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Origine e funzioni della particella giapponese wo Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea Magistrale in Lingue e Civiltà Orientali Cattedra di Glottologia Relatore Correlatore Prof.ssa Claudia A. Ciancaglini Prof. Luca Milasi Candidato Corinne D'Antonio matr. 1212124 A/A 2014/2015
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Origine e funzioni della particella giapponese wo

May 15, 2023

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Page 1: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Origine e funzioni della particellagiapponese wo

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea Magistrale in Lingue e Civiltà Orientali

Cattedra di Glottologia

Relatore Correlatore

Prof.ssa Claudia A. Ciancaglini Prof. Luca Milasi

Candidato

Corinne D'Antonio

matr. 1212124

A/A 2014/2015

Page 2: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Indice

Convenzioni 4

Periodizzazione della lingua e basi del verbo in giapponese antico e classico 6

Lista delle abbreviazioni 7

Introduzione 9

Cap. 1: La classificazione delle particelle e la categoria di “caso” in giapponese 16

1.1 助詞 joshi: la classificazione delle particelle giapponesi 18

1.1.1 Le particelle finali 20

1.1.2 Le particelle interiezionali 21

1.1.3 Le particelle di congiunzione 23

1.1.4 Le particelle restrittive 25

1.1.5 Le particelle pragmatiche 26

1.1.6 Le particelle “di caso” 29

1.2 La categoria del “caso” e la sua identificazione in giapponese 33

1.2.1 Casi analitici e casi sintetici 37

1.2.2 Casi grammaticali e casi semantici 43

1.2.3 La categoria del “caso” in giapponese 48

Cap. 2: La classificazione e le funzioni della particella wo 55

2.1 La particella wo in funzione di particella grammaticale 56

2.1.1 La funzione grammaticale di wo 57

2.1.2 Le funzioni concrete di wo 60

2.1.3 Criteri sintattici per riconoscere la particella grammaticale wo 78

2.2 La particella wo in funzione di particella interiezionale 82

2.2.1 Criteri sintattici per riconoscere la particella interiezionale wo 86

2.3 La particella wo in funzione di particella finale 92

2.3.1 Criteri sintattici per riconoscere la particella finale wo 92

2.4 La particella wo in funzione di particella di congiunzione 96

2.5 Il costrutto in -mi ( ミ語法 mi-gohō) 97

2.6 Osservazioni conclusive 107

Introduzione ai Capitoli 3 e 4: La funzione originaria di wo 110

Cap. 3: La teoria interiezionale 113

Page 3: Origine e funzioni della particella giapponese wo

3.1 Lo studio di Matsuo 114

3.2 Lo studio successivo di Hiroi e Oyama 129

3.3 L'origine interiezionale di wo 134

3.4 Osservazioni conclusive 140

Cap. 4: L'allineamento morfosintattico e l'alternanza wo-ø in giapponese antico 144

4.1 L'allineamento morfosintattico del giapponese antico 145

4.1.1 Allineamenti morfosintattici 145

4.1.2 L'allineamento ergativo-assolutivo nel giapponese antico 153

4.1.3 L'allineamento nominativo-accusativo nel giapponese antico 160

4.1.4 L'allineamento attivo-stativo nel giapponese antico 163

4.2 L'alternanza wo-ø e il differential object marking (DOM) 176

4.2.1 La ragione morfosintattica dell'alternanza wo-ø 177

4.2.2 La ragione pragmatica dell'alternanza wo-ø: il DOM 188

Cap. 5: Applicazione e validità delle teorie sull'alternanza wo-ø 199

5.1 Esempi con 都 miyako + 見る miru 201

5.2 Esempi con 花 pana + 折る woru 206

5.3 Osservazioni conclusive 212

Conclusioni 214

Bibliografia 224

2

Page 4: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Desidero ringraziare tutte le persone che hanno contribuito e sono state d'aiuto

nella realizzazione della mia tesi.

I miei ringraziamenti vanno innanzitutto alla mia relatrice, la Prof.ssa Ciancaglini,

per il costante supporto, i preziosi consigli, e per avermi trasmesso l'amore per la

linguistica; al Prof. Milasi, mio correlatore, per la grande disponibilità e cortesia

dimostratami e per l'aiuto nella ricerca; al Prof. Keidan, per il contributo e la revisione

di una sezione particolarmente complessa come quella sugli allineamenti

morfosintattici.

Un ringraziamento particolare al Prof. Vovin per la sua immensa gentilezza e per

essere stato di grande aiuto nell'avermi fornito il materiale da lui prodotto e nell'avermi

suggerito preziosi spunti di riflessione.

Nella ricerca dei materiali, un doveroso ringraziamento alla mia collega Roberta

Gattodoro per avermi aiutato nelle ricerche nella biblioteca a SOAS per reperire molti

dei testi consultati durante la stesura di questo lavoro; alla Sig.ra Alessandra Polidori e

al personale della biblioteca del Dipartimento di Studi Orientali, per la rapidità con cui

mi hanno reso disponibili gli articoli di cui avevo bisogno.

Vorrei ringraziare tutta la mia famiglia per aver condiviso gioie e dolori della mia

esperienza universitaria. Grazie a mia mamma per avermi aiutato, essere presente nei

momenti migliori e in quelli più difficili e per avere sempre la soluzione giusta al

momento giusto; a mio papà per aver avuto fiducia nelle mie scelte, per aver gioito con

me in ogni successo e confortatomi in ogni avversità; a mia nonna Elisa, per aver

aspettato questo momento con più trepidazione di me. Grazie a Sebastian, per aver dato

ascolto giorno e notte ai miei dubbi e alle mie teorie e per essermi accanto in ogni

momento, e al mio gruppo stretto di amici, per aver condiviso esami e tazze di tè,

supportandomi e sopportandomi sempre.

Questo lavoro è dedicato ai miei nonni, Gigetto e Oretta.

3

Page 5: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Convenzioni

Il sistema utilizzato per la romanizzazione delle parole giapponesi moderne è il

sistema Hepburn. Per quanto riguarda le parole in giapponese antico e classico, esse

sono qui traslitterate secondo la pronuncia ricostruita del periodo in cui è stato scritto il

testo.

Alcuni elementi degni di nota per quanto riguarda le consonanti sono i seguenti. Le

consonanti sonore, che foneticamente erano probabilmente prenasalizzate [nt] e si erano

sviluppate a partire da nessi di nasale+consonante sorda, sono qui trascritte come

consonanti sonore semplici. Un fenomeno importante riguarda il fonema /p/. In

posizione intervocalica /-p-/ > /-w-/ davanti a tutte le vocali nel tardo decimo secolo, e

fra il 1000 e il 1300 -w- > ø ma solo davanti ad /e, i, o/ (per cui kapo > kawo > kao ma

kapa > kawa); nel tardo medio giapponese, in posizione iniziale di parola /p-/ > /f-/ e nel

nuovo giapponese /f-/ > /h-/ (pana > fana > hana): la traslitterazione è appropriata per

ognuna di queste fasi, in base alla datazione del testo da cui si prendono gli esempi. La

realizzazione fonetica della sibilante /s/ in giapponese antico non è chiara e non vi è

accordo fra gli studiosi (a seconda delle teorie, sarebbero state pronunciate come

affricate o fricative, palatoalveolari o alveolari): per semplicità qui si segue la pronuncia

odierna, fricativa alveolare con allofono palatoalveolare davanti ad /i/ (allofono che

probabilmente si realizzava in giapponese antico anche davanti ad /e/). Per quanto

riguarda le affricate che si hanno nel giapponese moderno, esse sorgono nel tardo medio

giapponese in cui /t/ e /d/ si assibilano davanti a vocali alte, mutando in [tʃi; tsu] e [dʒi;

dzu], e queste ultime confluiscono definitivamente in [zi; zu], anch'esse affricate: si

tratta di un mutamento posteriore al periodo studiato in questo lavoro, quindi le affricate

non sono mai riportate negli esempi proposti.

Per quanto riguarda le vocali, la tradizionale distinzione tra kō-rui 甲類 (tipo A) e

otsu-rui 乙類 (tipo B) non è mai riportata graficamente qui, in quanto non vi è accordo

in merito alla realizzazione fonetica di queste due serie, la cui opposizione non riguarda

i fonemi /u; a/ ma soltanto /e; i; o/. Tra gli altri, Vovin (2005; 2009b) utilizza la seguente

ricostruzione [yi; ye; wo] (kō) e [iy; ey; ø] (otsu), mentre Frellesvig (2010) ricostruisce

[i; ye; wo] (kō) e [wi; e; o] (otsu), ma altri studiosi ne hanno proposte di differenti.

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Page 6: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Un'ultima considerazione grafica: per facilitare la lettura del testo giapponese, si è

deciso di trascrivere i testi (anche quelli originariamente scritti in man'yōgana, un

sistema per cui i caratteri cinesi potevano essere usati per il loro valore fonetico o

semantico) utilizzando kanji e kana. Si deve quindi notare che gli esempi presi dal

Man'yoshu, dal Kojiki o dal corpus dei senmyō sono in originale scritti in modo molto

differente da ciò che sarà proposto qui.

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Page 7: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Periodizzazione della lingua giapponese

Basi del verbo in giapponese antico e classico

MZ Mizen-kei 未然形 Base imperfettiva

RY Ren'yō-kei 連用形 Base continuativa/avverbiale/infinitiva

SS Shushi-kei 終止形 Forma di fine frase

RT Rentai-kei 連体形 Base attributiva

IZ Izen-kei 已然形 Base perfettiva

MR Meirei-kei 命令形 Forma imperativa

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Page 8: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Lista delle abbreviazioni

AG agente

ATTR attributivo

BEN benefattivo

CAUSAL causale

CLASS classificatore

COM comitativo

COMP comparativo

CONC concessivo

COND condizionale

CONG congetturale

COP copula

DES desiderativo

DIR moto a luogo

ESCL esclamativo

ENF enfatico

FIN (particella) finale

FOC focus

GER gerundio

HON onorifico/sonkeigo 尊敬語

HUM umile/kenjōgo 謙譲語

IMP imperativo

INTER interrogativo

IPOT ipotetico

LOC locativo

NEG negativo

NMLZ nominalizzatore

OGG oggetto diretto

OGIN oggetto indiretto

PART particella

7

Page 9: Origine e funzioni della particella giapponese wo

PASS passato

PASV passiva

PERF perfettivo

PLUR plurale

PREF prefisso

QUOT citazione

RIS risultativo

SING singolare

SOGG soggetto

STAT stativo

SUFF suffisso

TEMP temporale

TOP topic

TOPEN topic enfatico

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Page 10: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Introduzione

Lo studio delle joshi 助詞 'particelle', termine che raggruppa elementi molto

differenti fra loro come ad esempio morfemi legati che fungono da congiunzione o

morfemi più liberi che esprimono relazioni semantiche o grammaticali, è uno degli

argomenti più diffusi e importanti nelle ricerche sulla lingua giapponese sia antica che,

in particolar modo, moderna. Le particelle sono state studiate sin dai primi tentativi di

analisi della lingua giapponese ad opera degli studiosi della corrente detta 國 學

kokugaku 'studi nazionali' di epoca Edo, come Fujitani Nariakira ( 富士谷 成章 1738–

1779) e Motoori Norinaga (本居宣長 1730-1801)1, ma ancora non sembra trattarsi di

vere e proprie descrizioni organiche di questo complesso sistema. Una classificazione

definitiva sarebbe giunta soltanto nel secolo scorso, grazie a Yamada Yoshio (山田孝雄

1873-1958). Yamada nel Nihon bunpō-ron 日 本 文 法 論 del 1908 teorizzò una

categorizzazione valida per il giapponese antico e moderno, basata sulla posizione e la

funzione delle particelle, e ne riconobbe sei tipologie ovvero finali, interiezionali, di

congiunzione, restrittive, pragmatiche e di “caso”. È una classificazione molto rigida,

che non sembra permettere connessioni tra le diverse tipologie: una particella può e

deve appartenere ad una classe soltanto, in un rapporto biunivoco tra forma e funzione.

Tale presupposto ha avuto come conseguenza il fatto che, nel caso in cui ad un unico

morfema fossero attribuibili in sincronia due o più funzioni, numerosi studiosi giunsero

a classificare più particelle omofone piuttosto che una singola particella a cui connettere

diversi valori. Ad esempio, nel giapponese classico esisterebbe una particella ya

interiezionale e una ya pragmatica, e allo stesso modo ga sarebbe identificata come

particella di congiunzione e “di caso”, due morfemi differenti con due funzioni

differenti.

È opportuno soffermarsi proprio sulle particelle di “caso”. Già João Rodriguez (ca.

1560-1634) e Diego Collado (tardo 1600-1638), missionari cristiani che operarono in

Giappone e produssero due importantissimi testi di grammatica del giapponese

1 Del primo si veda il testo Ayui shō 脚結抄 del 1778, in cui Fujitani analizza le particelle e i verbiausiliari, di Norinaga si può vedere il Teniwoha himo kagami てにをは ひも鏡 del 1771 e ilcommentario Kotoba no tama no o 詞の玉緒 del 1779, che spiegano la funzione e l'utilizzo di quelleche oggi vengono chiamate “particelle di topic e focus” o “particelle pragmatiche” (si veda §1.1.5).

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Page 11: Origine e funzioni della particella giapponese wo

dell'epoca, si interessarono di questa tipologia di particelle: esse compaiono sin

dall'inizio nei due testi, e sono utilizzate per spiegare la declinazione dei sostantivi

giapponesi, utilizzando come modello di base la flessione del sostantivo in latino. Nello

studio dei due missionari, le particelle che vengono postposte ai nomi corrispondono

infatti ai casi del latino e la loro presenza determina quindi le differenze di caso. In

questi testi l'impostazione basata sul latino si rendeva necessaria a causa dello scopo per

cui essi erano stati compilati, ovvero insegnare rapidamente il giapponese ad altri

missionari cristiani che si trovavano in Giappone, per i quali il latino era lingua ben

conosciuta e di cultura. Eppure l'utilizzo del latino come modello esplicativo,

paradigmatico e universalistico, per descrivere il giapponese secondo la morfologia di

una lingua in cui il sostantivo si declina secondo i casi nominativo, genitivo, dativo e

così via, si è perpetrato fino ai giorni nostri, e ancora oggi le descrizioni della lingua

giapponese ad opera di studiosi occidentali tendono a basarsi su questa impostazione,

presupponendo l'esistenza di una categoria di “caso” in giapponese e identificando

morfemi di “caso” (particelle) che vengono messi in parallelo con le desinenze di caso

tradizionali del latino e del greco. Collegare un caso della grammatica latina o greca a

una particella giapponese non permetterebbe però di attribuire alle particelle una serie di

valori differenti, che non sono desumibili dall'etichetta di nominativo o accusativo, ma

che pure questi morfemi presentano in modo indiscutibile. Ad esempio la particella che

viene collegata con il nominativo nel giapponese moderno è ga, ma la funzione primaria

di essa non è grammaticale, come l'etichetta “nominativo” potrebbe suggerire, ma

piuttosto pragmatica, in quanto esprime il focus, ed è identificabile con il nominativo se

il focus coincide con il soggetto. La natura pragmatica della funzione di ga è stata

riconosciuta in modo definitivo solo negli ultimissimi anni2, ma gran parte degli gli

studiosi tende ancora a identificarne il valore grammaticale primario di espressione del

soggetto: la stessa sorte è toccata anche a wo, la particella oggetto di questo studio.

Il problema che si pone nello studio delle particelle giapponesi, che complica

l'attuazione di una descrizione linguistica imparziale e univoca, è quindi di duplice

natura e sarà uno dei fili conduttori di tutto questo lavoro. Da un lato, non si deve cadere

nell'errore di istituire un rapporto biunivoco tra forma e funzione, come sembrano fare

2 Per un'ottima analisi e uno studio delle occorrenze di ga nel parlato si veda l'articolo Ono, Thompson&Suzuki (2000).

10

Page 12: Origine e funzioni della particella giapponese wo

gli studiosi (principalmente giapponesi) che si basano sulla classificazione proposta da

Yamada: un morfema in sincronia può avere differenti valori e una particella giapponese

può condividere, ad esempio, alcune funzioni con la classe delle particelle pragmatiche

e altre funzioni con la classe delle particelle di “caso”. Tale questione si concretizza poi

anche sul piano espressivo, in quanto nei testi degli autori che si rifanno alla

classificazione di Yamada si legge ad esempio “wo come kantō joshi (particella

interiezionale)” senza mai far riferimento al fatto che il valore interiezionale possa

invece essere una delle tante funzioni della particella wo e non una vera e propria

particella interiezionale. Dall'altro lato, si deve eludere l'impostazione occidentale, in

cui si utilizzano categorie che possono non essere riconosciute necessariamente in tutte

le lingue ma su cui anche gli specialisti tendono a basarsi nelle loro discussioni: si tratta

del concetto di “caso”, ad esempio, ma anche di una parte del discorso come l'aggettivo,

della categoria del plurale e così via. Questi sono elementi che tradizionalmente si

identificano all'interno di lingue occidentali antiche o moderne3, ma non è automatico

riconoscerli anche in lingue molto differenti, genealogicamente e tipologicamente.

A tale proposito, può costituire un esempio molto esplicativo il caso della particella

wo, che secondo la tradizione degli studi segnalava l'oggetto diretto in giapponese

antico e mantiene questa funzione anche nella lingua moderna: a causa di questa sua

funzione primaria viene spesso definita “particella dell'accusativo”. Per quanto riguarda

la fase del giapponese antico e classico, questa particella viene però classificata in

diverse delle categorie individuate da Yamada e alcuni studiosi riconoscono l'esistenza

di un ampio numero di particelle omofone wo, ognuna con una funzione particolare:

interiezionale, finale, di congiunzione, di “caso” (accusativo). Condivide con i valori

che generalmente si attribuiscono all'accusativo delle lingue indoeuropee alcuni utilizzi

(oltre il segnalare l'oggetto, ha funzioni locative e temporali e un valore interiezionale),

ma assume anche funzioni non ricoperte dal caso accusativo di lingue come il latino o il

greco. Inoltre, contrariamente alle desinenze di accusativo nelle lingue indoeuropee, wo

tendeva in antico giapponese ad alternare con il morfema ø: le ragioni di questa

3 La categoria dell'aggettivo, ad esempio, viene riconosciuta come parte del discorso a sé stante solo nelmedioevo (e successivamente nella grammatica di Port Royal), in quanto la tradizione degli studigreci e latini identificava soltanto le due categorie di verbo e nome: l'aggettivo (epiteto) si situavacome distinzione di secondo livello all'interno della categoria del nome. Per una analisi della nascitadella categoria di aggettivo, si veda Alfieri (2014).

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Page 13: Origine e funzioni della particella giapponese wo

alternanza sarebbero, secondo gli studi più recenti, di tipo morfosintattico o pragmatico,

ma la prima ipotesi che venne formulata dagli studiosi era connessa ad un valore

meramente interiezionale di wo, secondo cui la presenza della particella avrebbe

innalzato il livello emotivo del discorso senza convogliare alcun valore pragmatico o

morfologico.

Molti studiosi ritengono infatti che la particella wo avesse avuto in origine un valore

solamente esclamativo o enfatico e alcuni di essi utilizzano questa ipotesi a supporto

della teoria secondo cui il giapponese avrebbe una connessione genealogica con le

lingue altaiche. Non è assolutamente scopo di questo lavoro determinare la veridicità

delle teorie sulla parentela genealogica del giapponese, che spaziano da una possibile

parentela con il coreano, a una presunta parentela con le lingue austronesiane o una

ipotetica connessione con lingue altaiche, fino a ipotizzare un sostrato austronesiano e

un superstrato altaico4, ma è interessante notare che la particella wo riveste un ruolo

importante anche nelle ricerche su questo argomento. Il primo studioso ad analizzare la

particella wo in questo senso è Murayama5, che nel 1957 compara il giapponese wo, che

secondo lui avrebbe avuto origine da un ricostruito *wә e avrebbe avuto funzione di

accusativo, con il suffisso accusativo del mancese -be e con il proto-tunguso *-wa/*-wә:

Miller critica in parte questo approccio e afferma che Murayama non avrebbe prestato

attenzione anche agli altri utilizzi di wo, come quello temporale o locativo6. Infatti

Miller propone alcuni esempi che presentano il morfema del proto-tunguso, che lui

afferma essere *-ba (seguendo la ricostruzione di Benzing e prendendo le distanze da

Murayama), utilizzato in funzione di marca dei complementi di tempo e luogo e mette

4 Si è anche ipotizzata una connessione con le lingue indoeuropee o con altre lingue isolate, ma la teoriaaustronesiana e quella altaica, insieme alla teoria coreana, sono effettivamente sostenute e dibattute daun numero molto maggiore di studiosi. Per una panoramica generale si può vedere Shibatani (1990:94-118). Numerose critiche a queste ipotesi, con particolare riguardo alla teoria della parentela con lelingue altaiche, sono mosse in Ciancaglini (2009); si veda anche Vovin (2011b). Per quanto riguarda iconcetti di sostrato e superstrato si veda Thomason&Kaufman (1988: 111 ss.), ma si noti che “thetheory that Japanese involves an Austronesian substratum and an Altaic superstratum says nothingabout the Japanese genealogy, namely the linguistic layer lying between the two strata”: a questoproposito si veda Ciancaglini (2009: 313).

5 Murayama è citato in Shibatani (1990: 99) e in Miller (1971: 26-7).6 Miller (1971: 26). Come noto e come si vedrà in dettaglio (§1.2.2), anche le espressioni di tempo e

luogo sono molto comunemente espresse tramite il caso accusativo, quindi non sono chiare le basisulle quali Miller critica Murayama: una spiegazione possibile è che Miller intenda erroneamente per“accusativo” solo l'espressione dell'oggetto diretto e non anche le altre funzioni concrete tipicamenteespresse tramite il caso accusativo.

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Page 14: Origine e funzioni della particella giapponese wo

questi due utilizzi in parallelo con le funzioni del giapponese wo: “the parallel [...] is

immediately apparent”, conclude Miller. Anche la funzione enfatica ed esclamativa di

wo è presa in considerazione da Miller, e lo studioso spiega che, così come in

giapponese questo morfema avrebbe la funzione di marcare un “emphatic object”, allo

stesso modo il mancese -be avrebbe la stessa funzione7. La discussione venne portata

avanti di nuovo da Murayama, che nel 1973 mise in parallelo la funzione prettamente

esclamativa che molti studiosi attribuiscono alle occorrenze di wo in giapponese antico

con la funzione del morfema *ba/*bә del proto-mancio-tunguso, che secondo

Murayama avrebbe avuto una funzione di segnalare “emphasis and exclamation rather

than a grammatical object”8. Le funzioni principali che si attribuiscono alla particella

giapponese wo, quindi, sarebbero identiche alle funzioni del morfema del proto-mancio-

tunguso con cui essa viene comparata.

La teoria di Miller e Murayama è sicuramente molto interessante, ma manca di un

criterio fondamentale per dimostrare una parentela genealogica fra lingue: la

paradigmaticità. Per poter dimostrare una parentela genealogica ci si deve basare su

corrispondenze regolari e sistematiche sia a livello di fonologia che di morfologia;

inoltre le corrispondenze morfologiche non possono essere confinate a pochi e limitati

elementi: si deve trattare di interi sistemi o subsistemi “with a good deal of internal

paradigmaticity, ideally multiple paradigmaticity”9, ovvero la co-occorrenza e

l'ordinamento in serie stabile di un gruppo chiuso e ben preciso di forme. Solo in questo

modo si potrà escludere la possibilità che le corrispondenze siano dovute al caso. Un

esempio di corrispondenze morfologiche paradigmatiche che si può proporre è lo

schema delle desinenze attive primarie del PIE, ricostruite come *-mi (prima persona

singolare), *-si (seconda singolare), *-ti (terza singolare), *-nti (terza plurale): nelle

forme attestate nelle lingue indoeuropee antiche si riconoscono corrispondenze regolari,

sistematiche e il criterio della paradigmaticità è rispettato, ed è infatti bassissima la

probabilità che questi morfemi occorrano in tutte le lingue, con la stessa funzione e

nello stesso ordine. Un secondo esempio è il sistema delle desinenze di caso ricostruite

del PIE, e tutte le lingue indoeuropee antiche mostrano un pradigma composto da esiti

7 Della funzione di marcare ciò che Miller chiama “emphatic object” si parlerà diffusamente in §4.2.8 Murayama è citato in Shibatani (1990: 99).9 Su questo argomento si veda Ciancaglini (2009: 307-8), in cui si cita Nichols (1996: 48).

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Page 15: Origine e funzioni della particella giapponese wo

regolari a partire da esse: si tratta di “co-occurrences and an ordering on a set of forms

each of which, if taken individually, would be much too short for its consonantal

segments to reach the individual-identifying threshold”10. Basare la comparazione su

forme che consistono solo di singoli morfemi, senza alcun grado di paradigmaticità, non

dimostra nulla sulla parentela genealogica delle lingue in esame. Quindi, solo nel caso

in cui Miller o Murayama riuscissero a dimostrare che, oltre alla particella wo, anche

altre particelle di “caso” come ga, no, ni, pe > he e così via avessero forme comparabili

in mancese e tunguso, allora si potrebbe essere dinanzi ad un buon indizio a favore

dell'ipotesi di una parentela genealogica fra queste tre lingue: eppure questi studiosi non

sembrano essere stati in grado di identificare tali corrispondenze. Su questo argomento

si può però vedere la grammatica di Vovin11, in cui egli riporta in modo sistematico le

possibili corrispondenze tra morfemi giapponesi e morfemi delle altre lingue che

secondo gli studiosi potrebbero essere imparentate con il giapponese (a partire dalla

lingua delle Ryūkyū fino al coreano o al mancese). Per quanto riguarda le particelle di

“caso”, eccezion fatta per un ristrettissimo numero di morfemi che secondo Vovin

sarebbero prestiti coreani, nessuna di esse, eccetto wo, ha un parallelo dimostrabile in

lingue del gruppo altaico: il criterio della paradigmaticità non è quindi rispettato. Come

è stato detto, infatti, se si riesce a dimostrare l'esistenza di forme corrispondenti in altre

lingue di una sola e unica forma (in questo caso wo) all'interno di una serie, senza

trovare paralleli di un intero gruppo chiuso e ben preciso di forme, non si dimostra nulla

riguardo la parentela genealogica, in quanto potrebbe trattarsi di mera casualità.

Per questo motivo si è deciso di non analizzare in questo studio il problema delle

corrispondenze tra la particella giapponese wo e i morfemi paralleli nelle lingue

altaiche, ma di soffermarsi invece sui valori che essa aveva in giapponese antico e le

funzioni che ricopre sin dalle prime fonti scritte.

Questo lavoro è organizzato nel modo che segue: nel primo capitolo si tratterà la

classificazione delle particelle ad opera di Yamada e l'utilizzo del termine “caso”

applicato alla lingua giapponese; nel secondo capitolo si esporranno le diverse funzioni

della particella giapponese wo nel giapponese antico e classico, discutendo la

categorizzazione di wo all'interno delle rigide classi di Yamada; nel terzo capitolo verrà

10 Nichols (1996: 52).11 Si vedano i due volumi Vovin (2005; 2009b).

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Page 16: Origine e funzioni della particella giapponese wo

analizzata la teoria secondo cui la particella wo inizialmente non avrebbe avuto una

connessione con l'oggetto diretto, ma una funzione meramente enfatica; nel quarto

capitolo si discuterà il ruolo di wo all'interno delle diverse teorie sull'allineamento

morfosintattico del giapponese antico e le ragioni morfosintattiche o pragmatiche

dell'alternanza wo-ø; nel quinto e ultimo capitolo dimostrerà la veridicità delle teorie

discusse nelle sezioni precedenti, applicandole ad alcune frasi del Man'yoshu per. Nelle

conclusioni si proverà infine a tracciare lo sviluppo della particella wo a partire dalle

prime attestazioni del giapponese antico fino ai giorni nostri.

15

Page 17: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Capitolo 1

La classificazione delle particelle e

la categoria di caso in giapponese

La suddivisione delle parti del discorso in giapponese ha sempre posto numerosi

problemi, in quanto gli studiosi hanno spesso tentato di riconoscere, anche in questa

lingua, quelle categorie che la classificazione convenzionale occidentale identifica.

Negli studi tradizionali, in giapponese vengono distinte tre parti del discorso: 名 na,

働き言葉 hataraki-kotoba e てにをは teniwoha.

Il gruppo denominato na, 'nomi', include gli elementi che non vengono flessi, quindi

ad esempio nomi, pronomi, numerali, avverbi12, ma anche quelli che Frellesvig chiama

“nomi aggettivali”, ovvero una sottocategoria di aggettivi, emersa nel medio

giapponese, i cui membri devono essere sempre accompagnati dalla copula nari, ad

esempio 静かなり shizuka nari 'silenzioso'13.

Con il termine hataraki-kotoba, letteralmente 'parole in azione' o 'parole che

lavorano', si identificano al contrario gli elementi che vengono flessi, ovvero

principalmente verbi e aggettivi (che al contrario dei nomi aggettivali non hanno

bisogno della copula nari). Verbi e aggettivi insieme vengono identificati anche con il

termine 用言 yōgen 'parole d'uso', mentre Sansom le definisce “parole predicative”,

poiché sono le uniche a poter fungere da predicato di una frase senza l'utilizzo della

copula14.

La parola teniwoha invece è costituita semplicemente dall'unione di quattro dei

morfemi appartenenti a questa categoria, ovvero te (particella di congiunzione che segue

la forma continuativa del verbo, rende il gerundio), ni (particella spesso glossata come

“dativo”), wo (glossata come “accusativo”), ha (tramite il kana は , oggi letto ha ma

pronunciato pa in giapponese antico, si segnalava la particella del topic, che in medio

giapponese divenne wa15). La scelta di questi quattro elementi è connessa alla pratica

12 Aston (1904: 39).13 Frellesvig (2010: 235).14 Sansom (1928: 88).15 Per una spiegazione dei mutamenti che coinvolsero il fonema /p/ sia in posizione intervocalica (-p- >

-w- > ø) che in posizione iniziale di parola (p- > f- > h-), si vedano le pagine successive.

16

Page 18: Origine e funzioni della particella giapponese wo

del kanbun-kundoku. Per kanbun-kundoku, si intende la decodifica di un testo in cinese

in modo da renderlo comprensibile ad un lettore giapponese, tramite l'aggiunta di

appositi segni grafici come diacritici, in modo da segnalare la necessità, ad esempio, di

invertire l'ordine di verbo e oggetto (l'ordine delle parole è VO in cinese, OV in

giapponese) o di aggiungere morfemi per permettere la flessione verbale. Tra i diacritici

più importanti, vi sono gli ヲコト点 wokototen, puntini che venivano posizionati in un

punto preciso al lato del carattere (si veda la Fig. 1) per indicare la particella o il suffisso

che avrebbe accompagnato l'elemento per una corretta lettura in giapponese. I quattro

morfemi te, ni, wo, ha venivano rappresentati tramite wokototen ai quattro angoli del

logogramma, e fu per questo che la scelta ricadde su di loro16.

Nei teniwoha venivano incluse non

soltanto le particelle (ad esempio

appunto quelle “di caso”, particelle di

topic e focus, particelle restrittive), ma

anche i suffissi che seguono verbi e

aggettivi: Aston infatti suddivide

ulteriormente questa categoria in due

gruppi, da un lato le particelle e i

suffissi verbali che non vengono flessi

(ad esempio ba, che unito alla MZ17,

base imperfettiva del verbo, rende il

condizionale), dall'altro i suffissi verbali che devono essere flessi (ad esempio nu,

suffisso che viene flesso, MZ na, RY ni, SS nu, RT nuru, IZ nure, MR ne, il suffisso

segue la forma attributiva del verbo e ha funzione perfettiva)18.

16 Per ulteriori dettagli sull'origine del termine teniwoha, si veda Hashimoto (1969: 3-7). Sul kanbun-kundoku si veda anche §3.1.

17 Le basi verbali giapponesi sono le seguenti: base imperfettiva (未然形 mizen-kei), base continuativa(detta anche avverbiale, infinitiva, sospensiva) ( 連用形 ren'yō-kei), forma di fine frase ( 終止形

shūshi-kei), base attributiva (連体形 rentai-kei), base perfettiva (已然形 izen-kei) e forma imperativa(命令形 meirei-kei). Lungo tutto il testo si utilizzano le abbreviazioni MZ (mizen-kei), RY (ren'yō-kei), SS (shūshi-kei), RT (rentai-kei), IZ (izen-kei) e MR (meirei-kei).

18 Si veda Aston (1904: 39), per un elenco esaustivo si vedano i suoi capitoli V, VI, VII. Nei testimoderni, i suffissi che non si flettono (ad esempio -ba, -te, -do) vengono generalmente identificaticome particelle di congiunzione, setsuzoku joshi, mentre i suffissi flessi di Aston (ad esempio -raru,-sasu, -tu, -nu) sono identificati come ausiliari, in giapponese 助動詞 jodōshi. Ad esempio inFrellesvig (2010) e Shibatani (1990).

17

Fig. 1: Le posizioni degli wokototen rispetto al carattere

Page 19: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Il termine teniwoha, già in uso dal periodo Kamakura, identificava quindi un'ampia

gamma di elementi: desinenze verbali (ad esempio -mu in 読む yomu 'leggere', dove il

verbo yomu era classificato hataraki-kotoba), ausiliari, particelle di congiunzione, altre

tipologie di particelle, suffissi che indicano il plurale (ad esempio -ra). Oggigiorno

invece, con il termine teniwoha si indicano soltanto le particelle, in giapponese 助詞

joshi19.

1.1 助詞 joshi: la classificazione delle particelle giapponesi

Il termine joshi (letteralmente 'parole ausiliarie') sarebbe, secondo Miller, entrato

in scena per la prima volta nel 1856 come calco dell'olandese hulpwerkwoord 'verbo

ausiliare'20. Il termine joshi venne però curiosamente utilizzato per identificare gli

elementi non flessi che seguono altri elementi, ovvero le particelle postposte.

Diversamente, i verbi ausiliari veri e propri delle lingue occidentali vengono chiamati

助動詞 jodōshi in giapponese (letteralmente appunto 'verbo ausiliare'), termine usato

anche per i suffissi verbali giapponesi che si flettono e che indica in generale tutti gli

elementi che si possono aggiungere al verbo giapponese. Quelli che dalla grammatica

giapponese vengono identificati come verbi ausiliari autoctoni sono chiamati 補助動詞

hojodōshi e sono verbi come shimau 'finire per', morau 'ricevere', che seguono

generalmente la base continuativa del verbo o il gerundio te, ma che possono anche

essere utilizzati da soli.

Le particelle sono morfemi grammaticali postposti, ed hanno funzioni sintattiche,

semantiche, pragmatiche. Non è noto con certezza quanto siano legate alla parola a cui

sono connesse in antico giapponese, ma alcuni mutamenti fonologici avvenuti nel

periodo successivo permettono a Frellesvig di ipotizzare che in parte lo fossero. Intorno

al tardo decimo secolo /-p-/ in posizione intervocalica, non iniziale di parola, confluì nel

fonema già esistente /-w-/; fra il 1000 e il 1300, si ebbe un secondo mutamento in cui

/-w-/ > ø solo davanti a /e, i, o/ (ad esempio 顔 kapo > kawo > kao 'volto'): infatti una

parola come 川 kapa > kawa 'fiume' non subì questo secondo mutamento, e così anche

19 Hashimoto (1969: 5-6).20 Miller (1967: 315).

18

Page 20: Origine e funzioni della particella giapponese wo

la particella di topic pa > wa21. Per quanto riguarda invece il fonema /p-/ ad inizio

parola, nel tardo medio giapponese esso subì un processo di fricativizzazione, /p-/ > /f-/,

e nel nuovo giapponese si ebbe /f-/ > /h-/ (ad esempio 花 pana > fana > hana 'fiore').

Il mutamento /-p-/ > /-w-/ > ø coinvolse alcune particelle ad esempio wo > o oppure

pe > we > e (particella del moto a luogo), ma anche, come appena accennato, la

particella del topic pa > wa: se le particelle non fossero state affatto legate alla parola

precedente, non avrebbero subito tale mutamento, che avvenne soltanto nel caso in

cui /p/ si trovava in posizione intervocalica22.

La classificazione delle particelle non è univoca fra gli studiosi. La distinzione più

utilizzata è stata creata dal linguista giapponese Yamada Yoshio (山田孝雄 1873-1958)

nel Nihon bunpō-ron del 1908 (infatti Aston, il cui lavoro è precedente, non la usa), è

valida per il giapponese antico come per il giapponese moderno ed è accettata sia da

studiosi giapponesi che da autori occidentali, anche se, principalmente nei testi

occidentali, raramente ne viene attribuita la paternità a Yamada. Essa si basa su due

elementi fondamentali, la posizione e la funzione, e riconosce sei tipologie di

particelle23: shū joshi (particelle finali), kantō joshi (particelle interiezionali), setsuzoku

joshi (particelle di congiunzione fra due frasi), due categorie di particelle avverbiali,

dette fuku joshi (particelle restrittive) e kakari joshi (particelle pragmatiche), e infine le

kaku joshi (particelle “di caso”).

Le diverse tipologie di particelle appaiono, secondo Shirane, in un ordine ben

stabilito nella frase, dalle più oggettive alle più soggettive: le particelle “di caso” sono le

prime ad essere espresse immediatamente accanto al sostantivo, seguono le particelle

21 Nell'ortografia corrente, però, l'antico kana は pa > wa, in posizione intervocalica, è stato sostituitostabilmente dal kana già esistente わ wa, (quindi 川 kawa non viene scritto più かは ma かわ ),eccezion fatta nel caso in cui questo kana venga utilizzato per trascrivere la particella di topic (cheviene tutt'oggi scritta appunto は wa, mantenendo l'utilizzo storico del kana). Questo moderno utilizzodel sillabario è dovuto ad una legge del 1946, che mirava ad uniformare maggiormente la pronunciamoderna con la scrittura, dato che non vi era più motivo di segnare in modo differente opposizioniormai da tempo perdute a seguito dei diversi mutamenti fonetici (ad esempio ぢ di > ji e じ ji: ormai,salvo rarissime occorrenze, si utilizza じ in entrambi i casi).

22 Frellesvig (2010: 124; 243).23 Shibatani (1990: 334). Questa classificazione viene utilizzata tra gli altri da Hashimoto (1969), Koji

(1988), Shibatani (1990), Shirane (2005), Frellesvig (2010). Sansom (1928) non utilizza laterminologia giapponese ma le categorie che suddivide sono effettivamente molto affini. Vovin (2005;2009b) cita la classificazione tradizionale ma ne adotta, come si vedrà, almeno parzialmente unapropria.

19

Page 21: Origine e funzioni della particella giapponese wo

avverbiali, solo successivamente le particelle interiezionali e finali24. Probabilmente

Shirane intende come particelle soggettive quelle tramite cui si può esprimere uno stato

d'animo o un'emozione (come le particelle interiezionali), mentre particelle oggettive

possono essere definite quelle “di caso”, grazie alla loro funzione, che viene

generalmente reputata strettamente morfologica25. Più che da una questione di

oggettività, questo ordine fisso sembrerebbe dipendere piuttosto dalla possibilità di

queste particelle di essere omesse senza modificare il senso della frase: come si vedrà,

le particelle interiezionali e finali sono molto libere e possono essere omesse in quanto

non necessarie alla costruzione della frase, mentre le particelle “di caso” sono legate

strettamente al sostantivo o sintagma che seguono.

1.1.1 Le particelle finali

Le shū joshi 終助詞 , particelle finali, sono definite in base alla loro posizione

nella frase, anche se non devono essere espresse obbligatoriamente: sono dette particelle

finali in quanto occorrono soltanto a fine frase e vengono utilizzate proprio per

sottolineare la conclusione della frase. Esprimono la posizione o l'atteggiamento

dell'autore nei confronti di quanto espresso nella frase oppure una diretta richiesta verso

il lettore26, richiedendo consenso o partecipazione da parte dell'ascoltatore27. La loro

funzione è principalmente esclamativa, enfatica, desiderativa, proibitiva, e sottolineano

quindi la modalità della frase. Tokieda Motoki28, infatti, pur non utilizzando il termine

tradizionale ma definendole “particelle che esprimono uno stato d'animo”, le divide in:

particelle che esprimono emozioni (ad esempio ka, ya, wo), che esprimono desiderio (ad

esempio na, ga), che esprimono rafforzamento (koso, zo), e che esprimono divieto

(ancora una volta na). Tokieda sembra includere in questa categoria particelle

appartenenti a gruppi che, secondo la classificazione di Yamada, sarebbero differenti

24 Shirane (2005: 156).25 Come si vedrà, in realtà non sempre le particelle di “caso” svolgono una funzione morfologica, sia

nella lingua antica che in quella moderna: per quanto riguarda la lingua moderna si può prendere adesempio ga (§1.2.3; §2.6), particella che indica secondo la grammatica tradizionale il soggetto, ma cheha la funzione pragmatica di esprimere il focus.

26 Shirane (2005: 238).27 Izuhara (2011: 11).28 Citato in Koji (1988: 11).

20

Page 22: Origine e funzioni della particella giapponese wo

(koso come si vedrà è una particella pragmatica, wo in questo senso sembra più una

particella esclamativa): questo studioso infatti non distingue il gruppo delle particelle

finali da quelle esclamative, ma le considera come un gruppo unico29. Tokieda non

rispetta quindi la distinzione di Yamada, e questo già lascia immaginare che la

classificazione delle particelle non sia così netta come sembra.

Hashimoto divide le particelle finali nel giapponese moderno in due gruppi: quelle

che possono seguire soltanto il verbo o aggettivi ad esempio ze, na (che indica divieto),

no (che esprime dubbio), e quelle che possono seguire anche sostantivi o altri elementi,

come ad esempio ka (che esprime una interrogativa)30. Nel giapponese antico alcune di

queste particelle avevano una funzione diversa: comuni nella lingua antica erano ka,

kamo (con funzione esclamativa), na e so (che esprimono una dichiarazione o una

richiesta).

Vovin, come si vedrà anche per quanto riguarda le altre tipologie di particelle, non

applica rigidamente la distinzione tradizionale di Yamada. Le tradizionali particelle

finali e interiezionali sono interpretate in maniera diversa da Vovin, che distingue:

particelle “desiderative” (moga e mogamo, utilizzate entrambe per esprimere un

desiderio o una volontà) e particelle “enfatiche”, in cui include sia morfemi

tradizionalmente inseriti nel gruppo delle particelle finali (come kamo o na) sia morfemi

che invece sono tradizionalmente riconosciuti come particelle interiezionali (come si

vedrà, ya, yo, wo)31.

1.1.2 Le particelle interiezionali

Kantō joshi 間投助詞 è un termine di Yamada Yoshio, e significa letteralmente

“particelle che vengono gettate nel mezzo”, ad indicare il fatto che esse possano essere

inserite in qualsiasi punto della frase in cui vi sia una pausa e si voglia innalzare il

livello emotivo di ciò che viene espresso. Sono particelle interiezionali che possono

occorrere liberamente all'interno della frase, possono seguire qualsivoglia elemento,

come un verbo, un sostantivo, o altre tipologie di particelle e non influiscono sulla

29 Izuhara (2011: 8).30 Hashimoto (1969: 50).31 Vovin (2009b: 1156).

21

Page 23: Origine e funzioni della particella giapponese wo

struttura della frase: secondo Shirane, le particelle interiezionali attirano l'attenzione del

lettore aggiungendo un particolare significato emotivo o enfatico, indicando una

esclamazione o dando ritmo alla frase32. In giapponese antico le principali sono ya, yo,

wo. Come già detto, Vovin le inserisce in un gruppo denominato “particelle enfatiche”

insieme ad alcune particelle finali. Non è infatti condivisa da tutti gli studiosi la

distinzione fra particelle finali e interiezionali, in quanto le loro funzioni spesso si

sovrappongono: diversi studiosi hanno infatti proposto di dividere queste due categorie

solo sulla base della posizione della particella nella frase (se la particella si trova in

posizione finale è una particella finale, se si trova al centro di frase è interiezionale)

oppure di interpretare le interiezionali come un sottogruppo delle finali (o viceversa), e

in ultimo di non distinguere affatto queste due tipologie (come già visto, questa

posizione è adottata da Tokieda)33.

Come si vedrà (§2.2), è inoltre difficile distinguere in modo netto una particella

interiezionale con funzione enfatica da altre particelle con funzioni morfologiche o

pragmatiche: alcuni studiosi34 ipotizzano una “origine interiezionale” per almeno la

maggioranza delle particelle, se non tutte. Esse quindi sarebbero nate originariamente

come particelle enfatiche o esclamative in senso generale e solo successivamente

avrebbero sviluppato una funzione grammaticale. Questa teoria è sostenuta, come si

vedrà, da molti studiosi per la particella wo, ma allo stesso modo anche per la particella

i35, che avrebbe avuto un antico utilizzo enfatico per venire poi usata per segnalare il

soggetto nei testi più antichi, e la particella wa, che avrebbe poi assunto la funzione di

segnalare il topic già nel giapponese antico. Altri studiosi sono concordi invece

nell'attribuire a queste particelle una funzione morfologica sin dai primi testi storici

(risalenti agli inizi del 700), quindi wo avrebbe già marcato l'oggetto diretto36, wa

32 Shirane (2005: 250).33 Per le diverse teorie su come classificare le particelle finali e quelle interiezionali, si veda

l'interessante articolo Izuhara (2011).34 Uno dei sostenitori di questa teoria è ad esempio Sansom (1928). I testi successivi, principalmente a

opera di studiosi giapponesi, si concentrano invece sullo sviluppo di una particella in particolare,piuttosto che cercare di ricostruire una teoria generale dell'origine delle particelle giapponesi (adesempio Matsuo (1938), Oyama (1958) e molti altri, si veda §3.1).

35 Delle teorie riguardo la funzione di i si parlerà più diffusamente in §4.1.4.36 Come si vedrà, il ruolo di wo in giapponese antico non è affatto chiaro. Per ora si dirà soltanto che

segnala l'oggetto diretto, ma differenti teorie lo identificano come marca del paziente, come casoobliquo e via dicendo (§4.1): si tratta comunque di una funzione grammaticale, secondo alcuni autorianche pragmatica, ma non genericamente “enfatica”.

22

Page 24: Origine e funzioni della particella giapponese wo

avrebbe già segnalato il topic e i il soggetto o l'agente o un “broad focus subject” (gli

studiosi non sono concordi, come si vedrà §4.1.4). Si tratterebbe quindi di ricostruire nel

proto-giapponese una situazione in cui tutte queste particelle avrebbero avuto soltanto

una funzione genericamente e indifferenziatamente interiezionale o enfatica. Ma si

dovrebbe anche spiegare su che base una determinata particella enfatica venne poi

utilizzata per una particolare funzione (grammaticale o pragmatica) piuttosto che per

un'altra, ovvero il motivo per cui wo e wa, entrambe originariamente particelle

semplicemente enfatiche, andarono poi a segnalare elementi diversi, come l'oggetto e il

topic. È forse infatti vero ciò che afferma Frellesvig: l'uso di queste particelle in

giapponese antico viene studiato su testi a larghissima maggioranza poetici,

appartenenti ad uno stile letterario e retorico ricco ovviamente di esclamazioni, di

lamenti, di invocazioni (ad esempio le canzoni del Kojiki o l'intero corpus del

Man'yōshū). Lo studio di particelle in testi soltanto di questo tipo, secondo Frellesvig,

avrebbe fuorviato gli studiosi, che avrebbero interpretato queste particelle come

“enfatiche”, mentre in realtà la loro funzione era ben diversa37.

1.1.3 Le particelle di congiunzione

Una teoria simile a quella dell' “origine interiezionale” delle particelle è stata

proposta da molti studiosi anche per alcune particelle di congiunzione (setzuzoku joshi).

Anche setsuzoku joshi 接続助詞 è un termine di Yamada Yoshio, e indica particelle di

congiunzione, la cui funzione è appunto quella di congiungere due frasi. Seguono

generalmente il verbo alla fine della frase e mostrano che relazione ha questo predicato

con quello della frase successiva. Anche le particelle di congiunzione moderne vengono

divise da Hashimoto in due categorie: particelle che esprimono una frase coordinata

(Hashimoto utilizza la parola 対等 taidō 'uguaglianza, parità') ad esempio tari, e

particelle che indicano una frase subordinata ( 従属 jūzoku) ad esempio la causale kara,

l'ipotetica ba38.

Nella lingua antica le particelle di congiunzione seguono in genere la RT, forma

attributiva del verbo, ad esempio mono wo (in funzione concessiva), ga (ha funzione

37 Frellesvig (2010: 124-5).38 Hashimoto (1969: 56).

23

Page 25: Origine e funzioni della particella giapponese wo

avversativa, si tratta di un utilizzo particolare e in diacronia successivo della particella

di “caso” ga39), wo (in funzione causale, concessiva, temporale), gani ('come se', che

però segue la forma di fine frase del verbo). Come accennato, questa categoria include

anche un secondo gruppo di elementi, ovvero suffissi verbali che rendono forme verbali

non finite. Un primo esempio è ba: a livello formale ha origine dalla sonorizzazione

di /p/ nella particella del topic pa (successivamente pa > wa), mentre la sua funzione si

sviluppò a partire dall'uso contrastivo della particella del topic40. Il suffisso ba viene

utilizzato in giapponese antico e classico con due funzioni, in base alla forma del verbo

che esso segue: ha funzione ipotetica se segue la forma imperfettiva del verbo (MZ),

mentre assume funzione causale o temporale se segue un verbo in forma perfettiva (IZ).

Altre particelle di questo tipo sono ad esempio do (che esprime una concessiva e segue

la forma perfettiva IZ), te (che segue la forma continuativa RY ed esprime un gerundio).

Frellesvig nota che, benché i due gruppi appartengano a tipi di morfemi diversi, in

quanto i secondi prendono parte alla formazione della parola mentre i primi seguono

parole già formate, c'è comunque una sovrapposizione a livello funzionale, perché

entrambi contribuiscono all'espressione della sintassi interfrasale41. L'eterogeneità delle

particelle di congiunzione viene notata anche da Vovin, che infatti scrive che questa

categoria è composta da: alcune particelle “di caso”, congiunzioni, suffissi e ausiliari del

gerundio42. L'utilizzo di particelle “di caso” in funzione di congiunzione è attestato ad

esempio dall'uso come congiunzione di wo oppure ni (utilizzato per marcare una

concessiva o una causale). Quelle che Vovin considera congiunzioni vere e proprie sono

ad esempio mono, monowo, gani e hanno la funzione di connettere differenti parti di

frasi complesse. Il gerundio invece viene formato tramite diversi morfemi: Vovin

distingue innanzitutto i due utilizzi del suffisso ba, ovvero il gerundio condizionale

(l'utilizzo di ba con la forma imperfettiva del verbo) e il gerundio congiuntivo (quando

il suffisso ba segue la forma perfettiva), e successivamente cita il gerundio concessivo

(il suffisso do, oppure domo)43. Ulteriori morfemi del gerundio, tradizionalmente

identificati come particelle di congiunzione, vengono trattati da Vovin come ausiliari e

39 Shirane (2005: 188).40 Sansom (1928: 273-4). La particella wa è una particella pragmatica, si veda §1.1.5.41 Frellesvig (2010: 125).42 Vovin (2009b: 1156).43 Vovin (2005: 726).

24

Page 26: Origine e funzioni della particella giapponese wo

seguono tutti la forma continuativa del verbo: si tratta del gerundio di subordinazione te

(che indica una azione iniziata prima dell'azione espressa dal verbo della principale), e

di differenti gerundi di coordinazione come tutu (che identifica lo svolgimento di una

azione parallela alla principale o azione ripetuta e abituale) e nagara (più raro di tutu

nei testi antichi, ma suo sinonimo). Vovin infatti, in tutti i suoi testi, distingue sempre

ausiliari (come te) e affissi (ad esempio ba). Gli ausiliari hanno un confine di morfema

ben netto, che li separa dalla forma verbale che seguono, mentre i suffissi non sono più

separabili dalla forma verbale che precede: ad esempio, spiega l'autore44, in antico

giapponese, -i-keri (morfema che indica un passato di cui non si ha esperienza diretta

oppure un fatto venuto in mente improvvisamente) è un ausiliare e segue sempre una

forma infinitiva (RY) che, però, può anche essere differente da -i, ad esempio la RY

della forma negativa -zu; nel giapponese classico l'ausiliare -(i)keri diverrà un suffisso

vero e proprio, non più separabile dall'infinitiva precedente. Frellesvig invece non

distingue queste due categorie, identificando soltanto gli ausiliari, e definendoli come

suffissi che si flettono45.

