioni a cui si può attribuire un
allineamento attivo-stativo: come si è visto, la costruzione -mi ne è l'esempio più
evidente (e in cui la particella wo è utilizzata in modo più stabile), ma non il solo. Ed è
possibile che come nella sua funzione di marca dell'oggetto specifico, anche nella sua
funzione di marca (rara e atipica) del paziente P in verbi monovalenti VP wo fosse stata
utilizzata solo se il referente del sostantivo fosse stato specifico. Questa idea è rafforzata
dallo studio di Motohashi (§2.5), in cui l'autore ipotizza che anche nella costruzione in
174
-mi, come nelle costruzioni transitive, la particella wo sarebbe presente o meno in base
al criterio dell'alta identificabilità di Hopper e Thompson. Tramite questo parametro si
distinguono, come visto, gli oggetti umani e animati da quelli inanimati, gli oggetti
denominati con nome proprio da quelli con nome comune, gli oggetti definiti,
referenziali e specifici da quelli non definiti e così via: solo i sostantivi altamente
identificabili sarebbero, secondo Motohashi, marcati da wo sia nelle costruzioni
transitive sia nel costrutto -mi. Oltre agli esempi in cui compare il costrutto -mi, come
detto, Vovin fornisce ulteriori cinque esempi in cui wo marcherebbe il soggetto di un
verbo intransitivo inattivo (P di VP), tre dei quali sono stati riportati sopra. In tutte
queste cinque frasi, il sostantivo marcato da wo sembra essere anch'esso altamente
individuabile, secondo i criteri di Hopper e Thompson: i sostantivi marcati in questi
cinque esempi sono 妹 imo 'l'amata', くはしめ kupashime 'bella donna', をとめ
wotome 'ragazza'346. È quindi possibile che la marca dell'oggetto specifico possa esser
stata utilizzata in alcune rare costruzioni con allineamento attivo-stativo, in cui l'attante
(altamente individuabile) del verbo monovalente pazientivo fosse stato codificato in
modo atipico.
La teoria di Vovin è sicuramente interessante perché permette di dare una ratio ad
alcune occorrenze particolari di wo, che altrimenti sarebbero difficili da spiegare. E
sarebbe a maggior ragione convincente se fosse vero che, come ritengono Bickel e
Nichols (§4.1.1), l'allineamento attivo-stativo sia presente in tutte le lingue in gradi
diversi: la presenza di wo a marcare il paziente P di verbi monovalenti inattivi VP
sarebbe quindi interpretabile come una rara e atipica strategia di marcatura del paziente
all'interno di un allineamento nominativo-accusativo. Ed ancor più utile potrebbe essere
tentare di applicare all'interpretazione di Vovin la recente teoria del differential object
marking in giapponese antico, in cui la presenza di wo si spiegherebbe sulla base della
specificità dell'oggetto. L'oggetto verrebbe marcato con wo solo se specifico, così come
346 I testi di riferimento di questi esempi sono: Man'yoshu maki 1, n. 21; Kojiki 2, 45 e 78. L'unicaeccezione a questo sarebbe il quinto esempio di Vovin: puru yuki wo koshi ni nadumite 'la neve checadeva si attaccò ai (miei) fianchi' (Man'yoshu, maki 19, n. 4230). In questa frase il sostantivo nonappare altamente identificabile: non è umano né animato, è un sostantivo non numerabile (Hopper eThompson chiamano questo fattore count/mass, 'neve' è mass), è un nome comune. Ma sembra esserespecifico (§4.2): un sostantivo è specifico se il referente connesso con un altro referenteprecedentemente stabilito (o è stato esso stesso già stabilito) ed è identificabile nella mente delparlante. Il sotantivo 'neve' sembra essere ben identificabile nella mente del parlante.
175
il paziente di un verbo monovalente inattivo, se codificato in modo atipico in rari
costrutti ad allineamento attivo-stativo (come la costruzione in -mi), potrebbe essere
marcato con wo sulla base dello stesso criterio della specificità.
4.2 L'alternanza wo-ø e il differential object marking (DOM)
Come si è tentato di dimostrare nel Cap. 3, la particella wo aveva già una forte
connessione con l'oggetto diretto sin dalle prime attestazioni scritte del giapponese.
Eppure, come già è stato detto più volte, l'espressione della particella wo, benché
frequente, non era affatto obbligatoria e l'oggetto veniva altrettanto frequentemente
marcato da ø: per questo motivo è difficile poter definire la funzione di wo una funzione
nettamente morfologica, in quanto se così fosse la sua espressione sarebbe obbligatoria.
Chiaramente molti studiosi hanno tentato di dare una ratio all'alternanza wo-ø,
attribuendo a questo fenomeno cause morfosintattiche o pragmatiche: da un lato
Miyagawa (1989; 2011; 2012) che ha cercato di dimostrare che l'alternanza
dipenderebbe dalla forma del verbo, dall'altro lato Motohashi (1989), Wrona&Frellesvig
(2009), Whitman&Yanagida (2009) e Frellesvig, Horn&Yanagida (2013), secondo cui
la distribuzione di wo dipenderebbe da fattori pragmatici come la definitezza, la
specificità, la referenzialità.
Si noti che questo è un problema connesso in parte alla questione dell'allineamento
morfosintattico del giapponese antico (§4.1). Gli autori che hanno studiato
l'allineamento del giapponese antico hanno tutti attribuito a wo una funzione
morfologica o pragmatica e non solo interiezionale – come invece facevano Matsuo,
Oyama e gli studiosi che hanno seguito le loro ricerche (Cap. 3) – e molti di loro si sono
chiaramente interrogati sul perché wo alternasse così frequentemente con ø. È utile però
sottolineare che nessuno studioso ha attribuito questa alternanza a un problema legato
all'allineamento: la particella wo viene intesa come marca del caso accusativo o come
particella che non esprima affatto un caso, e in entrambe le ipotesi alternerebbe con ø
per motivi non legati all'allineamento (identificazione dell'oggetto, referenzialità,
specificità). Anche Miyagawa, che come si vedrà ritiene che la distribuzione di wo sia
dovuta alla presenza di una forma verbale piuttosto che di un'altra, ritiene che wo sia
176
effettivamente una marca di caso accusativo al pari di ø: semplicemente, alcune forme
verbali (la forma di fine frase ad esempio) richiederebbero ø come marca
dell'accusativo, altre (come la forma attributiva) richiederebbero la marca
dell'accusativo wo. Ciò che è opportuno mettere in evidenza quindi è che l'allineamento
non cambia in base alla presenza di wo o di ø in nessuna delle teorie che sono state
analizzate. Abbiamo esaminato la teoria di autori che ritengono che la marca di default
dell'oggetto sia ø e wo venga assegnato su base pragmatica come Yanagida&Whitman
(2012), autori che pensano che wo sia la marca di default e che ø sia un mero fenomeno
di “case drop” favorito dall'adiacenza dell'oggetto al verbo e da fattori pragmatici come
Wrona&Frellesvig (2009), autori che credono che wo alterni con ø in base alla forma
del verbo come Miyagawa, ma nessuno di questi studiosi attribuisce al giapponese
antico un determinato allineamento morfosintattico piuttosto che un altro sulla base
dell'alternanza wo-ø.
Inoltre, come nel caso di Matsuo e Oyama (Cap. 3), anche nello studio
dell'alternanza wo-ø si pone il problema del periodo storico in cui furono scritte le fonti
che ogni studioso sceglie di trattare. Miyagawa ad esempio, pur prendendo alcuni
esempi dal Man'yoshu, studia anche opere di epoca Heian, come Tosa Nikki (935 d.C.),
Murasaki Shikibu Nikki (primi anni dell'XI secolo) e Izumi Shikibu Nikki (primi anni del
XI secolo)347, in cui trova un riscontro della sua teoria. Frellesvig, Yanagida e molti altri
studiosi invece si concentrano su testi del periodo Nara, come i senmyō e le preghiere
(norito), oltre che chiaramente lo stesso Man'yoshu, ma la loro teoria non sembra essere
applicabile ai testi di epoca Heian. E questo – come si vedrà – probabilmente ha influito
sulle conclusioni che gli studiosi hanno proposto.
4.2.1 La ragione morfosintattica dell'alternanza wo-ø
Miyagawa (1989)348 fu uno dei primi studiosi ad attribuire all'alternanza wo-ø
una ragione morfosintattica, mentre in precedenza le motivazioni di questo fenomeno
347 Il Murasaki Shikubu Nikki e l'Izumi Shikibu Nikki sono diari che narrano avvenimenti nella corte nelperiodo Heian.
348 La teoria di Miyagawa è stata influenzata dalle ricerche di Setsuko Matsunaga, con cui ha collaboratoe che prima di lui aveva studiato la distribuzione delle particelle giapponesi. I testi di riferimento sonoMiyagawa (1989), Miyagawa&Ekida (2003), Miyagawa (2012).
177
erano state attribuite a un valore meramente interiezionale di wo, che quindi poteva
liberamente alternare con ø e aggiungeva soltanto un'enfasi sull'elemento precedente.
Miyagawa teorizzò che la distribuzione di wo fosse ampiamente prevedibile e
dipendesse dalla forma del verbo: la forma di fine frase del verbo (SS) richiederebbe
che l'oggetto non venga marcato (possibilità che Miyagawa chiama abstract case), la
forma attributiva del verbo (RT) richiederebbe invece la presenza di wo (detto
morphological case). Quelli che Miyagawa chiama abstract case e morphological case
sembrano quindi essere in distribuzione complementare: wo sarebbe presente con il
verbo flesso in forma attribuitiva, non sarebbe presente con il verbo in forma di fine
frase.
Chiaramente questo non implica che wo occorra solo nelle frasi subordinate (in cui
la forma attributiva è molto comune) e mai in frase principale (che tende ad avere il
verbo in forma di fine frase): il verbo coniugato in forma di fine frase appare ad
esempio preceduto dalla particella to nel discorso indiretto e nelle subordinate oggettive,
e allo stesso modo la forma attribuitva compare molto frequentemente in una frase
principale caratterizzata dal fenomeno del kakari-musubi349. Si vedano ad esempio le
seguenti frasi:
この 人 歌 よまん と おもふ
kono pito uta yoma-n to omopu
questa persona poesia ø comporre.MZ-CONG.SS QUOT pensare.SS
'questa persona pensò di voler comporre poesie' (Tosa Nikki 土佐日記 1.7);
我ひとりや は 尊き しるし を 承らむ
ware pitori ya pa taputoki shirushi wo uketamapara-mu
io da solo-ENF TOP prezioso.RT dimostrazione- OGG accettare.MZ-CONG.RT
'io da solo accetterei questa preziosa dimostrazione?' (Senmyō 宣命 13,5).
349 Miyagawa (2012: 225). Il fenomeno del kakari-musubi prevede che, in presenza di alcune particellepragmatiche come ka, ya, namo, koso, zo, la forma del verbo nella frase principale non sia la SS, mauna forma come quella perfettiva (in presenza di koso), o la attributiva (con le altre particelle). Sulleparticelle pragmatiche e la costruzione del kakari-musubi si veda §1.1.5. Gli esempi seguenti sonopresi da Miyagawa&Ekida (2003: 7).
178
Nel primo esempio il verbo yaman 'voler comporre' è in forma conclusiva e precede
la particella to che introduce una subordinata oggettiva, e l'oggetto uta 'poesia' non è
marcato da wo; viceversa nel secondo esempio, benché uketamaparamu 'voler accettare'
sia il verbo della frase principale, si trova in forma attributiva a causa della presenza
della particella ya (regola del kakari-musubi), e l'oggetto shirushi 'dimostrazione,
segnale' è marcato da wo.
Oltre alla forma attributiva, anche la forma perfettiva (IZ), utilizzata in genere in
frasi subordinate, può partecipare al kakari-musubi in presenza della particella koso, e
richiederebbe secondo Miyagawa l'espressione di wo a marcare l'oggetto. Con la forma
sospensiva (RY) invece può occorrere sia ø sia wo: la scelta dipende dalla flessione del
verbo reggente, se è una forma di fine frase (SS) si utilizzerebbe ø, altrimenti (RT, IZ) si
marcherebbe espressamente l'oggetto con wo350.
Si trovano numerosissimi controesempi alla teoria proposta da Miyagawa, e
quindi è forse meglio identificare la distribuzione da lui studiata come una tendenza
generale piuttosto che come una regola fissa, come invece sembra intenderla l'autore.