L'etichetta generale “particelle di congiunzione” (setsuzoku joshi) viene quindi

assegnata ad elementi molto differenti fra loro, che hanno la sola caratteristica comune

di connettere due frasi all'interno di un unico periodo. È quindi evidente che si tratta di

una categoria creata sulla base della funzione di questi elementi piuttosto che sulla base

di considerazioni strutturali.

1.1.4 Le particelle restrittive

Due tipologie di particelle vengono definite “avverbiali”: fuku joshi 'particelle

restrittive' e kakari joshi 'particelle pragmatiche'.

Le fuku joshi 副助詞, 'particelle restrittive', possono seguire sostantivi, verbi o altre

particelle: modificano il predicato indicando quantità, grado, limite, approssimazione.

Fra queste ad esempio nomi, che indica una restrizione senza alcun tipo di

connotazione, dani, che esprime il limite minimo, sura che esprime il limite massimo46.

44 Vovin (2009b: 892-3).45 Ad esempio Frellesvig (2010: 58).46 Vovin (2009b: 1274 ss.)

25

Page 27: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Altri esempi sono bakari, che esprime un grado, una misura e ha significato di 'appena,

soltanto', e sae (antico giapponese sape > sawe > sae) 'perfino'.

1.1.5 Le particelle pragmatiche

Le kakari joshi 係助詞 sono particelle con funzione principalmente pragmatica:

sottolineano un elemento, lo enfatizzano, o lo pongono in discussione. Sono particelle

che segnalano il topic e il focus: sono infatti chiamate nei testi moderni anche “particelle

di topic e focus”47, mentre lungo il testo si userà il termine “particelle pragmatiche”.

Non esprimono alcun tipo di relazione sintattica fra l'elemento marcato e il predicato48,

né modificano una relazione già esistente che l'elemento che seguono ha con gli altri

elementi della frase. Queste particelle pragmatiche sono pa (successivamente wa), mo,

so (nel medio giapponese zo), namo (successivamente namu), koso, ka e ya

Differenti autori hanno inserito queste particelle pragmatiche in diversi sottogruppi.

Frellesvig, ad esempio, le divide in due classi49: la prima è formata da particelle che

segnalano il focus, ovvero so, namo e koso che aggiungerebbero enfasi, ma anche ka e

ya che verrebbero invece utilizzate per rendere un dubbio o una interrogativa retorica;

alla seconda classe invece appartengono wa < pa e mo, che marcherebbero il topic della

frase. Secondo Frellesvig, wa marcherebbe il topic ma avrebbe anche la funzione di

enfatizzare un elemento distinguendolo dagli altri (topic contrastivo), dove mo

esprimerebbe un parallelo fra più elementi, ma anche enfasi (topic enfatico)50. Anche

Vovin le divide in due gruppi, ma diversi da quelli individuati da Frellesvig51: da un lato

le particelle interrogative ka e ya, che possono essere posizionate in qualsiasi punto

della frase, e dall'altro le particelle che marcano il focus, gruppo in cui include anche

quella che segnala il topic. Secondo Vovin, la particella wa sarebbe l'unica particella che

marcherebbe il topic, essa sposterebbe il focus della frase dagli elementi che questa

particella segue verso il resto della frase, e, come in Frellesvig, avrebbe anche un

possibile utilizzo contrastivo. Al contrario di Frellesvig però, Vovin interpreta mo come

47 Ad esempio Vovin (2009b: 1157); Frellesvig (2010: 132).48 Frellesvig (2010: 132).49 Frellesvig (2010: 132).50 Dello stesso avviso anche Shirane (2005: 201).51 Vovin (2009b: 1157).

26

Page 28: Origine e funzioni della particella giapponese wo

una particella che marca il focus, al pari di so, namo e koso, che enfatizzerebbero la

parola precedente.

È importante sottolineare che queste particelle pragmatiche (kakari joshi)

partecipano al fenomeno del 係り結び kakari-musubi (“the rule of linking”, nella

traduzione di Vovin52): il termine kakari joshi venne coniato infatti da Yamada Yoshio

proprio per sottolineare questo fatto. Frellesvig scrive che il fenomeno del kakari-

musubi è tradizionalmente stato interpretato come una “automatic agreement rule”, in

cui la presenza di una particella pragmatica provoca la modifica della forma del verbo di

fine frase, che viene espresso in forma attributiva o perfettiva e non nella forma

conclusiva (SS)53. Ad esempio, le particelle zo, namu, ya, ka richiedono la forma

attributiva del predicato (RT), koso la forma perfettiva (IZ). La funzione di una frase in

cui compare il kakari-musubi, continua Frellesvig, sarebbe quella di una focus

construction, in cui l'elemento preceduto dalla particella sarebbe identificato come

focus e la parte rimanente della frase come presupposizione.

Motoori Norinaga (1730-1801), scrive Frellesvig, includeva nelle particelle che

prendono parte al kakari-musubi anche quelle che marcano il topic (wa, e secondo

Frellesvig anche mo), oltre alle particelle che segnalano il focus, anche se wa e mo, al

contrario delle particelle che esprimono il focus, non provocano una modifica della

forma del verbo di fine frase, che rimane quella conclusiva (SS). Negli studi più recenti,

infatti, quando si utilizza il termine kakari-musubi, si tende ad escludere le particelle wa

e mo, e ci si riferisce soltanto alle particelle ka, ya, zo, namo, koso e alla loro relazione

con il predicato. La relazione fra l'elemento che precede la particella e il predicato che si

vede in una costruzione con il kakari-musubi, conclude Frellesvig, potrebbe essere a

grandi linee intesa come una costruzione tema/rema, in cui il tema (kakari) sarebbe

segnalato dalla particella pragmatica e il resto della frase fungerebbe da rema (musubi).

Ad esempio:

我が 恋ふる 君ぞ

wa ga kopuru kimi zo (Focus)

io-ATTR amare.RT signore-PART

52 Vovin (2003: 208).53 Frellesvig (2013: 247-8).

27

Page 29: Origine e funzioni della particella giapponese wo

昨夜 の 夜 夢 に 見えつる

kizo no yo ime ni mi-e-turu (Presupposizione)

scorsa notte-ATTR notte sogno-LOC vedere.RY-PASV.RY-PERF.RT

'E' stato te, mio amato signore, che ho visto la scorsa notte in sogno'

(Man'yōshū 万葉集, maki 2, n. 150).

Se a livello strutturale questo fenomeno sarebbe – secondo Frellesvig – identificabile

come una focus construction, in poesia la costruzione del kakari-musubi contribuisce

anche a modificare la modalità della frase, rendendo la frase esclamativa o interrogativa

(anche retorica): a causa di questa loro funzione, le particelle pragmatiche potrebbero,

secondo Shibatani, essere a buon diritto chiamate “particelle modali”54. Il kakari musubi

già aveva impiego nell'antico giapponese e divenne comunissimo nei testi di epoca

Heian, ma scomparve definitivamente nel periodo Edo.

Alcune di queste particelle pragmatiche, secondo Shibatani55, avrebbero una evidente

connessione con le omofone particelle interiezionali. Purtroppo l'autore non cita alcuna

particella a supporto di questa sua ipotesi, ma si può notare, confrontando l'elenco delle

particelle interiezionali e quello delle particelle pragmatiche, che soltanto ya rientra in

entrambe le categorie. Shirane però inserisce alcune particelle che vengono identificate

come pragmatiche anche nel gruppo delle particelle finali (ad esempio so e namu)56.

Shibatani cita Morishige Satoshi, che ipotizzò che le particelle pragmatiche avrebbero

avuto origine da quelle interiezionali: le interiezioni, separate dalla frase, pian piano

sarebbero state incorporate all'interno della frase, prima come particelle interiezionali (a

questo stadio ancora la loro omissione non avrebbe alterato il senso della frase) e solo

successivamente come particelle pragmatiche, stadio in cui la particella, a causa della

sua funzione pragmatica, non sarebbe più liberamente omissibile ed andrebbe a porre

particolare enfasi su un determinato elemento della frase (dando quindi origine alle

particelle di topic e focus): da una funzione interiezionale ad una pragmatica. Come già

accennato (§1.1.2) e come si vedrà successivamente (§3.1), un'origine simile è stata

54 Shibatani (1990: 335).55 Shibatani (1990: 339).56 Shirane (2005:155).

28

Page 30: Origine e funzioni della particella giapponese wo

proposta da molti studiosi anche per le particelle “di caso”. Sono teorie sicuramente

suggestive, ma, se accettate in toto, implicherebbero che il giapponese di epoca

antecedente alle prime fonti scritte avesse un grandissimo numero di interiezioni, da cui

poi si sarebbero sviluppate le particelle di topic, focus e quelle “di caso” (e a partire da

queste anche le particelle di congiunzione). Oltre a queste interiezioni esterne alla frase

(che poi sarebbero pian piano state inserite all'interno), sarebbero esistite soltanto alcune

particelle restrittive, le particelle finali (che esprimono l'atteggiamento dell'autore nei

confronti dell'enunciato, quindi hanno anche una sfumatura emotiva), ed una serie di

morfemi dal significato più concreto che storicamente sono grammaticalizzazioni di

sostantivi (come kara, particella del moto da luogo, grammaticalizzazione del sostantivo

omofono che indica 'volontà, modo, misura' o 'clan, relazione', oppure he, che esprime il

moto a luogo, da un sostantivo che indica 'lato, direzione'57). Si avrebbe quindi una

completa assenza di morfemi post-nominali con funzione pragmatica o di espressione

dei ruoli semantici centrali. Infatti, come già accennato (§1.1.2), si è ipotizzato che la

marca dell'agente fosse i (l'odierna particella ga era utilizzata principalmente in

funzione attributiva), ma i è una delle particelle che avrebbero origine interiezionale;

allo stesso modo, wo esprimeva il paziente con verbi bivalenti (ma, come si vedrà,

alcuni studiosi ritengono che wo fosse l'unica marca del paziente anche nei verbi

monovalenti che hanno come attante unico il paziente), ma anche wo avrebbe origine

interiezionale. Si dovrebbe quindi necessariamente identificare un diverso mezzo

morfosintattico per segnalare l'agente e il paziente, come ad esempio l'ordine delle

parole. Oltretutto, come già visto, nessuna spiegazione viene proposta per capire perché

proprio la particella i sarebbe poi stata utilizzata per marcare l'agente, perché proprio wa

per il topic e così via.

1.1.6 Le particelle “di caso”

L'ultima, ma forse più importante, categoria è quella delle kaku joshi 格助詞 ,

termine che viene generalmente tradotto nelle lingue occidentali appunto “particella di

caso” o “case marker”58. Anche kaku joshi è un termine di Yamada, che utilizza il

57 Per questi ed altri esempi si veda Frellesvig (2010: 134-5). Su kara si veda Vovin (2005: 207).58 Si veda Shibatani (1990: 334), Bentley (2001: 88), Shirane (2005: 155), Vovin (2005: 109), Frellesvig

29

Page 31: Origine e funzioni della particella giapponese wo

termine 格 kaku, tradotto in tutti i testi occidentali 'caso', ma letteralmente 'grado,

status', in quanto gli attribuisce il “significato di un valore costante che un elemento

costitutivo di una frase conserva nei confronti della struttura della frase”59. Le kaku

joshi seguono sostantivi, detti 体言taigen in giapponese (termine che identifica tutto ciò

che non può essere flesso, opposto a 用言 yōgen, termine che – come visto – identifica

verbi e aggettivi, che sono flessi) o frasi nominalizzate (ad esempio tramite la forma

attributiva del verbo, RT) e indicano la relazione grammaticale60, semantica o logica61,

che l'elemento che seguono ha con un altro elemento nominale (ad esempio tramite la

funzione attributiva che anticamente apparteneva a ga o no, nel giapponese moderno

solo a no) o verbale, esprimendo ad esempio il soggetto o l'oggetto dell'azione. Esempi

di kaku joshi sono ga (che si dice marchi il soggetto62 nel giapponese moderno, ma più

comune in funzione attributiva nella lingua antica), no (il cui uso anticamente si

sovrapponeva a quello di ga), wo (marca dell'oggetto diretto, ma utilizzato come

vedremo con moltissime altre funzioni), ni (a indicare l'oggetto indiretto, ma utilizzato

anche in funzione temporale, locativa).

Si è discusso molto sulla natura di questi elementi: come visto, la tradizione degli

studi giapponesi, e la gran parte degli studiosi occidentali che da essa prende le mosse,

le identificano come particelle o marker di caso.

Per quanto riguarda il loro legame con il sostantivo precedente, Frellesvig aveva

notato, grazie al fatto che i fonemi iniziali di queste particelle subiscono mutamenti

fonologici tipici di fonemi al centro di parola e non ad inizio parola, che queste

particelle erano effettivamente morfemi legati al sostantivo precedente (§1.1). Ma Vovin

riporta alcune interpretazioni diverse che gli studiosi della scuola russa hanno proposto.

Gli studiosi russi hanno identificato questi elementi in tre modi: come suffissi

agglutinanti, come postposizioni, o come marker di caso agglutinanti63. L'autore afferma

(2010: 125).59 Citato in Koji (1988: 6).60 Frellesvig (2010: 125).61 Shibatani (1990: 334).62 Il “soggetto” è l'elemento che governa l'accordo con il verbo: in giapponese questo non avviene quindi

ad essere identificabile non è il soggetto ma piuttosto ruoli semantici come agente o paziente. Glistudiosi però, nelle diverse descrizioni della lingua giapponese, utilizzano sempre il termine“soggetto” (si veda Shibatani (1990), Vovin (2005), Frellesvig (2010) e altri) arrivando alcune volte adidentificare criteri differenti rispetto all'accordo per riconoscere il soggetto in una frase giapponese,come si vedrà successivamente (§1.2).

63 Vovin (2003: 47) per il giapponese classico, ma il discorso è ripreso negli stessi termini in Vovin

30

Page 32: Origine e funzioni della particella giapponese wo

di concordare con questa terza ipotesi per alcune ragioni. Innanzitutto, questi elementi

non sono suffissi come quelli che esprimono il caso nelle lingue indoeuropee, in quanto

da un lato non vengono flessi, dall'altro non sono cumulativi, quindi ad ogni elemento

corrisponde un'unica funzione (a differenza di ciò che succede nelle lingue indoeuropee

antiche, in cui tramite un unico affisso si esprimono caso, numero e genere, ad esempio

in latino). Oltretutto, non mostrano alcun grado di fusione con il tema e a livello

fonetico sembrano essere completamente indipendenti da esso: Vovin sembrerebbe voler

escludere ogni tipo di sandhi (in giapponese 連声 renjō), ma Hashimoto64 nota che

alcune particelle andarono in realtà incontro a sandhi. Ad esempio in una frase come 天

を 見 れ ば ten wo mireba 'quando si guarda il cielo', la particella wo veniva

effettivamente pronunciata [no] ([ten no mireba]), e questo fatto non era limitato alla

nasale ma avveniva anche nel caso in cui wo fosse preceduta da つ tsu (wo allora veniva

pronunciato come [to]). Non è noto quando questo fenomeno ebbe inizio, ma è

sicuramente presente nei periodi Kamakura e Muromachi, scrive Hashimoto, e si perse

nel periodo Edo. Il fatto di essere comunque ben legate all'elemento precedente,

continua Vovin, e quindi di essere differenti da particelle o postposizioni che invece

sono più libere, è testimoniato dal fatto che nulla si può inserire fra il marker di caso e il

sostantivo precedente eccetto suffissi di plurale (ad esempio -ra), particelle restrittive

come bakari o dani, e altri marker di caso. Vovin infatti confronta il modo in cui questi

marker si aggiungono al tema in giapponese con quello di un'altra lingua agglutinante

come il turco: al tema che non viene in alcun modo modificato (ad esempio la parola

“uomo” in entrambe le lingue, pito in giapponese antico, adam in turco) segue prima il

suffisso del plurale (pito-domo in giapponese, adam-lar in turco 'gli uomini') e

successivamente il marker di caso, nell'esempio addotto da Vovin il marker di moto da

luogo (pito-domo-yori in giapponese, adam-lar-dan in turco 'dagli uomini'). Altre

particelle come quelle restrittive o quelle di topic e focus sono invece molto meno legate

al tema, ed infatti molti più elementi si possono inserire fra queste e l'elemento a cui si

riferiscono. Ultima prova che Vovin porta a conferma della sua teoria è che, a differenza

di ciò che accade nel giapponese moderno, in giapponese classico i marker di caso

(2005: 110) per quanto riguarda la lingua antica. Non è ben chiaro, però, quale sia la differenza fra isuffissi agglutinanti e i marker di caso agglutinanti.

64 Hashimoto (1969: 116).

31

Page 33: Origine e funzioni della particella giapponese wo

avevano un loro accento indipendente dal sostantivo precedente. Per dar conto di questo

fatto, Vovin cita Martin, che a sua volta cita Wenck65. Martin spiega che in alcuni testi

antichi come il 類聚名義抄 Ruiju Myōgi Shō, glossario di caratteri cinesi risalente al

1081, si utilizzava un unico sistema di diacritici per segnalare sia l'opposizione sei-

daku, sia “the pitch patterns of the word”66: questo permetteva di segnalare un

innalzamento o un abbassamento di frequenza su quella determinata sillaba. Wenck,

continua Martin, studiò l'utilizzo di questi diacritici legato alle particelle nel Ruiju

Myōgi Shō e notò che queste particelle avevano, in questo testo, “independent pitch

patterns” rispetto al sostantivo che seguono, e non erano quindi, conclude Martin,

connesse come clitici al sostantivo precedente. Ad esempio, Wenck spiega che ga, ni,

wo, ya, ka, ed altre particelle venivano pronunciate con un innalzamento di frequenza,

dove invece mo e zo venivano pronunciate con un abbassamento di frequenza. Particelle

costituite da due o tre sillabe come koso o nomi avevano generalmente un pattern

costituito da frequenza alta sulla prima sillaba e bassa sulla seconda (bassa anche la

frequenza della terza sillaba in particelle trisillabiche come bakari). Esempi simili sono

portati anche da altri autori come Sakurai, anch'egli citato in Martin, che studiò alcuni

manoscritti del Nihon Shoki, uno dei due principali testi in giapponese antico, del 720:

gli esempi proposti da Sakurai mostrano che, ad esempio per quanto riguarda la

particella wo, essa veniva sempre pronunciata con un innalzamento di frequenza, a

prescindere dal pattern accentuativo del sostantivo precedente (tati wo 'la spada', kimi

wo 'il signore', ware wo 'io' e pito wo 'la persona'), mentre le particelle moderne non

sembrano avere una frequenza alta o bassa stabilita a priori (nel dialetto di Tōkyō, ad

esempio, soko ga 'il fondo' ma oto ga 'il suono'67). Questa caratteristica delle particelle

65 Martin (1987: 169-70). 66 Con seion 清音 e dakuon 濁音 si intendono sillabe la cui consonante iniziale è generalmente

interpretata come sorda (sei) e sonora (daku), ma Frellesvig (2010: 35) le definisce tenui e medie,ovvero contraddistinte dal tratto teso (sei) e rilassato (daku), in quanto la sonorità non era distintiva inantico giapponese. L'opposizione era resa graficamente, all'inizio, tramite l'utilizzo di due caratteridifferenti, ad esempio ka 加; ga 我, ma pian piano questa distinzione venne ignorata a livello grafico,sicché quando vennero creati i due sillabari in epoca Heian, lo stesso grafema venne utilizzato persegnalare sia la tenue che la media corrispondente. In testi specializzati (ad esempio buddhisti), però,spesso si rendeva necessario segnalare esplicitamente la natura del fonema, e differenti metodi furonoutilizzati: il più comune è appunto l'utilizzo di un punto al lato del carattere, la cui posizione indicavail pitch, e la cui forma indicava la natura sei o daku del fonema (punto singolo per le tenui, due puntiper le medie). Si veda Frellesvig (2010: 162-5).

67 Si veda Martin (1987: 163) per uno schema che include esempi tratti da differenti dialetti moderni.

32

Page 34: Origine e funzioni della particella giapponese wo

antiche le allontana ancor di più dai suffissi.

Akiba68 fa notare un ulteriore elemento: questi marker possono non seguire

direttamente un sostantivo, ma occorrere dopo una intera frase nominalizzata che funge

da soggetto o oggetto della frase principale (quindi generalmente dopo il verbo di questa

frase nominalizzata, a maggior ragione nella lingua antica in cui i nominalizzatori come

koto non erano obbligatori). Questo conferma ancor di più il loro legame non saldo con

l'elemento precedente.

Questi marker nel giapponese antico non sono quindi né suffissi, in quanto, come

dimostrato da Vovin, non sono ben legati al tema che seguono, ma nemmeno

postposizioni del tutto indipendenti: occupano quindi una posizione intermedia fra

suffissi e particelle postposte, ed è per questo che Vovin giustamente li identifica come

“marker di caso agglutinanti”.

1.2 La categoria del “caso” e la sua identificazione in giapponese

Per quanto riguarda la funzione di questi “marker di caso”, Sansom afferma che

essi svolgerebbero la stessa funzione che in altre lingue è svolta dalla flessione

nominale o da preposizioni: quella di segnalare il caso. Secondo Sansom, il caso

verrebbe soltanto indicato da particelle, e non formato da esse. La parola, continua

Sansom, sarebbe sintatticamente in quel caso: sarebbe principalmente l'ordine delle

parole che determinerebbe il caso in giapponese69. L'autore ritiene quindi che i ruoli

semantici in giapponese antico fossero espressi tramite l'ordine dei costituenti:

sostenitore della teoria interiezionale (§1.1.2), Sansom crede che particelle come wo o i

non avessero in origine una funzione morfologica, e diventa quindi per lui necessario

identificare un altro espediente per segnalare i ruoli semantici. In questo modo però non

risulta chiaro quale sia, secondo Sansom, la funzione delle particelle di caso una volta

che esse svilupparono una funzione morfologica, dato che il ruolo semantico di un

elemento sarebbe espresso solo tramite un mezzo sintattico.

68 Akiba (1978: 102).69 Sansom (1928: 224) “Particles are affixed to words which are syntactically in those cases, they do not

form the case, but merely indicate it.”. Sansom (1928: 236) “in Japanese cases are marked, but notformed, by particles. It is primarily word-order which determines case in Japanese.”.

33

Page 35: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Si nota un abuso del termine “caso” da parte di Sansom: si può anche ammettere che

in giapponese sia possibile determinare la relazione grammaticale che un dato sintagma

ha nei confronti del verbo (soggetto, oggetto), o, meglio, il suo ruolo semantico (agente,

paziente), grazie all'ordine delle parole, ma questo non implica né rende affatto

necessaria l'identificazione della categoria di caso in giapponese.

Sembrerebbe che dai primissimi testi occidentali scritti da missionari cristiani, in cui

si studiava il giapponese sfruttando come schemi di base quelli del latino, non siano

stati fatti molti passi in avanti. Rodriguez nel 1604 scriveva che i sostantivi e pronomi

giapponesi non si declinano per casi come quelli latini ma esistono particelle o articoli

che, postposti ai nomi, corrispondono ai casi del latino. L'utilizzo del termine “articolo”

da parte di Rodriguez non è chiaro, ma sembrerebbe come se volesse intendere che

grazie alla presenza/assenza di queste particelle si segnalasse anche la definitezza del

sostantivo: ancora oggi nel giapponese moderno si utilizzano alcune particelle in questa

funzione, ad esempio 本書くhon kaku 'scrivere libri' in generale, ma 本を書く hon wo

kaku 'scrivere il libro' nel particolare70. Collado, sulla falsa riga di Rodriguez, affermava

che in giapponese non esistono declinazioni come in latino, ma vi sono alcune particelle

che, postposte ai nomi, determinano le differenze di caso71. Ma in questi antichi testi la

necessità pratica di insegnare il giapponese ai missionari giustificava una impostazione

basata sul latino, lingua di cultura e nota ai potenziali apprendenti. Eppure ancora oggi,

anche in testi scientifici, l'approccio non è cambiato: a esclusione di rarissime eccezioni

che vedremo, viene dato per assodato che il giapponese (antico e moderno) abbia i casi,

senza neppure spiegare cosa si intenda per “caso”. Quindi la particella ga esprimerebbe

il nominativo (nel giapponese moderno, nella lingua antica anche il genitivo), no

esprimerebbe il genitivo (e nella lingua antica anche il nominativo)72, wo l'accusativo, ni

il dativo e così via. Gli studiosi spesso utilizzano erroneamente il modello dei casi latini

70 Rodriguez (1604: 11). Questo concetto può essere messo in parallelo col concetto pragmatico di“specificity” proposto – come si vedrà (§4.2.2) – da Frellesvig, Yanagida e Horn, grazie a cui si riescea dar conto, secondo questi studiosi, dell'alternanza wo-ø nel giapponese antico.

71 Collado (1632: 6).72 Non è chiaro se l'alternanza abbia una qualche ragione morfosintattica o semantica. Come “caso

nominativo”, ga e no venivano utilizzati principalmente in subordinate (in frase principale in genere ilsoggetto non era marcato). Sembrerebbe che ga venisse utilizzato con referenti umani o animati, doveno poteva marcare tutti i sostantivi anche quelli ammessi da ga. Con questi sostantivi ammessi conentrambe le particelle, queste si alternavano ad esempio kimi no imashiseba 'se il mio signore fosseancora stato qui' e kimi ga imasaba 'se il mio signore è qui'. Si veda anche §4.1.3 e §4.1.4.

34

Page 36: Origine e funzioni della particella giapponese wo

o greci come un valido quadro teorico utilizzabile per lo studio di tutte le lingue del

mondo: si identifica un morfema “di caso” in una lingua, e lo si mette in parallelo con i

casi tradizionali del greco e del latino73. È invece necessario, a maggior ragione quando

si tratta di lingue non indoeuropee, non presupporre l'esistenza di determinate categorie

riscontrabili invece in alcune lingue flessive antiche, solo perché più note.

Anche Shibatani74, che pure propone una importante riflessione sulla confusione

che anche gli specialisti fanno fra relazioni grammaticali e casi, è convinto che il

concetto di caso sia applicabile al giapponese. Il punto iniziale della sua trattazione è la

distinzione fra i diversi livelli di descrizione linguistica, legati ai diversi tipi di relazioni

che è possibile riconoscere. Da un lato, il livello semantico, in cui si identificano ruoli

come agente, paziente, beneficiario; un secondo livello è quello grammaticale, in cui le

relazioni sono soggetto, oggetto diretto e indiretto, ed ogni relazione grammaticale

copre differenti ruoli semantici (il soggetto grammaticale può esprimere ora l'agente, ora

il paziente); un terzo livello è quello superficiale, formale (che Shibatani chiama

“surface-syntactic level”75), in cui si inseriscono le categorie morfologiche con cui le

relazioni precedenti vengono espresse, ovvero i suffissi (tra cui quelli che esprimono il

caso). Shibatani afferma che un errore molto comune fra gli studiosi è quello di

confondere questi differenti piani. Si tende a confondere, a causa del fatto che spesso vi

è una effettiva corrispondenza, la relazione grammaticale di soggetto con il caso

(superficiale) di nominativo, espresso dalla particella ga, ed allo stesso modo la

relazione di oggetto diretto con l'accusativo, espresso da wo. La sua trattazione si

concentra principalmente sulla particella del “nominativo” ga, e spiega quali sono i

criteri grazie a cui è possibile riconoscere il soggetto, come relazione grammaticale, in

giapponese76, ovvero il sintagma deve essere il fulcro, da un lato, della

riflessivizzazione, in cui un sintagma coreferenziale al soggetto viene identificato con la

forma riflessiva 自分 jibun, dall'altro, dell'onorificazione del soggetto, in cui la forma

onorifica del verbo viene utilizzata soltanto se è il referente del soggetto ad essere

73 Fillmore (1968: 5-8).74 Si veda il suo articolo Grammatical relation and surface cases del 1977.75 Shibatani (1977: 789).76 Come è già stato accennato (§1.1.6), non è automatico riconoscere il soggetto in una lingua: il

soggetto è un concetto dell'analisi logica che implica l'accordo con il verbo, che in giapponese nonsussiste.

35

Page 37: Origine e funzioni della particella giapponese wo

ritenuto degno di rispetto. Shibatani afferma, adducendo numerosi esempi, che un

sintagma al caso nominativo non identifica necessariamente il soggetto grammaticale

(casi in cui ga marca l'oggetto, ad esempio, come si vedrà §1.2.3), ed allo stesso modo il

soggetto grammaticale non è sempre espresso con il caso nominativo. Il piano delle

relazioni grammaticali e quello dei casi di superficie devono essere ben distinti quindi,

cosa che spesso non viene presa in considerazione anche dagli studiosi più accreditati.

Ma questo discorso conferma l'accettazione di Shibatani del fatto che in giapponese

possa essere riconosciuta una categoria di “caso”.

Riconoscere la categoria di “caso” in giapponese non è però affatto automatico, né

sembra essere necessario. Si può partire dalla definizione di De Mauro nel suo studio

sui casi greci: un “caso” è concepito come una “classe di forme avente una funzione

unitaria” e questa funzione è “l'indicazione delle categorie di rapporti che legano tra

loro le cose designate dai nomi presenti nella proposizione”77. Due elementi quindi

devono essere sottolineati. Da un lato, la funzione del “caso” è quella di permettere di

specificare la relazione sintattico-semantica che un sostantivo ha con il verbo e gli altri

elementi all'interno della frase. Dall'altro lato, il termine “caso” tradizionalmente è

connesso con lingue tipologicamente flessive: tramite la categoria di “caso”

(grammaticale) è possibile dar conto delle differenti funzioni morfosintattiche di un

morfema, che ha allomorfi differenti (“classe di forme” di De Mauro) nelle diverse

declinazioni e, trattandosi di lingue flessive, è anche cumulativo (quindi non esprime

soltanto il caso, ma anche numero e genere, ad esempio). Ad esempio, la dicitura “caso

ablativo” in latino permette di dar conto di moltissime funzioni (come quelle di

allontanamento, strumento, agente nella frase passiva e molte altre) che i diversi

allomorfi come -ā, -ō, ma anche i plurali -īs, -ibus e così via esprimono. Questa è

l'interpretazione più tradizionale del termine “caso”.

Un testo più recente come Blake (1994) definisce il caso come un sistema per

marcare sostantivi dipendenti in base al tipo di relazione che hanno con la loro testa78.

La testa, afferma Blake, è il verbo, che determina quali sostantivi possono essere

presenti e propone il seguente esempio in turco:

77 De Mauro (1965: 55).78 Blake (1994: 1).

36

Page 38: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Mehmet adam-a elma-lar-ı ver-di

Mehmet-NOM uomo-DAT mela-PLUR-ACC dare-PASS.3SING

'Mehmet diede le mele all'uomo'.

Secondo Blake, in questa frase, la testa è il verbo “dare”, che richiede la presenza del

ruolo semantico di agente (espresso, nell'esempio, a livello grammaticale dal soggetto e

al caso nominativo), di tema (nell'esempio, l'oggetto a livello grammaticale, al caso

accusativo) e di beneficiario (l'oggetto indiretto nell'esempio, al caso dativo). Blake

sembrerebbe quindi adottare una definizione più generale di “caso”, non relegando il

riconoscimento di questa categoria soltanto alle lingue flessive che utilizzano morfemi

cumulativi.

1.2.1 Casi analitici e casi sintetici

Nell'interpretazione tradizionale, quindi, il caso è espresso tramite morfemi

legati, affissi al tema, e cumulativi (che esprimono anche altre categorie, come genere e

numero). Secondo Blake79, invece, i marker che esprimono il caso possono essere più o

meno legati al tema: in lingue agglutinanti un affisso di caso è separabile da altri affissi

(ad esempio quelli che esprimono il plurale), come in turco (si veda l'esempio sopra),

mentre in lingue flessive si avrà – come già detto – un unico affisso cumulativo.

Benché spesso sia difficile stabilire, come si è visto nel caso del giapponese, se un

determinato morfema grammaticale sia ben legato al tema o libero, molti studiosi

distinguono marker di caso analitici e marker sintetici: i secondi sono ad esempio quelli

del turco o del latino, che esprimono i casi tramite affissi (quindi con morfemi legati), i

primi sono invece morfemi liberi, e, secondo Blake, sono proprio quelli del giapponese.

Blake infatti definisce i marker del giapponese postposizioni, a parer suo

completamente slegate dal sostantivo precedente al pari delle preposizioni inglesi: Blake

si scosta quindi effettivamente dal problema, posto invece da Frellesvig e Vovin

(§1.1.6), riguardo al (seppur minimo) legame che questi elementi hanno con il tema.

Tradizionalmente però, i “casi analitici” vengono identificati con quelle costruzioni

79 Blake (1994: 9-11).

37

Page 39: Origine e funzioni della particella giapponese wo

formate da preposizione e sostantivo, ma non tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere

le preposizioni come mezzi di espressione della categoria caso.

Si noti che questo è un problema strettamente formale: il fatto che un caso possa

essere espresso in modo analitico o sintetico, quindi tramite morfemi liberi o legati,

oppure tramite altri espedienti, è completamente slegato dalla funzione del caso, che è

quella di indicare “categorie di rapporti” fra i diversi elementi della frase.

Fillmore riporta che in numerosi studi (cita ad esempio Jespersen e Cassidy) si

ritiene errato parlare di “casi analitici” ed il termine “caso” dovrebbe essere utilizzato

soltanto quando si possono riscontrare espliciti morfemi flessivi di caso nella flessione

nominale (quindi i “casi sintetici” di Blake): il caso è quindi legato strettamente alla

flessione, come nella visione tradizionale. È quella che Hjelmslev chiama “teoria

desinenziale”80: i casi, per eccellenza, si esprimono tramite declinazioni, come accade in

latino, greco e sanscrito. Le relazioni espresse tramite apposizioni non hanno nulla a che

vedere con la categoria del caso.

Hjelmslev invece ritiene che il sistema di casi sia identico a quello delle

preposizioni, in quanto entrambi esprimerebbero la relazione fra due elementi: lo

studioso afferma che le relazioni, espresse da desinenze di caso in alcune lingue,

potrebbero essere in altre lingue espresse tramite l'ordine delle parole o preposizioni

(ma il discorso sarebbe ovviamente valido anche per le postposizioni)81. L'idea di fondo

sembra corretta, in quanto – come già accennato – con differenti forme si possono

esprimere le stesse funzioni, dato che forma e funzione sono indipendenti. Ciò che è

opportuno sottolineare, però, è che, benché la relazione espressa da un morfema affisso

in una lingua e da un morfema libero in un'altra sia la stessa (ogni lingua esprime con

mezzi differenti una stessa funzione), se la funzione espressa è una soltanto e il

morfema tramite cui la si esprime (legato o meno) non ha allomorfi, non siamo di fronte

a una espressione di “caso”: il “caso”, come già detto, è una “classe di forme”

(allomorfi) che indicano “categorie di rapporti” fra i referenti extra-linguistici (e quindi

differenti relazioni morfosintattiche o semantiche). Quindi è vero che differenti forme

possano esprimere una stessa funzione, ma non è automatico che questa funzione debba

essere quella del caso.

80 Hjelmslev (1935: 74-75).81 Hjelmslev (1935: 127).

38

Page 40: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Anche Fillmore si dice contrario all'idea tradizionale, e afferma di concordare con

Hjelmslev nel dire che si dovrebbe abbandonare la credenza che il caso debba essere

espresso necessariamente con un morfema affisso al sostantivo. Si dovrebbe invece

identificare con il termine “caso” la relazione sintattico-semantica, espressa

formalmente in modo diverso in ogni lingua, tramite un affisso, una particella o un

ordine delle parole fisso (l'espressione formale del caso viene chiamata “case form”)82.

Fillmore, però, con il termine “caso”, in tutto il suo testo, identifica i “casi profondi “

(deep cases), ovvero quelli che definiamo ruoli semantici (agente, paziente): la nozione

di “caso” in Fillmore sembra quindi ben distante da quella degli altri studiosi, in quanto

quelli che lui identifica come “casi” non hanno nulla a che fare con i “casi” tradizionali.

Numerosi altri studiosi si sono espressi a favore della ragionevolezza dell'utilizzo

della terminologia di caso anche in presenza di apposizioni, che esprimerebbero in

modo analitico ciò che la flessione esprime in modo sintetico83, ma anche quando si

sfrutta l'ordine delle parole o l'alternanza tonale84. Moravcsik afferma che “a case

marker is a formal device associated with a noun phrase that signals the grammatical

role of that noun phrase”85: tale metodo formale, spiega successivamente, include da un

lato morfemi come affissi, adposizioni, ma anche modifiche interne al tema, dall'altro

lato sovrasegmentali (variazioni di intensità o di frequenza).

Anche Lyons non si esprime a favore della limitazione della categoria del caso alle

sole lingue in cui è presente la flessione nominale: quelle che, come si vedrà (§1.2.2),

sono identificate come funzioni grammaticali e locali dei casi sarebbero indipendenti

dall'espressione formale e potrebbero essere realizzate tramite flessione, ordine delle

parole o apposizioni (l'autore porta come esempio di lingua che usa le postposizioni

proprio il giapponese). Anche secondo Lyons quindi il termine “caso” dovrebbe essere

esteso al di là della sua applicazione tradizionale, dato che l'unico fattore importante

sarebbe che le funzioni grammaticali e locali legate alla categoria del caso possano

essere distinte sia in lingue che utilizzano la flessione nominale, sia in lingue che

utilizzano le apposizioni: a patto quindi che possano essere riconosciute le funzioni

82 Fillmore (1968: 19-20).83 Di questo avviso Haspelmath (2009: 509-510).84 Il World Atlas of Linguistic Structures, citato in Spencer (2009: 185), riporta quattro lingue che

esprimono i casi con alternanze di tono, e due che li esprimono con alternanze di tema.85 Moravcsik (2009: 231).

39

Page 41: Origine e funzioni della particella giapponese wo

grammaticali e locali, la categoria del caso potrebbe essere identificata86.

In tutti questi studi, sembra come se si assumesse che, in qualsivoglia contesto si

utilizzi un espediente morfologico (o sintattico) per esprimere relazioni grammaticali o

ruoli semantici, allora quella costruzione utilizzata deve necessariamente avere la

denominazione “caso”87. È chiaro, però, che tutte le lingue hanno a disposizione mezzi

(differenti da lingua a lingua) per esprimere le relazioni grammaticali e semantiche, ma

non è detto che tutti questi mezzi debbano essere necessariamente etichettati sotto la

categoria di caso. Se così fosse, si deve dare per assunto che in tutte le lingue, senza

esclusione, sia presente la categoria di caso, che verrebbe quindi considerata in un senso

più ampio (e formalmente espressa da affissi, clitici, adposizioni, parole autonome,

alternanze di tono o di accento, ordine delle parole). È forse opportuno allora

distinguere la nozione formale di caso, ovvero la forma flessa di un sostantivo (quindi la

visione tradizionale del caso), e una nozione funzionale di caso, legata alla funzione che

il singolo sintagma nominale ha all'interno di una frase, che poi a livello formale può

essere espressa in modi differenti.

Contro l'applicazione dell'idea di caso a qualunque espediente le lingue utilizzino per

esprimere le relazioni fra diversi elementi si scagliano Spencer e Otoguro88: ai differenti

marker che una determinata lingua utilizza, si può anche dare l'etichetta teorica (e

sicuramente comprensibile immediatamente) di “caso”, ma questo non implica affatto

che in quella lingua vi sia la necessità di postulare un tratto [Caso]. I due autori

chiamano in causa il Criterio di Beard, secondo cui il tratto [Caso] sarebbe riscontrabile

in una lingua se e soltanto se esso fosse necessario per racchiudere differenti forme che

abbiano le stesse funzioni (ad esempio nelle differenti declinazioni/classi, come avviene

in latino o in sanscrito, le “classi di forme” di De Mauro §1.2): in queste lingue, grazie

all'idea di caso, si potrà dar conto di tutte le diverse forme. Quindi, ad esempio, in latino

si deve utilizzare l'etichetta di “caso ablativo” per dar conto di tutte le diverse desinenze

di ablativo nelle differenti declinazioni (come -ā, -ō, ē, ū ma anche i plurali -īs, -ibus e

così via), essendo una lingua in cui il suffisso da utilizzare non è prevedibile in base al

86 Lyons (1968: 302-4).87 Spencer&Otoguro (2005: 119; 143). Questo assunto avrà la sua logica conclusione nell'idea di “caso

astratto” di Chomsky, in cui Caso sarà un meccanismo operativo in tutte le lingue, espressione di unaproprietà di UG, indipendentemente dalla sua realizzazione morfologica.

88 Spencer, Otoguro (2005).

40

Page 42: Origine e funzioni della particella giapponese wo

contesto. In lingue, invece, in cui ogni presunto caso viene espresso con un morfema

invariabile, in cui lo stesso marker viene utilizzato per ogni sostantivo, ipotizzare un

tratto [Caso] è fuorviante. I due autori portano l'esempio del turco, lingua in cui

tradizionalmente viene identificata la categoria del caso. Il turco ha un unico suffisso

per esprimere un determinato caso, suffisso che ha una serie di allomorfi prevedibili in

base al contesto, che dipendono dall'armonia vocalica: ad esempio, il suffisso del

genitivo -in ne ha quattro (-in, -ın, -ün o -un scelti sulla base dell'arrotondamento e

dell'avanzamento della vocale del tema). Secondo il Criterio di Beard, non è necessario

ipotizzare una categoria di caso in turco, dato che l'alternanza di questi suffissi dipende

da un fattore prevedibile, l'armonia vocalica. I due autori quindi propongono di non

utilizzare l'etichetta “caso genitivo”, ma piuttosto una dicitura come “forma -in”, per

identificare questo affisso: si tratta di un solo e unico affisso (con allomorfi prevedibili)

e non vi sono marker differenti che devono essere racchiusi sotto l'etichetta “caso”.

Questa etichetta quindi non sarebbe necessaria.

L'applicazione rigorosa di un criterio come quello di Beard è forse eccessiva, si

giungerebbe ad un punto in cui soltanto in poche lingue (indoeuropee e semitiche) possa

essere riconosciuta una categoria di caso, che invece viene ormai identificata in lingue

molto differenti89. Eppure la teorizzazione di questo criterio può far riflettere

sull'effettiva necessità di non ipotizzare una categoria “caso” ogniqualvolta si ha di

fronte un mezzo morfologico (ma anche sintattico) per esprimere relazioni grammaticali

o semantiche: le lingue esprimono differenti tipi di relazioni utilizzando una grande

varietà di mezzi, e non è detto che il caso sia necessariamente fra questi. Il caso non è

una categoria universale, non si può riconoscere un “accusativo” o un “dativo” in ogni

lingua, a prescindere dalla espressione formale di questa categoria.

Anche a livello di funzione, inoltre, non è possibile definire in modo rigoroso cosa si

identifichi in generale per “accusativo” o “dativo”. La terminologia dei casi è figlia

della filosofia greca, giunta a noi tramite la mediazione del latino che l'ha fatta propria

(aggiungendo il sesto caso, l'ablativo, assente in greco)90, ma l'interpretazione

89 Per una critica al Criterio di Beard e una serie di esempi problematici che non ne permetterebbero unacieca applicazione, si veda la revisione di Arkadiev (2010: 417-8).

90 Si veda De Mauro (1965: 34-5). L'autore fa risalire ad Aristotele il termine πτῶσις, ma in Aristoteleidentificava anche procedimenti di suffissazione e derivazione, mentre spetta agli stoici il merito diaver ristretto questa nozione alla sola flessione nominale. Sull'interpretazione del dativo si veda De

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Page 43: Origine e funzioni della particella giapponese wo

tradizionale di termini come “dativo”, “accusativo”, “genitivo”, è spesso erronea e

fuorviante. Se il dativo è interpretato tradizionalmente come “caso del dare” o “caso di

colui al quale si dà”, lettura che non rispecchia affatto il vero utilizzo del dativo in greco

(l'utilizzo del dativo con verbi come δίδωμι non è affatto frequente in greco, scrive De

Mauro), De Mauro propone invece di interpretarlo in senso più generale come il caso

che esprime “tutte le realtà concrete delle quali il processo deve tener conto e con le

quali esso opera, realtà concrete entro i cui limiti il processo si sviluppa”: in questo

senso, conclude l'autore, queste realtà sono tutte “dati”. Per quanto riguarda l'accusativo,

l'interpretazione antica di “caso dell'accusato” viene messa in discussione da De Mauro,

che interpreta “accusativo” come il caso in cui appare l'eventus o fructus dell'azione, ciò

che “l'azione reca in se stessa come una sua indispensabile qualificazione”. In rapporto

a un “dire” l'accusativo denota quindi ciò che viene detto, senza il quale l'azione non

sarebbe possibile, mentre il dativo denota il luogo, il tempo, le circostanze, gli

strumenti, che sono “dati” all'azione91. Questo è chiaramente possibile in greco, mentre

in latino questi “dati” sarebbero spesso espressi in ablativo e in indiano anche in

strumentale o locativo: se si recupera il significato originario dei termini dei “casi”

come fa De Mauro, questa classificazione, così come viene prodotta dall'ambiente

filosofico greco, si confà sì al greco, ma non perfettamente alle altre lingue indoeuropee.

Occorre sottolineare quindi un secondo punto. I casi sono entità specifiche di ogni

lingua e quindi una determinata etichetta di caso è valida soltanto per la singola lingua

in questione: sebbene per convenienza siano spesso utilizzate le stesse diciture

(nominativo, accusativo, dativo), si deve sempre pensare al caso particolare come

inserito nel sistema della lingua e non come entità astratta applicabile alle diverse

lingue. In breve, è giusto dire che il dativo latino abbia un utilizzo più ampio del dativo

turco, ma non che un'entità astratta come il caso dativo abbia un utilizzo più ampio in

latino che in turco92. Tanto più che anche fra le stesse lingue indoeuropee antiche non vi

è una corrispondenza completa fra le funzioni di un singolo caso. Ad esempio, un

cospicuo gruppo di funzioni del dativo greco è paragonabile in blocco agli usi dello

Mauro (1965: 52), sull'accusativo De Mauro (1965: 47; 52; 58-61).91 De Mauro (1965: 53-4).92 Haspelmath (2009: 510), ammesso che in trurco si possa identificare una categoria di “caso”, cosa

che, come visto nelle pagine precedenti, non è necessariamente vera.

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Page 44: Origine e funzioni della particella giapponese wo

strumentale indiano e dell'ablativo latino: il dativo indiano infatti è una categoria molto

più specializzata di quello greco, e svolge soltanto alcuni dei compiti del dativo greco

(ad esempio esprime la destinazione in connessione con verbi di moto, il beneficiario

con verbi di “dare” e così via)93. Se non vi è un parallelismo fra le funzioni dei diversi

casi nelle lingue indoeuropee antiche, si può immaginare sin da ora che l'utilizzo della

stessa terminologia dei casi applicata al giapponese sia quantomeno fuorviante, in

quanto si dovrebbe spiegare in modo preciso cosa si intende per “particella del dativo”

ni o “particella dell'accusativo” wo, dato che nemmeno negli studi di indoeuropeistica si

ha una definizione univoca di “dativo” o “accusativo”.

Eppure queste sono le diciture che più frequentemente si riscontrano negli studi sulle

“particelle di caso” giapponesi. In molti testi, ad esempio, si glossa ni come “dativo” e

si propongono come esempi una serie di frasi in cui ni viene utilizzato in connessione

con verbi di dare e parlare, e si aggiunge in seguito una dicitura “allativo” e “locativo”94.

Questa interpretazione sembra necessariamente implicare un riferimento soltanto alla

tradizionale (ma non veritiera) definizione del dativo come “caso di colui al quale si

dà”. Infatti, il dativo utilizzato per esprimere la direzione è ben comune in indiano,

come visto, dove invece la funzione locativa è espressa tramite un caso a sé stante,

mentre in greco il dativo riassume anche la funzione locativa (che, secondo De Mauro, è

oltretutto la funzione più frequentemente espressa con il caso dativo in greco): se si

prendesse come esempio il dativo greco, non sarebbe affatto necessario specificare

ulteriormente le funzioni “allative” e “locative” della particella ni. Sembrerebbe quindi

necessario, se si vuole rimanere legati alla categoria dei casi, spiegare espressamente

cosa si intenda nello specifico, ad esempio, per “dativo” in giapponese.

1.2.2 Casi grammaticali e casi semantici

Una seconda distinzione che viene tradizionalmente proposta è quella fra caso

grammaticale (o sintattico) e caso semantico (o concreto)95.

93 De Mauro (1965: 10; 18). Il dativo greco ha molte più funzioni rispetto al dativo indiano a causa delfatto che il dativo greco non ha un ablativo, uno strumentale o un locativo pienamente efficientiaccanto, come accade in indiano.

94 Due esempi sono Vovin (2003: 46) e Bentley (2001: 103).95 Per una panoramica generale, si veda Blake (1994: 31-33).

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Page 45: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Il primo gruppo comprende nominativo, accusativo, alcuni studiosi vi includono

anche il genitivo e raramente (ma giustamente) il dativo96: essendo una classificazione

basata sulle lingue indoeuropee antiche, non vengono citati i casi assolutivo e ergativo

delle lingue con allineamento ergativo-assolutivo, che però rientrerebbero a buon diritto

nel gruppo dei casi grammaticali. Anche i due casi utilizzati nelle lingue ad

allineamento attivo-stativo vengono inseriti nel gruppo dei casi grammaticali:

Haspelmath definisce questi due casi come agentivo (in quanto esprime l'agente sia del

verbo transitivo che di una parte di intransitivi la cui valenza dell'attante sia l'agente) e

pazientivo (con cui si indica il paziente dei transitivi e quello di una seconda parte di

intransitivi la cui valenza dell'attante sia il paziente)97.

I casi invece definiti semantici sono concreti e principalmente “locali”, ad esempio

quelli che esprimono moto a, moto per, moto da luogo. Negli studi di indoeuropeistica,

casi concreti sono identificati ad esempio con lo strumentale, il locativo e (forse

erroneamente) l'ablativo, a cui si aggiunge eventualmente (anche qui erroneamente) il

dativo98: si tratta quindi non solo di casi “locali”, come appunto il locativo, l'allativo o il

perlativo, ma anche di casi come lo strumentale, il comitativo e così via. Haspelmath

infatti pone una distinzione99: da un lato casi concreti di natura non spaziale, fra cui

inserisce, oltre ai già menzionati strumentale e comitativo, anche ad esempio l'abessivo

(che esprime l'assenza durante l'azione del sostantivo a cui si riferisce), il comparativo,

il causale o motivativo; dall'altro casi concreti spaziali, che appunto hanno la funzione

di esprimere relazioni spaziali. Vengono raggruppati in quattro grandi classi direzionali,

ovvero il caso che esprime il luogo dell'azione (il locativo), il caso che indica il moto a

luogo (allativo), quello che esprime il moto da luogo (detto in alcune trattazioni

ablativo, da non confondersi però con l'ablativo di molte lingue indoeuropee antiche,

che ha funzioni molto più ampie) e quello che indica il moto per luogo (detto perlativo):

in alcune lingue si può anche avere una distinzione più ampia, che può portare ad avere

ricchi e complessi sistemi di casi locativi, sistemi basati su una combinazione di

96 Ad esempio Kuryłowicz (1964: 179) include il genitivo, ma afferma che la posizione del dativorimane incerta. Hjelmslev (1935: 57) anche include il genitivo nei casi grammaticali, il dativo nei casilocali.

97 Haspelmath (2009: 513). Vovin (2005), uno degli studiosi a identificare il giapponese come linguaattivo-stativa (§4.1.4), denomina questi casi “attivo” e “assolutivo” (e non “pazientivo”).

98 Kuryłowicz (1964: 179).99 Haspelmath (2009: 514-7).

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Page 46: Origine e funzioni della particella giapponese wo

direzione e orientamento (orizzontale, verticale).

Il criterio per distinguere le due grandi categorie dei casi grammaticali e concreti è

legato alle relazioni che questi casi esprimono. I casi grammaticali esprimono relazioni

grammaticali (come soggetto, oggetto diretto e indiretto), i casi concreti esprimono

differenti specifici ruoli semantici (ad esempio luogo o origine). Eppure questa

distinzione non è così netta come sembrerebbe: è impossibile mantenere le due

categorie completamente distinte100. I casi grammaticali non esprimono soltanto

relazioni grammaticali ma spesso anche specifici ruoli semantici. Ad esempio, in latino,

tramite il caso (grammaticale) accusativo si esprime da un lato la relazione

grammaticale di oggetto diretto, ma dall'altro anche il ruolo semantico della

destinazione. Allo stesso modo tramite un singolo caso che viene identificato

(erroneamente) come semantico è possibile esprimere differenti ruoli semantici: tramite

l'ablativo in latino si esprime il ruolo semantico di origine, di luogo, di strumento e così

via, ma l'ablativo latino è utilizzato anche per esprimere l'agente in frase passiva. Ruolo

semantico e caso di superficie non hanno una corrispondenza biunivoca, quindi, ed allo

stesso modo, come già detto, una relazione grammaticale non deve necessariamente

essere sempre espressa in un determinato caso101. I tre piani devono sempre essere tenuti

distinti.

Si può quindi affermare che i casi abbiano una funzione primaria

sintattica/grammaticale o semantica/concreta: nelle lingue indoeuropee, molti casi

hanno entrambe le funzioni, ma la funzione sintattica è primaria nei casi grammaticali e

secondaria nei casi concreti; la funzione semantica, viceversa, è primaria nei casi

concreti e secondaria nei casi grammaticali.

Si prenda ad esempio l'accusativo. Kuryłowicz suggerisce che l'espressione

dell'oggetto diretto sia la funzione primaria dell'accusativo, e tutte le altre funzioni (che

lui definisce avverbiali) sarebbero determinate dal contesto, ed è questo che le definisce

secondarie: sono secondarie perché sono marginali rispetto alla funzione primaria,

centrale102. L'accusativo di oggetto diretto si definisce solo su basi sintattiche, ed è

indipendente dal contesto semantico: non vi è alcun significato comune o denominatore

100 Jespersen (1924: 185).101 Blake (1994: 48), ma si ricordi che questa stessa affermazione si trova anche in Shibatani (1977).102 Kuryłowicz (1964: 181-3). Si veda anche De Mauro (1959: 239-40).

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Page 47: Origine e funzioni della particella giapponese wo

semantico comune a tutti i verbi transitivi, eccetto il fatto che essi richiedano

l'accusativo per esprimere l'oggetto diretto. Al contrario, tutte le funzioni semantiche

dell'accusativo sono determinate dal contesto, Kuryłowicz cita Delbrück e ne enumera

diverse. L'accusativo di direzione o moto a luogo (allativo) è connesso a verbi di

movimento, quindi contestualmente determinato da questi. L'accusativo “di contenuto”

si ha quando il sostantivo in accusativo è etimologicamente o semanticamente connesso

con il verbo (transitivo o intransitivo): ad esempio in latino vitam vivere o sanscrito

tapas tapyate 'espiare una penitenza' (connessione etimologica), aetatem vivere

(connessione semantica). Questa costruzione viene chiamata “cognate object

construction”, ed anche questa seconda funzione è contestualmente determinata dalla

relazione fra nome e verbo. Una terza funzione concreta è quella di esprimere

l'estensione temporale, con sostantivi che denotano un lasso di tempo (nox, annus), e

l'estensione spaziale, con sostantivi che indicano una misura o una distanza: anche

queste funzioni sono contestualmente definite dal contenuto semantico del sostantivo in

accusativo. Ulteriore funzione semantica è l'accusativo di relazione, che dipende da

alcuni aggettivi ed esprime una limitazione (πόδας ὠκὺς “piè veloce”, “veloce quanto ai

piedi”): è contestualmente determinata dallo stesso aggettivo. Chiaramente si potrebbero

postulare anche ulteriori categorie come l'accusativo di argomento (con verbi come

doceo), l'accusativo laborativo (o accusativus algeticus) che designa la parte dolente

con verbi connessi al soffrire, e così via: non v'è limite alle categorie che possono essere

distinte e i confini fra queste sono molto sfumati103. Luraghi prova a spiegare a livello

cognitivo alcuni di questi utilizzi dell'accusativo, sulla base dell'idea del “completo

coinvolgimento” (affectedness)104. Come oggetto diretto, l'accusativo esprime il

paziente, il cui tratto fondamentale è il coinvolgimento nell'azione; il coinvolgimento

spiegherebbe anche l'utilizzo dell'accusativo di direzione, e metaforicamente anche

quello di estensione spaziale (tramite la nozione di “fictive motion”, scrive Luraghi);

dall'uso di estensione spaziale deriva quello temporale grazie alla metafora. Da ultimo,

l'uso avverbiale dell'accusativo di relazione è legato a quello di estensione, spostato su

un piano più astratto. Ma un'idea affine è citata anche da De Mauro105: si tratta della

103 De Mauro (1959: 241).104 Luraghi (2009: 145-6). 105 De Mauro (1959: 233; 246-7).

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Page 48: Origine e funzioni della particella giapponese wo

prima formulazione di Brugmann e Delbrück, secondo i quali l'accusativo designa

l'oggetto più immediatamente e totalmente colpito o toccato dall'azione verbale. De

Mauro però critica questa interpretazione, scrivendo che, da un lato, vi sono molti

esempi in cui un rapporto diretto e totale fra la cosa designata e l'azione verbale viene

espresso con altri casi e non con l'accusativo (fruor e utor richiedono che la cosa usata o

fruita sia espressa in ablativo), dall'altro, vi sono numerose occorrenze in cui

l'accusativo compare senza esprimere relazioni dirette fra la cosa designata e l'azione

verbale (ad esempio gli accusativi di estensione spaziale o temporale, a parere

dell'autore).

Che i differenti utilizzi dell'accusativo nelle lingue indoeuropee antiche possano

essere spiegati unitariamente a livello cognitivo o meno, sta di fatto che questo caso

combina la funzione di espressione dell'oggetto diretto con altre funzioni come quella di

moto a luogo e di estensione spaziale e temporale106: è quindi identificabile come un

caso grammaticale, grazie al fatto che ha differenti funzioni morfosintattiche e

semantiche (e, come già accennato, il morfema è cumulativo e ha diversi allomorfi per

le differenti declinazioni).

Allo stesso modo i casi concreti hanno una funzione avverbiale primaria, e

rispondono alle domande “con chi?”, “verso chi?”, “da dove?” e così via. Sono

generalmente determinati contestualmente dal verbo reggente, ma possono avere anche

una funzione sintattica: ad esempio lo strumentale in sanscrito viene utilizzato per

rendere l'agente di una frase passiva, e questo porta Kuryłowicz ad ipotizzare di

includere questo caso nel gruppo dei casi grammaticali107. In senso stretto, si possono

probabilmente identificare come casi concreti soltanto quelli espressi da un morfema

che non ha allomorfi per le diverse declinazioni/classi, ed esprime una singola e unica

funzione concreta, ad esempio -δε in greco, che ha funzione unica di allativo. Questo

tipo di morfemi però stentano ad essere riconoscibili come morfemi di “caso”: è un

unico morfema e non una “classe di forme” (secondo la definizione di De Mauro §1.2),

ed ha una sola funzione concreta e non diverse funzioni. Anche secondo il Criterio di

106 Jespersen (1924: 179).107 Kuryłowicz (1964: 188). Discorso analogo, come già accennato, può essere fatto per quanto riguarda

l'ablativo latino, che può essere a buon diritto inserito nel gruppo dei casi grammaticali piuttosto chein quello dei casi concreti.

47

Page 49: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Beard (§1.2.1), che afferma che la categoria del “caso” è riconoscibile in una lingua

solo se permette di dar conto di differenti forme che hanno le medesime funzioni,

morfemi come -δε non sarebbero identificabili come espressioni di “caso”. Si avrebbe

quindi una biunivocità nel rapporto fra forma e funzione che contraddice il concetto di

“caso”: questi morfemi possono piuttosto essere identificati come semplici morfemi

postposti con funzione allativa, locativa e così via, senza necessariamente riconoscerne

un “caso”.

La categoria dei casi concreti risulta quindi piuttosto ambigua: come visto, da un

lato, alcuni studiosi identificano come “caso concreto” l'ablativo del latino o lo

strumentale dell'indiano, che però hanno funzioni grammaticali ben riconoscibili,

dall'altro, i “casi concreti” in senso stretto (come -δε) non possono essere

definitivamente identificati come “caso”, non avendo allomorfi né molteplici funzioni.

È forse in definitiva più corretto parlare di funzioni grammaticali (o astratte o

sintattiche) e funzioni concrete (o semantiche) di un determinato caso, piuttosto che di

veri e propri casi grammaticali e concreti: le funzioni grammaticali riguardano

l'espressione delle relazioni grammaticali di soggetto, oggetto diretto e indiretto, le

funzioni locali (o meglio concrete) includono invece distinzioni spaziali e temporali e

così via108. In linea generale, si può probabilmente anche parlare di funzioni

grammaticali e semantiche di un affisso o di una adposizione (anche a prescindere dal

concetto di caso), che può avere come funzione centrale quella di esprimere, ad

esempio, l'oggetto diretto, e come funzioni secondarie quelle locative o temporali: come

si vedrà queste sono le funzioni della particella giapponese wo.

1.2.3 La categoria del “caso” in giapponese

Non si è dibattuto molto sul fatto che in giapponese possa essere identificabile

una categoria di caso, benché questa non sia una questione affatto scontata: come si è

visto e si vedrà a breve, nella maggior parte dei testi scientifici si presuppone che questa

categoria possa essere riconosciuta in giapponese e ben raramente gli studiosi

intervengono sulla questione.

108 Lyons (1968: 295 ss.)

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Page 50: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Ammesso e non concesso, però, che anche in questa lingua il caso possa essere

identificato, gli studiosi sono concordi nell'identificare i casi del giapponese come

analitici, in quanto le particelle (o marker) che esprimono il caso non sono affisse al

tema109.

Allo stesso modo, anche in questa lingua molti studiosi hanno riscontrato

l'opposizione fra funzioni grammaticali e concrete del caso. Fra questi Ono e Otoguro110,

secondo cui è possibile distinguere nettamente particelle di caso che marcano relazioni

sintattiche e particelle di caso che esprimono relazioni semantiche specifiche. Come

particelle di caso sintattico gli autori identificano la particella del nominativo ga, quella

dell'accusativo wo e una terza particella, che in Ono è quella del dativo ni, in Otoguro è

quella del genitivo no: queste marcano gli argomenti centrali (quindi sembrerebbe più

corretto inserirvi il marker dell'oggetto indiretto rispetto a quello con funzione

attributiva) e le loro funzioni concrete sono secondarie. Al gruppo delle particelle di

caso concreto appartengono invece il genitivo no (il dativo ni in Otoguro), l'allativo pe >

he > e, lo strumentale de, il comitativo to, l'ablativo kara, il comparativo yori111. Questa

stessa distinzione si trova in Tsujimura, che curiosamente non utilizza questi termini.

Tsujimura da un lato presenta le postposizioni, ovvero le espressioni del caso semantico,

che hanno un contenuto semantico specifico e non possono essere omesse (come ad

esempio de, kara o to), dall'altro le particelle di caso (i casi sintattici, a cui però

aggiunge il genitivo no e, erroneamente, il topic wa) la cui funzione è quella di

esprimere le relazioni grammaticali e possono essere omesse112. Un fatto su cui gli

109 Si veda §1.1.6 per i diversi studi a questo riguardo. La proposta di Vovin, secondo cui le particellegiapponesi non sono né postposizioni completamente libere, né affissi legati ma “marker agglutinanti”(una posizione intermedia), è quella più accreditata.

110 Ono è citato in Spencer, Otoguro (2005: 134-5). Si veda anche Otoguro (2006: 213-14). Il discorsodei due autori è riferito al giapponese moderno, ma la distinzione può essere valida anche nelgiapponese antico, fatta eccezione per il “nominativo” di Ono e Otoguro (il caso del soggetto comerelazione grammaticale) che in giapponese antico raramente veniva marcato da una particella (equando lo era, poteva essere alternativamente no o ga, che avevano al tempo stesso anche funzioneattributiva).

111 Si noti che, dalla spiegazione proposta da Otoguro, sembrerebbe esserci una biunivocità del rapportofra forma e funzione, che – come visto – contraddice il concetto di “caso”.

112 Tsujimura (1996: 133-137). La particella di topic wa non esprime alcuna relazione grammaticale, masi situa, come detto più volte, su un piano diverso, quello pragmatico. Per quanto riguarda l'omissionedi particelle che esprimono i ruoli semantici centrali, accenniamo per ora il fatto che ga e wo nonhanno principalmente una funzione grammaticale, come sembra suggerire Tsujimura, ma un valorepragmatico ben riconoscibile, e forse è questo che permette di ometterle. Sull'omissione delleparticelle, si vedano anche le pagine successive.

49

Page 51: Origine e funzioni della particella giapponese wo

studiosi concordano è una differenza fondamentale fra i due gruppi: le particelle di caso

grammaticale come ga e wo (il discorso non vale invece per ni), possono essere

sostituite da particelle come quelle restrittive ad esempio dake 'soltanto' o sae 'perfino' o

quelle di topic e focus come wa e mo, mentre le particelle di caso semantico possono

solo essere accompagnate (e non sostituite) da queste.

Ovviamente, se si accetta il riconoscimento della categoria del caso anche in

giapponese, è più corretto parlare di funzioni sintattiche (o grammaticali) e funzioni

concrete: come si vedrà, la particella wo, oltre a marcare l'oggetto diretto (funzione

tradizionalmente definita grammaticale ma si veda §4.2), ha anche funzioni concrete

legate all'espressione di tempo e luogo, ed allo stesso modo ni da un lato marca l'oggetto

indiretto, dall'altro ha anche una funzione locativa. Anche in giapponese quindi, le

particelle che esprimono i casi grammaticali hanno principalmente una funzione

grammaticale ma anche, secondariamente, una concreta.

Fin qui sono stati analizzati i pochi studi che, pur approvando in definitiva il

riconoscimento della categoria di “caso” nel giapponese, tentano di trattare in modo

appena più rigoroso questo problema. La maggioranza degli studiosi assume come

principio che si possa parlare di “particelle (o marker) di caso”, ma vi sono anche rari

studiosi che non sono così concordi nell'utilizzare il termine “caso” per identificare le

funzioni dei marker giapponesi.

Spencer113 utilizza il Criterio di Beard, secondo cui la categoria di caso è necessaria

in una lingua solo se permette di racchiudere differenti forme che hanno le medesime

funzioni. In giapponese, stando a questo Criterio, la categoria di caso sarebbe superflua

e la particella potrebbe essere definita anche soltanto in base alla sua espressione

formale (come già visto nel caso del turco, anche qui si propone di non utilizzare

l'etichetta “caso accusativo” ma piuttosto “forma wo”). Forma (marker) e funzione

(caso) hanno una relazione biunivoca, non si trovano alternanze formali in base alle

proprietà del sostantivo marcato114, anche se è chiaro che le relazioni (grammaticali o

semantiche) che è possibile esprimere con quel determinato marker sono numerose.

A prescindere dal Criterio di Beard, che, come già detto, rischia di risultare

oltremodo restrittivo, la dicitura caso sembra essere oltretutto limitante per il

113 Spencer (2009: 186).114 Otoguro (2006: 233).

50

Page 52: Origine e funzioni della particella giapponese wo

giapponese: ad esempio si può prendere il marker del “nominativo” moderno ga. Questa

particella marca il soggetto, animato o inanimato, definito o indefinito, ma ci sono casi

in cui, secondo Kuno, marca anche l'oggetto in predicati stativi che esprimono possesso,

esistenza, stato psicologico, percezione (visiva o uditiva), desiderio115, ad esempio:

英語 が わかる

eigo ga wakaru

inglese-PART capire

'Capisco l'inglese'.

In questi casi, si ha la conferma che ga non marchi il soggetto in quanto il sostantivo

marcato non risponde ai criteri posti da Shibatani per identificare il soggetto in

giapponese (§1.2), ovvero il fatto che il sostantivo debba fungere da antecedente per il

pronome riflessivo e debba essere il fulcro dell'onorificazione; inoltre alcuni di questi

predicati (ad esempio proprio wakaru) permettono l'alternanza di ga con la particella

dell'oggetto diretto wo. Ma come giustamente è stato fatto notare116, in questi casi (come

in quelli successivi), ga marca il focus, e quindi non vi sarebbe affatto necessità di

distinguere questo utilizzo di ga dal terzo utilizzo che Kuno riconosce.

Il terzo utilizzo di ga è quello che Kuno chiama “elenco esaustivo”, ma può

anch'esso essere identificato come una espressione di focus117. Questa terza

interpretazione di ga è principalmente suggerita da Kuno quando il verbo che segue è un

predicato stativo, ad esempio:

115 Kuno (1973: 79, si veda anche Otoguro (2006: 220-1). Questi predicati sono elencati più in bassonella lista dei gruppi di predicati bivalenti di Tsunoda (1985: 388-9), creata in base a quanto ècoinvolto il paziente nell'azione (il concetto di affectedness). I verbi sono divisi in: quelli che hannodiretto effetto sul paziente, di percezione, di ricerca, di conoscenza, di sensazione, di relazione e diabilità. Nei primi il coinvolgimento del paziente è più alto (quindi tende ad essere marcato dalcanonico marker dell'oggetto), negli ultimi più basso (quindi il paziente spesso viene marcato con altrimarker che non siano quelli di default). Si noti che i verbi di percezione intesi da Tsunoda sono verbicome vedere, sentire, ascoltare, mentre qui Otoguro si riferisce a verbi come 見える mieru 'esserevisibile, si vede', 聞こえる kikoeru 'essere udibile, si sente', potenziali, che hanno una sfumatura dipercezione spontanea.

116 Ono, Thompson, Suzuki (2000: 74-5)117 Kuno (1973: 38), il discorso è poi ripreso in Otoguro (2006: 225-7), che espone anche alcune

spiegazioni alternative che sono state proposte.

51

Page 53: Origine e funzioni della particella giapponese wo

彼 が 日本語 が できる

kare ga nihongo ga dekiru

lui-PART giapponese-PART essere capace

'Lui (e solo lui) sa il giapponese'.

Questa è una delle frasi che la grammatica tradizionale interpreta come occorrenze di

un doppio soggetto, in quanto appare due volte la marca del nominativo ga. Seguendo

invece l'interpretazione di Kuno, dato che si è di fronte a un predicato stativo, in questa

frase il primo ga in kare ga indica il focus (il terzo utilizzo di ga), il secondo ga in

nihongo ga l'oggetto diretto (secondo utilizzo di ga).

Ora, questi usi di ga che esulano dal mero indicare il soggetto della frase non

potrebbero essere spiegati se semplicemente identifichiamo ga con l'etichetta di

“particella del nominativo”. Allo stesso modo, nel giapponese antico, l'alternanza no/ga

sia nell'espressione del soggetto (in cui alterna anche con ø) sia in funzione attributiva

non è spiegabile in termini di “nominativo” e “genitivo”.

Oltretutto, come già accennato e notato da Tsujimura, alcune di queste particelle

possono essere liberamente omesse nel giapponese moderno, e così anche nel

giapponese antico, benché, come si vedrà, numerose teorie sono state proposte per

spiegare se si tratti di una libera omissione o se invece i casi in cui la particella viene

omessa siano dovuti a questioni morfosintattiche o pragmatiche: il soggetto era espresso

con ø, con ga o con no, l'oggetto con wo o con ø, ad esempio118. Allo stesso modo,

queste stesse particelle possono essere sostituite da particelle avverbiali (sae, dake, ma

anche dalla particella del topic wa), nel giapponese moderno come in quello antico. Si

deduce che, almeno per quanto riguarda i due argomenti centrali (soggetto e oggetto), la

categoria di caso non può essere postulata: una categoria esiste in una lingua quando

deve essere necessariamente espressa. Ad esempio, in latino la categoria di caso viene

118 Per quanto riguarda l'espressione del soggetto, si ritiene generalmente che ø sia l'espressione didefault nelle frasi principali, dove no e ga alternano nelle subordinate (no è ammesso da tutti isostantivi, ga soltanto da quelli animati). Si veda Frellesvig (2010: 127-9), di questo si accenneràanche in §4.1. Per quanto riguarda l'oggetto, numerose teorie sono state proposte riguardo l'alternanzawo-ø, e saranno discusse nel §4.2: quella a cui, a mio parere, si può dar più credito è l'ultimariformulazione comune dello studio di Frellesvig insieme a Horn e Yanagida, che ritengono, come sivedrà, che la presenza o assenza di wo dipenda da una questione pragmatica di specificità dell'oggetto.Si veda Frellesvig, Horn, Yanagida (2013).

52

Page 54: Origine e funzioni della particella giapponese wo

identificata in quanto nessun sostantivo può essere espresso senza il suffisso

cumulativo, che indica caso, numero e genere, con il caso nominativo utilizzato come

forma di citazione: il morfema con cui si indica il caso può anche non avere espressione

fonica (quindi essere ø), ma ø non alterna con altri morfemi nello stesso caso con un

determinato tema (cor ha il nominativo singolare in ø, ma non può alternare, non ha mai

il nominativo in -us o -a). In giapponese invece, almeno per quanto riguarda soggetto e

oggetto, la categoria del caso può essere elusa. Se i due casi fondamentali (nominativo e

accusativo) vengono a mancare, è anche difficile identificare i restanti: Blake119 riporta

una gerarchia fra casi, spiegando che se una lingua ha un caso come il locativo o lo

strumentale, deve necessariamente avere anche nominativo, accusativo (o ergativo),

genitivo e così via. La gerarchia è la seguente:

nom acc/erg gen dat loc abl/strum altro

Se in una lingua è attestato un caso, dovrà anche avere i casi alla sua sinistra: infatti,

se una lingua ha attestati soltanto due casi, questi sono nominativo e accusativo (o

ergativo e assolutivo).

Ne segue che non si trovano casi grammaticali e concreti in giapponese, ma piuttosto

un numero di morfemi con funzioni grammaticali primarie e concrete secondarie (ad

esempio ni). Forse sarà anche possibile riconoscere una funzione grammaticale in

morfemi che hanno come funzione primaria quella concreta, come accade nel caso dello

strumentale in sanscrito (un esempio che è possibile portare è l'utilizzo di kara in

funzione di agente nelle frasi passive con verbi che presuppongono un destinatario,

come 送る okuru 'spedire', 与える ataeru 'dare').

Ovviamente, se invece si segue una definizione funzionale, in cui “caso” identifica

qualsiasi mezzo utilizzabile per esprimere relazioni grammaticali e ruoli semantici,

allora chiaramente anche in giapponese, come in tutte le lingue del mondo, sarà

possibile postulare una categoria di caso.

È possibile concludere che, benché indiscutibilmente comode e comprensibili a tutti,

non è quindi propriamente corretto utilizzare le diciture di caso “nominativo”,

119 Blake (1994: 156).

53

Page 55: Origine e funzioni della particella giapponese wo

“accusativo”, “dativo” nel giapponese. Quindi se si dice che l'accusativo in giapponese

indica sia l'oggetto diretto che estensioni di tipo temporale si dovrà intendere soltanto

che la stessa particella wo esprime entrambe le funzioni, non che esiste un “caso

accusativo” in giapponese120.

Come visto, il termine kaku 'caso' (in kaku joshi) venne introdotto da Yamada nel

1908, probabilmente sotto l'impulso della diffusione degli studi di grammatica

occidentale che erano stati tradotti proprio nei primi anni dell'epoca Meiji. La

terminologia delle grammatiche occidentali venne rapidamente assorbita in Giappone e

applicata alla lingua autoctona: questo risultò quindi in una descrizione del giapponese

in cui si utilizzavano le stesse categorie delle lingue occidentali, applicate

indiscriminatamente ad una lingua invece molto diversa dal punto di vista tipologico e

strutturale121. È difficile scardinare questo (ormai) tradizionale metodo di descrizione,

che viene accettato indistintamente da studiosi autoctoni e occidentali, persino in testi

specializzati. Piuttosto che “particelle (o marker) di caso”, infatti, soltanto due autori

hanno proposto denominazioni differenti: Miller le chiama particelle referenti, che

occorrono dopo sostantivi ad indicare una relazione, Otoguro le chiama particelle post-

nominali, in base semplicemente alla loro posizione122.

Mantenendo quindi la distinzione fra funzioni grammaticali e concrete di un caso (o

in generale di un morfema), nel testo si tenterà di evitare la terminologia canonica di

“particella (o marker) di caso” e si utilizzerà una distinzione fra particelle con funzione

grammaticale e secondariamente concreta (wo, ni ad esempio) e particelle con funzione

principalmente concreta (kara, made, to). Per una questione di semplicità, entrambe le

tipologie verranno identificate come “particelle grammaticali”, sottolineando di volta in

volta, quando opportuno, la loro funzione propriamente grammaticale o concreta.

120 Otoguro (2006: 7)121 Miller (1967: 312-4). Un altro esempio di una parte del discorso sempre identificata in giapponese,

ma sul cui riconoscimento non si può che dubitare, è l'aggettivo.122 Miller (1967: 343). Purtroppo l'autore non spiega il perché di queste diciture. Il termine di Otoguro

(2006: 212; 214) include invece anche i suffissi per indicare il plurale e fa riferimento alla posizione di questi elementi, che seguono immediatamente il sostantivo.

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Page 56: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Capitolo 2

La classificazione e le funzioni della particella wo

Non vi è accordo fra gli studiosi nel suddividere le occorrenze di wo nel

giapponese antico e medio e nel classificare questa particella all'interno dei diversi

gruppi di Yamada (§1.1): wo viene categorizzata nei diversi studi come particella

grammaticale, di congiunzione, finale o interiezionale in base al suo significato o la sua

posizione nella frase123, mentre pochi studi sono stati condotti per classificare wo sulla

base di criteri formali e sintattici.

Come si vedrà, l'articolo più interessante a questo proposito è Kondō (1980), in cui

l'autore riconosce la confusione creatasi nella classificazione della particella, fino a quel

momento basata solo su criteri semantici o legati alla posizione: come è già stato detto, i

testi antico giapponesi sono principalmente poetici, quindi da un lato la posizione degli

elementi non è fissa e dall'altro l'interpretazione semantica può essere soggettiva ed

arbitraria. A causa di questo, le classificazioni risultano differenti di autore in autore.

Kondō invece, tentando di utilizzare criteri sintattici nella suddivisione, e grazie anche

alla enorme varietà di testi presi in esame (fra gli altri, le canzoni del 古事記 Kojiki, del

日本書紀 Nihonshoki, dei 風土記 Fudoki e dello 続日本紀 Shoku Nihongi, il 歌経標

式 Kakyō Hyōshiki, i 宣命 senmyō dello Shoku Nihongi, i 祝詞 norito dello 延喜式

Enghishiki)124, è riuscito a definire in modo molto rigoroso la distribuzione della

particella wo.

Un secondo elemento che si deve notare sin da ora, è che numerosi studiosi,

principalmente giapponesi, tendono a distinguere differenti “particelle wo” (wo come

particella grammaticale, wo interiezionale, wo congiunzione e via dicendo) e non

diverse funzioni attribuibili ad un unica particella: in diversi studi infatti si spiega

123 Kōji (1988) riporta numerosi studi precedenti in cui wo viene inclusa in tutte e quattro questecategorie, Konoshima (1966) cita invece soltanto l'utilizzo come particella interiezionale e comeparticella grammaticale, Iwai (1974) riporta numerosi esempi riguardo l'utilizzo grammaticale e trattasolo brevemente l'uso come particella di congiunzione.

124 Kondō (1980: 51). Kojiki (712) e Nihonshoki (720) narrano le origini mitologiche del Giappone edella casa imperiale, i Fudoki sono documenti e registri delle province del Giappone antico, lo ShokuNihongi (797) riporta le decisioni imperiali del periodo (appunto senmyō), il Kakyō Hyōshiki (772) èuno studio sulla poesia dell'epoca, lo Engishiki (927) riporta usi, costumi e leggi del periodo, e lepreghiere, dette norito.

55

Page 57: Origine e funzioni della particella giapponese wo

espressamente che queste diverse particelle wo avrebbero una differente origine, o che

comunque la loro origine comune non sarebbe mai stata provata125. Diversa invece è la

posizione di molti studiosi occidentali, che ritengono di essere di fronte ad un'unica

particella wo, le cui funzioni sono via via grammaticale, concreta, interiezionale e così

via: infatti, dal punto di vista funzionale, le differenti funzioni di wo possono essere

facilmente connesse l'un l'altra.

2.1 La particella wo in funzione di particella grammaticale

Nella sua funzione di particella grammaticale, nei differenti studi si afferma

spesso che la particella wo esprima il caso accusativo ( 目的格 mokutekikaku lett. 'caso

oggetto' oppure 対 格 taikaku, termine utilizzato proprio per tradurre 'caso

accusativo')126. Come si è detto, la categoria del caso non è propriamente riconoscibile

in giapponese, ma si deve pur dare atto che le funzioni prototipiche della particella

grammaticale wo sono comparabili con quelle del caso accusativo indoeuropeo,

descritte precedentemente (§1.2.2).

Konoshima127 afferma che la funzione di wo in giapponese corrisponderebbe sì a

quella dell'accusativo nelle lingue indoeuropee, ma non perfettamente: secondo l'autore,

l'accusativo indoeuropeo esprimerebbe soltanto l'oggetto di un verbo transitivo mentre

la particella giapponese avrebbe anche molti altri utilizzi, che non apparterrebbero al

caso accusativo delle lingue occidentali. Ad esempio, wo viene utilizzato comunemente

per esprimere il moto per luogo ( 道を行く michi wo iku 'andare per la strada'), il tempo

( 一日を遊ぶ ichinichi wo asobu 'giocare tutto il giorno'), moto da luogo (門を出る

mon wo deru 'uscire dal cancello'). Chiaramente, a differenza di quanto ritiene

Konoshima, questi utilizzi possono essere in realtà sovrapponibili con quelli avverbiali

dell'accusativo nelle lingue indoeuropee (§1.2.2): i primi due esempi ricordano

l'accusativo di estensione spaziale e temporale, mentre nell'ultima frase l'utilizzo di wo

differisce da quello dell'accusativo indoeuropeo, in quanto il moto da luogo, ad

125 Questa è la posizione che sostengono, ad esempio, Kondō (1980: 64-5) e Matsuo (1938: 1412).126Fra gli altri, si possono citare Shibatani (1990) e Frellesvig (2010).127Konoshima (1966: 60). Konoshima parla di 国語 kokugo 'lingua nazionale' in generale, quindi

sembrerebbe che la sua affermazione sia relativa al giapponese moderno.

56

Page 58: Origine e funzioni della particella giapponese wo

esempio, in sanscrito è espresso in ablativo, allo stesso modo in latino, per lo più con

preposizione, mentre in accusativo si esprime il moto a luogo ma anche, con

preposizione, il moto per luogo .

Questi utilizzi di wo non emergono nella lingua moderna. Infatti, anche nell'antico e

medio giapponese, la particella wo seguiva sostantivi e frasi nominalizzate (con o senza

nominalizzatore)128, ma anche alcune particelle avverbiali129, e poteva esprimere

l'oggetto di un verbo transitivo, il moto per luogo, il moto da luogo, l'oggetto di una

azione causativa. Poteva inoltre apparire in combinazione con altre forme come にて

nite, per esprimere assunzione o supposizione, o con il suffisso み mi in una costruzione

denominata ミ語 法 mi-gohō, per esprimere una proposizione causale.

2.1.1 La funzione grammaticale di wo

Si ritiene generalmente che la funzione principale di wo fosse, come nella lingua

odierna, quella di marcare l'oggetto diretto, ad esempio130:

父母 を 見れば 尊し

titipapa wo mire-ba taputoshi

genitori- OGG guardare.IZ-TEMP venerabile.SS

'quando guardo i miei genitori, sono degni di venerazione'

(Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 800).

Questa funzione della particella sarebbe quindi rimasta quella fondamentale lungo

tutta la storia della lingua giapponese, ad esempio nel seguente esempio di Vovin in

giapponese classico131:

128 Shirane (2005: 159-161).129 Iwai (1974: 352).130 Hashimoto (1969: 110). Per altri esempi si veda Iwai (1974: 352-353).131 Vovin (2003: 65). Per la sua analisi dell'utilizzo della particella fino al periodo Nara, nella sua ipotesi

in cui il giapponese antico viene visto come lingua con un allineamento attivo, si veda §4.1.4.

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Page 59: Origine e funzioni della particella giapponese wo

この 子 を 見つけて 後

kono ko wo mituke-te noti

questa bambina-OGG trovare.RY-GER dopo

'dopo aver trovato questa bambina' (Taketori Monogatari 竹取物語, I).

L'oggetto poteva essere anche una frase nominalizzata, in forma attributiva e spesso

(ma non sempre) accompagnata da un nominalizzatore come こと koto. In questo

esempio il nominalizzatore non è presente:

あさまの たけに けぶりの たつを 見て

asama no take ni keburi no tatu wo mi-te

Asama-ATTR vetta-LOC fumo-SOGG alzarsi.RT-OGG vedere.RY-GER

'vedendo che il fumo si alzava sulla vetta di Asama'

(Ise Monogatari 伊勢物語, VIII).

La sua funzione grammaticale fondamentale sarebbe quindi l'espressione

dell'oggetto diretto in una frase transitiva attiva (ruolo del paziente/tema in un verbo

bivalente132), ma differenti ipotesi sono state formulate – come si vedrà (§4.1) – riguardo

diverse o ulteriori funzioni della particella e quindi riguardo il possibile allineamento

morfosintattico del giapponese antico. La base che sorregge la formulazione di queste

differenti ipotesi è il fatto che, da un lato wo ha anche molte altre funzioni oltre a quella

di marcare l'oggetto e dall'altro molte occorrenze dell'oggetto in giapponese antico non

erano affatto marcate da alcuna particella.

Le diverse posizioni degli studiosi verranno analizzate in §4.1, per ora verranno

accennate soltanto le differenti teorie. Alcuni studiosi ritengono che wo sarebbe sin dalle

prime attestazioni una particella dell'oggetto diretto in un sistema nominativo-

accusativo e che i casi in cui l'oggetto non era marcato sarebbero definibili come “case

drop”; una differente teoria vorrebbe provare che wo fosse una particella con funzione

assolutiva in un allineamento ergativo-assolutivo; una terza posizione identifica wo

come una particella che esprimerebbe il paziente in un allineamento attivo-stativo, e due

132 Motohashi (1989: 51); Katō (2006: 144).

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Page 60: Origine e funzioni della particella giapponese wo

diverse proposte sono state formulate: da un lato wo si comporterebbe in alcuni casi

come una marca di caso pazientivo, ma di preferenza l'allineamento sarebbe quello

nominativo-accusativo, dall'altro l'allineamento attivo sarebbe limitato solo alle

subordinate, in cui l'oggetto diretto, di base, non verrebbe marcato e wo lo marcherebbe

solo quando l'oggetto è specifico133.

Una lingua in cui si marca allo stesso modo l'attante di un verbo monovalente e

l'agente di un verbo bivalente (caso134 nominativo), mentre con una marca differente si

esprime il paziente del verbo bivalente (caso accusativo) è denominata nominativo-

accusativa. Viceversa, una lingua in cui il paziente di un verbo bivalente è espresso con

la stessa marca dell'attante del verbo monovalente (caso assolutivo), mentre l'agente del

verbo bivalente è espresso differentemente (caso ergativo), è denominata ergativo-

assolutiva. Lingua attivo-stativa è una lingua in cui i verbi monovalenti sono

differenziati in base al ruolo semantico dell'attante: quando questo è un agente, è

codificato come l'agente del verbo bivalente, quando questo è un paziente è marcato

come il paziente del verbo bivalente. Benché grazie agli esempi visti fino ad ora

potrebbe sembrare che la funzione fondamentale di wo sia proprio quella dell'esprimere

l'oggetto diretto, quindi, non vi è affatto accordo a riguardo: wo potrebbe non essere

stata la marca di default dell'oggetto ma essere utilizzata solo in caso di oggetto

specifico, o potrebbe aver espresso altre relazioni grammaticali, oppure la particella

potrebbe esser stata legata ad un ruolo semantico come il paziente. Gli studiosi non sono

quindi affatto concordi nell'identificare le sue funzioni.

133 Riguardo la prima teoria, si veda Wrona (2007b) e Wrona&Frellesvig (2009) (§4.1.3).Sull'allineamento ergativo si veda Yanagida (2005) e Motohashi (2009) (§4.1.2). Sulle due proposteriguardo l'allineamento attivo, da un lato Vovin (1997; 2005), dall'altro Whitman&Yanagida (2009;2012) (§4.1.4). Per una spiegazione in generale sul problema dell'allineamento morfosintattico si veda§4.1.1.

134 Per identificare i diversi allineamenti, si utilizza la terminologia dei diversi casi (nominativo,accusativo, ergativo e così via). Chiaramente, la codifica tramite casi grammaticali è una delletecniche più utilizzate di marcatura grammaticale dei ruoli semantici, ma identificare la categoria delcaso in una lingua non è affatto necessario per connetterla con uno dei possibili allineamentimorfosintattici: ciò che è importante è che i due ruoli semantici principali (agente e paziente)ricevano o meno lo stesso trattamento formale (a prescindere quindi dalla categoria del caso). Questadistinzione è quindi valida anche per le lingue che non utilizzano la flessione (casi sintetici, come lidefiniva Blake), ma particelle, adposizioni e così via (casi analitici in Blake), per marcare i ruolisemantici fondamentali.

59

Page 61: Origine e funzioni della particella giapponese wo

2.1.2 Le funzioni concrete di wo

Quanto alle funzioni concrete della particella, queste sono principalmente legate

alle espressioni del luogo e del tempo e risultano – come già accennato – comparabili

con quelle dell'accusativo nelle lingue indoeuropee antiche.

Quando il verbo che segue esprimeva un attraversamento, un passaggio, la particella

indicava il luogo attraverso cui si passa135. Verbi come 越ゆ koyu 'attraversare' (odierno

越える koeru), 渡る wataru 'passare', 過ぐ sugu 'passare' (odierno 過ぎる sugiru), ma

anche verbi come ありく ariku 'camminare' (odierno 歩く aruku) o 行く yuku 'andare',

reggevano in giapponese antico la particella wo, che marcava il moto per luogo.

大阪 を  わが 越え来れば

Ōsaka wo wa ga koekure-ba

Ōsaka-PART io-SOGG passare.IZ-TEMP

'quando passo per Ōsaka' (Man'yōshū 万葉集, maki 10, n. 2185).

Motohashi136 definisce questa funzione “route”, identificabile con il ruolo semantico

di “path” 'percorso': la particella wo viene ancora utilizzata in questa funzione, e si trova

spesso in opposizione alla particella ni, che invece veniva e viene tutt'oggi utilizzata per

esprimere il moto a luogo (l'opposizione fra 道を歩くmichi wo aruku 'camminare lungo

la strada' e 道に歩く michi ni aruku 'camminare verso la strada')137. Questo utilizzo di

wo è comparabile con quello dell'accusativo di estensione a livello spaziale nelle lingue

indoeuropee.138

Quando il verbo esprimeva un allontanamento o un abbandono, la particella

identificava il luogo di partenza, che avrebbe potuto anche essere espresso da より yori,

ma il sostantivo non poteva mai occorrere senza alcuna particella139. Si tratta di verbi

come 離る panaru 'allontanarsi' (odierno 離れる hanareru), 別る wakaru 'separarsi,

135 Hashimoto (1969: 110); Iwai (1974: 353).136 Motohashi (1989: 52).137 Kuno (1973: 96-101).138 Si confronti ad esempio il greco ἄγειν στρατιὰν στενὰς ὁδούς 'condurre gli eserciti per strade strette'

(Senofonte, Ciropedia 1.6.43).139 Per l'alternanza con yori, si veda Vovin (2003: 68). Sull'impossibilità dell'occorrenza senza particelle

Motohashi (1989: 85).

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Page 62: Origine e funzioni della particella giapponese wo

lasciarsi' (odierno 別れる wakareru), 出づ idu 'andar via, uscire' ( 出る deru del

giapponese moderno). La particella identificava quindi il moto da luogo, ad esempio:

逢阪にて 人を わかれける 時

Ōsaka nite pito wo wakare-keru toki

Ōsaka-LOC persona-PART separarsi.RY-PASS.RT tempo

'quando ci si separa da una persona a Ōsaka'

(Kokinshū 古今集, introd. alla poesia n. 374).

Esprime la funzione definita da Motohashi140 “source”, quindi il ruolo semantico di

'origine'. Con verbi come 出る deru 'uscire' o 降りる oriru 'scendere', la particella wo

viene ancora utilizzata in questa funzione anche nella lingua moderna, ad esempio 馬を

おりる uma wo oriru 'scendere da cavallo'.

Per quanto riguarda verbi di allontanamento come wakaru, già Rodriguez, nel suo

Arte da Lingoa de Iapam del 1604, notava che venissero usati indistintamente wo

oppure ni141, ed ancora oggigiorno la particella wo può essere sostituita in questo

utilizzo da kara o ni. Numerose ipotesi sono state formulate per dare una spiegazione a

questa alternanza nella lingua moderna: wo può essere usata se il soggetto della frase è

animato, se l'azione è involontaria o non c'è controllo da parte del soggetto, quando è

espressa anche la destinazione, quando il luogo di partenza non è preciso142. Katō e

Hashimoto ipotizzano che questa alternanza sia dovuta a una sfumatura semantica.

Riguardo l'alternanza con ni, Hashimoto propone che l'utilizzo di wo ( 人をわかる hito

wo wakaru) sia legato al fatto che le persone si allontanino dalle altre, mentre la

presenza di ni ( 人にわかる hito ni wakaru) sottolinei il fatto che sia il soggetto ad

allontanarsi da altre persone che invece rimarrebbero sul posto. Katō invece studia

l'alternanza di wo e kara e ipotizza che quando siano presenti diverse alternative, kara

fungerebbe quasi da particella restrittiva a sottolineare la scelta fra le diverse alternative,

mentre wo sarebbe utilizzata nel caso non ci fossero altre possibilità.

140 Motohashi (1989: 51).141 Si veda Iwai (1974: 356-7) e Hashimoto (1969: 110-1) riguardo la sostituzione di wo con ni nel

giapponese moderno. Rodriguez (1604: 101).142 Si veda Katō (2006: 153-62) riguardo le differenti teorie. La teoria propria di Katō è a p. 161. Si veda

anche Hashimoto (1969: 111).

61

Page 63: Origine e funzioni della particella giapponese wo

In alcuni testi si legge che wo avesse anche funzione di marca del moto a luogo, ma

l'unico esempio che viene portato come prova143 non è affatto convincente:

象の 小川 を  行きて 見む ため

Kisa no wogapa wo yuki-te mi-mu tame

Kisa-ATTR ruscello-PART andare.RY-GER vedere.MZ-CONG.RT scopo

'allo scopo di andare e vedere il ruscello Kisa' (Man'yōshū 万葉集, maki 3, n.332).

Nessun altro esempio viene portato a testimonianza. È anche possibile che, in questo

particolare esempio, la particella wo esprima l'oggetto diretto, legato al verbo 見る miru

'vedere', piuttosto che un moto a luogo connesso con il verbo 行く yuku 'andare'.

Inoltre, come nota Russell nel suo articolo sui verbi di moto in antico giapponese, il

moto a luogo può essere espresso tramite numerose particelle, fra cui la particella

dell'oggetto indiretto ni utilizzata in funzione concreta, ma non viene mai citata wo144.

Russell nota anche, però, che il verbo yuku può reggere wo in funzione di espressione di

moto per luogo, ed è quindi forse preferibile riconoscere questa funzione alla particella

wo nell'esempio sopra, piuttosto che la funzione di espressione del moto a luogo.

Motohashi, che riconosce la funzione legata al 'percorso' espressa da wo in

connessione con yuku, attribuisce comunque a questa particella la capacità di esprimere

il “goal” (quindi il ruolo semantico della 'destinazione')145. Questa funzione è espressa in

otto frasi del Man'yōshū in cui è presente il verbo さす sasu 'avere come meta,

perseguire', ad esempio:

渋谿を さして 我が 行く この 浜に

Sibutani wo sashi-te wa ga yuku kono pama ni

Shibutani-PART mirare.RY-GER io-SOGG andare.RT questa spiaggia-LOC

'in questa spiaggia su cui vado, mirando verso Shibutani'

(Man'yōshū 万葉集, maki 19, n. 4206).

143 Whitman&Yanagida (2009: 124).144 Russell (2013: 6). L'utilizzo della particella quindi, in questo, differirebbe dall'utilizzo dell'accusativo

nelle lingue occidentali.145 Motohashi (1989: 52; 71-2). Motohashi segue Kōji (1988: 224-5).

62

Page 64: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Oltre al verbo sasu, Motohashi enumera numerosi altri verbi che reggono la

particella wo con funzione semantica di destinazione, ed il significato di questa funzione

viene assimilato da Konoshima alla costruzione giapponese moderna に向かって ni

mukatte 'nei confronti di, verso'146.

Uno di questi verbi è あふ apu (au in giapponese moderno) 'incontrare'. Hashimoto

spiega però che dato che il verbo apu, in concomitanza con wo, occorre soltanto nella

forma composta 相見る apimiru, dal significato letterale di “guardarsi reciprocamente”,

è probabile che, anche in questo caso, la particella si riferisse al verbo 見る miru

“guardare”147. Questo utilizzo di wo sarebbe quindi riconducibile alla sua funzione

primaria, ovvero l'espressione dell'oggetto. Ad esempio:

妹 を あひみて

imo wo api-mi-te

amata-OGG incontrare.RY-guardare.RY-GER

'guardandoci con l'amata' (Man'yōshū 万葉集, maki 12, n. 3141).

In realtà anche in giapponese classico si trovano occorrenze di questo verbo in

connessione con la particella wo, anche se molto più frequentemente il verbo apu regge

ni. Si possono confrontare due frasi, entrambe dal Taketori Monogatari:

かぐや姫 を かならず 婚はむ 

Kaguya pime wo kanarazu apa-mu

Kaguya principessa- PART assolutamente incontrare.MZ-CONG.SS

'pensava di sposare sicuramente Kaguya-hime' (Taketori Monogatari 竹取物語, VI);

男 は 女に 婚ふ こと を す、

wotoko pa wonna ni apu koto wo su,

uomini-TOP donne-PART incontrare NMLZ-OGG fare.SS,

146 Konoshima (1966:65).147 Hashimoto (1969: 111).

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Page 65: Origine e funzioni della particella giapponese wo

女 は 男に 婚ふ こと を す

wonna pa wotoko ni apu koto wo su

donne-TOP uomini-PART incontrare NMLZ-OGG fare.SS

'gli uomini si uniscono alle donne, le donne gli uomini'

(Taketori Monogatari 竹取物語, II).

Il verbo apu, in giapponese antico, oltre che il senso generale di 'incontrare' (che

pure ha in alcuni casi), ha anche il significato di 'sposarsi', 'unirsi (in matrimonio)', ed

infatti nel Taketori Monogatari viene sempre utilizzato il logogramma 婚, che si ritrova

nel giapponese moderno 結婚する kekkon suru 'sposarsi'. Delle dodici totali occorrenze

di apu nel Taketori, eccezion fatta per tre casi in cui il verbo non appare connesso ad

alcun sostantivo e due occorrenze in cui l'oggetto non è marcato da particelle, apu regge

sempre ni. L'unico caso in cui regge wo è il primo esempio citato.

Altri esempi portati da Motohashi di verbi che reggono wo con funzione di

“destinazione” sono 問ふ topu (giapponese moderno tou) 'chiedere', 祈る inoru e 祈む

nomu 'pregare', ma anche 答ふ kotapepu o irapu (kotaeru nel giapponese moderno)

'rispondere', 背く somuku 'trasgredire, ribellarsi, offendere', ad esempio:

神 を 祈りて

kami wo inori-te

dei-PART pregare.RY-GER

'pregando gli dei' (Man'yōshū 万葉集, maki 7, n. 1232).

Nel giapponese moderno tutti questi verbi si costruiscono con ni: Motohashi spiega

che questo mutamento era già in fieri in antico giapponese e sembra suggerire che nel

periodo in cui fu scritto lo 平家物語 Heike Monogatari148 (la prima parte del 1300) la

particella ni avesse già sostituito stabilmente wo in questa funzione. L'autore riporta

numerosi esempi tratti dallo Heike Monogatari in cui questi verbi reggono ni, ma già

nel giapponese antico si trovano anche frasi come la seguente:

148 Lo Heike Monogatari narra la guerra nota con il nome di Genpei (1180-1185) fra le due casate deiTaira 平 (da cui il nome Heike 平家) e dei Minamoto 源.

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Page 66: Origine e funzioni della particella giapponese wo

神に そ 我が 祈む

kami ni so wa ga nomu

dio-PART ENF io-SOGG pregare.SS

'prego gli dei' (Man'yōshū 万葉集, maki 13, n. 3283).

Rodriguez149 definisce questi verbi che reggono alternativamente wo o ni come

“verbi neutri che reggono l'accusativo o il dativo”: somuku (somuqu nella trascrizione

dell'autore) può reggere デウスを deusuo o デウスに deusni 'disobbedire a Dio'. Si

può dedurre che quindi la sostituzione di wo con ni non era ancora avvenuta del tutto

nel 1600, al contrario di quanto visto in Motohashi, e che questa alternanza si trova sin

dai testi più antichi.

Non è ben chiaro il motivo dell'alternanza fra wo e ni nella costruzione di questi

verbi e diverse ipotesi sono state formulate. Konoshima150 cita la teoria di Yamada

Yoshio. Egli ritiene che sia wo che ni, in connessione a questi verbi, esprimerebbero

l'oggetto diretto, con la differenza che wo esprimerebbe l'oggetto dinamico, dove ni

esprimerebbe l'oggetto statico. Nel Taketori però, a parità di oggetto (ad esempio, かぐ

や姫 la principessa Kaguya), vengono usati sia wo sia ni; inoltre ni viene utilizzato sia

quando apu indica 'andare incontro' (ad una persona che sta arrivando, nella fattispecie),

sia quando indica 'sposarsi', a prescindere quindi dalla staticità dell'oggetto. Una

differente proposta è invece sostenuta da Konoshima stesso: dato che, come visto, in

tutti questi utilizzi che possiamo definire concreti, wo può essere sostituita non solo da

ni ma anche da yori (o da to, riporta l'autore), egli interpreta queste occorrenze di wo

come una particella interiezionale (una kantō joshi) che andrebbe a sostituire la

particella necessaria. Konoshima è infatti uno degli studiosi che ritiene che tutte le

occorrenze di wo che non possano essere classificate espressamente come particella di

oggetto diretto siano da identificarsi con una occorrenza della particella interiezionale

omofona (Cap. 3). L'autore riporta numerosi esempi a supporto di questa sua teoria, ma

alcuni di questi contravvengono ad uno dei criteri sintattici stabiliti da Kondō (1980) per

riconoscere a quale delle differenti categorie di particelle appartiene quella analizzata151.

149 Rodriguez (1604: 101).150 Konoshima (1966: 66). Si veda lo stesso Konoshima (1966: 65-7) per la proposta propria dell'autore.151 Come si vedrà, Kondō ritiene che esistano tre diverse particelle omofone wo, la cui origine non deve

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Page 67: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Uno di questi criteri infatti, come si vedrà (§2.1.3), è il seguente: solo la particella

grammaticale (kaku joshi) wo può essere accompagnata da altre tipologie di particelle

(ad esempio quelle restrittive o quelle pragmatiche), mentre quando wo viene

riconosciuta come una particella interiezionale o finale questo non è possibile.

Konoshima riporta alcuni esempi in cui questo avviene, ad esempio:

あこぎを だに いかで あはむ

akogi wo dani ikade awa-mu

Akogi-PART almeno a tutti i costi incontrare.MZ-DES.SS

'voglio a tutti i costi incontrare almeno Akogi' (Ochikubo Monogatari 落窪物語, I).

In questa frase wo è seguita dalla particella restrittiva dani, mentre in altri esempi di

Konoshima si trova anche la particella di focus zo. In base al criterio di Kondō, quindi,

quelle riportate da Konoshima sono occorrenze di wo in funzione grammaticale e non

interiezionale.

Devono essere sottolineati due aspetti. Da un lato che, se è vero che il ruolo

semantico connesso a questi verbi è quello della destinazione (goal), non sembra affatto

illogico che wo, che ha funzione di destinazione solo con questi verbi, alterni con ni, che

invece è la particella che esprime il ruolo della destinazione con tutti i verbi. Dall'altro,

apu 'incontrare', topu 'chiedere', inoru e nomu 'pregare', kotapepu o irapu 'rispondere',

somuku 'ribellarsi', sono tutti “interaction verbs” (Blume 1998). I verbi di interazione

sono verbi bivalenti che hanno tipicamente due attanti senzienti e sono divisi in: verbi di

comunicazione (topu 'chiedere', kotapepu 'rispondere'), verbi di moto (apu 'incontrare') e

verbi legati all'obbedire (quindi anche somuku 'ribellarsi'). Blume ha notato che questi

verbi invece di reggere l'accusativo possono reggere il dativo. In giapponese moderno

infatti questi verbi reggono la particella ni (particella che viene glossata come “dativo”,

caso con cui condivide effettivamente molte funzioni), anche se possono comunque

alternare con la particella to (la sfumatura che questa alternanza implica è la reciprocità

dell'azione: se è presente ni l'azione è unidirezionale, se invece è presente to l'azione è

necessariamente essere comune: l'autore non riconosce quindi affatto un'unica particella a cuiattribuire differenti funzioni ma vere e proprie particelle differenti.