Lo stesso Miyagawa nota molte occorrenze di wo in frasi in cui, secondo la sua ipotesi,
non avrebbe dovuto essere presente (e viceversa, ø in frasi in cui si sarebbe aspettato la
presenza di wo) e tenta di dare una ratio in alcuni casi alla immensa mole di eccezioni
che si riscontrano351. Possiamo citare alcuni esempi. Un primo esempio è la presenza del
verbo su 'fare', che a prescindere dalla forma del verbo in cui è flesso richiederebbe il
caso astratto: l'autore spiega questo fatto affermando che su in genere incorporerebbe
l'oggetto, che quindi non dovrebbe essere marcato. Un secondo esempio sono i
composti formati da oggetto e verbo, in cui wo non sarebbe mai presente: questo si
spiegherebbe proprio a causa della natura del costrutto, un composto. Diversamente, un
suffisso molto diffuso come -tari tenderebbe a selezionare il caso morfologico anche
quando compare in forma di fine frase, e l'autore si limita a segnalare questa eccezione
senza tentare di spiegarne il motivo. Un'ulteriore eccezione sono i composti verbali, il
cui oggetto, nota Miyagawa, compare spesso marcato da wo benché il composto verbale
sia flesso in SS: anche in questo caso l'autore non spiega il motivo. Molte occorrenze di
wo in presenza della forma di fine frase sono inoltre spiegate da Miyagawa sulla base di
un elemento molto arbitrario come l'enfasi, ad esempio la frase seguente352:
この 人を 見ん
kono hito wo mi-n
questa persona-OGG vedere.MZ-CONG.SS
'intende vedere questa persona' (Izumi Shikibu Nikki 和泉式部日記 444, 5).
Non potendo giustificare in altro modo la presenza di wo in concomitanza con la
forma del verbo di fine frase, l'autore conclude che in questa frase wo esprimerebbe
enfasi e dovrebbe essere considerata una particella interiezionale e non una particella
che esprima l'oggetto. Questa sembra una interpretazione arbitraria e soggettiva, e che
potrebbe essere utilizzata per qualsivoglia controesempio: procedendo su questa strada
si arriverebbe alla teorizzazione di Matsuo (§3.1) secondo cui tutte le occorrenze di wo
dovrebbero essere intese come interiezionali in quanto ancora la particella non avrebbe
avuto funzione grammaticale. Sembra quindi una spiegazione insoddisfacente, anche a
causa del fatto che non è chiaro sulla base di cosa l'autore preferisca intendere una
determinata occorrenza come enfatica o meno.
Un fatto molto interessante invece è che Miyagawa tenta di spiegare sulla base
della sua teoria il motivo per cui, a partire dell'epoca Heian, il marcare l'oggetto con wo
divenne sempre più diffuso: l'autore attribuisce questo sviluppo al merger tra forma di
fine frase (SS) e forma attributiva (RT)353. Come già visto (§3.3), a cavallo fra la fine del
periodo Heian e l'inizio del periodo Kamakura, la RT e la SS confluirono nella RT, che
quindi venne sempre più utilizzata anche in contesti in cui la forma verbale richiesta
sarebbe stata la SS. Dato che, nella teoria di Miyagawa, la RT reggerebbe
necessariamente wo mentre la SS richiederebbe ø, la confluenza di RT e SS nella RT
comporterebbe anche una diffusione della marcatura dell'oggetto con wo. È utile
sottolineare però che Miyagawa non sembra scartare completamente la teoria di Matsuo
(§3.1), secondo la quale l'aumento di frequenza delle occorrenze di wo sarebbe dovuto
all'influsso della pratica del kanbun-kundoku, ma afferma che questa pratica non
avrebbe potuto influire in modo così massiccio sulla lingua dell'epoca: il mutamento
352 L'esempio è ripreso da Miyagawa&Ekida (2003: 32).353 Miyagawa&Ekida (2003: 10-11); Miyagawa (2012: 261).
180
deve aver avuto cause interne, che Miyagawa riconosce nel merger fra forma di fine
frase e forma attributiva in quest'ultima354.
Un secondo elemento molto particolare da notare è che lo studio di Miyagawa è
portato avanti su testi di periodi differenti in cui l'autore ritiene di riscontrare la stessa
distribuizone dell'alternanza wo-ø: in Miyagawa (1989) viene studiato principalmente il
corpus del Man'yoshu, in Miyagawa&Ekida (2003) i due autori propongono ulteriori
conferme della teoria in testi di epoca Heian come il Murasaki Shikibu Nikki, e
addirittura in Miyagawa (2012) l'autore porta esempi riguardo la distribuzione di wo
presi dallo Heike Monogatari355. L'autore prende quindi in considerazione testi scritti a
distanza di moltissimi anni l'uno dall'altro.
La teoria di Miyagawa non è affatto condivisa e viene criticata da moltissimi
studiosi, principalmente in relazione all'antico giapponese. Motohashi da un lato e
Wrona e Frellesvig dall'altro lato concentrano la loro attenzione sui testi di epoca Nara,
il primo sul Man'yoshu, i secondi sui senmyō e sulle preghiere (norito)356. In entrambi
gli studi, gli autori notano che la distribuzione di wo non è così nettamente connessa con
la forma attribuitva del verbo come ritiene Miyagawa. Motohashi riporta che nel
Man'yoshu, ad esempio, la particella wo in funzione di marca dell'oggetto occorre 1526
volte e di queste 102 volte con un verbo in forma di fine frase (SS) e ugualmente 102
volte con un verbo in forma attributiva (RT): viceversa, le occorrenze di ø in
connessione con una forma attributiva (RT) sono circa 50, ma non riporta il numero
delle occorrenze di ø in presenza di una forma di fine frase (SS). La presenza della
particella non sembra quindi affatto condizionata dalla forma del verbo reggente, come
vorrebbe Miyagawa, e infatti in connessione con le due forme del verbo su cui lo studio
di Miyagawa si basa maggiormente (SS e RT) wo occorre con la stessa identica
frequenza (102 volte ciascuna). Wrona e Frellesvig invece propongono un rigorosissimo
studio dei senmyō e dei norito, e anche loro notano che la presenza di wo non è
necessariamente legata da una forma verbale in particolare. Nei senmyō, ad esempio,
wo occorre 74 volte in presenza di una forma attributiva (RT), 77 volte in presenza di
354 Miyagawa (2012: 233).355 Miyagawa (2012: 235-51), lo Heike Monogatari risale al 1300.356 Si vedano Motohashi (1989: 59-61) e Wrona&Frellesvig (2009: 576). Le statistiche a cui si fa
riferimento sono ripresi da questi due testi.
181
una forma di fine frase (SS); 62 sono le occorrenze di ø con una forma attributiva, 57
con una forma di fine frase. Lo schema di Wrona e Frellesvig è il seguente357:
senmyō: ø wo norito: ø wo
RT 62 74 RT 28 30
SS 57 77 SS 7 17
In Motohashi (1989) e Wrona&Frellesvig (2009) si conclude quindi che la
distribuzione della particella wo non sarebbe dovuta alla forma del verbo: la presenza di
questa particella non sarebbe strutturalmente limitata ad alcuni contesti e allo stesso
modo ø non sarebbe obbligatoria in altri contesti. L'alternanza dovrebbe quindi
dipendere da un fattore differente, che in entrambi gli studi viene identificato in un
fattore pragmatico come la referenzialità e la definitezza dell'oggetto (§4.2.2).
4.2.2 La ragione pragmatica dell'alternanza wo-ø: il DOM
Per differential argument marking ('marcatura differenziale degli argomenti') si
intende un fenomeno in cui un determinato argomento viene marcato espressamente o
meno sulla base di proprietà semantiche o pragmatiche come animatezza, definitezza,
specificità. Si tratta quindi di marcare espressamente o meno il sostantivo che funge da
soggetto, oggetto o oggetto indiretto: si distinguono infatti differential subject marking
(DSM), differential object marking (DOM, che qui interessa) e differential indirect
object marking (DIOM), che è stato oggetto di studio solo negli ultimi anni358. Lo stesso
fenomeno viene anche identificato con il nome di differential case marking, e infatti
Malchukov afferma che la marcatura differenziale “involves an alternation of an overt
357 I due autori riportano tutte le occorrenze di wo anche in connessione con forme imperative,perfettive, infinitive del verbo, ma per semplicità qui si riportano soltanto le statistiche riguardandi laforma attributiva e forma di fine frase.
358 Su quest'ultimo si veda l'articolo di Kittilä (2011), che lo definisce DRM, differential recipient marking, ma scrive espressamente di riferirsi all'oggetto indiretto come relazione grammaticale e non al ruolo semantico del ricevente. Alcuni autori però preferiscono, forse più correttamente, utilizzare la dicitura relativa ai ruoli semantici, identificando ad esempio il DOM come DPM (differential patient marking), ma riferendosi comunque alla marcatura del paziente P con verbi bivalenti VAP e non con verbi monovalenti VP. Come è già stato visto più volte, relazioni grammaticali come il soggetto non possono essere riconosciute di default all'interno di tutte le lingue del mondo (il soggetto è l'elemento che ha l'accordo con il verbo, se non vi è accordo, il soggetto non è identificabile), quindi probabilmente definire la marcatura differenziale in termini di ruolo semantico è più corretto, ma la tradizione degli studi (che risale a Bossong) utilizza le diciture DSM, DOM e DIOM, che si è deciso qui di mantenere.
182
case with the absence of a case marker”359. Come nello studio degli allineamenti
morfosintattici (§4.1.1), però, l'utilizzo non sempre corretto del termine “caso” non deve
fuorviare, in quanto la marcatura differenziale può essere effettuata tramite un suffisso
di caso (§2.1), ma anche tramite un morfema più libero come una particella preposta e
postposta, come avviene in giapponese.
Il criterio sulla base di cui si marca o meno il sostantivo è connesso generalmente al
fatto che le sue caratteristiche non corrispondano a quelle che normalmente
caratterizzano la categoria a cui appartiene. Secondo Aissen esisterebbe una
associazione a livello prototipico ben precisa fra relazioni grammaticali e tratti come
animatezza o definitezza, ovvero i tratti su cui si basa la marcatura differenziale360: il
soggetto sarebbe prototipicamente alto nella scala di animatezza e definitezza, mentre
l'oggetto sarebbe prototipicamente basso e sarebbe quindi caratterizzato da inanimatezza
e indefinitezza. Le due scale di animatezza e definitezza sono dette prominence scales e
sono le seguenti361:
L'oggetto prototipico sarebbe quindi inanimato, non specifico e indefinito (basso
nelle due scale), mentre il soggetto prototipico sarebbe umano, animato, specifico e
definito (alto nelle due scale). La marcatura differenziale si attuerebbe quando il
referente ha proprietà differenti rispetto al quelle prototipiche della categoria a cui il
sostantivo appartiene, e quindi correrebbe maggiormente il rischio di essere confuso con
359 Malchukov (2008: 204).360 Aissen (2003: 437-9).361 Le due scale sono riprese da Aissen (2003: 436-7). La scala di animatezza che qui si riporta è la
versione di Aissen, che sembra semplificata a partire da quella di Silverstein (§4.1.1).
183
Fig. 15: Scala di animatezza di Aissen
Fig. 16: Scala di definitezza/specificità di Aissen
un diverso argomento. Dato che il tipo di marcatura differenziale che interessa
maggiormente in questo contesto è il DOM, prendiamo ad esempio l'oggetto: se esso ha
proprietà semantico-pragmatiche tipiche del soggetto (quindi è animato, specifico e
definito), potrebbe con più probabilità essere sottoposto a marcatura esplicita proprio
per differenziarlo dal soggetto362, se invece presenta proprietà tipiche della sua categoria
(inanimato, indefinito) la marcatura esplicita sarebbe meno probabile.
La marcatura differenziale è spesso basata su una sola di queste proprietà, sia essa
l'animatezza o la definitezza/specificità: ad esempio, in malayalam si marcano solo gli
oggetti animati, in turco soltanto gli oggetti specifici, in ebraico solo quelli definiti.