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Page 68: Origine e funzioni della particella giapponese wo

reciproca152). In giapponese antico questi verbi reggono alternativamente ni, particella

che in tutte le fasi del giapponese esprime la direzione, oppure wo, che esprimeva nella

lingua antica la direzione solo in connessione a questi verbi ed i cui utilizzi sono andati

pian piano riducendosi.

Infatti, oltre a numerose funzioni che – come si è visto – la particella ha mantenuto

anche nel giapponese moderno, alcuni impieghi che la particella wo aveva nel

giapponese antico sono caduti in disuso153.

Una di queste ulteriori funzioni concrete, anch'essa affine all'accusativo

indoeuropeo, è quella temporale. La particella esprimeva il tempo continuato in cui

l'azione espressa dal verbo viene svolta. Ad esempio:

長き 夜を ひとりや 寝む

nagaki yoru wo pitori ya ne-mu

lunga.RT notte-PART da solo-INTER dormire.MZ-CONG.SS

'dormirò da solo in questa lunga notte?' (Man'yōshū 万葉集, maki 3, n. 462);

このくにに あまたの 年を 経ぬる

kono kuni ni amata no toshi wo pe-nuru

questo paese-LOC molti-ATTR anni-PART passare.RY-PERF.RT

'passare molti anni in questo paese' (Taketori Monogatari 竹取物語, IX).

Questo impiego della particella wo è controverso, ed infatti non tutti gli studiosi sono

concordi da un lato nel riconoscere a wo questa funzione, dall'altro nell'identificarla

ancora nel giapponese moderno154. Iwai ad esempio non fa affatto menzione di questo

possibile utilizzo. Hashimoto scrive invece che wo può esprimere il tempo in

connessione con verbi che indicano 'passare, scorrere' ( 経 過 keika) ma afferma

espressamente che questa sarebbe una delle funzioni di wo non più attestate in

giapponese moderno, e riporta l'esempio seguente:

152 Kuno (1973: 102-7).153 Per semplicità, si segue Hashimoto (1969) nella divisione fra le funzioni ancora in uso e quelle ormai

scomparse, anche se, come si vedrà, non sempre la distinzione di Hashimoto sembra esatta.154 I riferimenti degli studiosi citati di seguito sono: Hashimoto (1969: 112); Konoshima (1966: 65); Iwai

(1974); Vovin (2003: 66-8) e (2005: 169-170);

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Page 69: Origine e funzioni della particella giapponese wo

年の 八年を 待てど

toshi no ya-tose wo mate-do

anni-ATTR otto-CLASS-PART aspettare.IZ-CONC

'benché abbia aspettato tutti questi anni' (Man'yōshū 万葉集, maki 16, n. 3865).

Anche Konoshima riconosce questa funzione di wo, e la mette in parallelo con

l'impiego di questa particella per esprimere il moto per luogo: l'autore scrive che

sostanzialmente le due funzioni sono identiche, in quanto da un lato wo esprime

l'estensione spaziale, dall'altro l'estensione temporale155. Al contrario di Hashimoto,

però, Konoshima riporta l'utilizzo di wo in funzione temporale anche nella lingua

contemporanea, nella frase 一日を遊ぶ ichinichi wo asobu 'giocare tutto il giorno'.

Vovin non riconosce questa funzione come un impiego particolare ma ne inserisce

alcuni esempi fra quelli che chiama “peculiarities of usage”, in cui include anche tutte le

funzioni locative citate precedentemente. Vovin scrive che alcuni verbi di moto reggono

wo, e fra questi elenca da un lato wataru 'attraversare', sugu e 経 pu (odierno 経る heru)

'passare' (quindi i verbi che reggono il complemento di moto per luogo), dall'altro verbi

come panaru o tatu 'lasciare, partire' (verbi che reggono il moto da luogo). Fra gli

esempi del primo gruppo cita proprio alcune frasi in cui questi stessi verbi reggono

espressioni legate al tempo, come ad esempio:

年を 経て よばひ わたりける

toshi wo pe-te156 yobapi watari-keru

anni-PART trascorrere.RY-GER visita notturna passare.RY-PASS.RT

'(le) faceva visite notturne durante gli anni' (Ise Monogatari 伊勢物語, VI).

Un generale accordo fra gli studiosi si trova soltanto quindi nell'identificare i verbi

da cui la particella wo (in questa funzione) può essere retta: sono verbi connessi ad un

155 Si noti che l'affinità fra le due funzioni era stata notata anche nell'accusativo indoeuropeo ed era stataspiegata da Luraghi (2009: 145-6) in ottica cognitiva, grazie alla metafora, attraverso cui dall 'utilizzospaziale si giungeva a quello temporale (§1.2.2).

156 Si deve notare che, anche se nella traduzione della frase è riportato “durante gli anni”, in realtà ilsostantivo toshi 'anni' marcato da wo è retto dal verbo peru 'passare', mentre il verbo successivowataru regge yobapi e non toshi. Una traduzione più letterale sarebbe “passavano gli anni e (le)faceva visite notturne”.

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Page 70: Origine e funzioni della particella giapponese wo

generale senso di 'passare, trascorrere'. Con verbi analoghi, wo viene tutt'ora utilizzata:

comunissime sono espressioni come 時間をかける jikan wo kakeru 'impiegare tempo',

時間を過ごす jikan wo sugosu 'passare il tempo', con verbi transitivi. Rimane il dubbio

se identificare queste occorrenze di wo come una marca del complemento di tempo

continuato o di oggetto, ed infatti nel giapponese moderno sono anche molto diffuse

espressioni con verbi intransitivi come 時間が立つ jikan ga tatsu 'il tempo passa', 3年

が過ぎた san-nen ga sugita 'tre anni sono trascorsi', in cui jikan 'tempo' e 3 年 san-nen

'tre anni' sono identificabili come soggetti. Nel giapponese antico invece, tutti questi

verbi sono intransitivi e reggono wo soltanto nell'espressione di tempo o luogo: Vovin li

chiama “quasi-intransitivi”, rifacendosi alla terminologia di Samuel Martin, che in

questo modo identificava verbi che possono reggere wo ma non possono essere costruiti

in forma passiva157. Questi verbi “quasi-intransitivi”, però, sembrano reggere wo non

tanto in qualità di marca di complemento di tempo o luogo quanto piuttosto come marca

dell'oggetto, anche se poi non è possibile trasformare questo oggetto nel soggetto della

passiva corrispondente.

Non sono affatto numerosi, nei testi antichi, esempi con verbi differenti da questi, ma

è possibile comunque notare che wo segnalava il tempo continuato con verbi come

'vivere' o 'stare'. Motohashi158 riporta due esempi, il primo dei quali viene proposto

anche da Konoshima:

雨 の 降る 日を ただ

ame no puru pi wo tada

pioggia-ATTR cadere.RT giorno-PART soltanto

157 Vovin (2003: 66). L'unico tipo di passiva che questi verbi possono formare è quella avversativa oindiretta, che esprime il fatto che il soggetto è negativamente influenzato dall'azione. Questo tipo dipassiva può essere costruita anche con verbi intransitivi (come in questo caso), oltre che chiaramentecon verbi transitivi: con verbi transitivi, l'oggetto della frase attiva non diventa soggetto della passivaindiretta (come accade in una passiva diretta), ma appare anche in questa come oggetto. Ad esempio:Frase attiva: Hanako ga piano wo hiku

Hanako-SOGG pianoforte-OGG suonare'Hanako suona il pianoforte'

Frase passiva indiretta: Tarō wa Hanako ni piano wo hika-reruTarō-TOP Hanako-AG pianoforte-OGG suonare-PASV'Tarō è negativamente influenzato dal fatto che Hanako suoni il pianoforte'

Si veda Shibatani (1990: 317-33) per ulterirori spiegazioni e numerosi altri esempi.158 Motohashi (1989: 98-9).

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Page 71: Origine e funzioni della particella giapponese wo

ひとり 山辺 に をれば

pitori yama-be ni wore-ba

da solo montagna-dintorni LOC essere.IZ-CAUSAL

'stando tutto solo ai piedi della montagna in un giorno piovoso'

(Man'yōshū 万葉集, maki 4, n. 769);

年ごろを 住みし 所

toshigoro wo sumi-shi tokoro

tanti anni-PART vivere.RY-PASS.RT luogo

'il luogo dove ho vissuto molti anni' (Tosa Nikki 土佐日記, 1.29).

In queste frasi, wo segnala il tempo continuato durante cui si svolge l'azione. Anche

Motohashi connette questa funzione a quella di estensione spaziale ed al ruolo

semantico di “path”, 'percorso', e, come Hashimoto, ritiene che questo impiego sia

caduto in disuso nel giapponese moderno.

Come già detto, questo utilizzo di wo può essere messo in parallelo con quello

dell'accusativo di estensione temporale nelle lingue indoeuropee: si può confrontare un

esempio in latino come Multos annos nostrae domi vixit 'visse molti anni nella nostra

casa' (Cicerone, Tusculanae Disputationes L.5.113) con l'ultimo esempio proposto in

giapponese Toshigoro wo sumishi tokoro 'il luogo dove ho vissuto molti anni'.

Una ulteriore funzione della particella wo, che secondo Hashimoto sopravvisse

soltanto fino al periodo Heian ed è ormai scomparsa, è quella dell'espressione del

“cognate object”. La costruzione del cognate object o figura etymologica159 si ha

quando il sostantivo è etimologicamente o semanticamente connesso con il verbo

(transitivo o intransitivo). Anche nelle lingue indoeuropee, come si è visto, la

costruzione del cognate object regge l'oggetto in accusativo, il cosiddetto “accusativo

dell'oggetto interno”. L'esempio che riporta Hashimoto160 è preso da una poesia del

Man'yōshū, in cui la costruzione del cognate object è espressa tramite il sostantivo い i

'sonno' e il verbo 寝 nu 'dormire':

159 Jespersen (1924: 138-40).160 Hashimoto (1969: 112).

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Page 72: Origine e funzioni della particella giapponese wo

い を 寝ず 居れば

i wo ne-zu wore-ba

sonno-OGG dormire.MZ-NEG.RY esistere.IZ-CAUSAL

'poiché continuavo a non dormire'161 (Man'yōshū 万葉集, maki 20, n. 4400).

Stessa identica espressione si ritrova una volta nel Taketori Monogatari, con la

particella も mo, particella enfatica che sostituisce wo: nelle note dell'edizione critica, si

legge che questa espressione costituirebbe una frase fissa ormai utilizzata soltanto come

frase idiomatica162.

夜 は 安く 寝も 寝ず

yoru pa yasuku i mo ne-zu

notte-TOP tranquillamente.RY sonno-TOPEN163 dormire.MZ-NEG.RY

'non dormendo nemmeno un sonno tranquillo la notte'

(Taketori Monogatari 竹取物語, II).

Iwai presenta una più ampia casistica, che spazia dal Man'yōshū ai Monogatari di

epoca Heian, dei casi in cui “[wo] esprime come oggetto una cosa il cui concetto sia

simile all'azione”164: Iwai parla espressamente di “concetto che somiglia al significato

del verbo”, riferendosi quindi principalmente ai casi in cui sostantivo e verbo sono

riferiti alla stessa area semantica, e non a connessioni etimologiche. L'autore cita

espressioni come いを寝 i wo nu 'dormire un sonno', 音を泣く ne wo naku 'piangere

rumorosamente' (lett. “piangere un suono”), 香をにほふ ka wo nipopu 'sentire un

odore'.

Un interessante fatto notato da Iwai è che le occorrenze di wo nella costruzione del

161 Vovin (2013: 163) afferma che questo rappresenta l'unico esempio di negativa -zu seguita dal verbo diesistenza e indicava un aspetto continuativo negativo. Rare sono anche le occorrenze del verbo diesistenza preceduto dall'infinitiva positiva, ed anche di queste Vovin ricostruisce un aspettocontinuativo.

162 Noguchi (1979: 11).163 Come già detto, も mo è una particella pragmatica, identificata in Frellesvig (2010: 132) come topic

enfatico come a dire 'anche, perfino', in opposizione a は pa > wa topic contrastivo, in Vovin (2009b:1172) come focus.

164 Iwai (1974: 354). La traduzione dal testo originale in giapponese è mia.

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Page 73: Origine e funzioni della particella giapponese wo

cognate object, rispetto ad altre particelle oppure rispetto a ø, non sono affatto

numerose. Ad esempio, Iwai spiega che, prendendo in esame soltanto il Man'yōshū, nel

caso di い + 寝 i + nu le occorrenze di wo sono ridotte ad appena una, mentre ben sei

sono gli esempi di mo (presente come visto anche nell'unica occorrenza nel Taketori

Monogatari), otto quelli con no, ma poteva anche accadere che non venisse espressa

alcuna particella. Iwai non approfondisce gli sviluppi successivi di questa forma, ma si

può notare che nei testi composti nel periodo seguente, in epoca Heian, questa

costruzione può essere retta anche dalla particella ni (cosa che nel Man'yoshu,

suggerisce Iwai, non accade) oppure da particelle pragmatiche o restrittive (come già

nel Man'yoshu). Ad esempio:

君を のみ 思ひね に ねし

kimi wo nomi omopi-ne ni ne-shi

te-OGG soltanto pensare-sonno-PART dormire.RY-PASS.RT

'ho dormito pensando solo a te' (Kokinshū 古今集, n. 608).

Nel caso di 音 + 泣く ne + naku, invece, nel Man'yoshu si trovano soltanto tre

occorrenze di wo su un totale di 46 esempi: in questi tre esempi wo è sempre

accompagnata da altre particelle, ovvero la particella pragmatica so (enfatica) o quella

restrittiva nomi ('soltanto'). Questa particolarità si conserva anche nei testi successivi, ad

esempio:

この 女  ねを のみ 泣きて 

kono wonna ne wo nomi naki-te

questa donna suono-OGG soltanto piangere.RY-GER

物も くはず

mono mo kupa-zu

cosa-TOPEN mangiare.MZ-NEG.SS

'la donna piangeva solo rumorosamente e non mangiava nulla'

(Yamato Monogatari 大和物語, 103).

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Page 74: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Nella maggior parte delle occorrenze rimanenti del Man'yoshu si vede la sola

particella nomi, spesso seguita da una seconda particella restrittiva come shi (che

esprimeva enfasi165), e si trova anche un unico esempio in cui non viene espressa alcuna

particella.

Per quanto riguarda la costruzione 香 + にほふ ka + nipopu, nel Kokinshū ad

esempio si trova un'unica occorrenza di wo (non vicina ad altre particelle come quelle

restrittive) mentre numerose sono le occorrenze di ni, e lungo tutta l'epoca Heian

l'utilizzo di ni è stato molto più frequente di quello di wo: della particella wo in questa

costruzione si trova appena una seconda occorrenza nello Shinshūi wakashū166 nel

quattordicesimo secolo.

Marcare l'oggetto della cognate object construction con wo non era quindi affatto

obbligatorio: wo alternava con ni o con particelle pragmatiche e restrittive (che però non

hanno funzione grammaticale). Il fatto che in alcune costruzioni potesse alternare con ni

è perfettamente parallelo a ciò che accadeva anche in altre costruzioni come ad esempio

quelle in cui wo identificava il moto a luogo o il moto da luogo. Le occorrenze di questa

costruzione in connessione con particelle restrittive (nomi) o pragmatiche (mo) si

spiegano invece grazie al fatto che questa forma era utilizzata appositamente per

sottolineare l'evento espresso o per dare enfasi all'azione.

Hashimoto ritiene che questa costruzione non abbia più un impiego nel giapponese

moderno, ma in realtà esistono alcune occorrenze del cognate object anche oggi, con

verbi come 踊る odoru 'ballare', 笑う warau 'ridere' e così via. Ed anche nel giapponese

moderno si nota un' alternanza ni/wo, quindi si possono incontrare sia お笑いに笑う

owarai ni warau 'ridere di cuore' sia 共感の笑いを笑う kyōkan no warai wo warau

'fare un sorriso di simpatia', ma può anche accadere che la particella non sia espressa

affatto, ad esempio ひと歩き歩く hito-aruki aruku 'fare una piccola passeggiata'167. Per

giustificare la possibile presenza di ni, è stato ipotizzato che questa particella nella

costruzione del cognate object sia utilizzata in senso avverbiale, ad indicare una azione

ripetuta, intensiva, o a sottolineare un risultato o una condizione considerevole168. Ad

165 Riguardo la particella shi, si veda Shirane (2005: 235).166 Lo Shinshūi wakashū 新拾遺和歌集 è una antologia poetica datata 1363-4.167 Matsumoto (1996: 88).168 Kondō, Kondō (1993), per una panoramica generale si veda p. 10 del loro articolo.

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Page 75: Origine e funzioni della particella giapponese wo

esempio 待ちに待つ machi ni matsu lett. 'aspettare dall'attesa' avrebbe il senso di

'aspettare continuamente, per lungo tempo', 'aspettare e aspettare', dove 神秘的な微笑

み を微笑 む shinpitekina hohoemi wo hohoemu 'fare un sorriso misterioso' non

convoglierebbe una sfumatura simile. È possibile che una spiegazione simile sia

ipotizzabile anche per le occorrenze della cognate object construction nel giapponese

antico.

Infine, Iwai propone che una forma come 夜を寝 yo wo nu 'dormire una notte' possa

essere interpretata come una cognate object construction mentre, come già detto,

tradizionalmente wo in questa espressione veniva interpretata come un complemento di

tempo indicante la durata temporale. Un esempio che era già stato citato è il seguente:

長き 夜を ひとりや 寝む

nagaki yo wo pitori ya ne-mu

lunga.RT notte-ACC da solo-INTER dormire.MZ-CONG.SS

'dormirò forse questa lunga notte da solo? ' (Man'yōshū 万葉集, maki 3, n. 462).

L'autore propone ulteriori due frasi dal Man'yoshu, del tutto simili all'esempio sopra

(nella seconda si omette hitori ya, nella terza hitori appare con una diversa particella

interrogativa, kamo) e ammette che queste occorrenze sono molto rare sia nel

Man'yoshu stesso che nei periodi successivi. Non avendo a disposizione esempi

differenti, la frase nagaki yo wo (hitori ya/kamo) nemu può essere interpretata

arbitrariamente in diversi modi, ma se effettivamente non ha mai mostrato alternanze

wo/ni o altre particelle enfatiche o restrittive, è difficile poter dimostrare che si tratti di

una costruzione con il cognate object piuttosto che di un utilizzo in funzione temporale

di wo. L'interpretazione di Iwai sembra quindi ingiustificata e sembra basarsi

principalmente su principi semantici.

Come ultimi due utilizzi ormai scomparsi della particella, Hashimoto169 cita da un

lato la costruzione ミ語 法 mi-gohō, di cui wo indica il soggetto ( 主語 shugo) e di cui si

discuterà in seguito (§2.5), dall'altro l'utilizzo in una subordinata oggettiva retta da verbi

come 'sentire', 'pensare', 'dire': in questo utilizzo wo marca il soggetto della frase, a cui

169 Hashimoto (1969: 113).

74

Page 76: Origine e funzioni della particella giapponese wo

poi si postpone la particella とto. Questo impiego è simile al soggetto in accusativo di

una frase infinitiva in latino, l'Accusativus cum infinitivo, di cui proprio Hashimoto

propone un esempio in latino: Platonem ferunt, ut Pythagoreos cognosceret, in Italiam

venisse 'Dicono che Platone sia venuto in Italia per conoscere i Pitagorici' (Cicerone,

Tusculanae Disputationes L.I.39). Purtroppo, per quanto riguarda il giapponese antico,

Hashimoto riporta soltanto un esempio:

くはしめ を あり と きこして170

kupashime wo ari to kikoshi-te

bella donna-ACC essere.SS QUOT171 sentire.RY-GER

'avendo sentito che ci fosse una bella donna' (Kojiki 古事記, 2).

Vovin propone una diversa interpretazione di questa frase: come si vedrà in seguito

(§4.1.4), Vovin presenta nei suo scritti una teoria secondo cui nel giapponese di epoca

Nara la particella wo, oltre a marcare l'oggetto diretto di verbi transitivi, marcava anche

il soggetto di alcuni verbi intransitivi (ad esempio la già citata costruzione con -mi) e

sarà solo nel giapponese di epoca Heian che wo acquisirà lo status di marca del solo

oggetto diretto. Questa frase ne è un esempio, poiché qui wo ha, secondo Vovin, la

funzione di marca del soggetto del verbo intransitivo ari 'essere'. Vovin scrive che si

potrebbe anche ipotizzare che kupashime sia l'oggetto diretto del verbo 'sentire', ma

l'autore si oppone a questa interpretazione: il verbo delle frasi che precedono la

particella to appare sempre in forma conclusiva, e questa è una prova del fatto che

queste frasi debbano essere considerate indipendenti rispetto alla loro reggente172.

Un utilizzo affine a questo si troverebbe, secondo Vovin, anche nel Taketori

Monogatari:

170 Nel testo originale 久波志売遠 阿理登伎許志弖.171 La particella to qui viene segnata come QUOT “citazione” (perché è postposta a discorsi diretti e

indiretti), in molti testi (ad esempio in Vovin) viene segnata come DV, ovvero un verbo difettivo to, lacui forma infinitiva precede verbi come “dire, ascoltare, pensare” e segue la frase citata.

172 Vovin (1997: 279). Se la frase che precede la particella to deve essere considerata indipendente rispetto alla proposizione principale, in quanto il verbo occorre in forma conclusiva, si ha una differenza rispetto al latino, in cui la subordinata è al modo infinito e quindi non è indipendente dalla reggente.

75

Page 77: Origine e funzioni della particella giapponese wo

ふと 天 の 羽衣 を173

puto ama no pa-goromo wo

all'improvviso cielo-ATTR piume-veste-OGG

うち 着せ たてまつりつれば、

uti- kise- tatematuri-ture-ba

PREF-far indossare.RY- HUM.RY-PERF.IZ-CAUSAL

翁 を いとほし かなし と

okina wo itoposhi kanashi to

vecchio-PART pietoso.SS povero.SS-QUOT

思しつる 事 も 失せぬ

oboshi-turu koto mo use-nu

pensare.RY-PERF.RT cosa-TOPEN scomparire.RY-PERF.SS

'All'improvviso, poiché (le) fecero indossare la veste di piume del cielo, smise di

pensare che il vecchio fosse povero e degno di compassione'.

(Taketori Monogatari 竹取物語, XI).

Anche in questo caso, Vovin spiega che okina non può essere oggetto diretto di 思す

obosu 'pensare' (obosu è la forma onorifica di 思う omopu), perché farebbe parte di una

frase indipendente (ovvero quella marcata dalla particella to e che termina in forma

conclusiva)174.

Hashimoto Shinkichi non fa menzione di questo secondo esempio presente in Vovin,

ma allo stesso modo anche questa frase potrebbe essere associata all'Accusativus cum

infinitivo: okina potrebbe essere identificato come soggetto della subordinata seguita da

to e dal verbo 'pensare'.

Hashimoto non riporta alcun altro esempio oltre al primo citato. Vovin elenca invece

differenti esempi riguardo il verbo difettivo to in antico giapponese, ma non si rivelano

utili per chiarire meglio le due particolari occorrenze nel Kojiki e nel Taketori, dato che

wo compare solo nella frase proposta anche da Hashimoto (delle altre frasi, alcune

173 Nella edizione critica in bibliografia羽衣を pa-goromo wo appare non marcato da wo, 羽衣うち着

せ pa-goromo uti-kise-, mentre nel testo citato da Vovin appare marcato. Non è questa occorrenza cheè in discussione però, dato che 羽衣 pa-goromo è chiaramente l'oggetto diretto di kiseru.

174 Vovin (2003: 68).

76

Page 78: Origine e funzioni della particella giapponese wo

hanno soggetto sottinteso, altre hanno soggetto marcato con la particella di topic pa,

altre presentano wo ma si spiega grazie alla presenza della costruzione -mi). Per quanto

riguarda il giapponese di epoca Heian, Vovin riporta altri tre esempi simili, in cui wo

marca il soggetto della subordinata retta da omofu 'pensare', affermando che questi sono

rari casi in cui wo veniva ancora impiegato come soggetto di verbi intransitivi inattivi,

come accadeva in giapponese antico. L'autore scrive che in questo tipo di subordinate,

già in epoca Heian, era molto più comune marcare il soggetto con le particelle ga o no,

quindi le occorrenze di wo sarebbero meri retaggi di un utilizzo antico. A causa della

scarsità di esempi (anche se Hashimoto definisce frequente questo utilizzo in epoca

Nara ma più raro in epoca Heian), non è semplice esprimere ulteriori considerazioni,

dato che Hashimoto e Vovin sono gli unici due autori a studiare le occorrenze di wo in

subordinate di questo tipo.

Le differenti funzioni grammaticali e concrete della particella wo, in conclusione,

sono quindi: espressione dell'oggetto diretto (ma la sua espressione non è obbligatoria,

come visto: secondo alcuni studiosi l'oggetto deve essere specifico, mentre secondo altri

studiosi si tratterebbe del paziente e non dell'oggetto), del moto per luogo, del moto da

luogo, del moto a luogo (solo in connessione con alcuni verbi particolari), del tempo

continuato, utilizzo come accusativo dell'oggetto interno, espressione del soggetto in

una subordinata oggettiva retta da to, costruzione in -mi (§2.5).

Yamada diede una definizione generale riguardo l'utilizzo della particella wo

scrivendo che “veniva utilizzata per indicare ciò che fa da obiettivo del tragitto

dell'azione”175. In questa sua definizione si possono sicuramente includere i due utilizzi

che sopravvivono ancora oggi della particella wo, ovvero quelli di marca dell'oggetto e

di espressione del moto per luogo.

Come si è visto invece, nelle funzioni di moto da luogo, di cognate object e con

verbi come 'chiedere', 'pregare', 'incontrare', wo già alternava con altre particelle nel

giapponese antico e la situazione non appare molto mutata nel giapponese moderno.

L'impiego come marca del soggetto in una subordinata retta da to e un verbo come

'pensare' o 'dire' è scomparso in epoca moderna, ed allo stesso modo – come si vedrà –

la costruzione in -mi, in cui la maggior parte degli studiosi concordano nel dire che wo

175 Yamada è citato in Konoshima (1966: 61). La traduzione è mia.

77

Page 79: Origine e funzioni della particella giapponese wo

marchi il soggetto, continuò ad avere rari utilizzi nelle poesie di epoca Heian, ma cadde

in disuso poco dopo. Anche l'utilizzo di wo come marca del tempo continuato sembra

essere scomparso. Dopo il periodo Heian, gli usi della particella wo si restrinsero

ampiamente.

Come si è visto, molte delle funzioni concrete di wo, oltre chiaramente alla sua

funzione grammaticale primaria, sono comparabili con quelle del caso accusativo delle

lingue indoeuropee: è quindi comprensibile il fatto che molti studiosi, non estranei alle

lingue europee, abbiano identificato wo come “particella dell'accusativo”. Altri studiosi

hanno invece, forse giustamente, tentato di prendere le distanze, come già detto, da

questa dicitura, affermando che la particella in questione ha impieghi ben più ampi

dell'accusativo: Konoshima scriveva che la particella wo non esprimerebbe il caso

accusativo in quanto essa sarebbe impiegata anche in funzione temporale e locativa,

cosa che, a parer suo, l'accusativo delle lingue indoeuropee non farebbe. Quindi questo

tentativo, pur apprezzabile, di affrancarsi dall'etichetta tradizionale viene minato dal

fatto che autori come Konoshima non sembrano avere molta familiarità con le lingue

indoeuropee.

Sia per quanto riguarda wo sia per le altre particelle, si deve sempre tener presente

che, se pure si vogliano utilizzare le diciture “accusativo”, “dativo” o “nominativo”,

queste etichette nascono e sono quindi legate alla tradizione occidentale (greca, in

origine) e quindi possono non coprire tutte le funzioni delle particelle giapponesi, come

afferma (con presupposti errati) Konoshima e come è stato già visto anche nel caso di

ga (§1.2.3), e possono anche includere utilizzi differenti, che le particelle giapponesi in

questione non hanno.

2.1.3 Criteri sintattici per riconoscere la particella grammaticale wo

Come si è già detto, in diversi casi non è chiaro se la particella wo in una

determinata frase possa essere identificata come una particella avente funzione

grammaticale (kaku joshi), interiezionale (kantō joshi) o altra funzione: poiché

raramente nei diversi studi si applicano criteri formali, la diversa interpretazione spesso

dipende da una scelta soggettiva e arbitraria da parte dello studioso.

78

Page 80: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Kondō è forse l'unico studioso a categorizzare le diverse occorrenze di wo dal punto

di vista sintattico, riuscendo quindi a stabilire criteri molto rigorosi per la

classificazione. Come già accennato e come si noterà nelle pagine che seguono, l'autore

è fermamente convinto che non si tratti di un'unica particella wo a cui attribuire

differenti funzioni, ma di diverse particelle omofone, la cui origine comune non è mai

stata dimostrata: sarà dato risalto a questa idea dell'autore nel seguire la sua spiegazione.

Innanzitutto, Kondō considera wo una particella grammaticale quando è presente

uno yōgen (predicato che deve essere flesso, come già visto), a cui collegare un taigen

(sostantivo, ma anche una frase nominalizzata, detta juntai) che possa fungere da

oggetto, che viene marcato da wo176. Kondō sembrerebbe qui riferirsi soltanto alla

funzione grammaticale principale della particella wo, ovvero quella di marcare l'oggetto

diretto, ma – come si vedrà – ne riconosce lungo il testo anche le funzioni concrete.

Kondō nota alcune differenze nella distribuzione fra la particella grammaticale wo e

gli altri tipi di particella wo (wo interiezionale, wo finale). Una prima differenza che

l'autore identifica è che la particella grammaticale può essere seguita da altre particelle

come quelle pragmatiche, restrittive o interiezionali, a differenza degli altri tipi di wo

che invece non possono essere seguiti da queste particelle. Tale caratteristica di poter

essere accompagnata da altre tipologie di particelle è riscontrabile anche nella altre

particelle grammaticali come ni o ga, mentre generalmente le particelle interiezionali e

finali (come や ya, し shi, ね ne) non possono essere seguite da particelle pragmatiche

o restrittive. Un esempio è la forma を ば woba, utilizzata per porre enfasi

sull'oggetto177: Vovin la identifica come un'occorrenza della marca dell'oggetto wo

seguita dalla particella di topic pa, era già comune nei senmyō e il suo utilizzo divvene

sempre più frequente nel giapponese classico178.

妹 をば 見ず

imo wo-ba mi-zu

amata- OGG-TOP vedere.MZ-NEG.RY

'non vedere l'amata' (Man'yōshū 万葉集, maki 15, n. 3739);

176 Kondō (1980: 53).177 Shirane (2005: 161).178 Vovin (2005: 163).

79

Page 81: Origine e funzioni della particella giapponese wo

白き 形 を なも 見喜ぶる

shiroki katati wo namo mi-yorokoburu

bianco.RT forma-OGG ENF vedere-gioire.RT

'gioire vedendo la forma bianca' (Senmyō 宣命 46, 3).

Le particelle che più comunemente seguono la particella grammaticale wo sono

appunto la particella di topic pa (woba), la particella pragmatica mo, quella enfatica shi,

quella interrogativa o esclamativa ka, ma anche le restrittive dani, nomi, sura.

Questo criterio permette di riconoscere come particelle grammaticali una serie di

occorrenze che spesso erano state interpretate differentemente. Un esempio era già stato

visto in Konoshima (§ 2.1.2): lo studioso aveva analizzato alcune occorrenze in cui wo

compariva seguita dalla particella restrittiva dani o da quella di focus zo come

occorrenze di una particella interiezionale, ma questo contravviene al primo criterio di

Kondō.

La seconda caratteristica notata da Kondō è che la particella grammaticale wo può

trovarsi all'interno di proposizioni in forma attributiva (RT), quando questa forma viene

utilizzata come modificatore dei sostantivi: anche questa caratteristica è condivisa dalle

altre particelle grammaticali come ga o ni, ma non dalle particelle interiezionali o finali.

Ad esempio:

高佐士野 を 七 行く をとめども

Takasaziino wo nana yuku wotome-domo

Takasajino-PART sette andare.RT fanciulla-PLUR

'le fanciulle che in sette vanno per Takasajino' (Kojiki 古事記, 15).

La particella wo in questa frase chiaramente è utilizzata nella funzione concreta

dell'espressione del moto per luogo.

Infine, l'autore elenca gli elementi che nel giapponese antico potevano precedere

questa particella grammaticale e nei capitoli seguenti del suo articolo mette a confronto

questo elenco con quello stilato per le altre tipologie di particella wo. La particella wo in

funzione grammaticale poteva seguire: sostantivi (taigen); base attributiva del verbo

80

Page 82: Origine e funzioni della particella giapponese wo

seguita da un nominalizzatore (RT+koto); una costruzione denominata ク語法 ku-gohō,

utilizzata anch'essa per nominalizzare un verbo (ad esempio il verbo す su 'fare', odierno

する suru, diviene すらく suraku, costruzione molto comune ad esempio nel Taketori

Monogatari nella forma 言はく ipaku, da 言ふ ipu > iu, 'dire'); due tipologie di frasi

nominalizzate anch'esse in forma attributiva, denominate 作用性準体 sayōsei juntai e

形状性準体 keijōsei juntai. Purtroppo Kondō non spiega esattamente cosa queste due

espressioni significhino, ma scrive soltanto che nel primo caso si tratta di “parole

declinabili (yōgen) che vengono sostantivizzate”, mentre nel secondo caso “un qualche

sostantivo viene omesso”179. Entrambe sono appunto frasi nominalizzate che fungono da

oggetto diretto della frase, ma si differenziano in base al pronome che deve essere

sottinteso: nel primo caso si sottintende こと koto '(il) fatto (che)', nel secondo 者 mono

'persona'. Un esempio di keijōsei juntai è180:

友 の 遠方 より 訪れたる  を  もてなす

tomo no enpō yori otozure-taru wo motenasu

amico- SOGG lontano-PART far visita.RY-PASS OGG accogliere.SS

'accogliere l'amico che ha fatto visita da lontano'.

Secondo Yoshimura e Nashina, in questo caso, si deve sottintendere mono e rendono

la frase in modo più esplicito come 友が遠くから訪ねてきてくれた (者) をもてな

す tomo ga tōku kara otozunete kite kureta (mono) wo motenasu 'accogliere (la persona

che è) l'amico che ha fatto visita da lontano'. Il sostantivo che viene modificato dalla

subordinata il cui verbo è in forma attributiva non viene espresso apertamente, si deve

quindi sottintendere mono, 'persona'. Vediamo invece un esempio di sayōsei juntai:

友 の 遠方 より 訪れたる  を  喜ぶ

tomo no enpō yori otozure-taru wo yorokobu

amico-SOGG lontano-PART far visita.RY-PASS OGG gioire.SS

'gioisco che l'amico sia venuto a far visita da lontano'.

179 Kondō (1980: 56).180 Gli esempi che seguono sono presi da Yoshimura, Nashina (2004: 57), si veda questo articolo per

ulteriori esempi.

81

Page 83: Origine e funzioni della particella giapponese wo

I due autori anche in questo caso aiutano il lettore spiegando la frase esplicitamente:

友が遠くから訪ねてきてくれた (こと) を喜ぶ tomo ga tōku kara otozunete kite

kureta (koto) wo yorokobu 'gioire (del fatto che) l'amico sia venuto a far visita da

lontano'.

Questi due tipi di frasi nominalizzate possono essere seguite soltanto da wo kaku

joshi e non dalle altre tipologie di particelle wo.

Il seguente è uno schema riassuntivo degli elementi che possono precedere la

particella grammaticale wo nei testi principali del giapponese antico, lo schema è stato

modificato dal testo di Kondō181:

2.2 La particella wo in funzione di particella interiezionale

Molti studiosi classificano diverse occorrenze di wo come una particella

interiezionale (kantō joshi)182, ma, come si è già detto più volte, non vi è assolutamente

un accordo su quali occorrenze siano effettivamente interpretabili come interiezionali e

quali non lo siano.

In linea generale possiamo distinguere tre differenti posizioni fra gli studiosi. Da un

lato si trovano autori, principalmente giapponesi, che ritengono che wo come particella

grammaticale sia nata successivamente e tutte le occorrenze di wo nel giapponese antico

181 Kondō (1980: 56). L'autore riporta il numero di occorrenze per ogni testo che ha preso in esame, persemplificazione qui si riportano soltanto le occorrenze nei testi principali: Kojiki, Nihonshoki, Fudoki,Man'yōshū, Senmyō e Norito.

182 Anche l'utilizzo interiezionale di wo è affine all'accusativo di alcune lingue indoeuropee come illatino, in cui con questo caso si esprimevano le esclamazioni, come in mē miserum.

82

Fig. 2: Distribuzione di wo in funzione grammaticale

Page 84: Origine e funzioni della particella giapponese wo

debbano essere classificate come interiezionali: come si vedrà (§3.1; §3.2), questa è la

posizione fra gli altri di Matsuo e Oyama. All'estremo opposto, rari studiosi che

interpretano la maggior parte delle occorrenze di wo in antico giapponese in funzione

grammaticale (o concreta), e riconoscono solo poche incontrovertibili occorrenze di una

funzione interiezionale di wo nei testi più antichi: Vovin sostiene fermamente questa

posizione, ma anche Kondō riconosce un numero davvero scarso di wo interiezionali

nella lingua antica. Una teoria intermedia è supportata da studiosi come Hashimoto, che,

pur riconoscendo l'origine interiezionale della particella grammaticale wo, identificano

molte occorrenze di entrambi gli utilizzi, distinguendo gli impieghi di wo come

particella grammaticale e quelli come particella interiezionale sia nel periodo antico che

nel periodo classico: questa posizione intermedia permette di interpretare ogni

occorrenza di wo in modo differente183. La particella interiezionale viene quindi

generalmente divisa in modo netto (ma non condiviso fra tutti gli studiosi) dalla

particella grammaticale, anche se alcuni autori riconoscono occorrenze che oscillano fra

la particella grammaticale e quella interiezionale184.

Shirane afferma che wo, come particella interiezionale, può posizionarsi sia al centro

di frase che alla fine, segue sostantivi, altre particelle, forme attributive o imperative del

verbo, e indica esclamazione o enfasi185.

Alcuni degli studiosi che ritengono che wo come particella grammaticale abbia avuto

origine da quella interiezionale (la posizione che qui è stata definita intermedia) credono

anche che l'origine della stessa particella interiezionale sia una interiezione

indipendente wo, che si trova sia nei testi più antichi, sia nel periodo Heian: lo sviluppo

teorizzato sarebbe dunque da una interiezione ad una particella interiezionale, e da

quest'ultima ad una particella grammaticale186. Hashimoto Shinkichi spiega che wo

veniva utilizzata come particella enfatica nel periodo Nara, e tale uso continuò lungo

tutto il periodo Heian: questa particella esprimeva un forte coinvolgimento emotivo e

183 Matsuo (1938: 1403); Oyama (1958: 118). Vovin (2009b: 1273); Kondō (1980: 59). Hashimoto(1969: 118) appoggia la teoria dell'origine interiezionale, allo stesso modo Konoshima (1966: 62-7),fra gli studiosi occidentali Aston (1904: 113) e Samson (1928: 235); Shirane (2005: 187-8) ritiene chewo compaia sin dai primi testi sia come particella grammaticale che come particella interiezionale.

184 Si veda Konoshima (1966: 63) per diversi esempi.185 Shirane (2005: 253).186 Aston (1904: 113-5); Sansom (1928: 235-6).

83

Page 85: Origine e funzioni della particella giapponese wo

spesso veniva utilizzata per introdurre una pausa nel discorso187. L'autore aggiunge che,

una volta scomparso questo utilizzo di wo, la particella venne sostituita in questa

funzione dal costrutto ものを monowo, formato dal sostantivo もの mono (già

utilizzato anticamente per inserire una pausa nel discorso) e la particella interiezionale

を wo: questo costrutto venne utilizzato come congiunzione fra due frasi o alla fine di

un periodo (§2.4).

Come detto, non è semplice trovare occorrenze di wo come particella interiezionale

sulle quali tutti gli studiosi siano concordi: uno degli esempi più famosi e che viene

interpretato in modo diverso da studioso a studioso riguarda la prima canzone del

Kojiki.

八雲 立つ 出雲 八 重 垣

ya-kumo tatu idumo ya- pe- gaki

otto nuvola alzarsi.RT Izumo otto-CLASS-recinzione

妻 籠み に 八 重 垣 作る

tuma- gomi ni ya- pe- gaki tukuru

moglie-ritirarsi(NMLZ)- LOC otto-CLASS-recinzione costruire.SS

その 八 重 垣 を

sono ya- pe- gaki wo

quella otto-CLASS-recinzione PART

'costruisco una ottuplice recinzione, in cui mia moglie si ritiri, una ottuplice

recinzione in Izumo dove si alzano otto nuvole, quella ottuplice recinzione'

(Kojiki 古事記, 1).

Le interpretazioni della particella alla fine della poesia non sono affatto univoche.

Aston ritiene che wo in questa frase sia una interiezione esterna, come a dire “oh, quella

ottuplice recinzione!”, ed anche Samson condivide questa interpretazione. Nella

tradizione giapponese in questa frase wo viene interpretata come una vera e propria

particella interiezionale, mentre Konoshima ne riconosce un utilizzo che oscilla fra la

particella interiezionale e quella grammaticale. Vovin invece identifica questa

187 Hashimoto (1969: 178; 209).

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Page 86: Origine e funzioni della particella giapponese wo

occorrenza come un utilizzo grammaticale della particella: ci troviamo di fronte ad un

esempio dell'uso anaforico del dimostrativo sono, che si riferisce alla recinzione

menzionata precedentemente già due volte, e wo funge da marca dell'oggetto

'recinzione' 垣 kaki che il soggetto sottinteso in prima persona sta costruendo 作る

tukuru188.

Anche esempi riportati da un unico autore (su cui autori diversi non hanno mai

dibattuto) possono essere interpretati in maniera non univoca. Un esempio che riporta

solo Hashimoto, che altri studiosi non hanno discusso, è il seguente:

花 散るらむ 小野の 露霜に

pana tiru-ramu ono no tuyu-dimo ni

fiori cadere.SS-CONG.RT campo-ATTR rugiada-brina-PART

濡れて を ゆかむ

nure-te wo yuka-mu

bagnare.RY-GER PART andare.MZ-CONG.SS

'andrò, bagnato dalla brina e dalla rugiada dei campi in cui i fiori cadono'

(Kokinshū 古今集, n. 224).

Hashimoto non propone alcuna spiegazione riguardo questa frase, ma la elenca

semplicemente fra gli esempi della particella interiezionale wo. Si deve notare che la

stessa forma nurete yukamu 'andrò, bagnato (da...)' compare anche nella poesia 1274 del

Man'yoshu, ma la particella wo è in questo caso assente: questo fatto potrebbe

confermare che si tratti di una particella interiezionale, che può essere inserita o omessa

senza modificare il senso della frase. Inoltre, questa frase rispecchia i criteri di Kondō

per l'individuazione delle occorrenze della particella interiezionale, come si vedrà

(§2.2.1). Una frase con la stessa costruzione (gerundio -te + wo + verbo) è proposta –

come si vedrà – anche da Shirane come esempio della particella enfatica wo; eppure

rimane comunque il dubbio del fatto che si tratti di una particella interiezionale, dato

che Shirane riporta che la particella interiezionale wo, se segue un verbo, deve seguire

una forma attributiva o imperativa mentre qui è presente un gerundio -te. È anche

188 Aston (1904: 113); Samson (1928: 282); Konoshima (1966: 63); Vovin (2005: 287).

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Page 87: Origine e funzioni della particella giapponese wo

possibile infatti che questa sia una occorrenza della particella grammaticale wo nella sua

funzione concreta di marca del moto per luogo, in cui wo sia riferito al sostantivo

'campi' e connesso con il verbo 'andare': se così non fosse, si deve necessariamente

sottintendere un luogo verso cui o attraverso cui andare (moto a o moto per luogo), ma

la presenza di wo, una delle cui funzioni concreta principali è proprio quella di

esprimere il moto per luogo, può orientare fortemente verso la prima interpretazione.

2.2.1 Criteri sintattici per riconoscere la particella interiezionale wo

Kondō ritiene che la particella interiezionale wo sia molto rara in letteratura, e

compaia soltanto in alcuni waka del Man'yōshū (poco più di una decina in tutto)189.

Anche per quanto riguarda questa particella enfatica, l'autore identifica alcuni criteri

sintattici per poterne senza dubbio alcuno riconoscere le occorrenze. Secondo lo

studioso, la particella interiezionale segue sempre una forma sospensiva del verbo

oppure altre particelle come ni oppure to, e non è mai utilizzata a fine frase (questo

quindi permetterebbe di escludere a priori esempi molto discussi come sono yapegaki

wo 'quella ottuplice recinzione' §2.2). Un secondo criterio è il seguente: la frase in cui si

trova questa particella presenta sempre alla fine una forma imperativa del verbo, o in

alternativa può terminare con particelle che esprimono desiderio, oppure con un

predicato seguito dalla forma di fine frase dell'ausiliare desiderativo/congetturale む mu.

Ad esempio:

三枝 の 中 に を 寝む

sakikusa190 no naka ni wo ne-mu

sakikusa-COMP mezzo-LOC PART dormire.MZ-DES.SS

'vorrei dormire fra (voi) come un sakikusa' (Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 904);

189 Kondō (1980: 57). Giova ripetere ancora una volta che l'autore ritiene che la particella interiezionalewo sia semplicemente una particella differente rispetto a quella grammaticale, e non si tratti difunzioni differenti di un'unica particella.

190 Sakikusa è una pianta, non è chiaro a che pianta si alluda precisamente ma è evidente dal contesto cheil suo gambo si divida in tre. Vovin lo traduce come “three stems grass”, si veda Vovin (2011: 169).

86

Page 88: Origine e funzioni della particella giapponese wo

夜 の 夢に を つぎて 見えこそ

yoru no ime ni wo tugi-te mi-e-koso

notte-ATTR sogni-LOC PART seguire.RY-GER vedere-PASV.RY-BEN-IMP

'di grazia, continua ad apparire nei miei sogni notturni'

(Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 807).

Entrambe le frasi sono proposte come esempio sia da Kondō che da Vovin: entrambi

gli studiosi ritengono che wo in funzione di particella interiezionale sia molto rara nei

testi di epoca Nara da loro studiati191, e infatti Kondō riporta esplicitamente solo sei

esempi della particella interiezionale wo (ma riconosce l'esistenza di almeno 13

occorrenze in tutto il corpus da lui studiato), Vovin soltanto quattro (e scrive

espressamente che solo questi quattro sono esempi incontrovertibili di un utilizzo

enfatico di wo). Tre dei sei esempi di Kondō sono confermati anche da Vovin: nei

quattro esempi riportati da Vovin della particella wo utilizzata con funzione enfatica nel

Man'yōshū, wo appare dopo la particella del locativo ni (come infatti accade nelle due

frasi sopra), ma vista la scarsità di materiale, Vovin afferma che rimane difficile poter

stabilire la funzione della particella enfatica wo sulla base di queste sole quattro

occorrenze192. L'unico esempio che Vovin cita e che non si trova in Kondō rispecchia

comunque i criteri posti da quest'ultimo:

八 つ 代 に を いませ 我が 背子

ya- tu yo- ni wo imase wa-ga seko

otto-CLASS generazioni-LOC PART esistere(HON).MR io-ATTR fratello

'fratello mio, vivi per otto generazioni!' (Man'yōshū 万葉集, maki 20, n. 4448).

In questa frase la particella esclamativa segue la particella ni (come richiesto sia in

Kondō sia in Vovin) e si trova in una frase che si conclude in forma imperativa. Vovin

spiega che si potrebbe esser tentati di interpretare la particella wo, nelle quattro frasi che

cita, come una particella grammaticale, ma purtroppo non spiega precisamente come

191 Come si vedrà nel Cap. 3, nell'epoca successiva, l'epoca Heian, si riconoscono invece un grandissimonumero di occorrenze della particella wo in funzione interiezionale.

192 Vovin (2009b: 1273).

87

Page 89: Origine e funzioni della particella giapponese wo

interpretare questa sequenza formata dalla particella del locativo ni e da wo. È proprio

però quest'ultimo esempio a non consentire questa interpretazione: in questa frase wo

compare accanto al verbo di esistenza, e questo non permette di identificare questa

particella come una marca di “accusativo”193. Come si è già visto, però, l'utilizzo della

particella wo nella sua funzione concreta di esprimere il tempo continuato si trova anche

con verbi di esistenza, benché raramente: ne sono già stati discussi alcuni esempi

precedentemente, come 日を[...] をれば pi wo [...] woreba 'stare [...] per tutto il giorno'

(§2.1.2). Se Vovin riuscisse davvero a dimostrare che tutti gli altri esempi da lui citati

sono connessi ad occorrenze della particella grammaticale wo (quindi alla particella

come marca dell' “accusativo”), si potrebbe effettivamente affermare che non esistono

occorrenze nel Man'yoshu in cui la particella wo sia utilizzata soltanto in funzione

esclamativa senza alcuna funzione grammaticale o concreta.

Alcuni esempi che Vovin spiega come occorrenze di wo come particella

grammaticale sono infatti interpretati differentemente da Kondō. Ad esempio la frase

seguente:

此 に 近く を 来鳴きてよ

koko ni tikaku wo ki-naki-te-yo

qui-ABL vicino.RY-ESCL venire.RY-cantare.RY-GER-IMP

'vieni a cantare qui vicino!' (Man'yōshū 万葉集, maki 20, n. 4438).

Kondō identifica la particella in questa frase come una particella interiezionale, e

stessa interpretazione si trova anche in Hashimoto, Motohashi e Shibatani194. Vovin

conferma che la posizione tradizionale ricostruisce questa occorrenza di wo come una

particella enfatica ma propone una diversa interpretazione: dato che non si trova alcun

altro esempio attendibile di desinenza infinitiva dell'aggettivo -ku195 seguita da wo

193 Come già notato precedentemente, Vovin, come tanti altri studiosi, definisce le diverse particellesecondo la terminologia dei casi delle lingue occidentali. Un elemento che deve essere sottolineatoperò, è che Vovin non cita mai la funzione esclamativa che nelle lingue indoeuropee antiche può avereil caso accusativo, ed è per questo che, nel suo studio, se una determinata occorrenza deve essereinterpretata come esclamativa, questo esclude la sua interpretazione come “caso accusativo”, cosa nonnecessariamente vera (come si vedrà §3.4).

194 Hashimoto (1969: 117); Motohashi (1989: 45); Shibatani (1990: 342).195 Per quanto riguarda la flessione dell'aggettivo in antico giapponese, si veda Vovin (2009b: 429 ss.),

ma anche Frellesvig (2010: 80-90).

88

Page 90: Origine e funzioni della particella giapponese wo

enfatico, Vovin identifica questo wo come una occorrenza di particella grammaticale

connessa al verbo di moto 'venire'. L'aggettivo sarebbe dunque stato nominalizzato, cosa

che, seppur raramente, può accadere anche in antico giapponese196.

Il terzo criterio proposto da Kondō è che la particella wo come particella

interiezionale non può trovarsi in proposizioni in forma attributiva e frasi nominalizzate

(juntai), né può essere seguita da altre particelle: queste due possibilità sono invece

realizzabili quando la particella wo ha la funzione di marcare l'oggetto, come già visto.

Oltretutto, la particella interiezionale wo si trova sempre immediatamente prima di un

verbo o un aggettivo: questa è una caratteristica unica della particella interiezionale wo,

non condivisa dalle altre tipologie di wo.

L'unica eccezione a questi criteri riportata dall'autore è una costruzione in cui una

forma imperativa del verbo è seguita dalle due particelle wo e to (MR+wo+to), in cui

wo si presenta subito dopo un verbo (e non prima). Vengono riportati tre esempi molto

simili, in due frasi il costrutto è seguito dal verbo 呼ぶ yobu 'chiamare', 'dire', nella terza

frase il verbo è sottinteso: sembrerebbe, spiega l'autore, una costruzione ormai

codificata e non produttiva, infatti non se ne trovano altri esempi.