Avviene in molte lingue, però, che la marcatura differenziale sia connessa a entrambe le
proprietà: ad esempio in romeno l'oggetto viene marcato se animato e specifico, mentre
in hindi si marcano sempre gli oggetti animati (sia definiti che indefiniti), mentre gli
inanimati solo se definiti (ma la marcatura degli oggetti inanimati non è comunque
obbligatoria)363. Nei sistemi in cui entrambe le proprietà vengono utilizzate come criteri
per la marcatura differenziale, tali proprietà non hanno la stessa importanza ed è in
genere l'animatezza ad avere la priorità sulla definitezza e ad essere il tratto che ha
maggior influenza: secondo de Swart e de Hoop questo sarebbe dovuto al fatto che
l'animatezza sarebbe considerata una proprietà intrinseca del sostantivo, che non
potrebbe essere modificata, mentre la definitezza/specificità sarebbe una proprietà
esterna, contingente e connessa alla sfera pragmatica364.
La marcatura differenziale dell'oggetto, in conclusione, si applica ad un oggetto
semanticamente atipico (animato) e/o informazionalmente atipico (definito o specifico)
e permette di distinguere tale oggetto dal soggetto della frase, a cui prototipicamente
appartengono queste caratteristiche.
Benché il temine differential object marking risalga agli studi di Bossong nei
362 Dalrymple&Nikolaeva (2011: 3). Come già accennato (§4.1.3), questo criterio viene generalmenterispettato nella marcatura differenziale dell'oggetto, mentre nella marcatura differenziale del soggettospesso questo non avviene Se l'oggetto è marcato nel caso sia animato, il soggetto in teoria dovrebbeessere marcato nel caso non sia animato: in molte lingue accade, invece, che il soggetto sia marcatosolo se alto nella scala di animatezza. Si veda Malchukov (2008: 206-11).
363 Questi sistemi sono chiamati da Aissen “two-dimentional DOM”. Si veda Aissen (2003) pernumerosi esempi e schemi esplicativi. Su malayalam e hindi si veda de Swart&de Hoop (2007: 599-600; 602-4), sul turco l'articolo Enç (1991).
364 de Swart&de Hoop (2007: 606-7).
184
primi anni '80365, il fenomeno della marcatura differenziale è stato studiato con molta
attenzione solo negli ultimi anni: infatti i primi studi sull'argomento riguardo il
giapponese antico non poterono prendere in considerazione la teorizzazione di Aissen e
le ricerche successive.
Come è stato accennato, una delle prime ricerche che attribuì all'alternanza wo-ø in
giapponese antico (epoca Nara) una ragione non connessa alla teoria interiezionale
(Cap. 3) né ad un fattore morfosintattico (§4.2.1) venne svolta da Motohashi, che si basò
sui parametri di Hopper e Thompson366. Hopper e Thompson furono due degli studiosi
che per primi proposero un approccio differente al concetto di transitività,
interpretandola come una nozione composta da diversi fattori e quindi una scala dotata
di diversi gradi. Chiaramente tanti più fattori sono presenti, tanto più la frase è intesa dai
due autori come transitiva. I fattori sono connessi ad esempio con il numero dei
partecipanti, l'aspetto (perfettivo o imperfettivo), la puntualità e la volontarietà
dell'azione, l'opposizione tra frase affermativa e negativa, tra evento realmente accaduto
o meno (realtà e irrealtà), il coinvolgimento dell'oggetto e l'identificazione dell'oggetto.
Secondo Motohashi, la distribuzione della particella wo dipenderebbe dalla presenza di
questi tratti: l'oggetto sarebbe espressamente marcato da wo a patto che siano presenti
questi fattori, altrimenti si preferirebbe non marcare affatto il sostantivo. Ad esempio:
心 しらずて 心 を しる 人
kokoro shira-zu-te kokoro wo shiru hito
cuore ø conoscere.MZ-NEG.RY-GER cuore-OGG conoscere.RT persona
'non conoscendo i sentimenti' 'persona che conosce i sentimenti'
(Man'yōshū 万葉集, maki 14, n. 3566); (Man'yōshū 万葉集, maki 2, n. 99);
'se guardo la capitale' 'quando guardo la capitale'
(Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 848); (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 32).
365 Si veda ad esempio Bossong (1983).366 Motohashi (1989: 79-84). Si veda anche Hopper&Thompson (1980).
185
Si veda la prima coppia di esempi: la prima frase è negativa e secondo Motohashi
sarebbe per questo motivo che wo non è presente a marcare l'oggetto kokoro 'cuore,
sentimenti', nella seconda frase questa particella invece viene espressa e questo sarebbe
dovuto al fatto che la frase è affermativa. Motohashi spiega nello stesso modo la
seconda coppia di frasi: la prima non presenta wo e questo sarebbe connesso con il fatto
che il verbo si trova in forma imperfettiva (MZ) e regge il suffisso -ba, che esprime in
questo caso il condizionale, viceversa l'oggetto della seconda frase sarebbe marcato da
wo in quanto il verbo si trova in forma perfettiva (IZ) e regge lo stesso suffisso -ba, che
in questa frase esprime una temporale367. Motohashi quindi connette la prima coppia di
esempi al tratto affermativo/negativo, la seconda al tratto realtà/irrealtà di Hopper e
Thompson368.
Uno dei fattori più importanti dello studio di Hopper e Thompson è l'identificazione
dell'oggetto. Questo parametro è connesso con una serie di proprietà che permettono di
definire se un oggetto sia altamente identificabile o meno, e sono le seguenti:
Oggetto: Identificabile Non identificabile
nome proprio nome comune
umano, animato inanimato
concreto astratto
singolare plurale
numerabile (count) non numerabile (mass)
referenziale, definito non referenziale
Anche queste proprietà sono prese in considerazione da Motohashi nel suo studio
sulla distribuzione di wo: anche in questo caso la particella wo sarebbe presente nel caso
in cui dovesse marcare un oggetto altamente identificabile, mentre si preferirebbe non
marcare espressamente l'oggetto se esso non fosse altamente identificabile. Si vedano le
367 Come già accennato più volte, il suffisso -ba ha due funzioni: esprime una subordinata condizionalese segue una forma MZ del verbo (forma imperfettiva), mentre esprime una temporale o causale sesegue una forma IZ (perfettiva).
368 Un controesempio alla teoria di Motohashi è già stato visto nell'Introduzione ai Cap. 3 e 4. NelMan'yoshu si trova una frase come 都見れば miyako mireba 'quando guardo la capitale', frase quindisimile all'esempio di Motohashi (miyako wo mireba), in cui non è presente wo a marcare l'oggettomiyako 'capitale'. Eppure le condizioni di Hopper e Thompson sono soddisfatte in questa frase cosìcome lo sono nell'esempio di Motohashi. Questo è solo uno dei tanti controesempi che si trovano neitesti e che lasciano quindi pensare che la teoria dell'autore non permetta di dare una ratio a tutte leoccorrenze di wo (si veda anche §5.1).
186
seguenti frasi:
一本 のなでしこ 植ゑし
pito-moto no nadeshiko uwe-shi
uno-CLASS-ATTR garofano ø piantare.RY-PASS.RT
'ho piantato un garofano' (Man'yōshū 万葉集, maki 18, n. 4070);
谷辺に 生ふる 山吹を
tani-be ni opuru yamabuki wo
valle-dintorni-LOC crescere.RT yamabuki369-OGG
宿に 引き植ゑて
yado ni piki-uwe-te
giardino-LOC portare.RY-piantare.RY-GER
'ho portato e piantato nel giardino uno yamabuki che cresceva nei dintorni della
vallata' (Man'yōshū 万葉集, maki 19, n. 4185).
Motohashi spiega che nel primo esempio wo non sarebbe presente in quanto il
sostantivo che avrebbe dovuto marcare (nadeshiko 'garofano') è inanimato, mentre nella
seconda frase, l'oggetto yamabuki, benché inanimato, potrebbe essere inteso come
definito in quanto è specificato da una relativa: al contrario di nadeshiko 'garofano',
yamabuki sarebbe altamente individuabile e quindi regolarmente marcato da wo.
Alcune proprietà legate al parametro dell'identificazione dell'oggetto (come
animato/inanimato e referenziale/non referenziale) vengono prese in considerazione
anche nello studio più recente del differential object marking, che – come visto – viene
connesso a tre parametri fondamentali ovvero animatezza, definitezza e specificità370. La
differenza tra le ricerce sul DOM e lo studio di Hopper e Thompson sembrerebbe
risiedere nel fatto che, secondo questi due ultimi studiosi, i diversi parametri che
definiscono la transitività sarebbero correlati fra loro: ad esempio, secondo Hopper e
Thompson, l'espressione della marca dell'oggetto in turco, che viene connessa nei
diversi studi al parametro della specificità, dipenderebbe anche dal parametro
369 Yamabuki è il nome giapponese della pianta chiamata in italiano rosa del Giappone.370 Malchukov&de Swart (2009: 345).
187
dell'aspetto, in quanto gli oggetti individuabili sarebbero sempre connessi con l'aspetto
perfettivo e gli oggetti non individuabili con l'aspetto imperfettivo371. Nello studio del
differential object marking, invece, la marcatura dell'oggetto si basa soltanto su
parametri semantici (animatezza) e pragmatici (definitezza e specificità), che non
sembrano essere necessariamente connessi con ulteriori diversi fattori.
Il fattore a cui si attribuiscono, nei più recenti studi sul giapponese antico, le ragioni
dell'alternanza wo-ø è infatti proprio il fattore pragmatico della specificità. Il parametro
della specificità non è semplice da chiarire, e molti studiosi hanno tentato di darne una
definizione univoca372 anche a causa del fatto che su questo fattore si basa la marcatura
differenziale dell'oggetto in molte lingue più note e più studiate rispetto al giapponese
antico, come ad esempio lo spagnolo373. L'elemento che contraddistingue il fattore della
specificità, su cui sembra esservi un generale accordo fra gli studiosi, è il fatto che il
referente debba essere “ancorato pragmaticamente” ad un'altra entità identificabile per il
parlante374. Questa interpretazione della nozione di specificità è basata sull'idea di
discourse linking (D-linking): la specificità comporta una connessione con un referente
precedentemente stabilito, un nesso quindi fra il referente dell'espressione specifica e un
referente già noto o di cui si è già parlato. Tale connessione permette che il referente
dell'espressione specifica sia facilmente identificabile per il parlante: infatti la
specificità è anche spesso identificata con il fatto che “the speaker can identify the
referent” oppure “the certainty of the speaker about the identity of the referent”375.
La nozione di specificità è strettamente collegata a quella di definitezza, eppure i due
371 Hopper&Thompson (1980: 275-6). Sul parametro della specificità nel differential object marking inturco si veda Enç (1991).
372 Per una panoramica delle diverse definizioni proposte dagli studiosi si veda von Heusinger (2002:245-7). Una delle più curiose spiegazioni del concetto di specificità che l'autore segnala è la seguente:un costituente si definisce specifico quando può essere parafrasato con l'espressione “a certain”. Unadefinizione come questa può forse essere accettabile per spiegare l'idea di specificità in inglese masicuramente non può essere riconosciuta come valida per tutte le lingue.
373 Aissen (2003: 462-4). Il DOM in spagnolo si manifesta con la preposizione a, preposta agli oggettispecifici, mentre gli oggetti non specifici non vengono marcati: in realtà secondo recenti studi il DOMin spagnolo dipenderebbe anche da fattori come l'animatezza, si veda García García (2005: 22-8); perun ampio studio sull'argomento si veda Leonetti (2004).
374 Dalrymple&Nikolaeva (2011: 53-54). Si veda anche Leonetti (2004: 78-9) che parla di un costituente“referentially anchored to another object in the discourse”, e la stessa definizione è utilizzata anche davon Heusinger (2002) in tutto il suo articolo. Sulla definizione di specificità intesa come D-linking èbasata anche la ricerca di Frellesvig, Horn e Yanagida sul giapponese antico, quindi è utilesottolinearla.