船 渡せ を と 呼ぶ 声

funa- watase wo to yobu kowe

nave-trasportare.MR ENF QUOT chiamare.RT voce

'una voce che diceva di trasportare con la nave'

(Man'yōshū 万葉集, maki 10, n. 2072).

Questa, secondo Kondō, sarebbe una particolare occorrenza di particella

interiezionale, che differirebbe dalla particella finale in quanto non esistono occorrenze

di wo come particella finale seguita da to, ed inoltre la particella finale, se posta dopo il

verbo – come si vedrà – segue una forma attributiva e non imperativa. Purtroppo Vovin

non cita questi esempi nei suoi testi, quindi non è sicuro quale interpretazione dia a

queste occorrenze di wo.

Anche in questo caso, per chiarezza si riporta lo schema proposto da Kondō197 sulla

196 Vovin (2013: 208).197 Kondō (1980: 57).

89

Page 91: Origine e funzioni della particella giapponese wo

distribuzione di wo come particella interiezionale, eccezion fatta per il costrutto

MR+wo+to:

Per poter identificare, in conclusione, un'occorrenza della particella interiezionale

wo, questa deve quindi rispecchiare, secondo Kondō, i seguenti criteri: deve seguire una

forma sospensiva del verbo (RY) o altre particelle (ni, to, tutu) – definiti “elementi

precedenti” nella tabella – e il verbo alla fine della frase deve essere in forma imperativa

(MR) oppure seguito dall'ausiliare congetturale mu, o una forma desiderativa. Come si

nota, le occorrenze della particella interiezionale wo sono soltanto 13, ed infatti grazie

alla sua ricerca rigorosa legata ai criteri sintattici, l'autore riesce ad escludere molte

occorrenze che tradizionalmente erano state interpretate come interiezionali.

Si noti la discordanza fra i due studi di Kondō e di Shirane riguardo la

distribuzione di wo come particella interiezionale. In Shirane, wo interiezionale

seguirebbe sostantivi, altre particelle o forme attributive del verbo e potrebbe essere

utilizzata sia al centro che alla fine della frase; secondo Kondō, seguirebbe particelle

oppure forme continuative del verbo e non occorrerebbe mai in finale di frase.

Questo può essere forse spiegato grazie al duplice valore che Shirane attribuisce alla

particella interiezionale: essa potrebbe esprimere enfasi oppure esclamazione.

Come esempio di occorrenze in cui wo come particella interiezionale esprimerebbe

enfasi, Shirane propone una frase che presenta wo al centro di frase, preceduto dal verbo

見つけて mitukete, formato dalla base continuativa e la particella te (rispecchiando

90

Fig. 3: Distribuzione di wo in funzione interiezionale

Page 92: Origine e funzioni della particella giapponese wo

quindi i requisiti di Kondō). Questo esempio è affine a quello proposto da Hashimoto

precedentemente. Si deve oltretutto notare che, benché Kondō asserisca che le

occorrenze della particella interiezionale siano un numero molto ridotto, l'autore si

riferisce soltanto alle prime fonti di epoca Nara, ma questo, come si vedrà, non è

necessariamente vero per l'epoca Heian (periodo in cui venne scritto il testo da cui

Shirane cita l'esempio).

いかで なほすこし ひがごと

ikade nafo sukoshi figagoto

in qualche modo un poco errore

見つけて を やまん

mituke-te wo yama-n

trovare.RY-GER PART finire.MZ-CONG

'voglio trovare in qualche modo anche il minimo errore e porvi una fine'

(Makura no Sōshi 枕草子, XXIII 19: 62).

La particella interiezionale di Shirane, quando esprime enfasi come in questo

esempio, corrisponde quindi perfettamente alla descrizione della particella

interiezionale di Kondō: segue un verbo in forma continuativa e il verbo di fine frase è

seguito dall'ausiliare congetturale/desiderativo mu.

Dall'altro lato questa particella potrebbe esprimere esclamazione, ed in questo caso

Shirane riporta due esempi in cui wo è presente alla fine della frase. Uno di questi è il

seguente:

つひに 行く 道 と は かねて

tupini yuku miti to pa kanete

alla fine andare.RT strada QUOT TOP in precedenza

聞きしかど 昨日今日と は

kiki-shika-do kinopu kepu to pa

sentire.RY-PASS.IZ-CONC ieri oggi QUOT TOP

91

Page 93: Origine e funzioni della particella giapponese wo

思はざりし を

omopa-zari-shi wo

pensare.MZ-NEG.RY-PASS.RT PART

'anche se ho sentito in precedenza che alla fine (questa è) la strada da prendere, non

avrei mai pensato che sarebbe stato ieri o oggi' (Ise Monogatari 伊勢物語, CXXV).

La particella interiezionale wo, in funzione esclamativa, di Shirane appare più vicina

ad una particella finale: la particella finale segue la forma attributiva del verbo e si trova

generalmente alla fine della frase.

2.3 La particella wo in funzione di particella finale

Generalmente alla particella wo non viene attribuita anche la funzione di

particella finale: come è già stato detto (§1.1.1), le particelle finali sono così denominate

a causa della loro posizione obbligata alla fine della frase e hanno una funzione

principalmente esclamativa, enfatica, desiderativa o proibitiva.

Kondō è uno dei pochi autori a classificare wo anche come particella finale198, ma –

come si vedrà – le occorrenze che lui classifica come occorrenze di particella finale

vengono interpretate come funzioni diverse della particella wo (principalmente una

funzione di congiunzione) da altri autori.

2.3.1 Criteri sintattici per riconoscere la particella finale wo

Kondō spiega che questa particella si presenta in frasi in cui non esiste un

predicato alla fine della frase a cui collegarla, ma si trova un sostantivo o una forma

attributiva del verbo, che precedono questa particella, con cui essa può essere

connessa199. Segue generalmente quindi forme attributive del verbo (RT), sostantivi o

forme attributive seguite dal sostantivo mono (RT+mono): delle tre possibilità,

198 Un altro studioso a farlo è, come già visto (§1.1.1), Tokieda Motoki.199 Kondō (1980: 54). Come già sottolineato più volte, l'autore ritiene che le differenti funzioni della

particella wo debbano essere intese come tre particelle diverse, di cui non è mai stata dimostrataun'origine comune: è per questo che, nel seguire il suo studio, si parla di una particella finale wo e nondi una funzione finale della particella wo.

92

Page 94: Origine e funzioni della particella giapponese wo

quest'ultima è quella più frequente.

Il costrutto mono+wo viene inteso da Vovin come una congiunzione concessiva: nei

testi antichi si trovano anche rare occorrenze del solo sostantivo mono, in questa

funzione, e a questo sostantivo sarebbe stata aggiunta successivamente la particella

grammaticale wo200.

Ad esempio:

秋 去らば 相見む もの を

aki sara-ba aimi-mu mono wo

autunno passare.MZ-IPOT incontrarsi.MZ-CONG NMLZ FIN201

なにし かも霧 に 立つ べく

nani-shi kamo kiri- ni tatu beku

cosa-ENF INTER nebbia- COMP alzarsi.SS-dovere.RY

嘆き しまさむ

nage-ki shi-masa-mu

lamento-NMLZ fare.RY-HON.MZ-CONG.RT

'benché se l'autunno passerà, potremo incontrarci, (mi chiedo) perché debba

addolorarti così che (il tuo respiro) si innalzi come nebbia'

(Man'yōshū 万葉集, maki 15, n. 3581).

Si notano quindi alcune differenze rispetto alla particella grammaticale wo:

quest'ultima si trova più frequentemente preceduta da un sostantivo, mentre la particella

finale dalla forma RT+mono; la particella grammaticale ammette i costrutti con

entrambi i nominalizzatori mono e koto, mentre quella finale ammette solo mono; infine,

la particella grammaticale può essere preceduta dalla costruzione ク語法 ku-gohō (che

permette di nominalizzare il verbo), mentre la particella finale non può.

Come la particella interiezionale corrispondente, prosegue Kondō, non può trovarsi

in frasi in forma attributiva o nominalizzata (RT o juntai), né può essere accompagnata

200 Vovin (2009b: 1138).201 Vovin (2009a: 37) glossa l'intera forma monowo come CONJ (congiunzione), mentre in Kondō è una

occorrenza della particella finale, come detto. Per diverse interpretazioni di questa poesia si veda iltesto di Vovin (qui si riporta l'analisi proposta dell'autore).

93

Page 95: Origine e funzioni della particella giapponese wo

da altre particelle. A differenza invece della particella interiezionale, non deve trovarsi

in contesti ben definiti (si ricordi che la particella interiezionale deve essere inserita in

una frase che termini con una delle tre forme obbligate §2.2.1), e non viene utilizzata

soltanto in poesia.

La particella interiezionale wo, continua Kondō, non ha una corretta resa nella lingua

moderna, mentre la particella finale wo equivale al giapponese moderno のに noni

'benché'. Questa affermazione dell'autore lascia quindi immaginare che la particella che

lui interpreta come finale sia in realtà una particella di congiunzione: è già stato detto

che le particelle finali esprimono un valore desiderativo, proibitivo, enfatico (e infatti

non vi è un criterio netto per distinguerle dalle particelle interiezionali), mentre la

particella finale wo, così come viene analizzata da Kondō, ha una funzione di

congiunzione concessiva, che nulla ha a che vedere con le particelle finali.

Inoltre, la particella finale avrebbe una relazione molto più stretta con la frase a cui

si riferisce: nel solo Man'yōshū si trovano ben 131 occorrenze della forma monowo,

mentre in solo tre casi si legge mono202. Vovin nota però come le occorrenze di mono

come congiunzione (quindi come setsuzoku joshi) siano molto più comuni nei testi più

antichi come Kojiki e Nihonshoki, mentre monowo e forme molto simili a livello di

funzione e costruzione come monokara sono più frequenti a partire proprio dal

Man'yōshū203. Hashimoto ipotizza che wo sia stato aggiunto successivamente per

inserire un valore emotivo, e dello stesso parere è anche Shirane: in contrasto con

Vovin, quindi, i due autori credono che la particella aggiunta sia una particella

interiezionale e non grammaticale204.

Un rapido sguardo all'origine delle congiunzioni, affini per funzione e costruzione a

monowo, può far chiarezza anche sull'origine di quest'ultima. La congiunzione

monokara è formata dal sostantivo mono seguito, secondo Shirane, dalla particella di

moto da luogo kara, secondo Vovin dal sostantivo kara 'clan, relazione, natura' che

successivamente verrà grammaticalizzato nella particella omofona; monono ha origine

nel sostantivo mono seguito dalla particella attributiva (che poteva anche marcare il

soggetto) no, monoyue ha invece origine nel sostantivo yuwe > yue 'origine, causa'. Dato

202 Kondō (1980: 60).203 Vovin (2009b: 1138-43).204 Hashimoto (1969: 209); Shirane (2005: 198).

94

Page 96: Origine e funzioni della particella giapponese wo

che questa altre congiunzioni hanno tutte origine in sostantivi o particelle grammaticali,

appare a mio avviso più probabile che monowo abbia origine dall'uso grammaticale di

wo piuttosto che dal suo uso interiezionale.

In conclusione, Kondō nota molte differenze fra la particella finale wo e le altre

tipologie di particella wo, cosa che gli permette di classificare le tre tipologie in modo

distinto, ma quelle che lui identifica come occorrenze di una particella finale vengono

generalmente interpretate dagli altri autori come occorrenze di particelle esclamative o

di congiunzione. Ad esempio, la frase seguente:

汝 等 を 星朝 は ここだく 高く治め 賜ふ を

imashi-tati wo sumera ga mikado pa kokodaku takaku wosame-tamapu wo205

tu-PLUR-OGG imperatore- TOP molto alto.RY governare.RY-HON.RT PART

'nonostante l'imperatrice abbia governato voi con altissima (benevolenza)'

(Senmyō 宣命 18, 4).

Kondō propone questa frase come uno degli esempi nella sua discussione riguardo la

particella finale wo, mentre Vovin la cita in tutt'altro contesto, ma evidenzia come il

secondo wo abbia funzione di congiunzione concessiva206. Quella che Kondō in questa

frase identifica come una particella finale, viene interpretata da Vovin come una

particella di congiunzione, una setsuzoku joshi: Kondō infatti, nel suo articolo, non

studia affatto la particella di congiunzione, perché “nell'antichità la setsuzoku joshi non

è individuabile” e si sarebbe sviluppata soltanto successivamente207, ma le attestazioni

riportate da Vovin già a partire dal Kojiki ed anche da Iwai sul Man'yōshū dimostrano il

contrario208.

Anche in questo caso, si riporta la tabella di Kondō209 riguardo le occorrenze di wo

come particella finale:

205 La discussione riguarda questo secondo wo, non il primo in imashitati wo, che è invece unaindiscutibile occorrenza di wo in funzione grammaticale.

206 Vovin (2009b: 1108).207 Kondō (1980: 51), l'autore parla espressamente di una particella non individuabile e non di una

funzione, più recente e non ancora individuabile, di una particella già esistente, dato che – come si ègià detto – secondo l'autore esisterebbero differenti particelle wo e non una soltanto.

208 Vovin (2005: 170); Iwai (1974: 404).209 Kondō (1980: 59).

95

Page 97: Origine e funzioni della particella giapponese wo

2.4 La particella wo in funzione di particella di congiunzione

La particella wo era quindi utilizzata anche in funzione di congiunzione, poteva

indicare una causale, una concessiva o una temporale e seguiva una forma attributiva

del verbo210.

Come particella di congiunzione wo emerge già dal periodo Nara (come si è già

detto, vi sono occorrenze nel Kojiki e nel Man'yoshu), ma venne ampiamente utilizzata

a partire dal periodo Heian, per poi andare in disuso nel periodo Muromachi. Hashimoto

Shinkichi spiega infatti che la particella venne utilizzata fino al periodo Edo, quando

venne sostituita stabilmente da に ni e successivamente da のに noni 'benché' (come si

è visto §2.3.1 questo è il valore che Kondō attribuisce alla particella che lui interpreta

come finale)211.

Un esempio del suo utilizzo causale si trova nel Taketori Monogatari:

のちくやしき 事 も あるべき を と おもふ

noti kuyashiki koto mo aru-beki wo to omopu

dopo spiacevole.RT cosa TOPEN essere.RT-dovere.RT PART QUOT pensare.SS

'(non mi sposo) perché penso che dopo ci saranno cose spiacevoli'

(Taketori Monogatari 竹取物語, II).

210 Shirane (2005: 184-186).211 Hashimoto (1969: 208-209).

96

Fig. 4: Distribuzione di wo in funzione finale

Page 98: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Come nel caso di wo nel costrutto monowo, anche per quanto riguarda la

particella di congiunzione, si hanno due differenti teorie sull'origine. Vovin afferma che

questa funzione concessiva sia legata ad un utilizzo particolare della particella

grammaticale wo, che poteva essere utilizzata dopo la forma attributiva di un verbo

fungendo da congiunzione ed aveva la caratteristica di essere utilizzata quando il

soggetto della principale e della concessiva era lo stesso212. Hashimoto invece ritiene

che l'origine di questa particella sia nella particella interiezionale wo: come già visto,

essa aveva la funzione di esprimere una sfumatura emotiva, e grazie a questa sua

funzione spesso era utilizzata per inserire una pausa nel discorso. A partire da questa sua

funzione di inserire una pausa, si sviluppò la funzione di congiunzione fra due frasi213.

2.5 Il costrutto in -mi ( ミ語法 mi-gohō)

La cosiddetta ミ 語法 mi-gohō (in inglese spesso tradotta come Mi-Usage) è una

costruzione formata da un sostantivo marcato generalmente dalla particella wo, seguito

dal tema dell'aggettivo ( 形容詞語幹 keiyōshi gokan) e il suffisso -mi.

Sostantivo + wo + Aggettivo (tema) + mi

Viene utilizzata in funzione causale, e corrisponde al giapponese moderno ので

node 'poiché'214.

Un primo esempio è il seguente:

月読 の 光 を 清み

Tukuyomi no pikari wo kiyo-mi

luna- ATTR luce- PART puro-SUFF

'poiché la luce della luna era pura' (Man'yōshū 万葉集, maki 15, n. 3599).

Il tema dell'aggettivo deve appartenere a una delle due tipologie di aggettivi del

giapponese antico (-ku e -shiku215), ad esempio l'aggettivo in -ku まねし maneshi

212 Vovin (2009b: 170).213 Hashimoto (1969: 209).214 Kōji (1988: 865).215 In giapponese antico vengono categorizzate due classi di aggettivi, quelli in -ku e quelli in -shiku, che

97

Page 99: Origine e funzioni della particella giapponese wo

'molto' che si costruisce con la forma -mi come mane-mi, e l'aggettivo in -shiku 懐かし

natukashi 'caro, prezioso' che diviene natukashi-mi. Possono chiaramente essere

aggiunti avverbi di grado all'aggettivo, ad esempio nella frase seguente è presente

l'avverbio di grado ito 'estremamente'216:

梅 の 花 いまだ 咲かなく いと 若み かも

ume no hana imada saka-naku ito waka-mi kamo217

pruno-ATTR fiori non ancora fiorire.MZ-NEG.RY troppo giovani-SUFF PART

'il fatto che i fiori di pruno non siano ancora fioriti, è perché sono troppo giovani, mi

chiedo?' (Man'yōshū 万葉集, maki 4, n. 786).

Quanto al suffisso -mi, non vi è accordo fra gli studiosi riguardo il valore che deve

essere ad esso attribuito. Viene interpretato, nel dizionario 時代別大辞典 jidaibetsu

daijiten citato da Kōji, come suffisso sospensivo o condizionale218, ma gli studi più

recenti attribuiscono al suffisso -mi un valore diverso. Frellesvig, che lo identifica come

una seconda forma infinitiva dell'aggettivo (insieme alla infinitiva più diffusa -ku),

scrive che la presenza di -mi determinerebbe una forma verbale non finita, un gerundio,

con valore causale219. Anche Vovin conferma che la sua funzione di base sarebbe quella

di un gerundio a cui si si attribuisce un valore causale, in quanto sarebbe utilizzato per

spiegare la ragione dell'azione espressa dalla frase principale, oppure un valore

consecutivo, in quanto potrebbe esprimere anche la natura consecutiva dell'azione

seguente220. Sia Frellesvig che Vovin, inoltre, riportano che questa costruzione potrebbe

fungere da verbo di una proposizione subordinata retta da verbi come 'pensare, ritenere,

non possono essere distinti grazie alla loro forma conclusiva (SS), che è la stessa in entrambe le classi,ma in base alle altre forme della flessione, in quanto negli aggettivi in -shiku i suffissi si aggiungonoal tema in -shi. Ad esempio l'aggettivo yoshi 'buono' forma la SS appunto come yoshi, mentre vuole laforma continuativa (RY) in yoku e quella attributiva (RT) in yoki: viene quindi classificato comeaggettivo in -ku. La SS dell'aggettivo ashi 'cattivo' è allo stesso modo ashi, ma la sua RT è ashiki e lasua RY ashiku, e viene quindi inserito nella classe degli aggettivi in -shiku. Si veda Frellesvig (2010:90).

216 Motohashi (2009: 288-289).217 Vovin (2009b: 1235) spiega che la particella enfatica kamo può indicare esclamazione o domanda

fatta a causa di una incertezza: Vovin infatti lo traduce come “I wonder”.218 Kōji (1988: 866).219 Frellesvig (2010: 87).220 Vovin (2009b: 485).

98

Page 100: Origine e funzioni della particella giapponese wo

trattare' e, in questa differente funzione, la costruzione in -mi non implicherebbe più un

valore causale. Ad esempio:

いま の まさか も うるはしみ すれ

ima no masaka mo urupashi-mi sure

adesso-ATTR questo momento- TOPEN bellissimo-SUFF fare.IZ221

'trovo questo momento bellissimo' (Man'yōshū 万葉集, maki 18, n. 4088).

Non si ha ancora una spiegazione sicura della costruzione in -mi. Gli autori

giapponesi sono generalmente concordi nell'identificare il sostantivo marcato da wo

come soggetto della frase, mentre il predicato è costituito dal tema dell'aggettivo con

suffisso -mi, che si comporta nella coniugazione come un verbo 四 段 yodan

appartenente alla マ行 ma-gyō (quindi come verbi che hanno la forma di fine frase

-mu), di cui -mi rappresenta la forma continuativa222: il fatto che si tratti di una forma

continuativa sembrerebbe essere confermato anche da alcune occorrenze in cui

l'aggettivo con suffisso -mi appare seguito da ausiliari come te (che coordina due frasi) o

tutu (che indica una azione ripetuta), dato che entrambi gli ausiliari devono essere

preceduti dalla forma continuativa223. Vovin nota però che questa costruzione può anche

essere retta dal verbo difettivo to 'dire, pensare'224, e il verbo che precede to deve essere

necessariamente in forma conclusiva: questo fatto lascerebbe pensare che il suffisso -mi

non rappresenti una forma continuativa del verbo, bensì conclusiva225. Ad esempio:

くらはし 山 を さがしみ  と

kurapashi yama wo sagashi-mi to

kurapashi monte- PART ripido-SUFF QUOT

'(penso che) il monte Kurapashi sia scosceso' (Kojiki 古事記, 69).

221 La forma sure è una IZ e in frase principale segnalava una esclamativa, si veda Frellesvig (2010: 55).222 Hashimoto (1969: 112-113); Kōji (1988: 865) che cita anche due dizionari di giapponese antico a

supporto della sua idea.223 Ma si veda Motohashi (2009: 293) per una diversa interpretazione di queste occorrenze.224 Vovin (2009b: 488). Come già detto, Vovin glossa to come DV, un verbo difettivo che ha una forma

infinitiva to che introduce verbi come 'dire, pensare', una forma di fine frase in cui to è utilizzato dasolo senza verbo a seguire (con il significato ugualmente di 'dire'), e una forma di gerundio to-te(Vovin 2009b: 549 ss.).

225 Motohashi (2009: 292).

99

Page 101: Origine e funzioni della particella giapponese wo

A partire da questo utilizzo, Vovin conclude che la costruzione in -mi avrebbe avuto

una funzione di forma di fine frase nel periodo precedente all'epoca Nara, mentre la

funzione di subordinata causale sarebbe sorta solo successivamente226.

Frellesvig propone invece una diversa interpretazione dell'esempio precedente. Nel

suo studio, to in questo caso viene identificato come una forma di gerundio irregolare,

che si sostituisce al regolare te, creando una forma -mito. Quindi Frellesvig glossa la

frase precedente in questo modo227:

くらはし 山 を さがしみと

kurapashi yama wo sagashi-mito

kurapashi monte- ACC228 ripido-ACOP.GER

'essendo il monte Kurapashi scosceso'

Un elemento però non risulta chiaro nella spiegazione di Frellesvig: dato che il

valore di base che l'autore attribuisce alla costruzione -mi è quello di un gerundio, si

dovrebbe spiegare il motivo per cui il suffisso -mi reggerebbe un secondo suffisso di

gerundio e quale sarebbe la differenza fra -mi e -mito. La teoria di Vovin, secondo cui to

rappresenterebbe un'occorrenza del verbo difettivo to in forma di fine frase con il

significato di 'dire, pensare' (oppure, che dir si voglia, che si tratti della particella to, che

sottintenderebbe verbi come 'pensare, dire, ritenere') sembra a mio parere più

attendibile.

Il problema fondamentale, però, su cui si è molto discusso è il motivo per cui il

sostantivo che compare in questa costruzione sia marcato della particella wo. Anche in

questo caso, differenti teorie sono state proposte, da un lato per tentare di identificare se

la particella wo che compare nel costrutto in -mi abbia un valore grammaticale o

interiezionale, dall'altro, ammesso che la sua funzione sia quella grammaticale, per

capire se il sostantivo marcato possa essere inteso come il soggetto o come l'oggetto del

226 Vovin (1997: 278).227 Frellesvig (2010: 88-89). Frellesvig glossa -mi come ACOP, “adjectival copula” perché così definisce

tutte le desinenze aggettivali dell'antico giapponese (la conclusiva SS -shi, adnominale RT -ki,infinitiva1 RY -ku, infinitiva2 -mi etc.) a causa della loro funzione e del loro sviluppo in diacronia, checondividono in gran parte con la copula ni.

228 Frellesvig è uno degli autori che definisce wo “particella dell'accusativo”, quindi glossa le sue occorrenze come ACC.

100

Page 102: Origine e funzioni della particella giapponese wo

costrutto.

Un primo elemento che deve essere notato, è che il sostantivo che compare in questa

costruzione può essere marcato o meno da una particella, ma se è marcato, la particella

è sempre wo. Motohashi infatti correttamente nota come alcuni casi in cui

apparentemente il sostantivo della costruzione -mi è marcato dalle particelle ga oppure

no, siano in realtà errori di interpretazione. Ad esempio:

吉野 川 行く 瀬 の 早み

Yoshino gawa yuku se no haya-mi

Yoshino fiume andare.RT corrente-GEN veloce-SUFF

しましく も 淀む こと なく

shimashiku mo yodomu koto naku

un attimo PART ristagnare.RT NMLZ NEG.RY

(Man'yōshū 万葉集, maki 2, n. 119).

Questo verso viene interpretato erroneamente come una costruzione in -mi, ovvero

una proposizione causale il cui senso sarebbe 'poiché la corrente è veloce'. Motohashi

invece suggerisce che hayami sia un sostantivo, e il verso debba essere correttamente

interpretato come 'la velocità della corrente' (preceduto infatti dalla relativa con il verbo

yuku 'andare'): la corretta traduzione sarebbe quindi 'senza alcun ristagno, come la

velocità della corrente del fiume Yoshino che corre (veloce)'229.

Secondo Hashimoto la particella wo utilizzata nel costrutto -mi marcherebbe il

soggetto, ma avrebbe il valore di una particella interiezionale e non grammaticale: lo

studioso però non sa spiegare perché si usi sempre wo e mai una vera e propria

particella di soggetto230. Kōji concorda con l'interpretazione di Hashimoto riguardo wo:

questa particella non sarebbe una particella grammaticale ma piuttosto una che esprime

enfasi, e questo comporterebbe che il sostantivo non sia marcato da alcuna particella

grammaticale, cosa che lo identificherebbe come soggetto della frase231.

229 Motothashi (2009: 289).230 Hashimoto (1969: 113).231 Kōji (1988: 865). Come già accennato, e come si vedrà in dettaglio più avanti (§4.1), la particella del

soggetto moderna ga aveva anticamente un valore attributivo e raramente veniva impiegata permarcare il soggetto, e stessa funzione aveva no. Poteva essere presente l'antica marca del

101

Page 103: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Diversa è invece la posizione di altri studiosi come ad esempio Shirane, che

identifica la particella wo presente in questo costrutto come particella grammaticale232.

Allo stesso modo, Kondō, applicando il suo studio rigoroso sulla distribuzione anche

alla costruzione in -mi, riesce a concludere che questa occorrenza di wo

rappresenterebbe un caso del suo uso come particella grammaticale233. Lo studio di

Kondō parte anche qui dalle forme che precedono la particella wo nelle occorrenze della

costruzione in -mi: wo è preceduta da sostantivi, forme attributive del verbo seguite dal

nominalizzatore koto, costruzioni in -ku (con funzione di nominalizzatore) e frasi

nominalizzate. Come si può notare, questo schema è assai simile a quello della

particella wo utilizzata in funzione grammaticale (§2.1.3). Inoltre, non esistono esempi

in cui, in questo costrutto, wo sia accompagnata da ni (la forma ni wo era tipica della

particella interiezionale §2.2.1), né occorrenze di mono wo (comuni invece con la

particella finale §2.3.1). La particella presente in questo costrutto sembra svolgere una

funzione grammaticale anche in quanto può precedere altre particelle come quelle

restrittive o pragmatiche (ad esempio nella combinazione wo namo), cosa che non è

permessa alle altre tipologie di particelle. Lo schema proposto dall'autore è il seguente,

ed è fortemente affine a quello, già visto, della particella grammaticale:

Ci sono anche casi in cui wo non è presente a marcare il sostantivo della costruzione

in -mi, ad esempio la frase seguente:

soggetto/agente i, ma molto più frequentemente (soprattutto in frase principale ma anche in frasesubordinata) il soggetto non era affatto marcato.

232 Shirane (2005: 161).233 Kondō (1980: 60-61).

102

Fig. 5: Distribuzione di wo nella costruzione in -mi

Page 104: Origine e funzioni della particella giapponese wo

散ら ま く  をしみ

tira- ma- ku woshi-mi

cadere.MZ-CONG-NMLZ ø dispiaciuto-SUFF

'perché si dispiace che (i fiori) sarebbero caduti'

(Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 842),

E' stato ipotizzato, scrive Kondō, che questa alternanza wo-ø dimostrasse che la

particella in questione non fosse una particella grammaticale, interpretandola – come

visto – come una particella esclamativa che può essere omessa senza modificare il senso

della frase: invece è proprio la particella nella sua funzione grammaticale ad essere

spesso sostituita da ø234. L'autore conclude che il sostantivo marcato da wo fungerebbe

da oggetto della costruzione in -mi, che deve essere interpretata come una costruzione

transitiva.

L'alternanza wo-ø viene presa in considerazione anche da Motohashi, uno degli

studiosi che riconosce un allineamento ergativo-assolutivo nel giapponese antico. Ciò

che interessa qui è che Motohashi identifica la particella wo come marca del caso

assolutivo e come tale segnalerebbe l'oggetto dei verbi transitivi e il soggetto dei verbi

intransitivi235. Questo permette a Motohashi di giustificare la presenza di wo e non di

altre particelle in questo costrutto intransitivo. Per quanto riguarda l'alternanza wo-ø

nella costruzione -mi (e per quanto riguarda anche tutte le occorrenze di wo in funzione

marca dell'oggetto), come si vedrà (§4.2) l'autore propone di legarla a parametri come

umano/inanimato, nome proprio/comune e così via ad esempio236:

234 L'alternanza wo-ø nei testi giapponesi antichi, quindi a prescindere dalla costruzione -mi, è stataoggetto, come si vedrà (§4.2), di studi recenti da parte di numerosi autori, si veda ad esempio, fra glialtri, Frellesvig (2010) e Miyagawa (1989; 2011 ).

235 Il riferimento qui è a Motohashi (2009: 284-6), ma questa non è la prima formulazione propostadall'autore: in Motohashi (1989), la teoria formulata è differente. La sua teoria sull'allineamentomorfosintattico del giapponese antico è spiegata in §4.1.2.Per quanto rigarda una panoramicasull'allineamento morfosintattico si veda §4.1.1.

236 Motohashi (1989: 125-6). L'autore dice di aver ripreso questi parametri dallo studio sulla transitivitàdi Hopper e Thompson (1980): la transitività viene interpretata come una scala basata su dieci criteriche determinano quanto una frase è transitiva. Quanti più tratti sono presenti, tanto più la frase ètransitiva. Questi criteri riguardano i partecipanti all'azione (due partecipanti o uno soltanto), lavolontarietà, se la frase è affermativa o negativa, se l'oggetto è altamente individuabile o meno (cosache dipende da una serie di altri criteri come appunto umano/inanimato, nome proprio/comune,concreto/astratto, e così via). Anche in questo caso, questo discorso può essere ricondotto al parametrodella “specificità” proposto da Frellesvig, Horn e Yanagida nella loro ultima formulazione del 2013.

103

Page 105: Origine e funzioni della particella giapponese wo

山 高み 富士の ねを 高み

yama taka-mi Puzi no ne wo taka-mi

montagna ø alta-SUFF Fuji-ATTR cima-PART alta-SUFF

'poiché la montagna è alta' 'poiché la cima del monte Fuji è alta'

(Man'yōshū 万葉集, maki 6, n. 1039); (Man'yōshū 万葉集, maki 3, n. 321).

Nella prima frase la particella wo non è richiesta in quanto il sostantivo che avrebbe

dovuto essere marcato è espresso con un nome comune, yama 'montagna'; viceversa

nella seconda frase il sostantivo è rappresentato da un nome proprio, il monte Fuji, per

cui viene marcato da wo.

L'ipotesi che, nella costruzione in -mi, wo sia una particella di caso assolutivo è

sostenuta apertamente anche da Vovin. L'autore spiega che wo, oltre a marcare l'oggetto

di verbi transitivi, marcava anche il soggetto in frasi in cui il predicato è rappresentato

da un verbo intransitivo inattivo, ad esempio proprio la costruzione in -mi, in cui il

predicato è un “quality stative verb”237: wo marca quindi quello che Haspelmath

definisce “caso pazientivo”. A differenza infatti di Motohashi, Vovin non considera il

giapponese una lingua con allineamento ergativo (perché nella teoria di Vovin wo non

marca tutti gli intransitivi ma solo un limitato numero di questi) ma, come si vedrà

(§4.1.4), una lingua che combini la tipologia attiva e quella nominativo-accusativa, con

una forte preferenza per quest'ultima.

Diversa è invece la posizione di Wrona e Frellesvig, che considerano il giapponese

antico una lingua con allineamento nominativo-accusativo ed interpretano tutte le

occorrenze della particella grammaticale wo come particella del caso accusativo238. La

presenza della particella wo nella costruzione in -mi viene giustificata dai due studiosi

come marca dell'oggetto diretto di un predicato sottinteso. Come già visto, l'aggettivo

con suffisso -mi può essere utilizzato come predicato di una frase dipendente seguita

dal verbo omopu 'pensare', ad esempio:

237 Vovin (1997: 276). Vovin preferisce questa definizione a quella più tradizionale di “aggettivo” perdifferenziare la categoria degli aggettivi giapponesi da quella degli aggettivi nelle lingue europee.

238 Wrona, Freellesvig (2009: 572-574).

104

Page 106: Origine e funzioni della particella giapponese wo

仕へ奉りまさへる ことを なもかたじけなみ

tukapematuri-masap-eru koto wo namo katazikena-mi

servire.RY-HON-STAT.RT NMLZ-PART ENF eccessivo-SUFF

いそしみ 思ほします

isoshi-mi omoposhi-masu

diligente-SUFF pensare.RY-HON.SS

'riteniamo il fatto che (tu) abbia servito eccessivo e diligente' (Senmyō 宣命 52.4).

La costruzione in -mi in questi contesti sintattici, affermano i due autori, è

particolarmente affine ad un'altra costruzione giapponese dalla struttura identica, in cui

il predicato non è un aggettivo, ma un sostantivo seguito da una copula. Ad esempio:

てらす 日を 闇に 見做して

terasu pi wo yami ni minashi-te

splendere.RT sole-PART oscurità-COP ritenere.RY-GER

'ritenere oscurità il sole che splende' (Man'yōshū 万葉集, maki 4, n. 690).

In entrambi gli esempi, la particella wo fungerebbe da marca dell'oggetto del verbo

'pensare, ritenere'. Wrona e Frellesvig quindi ritengono che questo utilizzo di wo

sarebbe stato esteso a partire dalla funzione non causale di -mi fino alla subordinata

causale, in cui il verbo 'pensare' verrebbe regolarmente omesso.

Nell'ultima riformulazione del loro studio, Frellesvig, Horn e Yanagida hanno

proposto che questa costruzione potrebbe essere interpretata come una costruzione

assoluta, in cui la particella wo fungerebbe da marca dell'accusativo, ad esempio239:

よし を なみ [...] 嘆き そ 我が する

yoshi wo na-mi [...] nageki so wa ga suru

possibilità PART non essere-SUFF [...] lamento ENF io-SOGG fare.RT

'non essendoci altra possibilità, tutto ciò che faccio è struggermi'

(Man'yōshū 万葉集, maki 4, n.714).

239 Si veda la loro presentazione al convegno internazionale della linguistica storica, Frellesvig, Horn,Yanagida (2013).

105

Page 107: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Questa costruzione quindi avrebbe la funzione di una subordinata non finita, che non

sembra avere necessariamente un valore causale, ma forse anche temporale o

consecutivo.

La costruzione in -mi è una delle costruzioni fondamentali sulla base di cui numerosi

studiosi hanno sviluppato la propria teoria riguardo l'allineamento morfosintattico del

giapponese antico, come è stato accennato. L'utilizzo in questa costruzione ha spesso

posto interrogativi riguardo il valore della particella wo utilizzata, dato che la sua

presenza risulta difficilmente spiegabile se si presuppone che il giapponese antico

avesse avuto un allineamento nominativo/accusativo (in cui l'agente del verbo bivalente

e l'attante unico del verbo monovalente sono marcati formalmente allo stesso modo,

mentre diversamente è marcato il paziente del verbo bivalente), mentre può essere presa

come punto di partenza per teorizzare un allineamento attivo (in cui l'attante del verbo

monvalente è in alcuni casi trattato come un agente del verbo bivalente, in altri come il

paziente del verbo bivalente). Anche in questo caso, l'applicare l'etichetta “caso

accusativo” non fa che complicare ulteriormente la ricerca, dato che il valore della

particella in questa costruzione non può essere facilmente connesso alle funzioni

generalmente espresse tramite il caso accusativo. Rimanendo legati alla dicitura di “caso

accusativo”, una proposta che forse potrebbe essere approfondita maggiormente è quella

di Frellesvig, Horn e Yanagida, dato che la costruzione dell'accusativo assoluto non è

rarissima nelle lingue occidentali. Altresì, è interessante la proposta di Vovin (§4.1.4),

che al contrario delle formulazioni di Motohashi o di Yanagida e Whitman, spiega che il

giapponese avrebbe avuto sì un allineamento nominativo/accusativo, ma in alcuni casi

avrebbe ammesso un allineamento attivo utilizzando le particelle i (agentiva) e wo

(pazientiva), come accade nella costruzione -mi.

La costruzione in -mi ebbe un utilizzo frequente in epoca Nara e negli impieghi più

arcaici della poesia di epoca Heian, ma non sembra esser stato un costrutto utilizzato nel

giapponese colloquiale, e scomparve subito dopo240.

240 Hashimoto (1969: 115).

106

Page 108: Origine e funzioni della particella giapponese wo

2.6 Osservazioni conclusive

Come è già stato accennato, numerosi studiosi, principalmente quelli giapponesi,

tendono a distinguere differenti “particelle wo” e non diverse funzioni attribuibili ad un

unica particella. Kondō, ad esempio, scrive espressamente che sarebbe errato ritenere

che i tre tipi di particella wo (grammaticale, interiezionale e finale) non siano

completamente differenti: da un lato non è mai stata provata, scrive l'autore, una origine

comune di queste tre particelle, dall'altro qualsiasi occorrenza di wo può e deve

necessariamente essere categorizzata all'interno di una di queste tre tipologie, e quindi

non ammette l'esistenza di occorrenze inclassificabili241. Anche studiosi con posizioni

meno estreme, come Hashimoto, spiegano che wo avrebbe avuto prima una funzione

interiezionale (e veniva utilizzata per sottolineare la relazione fra parola e parola quando

questa non fosse stata chiara), da questo suo utilizzo avrebbe avuto origine la sua

funzione grammaticale; dall'uso interiezionale avrebbe origine anche la funzione

particella di congiunzione grazie alla sua caratteristica di essere espressa per inserire

una pausa nel discorso242: si tratta quindi di differenti funzioni, originatesi in fasi

differenti della lingua, espresse dallo stesso morfema. Questi studiosi sembrano essere

molto legati alla classificazione di Yamada (§1.1), in cui ogni particella deve essere

rigidamente classificata all'interno di una delle sei categorie identificate: a ogni

particella si attribuisce un solo valore (in sincronia), e se si riconoscono più valori, come

fa Kondō, questi sono attribuiti a particelle omofone ma diverse.

Molti studiosi (Kondō ad esempio) sembrano aderire alla posizione che

Haspelmath243 definisce omonimista: esisterebbero tre morfemi differenti wo, ogni

morfema sarebbe legato ad una funzione e quindi ad un valore diverso. Sembra che

questi studiosi siano legati all'idea secondo cui ad ogni morfema corrisponda una

singola funzione (biunivocità del rapporto forma-funzione), ma dato che i valori

espressi da wo sono diversi (anche in sincronia), non si può far altro che identificare tre

particelle omofone differenti.

Una posizione intermedia è quella polisemista, in cui si ritiene che non sia affatto

241 Kondō (1980: 64-5). 242 Hashimoto (1969: 117-8). 243 Haspelmath (2003: 212).

107

Page 109: Origine e funzioni della particella giapponese wo

casuale che le differenti funzioni siano espresse dallo stesso morfema, e che queste

funzioni siano in qualche modo connesse fra di loro: questa è la posizione portata avanti

da Hashimoto.

Una posizione opposta, che però sembrerebbe non essere accolta in modo radicale da

nessuno studioso è quella monosemista: secondo Haspelmath, gli studiosi che

aderiscono a questa impostazione ritengono che il morfema avrebbe un significato

astratto e tutte le differenti funzioni sarebbero semplicemente date dal contesto. Questa

posizione è chiaramente presa in considerazione quando si studia ad esempio

l'accusativo occidentale (§1.2.2), che come visto ha una funzione di base grammaticale

e tutte le altre funzioni sono determinate dal contesto. Per quanto riguarda la particella

wo, soltanto due studi hanno una impostazione simile. Il primo è la recente congiunta

proposta di Frellesvig, Horn e Yanagida. Gli studiosi identificano, fra i vari usi di wo

come accusativo, quello di marca dell'oggetto, quello di marca di locativi e temporali,

quello di marca nella costruzione assolutiva -mi e quello esclamativo: vengono incluse

in questo studio sia la funzione grammaticale (kaku joshi) che la funzione interiezionale

(kantō joshi), ma non non viene però citato l'utilizzo di congiunzione. Il secondo è lo

studio di Vovin. L'autore definisce l'utilizzo come congiunzione uno “special usage” del

“marker accusativo/assolutivo” wo; per quanto riguarda invece l'utilizzo enfatico di wo,

come si è visto (§2.2), Vovin ritiene che almeno tre degli unici quattro indiscutibili

esempi di utilizzo della particella in questa funzione potrebbero essere interpretati come

un accusativo. Come si è già accennato, Vovin studia soltanto le occorrenze di wo in

funzione enfatica nel Man'yoshu, ma è nel periodo Heian che si nota un gran numero di

occorrenze di wo con valore enfatico.

Anche il valore interiezionale sembra essere in realtà riconducibile ad una funzione

della particella grammaticale wo. Come già accennato, non è raro che la stessa

espressione utilizzata per marcare l'oggetto venga anche utilizzata come esclamazione,

si veda ad esempio l'accusativo esclamativo latino. Inoltre, come è già stato sottolineato

(§1.2.3), può accadere che le particelle giapponesi non esprimano solamente un ruolo

semantico o una relazione grammaticale ma anche un valore pragmatico, e che quindi i

differenti piani siano sovrapposti (come già è stato visto con la moderna particella ga).

Si può ipotizzare, quindi, che anche wo nell'antico giapponese avesse avuto sia una

108

Page 110: Origine e funzioni della particella giapponese wo

funzione interiezionale (che permetta di enfatizzare un determinato elemento, come un

verbo) sia una funzione che viene tradizionalmente definita grammaticale, ma – come si

vedrà in §4.2 – si tratterebbe in realtà di un valore pragmatico (essa marcherebbe solo

oggetti specifici): questo valore pragmatico potrebbe fungere da collegamento tra la

funzione interiezionale e quella definita grammaticale. Una teoria simile era già stata

proposta da Yanagida e da Kuroda244 che però ritengono che wo non avesse affatto

funzione grammaticale, in quanto secondo i due autori la marca dell'oggetto di default

sarebbe ø, ma avesse una funzione affine a quella delle particelle pragmatiche (come

koso o namo §1.1.5): i sintagmi marcati dalle particelle pragmatiche precedono i

soggetti marcati da ga/no, e anche i sostantivi marcati da wo tenderebbero a precedere

questi soggetti (l'ordine delle parole sarebbe quindi OSV). La particella wo avrebbe

secondo gli autori un'unica funzione, quella di marcare il focus (ma secondo Yanagida

potrebbe segnalare anche il topic), e comparirebbe a marcare oggetti enfatizzati che

vengono posti prima del soggetto (ordine OSV): wo avrebbe quindi una funzione

strettamente e unicamente pragmatica. Solo successivamente wo sarebbe diventata la

marca dell'oggetto di default. Si dovrebbe però spiegare perché una particella che

segnali il focus, e come tale quindi non debba necessariamente marcare l'oggetto ma

possa segnalare un focus anche su altri elementi, sarebbe poi diventata una particella

grammaticale che marchi l'oggetto diretto. È invece possibile che vi fosse già una forte

connessione fra l'oggetto e la particella wo nel giapponese antico, e si tenterà di

dimostrare questo nel Cap. 3.

Si può quindi concludere, per ora, che la posizione che Haspelmath chiama

monosemista sia probabilmente la più corretta, in quanto tutti i valori che possono

essere attribuiti alla particella wo nel giapponese antico, a partire da quello di

espressione dell'oggetto (o del paziente), quello di espressione di elementi concreti

come i complementi di luogo o tempo (che, come visto, non è affatto raro che si

esprimano con la stessa marca dell'oggetto), fino a quello interiezionale o enfatico,

possono perfettamente essere riconducibili ad un'unica particella wo, le cui funzioni

sono in parte comparabili con le funzioni dell'accusativo delle lingue indoeuropee.

244 Yanagida (2006: 47); Kuroda (2007: 22).

109

Page 111: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Introduzione ai Capitoli 3 e 4

La funzione originaria di wo

Le questioni che sono state principalmente dibattute, e che sono state accennate

di tanto in tanto nei due capitoli precedenti, sono due.

Un primo problema è legato alla distribuzione della particella wo nella sua funzione

grammaticale, ovvero all'alternanza wo-ø limitatamente all'espressione delle relazioni

grammaticali (escludendo quindi le funzioni concrete locative o temporali) nella lingua

antica e classica. Un primo esempio, proposto da Shibatani per mostrare questa

alternanza, è il seguente:245

古き 都 を 見れば 悲しき

puruki miyako wo mire-ba kanashiki

antica.RT capitale-OGG guardare.IZ-TEMP triste.RT

'sono triste quando guardo l'antica capitale' (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 32);

荒れたる 都 見れば 悲しも

are-taru miyako mire-ba kanashi mo

essere in rovina.RY-PASS.RT capitale ø guardare.IZ-TEMP triste.SS PART

'sono triste quando guardo la capitale in rovina' (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 33).

L'alternanza wo-ø venne notata già dagli studiosi del periodo Edo, ad esempio

Fujitani Nariakira246 ( 富士谷 成章 1738–1779), che la spiegò affermando che quando vi

fosse stata una ovvia relazione fra verbo e oggetto, la particella non sarebbe stata

utilizzata, mentre se la relazione fra l'oggetto e il verbo non fosse stata evidente, allora

245 L'esempio è stato preso da Shibatani (1990: 340). La prima frase ha il verbo in forma attributivaperché nella prima parte della poesia (qui non riportata) è presente la particella ya, che provoca lamodifica del verbo di fine frase (§ 1.1.5), mentre la seconda presenta il verbo regolarmente in formadi fine frase. Non è ben chiaro il motivo della presenza di wo nella prima frase e della sua assenzanella seconda, una possibile spiegazione è connessa con le necessità metriche del verso nelle poesiegiapponesi. Sull'alternanza wo-ø si veda §4.2, su questa coppia di frasi si veda anche §5.1.

246 Citato in Bentley (2001: 117-8).

110

Page 112: Origine e funzioni della particella giapponese wo

si sarebbe utilizzata la particella per enfatizzare l'oggetto.

Questo fenomeno venne investigato approfonditamente nel secolo scorso da molti

studiosi, che giunsero a conclusioni molto differenti. Da un lato, Matsuo (1938), Oyama

(1958), Hiroi (1957), e sulla loro scia anche studiosi più recenti come Konoshima o

Hashimoto (di cui si è già parlato, §2.2), che ritengono che la particella wo non avesse

affatto funzione grammaticale nella lingua antica, ma avesse soltanto una funzione

interiezionale: la particella quindi non potrebbe essere classificata come particella

grammaticale (kaku joshi), sin dai primi testi, ma solo come particella interiezionale

(kantō joshi). Sarà poi a partire dal periodo Heian che, pian piano, grazie anche – come

si vedrà (§3.1) – all'influsso dei testi cinesi, la particella wo avrebbe iniziato ad essere

stabilmente utilizzata per marcare l'oggetto. Dall'altro lato, vi sono studiosi

(generalmente occidentali) che invece attribuiscono alla particella wo una funzione

grammaticale sin dai primi testi, e tentano di spiegare questa alternanza in base a fattori

differenti (di questo si è già accennato a proposito della costruzione in -mi, §2.5):

Miyagawa&Ekida (2003) ad esempio sostengono che l'alternanza dipenda dalla forma

del verbo della proposizione in cui l'oggetto compare (un verbo in forma di fine frase

permetterebbe ø, un verbo in forma attributiva richiederebbe wo); Wrona&Frellesvig

(2009) propongono una spiegazione in cui wo sarebbe la marca dell'oggetto di default e

le occorrenze di ø sarebbero spiegabili come “case drop” e dovute alla vicinanza

dell'oggetto al verbo e alla non-definitezza dell'oggetto; Motohashi (1989), similmente,

spiega che a determinare l'alternanza siano tratti come l'individuazione dell'oggetto (con

cui si distinguono gli oggetti umani e non umani, definiti e non definiti) o la modalità

della frase (affermativa o negativa, realtà o irrealtà); infine, nell'ultima riformulazione di

Frellesvig, Horn&Yanagida (2013), si propone che la presenza o assenza di wo dipenda

dalla specificità dell'oggetto (wo sarebbe presente solo in caso di oggetto specifico).

Il secondo problema è strettamente connesso al primo: ammesso che si possa

identificare una funzione grammaticale della particella wo sin dai testi antichi, non è

affatto chiaro quale sia questa funzione (di questa questione si era già accennato al

§2.1.1). Se, come ritengono alcuni studiosi, questa particella deve essere identificata

come marca dell'oggetto sin dai primi testi, non si spiega perché essa venga utilizzata

anche in costruzioni in cui wo marca quello che sembra essere il soggetto (come la

111

Page 113: Origine e funzioni della particella giapponese wo

costruzione in -mi). Questo problema potrebbe essere risolto identificando wo come

marca del paziente nel periodo Nara (così facendo il giapponese di quell'epoca avrebbe

un allineamento attivo-stativo), come propongono altri studiosi, ma non è ben chiaro

come sia possibile che, nel periodo subito successivo, essa vada a marcare soltanto

l'oggetto (in un allineamento nominativo-accusativo), e che quindi possa esserci stato un

mutamento così repentino a livello di allineamento morfosintattico.

112

Page 114: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Capitolo 3

La teoria interiezionale

In questo capitolo verrà analizata la teoria di numerosi autori giapponesi, che

sostengono che la funzione grammaticale della particella wo si sia sviluppata solo

successivamente e che tutte le occorrenze di questa particella nei testi antichi debbano

essere intese come interiezionali. L'alternanza wo-ø nel marcare l'oggetto, quindi, non

dovrebbe necessariamente essere spiegata tramite fattori morfosintattici (legando la

presenza di wo a determinate forme del verbo di fine frase), oppure come un caso di

“case drop”, o legandola al fatto che wo marcherebbe soltanto gli oggetti specifici, o

come una semplice questione di scelta a discrezione dell'autore: nella lingua antica non

sarebbe esistito affatto un morfema che marcasse l'oggetto diretto, l'oggetto di default

non sarebbe stato marcato e la particella wo che poteva comparire accanto all'oggetto

avrebbe avuto una mera funzione interiezionale.

È importante notare sin da subito due fatti.

Il primo è che i più grandi sostenitori di questa teoria, Matsuo (1938), Hiroi (1957) e

Oyama (1958), partono dallo studio dei testi di epoca Heian, mentre i testi più antichi,

risalenti all'epoca Nara, non vengono discussi in modo preciso da questi studiosi, che

infatti riportano ben pochi esempi tratti da essi. Questa scelta dei tre studiosi vizia in

parte la loro discussione riguardo l'originaria funzione della particella wo, anche a causa

del fatto che il periodo Heian vede la nascita di generi letterari differenti come i

monogatari (racconti) o i nikki (diari), i cui autori, chiaramente, avevano necessità

espressive completamente diverse rispetto a quelle degli autori delle poesie del

Man'yoshu o i compilatori degli editti imperiali (senmyō) di epoca Nara. Come si vedrà,

infatti, una possibile spiegazione del valore emotivo che viene da questi studiosi

attribuito alla particella wo nel periodo Heian, è proprio legata a questo problema.