375 Queste sono alcune delle definizioni proposte da von Heusinger (2002: 245-6).
188
concetti sono differenti. Innanzitutto si distinguono espressioni definite ed espressioni
indefinite. Tutte le espressioni indefinite devono avere come referente un elemento
nuovo, mai introdotto nel discorso, al contrario tutte le espressioni definite devono avere
referenti precedentemente introdotti nel discorso (una connessione forte)376: in altre
parole, gli indefiniti non possono avere antecedenti nel discorso, i definiti devono
necessariamente averli. Come è già stato visto, invece, un'espressione specifica deve
avere un referente che sia connesso ad un altro referente già stabilito: si tratta quindi di
una connessione più debole, ma chiaramente l'espressione è considerata specifica anche
in presenza di una connessione più forte (nelle espressioni definite). Ne consegue che
tutti i sostantivi definiti sono necessariamente interpretabili anche come specifici,
mentre i sostantivi indefiniti possono essere specifici o meno: il referente di una
espressione indefinita specifica deve essere nuovo, ma connesso ad un referente
precedentemente stabilito, il referente di una espressione indefinita e non specifica deve
invece essere completamente scollegato da referenti già noti. La differenza fra
espressioni indefinite specifiche e definite (necessariamente specifiche) sta quindi nella
connessione con referenti già stabiliti: i sostantivi definiti devono avere una identity
relation con il referente già noto (devono quindi avere lo stesso identico referente), i
sostantivi indefiniti specifici hanno una inclusion relation con il referente già noto
(devono essere soltanto connessi, anche in modo più debole, con questo referente). Le
espressioni indefinite e non specifiche, viceversa, non devono avere alcuna connessione
con referenti già noti.
376 Enç (1991: 7-8). La spiegazione che segue è ripresa da questo testo.
189
Fig. 17: Differenza tra oggetti definiti, indefiniti specificie indefiniti non specifici
È utile sottolineare ancora, quindi, che tutti i sostantivi definiti sono specifici, mentre
ai sostantivi indefiniti si può dare una interpretazione specifica o meno, in base al
contesto. Nomi personali e pronomi, ad esempio, sono definiti e dunque anche specifici,
mentre un costituente indefinito come “un ragazzo” può essere specifico o meno in base
al fatto che il suo referente abbia o meno una connessione con un altro referente
stabilito e quindi sia o meno identificabile. Nelle lingue che utilizzano la marcatura
differenziale dell'oggetto basata sul parametro della specificità, il morfema che marca
l'oggetto permette una interpretazione specifica del costituente e segnala
l'individuabilità di un referente, che sia già stato citato (identity relation) o che sia
pragmaticamente connesso con un altro referente già nominato (inclusion relation).
Solo recentemente gli studiosi hanno identificato criteri pragmatici per dare una
ratio all'alternanza wo-ø nel periodo Nara. Come si è accennato (§4.1.3), un primo
tentativo è stato fatto da Wrona e Frellesvig377, secondo i quali alcuni dei fattori che
influenzerebbero la presenza o l'assenza di wo sarebbero la definitezza e referenzialità
dell'oggetto, in quanto oggetti definiti e referenziali tenderebbero ad essere marcati da
wo. In altri studi è stato identificato il parametro della specificità come criterio che
determinerebbe l'alternanza wo-ø, e i primi autori che hanno proposto questa teoria sono
stati Yanagida e Whitman378: dato che un'espressione definita è necessariamente anche
specifica, lo studio di Yanagida e Whitman non contraddice la teoria di Frellesvig e
Wrona, ma piuttosto propone un parametro più ampio (la specificità), che includa anche
il primo (la definitezza). Una ricerca più approfondita sul differential object marking e il
criterio della specificità in giapponese antico è stata eseguita successivamente dagli
stessi Yanagida e Frellesvig, in collaborazione con Horn379, ed è opportuno soffermarsi
su questo studio che sembra riuscire a conciliare differenti teorie di diversi studiosi.
Innanzitutto gli autori notano che l'oggetto specifico verrebbe marcato da wo, mentre
l'oggetto non specifico tenderebbe a non essere marcato. Ad esempio, nella seguente
frase l'oggetto marcato da wo è interpretato dagli autori come specifico:
377 Wrona&Frellesvig (2009: 577-8). 378 Whitman&Yanagida (2009: 126).379 Sul recente studio di Frellesvig, Horn e Yanagida si veda la loro presentazione dell'agosto 2013 alla
Conferenza Internazionale di Linguistica Storica a Oslo, proposta di nuovo nell'aprile 2014 allaconferenza “The Diachronic Typology of Differential Argument Marking” presso l'Università diKonstanz. Ad oggi, i rispettivi volumi delle conferenze non sono ancora stati pubblicati. Si veda lapresentazione Frellesvig, Horn&Yanagida (2013).
'la ragazza che (mi) ha promesso che ci saremmo incontrati alla cima di Tsukuba non
(mi) ha incontrato per dormire383, (è) perché ha ascoltato le parole di chi?'
(Fudoki 風土記, 2).
Nel primo esempio, il referente del pronome interrogativo ta sarebbe specifico, in
quanto secondo gli studiosi si sottintenderebbe un'espressione come 'chi fra coloro che
mi amano': il referente sarebbe quindi specifico perché risulterebbe identificabile e,
seguendo le definizioni di Enç, avrebbe una inclusion relation con un altro referente ben
noto ('coloro che mi amano'). In questo primo esempio, infatti, l'oggetto è marcato da
wo. Nel secondo esempio, invece, il parlante non avrebbe affatto in mente il referente: il
referente non sarebbe specifico e secondo gli autori si potrebbe sottintendere
un'espressione come 'chi in tutto il mondo'. In questo secondo caso, quindi, l'oggetto
koto 'parola' non è marcato da wo e anche il pronome interrogativo seguito dalla
particella attributiva ga assumerebbe una interpretazione non specifica.
Gli autori quindi concludono che gli oggetti non specifici non verrebbero marcati da
wo, mentre gli oggetti specifici verrebbero marcati. Eppure, notano alcuni casi in cui,
pur essendo l'oggetto specifico, esso tenderebbe a non essere marcato da wo: in alcuni
contesti, quindi, benché gli studiosi si aspetterebbero la presenza della particella wo,
essa non compare. Il primo contesto che viene identificato dagli studiosi è connesso alla
teoria di Miyagawa, che – come è già stato detto (§4.2.1) – fu uno dei primi autori a
notare che la particella wo tende ad occorrere maggiormente in frasi il cui verbo è in
forma attributiva piuttosto che in frasi il cui verbo occorre in forma di fine frase. Anche
Frellesvig, Horn e Yanagida notano che in alcune frasi con il verbo in forma conclusiva,
benché l'oggetto sembri definito (e quindi specifico), non è presente la particella wo e
tale oggetto occorre non marcato. Si veda ad esempio la seguente frase:
佐保川 の 清き 川原に 鳴く
sapo-gapa no kiyoki kapara ni naku
sapo-fiume-ATTR puro.RT greto-LOC cantare.RT
383 Il termine ne è utilizzato qui per indicare l'atto del dormire ma vuole essere un gioco di parole con ne'cima', quindi questa parte può essere tradotta sia “incontrare sulla cima (di Tsukuba)” sia “incontrarciper dormire assieme”.
194
千鳥 かはづ と 二つ 忘れかねつ も
tidori kapadu to puta-tu wasure-kane-tu mo
piviere rana e ø due-CLASS dimenticare-non potere.RY-PERF.SS PART
'non posso dimenticare il piviere e la rana, entrambi, che cantavano sul limpido greto
del fiume Sapo!' (Man'yōshū 万葉集, maki 7, n. 1123).
In questa frase i due oggetti sembrano essere definiti, il parlante sembra avere ben in
mente il referente di tidori 'piviere' e di kapadu 'rana': i due sostantivi che fungono da
oggetto sono anche specificati da una relativa, cosa – che come già detto – permette di
intendere un elemento come specifico. Nonostante questo, l'oggetto non è marcato da
wo, e gli autori attribuiscono l'assenza della particella al fatto che il verbo sia in forma
di fine frase: se è presente un verbo in questa forma, come già notato da Miyagawa, può
accadere che la particella non venga utilizzata. Un elemento importante che deve essere
sottolineato è il fatto che, mentre Miyagawa identificava questa tendenza come una
regola ferrea di cui spiegava tutte le eccezioni, i tre autori si limitano a notare l'assenza
di wo in presenza di verbo in forma di fine frase, senza trarne alcuna conclusione.
Anche i tre studiosi notano che, al contrario della forma di fine frase, le forme del verbo
attributiva e perfettiva non ammettono l'assenza di particella wo a marcare l'oggetto.
Una seconda particolarità che i tre studiosi notano è connessa al verbo 待つ matu
'aspettare'. Gli autori osservano che questo verbo tende ad ammettere l'oggetto non
marcato, anche nel caso in cui esso sia definito. Si veda ad esempio:
妹は 我れ 待つらむ ぞ
imo pa ware matu-ramu zo
amata-TOP io ø aspettare.SS-CONG.RT PART
'la mia amata probabilmente mi sta aspettando'
(Man'yōshū 万葉集, maki 18, n. 4072).
Questa frase pone alcuni problemi. Come è già stato accennato i pronomi personali
sono definiti per loro natura, quindi la particella wo avrebbe dovuto marcare l'oggetto
ware; oltretutto la frase presenta un verbo in forma attributiva (RT) a causa della regola
195
del kakari-musubi (§1.1.5), che comporta una modifica della forma del verbo di fine
frase (da SS a RT oppure IZ) in presenza di particelle pragmatiche come zo, namo e così
via: come era già stato detto dai tre autori, la forma attributiva del verbo non ammette
l'assenza di wo e quindi un oggetto non marcato esplicitamente. I tre studiosi
attribuiscono l'assenza di wo alla presenza del verbo matu 'aspettare', che ammetterebbe
occorrenze di oggetti non marcati anche se definiti. Purtroppo gli autori non provano a
ipotizzare una motivazione per la quale questo avverrebbe e sarebbe necessario studiare
in modo puntuale tutte le occorrenze del verbo matu nei testi antichi per poter notare
eventuali tendenze o spiegazioni. Nella frase proposta sopra, ad esempio, il soggetto del
verbo 'aspettare' è imo 'amata', marcato dalla particella del topic pa: dato che la funzione
della marcatura differenziale dell'oggetto è quella di evitare una confusione di
interpretazione fra oggetto e soggetto nel caso in cui il primo presenti le caratteristiche
prototipiche del secondo, si potrebbe ipotizzare che, essendo imo marcato dalla
particella del topic, questa possibilità di errore sia molto remota.
In conclusione, questa ricerca sulla marcatura differenziale dell'oggetto in
giapponese antico legata a un criterio di specificità dell'oggetto può chiaramente esser
d'aiuto nell'interpretazione dei testi antichi, in quanto permette di intendere in modo più
corretto alcune frasi che altrimenti rimarrebbero ambigue. Ad esempio, è importante
interpretare correttamente se l'oggetto di un verbo come 求む motomu 'cercare' sia
specifico o meno: l'unico elemento disponibile che permette una giusta interpretazione è
la presenza o meno della particella wo. Si vedano ad esempio queste due frasi:
'il mio signore cerca una balia' 'cerco mia moglie'
(Man'yōshū 万葉集, maki 12, n. 2925); (Man'yōshū 万葉集, maki 10, n. 1826).
Nella prima frase, l'assenza di wo permette di interpretare l'oggetto in modo corretto
e permette di comprendere che il referente di omo 'balia' non sia identificabile nella
mente del parlante e che non abbia un antecedente nel discorso: il referente di omo è
196
nuovo nel discorso e non è mai stato nominato. Viceversa, nella seconda frase la
presenza della particella wo permette di capire che il parlante (e soggetto della frase in
prima persona sottinteso) ha un referente ben chiaro in mente: l'oggetto imo è definito, e
quindi marcato da wo. Se nella prima frase il soggetto sembra cercare una qualsivoglia
balia, nella seconda frase il soggetto non sembra cercare una moglie in generale, ma
essere alla ricerca della propria moglie. Una interpretazione specifica dell'oggetto può
quindi essere molto d'aiuto nella corretta comprensione (e traduzione) di alcune frasi, a
cui altrimenti si rischia di attribuire un senso differente.
Il successivo sviluppo della marcatura differenziale dell'oggetto (DOM) in
giapponese non è affatto chiaro. Secondo Frellesvig, Horn e Yanagida, questo fenomeno
avrebbe avuto un utilizzo fondamentale in epoca Nara, ma nell'epoca Heian esso
avrebbe iniziato ad essere utilizzato in modo meno frequente: nei testi successivi si
incontrerebbero frequentemente oggetti specifici non marcati da wo e viceversa oggetti
non specifici, che mancherebbero in modo evidente di un antecedente nel discorso,
marcati da wo. Come è già stato accennato (§3.2), secondo Shibatani invece la
marcatura differenziale inizierebbe ad essere attuata proprio in epoca Heian, mentre in
epoca Nara la particella wo avrebbe semplicemente potuto essere utilizzata o meno in
modo facoltativo. Shibatani pensa – come si è già visto – a una sfumatura semantica
espressa dalla particella wo: la particella sarebbe stata utilizzata per marcare oggetti il
cui referente fosse una persona particolare (come l'imperatore) oppure quando si volesse
esprimere un forte attaccamento o emozione. Una terza posizione è sostenuta da
Motohashi, secondo cui l'applicazione del criterio dell'individuazione dell'oggetto di
Hopper e Thompson non è legata solo al giapponese antico, ma anche al giapponese
classico di epoca Heian: come si è già detto (§3.2), l'autore utilizza questo parametro
per dare una ratio alle occorrenze di wo notate nei testi di epoca Heian da Matsuo, a cui
quest'ultimo non era in grado di dare una spiegazione convincente.
In realtà, dato che in epoca Heian la particella wo, come visto più volte, sembra aver
già iniziato a subire il processo di grammaticalizzazione, appare improbabile che il
criterio pragmatico che determinava il DOM in epoca Nara fosse stato anche utilizzato
in epoca Heian come criterio unico. È invece possibile che in epoca Heian la marcatura
differenziale dell'oggetto stesse iniziando a scomparire, e che quindi l'alternanza wo-ø
197
non dipendesse più in modo regolare da un criterio netto come la specificità: questo
avrebbe permesso alla particella wo di marcare anche oggetti non specifici e di non
marcare oggetti specifici. Si deve sottolineare infatti che il criterio proposto da
Motohashi dell'individuazione dell'oggetto comprende parametri diversi e più ampi
rispetto al criterio della specificità: per essere individuabile secondo i criteri di Hopper e
Thompson, un oggetto può sì essere referenziale e definito (quindi specifico), ma può
anche essere animato, singolare, concreto. La specificità sembra quindi essere solo una
delle possibilità che rendano un oggetto individuabile, nello studio di Hopper e
Thompson su cui si basa Motohashi. È quindi possibile che l'utilizzo di wo in epoca
Heian non dipenda più soltanto e regolarmente da un parametro di specificità, ma anche
da altri parametri, non più solo pragmatici ma anche ad esempio semantici (oggetto
animato, concreto), rimanendo comunque all'interno del criterio dell'individuabilità
dell'oggetto di Hopper e Thompson. È possibile che sia questo sviluppo ad aver portato
Shibatani a ipotizzare un l'utilizzo di wo in connessione con elementi emotivamente
rilevanti (nomi di persona, pronomi e così via), una sfumatura semantica legata a wo in
epoca Heian. Ciò che invece non sembra convincente dell'idea di Shibatani è il fatto che
in epoca Nara il marcare l'oggetto con wo sarebbe stato solo facoltativo: come si è visto,
sembra esservi invece un criterio ben preciso che determina la distribuzione della
particella wo in epoca Nara. In epoca Heian, invece, la distribuzione di wo aumenta, non
è più legata a un solo criterio pragmatico di specificità, ma anche ad altri criteri: la
marcatura differenziale dell'oggetto andrà poi gradualmente a sparire e la particella
subirà un processo di grammaticalizzazione, anche sotto l'impulso del materiale sino-
giapponese in cui l'espressione di wo era per sua natura obbligatoria e della
grammaticalizzazione di altre particelle come ga e no, che nel periodo Kamakura si
diffusero nella loro funzione di marca del soggetto384.
384 Di questi impulsi alla grammaticalizzazione di wo si era già parlato nel Cap. 3.
198
Capitolo 5
Applicazione e validità delle teorie sull'alternanza wo-ø
In questo capitolo conclusivo si proveranno ad applicare ad alcune poesie del
Man'yoshu le differenti teorie che sono state analizzate nelle precedenti sezioni. Le
ipotesi che sono state discusse sono principalmente tre. La prima è la teoria di
Miyagawa (§4.2.1), secondo cui l'alternanza wo-ø dipenderebbe dalla forma del verbo
della proposizione in cui l'oggetto si trova: in presenza di un verbo in forma attributiva o
perfettiva l'oggetto sarebbe marcato da wo, viceversa con un verbo in forma di fine frase
l'oggetto non sarebbe marcato. La seconda è invece la teoria di Motohashi (§4.2.2),
secondo cui l'oggetto verrebbe espressamente marcato da wo solo in presenza dei
parametri di Hopper e Thompson, che permettono di definire il livello di transitività
della frase: si tratta di parametri come il numero dei partecipanti, l'aspetto (perfettivo o
imperfettivo), la puntualità e la volontarietà dell'azione, l'opposizione fra frase
affermativa e negativa, fra evento realmente accaduto o meno (realtà e irrealtà), il
coinvolgimento dell'oggetto e l'identificazione dell'oggetto (se è animato, concreto,
singolare, definito e referenziale). La terza ipotesi è avanzata da Frellesvig, Horn e
Yanagida (§4.2.2), sulla scia di Whitman&Yanagida (2009), che propongono un unico
parametro pragmatico che possa spiegare l'alternanza wo-ø, la specificità: un oggetto è
specifico se è “ancorato pragmaticamente” a un referente già nominato o noto, e quindi
è identificabile nella mente del parlante. Si deve escludere la teoria interiezionale (Cap.
3), che chiaramente non permette un' analisi ben precisa, in quanto qualsivoglia
occorrenza di wo potrebbe essere intesa come enfatica in modo completamente
soggettivo e arbitrario. Mentre le teorie proposte da studiosi come Miyagawa o
Motohashi permetterebbero, secondo gli stessi autori, di prevedere in modo certo la
presenza di wo su base sintattica o pragmatica, al contrario la teoria interiezionale non
permette di predire i contesti in cui wo sarebbe presente, in quanto l'utilizzo di questa
particella dipenderebbe solo dal coinvolgimento dell'autore nei confronti dell'evento
descritto o della persona interessata.
Per concludere questo studio sulla particella wo sono state scelte alcune poesie del
199
Man'yoshu, partendo da due coppie di frasi proposte l'una da Shibatani, l'altra da Wrona
e Frellesvig385 come esemplificazioni dell'alternanza wo-ø. La prima coppia è formata da
miyako wo mireba kanashiki e miyako mireba kanashimo 'quando guardo la capitale
sono triste'; la seconda coppia è composta da awoyanagi ume to no pana wo wori e ume
no pana wori 'spezzare i fiori di pruno (e di salice)'. In entrambe le coppie di frasi si
nota che, benché sia presente lo stesso oggetto e lo stesso predicato (miyako 'capitale' e
miru 'guardare' nella prima coppia; nella seconda coppia pana 'fiore' e woru 'spezzare'),
in una l'oggetto è marcato con wo, nell'altra non lo è, ma in senso del verso è
sostanzialmente la stessa. Oltre agli esempi proposti da Shibatani da un lato e da Wrona
e Frellesvig dall'altro, sono state scelte anche altre poesie che presentano lo stesso
oggetto e verbo, per fornire un numero più alto di occorrenze a cui applicare le teorie
degli studiosi. Un elemento importante che deve essere notato è che gli studiosi, nel
proporre gli esempi nei loro articoli, citano soltanto la parte di poesia o il verso in
particolare che concerne la ricerca che portano avanti. In questo contesto invece tale
consuetudine può rivelarsi in parte svantaggiosa, in quanto non permetterebbe di
osservare in modo chiaro la presenza (o l'assenza) di una “ancora pragmatica” che
consentirebbe di intendere un oggetto come specifico: la ricerca di una “ancora
pragmatica” dell'oggetto specifico risulta – come si vedrà – difficile pur analizzando la
poesia nella sua interezza, e chiaramente sarebbe ancor più complessa una ricerca
limitata a solo una parte del testo. Per questo motivo si è scelto di riportare in modo più
completo le poesie che vengono citate. Come si è già accennato, il Man'yoshu è
composto in grande maggioranza da poesie dette 短歌 tanka, formate da 5 versi per un
totale di 31 more (la scansione dei 5 versi è 5-7-5-7-7): le poesie di questo tipo saranno
riportate interamente. Di poesie più lunghe come i 長歌 chōka (la cui scansione è 5-7,
5-7, 5-7...7-7), che non è necessario citare interamente, verrà riportata solo la sezione
che precede l'oggetto marcato (o meno) da wo, per osservare l'eventuale presenza di una
“ancora pragmatica”.
385 Shibatani (1990: 340), gli esempi di Shibatani sono già stati citati nell'Introduzione ai Cap. 3 e 4 esono versi delle poesie del Man'yoshu maki 1 n.32, 33; Wrona&Frellesvig (2009: 567), si tratta diversi delle poesie del Man'yoshu maki 5 n.821, 843. Questi esempi verranno ripresi nelle paginesuccessive, a cui si rimanda per glosse e ulteriori spiegazioni.
200
5.1 Esempi con 都 miyako + 見る miru
Il primo gruppo di poesie presenta l'oggetto (marcato o meno) miyako 'capitale' e
il verbo miru 'guardare'. Gli esempi proposti da Shibatani, che però non prova a spiegare
essere in rovina.RY-PASS.RT capitale ø guardare.IZ-TEMP triste.SS PART
'lo spirito della terra di Sasanami si è indebolito, e io sono triste quando guardo la
capitale in rovina' (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 33).
Innanzitutto, per comprendere meglio le due poesie, si deve sottolineare che
l'imperatore Tenji spostò la capitale a Ōmi, nella zona di Sasanami, nell'anno 667 d.C.:
Ōmi fu la capitale per soli quattro anni e dopo la morte di Tenji l'imperatore Tenmu, suo
fratello, portò la capitale ad Asuka. Ōmi è citata in molte poesie, sia del Man'yoshu che
successive, in quanto divenne un importante simbolo culturale e politico386. A
386 Si veda Duthie (2014: 321 ss.) per un interessante studio del ruolo della capitale Ōmi nella letteratura antica.
201
prescindere quindi dal criterio del D-linking387, ovvero la presenza di un referente già
nominato nel discorso che abbia il ruolo di antecedente dell'oggetto specifico, la capitale
di cui si parla in entrambe le poesie è definita: il parlante/autore sembra avere
perfettamente presente nella sua mente la capitale di cui sta parlando e inoltre l'autore
guarda la capitale, cosa che rende l'oggetto presente al discorso. L'oggetto sembra
quindi essere definito (e di conseguenza necessariamente specifico).
Nella prima frase (la poesia n. 32) l'oggetto miyako 'capitale' è regolarmente marcato
da wo. La particella wo è inserita in una proposizione con il verbo in forma perfettiva IZ
(mireba), e questo conferma la teoria di Miyagawa, secondo cui i verbi in forma
perfettiva reggerebbero necessariamente l'oggetto marcato con wo; anche la teoria di
Motohashi viene convalidata da questa frase, in quanto si esprime una azione realmente
accaduta, volontaria, e l'oggetto sembra individuabile in quanto è definito, concreto,
singolare (pur essendo inanimato). Come si è visto, miyako 'capitale' è chiaramente
specifico, e questo convalida anche la teoria di Frellesvig, Horn e Yanagida.
La seconda frase (la poesia n. 33) pone invece alcuni problemi in quanto l'oggetto
miyako ha le stesse caratteristiche pragmatico-semantiche dell'oggetto della poesia n.
32, ed è inserito nello stesso contesto della frase precedente, eppure non è marcato da
wo. Una possibile spiegazione è legata alla metrica: entrambe le poesie sono tanka, la
cui scansione metrica – come già visto – è 5-7-5-7-7, e l'inserimento di wo porterebbe il
penultimo verso della poesia n.33 ad essere ipermetrico. La scansione metrica della
poesia n. 33 è la seguente:
sasanami no/ kuni tu mikami no/ urasabite/ aretaru miyako/ mireba kanashimo
5 7 5 7 7
Se il poeta avesse inserito la particella wo questo avrebbe comportato problemi alla
scansione metrica del verso, ed è quindi possibile che per questo motivo abbia scelto di
387 Si veda (§4.2.2). Il criterio del discourse linking è legato alla specificità in quanto essa comporta unaconnessione con un referente precedentemente stabilito, un nesso quindi fra il referentedell'espressione specifica e un referente già noto o di cui si è già parlato. Tale connessione permetteche il referente dell'espressione specifica sia facilmente identificabile per il parlante: infatti laspecificità è anche spesso identificata con il fatto che “the speaker can identify the referent” oppure“the certainty of the speaker about the identity of the referent”.