Il secondo è il fatto che la discussione viene incentrata, come accennato, sulla

funzione strettamente grammaticale di wo, che gli autori giapponesi chiamano 客語表

示 kyakugo hyōji 'espressione dell'oggetto': in questa definizione non vengono inclusi

gli utilizzi più concreti di wo, come l'uso temporale o quello di moto per luogo, ma

113

Page 115: Origine e funzioni della particella giapponese wo

soltanto appunto la funzione di marca dell'oggetto diretto247. Le funzioni concrete di

questa particella non vengono mai poste in discussione né viene mai data una

spiegazione riguardo al fatto che la stessa particella marchi elementi differenti come

locativi o temporali, funzioni in cui l'utilizzo di wo non è affatto raro, e – come visto

(§2.1.2) – in cui wo spesso alterna con altre particelle come ni o yori ma non con ø. Si

può chiaramente ipotizzare che, dato che questi studiosi affermano che wo avesse solo

ed esclusivamente una funzione interiezionale nei testi antichi, anche queste occorrenze

in funzione concreta sarebbero, secondo loro, in realtà una espressione della funzione

interiezionale di wo: se così fosse, però, wo andrebbe a sostituire, curiosamente, la

particella grammaticale (come ni) piuttosto che accompagnarla (una forma come ni wo),

come invece la particella nella sua funzione interiezionale è solita fare248. È interessante

notare che questo problema non è mai stato discusso esplicitamente da Matsuo o da

Oyama. L'unico autore, successivo però rispetto ai primi sostenitori della teoria

interiezionale, a porre questo problema è Konoshima249, che – come già visto (§2.1.2) –

interpreta tutti gli utilizzi in funzione concreta di wo come una espressione della

particella interiezionale wo, che sostituisce, appunto, la particella grammaticale

necessaria.

3.1. Lo studio di Matsuo

Il punto di partenza dello studio di Matsuo è, come accennato, l'alternanza wo-ø.

Matsuo scrive espressamente che, nelle occorrenze in cui l'oggetto non è marcato da

alcuna particella, “la relazione di caso viene espressa tramite il rapporto fra parole”250.

Sembra che l'autore stia facendo riferimento alla possibilità che i ruoli semantici in

247 Si noti che, essendo la teoria interiezionale una ipotesi non recentissima, nessun esponente ha maidiscusso riguardo la possibilità che wo marchi il paziente in un allineamento attivo-stativo, comeinvece propongono alcuni autori contemporanei, sebbene studiosi come Matsuo si chiesero il motivoper cui alcune volte wo marcasse un sostantivo che potesse essere definito come soggetto. Nellospiegare questa teoria interiezionale, quindi, nel testo si farà riferimento soltanto alla funzionegrammaticale di wo come marca dell'oggetto, ma, come già accennato e come si vedràsuccessivamente(§4.1), la questione è tutt'altro che chiusa.

248 Come già accennato (§2.2.1), infatti, uno dei criteri di Kondō (1980: 57) per riconoscere la funzioneinteriezionale di wo è proprio il fatto che la particella wo accompagni (e non sostituisca) altreparticelle come ni, e questo è anche confermato da Vovin (2009b: 1273).

249 Konoshima (1966: 56-7)250 Matsuo (1938:1390)

114

Page 116: Origine e funzioni della particella giapponese wo

giapponese antico fossero espressi tramite l'ordine dei costituenti: dato che non

attribuisce alcun valore grammaticale alla particella wo, lo studioso deve

necessariamente identificare un altro espediente morfo-sintattico per segnalare i ruoli

semantici251. Infatti, sulla scia di Matsuo, anche Hashimoto Shinkichi sottolinea il fatto

che per indicare la relazione espressa da wo in funzione grammaticale, non servirebbe

un morfema esplicito in particolare, ma basterebbe la contiguità fra oggetto e verbo e

che quindi le occorrenze di wo nel giapponese antico e classico debbano essere

ricondotte a una funzione interiezionale252.

Questo metodo di esprimere l'oggetto con il morfema ø, continua Matsuo, ha un

impiego anche nella lingua moderna ma era molto più comune nella lingua antica: lo si

osserva infatti già nel periodo Nara e nel periodo Heian.

Il primo problema che Matsuo si pone è capire in che rapporto statistico si trovino

queste due possibilità di espressione dell'oggetto. Per quanto riguarda l'epoca Nara,

l'autore studia le occorrenze di wo e di ø, limitatamente all'espressione dell'oggetto, nei

maki 17 e 18 del Man'yoshu (testi chiaramente poetici) e nel corpus dei senmyō (editti

imperiali, in prosa) e propone questo schema:

Man'yoshu 17 wo 51 ø 96

Man'yoshu 18 wo 42 ø 72

Senmyō wo 519 ø 298253

Il rapporto, calcolato da Matsuo, sarebbe quindi di 3:7 nel maki 17 del Man'yoshu in

favore di ø, 4:6 nel maki 18 in favore di ø, ma 6:4 in favore dell'espressione di wo nei

senmyō: nei testi in poesia sembra quindi essere più comune l'espressione dell'oggetto

senza particella, nei testi in prosa, viceversa, sembra più diffuso l'utilizzo della particella

wo per marcare l'oggetto.

Per provare a spiegare questo diverso rapporto mostrato da un lato nei due maki del

Man'yoshu e dall'altro nel corpus dei senmyō, Matsuo propone di mettere a confronto

251 Come già visto (§1.2), anche Sansom, sostenitore della teoria interiezionale, scriveva espressamenteche “particles are affixed to words which are syntactically in those cases”. Secondo Sansom è l'ordinedelle parole a determinare la relazione grammaticale o il ruolo semantico, da lui definiti “caso”, e nonla presenza delle particelle.

252 Hashimoto (1969: 117).253 I testi dei senmyō sono stati studiati anche da Wrona e Frellesvig, che arrivano ad una conclusione

simile quanto a rapporto percentuale ma, curiosamente, differente quanto a numeri (wo 497, ø 251):dato che in nessuno dei due studi vengono portate motivazioni legate al conteggio, non è possibileipotizzare il perché di questa differenza. Si veda Wrona&Frellesvig (2009: 575).

115

Page 117: Origine e funzioni della particella giapponese wo

queste statistiche con quelle calcolate su alcuni testi del primo periodo Heian, ovvero 竹

取 物 語 Taketori Monogatari (sicuramente prima del 909 d.C.), 伊 勢 物 語 Ise

Monogatari (a cavallo fra il IX e il X secolo), 土佐日記 Tosa Nikki (935 d.C.),

l'introduzione al 古今集 Kokinshū (920 d.C. circa), 庵主 Ionushi o Anshu (un diario di

viaggio risalente alla seconda metà del X secolo) e 大和物語 Yamato Monogatari (951

d.C.)254.

Il rapporto fra wo e ø, in questi testi, è differente in base alla tipologia testuale. Nelle

parti in prosa, l'espressione di wo per marcare l'oggetto tende ad essere più comune in

tutti i testi (si va da un massimo di 7:3 nello Ionushi e 6:4 nel Taketori a una quasi

perfetta parità nel Tosa Nikki). Nelle parti dialogiche, si osservano due tendenze diverse:

lo Ionushi e il Taketori mostrano lo stesso identico rapporto che si vede nelle parti in

prosa fra wo e ø (7:3 nello Ionushi e 6:4 nel Taketori), negli altri testi l'oggetto tende

più spesso a non essere marcato da alcuna particella (ad esempio, il rapporto è 4:6 nello

Yamato, nell'Ise e nel Tosa Nikki in favore di ø). Nelle poesie, infine, la differenza in

percentuale fra le occorrenze dell'oggetto marcato dalla particella e quelle dell'oggetto

non marcato è davvero minima, ma il rapporto è comunque in favore dell'espressione di

wo nel Taketori, nello Ionushi e nello Yamato, è invece leggermente in favore della non

espressione della particella nell'Ise, mentre le occorrenze di wo e di ø nel Tosa Nikki

sono in pari numero255.

Grazie alle diverse tendenze nell'esprimere o meno la particella wo nel segnalare

l'oggetto, Matsuo può dividere questi testi in due gruppi: un primo gruppo formato da

Taketori e Ionushi, in cui si tende generalmente a un più ampio utilizzo della particella

(come nei senmyō), un secondo composto da Ise, Yamato e Tosa Nikki, in cui è più

frequente la non espressione di wo (come nei due maki del Man'yoshu che Matsuo

aveva studiato), se si esclude la particolarità dello Yamato che mostra un maggior

numero di occorrenze di wo nelle poesie.

Sulla base dello studio di queste statistiche, l'autore suggerisce alcune conclusioni.

Un primo elemento che Matsuo sottolinea è il fatto che queste statisiche dimostrino

come la particella wo ancora non si fosse affermata come marca dell'oggetto nella

254 Ad esclusione dell' introduzione in prosa alle poesie del Kokinshū, si tratta di testi che presentanoparti in prosa, parti dialogiche e numerose poesie al loro interno.

255 Si veda Matsuo (1938: 1400-1) per gli schemi e le statistiche dettagliate.

116

Page 118: Origine e funzioni della particella giapponese wo

lingua parlata del periodo in cui furono scritti il Tosa Nikki, l'Ise Monogatari e lo

Yamato Monogatari. In questi testi infatti è molto comune la non espressione di wo nel

marcare l'oggetto, e questo accade principalmente nelle parti dialogiche, che sono

esattamente le parti del testo la cui la tipologia testuale è considerata da Matsuo più

affine al parlato dell'epoca. Come si vedrà successivamente, infatti, una delle

conclusioni che Matsuo propone è che proprio la lingua utilizzata in questi testi sia più

vicina al parlato rispetto ad altri testi come il Taketori.

Per quanto riguarda le altre due tipologie testuali, però, sorge un problema. Il

maggior utilizzo di wo rispetto alla non espressione della particella, nelle parti in prosa,

è facilmente spiegabile, a parere di Matsuo, grazie al fatto che tramite questa tipologia

testuale si narra in modo sequenziale un avvenimento o si esprime in modo logico un

pensiero. Eppure, anche in poesia, un dominio molto conservativo della lingua, che

quindi dovrebbe riflettere l'utilizzo più arcaico (ovvero la fase in cui wo ancora non

fungeva da marca dell'oggetto), e che inoltre Matsuo considera affine alla lingua parlata

dell'epoca, l'espressione di wo è molto frequente. Si tornerà su questo punto fra un

attimo.

La particella wo, limitatamente alle poesie, subì il seguente sviluppo: a partire dai

due maki del Man'yoshu che Matsuo studia, in cui è molto più frequente il non utilizzo

della particella (93 occorrenze totali di wo, 168 occorrenze in cui wo non è espressa), si

giunge nel periodo Heian, in cui nelle poesie dell'Ise Monogatari e del Tosa Nikki

l'espressione di wo e di ø è quasi in parità a livello numerico, ma nello Yamato

Monogatari, di venti anni successivo, l'espressione di wo è notevolmente più frequente.

Per semplicità, si riporta uno schema riassuntivo delle occorrenze di wo nelle poesie

di questi testi:

Man'yoshu 17, 18 wo 93 ø 168 rapporto (3.5:6.5)

Ise Monogatari wo 62 ø 66 rapporto (5:5)

Tosa Nikki wo 25 ø 25 rapporto (5:5)

Yamato Monogatari wo 99 ø 68 rapporto (6:4)

Matsuo conclude che fu proprio il periodo in cui venne scritto lo Yamato Monogatari

che segnò l'inizio del processo di consolidamento della funzione grammaticale di wo:

nel periodo Nara e nei primi anni del periodo Heian, era comune non marcare l'oggetto

117

Page 119: Origine e funzioni della particella giapponese wo

tramite alcuna particella, e fu soltanto a partire dagli anni in cui venne scritto lo Yamato

Monogatari che la particella wo iniziò ad essere stabilmente utilizzata per marcare

l'oggetto. La funzione della particella wo, utilizzata fino a quel momento, è quindi

interpretabile come una funzione interiezionale piuttosto che grammaticale: nei termini

di Matsuo, si può dire che questa particella non sia una particella grammaticale (kaku

joshi) ma una particella interiezionale (kantō joshi), in quanto l'oggetto diretto è di

default marcato da ø256. Prova di questo mutamento è il lento ma continuo aumento del

numero di occorrenze di wo nella tipologia testuale delle poesie.

Un elemento, però, come già visto, non è chiaro dalla spiegazione di Matsuo. Come

è stato accennato, non è semplice spiegare il motivo per cui, in prosa, il marcare

l'oggetto con la particella wo era il metodo più frequente, sia nel periodo Nara (il corpus

dei senmyō) che nel periodo Heian, dove invece i dialoghi mostrano un maggior numero

di occorrenze senza particella. Matsuo prova a spiegare questa incongruenza, come si è

visto, affermando che la tendenza ad un maggiore utilizzo di wo in prosa è connessa alle

caratteristiche di questa tipologia testuale: la prosa, scrive l'autore, permette

l'espressione logica di un pensiero, mentre il dialogo è molto più legato all'emotività dei

parlanti, ma non propone ulteriori spiegazioni. Da questa affermazione di Matsuo, però,

possiamo concludere che la particella wo avesse già una funzione grammaticale sin dal

periodo Heian: nella prosa, tipo di testo che lui definisce “logico” e non “emotivo”,

anche la presenza di wo deve necessariamente esser connessa con l'espressione di una

relazione “logica”, grammaticale, come l'oggetto diretto e non con una funzione

strettamente “emotiva”. Ed è invece proprio l'assenza della particella wo a essere una

delle caratteristiche principali delle parti dialogiche, parti più “emotive”: questo

porterebbe ad ipotizzare che wo avesse già una funzione grammaticale, e per questo, nei

dialoghi, tipologia testuale più legata all'emotività, vi sia la tendenza a non marcare

l'oggetto con wo.

Inoltre, come è stato accennato, due tipologie testuali, i dialoghi e le poesie di epoca

Heian, entrambe reputate molto vicine alla lingua parlata del periodo, mostrano in realtà

tendenze opposte: nei dialoghi è più frequente il non utilizzo di wo, nelle poesie invece

accade molto spesso che la particella wo venga espressa.

256 Matsuo (1944: 625).

118

Page 120: Origine e funzioni della particella giapponese wo

La spiegazione più attendibile, per tentare di dare una ratio a questa incongruenza, è

proposta da Shibatani257. Come è già stato accennato, e come si vedrà anche in seguito,

secondo molti studiosi, pian piano la particella wo si sarebbe diffusa come marca

obbligatoria dell'oggetto. Questo mutamento, secondo Shibatani, si sarebbe manifestato

maggiormente nei registri più formali della lingua, quindi la lingua scritta, rispetto ai

registri meno formali, ovvero il parlato spontaneo: questa spiegazione, ma anche il fatto

che la lingua parlata tende, allora come oggi, ad essere più soggetta a fenomeni di

elisione di particelle, permetterebbe di dar conto della maggior frequenza delle

occorrenze di wo nella prosa e nella poesia, rispetto ai dialoghi.

La motivazione della diffusione della particella wo come marca dell'oggetto diretto

(quindi nella sua funzione grammaticale) è oggetto di discussione nella seconda parte

dell'articolo di Matsuo (1938). I motivi che l'autore identifica sono principlamente due,

ovvero il fatto che la struttura della frase diventi sempre più complessa e l'influsso del

materiale sino-giapponese.

Per quanto riguarda la crescente complessità della struttura della frase, questa

sarebbe provocata, secondo l'autore, dall'inserimento di modificatori fra l'oggetto e il

verbo: si iniziano ad inserire singoli avverbi (come nel seguente primo esempio), ma

anche complementi indiretti o intere proposizioni subordinate, con il risultato che la

distanza fra l'oggetto e il verbo nella frase divenne sempre più ampia. Si vedano, ad

esempio, le seguenti due frasi:

笛 を いと おもしろく 吹きて

pue wo ito omoshiroku puki-te

flauto-OGG assai splendido.RY suonare.RY-GER

'suonava il flauto assai splendidamente' (Ise Monogatari 伊勢物語, LXV);

國王 の 仰せ 言を まさに 世に 住み給はむ

kokuwau no oposegoto wo masa ni yo ni sumi-tamapa-mu

sovrano-ATTR parola-OGG davvero mondo-LOC vivere.RY-HON.MZ-CONG

257 Shibatani (1990: 346-7).

119

Page 121: Origine e funzioni della particella giapponese wo

人 の 承り給は で あり なむ や

pito no uketamapari-tamapa de ari namu ya

persona-SOGG accettare.RY-HON.MZ CONG.NEG esistere.SS PART INTER

'come può una persona che vive davvero su questo mondo esistere e rifiutare gli

ordini del sovrano?' (Taketori Monogatari 竹取物語, VIII).

In questo secondo esempio, l'oggetto diretto 'parola, ordine' (oposegoto) è lontano

dal suo verbo reggente 'accettare' (uketamaparu, qui tradotto come 'rifiutare' perché è

seguito da una congiunzione negativa): fra verbo e oggetto viene posto il soggetto e la

relativa retta da questo (che in giapponese precede sempre il sostantivo a cui si

riferisce). Se non fosse stata presente la particella wo a marcare l'oggetto diretto del

verbo uketamaparu, probabilmente si sarebbe creata una certa confusione

nell'interpretazione della frase a causa dei complessi rapporti fra i diversi sintagmi

all'interno del periodo, e per questo motivo si rese necessario iniziare a marcare

l'oggetto con la particella.

È pur vero, però, che negli stessi testi vi sono anche numerose occorrenze in cui,

anche se il verbo e l'oggetto sono distanti, l'oggetto non viene marcato da alcuna

particella. Ad esempio:

火鼠 の 皮衣 辛うじて

hinezumi no kapaginu karauzite

ratto del fuoco-ATTR pelliccia ø con difficoltà

人 を 出だして 求めて 奉る

pito wo idashi-te motome-te tatematuru

uomini-OGG mandare.RY-GER cercare.RY-GER offrire.SS

'(Vi) offro la pelliccia del ratto del fuoco, (trovata) con difficoltà, avendo mandato

uomini a cercarla' (Taketori Monogatari 竹取物語, V).

Questa discrepanza è spiegata dall'autore tramite il fatto che, secondo lui, la

particella wo ancora non si era ben stabilizzata come marca dell'oggetto in periodi

complessi, e questo è il motivo per cui nello stesso testo (ad esempio il Taketori

120

Page 122: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Monogatari) si trovano sia periodi complessi in cui l'oggetto, se lontano dal verbo, è

marcato da wo, sia periodi complessi in cui l'oggetto non è marcato. E il fatto che nello

Yamato Monogatari invece si trovino molte più occorrenze di wo a marcare l'oggetto di

periodi complessi dimostra ancora una volta, secondo Matsuo, che è proprio durante

questo periodo che wo si starebbe diffondendo come marca dell'oggetto258.

Se accettiamo la teoria di Matsuo, secondo cui tutte le occorrenze di wo nel periodo

Nara e nel primo periodo Heian debbano essere interpretate come interiezionali, si può

allora ipotizzare che è proprio nel momento in cui nei testi si iniziano a incontrare frasi

di questo tipo, in cui oggetto marcato e verbo reggente sono separati da numerosi altri

elementi, che wo inizierebbe ad assumere una funzione grammaticale, benché Matsuo

non lo scriva espressamente. Matsuo aveva affermato che fosse stato a partire dal

periodo in cui venne composto lo Yamato Monogatari (951 d.C.) che wo avesse iniziato

ad essere utilizzata stabilmente per marcare l'oggetto, mentre gli esempi che Matsuo

stesso riporta per spiegare la crescente complessità della frase sono tratti anche da opere

precedenti come il Taketori Monogatari (prima del 909 d.C.). Questo deve

necessariamente portare a ipotizzare che fosse già dal periodo in cui venne scritto il

Taketori, che wo potesse aver avuto la funzione di marcare l'oggetto diretto. L'inizio del

processo di grammaticalizzazione di wo (se accettiamo il fatto che la funzione originaria

di wo fosse solo interiezionale) deve quindi essere posto necessariamente più indietro

nel tempo, anche se si può ammettere che la particella iniziò ad essere stabilmente

utilizzata in funzione grammaticale a partire dal periodo in cui venne composto lo

Yamato. Questo però porta ad un problema. Come è già stato accennato, lo studio di

Matsuo è basato principalmente su testi di epoca Heian, un periodo di grande fioritura

per la letteratura giapponese, che vide la nascita di nuovi generi letterari come racconti

(monogatari) o i diari delle dame di corte (nikki), composti da molte parti in prosa, ma

anche dialoghi e poesie. I testi di epoca Nara scritti in giapponese, erano invece legati a

editti imperiali, preghiere, registri delle province, brevi iscrizioni su statue e altri reperti,

canzoni in giapponese presenti all'interno dei due testi di cronaca storica, Kojiki e

Nihonshoki (scritti in cinese), e l'immenso corpus delle poesie del Man'yoshu259: si tratta

258 Matsuo (1938: 1405-6).259 Chiaramente questa differenza di generi letterari è legata a doppio filo con la questione della

scrittura: fu proprio nei secoli VII e VIII (a cavallo quindi con il periodo Nara) che i giapponesi

121

Page 123: Origine e funzioni della particella giapponese wo

quindi di testi altamente codificati, spesso molto brevi o in versi260, le cui finalità

espressive erano ben differenti da quelle delle opere del periodo successivo.

È chiaro, anche solo giudicando dalla tipologia testuale, che è ben difficile nei testi

del periodo Nara incorrere in frasi complesse, elaborate, formate da numerose

subordinate, cosa invece ovviamente molto comune nei testi di prosa del periodo

successivo. Questo però non permette di decretare che nel periodo Nara non fosse

possibile comporre lunghi e complessi periodi, benché non riportarti a livello scritto da

alcuna fonte. Proprio a causa della non abbondanza e diversità del materiale scritto in

giapponese in epoca Nara e del fatto che la lingua giapponese scritta sia attestata solo

molto tardi, non è semplice ricostruire la lingua parlata dell'epoca. Questo non può e

non deve implicare che in epoca Heian la struttura della frase diventi più complessa

rispetto all'epoca Nara, e che questo vada di pari passo con la progressiva

complicazione del pensiero degli uomini dell'epoca Heian, che sarebbero diventati più

consci, rispetto ai loro antenati, della necessità di marcare l'oggetto261. Semplicemente,

non avendo fonti dirette che siano testimoni in modo preciso del parlato dell'epoca, non

si può affrontare la questione sotto questo punto di vista. Si può chiaramente ipotizzare

che la distribuzione di wo sia legata alla vicinanza fra verbo e oggetto, ovvero che un

oggetto espresso immediatamente prima del verbo sia tendenzialmente non marcato,

mentre un oggetto più distante dal verbo venga marcato da wo262, ma questo non ha

nulla a che fare con una teoria secondo cui in epoca Heian la frase tenda ad essere

sempre più complessa e il pensiero dei parlanti più articolato.

Lo stesso Matsuo nota infatti alcune eccezioni a questa sua ipotesi, che però

attribuisce ad un fattore completamente diverso, ovvero quella che lui identifica come la

seconda motivazione che portò alla diffusione di wo come marca dell'oggetto: l'influsso

inziarono ad adattare la scrittura cinese alle necessità della lingua giapponese, dando origine alsistema di scrittura detto man'yōgana (l'utilizzo dei caratteri cinesi secondo il loro valore fonetico: sidistinguono ongana, utilizzati sulla base della loro lettura sino-giapponese, e kungana, utilizzati sullabase della lettura giapponese). A partire dall'utilizzo fonetico dei caratteri, in epoca Heian sisvilupparono i due sillabari, hiragana (che ha origine graficamente dalla stilizzazione del carattere) ekatakana (che ha origine nella pratica di scrivere solo una parte del carattere): gran parte dellaletteratura Heian venne scritta in hiragana con un limitato uso di kanji. Per approfondimenti sullastoria della scrittura in Giappone, si veda Seeley (1991).

260 Il Man'yoshu, ad esempio, è composto a grandissima maggioranza da poesie dette 短歌 tanka,formate da 5 versi per un totale di 31 more (la scansione dei 5 versi è 5-7-5-7-7).

261 Questa teoria è di Matsuo ma è riportata anche in Shibatani (1990: 344).262 Come si vedrà, questa è una delle proposte di Wrona e Frellesvig (§4.1.3).

122

Page 124: Origine e funzioni della particella giapponese wo

del materiale sino-giapponese.

L'autore infatti nota giustamente che, se è vero che la particella wo nella sua

funzione grammaticale di marcare l'oggetto divenne sempre più utilizzata grazie alla

sempre maggiore complessità dei rapporti fra sintagmi all'interno della frase, si potrebbe

dedurre che, nel caso in cui oggetto e verbo siano immediatamente adiacenti, wo non

dovrebbe essere presente, almeno nei primi testi di epoca Heian. Invece, in alcuni di

questi testi, avviene il contrario: nel Taketori Monogatari e nei senmyō (che, come è già

stato detto, sono i testi in cui wo è maggiormente utilizzato per marcare l'oggetto e in

cui si nota una minore occorrenza di ø) wo tende a occorrere molto frequentemente

anche in periodi in cui l'oggetto è adiacente al verbo reggente. Matsuo attribuisce questa

incongruenza al fatto che testi come Taketori e senmyō subiscano, più di altri testi,

l'influsso del materiale sino-giapponese, e che quindi questi testi non possano essere

considerati uno specchio della lingua parlata dell'epoca, mentre testi come Tosa Nikki e

Ise Monogatari (in cui la percentuale di occorrenza di wo è nettamente minore)

mostrerebbero un linguaggio che viene reputato essere ben aderente al parlato del

periodo.

L'influsso del materiale sino-giapponese è dovuto alla pratica del 漢文訓読 kanbun-

kundoku. Come è già stato accennato precedentemente (Cap.1), con il termine kanbun-

kundoku si intende l'interpretazione e decodifica di un testo in cinese classico (漢文

kanbun), principalmente testi buddhisti ma non solo, in modo da renderlo comprensibile

ad un lettore giapponese: questo avviene tramite l'aggiunta di appositi segni grafici

(detti 訓点 kunten) come punteggiatura, diacritici, e successivamente anche grafemi in

katakana. Questi segni grafici segnalavano, ad esempio, la necessità di invertire l'ordine

di verbo e oggetto (l'ordine delle parole è VO in cinese, OV in giapponese), o di

aggiungere morfemi per permettere la flessione verbale, o di inserire particelle per

marcare il topic o l'oggetto della proposizione. Per sua natura, quindi, il linguaggio del

kanbun-kundoku (detto訓点語kuntengo) tende ad essere molto esplicito e caratterizzato

da molte meno elisioni di elementi (come particelle) rispetto alla lingua giapponese vera

e propria, sia parlata che scritta: la funzione di questa pratica era proprio quella di

permettere al lettore giapponese di capire ed interpretare un testo in cinese, per cui ogni

elemento utile alla comprensione doveva necessariamente essere espresso in modo

123

Page 125: Origine e funzioni della particella giapponese wo

puntuale. La pratica del kanbun-kundoku ebbe notevole influsso sul giapponese

dell'epoca: da un lato si ebbero numerosi prestiti principalmente morfologici e lessicali

dal cinese al giapponese263, dall'altro l'espressione di determinati elementi, che

tendevano ad essere omessi in giapponese, divenne sotto la spinta del kanbun-kundoku

sempre più diffusa (ad esempio, nel caso delle particelle).

L'influsso del kanbun-kundoku è ben visibile, secondo Matsuo, nei testi in cui wo è

più frequente. Dal momento che, in ambito formale e scritto, il cinese (kanbun) era

molto utilizzato, si può ritenere a ragione che i compilatori dei senmyō, editti imperiali,

materiale ufficiale e legato al sovrano, avessero una profonda conoscenza della lingua

cinese, i cui testi venivano letti secondo la pratica del kanbun-kundoku: si può di

conseguenza ipotizzare un influsso diretto di questa pratica su questo corpus, che

pertanto avrebbe la caratteristica di mostrare un maggiore utilizzo di wo rispetto alla

non espressione della particella. Per quanto riguarda il Taketori Monogatari, invece, a

parere di Matsuo si tratta di una questione legata al periodo storico in cui il racconto

narrato in questo testo è stato formulato per la prima volta. Il testo scritto è datato

sicuramente prima 909 d.C., secondo alcuni studiosi anche prima del 905 d.C., in

quanto nell'ultima parte del racconto si fa menzione del fumo che esce dal monte Fuji, e

si sa che questo accadde fino al 905 e non più negli anni successivi, ma la formulazione

del racconto originale risale probabilmente ad un periodo precedente264. Matsuo la fa

risalire ad un periodo a cavallo fra gli ultimi anni del VII secolo e i primi ottanta anni

del VIII secolo, un periodo (detto 国風暗黒時代 kokufū ankoku jidai lett. 'l'epoca buia

dello stile nazionale') di grande prosperità per i testi in lingua cinese ( 漢文 kanbun) a

discapito dei testi in lingua giapponese (和文wabun), e questo gli permette di spiegare

l'influsso del cinese sul testo del Taketori Monogatari.

A causa dell'influsso del materiale sino-giapponese, quindi, in questi testi sono molto

più frequenti le occorrenze di wo rispetto al non utilizzo della particella per marcare

l'oggetto, anche in casi in cui oggetto e verbo siano adiacenti. La struttura

verbo+oggetto, afferma Matsuo, è comunissima nei testi in cinese e, nella pratica del

263 Per una visione d'insieme dell'ampissimo influsso che la pratica del kanbun-kundoku ebbe sullalingua giapponese dell'epoca, si veda Frellesvig (2010: 258-94), principalmente pp. 270-4.

264 Si può vedere l'introduzione alla traduzione italiana del Taketori Monogatari a opera di AdrianaBoscaro, in particolare Boscaro (1994: 13-15).

124

Page 126: Origine e funzioni della particella giapponese wo

kanbun-kundoku, l'utilizzo della particella wo permette di segnalare il fatto che l'oggetto

occorra immediatamente dopo il verbo (e non prima, come invece avverrebbe se il testo

fosse in giapponese). Allo stesso modo, l'immediata vicinanza di verbo e oggetto,

chiaramente in ordine invertito come d'uso in giapponese, è comune in testi come i

senmyō e il Taketori, e l'alta di frequenza di queste occorrenze e il fatto che venga

utilizzata molto spesso la particella wo a marcare l'oggetto, come accade nel kanbun-

kundoku, è ascrivibile all'influsso del materiale sino-giapponese in questi testi.

Matsuo quindi conclude che “la causa fondamentale del fatto che wo si diffonde

sempre più nell'espressione dell'oggetto logico, che segnali il caso parallelamente alla

sempre maggiore complicazione dei rapporti di caso, è la particella wo del kanbun-

kundoku”: fu sotto l'influsso del kanbun-kundoku che “la particella interiezionale wo del

periodo precedente pian piano perse il suo significato emotivo e si trasformò in una

particella di espressione dell'oggetto”265. Quindi la particella wo, che fino ai primi anni

del periodo Heian avrebbe avuto soltanto una funzione interiezionale, sotto l'influsso del

materiale sino-giapponese avrebbe subito pian piano un processo di

grammaticalizzazione che sarebbe andato di pari passo con la complicazione dei

rapporti fra i diversi sintagmi della frase.

Matsuo afferma espressamente nelle righe successive che la particella wo utilizzata

nel kanbun-kundoku e la particella wo utilizzata nei testi giapponesi (che inizialmente ha

funzione interiezionale e poi si grammaticalizza) siano due particelle diverse: esse

avrebbero avuto, secondo l'autore, due origini diverse (non meglio identificate), e si

sarebbero fuse nel periodo Heian in un'unica particella che esprime l'oggetto diretto.

Rimangono chiaramente dubbi su questa spiegazione di Matsuo. Non è affatto chiaro

il motivo per cui si debbano ricostruire due differenti particelle wo, una utilizzata nelle

glosse dei testi cinesi, l'altra utilizzata nei testi giapponesi. Il primo testo a cui sia mai

stata applicata la pratica del kanbun-kundoku la cui data è nota è il 成實論 Jōjitsuron

(traduzione cinese del Satyasiddhi-śāstra, le glosse giapponesi sul testo cinese risalgono

al 828 d.C.), e in questo testo i segni grafici aggiunti già ricordano da vicino quelli del

sillabario katakana. Si ritiene, però, che questa pratica abbia avuto inizio negli ultimi

venti anni del VIII secolo, e in questa prima fase venivano aggiunti nei testi soltanto

265 Entrambe le citazioni sono prese da Matsuo (1938: 1411). La traduzione è mia.

125

Page 127: Origine e funzioni della particella giapponese wo

punteggiatura e segni grafici per indicare la necessità di dover invertire l'ordine di due

elementi (questi segni sono detti 返り点 kaeriten); in una seconda fase immediatamente

successiva, si iniziarono ad utilizzare segni grafici per annotare la pronuncia dei

caratteri cinesi; nella terza fase si aggiunsero anche gli wokototen, puntini scritti in un

punto preciso al lato del carattere che segnalavano la particella necessaria o il morfema

necessario per la flessione verbale266. Lo schema secondo cui segnalare i morfemi

tramite gli wokototen varia in base a molti fattori (il periodo storico, la setta buddhista e

così via): quello più famoso (da cui è preso l'esempio in Fig. 1 nel Cap. 1) pare sia stato

preso in prestito dalla setta buddhista Tendai e utilizzato anche in testi profani, ma ne

esistono moltissime altre varianti. Queste varianti però si differenziano soltanto in base

alla diversa corrispondenza fra la posizione del puntino e il morfema indicato: se nello

schema utilizzato dalla setta Tendai, ad esempio, la particella wo è segnalata tramite un

puntino in alto a destra del carattere, e ni con un puntino in alto a sinistra, in altre

tradizioni il puntino che indica wo viene posto in alto a sinistra mentre la presenza della

particella ni è segnalata dal puntino in alto a destra267.

Sembrerebbe infatti che, almeno a partire da questa terza fase in cui si inziano a

segnare graficamente sul testo cinese anche le particelle, wo venisse stabilmente

utilizzata per marcare l'oggetto in questi testi, probabilmente a causa della sentita

necessità di evitare una errata interpretazione, segnalando che l'elemento che seguiva il

verbo dovesse essere inteso come oggetto (ordine VO), cosa di non immediata

comprensione per un lettore giapponese la cui lingua utilizza l'ordine OV. Shibatani

infatti riporta che “in this Sinico-Japanese reading tradition, o was regularly employed

to mark the direct object”, e anche Matsuo stesso conferma che la particella wo nel

kanbun-kundoku veniva sempre utilizzata in questa funzione268. Se fu proprio la

particella wo ad essere utilizzata in modo regolare per marcare l'oggetto nella pratica del

kanbun-kundoku, appare piuttosto improbabile che essa non avesse già una funzione

simile nella lingua giapponese: non si capisce altrimenti il perché gli studiosi che

glossarono i testi cinesi a quel tempo avrebbero scelto esattamente la particella wo per

266 Seeley (1991: 62-3). Degli wokototen si era già parlato al Cap.1. I segni grafici aggiunti al testo delJōjitsuron sembrano quindi molto avanzati, se confrontati con queste tre fasi, ma mostrano come lapratica era ormai ben avviata.

267 A questo proposito si veda Kosukegawa (2014: 5-6).268 Shibatani (1990: 345); Matsuo (1938: 1411).

126

Page 128: Origine e funzioni della particella giapponese wo

marcare l'oggetto piuttosto che altre particelle. Se nella loro lingua la funzione della

particella wo fosse stata a quel tempo solo ed esclusivamente enfatica, avrebbero potuto

scegliere una qualsivoglia altra particella enfatica per marcare l'oggetto della frase

cinese, e inoltre questa particella enfatica scelta avrebbe verosimilmente potuto

alternare con altre particelle che avessero avuto la stessa funzione. Se invece è vero che

sempre wo veniva usata per marcare l'oggetto nella pratica del kanbun-kundoku, questo

porta necessariamente a credere che, contrariamente a quanto ritiene Matsuo, questa

particella avesse già un utilizzo grammaticale come marca dell'oggetto diretto nel

giapponese dell'epoca: il linguaggio utilizzato nel kanbun-kundoku ha chiaramente

come modello la lingua giapponese dell'epoca (chi glossava i testi cinesi lo faceva sulla

base della propria lingua, il giapponese), e se wo non avesse avuto la funzione di

marcare l'oggetto in giapponese, non la avrebbe avuta nemmeno nella pratica del

kanbun-kundoku. Ammesso e non concesso che wo avesse avuto una funzione

interiezionale nella lingua antica (cosa che – come si è visto – non è condivisa da tutti

gli studiosi, §2.2), questa sicuramente non era la sua unica funzione: un utilizzo come

marca dell'oggetto (non obbligatoria) deve necessariamente essere ricostruito per dar

conto del valore dato a questa particella nei materiali sino-giapponesi. E questo

testimonia ancor di più come, nei termini di Matsuo, i parlanti dell'epoca fossero già ben

consci della necessità di marcare l'oggetto.

Il fatto invece che il frequente utilizzo della particella wo nel kanbun-kundoku abbia

potuto dare impulso alla diffusione dell'utilizzo di una particella che già marcasse in

alcuni casi – come si vedrà (§4.2) – l'oggetto diretto, è una teoria condivisa da altri

autori269, e se si considera il grandissimo influsso che questa pratica ebbe sulla lingua

giapponese, tale sviluppo appare verosimile.

Una prima ipotesi che si può quindi formulare è la seguente: nel periodo Nara, in cui

compare un primo corpus estensivo di fonti in giapponese, in alcuni casi wo marcava

casi l'oggetto diretto, ma non era una marca obbligatoria270, ed è proprio grazie a questo

suo valore (in parte) grammaticale che venne utilizzata come regolare marca

dell'oggetto nei materiali sino-giapponesi. Uno degli elementi su cui la pratica del

269 Dello stesso avviso, ad esempio, è anche Shibatani (1990: 347).270 Del cosìddetto DOM (differential object marking) nel periodo Nara, si parlerà successivamente

(§4.2).

127

Page 129: Origine e funzioni della particella giapponese wo

kanbun-kundoku ebbe influenza fu proprio la diffusione dell'espressione di wo a

marcare l'oggetto, e nel periodo Heian questa particella iniziò ad essere utilizzata più

frequentemente: una seconda ragione per giustificare questo fatto può anche essere la

grammaticalizzazione di altre particelle come ga e no, che avrebbe influito sulla

diffusione della marca dell'oggetto nei testi Heian271. Questo chiaramente non esclude

un possibile utilizzo enfatico di questa particella, sia nel periodo Nara ma soprattutto nel

periodo Heian: è infatti possibile, come già accennato (§2.6) e come si vedrà, che questa

particella avesse in realtà anche una funzione pragmatica. Le particelle giapponesi,

come la moderna particella ga, non hanno necessariamente soltanto un valore

grammaticale o pragmatico, ma possono assumere entrambi. È infatti possibile che la

funzione di wo fosse anche quella di porre in enfasi l'elemento precedente: questo

permetterebbe di connettere l'utilizzo grammaticale con l'utilizzo interiezionale, e di

dare anche una ratio all'alternanza wo-ø nel periodo Nara, grazie al fatto che wo avrebbe

avuto la funzione di specificatore dell'oggetto (e questo giustificherebbe la sua presenza

non obbligatoria), ma poi a causa dell'influsso del materiale sino-giapponese la sua

espressione divenne molto più frequente. Di questa ipotesi si discuterà nelle pagine

successive, ma ciò che è necessario sottolineare e che si è tentato di dimostrare qui è che

la particella wo, sin dai tempi delle prime fonti giapponesi, dovesse avere già una forte

connessione con l'oggetto diretto, pur non essendone marca obbligatoria: questo è

testimoniato dall'uso puntuale di questa particella per marcare l'oggetto nel materiale

sino-giapponese e dal fatto che essa fosse utilizzata per marcare l'oggetto quando questo

si fosse trovato in posizione distante dal verbo. Se wo non avesse già avuto un valore

anche di specificatore dell'oggetto, se non proprio di marca dell'oggetto (ma in tal caso

sarebbe stata obbligatoria), nei due casi appena menzionati si sarebbe potuto usare

qualsivoglia altra particella enfatica. La funzione interiezionale di wo, benché

271 Si veda Shibatani (1990: 346). Come già accennato più volte, ga e no erano utilizzate in funzioneattributiva ma potevano macare il soggetto in giapponese antico, e in questa funzione venivanoutilizzate principalmente in frasi subordinate e nominalizzate (con il verbo in forma attributiva, RT),mentre nelle frasi principali (con il verbo in forma di fine frase, SS) il soggetto era generalmente nonmarcato. Quando nella prima parte del periodo Kamakura, la SS e la RT confluirono in un'unicaforma, sicché la RT venne utilizzata sia nelle frasi subordinate sia in principale, queste particelle sidiffusero come marca del soggetto anche in frasi principali. Fino al periodo Muromachi, poi, lefunzioni delle due particelle erano sostanzialmente identiche: fu solo dal periodo Edo che no assunsela funzione di particella attributiva e ga la funzione di marca del soggetto. Per numerosi esempi eapprofondimenti, si veda Shibatani (1990: 347-57).

128

Page 130: Origine e funzioni della particella giapponese wo

riconoscibile, non appare dunque né l'unica né la principale funzione di questa particella

nella lingua antica.

3.2 Lo studio successivo di Hiroi e Oyama

Lo studio di Matsuo è stato supportato da ulteriori ricerche ad opera di Oyama e

Hiroi, le quali, come Matsuo, concludono che la particella wo non avesse affatto la

funzione grammaticale di marca di (almeno alcuni) oggetti diretti nel periodo Nara e

nella prima parte del periodo Heian, ma esprimesse una particolare enfasi a livello

emotivo: col passare del tempo, secondo loro, queste esclamazioni e interiezioni

espresse tramite wo sarebbero state percepite come espressione di una particella

grammaticale, dando avvio al processo di grammaticalizzazione di wo.

Come Mastuo, anche queste due autrici studiano testi di epoca Heian: la ricerca di

Hiroi è incentrata sul 宇津保物語 Utsubo Monogatari, testo risalente al 970-1000 d.C.

circa, mentre Oyama si occupa del 源氏物語 Genji Monogatari, una delle opere più

famose della letteratura giapponese, scritta poco dopo l'anno mille272. Particolarmente

interessante risulta lo studio del Genji Monogatari, testo scelto da Oyama a causa della

sua immensa ricchezza di tematiche toccate e di personaggi, differenti per sesso, età,

strato sociale: questo permette al Genji Monogatari di essere un ottimo testimone delle

varietà diastratiche e diafasiche del giapponese dell'epoca.

Le ricerche di Oyama e Hiroi – come quelle di Matsuo – muovono dall'alternanza

wo-ø. Valutando minuziosamente ogni occorrenza di wo e di ø nei due testi, Hiroi e

Oyama concludono che wo tenderebbe ad apparire più frequentemente in determinate

situazioni, ovvero: quando si esprime emozione, esclamazione, tristezza o cordoglio (ad

esempio relazioni sentimentali, descrizione di paesaggi naturali, allontanamento da una

persona o decesso), in occasioni solenni o austere (quindi principalmente legate alla

corte), in casi in cui si riconosce chiaramente un influsso del materiale sino-giapponese

(connessi al confucianesimo o al buddhismo) e in porzioni di testo relative a un

personaggio particolare. La particella non viene invece espressa frequentemente quando

si descrive una situazione di estrema urgenza, ma anche di inquietudine, quando in

272 Le conclusioni dello studio di Hiroi sono citate in Oyama (1958: 119) e Shibatani (1990: 345). Perquanto riguarda Oyama, si veda il suo articolo, Oyama (1958: 120-38).

129

Page 131: Origine e funzioni della particella giapponese wo

prosa si elencano una serie di elementi (come doni ricevuti o strumenti musicali suonati)

e nei casi di parlato rapido (wo viene spesso omessa nei dialoghi).

Per quanto riguarda i dialoghi, Oyama compie una approfondita ricerca distinguendo

volta per volta fattori come il sesso e lo status sociale del parlante, e il suo rapporto con

l'interlocutore273: l'autrice chiaramente tenta di dar conto delle differenze che nota

basandosi sulla sua ipotesi secondo cui wo non aveva affatto una funzione grammaticale

in quel periodo. Come risulta prevedibile, quando il parlante è un monaco buddhista o è

particolarmente abile nello studio dei classici cinesi, la frequenza di wo nel suo parlato è

ben più alta rispetto a tutti gli altri personaggi: questo è facilmente spiegabile grazie

all'influsso del materiale sino-giapponese, che – come già visto (§3.1) – aveva una forte

connessione con il buddhismo. La particella è anche molto frequente nei casi in cui il

parlante sia l'imperatore o una persona appartenente alla famiglia imperiale: Oyama

spiega questo fenomeno affermando che il modo di parlare di queste persone era più

raffinato, solenne ed elegante di quello dei loro sudditi e questo giustificherebbe la

maggiore presenza di elementi enfatici come wo. Si nota poi una differenza nel parlato

di uomini e donne in tutto il Genji Monogatari: gli uomini in media utilizzano la

particella wo meno frequentemente rispetto alle donne, negli uomini la frequenza di wo

oscilla fra 52-54%, nelle donne è i media 61%. Purtroppo l'autrice non prova a dare una

spiegazione a questa differenza, accennando soltanto al fatto che le donne sarebbero più

emotive rispetto agli uomini, ma non sembra affatto una motivazione sufficiente. Molto

interessante è invece la connessione che Oyama nota fra la frequenza di utilizzo di wo e

il rapporto fra gli interlocutori: wo si tende ad utilizzare maggiormente nei casi in cui

l'interlocutore appartiene a un rango sociale più elevato rispetto al parlante e nei casi in

cui il parlante non si sente a proprio agio con l'interlocutore. Ad esempio, wo viene

maggiormente utilizzato quando il protagonista, Genji, parla con l'imperatore, mentre ø

è più frequente quando Genji parla con donne con cui ha relazioni sentimentali o

comunque un rapporto più intimo, e con cui quindi si sente a proprio agio.

Oyama tenta di dar conto di tutti questi dati grazie alla sua ipotesi: la studiosa crede

che wo, in quel periodo, aggiungesse nella frase soltanto una generale enfasi a livello

emotivo e che quindi a questa particella non potesse essere ancora attribuito un valore

273 Oyama (1958: 129-36)

130

Page 132: Origine e funzioni della particella giapponese wo

(anche) grammaticale. L'imperatore e gli appartenenti alla famiglia imperiale

tenderebbero a parlare in modo più solenne, le donne tenderebbero ad essere più

sentimentalmente coinvolte rispetto agli uomini e con persone di più alto rango si

tenderebbe a tenere un registro più elevato rispetto ai casi in cui l'interlocutore sia una

persona con cui si intrattengono rapporti più confidenziali: in tutti questi casi la

particella wo è più frequente. Questa particella quindi, secondo Oyama, aveva lo scopo

di esprimere il coinvolgimento emotivo da parte del parlante nei confronti dell'evento

descritto o della situazione.

Come fa giustamente notare Shibatani274, però, è possibile proporre anche un'altra

interpretazione. Come si è già accennato e contrariamente a quanto ritenuto da Matsuo e

Oyama, la particella wo aveva già la funzione di marcare l'oggetto (se specifico) nel

giapponese antico. È possibile che wo avrebbe assunto una sfumatura semantica durante

il periodo Heian, sotto l'influsso di diversi mutamenti che avvennero in quel periodo,

come lo sviluppo di un elaborato linguaggio onorifico, legato a una società che ruotava

intorno alla corte: si iniziò ad utilizzare wo principalmente in connessione con persone

particolari, come l'imperatore, o quando si dovesse esprimere un forte attaccamento o

emozione. Questa sfumatura semantica andò poi gradualmente a sparire, e l'espressione

di wo per segnalare l'oggetto divenne sempre più diffusa, principalmente nella lingua

scritta, sotto l'impulso del materiale sino-giapponese in cui l'espressione di wo era per

sua natura obbligatoria e della grammaticalizzazione di altre particelle come ga e no,

che nel periodo Kamakura si diffusero nella loro funzione di marca del soggetto (§3.1).

Shibatani fa notare espressamente come il fatto di marcare morfologicamente

soltanto alcuni particolari oggetti diretti non sia raro nelle lingue del mondo: in alcune

lingue (l'autore cita turco e hindi), l'oggetto viene marcato soltanto se è referenziale,

ovvero definito o animato. Si tratterebbe della marcatura differenziale dell'oggetto

(differential object marking, DOM), un fenomeno in cui l'oggetto diretto viene marcato

espressamente o meno sulla base delle sue proprietà semantiche o pragmatiche, come

animatezza, definitezza, specificità. L'alternanza wo-ø nel periodo Heian sarebbe quindi

spiegabile, secondo Shibatani, grazie al fenomeno del differential object marking, ma

secondo altri studiosi questo fenomeno era già presente nel periodo Nara275, periodo in

274 Shibatani (1990: 345-7).275 Come già accennato, questa è la spiegazione che Frellesvig, Horn e Yanagida danno all'alternanza

131

Page 133: Origine e funzioni della particella giapponese wo

cui secondo Shibatani, l'utilizzo di wo era soltanto facoltativo.

Anche Matsuo276 aveva notato che, nel periodo Heian, l'utilizzo di wo era limitato in

particolare a quattro categorie di oggetti diretti: quando l'oggetto è un sostantivo il cui

referente è un essere umano (nomi propri o pronomi personali), quando l'oggetto è un

pronome dimostrativo, quando si tratta di frasi nominalizzate in cui sia presente un

nominalizzatore come こと koto o よし yoshi, o frasi nominalizzate senza testa (juntai).

Viceversa, la non espressione di wo è più comune se i referenti dell'oggetto diretto sono

cose, poesie o canzoni (la parola fumi 'poesia, testo, lettera' spesso occorre con ø),

vestiti, capelli e bevande come il sake. Anche a causa di questo, Matsuo poteva

confermare la sua teoria secondo cui wo non avesse affatto una funzione grammaticale

ma solo enfatica: altrimenti, questa particella avrebbe dovuto avere un utilizzo molto

più ampio, e non connesso soltanto alle quattro categorie di oggetti diretti che Matsuo

riconosce.

In realtà, gli esempi di Matsuo possono essere ricondotti, secondo Motohashi, al

parametro dell'identificazione dell'oggetto: questo è uno dei criteri tramite cui, secondo

Hopper e Thompson, si può riconoscere il livello di transitività di una frase277. Come già

accennato (§2.5), Hopper e Thompson interpretano la transitività come una scala, basata

su dieci criteri che riguardano tratti come ad esempio il numero di partecipanti all'azione

(due partecipanti o uno soltanto), la volontarietà, se la frase è affermativa o negativa, se

l'oggetto è altamente individuabile o meno. Tramite il parametro dell'identificazione

dell'oggetto si distinguono gli oggetti umani e animati dagli oggetti inanimati, gli

oggetti denominati con nome proprio dagli oggetti con nome comune, gli oggetti

definiti e referenziali (per referenziali intendono il fatto che il parlante debba avere in

mente un referente particolare e specifico) dagli oggetti non definiti e così via: i primi

sono altamente identificabili, i secondi hanno una identificabilità più bassa. Secondo

Motohashi, tutti gli oggetti diretti presenti negli esempi proposti da Matsuo sono

caratterizzati dal fatto di essere altamente identificabili, e per questo sono marcati da

wo. Ad esempio, si vedano le seguenti frasi:

wo-ø nel periodo Nara. Di questo fenomeno si parlerà in §4.2, a cui si rimanda per una spiegazionepiù dettagliata.

276 Matsuo (1944: 626-7; 630-1).277 Si veda Motohashi (1989: 76-9). Per quanto riguarda i criteri di Hopper e Thompson, si veda

Hopper&Thompson (1980: 252-3). Gli esempi successivi sono presi da Motohashi.

132

Page 134: Origine e funzioni della particella giapponese wo

竹取 の 翁 この 子を 見つけて 後

taketori no okina kono ko wo mituke-te noti

tagliabambù-ATTR vecchio questa bambina-OGG trovare.RY-GER dopo

'il vecchio tagliabambù, dopo aver trovato questa bambina'

(Taketori Monogatari 竹取物語, I);

これ を 聞きて

kore wo kiki-te

questo-OGG sentire.RY-GER

'avendo sentito questo' (Tosa Nikki 土佐日記, 2.9);

男 いかなり ける ことを 思ひける

otoko ika- nari- keru koto wo omopi-keru

uomo cosa-essere.RY- PASS.RT NMLZ-OGG pensare.RY-PASS.RT

折 に か よめる

ori ni ka yome-ru

tempo-PART INTER comporre.IZ-RIS.RT

'l'uomo compose (la poesia) in quale occasione, in cui pensò cosa?'

(Ise Monogatari 伊勢物語, CXXIV).