202
non utilizzare la particella. Il lettore riconosce comunque facilmente miyako come
oggetto del verbo mireba grazie anche alla stretta vicinanza fra i due elementi: infatti,
come affermano anche Wrona e Frellesvig388, la vicinanza fra verbo e oggetto può
favorire l'assenza di wo. Si deve sempre ricordare, nello studio di testi come il
Man'yoshu, che si tratta di opere poetiche e che quindi le necessità metriche possono in
alcuni casi avere la precedenza sui parametri pragmatico-semantici che influiscono sulla
presenza di alcune particelle (come ga o wo).
Un terzo esempio è proposto – come già accennato – anche da Motohashi:
雲に 飛ぶ 薬食む よ は
kumo ni tobu kusuri pa-mu yo pa
nuvola-LOC volare.RT medicina mangiare.RT COMP TOP
都 見ば いやしき 我が 身
miyako mi-ba iyashiki a ga mi
capitale ø guardare.MZ-COND miserabile.RT io-ATTR corpo
また 変若ぬべし
mata woti-nu-beshi
di nuovo essere ringiovanito.RY-PERF.SS-dovere.SS
'piuttosto che prendere la medicina per volare sulle nuvole, il mio ignobile corpo si
ringiovanirebbe se guardassi la capitale' (Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 848).
In questo esempio l'oggetto occorre non marcato e precede una forma imperfettiva
del verbo (MZ). Curiosamente, né Miyagawa né Frellesvig, Horn e Yanagida effettuano
ricerche sulle occorrenze di wo in presenza della forma imperfettiva; Motohashi invece
ritiene che la particella wo non verrebbe espressa nel caso in cui l'evento non fosse
realmente accaduto, e un evento non accaduto è generalmente espresso con una forma
imperfettiva del verbo389: nella frase qui proposta, il verbo in forma imperfettiva (MZ)
388 Wrona&Frellesvig (2009: 577).389 La forma MZ del verbo viene utilizzata con numerose funzioni e quella di esprimere un evento non
accaduto non è affatto l'unica: viene sì utilizzata con suffissi negativi, congetturali e condizionali adesprimere eventi non ancora accaduti ma anche, ad esempio, con suffissi che permettono di rendere lafrase causativa o passiva e in questo caso l'azione è accaduta o sta accadendo.
203
richiederebbe l'assenza della particella, viceversa negli esempi precedenti il verbo in
forma perfettiva (IZ) reggerebbe l'oggetto marcato da wo. Purtroppo la forma
imperfettiva del verbo è probabilmente la forma più trascurata negli studi dei diversi
autori, e non è quindi possibile esprimere ulteriori considerazioni. Ciò che si può
affermare invece con una certa sicurezza è che l'oggetto in questa poesia è specifico,
anche se non è definito da alcuna relativa, non ha antecedente già nominato nel discorso
e non regge forme attributive che lo definiscano: nell'introduzione a questa poesia e alla
poesia n. 847 (che la precede immediatamente nel maki 5) infatti si legge 'poesie circa la
mancanza del paese d'origine', e per 'paese d'origine' puru sato 故郷 si intende la
capitale Nara390. L'oggetto miyako 'capitale' nella poesia sembra quindi essere definito (e
specifico) per cui avrebbe dovuto essere regolarmente marcato da wo. Il motivo per cui
esso invece non compaia marcato da wo deve quindi essere attribuito a un fattore non
pragmatico, che può forse essere la presenza di una forma del verbo imperfettiva, che in
questa frase esprime una azione non accaduta, come vorrebbe Motohashi.
Sembrerebbe quindi che esistano alcuni casi in cui, benché l'oggetto sia specifico (o
definito e referenziale, nei termini di Motohashi), esso non è marcato da wo: gli oggetti
non specifici non verrebbero mai marcati, mentre gli oggetti specifici sarebbero marcati
con wo, ma la particella potrebbe non essere espressa in alcuni contesti. Questi contesti
sarebbero – come già visto in §4.2.2 – la presenza di una forma di fine frase del verbo,
la presenza del verbo matu, e nell'esempio precedente forse – secondo lo studio di
Motohashi – l'espressione di una azione non realmente accaduta. L'assenza di wo in
questi contesti sarebbe però una possibilità e non una regola come testimoniato anche
390 Vovin (2011: 82).391 Per makura-kotoba 枕詞 (lett. 'parola cuscino') si intende una delle più importanti figure retoriche
giapponesi. Si tratta sostanzialmente di epiteti, utilizzati in modo stabile per introdurre alcune parole:ad esempio, uti pi sasu (uti non è chiaro cosa significhi, pi 'sole', sasu 'splendere') è epiteto di miya'palazzo (imperiale)' e miyako 'capitale'. Anche taratishiya è epiteto di papa 'madre' ma non è affattochiaro il suo siginificato. Si veda Vovin (2011: 127).
204
母が 手 離れ 常 知らぬ 国の
papa ga te panare tune shira-nu kuni no
madre-ATTR mano-separarsi.RY di solito sapere.MZ-NEG.RT paese-ATTR
'parlarne è straordinariamente degno. Quando nel grande regno degli dei imperiali,
Tajimamori attraversò la terra eterna e tornò indietro portando otto lance, poiché si
degnò di lasciare (a noi) il frutto dell'albero del perpetuo buon profumo, (esso) crebbe
fiorendo e riempì il paese. In primavera, spuntando i rami nuovi, nel quinto mese in cui
il cuculo canta, spezziamo a mano i primi fiori del ramo e (li) mandiamo in regalo alle
ragazze, (li) inseriamo nelle maniche della veste bianca, e (li) riponiamo (così) si
seccano poiché hanno un buon profumo; i fiori che cadono passano come gioielli, e
avvolgendoli alle mani, pur guardandoli, non ci si annoia' (Man'yōshū 万葉集, maki 18,
n. 4111).
Gli oggetti diretti che devono essere evidenziati sono principalmente due: tojiku no
kaku no ko no mi 'il frutto dell'albero del perpetuo buon profumo' e patu-pana 'i primi
fiori', entrambi marcati da wo. Entrambi sono retti da verbi in forma sospensiva (RY),
ed entrambe le forme sospensive sono rette a loro volta da verbi in forma perfettiva
(IZ): la forma perfettiva, secondo Miyagawa, reggerebbe necessariamente un oggetto
marcato, quindi il criterio di questo autore è rispettato. Per quanto riguarda il parametro
della specificità, si nota che il secondo oggetto (patu-pana) ha una chiara ancora
pragmatica nel primo oggetto tojiku no kaku no ko no mi, che lo precede di alcuni versi:
i 'primi fiori' di cui si parla nei versi successivi sono fiori che provengono dall'albero
'del perpetuo buon profumo' portato dal personaggio leggendario Tajimamori. Il primo
oggetto funge da antecedente per il secondo, che quindi occorre marcato in modo
regolare. L'oggetto tojiku no kaku no ko no mi non ha invece un antecedente che
permetta di definirlo specifico. Sembrerebbe che l'autore avesse un preciso albero in
mente, grazie anche all'alto numero di forme attributive che lo precedono e che
permettono di specificarlo, ma non si può affermare con sicurezza che il referente sia
definito: ciò che consente di riconoscere questo referente come definito (e quindi
specifico) è probabilmente il fatto che la storia di questo albero e del personaggio
Tajimamori è molto famosa in Giappone. Tajimamori compare nel Kojiki e nel
Nihonshoki e venne mandato dall'imperatore Suinin nella terra eterna (toko yo) per
cogliere i frutti dell'albero del perpetuo buon profumo, identificato tradizionalmente con
il tachibana, albero che dà frutti simili a mandarini. Il referente di tokijiku no kaku no
211
ko no mi è quindi noto all'autore e con buona certezza anche ai suoi lettori: si tratta di un
albero in particolare, famoso nella tradizione giapponese, e questo permette di
identificarlo come definito (e specifico). Per tale motivo l'oggetto può essere marcato da
wo, come di fatto accade.
I differenti criteri proposti da Motohashi, anche in questo caso, non permettono
invece una spiegazione univoca, in quanto – come si è già detto – le due azioni sono
volontarie, affermative e realmente accadute, l'oggetto è concreto, coinvolto e
referenziale, ma è inanimato: la presenza di molti parametri da analizzare rende difficile
identificare la precisa motivazione per cui la particella wo sia presente in entrambi i
casi.
5.3 Osservazioni conclusive
Come si è tentato di dimostrare, delle tre teorie che provano a dare una ratio
all'alternanza wo-ø, la proposta di Frellesvig, Horn e Yanagida è quella che permette in
modo più sicuro di spiegare la presenza o l'assenza di wo nel periodo Nara.
Lo studio di Miyagawa presenta numerosi controesempi, quindi – come si è già detto
– è probabilmente preferibile ritenere la sua teoria una tendenza generale piuttosto che
una regola ferrea, come viene confermato anche da Frellesvig, Horn e Yanagida: la
forma attributiva del verbo tenderebbe a reggere l'oggetto marcato, la forma di fine frase
tenderebbe a reggere l'oggetto non marcato, ma questo non avverrebbe necessariamente
in tutte le occorrenze di queste forme verbali.
Per quanto riguarda lo studio di Motohashi, la presenza di numerosi parametri crea
effettivi problemi nell'analisi delle occorrenze di wo. Si tratta di dieci criteri, a cui si
sommano ulteriori sei parametri di cui si compone l'individuabilità dell'oggetto
(animato, concreto, definito, numerabile, singolare, nome proprio): è quindi piuttosto
improbabile che tutti vengano soddisfatti. Si dovrebbe allora definire una scala
gerarchica, in cui un determinato parametro (come l'opposizione realtà-irrealtà, ad
esempio) venga identificato come prioritario rispetto agli altri parametri, e la cui
presenza comporti necessariamente la marcatura esplicita dell'oggetto, oppure si
dovrebbe segnalare un numero minimo di criteri che debbano o meno essere rispettati e
212
che permetta di prevedere la presenza di wo. I parametri di Motohashi non sembrano
quindi molto attendibili nel dare una motivazione certa all'alternanza wo-ø.
Uno studio invece che si è rivelato particolarmente affidabile è quello di Frellesvig,
Horn e Yanagida, secondo cui la particella wo è connessa con una marcatura
differenziale dell'oggetto basata sul criterio della specificità. La difficoltà maggiore che
si riscontra nello studio di questo parametro, però, è il tipo di testo all'interno di cui esso
viene applicato. I testi giapponesi antichi, se escludiamo le preghiere e gli editti
imperiali che furono molto influenzati dal kanbun-kundoku (§3.1) e quindi per loro
natura presentano un numero molto maggiore di particelle segnate esplicitamente, sono
principalmente testi poetici molto brevi come quelli del Man'yoshu, all'interno di cui
non è semplice identificare una “ancora pragmatica” di un oggetto specifico. E questo è
vero anche nei casi frequentissimi in cui gli autori si limitano a citare il verso singolo
che deve essere analizzato e non l'intera poesia: come si è visto, lo studio dell'intero
testo può invece aiutare nel riconoscere un antecedente nel discorso, che permetta di
definire “specifico” un oggetto. Allo stesso modo, come si è visto nelle poesie n. 886 e
n. 4111, testi più corposi, e non limitati alle sole 31 more permesse dai componimenti di
tipo tanka, consentono in modo più certo di connettere un oggetto marcato ad una
“ancora pragmatica” che funga da antecedente. Pur riconoscendo questa difficoltà legata
al tipo di testo e alle fonti che sono disponibili, il parametro della specificità dell'oggetto
sembra comunque essere il criterio più attendibile sulla base di cui analizzare
l'alternanza wo-ø nei testi del periodo Nara, e che riesce in modo più sicuro a dare una
spiegazione univoca alle occorrenze della particella wo.
213
Conclusione
Gli argomenti fondamentali di cui si è discusso sono da un lato i diversi valori
attribuibili alla particella wo e quindi la sua categorizzazione all'interno delle classi
individuate da Yamada, e dall'altro lato le motivazioni che sono alla base dell'alternanza
di questa particella con il morfema ø nel segnalare l'oggetto diretto.
Nel primo capitolo è stata infatti analizzata la rigida classificazione delle particelle
ad opera di Yamada Yoshio nel 1908, che distinse sei tipologie di particelle (finali,
interiezionali, di congiunzione, restrittive, pragmatiche e di “caso” o grammaticali): tale
distinzione è generalmente ritenuta valida sia per il giapponese antico che per il
giapponese moderno e viene accettata dalla maggior parte degli studiosi sia giapponesi
che occidentali (§1.1). Si è poi discusso della categoria di “caso” (definito da De Mauro
“una classe di forme avente funzione unitaria”), criticando i moderni approcci allo
studio dei casi che permetterebbero di riconoscere una categoria di “caso” in tutte le
lingue del mondo, e concludendo che tale categoria non è in realtà riconoscibile in
giapponese (§1.2).
Nel secondo capitolo sono state esaminate le tipologie di particella all'interno di cui
wo viene inserita, ovvero le differenti funzioni che questa particella aveva nel
giapponese antico e classico: wo viene classificata come particella grammaticale (§2.1),
interiezionale (§2.2), finale (§2.3) e di congiunzione (§2.4). Sono stati inoltre analizzati
i criteri sintattici proposti da Kondō (1980) per inserire in modo corretto ogni
occorrenza di wo all'interno di una di queste categorie. Un elemento importante di cui si
è discusso in questo capitolo è la costruzione in -mi (§2.5): essa esprime una
subordinata causale di cui wo marca il sostantivo, che viene interpretato – gli studiosi
non sono concordi – come soggetto o oggetto della frase.
Nei capitoli successivi si è analizzata in modo più preciso la funzione di espressione
dell'oggetto diretto della particella wo e la sua alternanza col morfema ø. Nel terzo
capitolo è stata discussa la teoria interiezionale proposta da studiosi come Matsuo (§3.1)
o Oyama (§3.2), secondo cui questa particella fino al periodo Heian non avrebbe avuto
una connessione con l'oggetto diretto, ma piuttosto una funzione meramente
214
interiezionale, e sarebbe stata utilizzata per innalzare il livello emotivo del discorso.
L'utilizzo di wo si sarebbe poi diffuso a causa della sempre crescente complessità della
frase e dell'influsso del materiale sino-giapponese. Si è inoltre esaminata la teoria di
Akiba (§3.3), che tenta di spiegare il mutamento che portò la particella wo ad avere una
funzione grammaticale a partire da un utilizzo solo interiezionale: l'autore ricostruisce
un valore pragmatico di wo, che permetterebbe di connettere l'utilizzo interiezionale con
la funzione grammaticale.
Della funzione pragmatica connessa a wo si è discusso nel capitolo quattro, che è
diviso in due sezioni. Nella prima sezione sono stati esaminati i possibili allineamenti
morfosintattici che vengono attribuiti dagli studiosi al giapponese antico (§4.1):
l'allineamento viene ricostruito dai differenti studiosi come nominativo-accusativo
(Wrona e Frellesvig), parzialmente attivo-stativo (Yanagida e Whitman da un lato,
Vovin dall'altro) oppure ergativo-assolutivo (Motohashi principalmente). Nella seconda
sezione sono state analizzate le teorie degli studiosi che hanno tentato di dare una ratio
all'alternanza wo-ø (§4.2) e le motivazioni oscillano tra una questione morfosintattica
(secondo Miyagawa dipenderebbe dalla forma del verbo reggente) e una questione
pragmatica: in quest'ultimo caso si tratterebbe del cosiddetto differential object marking,
un fenomeno in cui l'oggetto viene marcato o meno sulla base di proprietà come
l'animatezza, la definitezza o la specificità. Secondo Motohashi, infatti, wo sarebbe
espressa solo in presenza dei parametri di Hopper e Thompson (dieci criteri, il più
importante dei quali sembra essere l'identificazione dell'oggetto, che contrappone
oggetti animati, referenziali e concreti a oggetti inanimati, indefiniti e astratti), mentre
secondo la formulazione comune di Frellesvig, Horn e Yanagida, sarebbe il parametro
della specificità dell'oggetto a determinare la presenza di wo: un oggetto è specifico
quando il suo referente è ancorato pragmaticamente a un'altra entità già nominata o è
identificabile nella mente del parlante.
Le teorie discusse in quest'ultima sezione sono state poi applicate ad alcune poesie
del Man'yoshu nel quinto capitolo, per confermarne la validità e la capacità di
permettere di prevedere la presenza o l'assenza di wo. Si è concluso che la teoria di
Miyagawa è interpretabile maggiormente come una tendenza piuttosto che come una
regola fissa, lo studio di Motohashi pone problemi a causa dell'ampio numero di criteri
215
che devono essere rispettati, mentre la proposta di Frellesvig, Horn e Yanagida consente
con maggior sicurezza di motivare in modo preciso la presenza o l'assenza di wo.
Un problema fondamentale, di cui si è discusso lungo tutto questo lavoro, è connesso
ai tipi di testo disponibili per lo studio della lingua giapponese antica. Tra i testi scritti
nel periodo Nara392 si distinguono due tipologie. Da un lato, testi fortemente influenzati
dal materiale sinogiapponese, come editti imperiali (senmyō) e preghiere (norito), ma
anche mokkan (tavolette di bambù o legno che recano brevi scritte o messaggi): in
questi testi la frequenza di occorrenze di particelle espresse in modo esplicito è molto
più alta, proprio a causa dell'influsso del kanbun-kundoku393. Dall'altro lato testi in versi,
come le poesie del Man'yoshu o le canzoni del Kojiki, la cui scansione metrica è
generalmente 5-7-5-7-5-7-7: la presenza delle particelle in questi testi è chiaramente
condizionata dalle necessità metriche, e ciò rende i testi poetici parzialmente inadeguati
allo studio delle particelle. Inoltre, come giustamente è stato fatto notare da
Frellesvig394, lo studio di testi poetici, il cui stile letterario e retorico è ricco di
esclamazioni, di lamenti, di invocazioni, può fuoriviare gli studiosi, che potrebbero
interpretare le particelle come “enfatiche”, mentre in realtà la loro funzione era ben
diversa. Giungendo poi al periodo Heian395, con la nascita e lo sviluppo di nuovi generi
letterari come i racconti (monogatari) e i diari (nikki) composti da parti in prosa, poesia
e dialogiche, le necessità espressive degli autori si modificano enormemente: diventa
quindi più consueto incorrere in frasi più complesse ed elaborate, che presentano un
maggior numero di particelle (grammaticali, ma anche interiezionali e di congiunzione)
per facilitare la lettura e la comprensione del testo. I testi di epoca Heian sembrano
molto più adeguati allo studio delle particelle grazie anche alla grande varietà di
tipologie testuali contenute in essi, ma si tratta comunque di testi posteriori di alcune
centinaia di anni rispetto alle prime attestazioni del giapponese antico, che quindi non
possono rispecchiare in modo fedele la lingua antica.
Un elemento che però si riscontra, seppure con frequenza diversa, nei testi di
392 I testi del periodo Nara sono studiati principalmente da Motohashi (1989), Bentley (2001), Vovin(2005; 2009b), Wrona&Frellesvig (2009), Yanagida (2005; 2006), Whitman&Yanagida (2009; 2012).
393 Della pratica del kanbun-kundoku si è parlato in §3.1.394 Frellesvig (2010: 124-5).395 Gli studiosi che si concentrano maggiormente sui testi di epoca Heian sono Miyagawa (1989; 2012),
entrambe le epoche è l'alternanza wo-ø: essa si trova nei testi poetici del Man'yoshu
come nei dialoghi del Tosa Nikki, negli editti imperiali di epoca Nara come nelle sezioni
in prosa dei grandi monogatari di epoca Heian. Questo permette di trarre alcune
conclusioni. Innanzitutto, l'espressione della particella wo non era obbligatoria nei
periodi Nara e Heian, e ciò non permette di definire il suo utilizzo per segnalare
l'oggetto come una funzione grammaticale: se così fosse stato, essa sarebbe stata
espressa in modo obbligatorio, a prescindere da necessità metriche, scelte personali
dell'autore, o altri criteri. Si tratterebbe piuttosto di una funzione pragmatica, ossia wo
segnalerebbe soltanto gli oggetti caratterizzati dalla proprietà pragmatica della
specificità: questa particella sarebbe attribuita su base pragmatica, quindi, ma con
limitazioni di tipo grammaticale, in quanto non marcherebbe qualsivoglia elemento
purché specifico, ma soltanto l'oggetto (e forse – come accennato e come si vedrà a
breve – anche il paziente in alcuni casi di marcatura atipica).
Ciò solleva due problemi: da un lato l'impossibilità di applicare la classificazione di
Yamada e la categoria del “caso”, dall'altro lato la necessità di tracciare uno sviluppo
delle funzioni della particella wo, partendo dalle prime attestazioni del giapponese
antico fino ai giorni nostri.
La classificazione di Yamada – come visto numerose volte – pone il problema di
fondo del rapporto biunivoco fra forma e funzione. Se, ad esempio, la particella ya
viene classificata come particella interiezionale, ma si trovano moltissime occorrenze in
cui essa deve essere classificata come particella pragmatica in quanto partecipa al
fenomeno del kakari-musubi396, si decide di identificare due particelle differenti, l'una
con funzione interiezionale l'altra con valore pragmatico. È una classificazione netta e
categorica, che non sembra ammettere la possibilità che ad un'unica forma
corrispondano più funzioni, e che quindi ad un'unica particella possano essere attribuiti
molteplici valori: questo è invece chiaramente possibile e di fatto avviene molto
frequentemente. Può accadere che tali valori siano in parte comparabili con le funzioni
tradizionalmente riconosciute come prototipiche di un caso grammaticale delle lingue
indoeuropee, ma ciò non è sufficiente per riconoscere la categoria di “caso” in
giapponese: imbrigliare lingue tipologicamente e genealogicamente differenti all'interno
396 Del fenomeno del kakari-musubi si è parlato in §1.1.5. Si tratta di una regola secondo cui la presenzadi una particella pragmatica provoca la modifica della forma del verbo.
217
di categorie descrittive costruite sulla base delle lingue occidentali più note è sempre un
rischio, e si dovrebbe invece studiare ogni lingua dando risalto alle sue peculiarità.
Vediamo nel dettaglio la situazione per quanto riguarda la particella wo. I suoi valori
sono in parte comparabili con le funzioni che gli studiosi riconoscono essere
prototipiche del caso accusativo397, in parte completamente differenti: è utile notare che
gli studiosi sembrano definire wo “particella dell'accusativo” sulla base della sua
funzione primaria di segnalare l'oggetto diretto, ma tale definzione non permette di dare
una spiegazione univoca a tutte le funzioni di questa particella. Quando essa viene
classificata come particella grammaticale (kaku joshi398), ha la funzione pragmatico-
grammaticale di segnalare l'oggetto solo se specifico: a differenza delle desinenze di
caso accusativo, non è quindi un marker obbligatorio e viene assegnata su base
pragmatica; ha anche una serie di funzioni concrete come l'espressione dei complementi
di tempo e luogo, utilizzi paralleli alle funzioni concrete del caso accusativo. Quando
viene classificata come particella interiezionale (kantō joshi), essa ha la funzione di
esprimere enfasi o esclamazione: questa funzione è comparabile con l'utilizzo
dell'accusativo di esclamazione, benché numerosi studiosi che pure definiscono wo
“particella dell'accusativo” non sembrano riconoscere tale funzione di questo caso;
quando viene categorizzata come particella finale (shū joshi) o di congiunzione
(setsuzoku joshi), essa ha valore di congiunzione temporale, causale o concessiva:
l'utilizzo come congiunzione non ha paralleli nelle funzioni del caso accusativo delle
lingue indoeuropee. Secondo Kondō, che sembra accettare in modo dogmatico la
classificazione di Yamada e non ammettere la possibilità che ad un'unica particella
possano essere attribuiti differenti valori, esisterebbero particelle wo diverse, omofone,
ad ognuna delle quali corrisponderebbe una funzione particolare. È invece assai più
probabile che si tratti di un'unica particella wo, che viene utilizzata con numerose
397 Si veda ad esempio lo studio di Kuryłowicz, che riprende Delbrück, di cui si è detto in §1.2.2.398 Le particelle di “caso” in tutto il lavoro sono state definite “particelle grammaticali” in quanto –
secondo la tradizione – segnalerebbero il soggetto, l'oggetto e i vari complementi: una funzionegrammaticale. Eppure, in molti casi la funzione non sembra essere nettamente grammaticale, maparzialmente pragmatica, seppur con limitazioni di tipo grammaticale, come nel caso di wo ingiapponese antico. Stessa situazione si ha, in giapponese antico, nel caso della particella ga, chemarcava il soggetto solo se animato (quindi su base semantica) ed era usata anche in funzioneattributiva. Allo stesso modo i, particella presa in prestito dal coreano, marcherebbe un “broad focussubject” (§4.1.4): sarebbe anch'essa attribuita su base pragmatica ma con limitazioni grammaticaliconnesse al soggetto.