Motohashi spiega che tutti questi elementi (ko 'bambina' nel primo esempio, il

pronome kore 'questo' nella seconda frase, e la nominalizzata ikanarikeru koto 'cosa

pensò' nel terzo esempio) sono oggetti altamente individuabili: ad esempio, il primo ha

come referente un essere umano, il secondo è caratterizzato dal tratto definito278.

Gli oggetti che invece generalmente non sono marcati da wo sono caratterizzati da

una bassa individuabilità, sono infatti spesso nomi comuni, inanimati e non referenziali.

Si veda il seguente esempio proposto da Matsuo e ripreso da Motohashi:

278 Dell'utilizzo di wo come marca dell'oggetto quando questo è una frase nominalizzata (con il verbo informa attributiva, come nel terzo esempio), che Motohashi accenna soltanto ma non spiega, tenterà didar conto Akiba (si veda §3.1.3).

133

Page 135: Origine e funzioni della particella giapponese wo

さけ のませて 詠める

sake noma-se-te yome-ru

sake ø bere.MZ-HON.RY-GER comporre.IZ-RIS.RT

'compose (la poesia) bevendo sake' (Ise Monogatari 伊勢物語, CXV).

Come si è visto, Matsuo si limita a studiare i testi di epoca Heian, ma Motohashi

afferma che l'applicabilità del criterio dell'individuazione dell'oggetto non è legata solo

al giapponese classico, ma anche al giapponese antico di epoca Nara. L'intuizione di

Motohashi è particolarmente affine allo studio di Frellesvig, Yanagida e Horn

sull'alternanza wo-ø nei testi del giapponese antico, secondo cui l'oggetto viene marcato

solo se specifico: un oggetto è specifico solo se il referente è stato precedentemente

stabilito ed è identificabile nella mente del parlante. Di questa teoria si parlerà in §4.2.

3.3 L'origine interiezionale di wo

Come è stato visto, i principali studiosi che sostengono l'origine interiezionale di

wo, ritengono che questa particella nel periodo Nara e nel primo periodo Heian non

avesse ancora assunto alcuna funzione grammaticale e che questa funzione si fosse

sviluppata solo successivamente. Ciò che non viene mai spiegato da questi studiosi è il

motivo per cui una particella con funzione meramente interiezionale possa poi assumere

la funzione di marca dell'oggetto279. Matsuo e Oyama hanno tentato di spiegare cosa

diede impulso alla grammaticalizzazione di wo, ovvero l'influsso del materiale sino-

giapponese e la progressiva complicazione dei rapporti fra i diversi sintagmi, ma anche

la grammaticalizzazione di altre particelle (secondo Shibatani), che fecero sì che

l'espressione di wo per marcare l'oggetto divenne sempre più obbligatoria. Ma questo

spiega soltanto come sia stato possibile che, a partire da una fase in cui l'espressione di

wo era opzionale, pian piano l'uso di questa particella si sia diffuso sino ad arrivare ad

un utilizzo che si possa definire obbligatorio, almeno nella lingua scritta. Non è chiaro

invece, se accettiamo la teoria secondo cui wo avrebbe avuto una funzione solo enfatica

nei primi testi, lo sviluppo che portò questa particella ad avere la funzione di marca

279 Di questo discorso, legato alle particelle interiezionali in generale e non soltanto a wo, si è giàaccennato (§1.1.2).

134

Page 136: Origine e funzioni della particella giapponese wo

dell'oggetto, benché ancora non obbligatoria (quindi, come si è accennato, la funzione di

marca dell'oggetto specifico o altamente individuabile), a partire dalla funzione

interiezionale.

Akiba è uno dei pochissimi studiosi che tentano di spiegare questo sviluppo di wo da

particella con funzione interiezionale a particella con funzione, almeno in parte,

grammaticale280. Anche lo studio di Akiba parte dall'alternanza wo-ø, e anche questo

autore nota una tendenza, già riscontrata da Matsuo (§3.2): wo è presente molto più

frequentemente quando il sostantivo marcato ha referente animato, quando l'oggetto è

composto da una frase nominalizzata (con verbo in forma attributiva, RT), quando

l'oggetto è un sostantivo derivato da un verbo in forma sospensiva (questo è uno degli

utilizzi della forma sospensiva del verbo, RY).

L'alta frequenza delle occorrenze della particella in connessione con sostantivi

animati è facilmente spiegabile, continua Akiba, se si pensa al fatto che in giapponese

antico il soggetto generalmente non veniva marcato: il soggetto di una frase transitiva

tende ad essere animato (e non marcato), e se anche l'oggetto è animato (e non marcato)

si può creare confusione nell'interpretazione in quanto entrambi i sostantivi potrebbero

essere intesi come soggetto281. Si trovano chiaramente numerose eccezioni, ad esempio:

この女 もし 奉りたる もの ならば

kono wonna moshi tatematuri-taru mono nara-ba

questa donna ø se consegnare.RY-PASS-RT NMLZ essere.MZ-IPOT

翁に 冠を などか

okina ni kauburi wo nado ka

vecchio-OGIN rango-OGG PART PART

280 Akiba (1978: 104-113). Un altro autore che tenta la stessa spiegazione è Sansom (1928: 281-2), cheperò non propone uno studio ben dettagliato come quello di Akiba, limitandosi a proporre qualcheesempio e a concludere che “it is not possible to trace its transition from an emphatic to a caseparticle, but it is easy to see how it may have occurred”.

281 Akiba cita la topicality hierarchy di Givon, una scala grazie a cui si può prevedere quale elementopossa con più probabilità sottostare ad alcune regole grammaticali o provocarne altre, come adesempio l'accordo con il verbo. È basata su tratti come umano/non umano, definito/indefinito,partecipante più coinvolto/meno coinvolto, prima persona/seconda persona/terza persona. Il terminetopicality è legato al fatto che l'elemento più alto nella gerarchia ha anche la maggiore probabilità diessere inteso come topic della frase.

135

Page 137: Origine e funzioni della particella giapponese wo

賜はせざらむ

tamapa-se-zara-mu

concedere.MZ-HON.MZ-NEG.MZ-CONG.SS

'se (mi) darà questa donna, al vecchio potremmo concedere un qualche rango (di

corte)' (Taketori Monogatari 竹取物語, VIII).

In questo esempio, nella subordinata ipotetica l'oggetto animato onna 'donna' non è

marcato da alcuna particella. Secondo Akiba questo si spiega a causa del fatto che in

questa frase il verbo utilizzato è in forma onorifica, cosa che permetterebbe di

identificare senza possibilità di errore l'oggetto. Il verbo tatematuru 'consegnare, dare'

indica che colui che dà si trova ad un livello socialmente inferiore rispetto a colui che

riceve: in questo contesto, la frase è rivolta dall'imperatore al vecchio, padre della donna

che l'imperatore vorrebbe che gli fosse consegnata. Chiaramente, la non ambiguità della

frase è anche permessa da fattori pragmatici: il lettore conosce perfettamente in che

contesto viene pronunciata la frase, sa chi è il parlante (l'imperatore) e chi è l'ascoltatore

(il vecchio). È quindi molto difficile interpretare in modo errato questa frase, per cui,

Akiba conclude, non è necessaria la particella wo.

Per quanto riguarda l'alta frequenza di wo nelle frasi con verbo in forma attributiva,

Akiba fornisce due motivazioni: da un lato, alcune classi di verbi non distinguono la

forma attributiva (RT) dalla forma di fine frase (SS), ad esempio il verbo 言ふ ipu > iu

'dire', le cui RT e SS sono entrambe ipu; dall'altro SS e RT confluirono in un'unica

forma, e fu a livello formale RT a prendere il posto della SS e ad essere utilizzata sia

nelle frasi subordinate sia in principale. Le due forme del verbo (RT e SS) quindi non

erano così differenziate come sembrerebbe, né formalmente né funzionalmente, e

l'utilizzo di una particella che seguisse il verbo in RT segnalava al lettore che quella

forma del verbo fosse effettivamente una forma attributiva e non una forma di fine

frase, con cui poteva essere confusa. La particella wo in queste occorrenze avrebbe

quindi funzione sia di marca dell'oggetto sia di nominalizzatore, che permette di

distinguere una forma verbale attributiva da una forma del verbo di fine frase282.

Questa spiegazione non tiene conto però di alcuni elementi. Innanzitutto, la

282 Akiba (1978: 108-9).

136

Page 138: Origine e funzioni della particella giapponese wo

particella wo veniva utilizzata anche dopo verbi o affissi nella cui flessione era ben

distinta la forma di fine frase da quella attributiva: Akiba propone l'esempio del verbo

'dire' (la cui RT è identica alla SS), ma anche solo nel Taketori Monogatari si trovano

anche esempi come 月の [...] 出 で た る を 見 て tuki no [...] idetaru wo mite

'contemplando (il fatto che) la luna appariva', in cui compare il suffisso -tari, la cui

forma di fine frase è -tari e la forma attributiva è -taru. La particella wo sembra quindi

comparire anche nei casi in cui non vi è possibilità di confusione. Inoltre, la confluenza

fra forma di fine frase e forma attributiva è posteriore rispetto ai primi testi di epoca

Heian che studia Akiba, dato che risale all'ultima parte dell'epoca Heian e al periodo

Kamakura283: sembra quindi improbabile che wo venisse inserito per distinguere due

forme che ancora non erano confluite nella forma attributiva. In ultimo, un ulteriore

elemento di cui Akiba non tiene conto è il fatto che, come riportato da Matsuo (§3.2), la

particella wo seguiva sia frasi nominalizzate (con forma del verbo attributiva) senza

nominalizzatore, sia frasi nominalizzate in cui fossero presenti nominalizzatori come

koto o yoshi, che seguono sempre anch'essi una forma attributiva. Quando compare un

nominalizzatore, sembra piuttosto difficile poter confondere una forma attributiva con

una forma di fine frase. La spiegazione di Akiba non sembra quindi riuscire a dar conto

in modo convincente di questo utilizzo della particella wo.

Per quanto riguarda invece la terza possibilità, ovvero il fatto che wo segua una

forma sospensiva del verbo con funzione di sostantivo (ad esempio 祈る inoru 'pregare'

> 祈り inori 'preghiera'), Akiba spiega che questo avviene, anche in questo caso, per

non dare possibilità di interpretazioni errate. La forma sospensiva, infatti, viene

utilizzata (nel giapponese antico e nella lingua moderna) sia in funzione verbale,

esprimendo una frase coordinata alla principale, sia in funzione nominale: l'utilizzo

della particella wo permetterebbe, secondo l'autore, di interpretare la forma sospensiva

come un sostantivo e non come una verbo.

Si può concludere che, secondo Akiba, la particella wo venisse utilizzata per marcare

il sostantivo (o la frase nominalizzata) che fungesse da oggetto della frase, quando

questo potesse essere interpretato diversamente: come soggetto, ad esempio, ma anche

come forma verbale piuttosto che nominale284.

283 Si veda Frellesvig (2010: 328-9).284 Come si vedrà, questo è definito da Akiba il “quarto stadio” della funzione di wo.

137

Page 139: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Ammesso che sia vero ciò che affermano gli studiosi giapponesi, ovvero che la

funzione grammaticale di wo ebbe origine da quella interiezionale, l'autore a questo

punto si chiede come sia stato possibile questo mutamento285. Akiba ipotizza uno stadio

intermedio fra l'utilizzo esclusivamente interiezionale e l'utilizzo grammaticale, uno

stadio in cui wo sarebbe stata utilizzata come particella enfatica, ma limitata solo agli

oggetti diretti. L'autore propone alcuni esempi, presi dal Taketori Monogatari, in cui i

pronomi dimostrativi kore 'questo' e sore 'quello' sono utilizzati in senso anaforico, e si

riferiscono a qualcosa che è già stato citato nelle frasi precedenti.

Ad esempio:

佛 の 御石の 鉢 といふ 物 あり

potoke no mi-ishi no pati to ipu mono ari

Buddha-ATTR HON-pietra-ATTR ciotola QUOT dire.RT cosa essere.SS

それを とりて 賜へ

sore wo tori-te tamape

quello-OGG prendere.RY-GER dare.MR

'Esiste una cosa chiamata ciotola di pietra del Buddha. Prendetela e consegnatemela'

(Taketori Monogatari 竹取物語, II).

L'utilizzo di wo in sore wo, secondo Akiba, si spiega perché l'oggetto è enfatizzato:

la frase avrebbe quindi il senso di 'prendete esattamente quella ciotola che ho appena

nominato'.

Si ricorderà che l'utilizzo di wo in connessione con pronomi dimostrativi era già

stato notato da Matsuo e studiato da Motohashi (§3.2), che ne spiegava la presenza sulla

base del parametro dell'alta identificabilità dell'oggetto: nel caso dei pronomi

dimostrativi, l'oggetto è definito e referenziale, in quanto il parlante ha in mente un

referente extra-linguistico ben preciso. Un concetto simile è proposto – come si vedrà

(§4.2) – da Frellesvig, Horn e Yanagida, che si basano sul concetto di specificità

dell'oggetto, secondo cui l'oggetto è marcato da wo solo se è specifico, ovvero se il

referente è connesso ad un altro referente precedentemente stabilito (o è stato esso

285 Akiba (1978: 109-13).

138

Page 140: Origine e funzioni della particella giapponese wo

stesso precedentemente stabilito) ed è identificabile nella mente del parlante. Akiba

sembra intendere una situazione molto simile, un utilizzo che si può definire pragmatico

di wo, in cui la particella marcherebbe (in questo stadio intermedio individuato dallo

studioso) soltanto oggetti enfatizzati, ovvero sostantivi precedentemente nominati di cui

si sottolinea la relazione grammaticale in cui si trovano: wo segnala che quel sostantivo

deve essere inteso come oggetto diretto e non come soggetto o oggetto indiretto della

frase286. A partire da questo utilizzo pragmatico di wo, la particella venne sempre più

frequentemente utilizzata per marcare l'oggetto diretto e la sua funzione enfatica si

indebolì progressivamente, fino a scomparire.

Akiba conclude quindi elencando cinque fasi lungo cui la funzione di wo sarebbe

pian piano mutata da interiezionale a grammaticale. Durante la prima fase, wo aveva

una funzione solamente interiezionale ed enfatica e poteva occorrere in connessione con

qualsivoglia costituente della frase; nella seconda fase, la particella iniziò ad essere

utilizzata per porre enfasi su tutti gli elementi della frase ad esclusione del soggetto; si

passa così alla terza fase, in cui wo venne utilizzata per porre enfasi soltanto

sull'oggetto, e non più su altri costituenti (questa sembra la fase in cui si pongono gli

esempi legati ai pronomi dimostrativi, proposti sopra); nella quarta fase, wo venne

utilizzato per marcare l'oggetto quando questo poteva essere interpretato erroneamente

come soggetto (in questa fase vi sono gli esempi, che Akiba proponeva, in cui gli

oggetti sono animati o frasi nominalizzate); nella quinta e ultima fase, la funzione

enfatica di wo si indebolisce sempre più fino ad arrivare ad un punto in cui la sua unica

funzione è quella grammaticale, cosa che porta all'espressione obbligatoria della

particella, almeno nella lingua scritta e formale.

La teoria di Akiba è sicuramente molto interessante, tanto più che egli è uno dei

primi autori a intuire la possibile presenza di un valore pragmatico fra i diversi valori

espressi tramite la particella wo nella lingua classica, ma manca di contestualizzazione

storica. Le uniche due fasi di cui l'autore propone esempi concreti sono quelle che

identifica come terza e quarta fase (ovvero le fasi in cui l'espressione di wo avrebbe

permesso di porre enfasi solo sull'oggetto e in cui era usata per evitare confusione fra

soggetto e oggetto): gli esempi per spiegare entrambi gli stadi sono tratti dal Taketori

286 Akiba (1978: 112).

139

Page 141: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Monogatari, quindi rimane complesso capire come queste fasi possano essere

interpretate in diacronia. A livello diacronico, ammesso che la terza e quarta fase siano

rappresentate da testi del periodo storico in cui venne scritto il Taketori, la prima e la

seconda fase devono necessariamente essere poste nell'epoca Nara, epoca in cui quindi

non si potrebbe ricostruire un'utilizzo come marca dell'oggetto (specifico o altamente

identificabile – un valore pragmatico quindi –, ma pur sempre oggetto) di questa

particella: questo – come si è già ripetuto più volte – non sembra corrispondere al vero,

in quanto sin dalle prime fonti, wo sembra avere una fortissima connessione con

l'oggetto, pur non essendone marca obbligatoria.

Ad Akiba deve comunque essere riconosciuto il merito di essere uno dei primi

studiosi ad aver tentato di spiegare come fosse stato possibile il mutamento che fece sì

che la particella wo, da particella con funzione interiezionale, venne alla fine utilizzata

in funzione grammaticale287: studiosi come Matsuo e Oyama hanno sorvolato su questo

problema e non hanno mai tentato mai di spiegare le fasi di questo mutamento.

3.4 Osservazioni conclusive

La teoria interiezionale, postulata da autori come Matsuo e Oyama, ha

influenzato anche studiosi più recenti come Hashimoto e Konoshima. Come si è visto,

secondo gli esponenti della teoria interiezionale, le occorrenze di wo nel giapponese

antico sarebbero tutte riconducibili a una particella interiezionale (kantō joshi) wo, che

pian piano avrebbe visto modificare la sua funzione fino ad assumere ad una funzione

soltanto grammaticale (wo come kaku joshi). Questa teoria venne sviluppata partendo

dal fatto che non era chiaro come fosse possibile che una particella, nell'ipotesi che

avesse funzione grammaticale, marcasse soltanto alcuni determinati elementi (sostantivi

animati, frasi nominalizzate, pronomi) e in determinate tipologie testuali (più utilizzata

nella prosa e in poesia, meno nei dialoghi). Questo portò a ritenere che wo non

esprimesse alcun tipo di relazione grammaticale, ma solo un maggiore coinvolgimento

287 Uno studioso, precedente rispetto ad Akiba, che giunse alla stessa conclusione ma effettivamente nondiscusse del problema in modo così approfondito, fu Aston (1904: 114), che afferma, di sfuggita, che“intermediate between its use as an interjection and as the sign of the accusative case may be placedthose istances where wo seems to be merely an emphatic particle”.

140

Page 142: Origine e funzioni della particella giapponese wo

dell'autore nei confronti dell'evento descritto o della persona interessata: questa sua

funzione era quindi perfettamente compatibile con la sua funzione che si reputava

originaria, ovvero quella esclamativa. Matsuo, quindi, postula l'esistenza di due

particelle wo completamente differenti quanto ad origine e a funzione: l'una è una

particella grammaticale utilizzata nel materiale sino-giapponese per segnalare l'oggetto

grammaticale, l'altra è una particella interiezionale e enfatica ed è usata nei testi in

giapponese. Matsuo quindi non sembra ammettere la possibilità che ad un'unica forma

corrispondano differenti funzioni, che una particella che marchi l'oggetto possa anche

essere utilizzata in funzione esclamativa.

In realtà, l'utilizzo della marca che segnala l'oggetto per porre in enfasi un elemento

o per evidenziare l'oggetto di un'esclamazione non è affatto raro fra le lingue del mondo.

Ad esempio, il caso accusativo (la cui funzione grammaticale è l'espressione

dell'oggetto) viene utilizzato regolarmente in latino anche in funzione esclamativa (il

cosiddetto “accusativo di esclamazione”), con una interiezione esterna (come edepol,

heu) o senza: il caso accusativo in questa funzione ha già un utilizzo molto frequente in

Plauto, ad esempio Lepidum te! 'che gentile!' (Bacch. 1178). L'utilizzo dell'accusativo

esclamativo diverrà via via più diffuso, sino al latino tardo in cui l'accusativo venne

utilizzato non solo nelle esclamazioni ma anche, ad esempio, ad indicare un comando288.

Non è raro nemmeno fra le lingue moderne: è utilizzato in lingue tipologicamente e

genealogicamente diversissime come l'ungherese o l'arabo289.

Non sembrerebbe quindi affatto errato postulare un utilizzo esclamativo o enfatico di

una particella, una delle principali funzioni della quale sia anche quella di marcare

alcuni tipi di oggetti (specifici o altamente individuabili, una funzione quindi che

possiamo definire pragmatica piuttosto che grammaticale). Il fatto che studiosi

giapponesi come Matsuo, non sembrino ammettere la possibilità che una determinata

particella che viene classificata come particella grammaticale (kaku joshi) possa anche

288 Cennamo (2011: 179-80). Si noti che l'utilizzo nelle frasi che indicano un comando è frequente anchein giapponese: una delle frasi che spesso vengono citate come esempio della particella interiezionalewo esprime proprio un ordine. La frase è la seguente:

家 をらませ をie woramase wocasa stare.MZ-HON.MR PART'sta in casa!' (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 91).

289 Benucchi (2004: 17).

141

Page 143: Origine e funzioni della particella giapponese wo

avere una funzione enfatica, interiezionale, o di altro tipo (o viceversa), sembrerebbe

legato alla rigida categorizzazione di Yamada (§1.1) a cui questi studiosi si rifanno:

Yamada aveva classificato in modo molto rigoroso sei tipologie di particelle, ma non

sembra aver inserito in questa classificazione la possibilità che un'unica particella

avesse funzioni diverse e quindi potesse appartenere a più categorie. Se, quindi, nello

studio di Matsuo (§3.1.1), la particella wo utilizzata nel materiale sino-giapponese ha

funzione grammaticale in quanto segue obbligatoriamente l'oggetto, allora la particella

usata nei testi giapponesi deve necessariamente essere una particella differente: non

possono entrambe essere funzioni differenti di un'unica particella. Allo stesso modo,

Akiba (§3.3), postulando le differenti fasi di sviluppo della particella wo, che all'inizio

avrebbe avuto una funzione solamente enfatica e successivamente una funzione

esclusivamente grammaticale (con un passaggio intermedio di funzione pragmatica),

sembra muovere dallo stesso presupposto secondo cui una particella non può essere

classificata in due categorie di Yamada differenti, ovvero non si può avere una forma

con differenti funzioni in sincronia.

Nonostante la sua posizione chiaramente omonimista (§2.6), soltanto Kondō si pose

questo problema. La sua teoria – come si è visto – è che, a partire dall'epoca delle prime

fonti letterarie, esistessero tre particelle wo differenti (grammaticale, interiezionale,

finale) e la particella grammaticale wo differisse in modo chiaro dalle altre particelle

wo, perché la sua distribuzione è ben diversa: questo identifica la posizione dell'autore

come omonimista. Eppure, le due caratteristiche spesso messe in luce da molti studiosi

– continua Kondō –, ovvero che la particella wo venisse più facilmente utilizzata in

contesti in cui si voleva enfatizzare una condizione emotiva e che fosse usata quando si

voleva indicare un oggetto in particolare, con particolari restrizioni legate al tipo di

oggetto (l'autore cita proprio Matsuo e Oyama), possono perfettamente convivere con

una particella grammaticale, così come, al giorno d'oggi, si pensa che la particella di

soggetto odierna ga trasmetta anche un significato enfatico e restrittivo290. Si noti inoltre

che fu proprio Kondō uno dei principali autori che, grazie al suo rigoroso studio dal

punto di vista sintattico, riconobbe le funzioni concrete di wo come utilizzi della

particella grammaticale, cosa non condivisa affatto da tutti gli studiosi291. Da queste

290 Kondō (1980: 51-2). La particella odierna ga indica il focus, ma l'autore non ne fa menzione.291 Dello studio di Kondō sulla particella grammaticale wo si era già parlato (§2.1.2 e §2.1.3). Del

142

Page 144: Origine e funzioni della particella giapponese wo

premesse teoriche, Kondō avrebbe potuto concludere che tutti i differenti utilizzi che

riconosce della particella wo non siano identificabili come “particelle wo” differenti, ma

facciano capo ad un'unica particella, utilizzata di volta in volta con funzioni differenti,

ma connesse fra loro. Ed invece, benché la sua intuizione sembri corretta, l'autore non

riconosce che la sua particella grammaticale wo, utilizzata anche per enfatizzare una

condizione emotiva o per indicare un oggetto in particolare, possa avere anche una

funzione interiezionale: quella interiezionale è, secondo Kondō, una particella

differente. L'autore quindi non ammette una situazione affine a quella in cui si trova il

caso accusativo in latino, utilizzato sia in funzione grammaticale (e concreta) sia in

funzione esclamativa.

In questo caso quindi, l'utilizzo della dicitura “caso accusativo” per definire la

particella wo non risulta affatto fuorviante: anzi, è curioso come molti studiosi che

identificano wo come “caso accusativo” non abbiano mai riconosciuto che una delle

funzioni del caso accusativo in molte lingue sia proprio quella esclamativa e quindi non

siano mai riusciti a dar conto di entrambi gli utilizzi (grammaticale/pragmatico e

esclamativo) di wo, se non postulando due particelle diverse.

parere opposto, Konoshima, che ,come era già stato accennato, ritiene invece che tutte le occorrenzedi wo che che non abbiano funzione di marca dell'oggetto diretto debbano essere interpretate comeinteriezionali, quindi anche le occorrenze di wo in funzione concreta (locativa, temporale e così via).

143

Page 145: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Capitolo 4

L'allineamento morfosintattico e l'alternanza wo-ø in

giapponese antico

Moltissimi studiosi ritengono, contrariamente alla teoria sostenuta da autori

come Matsuo e Oyama, che la particella wo avesse già la funzione di esprimere una

relazione grammaticale o un ruolo semantico centrale, sin dal giapponese antico. Lo

studio della funzione grammaticale e non esclusivamente interiezionale di wo è legato a

due problemi. Da un lato è connesso allo studio dell'allineamento morfosintattico del

giapponese antico (§4.1): a seconda delle diverse teorie, wo marcherebbe l'oggetto

diretto in un allineamento nominativo-accusativo, oppure il paziente in un allineamento

attivo-stativo o sarebbe la marca del caso assolutivo in un allineamento ergativo-

assolutivo. Dall'altro, è legato alla marcatura differenziale dell'oggetto (differential

object marking, DOM), ovvero il fenomeno in cui l'oggetto diretto viene marcato

espressamente o meno sulla base delle sue proprietà semantiche o pragmatiche, come

animatezza, definitezza, specificità (§4.2): si tratta quindi dello studio dei criteri da cui

dipende l'alternanza wo-ø.

Si deve notare che gli autori di cui si tratterà in questo capitolo generalmente non

negano l'esistenza di occorrenze in cui questa particella venisse utilizzata in funzione

interiezionale, ma affermano che si possa attribuire a wo anche una funzione

grammaticale (o pragmatica) sin dalle prime fonti scritte, cosa apertamente smentita da

Matsuo (1938) o Oyama (1958): mentre questi ultimi interpretano tutte le occorrenze di

wo come espressione di una particella interiezionale, studiosi come Vovin o Frellesvig,

pur non essendo concordi riguardo la funzione grammaticale di wo, riconoscono

l'esistenza di occorrenze in cui questa particella avrebbe funzione interiezionale e

occorrenze in cui avrebbe funzione grammaticale (pragmatica), sin dal giapponese

antico.

144

Page 146: Origine e funzioni della particella giapponese wo

4.1 L'allineamento morfosintattico del giapponese antico

I diversi studiosi attribuiscono al giapponese antico uno di questi tre

allineamenti morfosintattici: nominativo-accusativo, ergativo-assolutivo o attivo-stativo.

Il problema di quale allineamento morfosintattico debba essere riconosciuto nel

giapponese antico è molto vasto: di questo argomento gli studiosi stanno discutendo

anche in questi ultimi anni, ed esula dallo scopo di questo lavoro proporre una soluzione

definitiva. Per tali motivi, la spiegazione delle differenti teorie non sarà sicuramente

esaustiva, e si rimanda quindi agli articoli dei diversi studiosi per maggiori dettagli ed

esempi. Ciò che si cercerà di mettere in luce è la funzione che la particella wo ricopre

all'interno del sistema teorizzato dal singolo autore, per cui si porrà una maggiore

attenzione sulle proposte che più si basano sulla distribuzione di questa particella

piuttosto che sulle teorie in cui wo ricopre un ruolo marginale.

Un elemento che deve essere notato è che, se – come visto (Cap. 3) – i sostenitori

della teoria interiezionale difficilmente studiano le occorrenze in cui wo è utilizzata in

funzione concreta (quando marca locativi, temporali e così via), queste occorrenze sono

invece prese in considerazione ad esempio da Wrona&Frellesvig (2009) o da Yanagida

(2005; 2006), che le utilizzano a sostegno della teoria che propongono. Come si vedrà,

l'utilizzo di wo per marcare complementi di luogo o tempo, nello studio di Frellesvig e

Wrona, costituirebbe una prova del fatto che questa particella marchi il caso accusativo,

mentre secondo Yanagida dimostrerebbe esattamente il contrario.

Prima di esaminare le differenti teorie, è opportuno soffermarsi su cosa si intenda per

allineamento morfosintattico e sulle differenze fra i diversi tipi di allineamento che

vengono identificati nel giapponese antico.

4.1.1 Allineamenti morfosintattici

Per allineamento morfosintattico si intende “the identical vs. distinct coding or

treatment or behaviour of argument roles that are different at some other level or in

some other part of the grammar”292.

292 Bickel&Nichols (2009: 305).

145

Page 147: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Per “argument roles” tradizionalmente si identificano il soggetto di un verbo

intransitivo (detto S), il soggetto di un verbo transitivo (detto A) e l'oggetto di un verbo

transitivo (detto O): l'allineamento è quindi connesso al fatto che il trattamento o il

comportamento morfosintattico dei tre argomenti centrali sia lo stesso oppure sia

differente.

La codifica o il comportamento degli argomenti centrali si può avere a livello

morfologico o sintattico. Infatti, vengono generalmente distinti da un lato l'allineamento

sintattico, che ha a che fare con l'ordine dei costituenti, la possibilità di un elemento di

essere antecedente del pronome riflessivo o di una frase relativa, fenomeni di

conjunction reduction e così via, e dall'altro lato l'allineamento morfologico, che si

manifesta principalmente tramite l'accordo con il verbo e la codifica morfologica degli

argomenti (ad esempio tramite i casi grammaticali). È quest'ultimo quello che ha

maggiormente interessato gli studiosi riguardo il giapponese antico, e quindi quello su

cui è opportuno soffermarsi.

Nell'allineamento morfologico, due dei tre argomenti ricevono lo stesso trattamento

formale (ad esempio, marcati dallo stesso caso grammaticale), mentre il terzo

argomento viene trattato formalmente in maniera differente (ad esempio, con un

differente caso grammaticale). Benché generalmente si utilizzi il termine “caso”, come

già accennato (§2.1.1) la codifica tramite casi grammaticali è soltanto una delle tecniche

più comuni di marcatura morfologica degli argomenti293, ma identificare la categoria del

caso in una lingua non è affatto necessario per connetterla con uno dei possibili

allineamenti morfosintattici: questa distinzione è infatti valida anche per le lingue che

non utilizzano la flessione (l'interpretazione tradizionale del termine “caso” §1.2), ma

morfemi più liberi come appunto le particelle (preposte o postposte), alternanze tonali e

così via.

Le due possibilità di allineamento più comuni e più studiate sono quella nominativo-

accusativa, in cui S è trattato formalmente come A (caso nominativo), mentre O riceve

un trattamento formale differente (caso accusativo) e quella ergativo-assolutiva, in cui S

e O sono trattati formalmente allo stesso modo (caso assolutivo), mentre A riceve un

trattamento formale diverso (caso ergativo). Questa distinzione è tradizionalmente

293 Keidan (2008: 67; 75).

146

Page 148: Origine e funzioni della particella giapponese wo

riportata secondo lo schema di Dixon294:

Difficilmente però si riconosce una precisa e netta linea di confine fra lingue con

allineamento nominativo-accusativo e lingue con allineamento ergativo-assolutivo295, e

infatti accade spesso che non si possa identificare un unico allineamento all'interno di

una lingua: in molti casi è preferibile parlare, ad esempio, di una determinata

“costruzione ergativa” in una lingua piuttosto che di una vera e propria “lingua

ergativa”296. In molti casi infatti si trovano sistemi scissi, in cui si riscontra

l'allineamento ergativo-assolutivo in alcune circostanze e l'allineamento nominativo-

accusativo in altre: ci si riferisce alla particolarità di questi sistemi con il termine di

split-ergativity (ergatività scissa), ma, nota McGregor, sarebbe più corretto definirli split

case-marking systems297.

L'allineamento può variare all'interno della stessa lingua in base a numerosi fattori, e

chiaramente in molte lingue non entra in gioco un solo fattore, ma una combinazione di

294 Dixon (1994: 9).295 Comrie (1978: 350-1): “it is rather misleading to speak of ergative languages, as opposed to

nominative-accusative languages, [...] it is possible for one phenomenon in a language to be controlledon an ergative-absolute basis while another phenomenon in the same language is controlled on anominative-accusative basis. Thus one should ask rather to what extent a language is ergative-absoluteor nominative-accusative, or, more specifically, which constructions in a particular language operateon the one basis and which on the other”. Il concetto espresso da Comrie è ripreso anche in Vovin(1997: 273).

296 Bickel&Nichols (2009: 305); Kibrik (1985: 269).297 Dixon (1994: 55) spiega che effettivamente questi sistemi potrebbero essere definiti allo stesso modo

con la definizione split-accusativity, ma si preferisce split-ergativity “simply because accusativity isthe familiar pattern which linguists until recently thought was the basic structure for all languages(some probably still do think this), with ergativity being regarded as a novel and unusualarrangement”. McGregor (2009: 503) per questo propone di non prendere come punto di riferimentoné il sistema ergativo né quello accusativo ma di usare la definizione split case-marking system. DaDixon (1994) e McGregor (2009) sono ripresi i fattori che influenzano l'allineamento.

147

Fig. 6: Allineamenti nominativo-accusativo eergativo-assolutivo

Page 149: Origine e funzioni della particella giapponese wo

due o più.

Un primo fattore è il tipo di sintagma nominale: in alcune lingue i pronomi personali

e i sostantivi con referente umano utilizzano un tipo di marca nominativo-accusativa,

mentre sostantivi con referente inanimato utilizzano un tipo di marca ergativo-

assolutiva. Può anche accadere che il confine non sia semantico, ma grammaticale: in

dyirbal, ad esempio, i pronomi di prima e seconda persona si flettono secondo

l'allineamento accusativo (e non hanno marcatura esplicita), i pronomi di terza persona e

tutti i sostantivi (con alcune eccezioni) secondo l'allineamento ergativo (con il morfema

-ŋgu). Questi split a livello di codifica morfologica sono generalmente spiegati tramite

la scala di animatezza di Silverstein (Fig. 7), secondo cui se un elemento segue

l'allineamento ergativo, anche tutti gli elementi alla sua destra osserveranno

l'allineamento ergativo.

Un secondo fattore è legato al tempo, l'aspetto o il modo del verbo: è generalmente il

tempo passato a essere connesso con l'allineamento ergativo mentre al tempo presente si

osserva un allineamento accusativo (ad esempio nelle lingue indoarie moderne o in

georgiano). Allo stesso modo può accadere che il modo imperativo sia associato

all'allineamento accusativo mentre altri modi seguano l'allineamento ergativo.

Un terzo elemento che può influenzare la variazione di allineamento è il tipo di

proposizione. In molte lingue accade che la codifica morfologica dei sostantivi dipenda

dalla loro presenza in frase principale o subordinata: ad esempio, accade che la frase

principale segua un allineamento ergativo, e la frase subordinata un allineamento

accusativo, o viceversa.

In generale, l'allineamento ergativo tende quindi ad essere connesso con sintagmi

nominali inanimati, tempi passati e aspetto perfettivo mentre l'allineamento accusativo è

connesso con una maggiore animatezza del referente del sostantivo, tempo presente e

148

Fig. 7: Animacy hierarchy di Silverstein

Page 150: Origine e funzioni della particella giapponese wo

aspetto imperfettivo298.

In ultimo, in alcune lingue il soggetto di verbi intransitivi (S) viene codificato

morfologicamente a volte come il soggetto del verbo transitivo (A), a volte come

l'oggetto (O). L'opposizione dipende generalmente dal ruolo semantico del soggetto (se

è un agente, viene codificato come A, se è un paziente, si codifica come O), ma può

essere connessa con diversi altri fattori299. Questo tipo di allineamento viene chiamato

attivo-stativo o split-S (S è il soggetto del verbo intransitivo), benché non tutti gli

studiosi siano concordi nel riconoscere questo sistema come un allineamento a sé stante,

ma piuttosto un tipo di sistema in cui si ha ergatività scissa, come si vedrà a breve.

Prima di proseguire, però, è necessario fare un'osservazione. L'opposizione

generalmente accettata fra l'allineamento ergativo e allineamento accusativo si basa sui

tre argomenti centrali che fino ad ora sono stati considerati, ovvero S come soggetto del

verbo intransitivo, A come soggetto del verbo transitivo e O come oggetto, ma – come

già accennato più volte – questi sono concetti legati all'analisi logica, che non

necessariamente possono essere riconosciuti in tutte le lingue. Questa opposizione fra i

due allineamenti “takes as its point of departure the universality of these syntactic

concepts and their cross-linguistically uniform realization”, e ha origine in una

concezione assolutamente eurocentrica dello studio delle lingue300. I concetti di soggetto

e oggetto, per avere una classificazione universalmente valida, non possono essere posti

come nozioni di base: si devono piuttosto scegliere concetti universali come i due ruoli

semantici di agente (A) e paziente (P)301, e distinguere i verbi in base al numero e alla

qualità delle valenze possedute. Si avranno quindi verbi monovalenti il cui attante è un

agente (VA detti agentivi), verbi monovalenti il cui attante è un paziente (VP detti

pazientivi) e verbi bivalenti le cui valenze hanno i ruoli di agente e paziente (VAP)302.

298 Plank (1979: 5).299 Bickel&Nichols (2009: 318). Riprenderemo questo argomento nelle pagine successive.300 Kibrik (1985: 269).301 Agente e paziente possono essere presi come nozioni di base per una classificazione universale in

quanto spesso i ruoli semantici più periferici vengono espressi con gli stessi procedimenti di questidue ruoli centrali: ad esempio la codifica del ruolo di esperiente può essere modellata su quelladell'agente, ma non viceversa. Si veda Keidan (2008: 73), in cui si riprende anche lo schema di Kibrik(1985: 273).

302 La denominazione “verbi agentivi” corrisponde a ciò che nella letteratura generativa si definisce“verbo inergativo”, e allo stesso modo i “verbi pazientivi” sono detti dagli studiosi legati algenerativismo “verbi inaccusativi”. La dicitura “verbo inaccusativo/inergativo” è utilizzata dallamaggioranza degli studiosi di cui si parlerà nei paragrafi successivi.

149

Page 151: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Si può quindi formulare il seguente schema:

A partire da questo diagramma, si possono schematizzare gli allineamenti

morfosintattici di cui si è parlato, ovvero allineamento nominativo-accusativo, ergativo-

assolutivo e attivo-stativo.

In un allineamento nominativo-accusativo, si codifica allo stesso modo l'attante del

verbo monovalente (a prescindere dal suo ruolo semantico) e l'agente del verbo

bivalente, e in modo differente il paziente del verbo bivalente; nell'allineamento

ergativo-assolutivo, si codifica l'attante del verbo monovalente e il paziente del verbo

bivalente allo stesso modo, mentre diversa è la codifica dell'agente del verbo bivalente.

Una lingua che utilizza l'allineamento attivo-stativo distingue in modo preciso i ruoli

semantici, codificando l'agente in maniera differente rispetto al paziente a prescindere

dal numero delle valenze del verbo: nel caso in cui fossero presenti i casi grammaticali,

si direbbe che l'agente è codificato con il caso detto “agentivo”, il paziente con il caso

150

Fig. 8: Ruoli semantici e valenzedel verbo

Fig. 9: Schema degli allineamenti morfosintattici

Page 152: Origine e funzioni della particella giapponese wo

“pazientivo”. Chiaramente, è anche possibile osservare un sistema neutro: si tratta di un

allineamento in cui agente (A di VA e di VAP) e paziente (P di VP e di VAP) vengono

trattati formalmente allo stesso modo, ad esempio non venendo marcati da alcun

morfema esplicito. Un allineamento neutro può essere rappresentato in questo modo:

La classificazione proposta da Kibrik è forse più efficace rispetto a quella di Dixon:

tramite questa infatti si riescono a spiegare fenomeni difficilmente analizzabili in

termini di S, A, O, come ad esempio l'allineamento attivo-stativo. Nell'analisi delle

diverse teorie sull'allineamento del giapponese antico si utilizzerà quindi questa

classificazione piuttosto che quella di Dixon, anche se molti fra gli studiosi di cui si

parlerà si basano sullo schema di Dixon.

Si deve sottolineare però un problema legato alla tipologia attivo-stativa, notato da

moltissimi studiosi. Si potrebbe pensare che vi sia una distinzione netta e universale fra

i casi in cui l'attante unico del verbo monovalente viene trattato come un agente (quindi

codificato con il caso agentivo) e i casi in cui questo è trattato come un paziente

(codificato con il caso pazientivo) e che tale distinzione sia valida in tutte le lingue che

utilizzano questo allineamento. Invece “the semantic motivation for splitting the one-

place predicates into two groups varies from language to language”303. La scelta può

dipendere da numerosi parametri, ad esempio l'Aktionsart, grazie a cui si distinguono

verbi che indicano attività o risultati e che denotano un cambiamento nel tempo

(agentivi) da verbi che implicano una stabilità nel tempo (pazientivi), o l'agentività,

tramite cui si distinguono casi in cui il partecipante compie, provoca e controlla l'azione

(caso agentivo) e casi in cui non ha alcun controllo e ne è influenzato (caso pazientivo).

Alcune volte non è un parametro che coinvolge molti fattori come l'agentività ad essere

303 Blake (1994: 124-5).

151

Fig. 10: Allineamento neutro

Page 153: Origine e funzioni della particella giapponese wo

il parametro di riferimento, ma singoli fattori come il controllo, legato al fatto che il

partecipante controlli o meno l'azione (con verbi come “singhiozzare”, il partecipante

compie l'azione ma non ha il controllo), o il coinvolgimento, ad esempio nel caso di

verbi di stato, si distinguono casi in cui il partecipante è maggiormente coinvolto (un

predicato come “aver freddo”) e casi in cui è meno coinvolto (“essere alto”)304.

Come si è già accennato, non tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere la tipologia

attivo-stativa una tipologia a parte piuttosto che un sistema ergativo scisso. Dixon

inserisce questa tipologia fra gli split-systems, e anche McGregor ritene che sia un

sistema ergativo scisso, ma riporta numerosi autori contrari a questa interpretazione305.

Anche Bickel e Nichols sono contrari a identificare questa tipologia come un

allineamento a sé stante per alcune ragioni306. Il primo motivo è il fatto che in quasi tutte

le lingue del mondo esistono verbi monovalenti in cui l'attante è codificato in modo

atipico, quindi l'allineamento attivo sarebbe, secondo loro, presente in tutte le lingue in

gradi diversi. Se è vero però che – come visto – è preferibile non definire una lingua

“ergativa” o “accusativa” perché il confine non è netto, e in gran parte delle lingue che

utilizzano un allineamento si trovano costruzioni in cui si utilizza l'altro allineamento,

allora si può concludere che ciò che affermano Bickel e Nichols è valido per almeno la

maggior parte delle lingue del mondo: è raro trovare lingue totalmente “accusative”,

“ergative” o “attive”. La seconda motivazione è connessa alla prima. Nelle lingue

attivo-stative si nota spesso che o gli attanti del verbo monovalente codificati come

agenti sono pochi numericamente mentre numerosi sono quelli codificati come pazienti,

o viceversa: una categoria è molto limitata e piccola, l'altra è aperta e produttiva. Questo

fatto potrebbe permettere, secondo gli autori, di considerare le lingue attivo-stative in

304 Per numerosi esempi e ulteriori spiegazioni si vedano i due interessantissimi articoli Mithun (1991) eVan Valin (1990). In linea generale, alcuni studiosi spiegano la scelta della codifica con caso agentivoo pazientivo in base al seguente criterio: tante più proprietà di un agente prototipico (o pazienteprototipico) ha il partecipante, tanto più questo verrà codificato con più probabilità come un agente (ocome un paziente). Le proprietà dell'agente prototipico sono fattori come il coinvolgimento volontarionell'azione, movimento, la capacità di causare un cambiamento e così via, mentre le proprietà delpaziente prototipico sono elementi come il subire un cambiamento di stato o la staticità. Questa peròpuò essere considerata solo una tendenza generale, in quanto sono numerossissimi i controesempi. Siveda Arkadiev (2005).

305 Dixon (1994: 71); McGregor (2009: 487-8). Fra coloro che ritengono che questa tipologia non debbaessere considerata un tipo di ergatività scissa, si trova Mithun (1991: 511-2).

306 Bickel&Nichols (2009: 318). Le ragioni qui citate sono solo alcune di quelle proposte dagli autori, sirimanda al loro articolo per ulteriori spiegazioni.

152

Page 154: Origine e funzioni della particella giapponese wo

cui questo avviene come appartenenti a un tipo accusativo o ergativo, quindi un chiaro e

ben identificabile allineamento di base, in cui poi si trovino anche attanti di verbi

monovalenti codificati in modo atipico. Un ulteriore motivo è che sia il numero che il

tipo di attanti di verbi monovalenti codificati come agenti o come pazienti varia di

lingua in lingua, e così – come si è già detto – variano anche i fattori sulla base di cui

distinguerli.

Non è quindi sempre possibile porre una distinzione netta fra lingue con tipologia

ergativa, attiva o accusativa. Infatti, anche nei diversi studi sull'allineamento

morfosintattico del giapponese antico, difficilmente gli studiosi riconoscono un

allineamento di base, ad esempio ergativo, valido per tutte le costruzioni giapponesi, ma

piuttosto costruzioni o occorrenze particolari in cui il giapponese antico sembra

mostrare un allineamento attivo o ergativo.

Un ulteriore elemento deve essere notato prima di esporre le diverse teorie. Come è

stato visto all'inizio di questo paragrafo, l'allineamento viene distinto in morfologico e

sintattico, e gli autori che hanno studiato questo argomento applicandolo al giapponese

antico si sono principalmente concentrati sull'allineamento morfologico. L'allineamento

morfologico si manifesta tramite due elementi fondamentali, ovvero l'accordo con il

verbo e la codifica morfologica dei ruoli semantici: il giapponese antico e moderno non

presenta accordo con il verbo, quindi l'allineamento morfologico può necessariamente

essere studiato solo in termini di codifica morfologica di agente e paziente307.

4.1.2 L'allineamento ergativo-assolutivo nel giapponese antico

Sono principalmente due gli autori che attribuiscono al giapponese antico un

allineamento ergativo-assolutivo: Motohashi (1989) e Yanagida (2005; 2006) nella sua

prima formulazione.

Per quanto riguarda Motohashi (1989), i punti fondamentali della sua teoria sono

la distribuzione di wo in alternanza con ø per quanto riguarda l'espressione dell'oggetto,

e la funzione in generale dei bare nominals, ovvero quei sintagmi nominali che vengono

marcati da ø, siano essi soggetto o oggetto.

307 Vovin (1997: 273).

153

Page 155: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Quanto al primo punto, come già accennato (§3.2) e come si vedrà in seguito (§4.2),

l'autore scrive che ciò che determina la distribuzione di wo e ø nell'espressione

dell'oggetto sono i tratti legati alla scala di transitività di Hopper e Thompson: l'oggetto

viene marcato da wo se è altamente identificabile, mentre non viene marcato affatto se

non è altamente identificabile. La particella wo, a causa di questa sua funzione, viene

definita dall'autore un accusative case marker308, che marca quello che Dixon aveva

definito O ovvero l'oggetto di verbi transitivi, e che nella formulazione di Kibrik è

identificabile come P di VAP (§4.1.1), ovvero il paziente di un verbo bivalente. Una

differente costruzione in cui occorre wo in alternanza con ø è la costruzione in -mi,

costrutto con valore causale formato da un sostantivo marcato o meno da wo e un

aggettivo con suffisso -mi (si veda §2.5). In questa costruzione il sostantivo è

identificabile secondo Motohashi come soggetto. Il predicato della costruzione in -mi è

un verbo intransitivo inaccusativo (ovvero un verbo il cui attante unico è il paziente, un

VP): questo dimostrerebbe, secondo l'autore, che la particella wo può essere utilizzata

per marcare il soggetto di verbi intransitivi inaccusativi (VP). In realtà, purtroppo

Motohashi riporta solo esempi in cui il predicato è un aggettivo con suffisso -mi e non

altri tipi di predicato o altre costruzioni inaccusative (VP), quindi questa sua conclusione

sembra quantomeno azzardata. Anche nel caso della costruzione in -mi, l'alternanza wo-

ø è determinata dai fattori della scala di transitività di Hopper e Thompson309. La

particella wo quindi sembrerebbe marcare, almeno nella costruzione in -mi, il paziente

di un verbo monovalente, ovvero P di VP nella formulazione di Kibrik. Purtroppo però

Motohashi non dà seguito a questa sua intuizione, e – come si vedrà – conclude, almeno

in questa sua prima formulazione, che wo sia interpretabile come marca dell'accusativo,

senza sollevare di nuovo il problema della funzione di questa particella nel costrutto in

-mi: questo problema verrà poi ripreso dall'autore in un suo articolo successivo,

Motohashi (2009).

Per quanto riguarda il secondo punto, ovvero la funzione dei costituenti non marcati

da alcuna particella (bare nominals), Motohashi nota a ragione che questi occorrono

come soggetti di verbi sia transitivi che intransitivi, sia in frasi principali sia in frasi

308 Motohashi (1989: 63).309 Motohashi (1989: 124-5).

154

Page 156: Origine e funzioni della particella giapponese wo

subordinate, e chiaramente come oggetti. Si vedano ad esempio le seguenti frasi310:

かはづ  つま  よぶ

kapadu tuma yobu

rana ø moglie ø chiamare.SS

'la rana chiama la moglie' (Man'yōshū 万葉集, maki 10, n. 2156);

霞 立つ ながき 春 日

kasumi tatu nagaki haru hi

nebbia ø sollevarsi.RT lungo.RT primavera giorno

'il lungo giorno di primavera in cui la nebbia si innalza'

(Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 5);

Il primo esempio presenta una frase principale in cui né il soggetto né l'oggetto sono

marcati da alcuna particella311, nel secondo esempio kasumi 'nebbia' è soggetto non

marcato da particelle di un verbo intransitivo in una frase subordinata.

Motohashi conclude, inaspettatamente, che i bare nominals (soggetti e oggetti non

marcati da particelle) dovrebbero essere intesi come marcati dal caso assolutivo.

Seguendo Dixon, l'autore spiega che il caso assolutivo marca i soggetti dei verbi

intransitivi S e gli oggetti dei verbi transitivi O, dove invece il caso ergativo compare a

marcare i soggetti dei verbi transitivi A (si veda §4.1.1). Eppure, anche i soggetti dei

verbi transitivi occorrono spesso non marcati. Per risolvere questo problema, Motohashi

cita Dixon e il suo esempio del burushaski, lingua isolata parlata in alcune zone del

Pakistan. Questa lingua presenta un sistema di ergatività scissa in cui in alcuni casi A è

marcato con il caso ergativo ed è quindi distinto da S e O marcati con il caso assolutivo

(che formalmente non ha espressione fonica, è un morfema ø), in altri casi nessuno dei

tre argomenti è marcato (quindi un allineamento neutro). Allo stesso modo, Motohashi

310 Questi esempi sono ripresi da Motohashi (1989: 134-5).311 Motohashi purtroppo non si sofferma a spiegare questo esempio. Si noti però che l'assenza di wo nel

marcare l'oggetto tuma 'moglie' non è spiegabile attraverso i criteri di Hopper e Thompson: si tratta diun referente animato, non plurale, referenziale e definito, quindi perfettamente identificabile. Quindi,in teoria, secondo lo studio di Motohashi, l'oggetto tuma avrebbe dovuto essere marcato regolarmenteda wo. Una spiegazione all'assenza della particella in contesti come questo verrà proposta daFrellesvig, Yanagida e Horn nel loro studio sul DOM (§4.2).

155

Page 157: Origine e funzioni della particella giapponese wo

sostiene che il giapponese antico avrebbe avuto un sistema di ergatività scissa

caratterizzato da un allineamento in parte ergativo-assolutivo (e il caso assolutivo

sarebbe marcato da ø) e in parte nominativo-accusativo (in cui la marca dell'accusativo

sarebbe stata wo).