218
funzioni diverse e che esprima valori differenti.
Una ulteriore funzione di wo, su cui però non vi è affatto accordo fra gli studiosi e
che non avrebbe paralleli tra le funzioni dell'accusativo, sembrerebbe essere quella di
segnalare in alcuni casi il paziente di verbi monovalenti pazientivi (P di VP), come
riporta Vovin (1997; 2005). L'allineamento morfosintattico di base del giapponese
antico sembrerebbe essere stato infatti nominativo-accusativo – come affermano Wrona
e Frellesvig – ma all'interno di esso si troverebbero alcune rare costruzioni attivo-
stative, in cui wo, oltre a marcare il paziente di verbi bivalenti (P di VAP), marcherebbe
anche il paziente di verbi monovalenti pazientivi in rare e atipiche costruzioni ad
allineamento attivo-stativo399. L'esempio più evidente di questo utilizzo di wo è la
costruzione in -mi: in essa, wo segnalerebbe l'attante unico del “quality stative verb”,
espressione che Vovin utilizza per definire l'aggettivo che funge da predicato pazientivo.
Come il criterio pragmatico della specificità determina la presenza di wo nel marcare
l'oggetto di una frase transitiva, anche in queste costruzioni attivo-stative sembrerebbe
che wo nel marcare il paziente alterni con ø sulla base dello stesso criterio: il parametro
della specificità del paziente sembrerebbe poter essere infatti utilizzato per giustificare
l'alternanza wo-ø nella costruzione in -mi.
In conclusione si può quindi provare a tracciare lo sviluppo delle funzioni della
particella wo a partire dalle prime fonti scritte. Come si è visto, secondo un gruppo
nutrito di studiosi come Hashimoto, Konoshima e Shibatani, wo non avrebbe avuto già
una forte connessione con l'oggetto sin dal periodo Nara e Heian, ma sarebbe stata
utilizzata solo in funzione enfatica o interiezionale: il suo ruolo sarebbe stato in origine
quello di una interiezione esterna, pian piano grammaticalizzatasi nella marca
dell'oggetto diretto in uso oggi. Se così fosse, le occorrenze della particella wo in
funzione esclamativa o interiezionale dovrebbero essere un numero molto alto nelle
prime attestazioni. Invece, se escludiamo studi in cui ogni occorrenza di wo viene
interpretata in modo arbitrario e soggettivo come Hashimoto (1969) e che quindi non
permettono una suddivisione netta, si trovano ricerche che testimoniano come le
399 Secondo alcuni studi, infatti, l'allineamento attivo-stativo sarebbe presente in gradi diversi in tutte lelingue: si potrebbe quindi spesso identificare una lingua come appartenente ad un tipo accusativo oergativo di base, all'interno di cui si troverebbero anche attanti di verbi monovalenti codificati in modoatipico. Questa proposta è stata formulata da Bickel e Nichols, si veda §4.1.1.
219
occorrenze di wo interiezionale non fossero affatto numerose nella lingua antica: Kondō
(1980) riconosce solo 13 occorrenze della particella wo in questa funzione all'interno di
tutti i testi di epoca Nara, mentre Vovin (2009b), concentrandosi solo sul Man'yoshu, ne
identifica appena quattro e afferma anche che a tre di esse si potrebbe attribuire un
valore grammaticale (ma, come visto in §2.2.1, anche il quarto esempio potrebbe essere
ricondotto a una funzione concreta di espressione del tempo continuato). L'utilizzo
interiezionale sembrerebbe quindi essere in realtà molto raro nelle prime attestazioni
scritte del giapponese antico, mentre l'utilizzo in funzione di marca dell'oggetto (se
specifico) è ben più frequente. L'utilizzo interiezionale appare molto più
frequentemente, e incontrovertibilmente, nei testi di epoca Heian per poi regredire fino
alla scomparsa nei periodi successivi: si potrebbe allora ipotizzare che in realtà la
funzione originaria non fosse affatto quella interiezionale, ma piuttosto quella
pragmatico-grammaticale di marca dell'oggetto specifico. Come avviene
frequentemente con i morfemi la cui funzione sia marcare l'oggetto, questa particella
avrebbe avuto anche un valore esclamativo che divenne molto diffuso solo nei testi del
periodo Heian. Nella funzione di marca dell'oggetto, la sua presenza nel periodo Nara –
come detto (§4.2) – era determinata dal criterio pragmatico della specificità dell'oggetto,
mentre sembra che nel periodo Heian questo criterio non sia più l'unico parametro in
base al quale si manifesta l'alternanza wo-ø: è possibile che fossero entrati in gioco
anche differenti elementi, ad esempio il criterio semantico dell'animatezza, che, insieme
ai criteri pragmatici di definitezza e specificità, è il parametro che più comunemente
influenza la marcatura differenziale dell'oggetto. Nel periodo Heian quindi wo marca
oggetti umani, animati, referenziali: è solitamente utilizzata con i pronomi e in presenza
di referenti particolari come l'imperatore o i partecipanti al discorso400. La sua
grammaticalizzazione, nella lingua scritta e nei registri più formali della lingua, si ha
proprio a partire dal periodo Heian, sotto la spinta della pratica del kanbun-kundoku (il
cui linguaggio tende ad essere più esplicito e ad essere caratterizzato da meno elisioni) e
della grammaticalizzazione di altre particelle come ga e no. Molto interessante risulta a
400 Sadler (2002: 250) correttamente nota che questi elementi possono essere connessi alla nozione didiscourse-manipulability di Hopper&Thompson (1984: 711). Manipolabili sono definiti quei referentila cui identità è continua nel tempo (continuity of identity) e hanno importanza nel discorso.
220
questo proposito la ricerca effettuata da Miyagawa401, che mette a confronto i testi dello
Heike Monogatari (nella versione del 1371) e dello Amakusa Heike, testo che contiene
quasi tutto il racconto dello Heike e che venne ideato da Fabian Fucan (1565-1621) nel
1592 come libro di base per l'insegnamento del giapponese ai missionari. Lo studio di
Miyagawa mostra un'ampia tendenza al maggiore utilizzo di wo nel testo dello Amakusa
Heike: 1430 occorrenze di wo nello Heike sono riportate anche nello Amakusa Heike,
mentre 400 occorrenze del morfema ø nello Heike sono invece sostituite da wo nello
Amakusa. Ad una conclusione simile giunge anche Sadler402, che mette in parallelo tre
versioni del Genji Monogatari: l'originale testo del periodo Heian ad opera di Murasaki
Shikubu, una versione incompleta del 1723 e una terza versione del 1964 ad opera di
Tanizaki Jun'ichirō (1886-1965). Sadler nota che nelle parti in prosa la versione
originale del Genji presenta nel 73% dei casi la particella wo (il morfema ø è presente
nei restanti 27% dei casi), nella versione del 1723 le occorrenze di wo sono circa l'80%
del totale, mentre nella versione di Tanizaki sono il 96% del totale. Simili sono anche le
percentuali connesse alle parti dialogiche: anche in esse Sadler nota un graduale
incremento di occorrenze di wo a marcare l'oggetto. Per chiarezza si riporta lo schema
di Sadler delle occorrenze di wo nelle parti in prosa:
wo ø
Genji originale 72,6% 27,4%
Genji 1723 80,6% 19,4%
Genji 1964 96,4% 3,6%
Gli studi di Sadler e Miyagawa ben testimoniano il graduale incremento delle
occorrenze di wo con il passare dei secoli nei testi scritti. Nel parlato spontaneo però
ancora oggi la particella wo tende ad alternare con ø, e alcuni studi testimoniano anche
che in realtà è il morfema ø la marca più comune dell'oggetto diretto nel giapponese
parlato, piuttosto che la particella esplicita wo. Ad esempio, Aissen403 riferisce che nel
parlato informale la particella wo tende ad essere elisa in presenza di oggetti inanimati e
401 Miyagawa (2012: 235 ss.). Miyagawa si rifà alle ricerce di Suzuki, che aveva studiato le differenzefra i due testi dello Heike e dello Amakusa Heike.
402 Sadler (2002: 253 ss).403 Aissen (2002: 29-31), che cita lo studio di Fry.
221
indefiniti, mentre l'espressione esplicita di wo è più frequente con oggetti animati e
definiti. Una frequenza altissima di elisione di wo è messa in luce da ulteriori due studi.
Il primo è la ricerca di Endo Hudson, Sakakibara e Kondo404, che mostra che una media
di due oggetti su tre non vengono marcati nel giapponese colloquiale. A conclusioni
simili giunge lo studio di Ono e Fujii405, secondo i quali nel giapponese parlato si
tendono a marcare esplicitamente circa il 30% degli oggetti diretti, mentre il restante
70% non viene marcato. I parametri che, secondo Ono e Fujii, determinerebbero
maggiormente la presenza della particella wo sono fattori come la referenzialità
dell'oggetto e la salienza e importanza nel discorso (se l'oggetto fungerà poi da topic o
esprime informazioni fondamentali che il parlante vuole sottolineare). Si è di fronte,
quindi, anche nel giapponese colloquiale moderno, ad una marcatura differenziale
dell'oggetto basata su fattori pragmatici (Ono e Fujii), ma anche in parte semantici
(Aissen): anche in questo caso, la marca dell'oggetto non ha funzione esclusivamente
grammaticale, non essendo obbligatoria.
Il fatto che la sua presenza sia determinata da fattori pragmatico-semantici è forse il
motivo per cui Tokieda Motoki406 sostiene che “wo viene utilizzata quando viene
identificato qualcosa che contrasta fortemente con il verbo, quindi piuttosto che un caso
logico, si dovrebbe dire che esprime un caso emotivo”. Similmente, è questo valore
pragmatico che permette a Miller – come visto nell'introduzione – di definire wo quale
marca di un “emphatic object”, adducendo l'esempio dell'opposizione hon wo kaku
'scrivere un libro (nel particolare)' e hon kaku 'scrivere libri (in generale)'407. Ed è
probabilmente questo utilizzo anche pragmatico delle particelle che ha permesso a
Rodriguez408 di definire le particelle “articoli”, intendendo forse che grazie alla
presenza/assenza di esse si segnalasse anche la definitezza del sostantivo. La particella
wo, in definitiva, a partire dalle prime attestazioni del giapponese antico fino ad arrivare
alla lingua colloquiale dei giorni nostri, non ha una funzione esclusivamente
grammaticale, eccezion fatta per la lingua scritta formale (in cui si è grammaticalizzata):
essa viene assegnata chiaramente con limitazioni di tipo grammaticale ma su base
404 Citata in Wrona&Frellesvig (2009: 575).405 Fujii&Ono (2000: 7).406 Tokieda è citato in Kondō (1980: 63). Anche qui, la traduzione è mia.407 Miller (1971: 27).408 Rodriguez (1604: 11), di questo fatto si era già parlato in §1.2.
222
pragmatica, ed è connessa a criteri come la referenzialità, l'identificabilità, la
definitezza, l'importanza nel discorso409. Questo testimonia ancora una volta che la
categoria del “caso” grammaticale (accusativo, in questa circostanza, ma discorso
analogo si può fare in connessione al nominativo e alla particella ga) non può affatto
essere applicata al giapponese: le particelle giapponesi non esprimono nettamente valori
grammaticali, in quanto alla funzione grammaticale spesso si sovrappone un valore
pragmatico che l'etichetta “accusativo” o “nominativo” non riuscirebbe a convogliare.
409 Nei termini di Sadler (2002b: 76) "discourse salience" e "thematic importance”.
223
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