Numerosi elementi rimangono però oscuri nella spiegazione dell'autore. Motohashi

non menziona il fatto che in burushaski si utilizza un allineamento o l'altro in base al

tempo verbale: se il tempo del verbo è passato (perfetto, participio passato e così via), è

obbligatorio marcare con il caso ergativo il soggetto del verbo transitivo A, se il tempo

del verbo non è passato non si utilizza il caso ergativo per marcare A. Come si è visto

(§4.1.1), tempo, modo e aspetto verbale sono elementi che molto frequentemente

condizionano l'allineamento morfosintattico. Motohashi però non tenta affatto di

spiegare quale sarebbe il criterio che determinerebbe la variazione di allineamento in

giapponese antico. Inoltre, Motohashi parla di un allineamento ergativo-assolutivo

senza mai definire quale particella marcherebbe il caso ergativo nel momento in cui

questo venisse espresso, anche a prescindere dalle condizioni che ne determinino

l'espressione obbligatoria. L'autore insiste sul fatto che il caso assolutivo sarebbe

marcato da ø, ma non definisce mai quale sarebbe la marca del caso ergativo. Lo stesso

problema si pone per quanto riguarda l'allineamento nominativo-accusativo.

Innanzitutto, Motohashi afferma che wo sarebbe la marca dell'accusativo. Se così fosse,

però, non sarebbe chiaro per quale motivo essa fosse utilizzata anche in costruzioni

come il costrutto in -mi, in cui wo marcherebbe, secondo Motohashi, il soggetto e

l'aggettivo sarebbe interpretabile come un predicato inaccusativo (ovvero un VP).

Inoltre, ammesso che wo si configuri come marca del caso accusativo, Motohashi non

spiega quale sia la marca del nominativo, se anche questa sia ø o un'altra particella

come ga o no.

Solo in un suo articolo di molto posteriore, Motohashi (2009), l'autore tenterà come

accennato di dare una ratio a tutti questi problemi rimasti insoluti nella sua prima

formulazione. In questo articolo Motohashi sostiene che il giapponese antico avrebbe

avuto un allineamento ergativo-assolutivo, abbandonando la precedente proposta legata

al sistema scisso. La particella wo si configurerebbe come particella assolutiva (e non

più accusativa), che marcherebbe indistintamente tutti i soggetti di verbi intransitivi e

156

Page 158: Origine e funzioni della particella giapponese wo

gli oggetti dei verbi transitivi: in questa funzione wo alternerebbe con ø, che, come

marca del caso assolutivo, sarebbe ben più diffusa e frequente rispetto a wo. Per quanto

riguarda il caso ergativo, l'autore accenna al fatto che questo che sarebbe stato

precedentemente marcato da ni, ma che ormai il caso ergativo sarebbe stato in via di

sparizione e sarebbe stato presente solo in espressioni fisse e contesti limitati. Possiamo

quindi schematizzare il pensiero dell'autore nel seguente diagramma:

L'unico esempio di ni come caso ergativo che riporta Motohashi è il seguente:

君が 下紐 我 さへ に 今日 結びて な

kimi ga shita-bimo ware sape ni kepu musubi-te na

tu-ATTR sotto-cintura ø io PART PART oggi legare.RY-GER DES

'anche io vorrei oggi legare la tua cintura' (Man'yōshū 万葉集, maki 12, n. 3181).

Secondo Motohashi in questa frase ni (qui glossato PART) marca un sostantivo al

caso ergativo, ma la sua spiegazione rimane dubbia. Vovin infatti interpreta la forma

sape ni in questa e numerose altre frasi come una particella restrittiva sape 'perfino',

seguita dal verbo difettivo n- 'essere' nella sua forma infinitiva ni, in un utilizzo

avverbiale312. Data la scarsità degli esempi proposti da Motohashi, l'interpretazione di

Vovin sembra molto più convincente.

Accenniamo solo brevemente, invece, alla prima formulazione della teoria di

Yanagida, dato che la stessa autrice negli ultimi anni ha rettificato e ricorretto in molti

312 Vovin (2009b: 1285-6). Come si è già visto, anche altri elementi che vengono generalmenteinterpretati come particelle sono invece intesi da Vovin come verbi difettivi (DV): un altro esempio èto, particella che introduce un discorso diretto o indiretto, che Vovin glossa sempre come DV.

157

Fig. 11: L'allineamento delgiapponese antico secondo Motohashi

Page 159: Origine e funzioni della particella giapponese wo

punti la sua iniziale interpretazione secondo cui il giapponese antico avrebbe avuto un

allineamento che lei definisce ergativo: la più recente proposta di Yanagida, nel suo

studio in collaborazione con Whitman, è che il giapponese antico avesse un sistema

scisso nominativo-accusativo in frase principale e attivo-stativo in frase subordinata

(§4.1.4). In realtà, sin dai suoi primi articoli sull'argomento, Yanagida sembra andare già

nella stessa direzione degli studi successivi condotti insieme a Whitman, e il fatto di

aver definito inizialmente il giapponese una lingua ad allineamento ergativo sembra in

parte un mero problema teminologico.

Nella sua prima formulazione313, la teoria di Yanagida, in breve, è la seguente. Il

morfema ø marca il soggetto di verbi intransitivi S e l'oggetto di verbi transitivi O: il

morfema ø può quindi essere riconosciuto come marca del caso assolutivo. Per quanto

riguarda la marca del caso ergativo, Yanagida pone una distinzione fra frasi principali e

subordinate. Nelle frasi subordinate, la marca del caso ergativo, secondo Yanagida,

sarebbe la particella ga, che marcherebbe il soggetto di verbi transitivi e il soggetto di

verbi intransitivi attivi detti anche inergativi (VA): la particella no condividerebbe le

stesse funzioni di ga, ma sarebbe utilizzata anche per segnalare il soggetto di verbi

intransitivi inaccusativi (VP) e quindi non è identificabile come marca di caso ergativo.

Come si può notare, benché Yanagida sostenga che ga sia la marca del caso ergativo,

questa particella marca l'agente A di VA e di VAP e quindi sembra piuttosto una marca di

caso agentivo in un sistema attivo-stativo, limitato alle subordinate: infatti, esattamente

questa sarà la proposta di Yanagida e Whitman negli studi successivi. Yanagida nei suoi

primi studi invece non definisce l'allineamento morfosintattico utilizzato nelle frasi

principali, ma – come si vedrà – nei suoi lavori successivi propone che il giapponese

antico nelle frasi principali avrebbe un sistema nominativo-accusativo.

La funzione della particella wo in questo sistema non è ancora quella della marca

dell'accusativo314. È vero che questa particella marca l'oggetto di verbi transitivi, ma allo

stesso modo segnalerebbe anche il soggetto di verbi intransitivi inattivi (P di VP) come

nella costruzione -mi, ed è utilizzata per esprimere complementi come temporali e

313 Si vedano principalmente Yanagida (2005) e Yanagida (2006).314 Yanagida (2005: 2). Per “caso accusativo” l'autrice non sembra intendere il caso grammaticale

accusativo, le cui funzioni sono sia grammaticali sia concrete, ma piuttosto la marca del paziente P inverbi bivalenti VAP.

158

Page 160: Origine e funzioni della particella giapponese wo

locativi (le funzioni che erano state definite concrete, come visto in §2.1.2)315.

Inoltre, l'elemento marcato da wo non può, secondo l'autrice, posizionarsi accanto al

verbo, ma deve essere posto prima del soggetto (marcato o meno). Quindi, quando un

elemento è marcato da wo, l'ordine di costituenti nella frase diviene OSV. Si veda ad

esempio questa frase:

我れを 闇 に や 妹が

ware wo yami ni ya imo ga

io-OGG oscurità-LOC PART amata-SOGG

恋ひつつ あらむ

kopi-tutu ara-mu

desiderare.RY-GER esistere.MZ-CONG.RT

'la mia amata continuerà a desiderarmi nell'oscurità?'

(Man'yōshū 万葉集, maki 15, n. 3669).

Il soggetto imo 'amata', in questo caso marcato da ga, è immediatamente adiacente al

verbo, mentre l'oggetto marcato da wo è situato in posizione lontana dal verbo. In realtà,

si trovano numerose eccezioni all'ordine OSV con O marcato da wo, ed è quindi forse

315 Accenniamo soltanto al fatto che l'autrice conclude che questa particella avesse in origine unafunzione di caso obliquo in costruzioni antipassive, che sarebbe stato successivamente rianalizzato inun caso accusativo. La costruzione antipassiva nelle lingue con allineamento ergativo ha una funzionedel tutto simile a quella della costruzione passiva nelle lingue nominativo-accusative. Nelle lingueaccusative, come il sanscrito o il latino, l'oggetto O di una frase attiva (in accusativo) diviene soggetto(grammaticale) S al nominativo della frase passiva e il soggetto/agente A della frase attiva, se espressonella frase passiva, viene marcato nella passiva con un caso diverso (obliquo), ad esempio unostrumentale o un ablativo. Nelle lingue ergative come il dyirbal, il soggetto/agente A della frase attiva(al caso ergativo) diviene soggetto S della frase antipassiva e quindi viene marcato al caso assolutivo,mentre l'oggetto O della frase attiva (al caso assolutivo) viene marcato nell'antipassiva con un casoobliquo, ad esempio con il dativo. Si veda Dixon (1994: 146-52). Nei primi studi di Yanagida, laparticella wo avrebbe avuto la funzione di questo caso obliquo utilizzato nell'antipassiva, per poi venirrianalizzato in un caso accusativo: questo permette a Yanagida di spiegare l'utilizzo di wo nelle suefunzioni concrete e nell'espressione del soggetto in costruzioni intransitive (come la costruzione in-mi). Questa ipotesi è poi stata scartata negli studi successivi dell'autrice in collaborazione conWhitman. È interessante sottolineare uno dei motivi per cui questa ipotesi è stata messa indiscussione. L'elemento marcato dal caso obliquo nell'antipassiva (l'oggetto grammaticale nella fraseattiva corrispondente) è, secondo Dixon (1994: 148), generalmente indefinito e non referenziale,mentre come è stato sottolineato più volte la funzione di wo sembra proprio quella di marcare unoggetto definito, specifico o referenziale: sembra quindi molto improbabile che wo fosse un anticocaso obliquo, che esprime tipicamente elementi non definiti. Si veda Yanagida&Whitman (2009: 105-6), a cui si rimanda per ulteriori spiegazioni. Ulteriori critiche a questa teoria di Yanagida sono mosseda Wrona (2007b: 12-5).

159

Page 161: Origine e funzioni della particella giapponese wo

meglio considerare questo fenomeno una tendenza e non una regola fissa316.

Yanagida conclude che la funzione di questa particella non sarebbe quindi una

funzione grammaticale, in quanto la funzione di accusativo secondo l'autrice non

sarebbe compatibile con gli altri suoi utilizzi (concreti e come marca del soggetto nella

costruzione in -mi). La funzione di wo sarebbe piuttosto pragmatica, in quanto la

posizione distante dal verbo in cui occorrono gli elementi marcati da wo ricorda da

vicino ciò che avviene in presenza di particelle pragmatiche (di questo si era già

accennato in §2.6). Il sintagma marcato da una particella pragmatica, che segnali il

topic o il focus come ad esempio ka, namo o koso (§1.1.5), occorre sempre prima del

soggetto della frase, e la stessa caratteristica hanno, nello studio di Yanagida, i

costituenti marcati da wo. Questo permette a Yanagida di concludere che la funzione di

wo sarebbe principalmente una funzione pragmatica: wo marcherebbe il topic o il focus

della frase317, una funzione pragmatica e non grammaticale.

4.1.3 L'allineamento nominativo-accusativo nel giapponese antico

Frellesvig e Wrona sono i due studiosi che maggiormente hanno tentato di

dimostrare che l'allineamento morfosintattico del giapponese antico sarebbe stato

nominativo-accusativo, al pari di quello del giapponese moderno318.

L'analisi dei due autori distingue l'espressione di soggetto e oggetto in frasi

principali e in frasi subordinate. Per quanto riguarda le frasi principali, non vi era un

morfema esplicito che segnalasse il soggetto, che compariva quindi non marcato da

alcuna particella. Nelle frasi subordinate, invece, il soggetto poteva essere espresso

tramite ga, no o ø: la distribuzione delle particelle ga e no, secondo i due studiosi, era in

parte differente, in quanto ga tendeva a marcare soggetti umani e animati, mentre no

poteva marcare tutti i soggetti, inclusi quelli ammessi da ga319. Come era già stato

accennato (§1.2), in presenza di sostantivi animati queste due particelle potevano

316 La stessa autrice riscontra alcune eccezioni nel Man'yoshu, in Yanagida (2006: 59-63), ma ulterioricontroesempi si trovano in Vovin (2005: 159) e in Wrona&Frellesvig (2009: 577): Wrona e Frellesvigammettono che la vicinanza fra verbo e oggetto tende a favorire la non occorrenza di wo, ma questa èappunto una tendenza e non una regola.

317 Yanagida (2006: 47-8).318 L'articolo di riferimento è Wrona&Frellesvig (2009), ma si veda anche Frellesvig (2010: 128-9).319 Frellesvig (2010: 128); Wrona&Frellesvig (2009: 566).

160

Page 162: Origine e funzioni della particella giapponese wo

alternare, ad esempio nelle due frasi kimi no imashiseba 'se il mio signore fosse ancora

stato qui' e kimi ga imasaba 'se il mio signore è qui'. Wrona320 quindi avanza l'ipotesi

che la distribuzione di ga e no sarebbe connessa con la scala di animatezza di

Silverstein (§4.1.1): ga marcherebbe gli elementi che si trovano più in alto nella scala di

animatezza, no quelli che si trovano invece più in basso, ma non è raro che segnali

anche i sostantivi animati.

Per quanto riguarda invece l'espressione dell'oggetto, esso sia in frase principale che

in frase subordinata poteva o meno essere marcato da wo, e i due autori intepretano la

presenza di ø come “case drop”. Ci sono chiaramente alcuni fattori che condizionano o

comunque favoriscono l'utilizzo di wo e Wrona e Frellesvig ne identificano

principalmente due: il primo è la distanza dal verbo, che tenderebbe a favorire la

presenza di wo e infatti quasi tutti gli oggetti non marcati occorrono immediatamente

accanto al verbo; il secondo è la definitezza e referenzialità dell'oggetto, in quanto

oggetti definiti e referenziali tendono ad essere marcati da wo321. Questi due elementi in

realtà non rendono obbligatoria l'espressione di wo, e infatti si notano numerosi

controesempi, come il seguente322:

320 Wrona (2007b: 7-8). Wrona sembra intendere, pur non scrivendolo espressamente, la possibilità chela distribuzione di ga sia connessa con una marcatura differenziale del soggetto (differential subjectmarking, DSM), un fenomeno del tutto simile al DOM (differential object marking, di cui si parlerà in§4.2.2). In generale per “marcatura differenziale” si intende un fenomeno in cui un determinato ruolosemantico o relazione grammaticale viene marcato espressamente o meno sulla base di proprietàsemantiche o pragmatiche come animatezza, definitezza, specificità. La posizione dell'elemento sullascala di animatezza di Silverstein (§4.1.1) è uno dei criteri maggiormente utilizzati nelle lingue pereffettuare la marcatura differenziale e si tende a marcare esplicitamente l'elemento quando questo hacaratteristiche diverse da quelle prototipiche. L'agente A è prototipicamente animato, il paziente Pinanimato: il paziente è oggetto di marcatura differenziale (DOM) se in quella determinata occorrenzaè animato (anche per non confonderlo con l'agente, prototipicamente animato), l'agente in teoriadovrebbe essere marcato (DSM) se non è animato. Se nel DOM generalmente nelle lingue si rispettaquesto criterio, nel DSM spesso non lo si fa e in molte lingue accade, viceversa, che l'agente siamarcato solo se alto nella scala di animatezza: questo sarebbe ciò che accadrebbe in giapponese, in cuisi avrebbe la marcatura differenziale del soggetto, se animato, tramite ga. A proposito del rapporto frala marcatura differenziale e l'animatezza, si veda l'interessantissimo articolo Malchukov (2008).

321 Wrona&Frellesvig (2009: 577-8). L'idea che la definitezza e referenzialità influenzerebbero lapresenza di wo è stata poi ripresa da Frellesvig nel 2013, nello studio in cui lui, Yanagida e Hornhanno concluso che l'espressione di wo dipenderebbe dalla specificità dell'oggetto (§4.2).

322 Frellesvig (2010: 130). Riguardo questa frase si veda anche §5.2.

161

Page 163: Origine e funzioni della particella giapponese wo

青柳 梅 との 花を 折り

awo-yanagi ume to no pana wo wori

verde-salice pruno-COM-ATTR fiori-OGG spezzare.RY

'spezzare i fiori del salice verde e del pruno' (Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 821).

In questa frase l'oggetto, pur comparendo immediatamente accanto al verbo, è

marcato da wo. L'adiacenza al verbo e la non definitezza e referenzialità dell'oggetto

tenderebbero quindi a sfavorire la presenza di wo, ma si tratterebbe appunto di una

tendenza e non di una vera e propria regola.

Wrona e Frellesvig, inoltre, sono fra i pochissimi autori a riconoscere che anche le

funzioni concrete della particella grammaticale wo non sono in conflitto con la sua

funzione grammaticale principale, che secondo i due studiosi sarebbe quella di

segnalare l'oggetto diretto. Come è stato già esaminato (§2.1.2) la particella wo poteva

marcare anche ruoli semantici come il percorso (moto per luogo) o l'origine (moto da

luogo), ma anche il complemento di tempo continuato. I due studiosi, correttamente,

asseriscono che non è affatto raro che il morfema che marca l'oggetto diretto (da loro

definito marca dell'accusativo) venga utilizzato in queste funzioni concrete: questo

avviene in coreano, ungherese, finlandese, latino323. L'utilizzo in funzione concreta di

wo confermerebbe quindi la sua funzione di marca dell'accusativo, secondo i due autori.

La teoria di Wrona e Frellesvig sull'allineamento del giapponese antico è quindi

schematizzabile nel diagramma della Fig. 12.

323 Wrona&Frellesvig (2009: 573).

162

Fig. 12: L'allineamento del giapponese antico secondo Wrona e Frellesvig

Page 164: Origine e funzioni della particella giapponese wo

4.1.4 L'allineamento attivo-stativo nel giapponese antico

Sono principalmente due gli studi in cui si attribuisce al giapponese antico un

allineamento almeno parzialmente attivo-stativo: lo studio di Yanagida e Whitman da un

lato e quello di Vovin dall'altro. Una differenza fondamentale che si noterà fra i due

studi è il ruolo che si ritiene svolto dalla particella wo nel sistema attivo-stativo: se,

come si vedrà, Yanagida e Whitman non tengono molto in considerazione la

distribuzione di questa particella nel loro studio (wo avrebbe una funzione differente,

ovvero pragmatica, connessa alla specificità dell'oggetto) e tendono a impostare la

ricerca sulla base delle occorrenze della particella ga in alternanza con ø, al contrario le

occorrenze e la funzione di wo assumono un'importanza centrale nella ricerca di Vovin.

Ed è probabilmente a causa della differenza nell'importanza assunta da wo nei due studi

che gli esiti delle due ricerche sono ben differenti.

Come accennato (§4.1.2), Yanagida e Whitman324 hanno tentato, nelle loro

ricerche più recenti, di dimostrare che il giapponese antico sarebbe stato caratterizzato

da un sistema scisso: un allineamento nominativo-accusativo nelle frasi principali e uno

attivo-stativo nelle frasi subordinate.

Per quanto riguarda le frasi principali, i due autori affermano che sia i soggetti di

verbi transitivi e intransitivi sia l'oggetto sono marcati da ø e questo permetterebbe di

definire l'allineamento del giapponese antico nominativo-accusativo325. In realtà, se tutti

gli argomenti sono trattati formalmente allo stesso modo (in questo caso marcati dal

morfema ø), l'allineamento può essere definito in modo più corretto neutro, e non

nominativo-accusativo, in quanto il paziente del verbo bivalente (P di VAP) non viene

codificato in maniera differente.

La questione è invece più complessa per quanto riguarda le frasi subordinate: per

frasi subordinate i due studiosi intendono tutte le proposizioni in cui il verbo si trovi in

forma attributiva (RT), imperfettiva (MZ), perfettiva (IZ) e i casi in cui occorrono

costruzioni che permettono di nominalizzare il verbo (ad esempio la costruzione -ku,

324 Due testi di riferimento sono Whitman&Yanagida (2009) e Whitman&Yanagida (2012). Lungo la spiegazione della loro teoria verranno comunque forniti riferimenti puntuali alle pagine dei due articoli.

325 Whitman&Yanagida (2012: 188).

163

Page 165: Origine e funzioni della particella giapponese wo

tramite cui il verbo suru 'fare' diviene suraku e ha funzione di verbo nominalizzato).

Nella frase subordinata, il soggetto in giapponese antico poteva essere codificato in

tre modi diversi, come già visto anche nella teoria di Wrona e Frellesvig (§4.1.3):

tramite le particelle ga o no, oppure con ø. Come è già stato accennato, vi è un generale

accordo fra gli studiosi nell'affermare che ga veniva utilizzato con referenti umani o

animati, mentre no poteva marcare tutti i sostantivi, anche quelli ammessi da ga. Infatti,

visto che no poteva marcare ogni tipo di soggetto nelle frasi subordinate, Yanagida e

Whitman non prendono in considerazione questa particella nella loro spiegazione

dell'allineamento attivo-stativo del giapponese antico: l'alternanza su cui si concentrano

nel loro studio è ga-ø, nella loro funzione di marca dei soggetti delle subordinate.

Secondo i due autori l'alternanza si basa su due elementi fondamentali: la scala di

animatezza di Silverstein (questo era già stato notato anche da Wrona §4.1.3) e il ruolo

semantico assegnato dal verbo326. La distribuzione della particella ga è ristretta a

sostantivi il cui referente è alto nella scala dell'animatezza (come accennato, referenti

animati, soprattutto se umani e specifici, ad esempio i pronomi personali), mentre

l'assenza di marcatura esplicita è invece più frequente se il sostantivo ha referente

inanimato. Ad esempio:

我が 背子が 琴 取る なへ に

wa ga seko ga koto327 toru nape ni

io-ATTR amato-SOGG koto ø prendere.RT non appena PART

'non appena il mio amato prese il koto' (Man'yōshū 万葉集, maki 18, n. 4135);

海石 に ぞ 深 海松 生ふる

ikuri ni zo puka -miru opuru

scogliera-LOC FOC profonda-alga ø crescere.RT

'le alghe profonde crescono sulle scogliere' (Man'yōshū 万葉集, maki 2, n. 135).

Come si nota dagli esempi, il soggetto seko 'l'amato' è animato e specifico ed è

marcato da ga, mentre il soggetto miru 'alghe' è inanimato e non è marcato da alcuna

326 Whitman&Yanagida (2012: 189).327 Il koto è uno strumento musicale tradizionale, a corda, molto diffuso in Giappone.

164

Page 166: Origine e funzioni della particella giapponese wo

particella.

Il secondo fattore che condiziona l'alternanza ga-ø è il ruolo semantico assegnato dal

verbo. L'agente A di un verbo monovalente VA e di un verbo bivalente VAP verrebbe

marcato da ga, mentre il paziente P di un verbo monovalente VP sarebbe marcato da ø:

la scelta, accennano brevemente Yanagida e Whitman, verrebbe fatta sulla base di criteri

come il controllo e l'intenzionalità328. Negli stessi esempi visti sopra, il verbo toru

'prendere' è un verbo bivalente, e il suo agente è marcato da ga, invece il verbo opu

'crescere' è monovalente e l'attante ha il ruolo semantico del paziente, quindi non viene

marcato da alcuna particella.

I due fattori, posizione nella scala di animatezza e ruolo semantico assegnato, sono

chiaramente collegati, anche se i due autori non ne fanno menzione: un sostantivo il cui

referente sia situato più in alto nella scala di animatezza tenderà con più probabilità ad

avere il ruolo di agente A, anche perché tenderà a essere maggiormente connesso con il

controllo dell'azione, mentre un sostantivo il cui referente si trovi più in basso tenderà

ad essere identificato come paziente P, e generalmente non ha il controllo dell'azione329.

In base a questo, si può anche ipotizzare che la particella ga, in funzione di marca del

soggetto, sia strettamente connessa soltanto alla scala di animatezza, e sia proprio per

questo che spesso si trova a marcare un agente A: come fa notare Wrona, è anche

possibile che la distribuzione di ga sia “related to animacy rather than case-marking

patterns”330 e quindi l'alternanza ga-ø non abbia nulla a che fare con un allineamento

attivo-stativo.

Ad ogni modo, secondo Whitman e Yanagida, quindi, la particella ga marcherebbe

soggetti con referente umano o animato, che abbiano il ruolo semantico di agente A,

mentre con ø si segnalerebbero i soggetti inanimati che abbiano il ruolo semantico di

paziente P.

Per quanto riguarda l'oggetto in frase subordinata, secondo i due autori la marca di

default è ø.331 Il paziente P del verbo bivalente VAP non è marcato da alcun morfema

esplicito, esattamente come nessun morfema esplicito marca il paziente P del verbo

328 Whitman&Yanagida (2009: 114).329 Si veda anche Dixon (1994: 85).330 Wrona (2007b: 7-8). 331 Whitman&Yanagida (2012: 190).

165

Page 167: Origine e funzioni della particella giapponese wo

monovalente il cui attante unico abbia il ruolo semantico di paziente (VP). Se la marca

del paziente in verbi bivalenti in frase subordinata è ø (ma, come visto, lo è anche in

frase principale), la funzione della particella wo non può essere una funzione

grammaticale: Yanagida e Whitman sono infatti fra gli autori che sostengono con più

forza l'idea di un valore anche pragmatico in giapponese antico di wo, che infatti

marcherebbe l'oggetto a patto che questo sia specifico (si veda §4.2)332. Questa particella

quindi non ha un ruolo di primo piano nella teoria proposta da Yanagida e Whitman.

Essa non si configura né come marca grammaticale dell'oggetto né come marca di caso

pazientivo nell'allineamento attivo-stativo, ma ha una funzione ben diversa: quella di

segnalare che il sostantivo che marca debba essere considerato specifico, funzione che

quindi si discosta dal problema dell'allineamento morfosintattico del giapponese antico.

Inoltre, come già accennato (§4.1.2), quando è presente la particella wo l'oggetto

marcato tende a non occorrere accanto al verbo ma a posizionarsi prima del soggetto in

un ordine OSV.

L'analisi del trattamento formale di agente e paziente nelle frasi subordinate permette

in conclusione ai due autori di ipotizzare un allineamento attivo-stativo, limitato

appunto alle frasi subordinate: la particella ga marcherebbe l'agente A sia in verbi

monovalenti VA che in verbi bivalenti VAP, mentre il paziente P di verbi monovalenti VP e

bivalenti VAP non sarebbe marcato da alcun morfema. L'interpretazione di Yanagida e

Whitman può essere quindi schematizzata nel diagramma seguente:

Come si può vedere, nelle frasi principali l'allineamento, benché definito dagli autori

332 Whitman&Yanagida (2009: 126).

166

Fig. 13: L'allineamento del giapponese antico secondoYanagida e Whitman

Page 168: Origine e funzioni della particella giapponese wo

nominativo-accusativo, sembrerebbe piuttosto un allineamento neutro, mentre nelle frasi

subordinate l'allineamento è attivo-stativo, e l'agente A è codificato in modo diverso

rispetto al paziente P.

Vediamo alcuni esempi di verbi categorizzati agentivi o pazientivi da Yanagida333.

Esempi di verbi monovalenti agentivi (VA) il cui soggetto viene generalmente marcato

da ga in frase subordinata sono のる noru 'cavalcare', なく naku 'piangere', 行く yuku

'andare'; verbi monovalenti pazientivi (VP), il cui soggetto non è marcato da alcuna

particella sono ad esempio 咲く saku 'fiorire', 散る tiru 'cadere', ふく puku 'soffiare', 住

む sumu 'vivere', 立つ tatu 'stare in piedi', く ku 'venire'. Questi esempi permettono di

notare immediatamente un problema nello studio di Yanagida: non è chiaro il criterio

secondo cui si distinguono verbi agentivi e verbi pazientivi. Yanagida e Whitman

accennano – come già visto – che uno dei criteri, oltre all'animatezza del soggetto, è

legato al controllo e all'intenzionalità. Questo può giustificare il fatto che un verbo come

tiru 'cadere' sia classificato come verbo pazientivo, in quanto il soggetto generalmente

non ha controllo dell'azione e non la compie intenzionalmente, tanto più che spesso

questo verbo è utilizzato con un soggetto come 'fiori, petali'. Ma questo criterio non

permette affatto di capire perché anche verbi come ku (odierno kuru) 'venire' o tatu

'stare in piedi' debbano essere classificati all'interno del gruppo dei verbi pazientivi, pur

essendo verbi che denotano azioni in cui il soggetto sembra essere ben in controllo, al

pari di verbi come yuku 'andare' e kaperu (odierno kaeru) 'tornare', classificati invece

come agentivi. Sembra che gli autori abbiano categorizzato i verbi sulla base della

codifica formale dell'attante, e non abbiano tentato fino in fondo di dare una ratio a

livello semantico a questa distinzione, accennando soltanto a criteri legati

all'intenzionalità e al controllo, che però non sembrano essere del tutto coerenti con la

classificazione dei verbi.

Mentre lo studio di Yanagida e Whitman non prende molto in considerazione la

particella wo e i due autori non ritengono che essa segnali una relazione grammaticale

o un ruolo semantico, ma che abbia un valore principalmente pragmatico (il ruolo svolto

da wo quindi esulerebbe dal problema dell'allineamento), la ricerca circa l'allineamento

333 Yanagida (2005: 4). L'elenco dei verbi viene fornito dalla studiosa in questo articolo, e negli articoli successivi non è più stato riproposto ma sembra essere stato ampiamente utilizzato in Whitman&Yanagida (2009) e Whitman&Yanagida (2012).

167

Page 169: Origine e funzioni della particella giapponese wo

morfosintattico del giapponese antico ad opera di Vovin è molto più incentrata sulla

funzione di questa particella: nella teorizzazione di Vovin wo si configura come marca

morfologica del ruolo semantico del paziente, ovvero la marca del caso pazientivo.

Il punto di partenza di Vovin è infatti la distribuzione di wo: essa era utilizzata per

marcare l'oggetto sia nelle frasi principali sia nelle frasi subordinate, ma poteva anche

marcare il soggetto di frasi in cui il predicato fosse un verbo intransitivo non attivo (un

VP). L'esempio più evidente è la costruzione -mi (§2.5), costrutto in cui sono presenti un

sostantivo marcato da wo (ma poteva occorrere anche non marcato) e un aggettivo con

suffisso -mi, e questo aggettivo viene definito da Vovin “quality stative verb”334: gli

esempi che Vovin riporta sono numerosissimi, dato che in epoca Nara questa

costruzione era molto frequente. Ma gli esempi in cui wo marcherebbe un soggetto di un

verbo pazientivo non sono limitati solo alla costruzione -mi: Vovin propone cinque frasi

in cui wo marca il soggetto di verbi come aru 'esserci', naku 'piangere', nadumu

'attaccarsi'335. Ad esempio:

紫の にほへる 妹を

murasaki no nipoperu imo wo

violetta-COMP essere bello.IZ-RIS.RT amata-ABS336

憎く あらば

nikuku ara-ba

detestabile.RY essere.MZ-IPOT

'se la mia amata, che è bella come una violetta, fosse detestabile (per me)'

(Man'yōshū 万葉集, maki 2, n. 21);

334 Vovin (1997: 276). Come già accennato (§2.5), l'autore preferisce questa definizione a quellatradizionale di “aggettivo” per evitare errate analogie con la categoria degli aggettivi delle lingueeuropee.

335 Questi cinque esempi sono proposti in Vovin (1997: 278-9) e Vovin (2005: 166-9). Si noti che ilverbo naku 'piangere' è uno dei verbi che Yanagida aveva inteso come agentivi (VA) il cui soggetto èmarcato da ga, mentre Vovin lo intende, almeno nell'occorrenza da lui citata, come pazientivo (VP).Ancora una volta si può vedere come i criteri che permettono di distinguere verbi pazientivi e verbiagentivi non sono univoci e condivisi. Anche qui si nota che Vovin, come Yanagida, non definisce uncriterio secondo cui distinguere le due tipologie di verbi, ma sembra riconoscere questa distinzionesolo sulla base del morfema che marca il soggetto del verbo in questione. Il verbo naku nel suoesempio è intransitivo inattivo (VP) e sembra essere interpretato come tale solo in quanto il suosoggetto è marcato da wo, e non in base a criteri come controllo, volontarietà e così via.

336 Si riporta qui la glossa di Vovin. Il caso pazientivo viene chiamato da lui assolutivo, quindi wo vieneglossato dall'autore come ABS, absolutive.

168

Page 170: Origine e funzioni della particella giapponese wo

妹 を 下泣き に

imo wo shita-naki ni

amata-ABS sotto-piangere.RY COP

'l'amata pianse segretamente' (Kojiki 古事記, 78);

くはしめ を あり と きこして

kupashime wo ari to kikoshi-te

bella donna-ABS essere.SS DV337 sentire.RY-GER

'avendo sentito che ci fosse una bella donna' (Kojiki 古事記, 2).

In queste frasi wo segnala il soggetto di un verbo intransitivo che Vovin definisce

inattivo: in queste occorrenze quindi la particella sarebbe utilizzata come marca del

paziente. In funzione di marca del soggetto di verbi intransitivi pazientivi (VP), wo

avrebbe avuto un uso molto raro già nella lingua giapponese di epoca Nara e nell'epoca

Heian questo utilizzo sarebbe scomparso lasciando solo pochi retaggi nei primi testi del

periodo. La funzione primaria di wo sarebbe stata quindi quella di segnalare l'oggetto

sin dal giapponese antico, ma in alcune costruzioni di epoca Nara wo avrebbe anche

potuto marcare il soggetto di verbi intransitivi pazientivi. La particella wo quindi

marcherebbe il paziente P di VP e di VAP.

Per quanto riguarda la marca dell'agente, che – come si ricorderà – secondo

Yanagida e Whitman sarebbe la particella ga, Vovin ritiene che sarebbe identificabile

con la particella i338. Questa particella non è affatto diffusa nei testi del giapponese

antico: non ne abbiamo traccia nel Kojiki e nel Nihonshoki, in tutto il Man'yoshu appare

solo cinque volte, e i testi in cui occorre con più frequenza sono i Senmyō in cui

compare dodici volte. Un ampissimo uso ne fu fatto invece nelle glosse utilizzate nella

pratica del kanbun-kundoku (§3.1.1) nel periodo Heian e infatti ve ne sono moltissimi

337 Anche qui seguiamo la glossa di Vovin. Questa frase era già stata riportata in §2.1.2, dove laparticella to era stata glossata QUOT “citazione”, perché essa segue discorsi diretti e indiretti. Vovininvece la glossa DV, verbo difettivo. Era già stato fatto notare in §2.1.2 che Hashimoto ritiene questoun utilizzo particolare della particella wo, in cui wo marcherebbe il soggetto di frasi a cui si postponela particella to, similmente all'utilizzo dell'accusativo per marcare il soggetto di frasi infinitiveoggettive in latino (accusativus cum infinitivo).

338 Vovin (1997: 281). Di questa particella si è già accennato nel §1.1.2.

169

Page 171: Origine e funzioni della particella giapponese wo

esempi nei testi buddhisti di quel periodo339. Secondo Vovin, la funzione di questa

particella in queste sue rare occorrenze sarebbe quella di segnalare il caso agentivo: i

marcherebbe quindi l'agente A di verbi monovalenti agentivi (VA) e di verbi bivalenti

(VAP). Un esempio portato da Vovin è il seguente:

奈良麻呂古麻呂等 い 逆しま に ある

Naramaro Komaro-ra i sakashima ni aru

Naramaro Komaro-PLUR-AG opposto COP essere.RT

ともがら を 誘ひ 率ゐて

tomo-gara wo izanapi- pikiwi-te

compagno-SUFF-OGG istigare.RY-condurre.RY-GER

'Naramaro, Komaro e altri istigarono e condussero un gruppo di ribelli'

(Senmyō 宣命 19, 2).

In questo esempio la particella i marca l'agente in una frase il cui predicato è

composto da due verbi transitivi, izanapu 'istigare' e pikiwiru 'condurre'. Negli altri

esempi proposti da Vovin, la particella i, come marca del caso agentivo, segnala il

soggetto di verbi transitivi come とどむ todomu 'fermare', 結ぶ musubu 'legare', 仰ぐ

apugu 'guardare (in alto)', 申す mawosu (o mōsu) 'dire', ma anche un verbo intransitivo

attivo come 帰り参る kaperimawiru 'tornare indietro'340.

Benché secondo la teoria di Vovin wo possa segnalare il paziente P e i possa marcare

l'agente A, lo studioso non conclude affatto che il giapponese antico fosse una lingua

con allineamento attivo-stativo. Anzi, accadeva molto più frequentemente che il

soggetto di un verbo transitivo S e l'agente del verbo intransitivo A (che nella

formulazione di Kibrik sono identificabili con l'agente A di VA e di VAP e il paziente P di

VP) occorressero marcati con ø. L'oggetto O del verbo transitivo (P di VAP) invece

occorreva spesso marcato da wo, benché anche questa particella potesse alternare con ø.

Questo permette a Vovin di affermare che il giapponese antico combinerebbe un

339 Frellesvig (2010: 131-132); Whitman&Yanagida (2012b: 128).340 Si vedano i numerosi esempi in Vovin (2005: 111-4). L'unico esempio in cui i sembra marcare il

soggetto di un verbo intransitivo è proprio nella frase in cui segnala il soggetto del verbo 'tornareindietro': in tutti gli altri esempi, il verbo è transitivo.

170

Page 172: Origine e funzioni della particella giapponese wo

allineamento nominativo-accusativo e un allineamento attivo-stativo, con una ben ampia

preferenza per quello accusativo: il sistema di base sembrerebbe essere quello

nominativo-accusativo, quindi, ma il giapponese di epoca Nara presenterebbe anche

alcune costruzioni in cui l'allineamento sarebbe attivo-stativo. Il sistema teorizzato da

Vovin è quindi così schematizzabile:

Quella che è stata esposta fin qui è la prima formulazione della teoria di Vovin, ma in

realtà lo stesso studioso e molti altri autori hanno ampimente discusso sul ruolo che

debba essere attribuito alla particella i e sull'origine di questa particella.

L'interpretazione non è affatto concorde tra gli studiosi, principalmente a causa della sua

non ampia distribuzione all'interno dei testi in giapponese antico: come è stato detto, se

si escludono le occorrenze nelle glosse dei testi sino-giapponesi, gli esempi della

particella i nei testi antichi sono circa venti in tutto. Fra le diverse soluzioni proposte

dagli studiosi si deve citare quella di Miller, che ipotizzò che questa particella avesse

funzione di accusativo, e allo stesso modo Itabashi propose che i sarebbe stata utilizzata

come marca del caso accusativo, ma avrebbe marcato anche il soggetto nel discorso

indiretto; negli studi più recenti sembra esservi un generale accordo invece sul fatto che

i segnalerebbe il soggetto o l'agente: secondo Frellesvig ad esempio marcherebbe

soggetti, e sarebbe utilizzata principalmente in frasi subordinate341.

Anche l'origine della particella i non è chiara, e un'importante teoria è stata proposta

solo negli ultimi anni. Era stato ipotizzato da molti studiosi nel secolo scorso che questa

particella fosse imparentata con il morfema coreano i, che avrebbe marcato il soggetto

in un sistema nominativo-accusativo in coreano medio (nel XV secolo circa); una teoria

341 Miller è citato in Frellesvig (2010: 131), Itabashi in Vovin (2005: 113). Anche la teoria di Frellesvig èesposta in Frellesvig (2010: 131).

171

Fig. 14: L'allineamento del giapponese antico secondo Vovin

Page 173: Origine e funzioni della particella giapponese wo

successiva propone che questo morfema avrebbe avuto in coreano una funzione

ergativa, quindi avrebbe marcato solo il soggetto di verbi transitivi342. Recentemente è

stato ipotizzato che i due morfemi non sarebbero imparentati, ma piuttosto che si

tratterebbe di un prestito dal coreano al giapponese343, e questo permetterebbe anche di

spiegare la sua diffusione nei senmyō e nei testi cinesi glossati tramite la pratica del

kanbun-kundoku (pratica che, come accennato §3.1.1, avrebbe influenzato molto la

lingua utilizzata nei senmyō): vi fu un “heavy continental, and in particular Sillan,

component in the establishment of kunten glossing practice in Japan”344. Una pratica

identica al kanbun-kundoku era infatti in uso anche in Corea (e veniva chiamata kugyŏl),

e Yanagida e Whitman ricordano che le glosse giapponesi di testi buddhisti in cinese

(come l'Avataṃsaka sūtra) furono spesso composte prendendo ad esempio le glosse

coreane. Il morfema i venne quindi preso in prestito proprio all'interno della pratica del

kanbun-kundoku ed è nelle glosse dei testi cinesi che venne utilizzato maggiormente:

questo morfema non può essere originario giapponese, altrimenti sarebbe stato presente

anche in testi come Kojiki e Nihonshoki.

La sua funzione in coreano quindi non è chiara, ma sembra che vi sia un accordo fra

gli studiosi nell'affermare che si tratti di una funzione grammaticale: i viene intesa come

marca del nominativo (marcherebe il soggetto di tutti i verbi transitivi e intransitivi),

come marca agentiva (marcherebbe l'agente in verbi transitivi e intransitivi attivi), o

come marca del caso ergativo (segnalerebbe solo l'agente di verbi transitivi). Secondo

Yanagida e Whitman, la presenza della particella i in giapponese non sarebbe invece

determinata soltanto dalla relazione grammaticale (soggetto) o dal ruolo semantico

(agente) del sostantivo che marca, come in coreano: questa particella avrebbe anche una

funzione pragmatica di “broad focus subject”345. A causa di questa sua funzione anche

pragmatica e legata alla struttura informativa dell'enunciato, la particella i tenderebbe ad

342 La prima teoria è proposta da Aston, Martin e altri, la seconda da King: queste teorie vengono citate in Vovin (1997: 288) che in quell'articolo si rifà all'ipotesi di King.

343 Vovin (2005: 111-6); Whitman&Yanagida (2012b: 130-1).344 Whitman&Yanagida (2012b: 133). Silla è uno dei tre regni (insieme a Paekche e Koguryŏ) che

occuparono la Corea e parte della Manciuria fino al VII secolo, quando il regno di Silla si impose sugli altri due. Per kunten, come già visto, si intendono i segni grafici come punteggiatura o diacritici, ma anche grafemi in katakana, che vengono utilizzati nella pratica del kanbun-kundoku.

345 Whitman&Yanagida (2012: 133). Si noti inoltre che l'origine coreana di i e la sua funzionegrammaticale in coreano contraddicono necessariamente la teoria interiezionale (§1.1.2), secondo cuiquesta particella sarebbe stata in origine appunto una particella interiezionale poi grammaticalizzatasi.

172

Page 174: Origine e funzioni della particella giapponese wo

alternare con ø: la presenza di i segnalerebbe il fatto che il soggetto o l'agente viene

nominato per la prima volta nel testo o che non può essere dedotto da ciò che è stato

detto precedentemente, mentre un soggetto o agente già nominato oppure “discourse-

presupposed” come la prima e la seconda persona o l'imperatore verrebbero espressi

senza particella (infatti i pronomi personali non sono mai marcati con i). La particella i

sembra quindi segnalare un'informazione nuova (new), mentre ø un'informazione data

(given).

Questa idea della particella i come marca di un “broad focus subject” non sembra

necessariamente contraddire l'interpretazione di Vovin, secondo cui i marcherebbe

l'agente. Questa interpretazione aggiungerebbe semplicemente un valore pragmatico alla

particella che marca l'agente, così come un valore similmente pragmatico viene

attribuito da molti studiosi anche alla particella wo (§4.2), che nell'ipotesi di Vovin

marcherebbe il paziente. L'espressione di entrambe le particelle è legata anche, ma non

solo, alla struttura informativa dell'enunciato: la presenza di i segnalerebbe il fatto che il

soggetto non è stato precedentemente identificato, wo segnalerebbe il fatto che l'oggetto

è specifico, ovvero che il referente è connesso ad un altro referente precedentemente

stabilito ed è identificabile nella mente del parlante. Non si tratta quindi di una funzione

strettamente grammaticale (se così fosse, la presenza di queste particelle sarebbe

obbligatoria), ma non sembra nemmeno trattarsi di una funzione esclusivamente

pragmatica: sia wo sia i occorrono in connessione con relazioni grammaticali (o ruoli

semantici) ben precisi, wo con l'oggetto (o il paziente P, secondo Vovin) e i con il

soggetto (o l'agente A, in Vovin). Se si trattasse di una funzione esclusivamente

pragmatica, la particella i ad esempio dovrebbe poter essere utilizzata per segnalare il

focus su qualsiasi elemento della frase, come accade con altre particelle pragmatiche

quali koso, namo e così via (§1.1.6). Anche in questo caso, come già visto riguardo alla

particella ga moderna (§1.2.3; §2.6), i piani grammaticale, semantico e pragmatico

sembrano sovrapporsi, e questo non permette di assegnare facilmente un valore solo

grammaticale o solo pragmatico a una particella.

A causa dell'ipotesi formulata da Vovin e da Yanagida e Whitman riguardo l'origine

coreana della particella i, però, sembra difficile riconoscere proprio nella particella i la

marca del caso agentivo di un allineamento anche parzialmente attivo-stativo. Proprio a

173

Page 175: Origine e funzioni della particella giapponese wo

causa del fatto che i avrebbe origine come prestito dal coreano, questa particella è infatti

attestata tardi (non se ne trova traccia nel Kojiki o nel Nihonsoki), e usata

principalmente in ambienti molto specializzati legati alla pratica del kanbun-kundoku

(se escludiamo cinque occorrenze nel Man'yoshu). Al contrario, la particella wo, che

Vovin identifica come marca del caso pazientivo, è attestata sin dai primissimi testi,

sicuramente in funzione di marca dell'oggetto, e nella teoria di Vovin anche come marca

del paziente con verbi intransitivi inattivi. Gran parte delle occorrenze della costruzione

-mi, ad esempio, si trovano nel Man'yoshu, ma questa costruzione è utilizzata

diffusamente anche nel Kojiki.

È possibile ipotizzare, piuttosto, che il giapponese antico avesse effettivamente

presentato alcune costruzioni in cui si possa riconoscere un allineamento attivo-stativo,

ma che questo fenomeno fosse limitato solo a verbi monovalenti pazientivi (VP). Questo

permetterebbe di spiegare il motivo per cui wo segnalerebbe il soggetto in presenza di

alcuni predicati o costrutti intransitivi, come la costruzione in -mi, già nel Kojiki. Come

è già stato visto (§4.1.1), secondo alcuni studiosi in quasi tutte le lingue del mondo

esisterebbero verbi monovalenti in cui l'attante verrebbe codificato in modo atipico:

l'allineamento attivo sarebbe presente in tutte le lingue in gradi diversi. Si potrebbe

quindi spesso identificare una lingua come appartenente a un tipo accusativo o ergativo,

un chiaro e ben identificabile allineamento di base, in cui poi si trovino anche attanti di

verbi monovalenti codificati in modo atipico. Questo potrebbe essere proprio il caso del

giapponese antico. A prescindere dal fatto che l'allineamento di base sia neutro o

nominativo-accusativo, la particella che marca l'oggetto specifico (in una situazione di

differential object marking §4.2) verrebbe utilizzata in alcuni casi per segnalare l'attante

unico di verbi monovalenti pazientivi, codificato in modo atipico. Ed è per questo che si

incontrerebbero in giapponese antico alcune costruzioni a cui si può attribuire un

allineamento attivo-stativo: come si è visto, la costruzione -mi ne è l'esempio più

evidente (e in cui la particella wo è utilizzata in modo più stabile), ma non il solo. Ed è

possibile che come nella sua funzione di marca dell'oggetto specifico, anche nella sua

funzione di marca (rara e atipica) del paziente P in verbi monovalenti VP wo fosse stata

utilizzata solo se il referente del sostantivo fosse stato specifico. Questa idea è rafforzata

dallo studio di Motohashi (§2.5), in cui l'autore ipotizza che anche nella costruzione in

174

Page 176: Origine e funzioni della particella giapponese wo

-mi, come nelle costruzioni transitive, la particella wo sarebbe presente o meno in base

al criterio dell'alta identificabilità di Hopper e Thompson. Tramite questo parametro si

distinguono, come visto, gli oggetti umani e animati da quelli inanimati, gli oggetti

denominati con nome proprio da quelli con nome comune, gli oggetti definiti,

referenziali e specifici da quelli non definiti e così via: solo i sostantivi altamente

identificabili sarebbero, secondo Motohashi, marcati da wo sia nelle costruzioni

transitive sia nel costrutto -mi. Oltre agli esempi in cui compare il costrutto -mi, come

detto, Vovin fornisce ulteriori cinque esempi in cui wo marcherebbe il soggetto di un

verbo intransitivo inattivo (P di VP), tre dei quali sono stati riportati sopra. In tutte

queste cinque frasi, il sostantivo marcato da wo sembra essere anch'esso altamente

individuabile, secondo i criteri di Hopper e Thompson: i sostantivi marcati in questi

cinque esempi sono 妹 imo 'l'amata', くはしめ kupashime 'bella donna', をとめ

wotome 'ragazza'346. È quindi possibile che la marca dell'oggetto specifico possa esser

stata utilizzata in alcune rare costruzioni con allineamento attivo-stativo, in cui l'attante

(altamente individuabile) del verbo monovalente pazientivo fosse stato codificato in

modo atipico.

La teoria di Vovin è sicuramente interessante perché permette di dare una ratio ad

alcune occorrenze particolari di wo, che altrimenti sarebbero difficili da spiegare. E

sarebbe a maggior ragione convincente se fosse vero che, come ritengono Bickel e

Nichols (§4.1.1), l'allineamento attivo-stativo sia presente in tutte le lingue in gradi

diversi: la presenza di wo a marcare il paziente P di verbi monovalenti inattivi VP

sarebbe quindi interpretabile come una rara e atipica strategia di marcatura del paziente

all'interno di un allineamento nominativo-accusativo. Ed ancor più utile potrebbe essere

tentare di applicare all'interpretazione di Vovin la recente teoria del differential object

marking in giapponese antico, in cui la presenza di wo si spiegherebbe sulla base della

specificità dell'oggetto. L'oggetto verrebbe marcato con wo solo se specifico, così come

346 I testi di riferimento di questi esempi sono: Man'yoshu maki 1, n. 21; Kojiki 2, 45 e 78. L'unicaeccezione a questo sarebbe il quinto esempio di Vovin: puru yuki wo koshi ni nadumite 'la neve checadeva si attaccò ai (miei) fianchi' (Man'yoshu, maki 19, n. 4230). In questa frase il sostantivo nonappare altamente identificabile: non è umano né animato, è un sostantivo non numerabile (Hopper eThompson chiamano questo fattore count/mass, 'neve' è mass), è un nome comune. Ma sembra esserespecifico (§4.2): un sostantivo è specifico se il referente connesso con un altro referenteprecedentemente stabilito (o è stato esso stesso già stabilito) ed è identificabile nella mente delparlante. Il sotantivo 'neve' sembra essere ben identificabile nella mente del parlante.

175

Page 177: Origine e funzioni della particella giapponese wo

il paziente di un verbo monovalente inattivo, se codificato in modo atipico in rari

costrutti ad allineamento attivo-stativo (come la costruzione in -mi), potrebbe essere

marcato con wo sulla base dello stesso criterio della specificità.

4.2 L'alternanza wo-ø e il differential object marking (DOM)

Come si è tentato di dimostrare nel Cap. 3, la particella wo aveva già una forte

connessione con l'oggetto diretto sin dalle prime attestazioni scritte del giapponese.

Eppure, come già è stato detto più volte, l'espressione della particella wo, benché

frequente, non era affatto obbligatoria e l'oggetto veniva altrettanto frequentemente

marcato da ø: per questo motivo è difficile poter definire la funzione di wo una funzione

nettamente morfologica, in quanto se così fosse la sua espressione sarebbe obbligatoria.

Chiaramente molti studiosi hanno tentato di dare una ratio all'alternanza wo-ø,

attribuendo a questo fenomeno cause morfosintattiche o pragmatiche: da un lato

Miyagawa (1989; 2011; 2012) che ha cercato di dimostrare che l'alternanza

dipenderebbe dalla forma del verbo, dall'altro lato Motohashi (1989), Wrona&Frellesvig

(2009), Whitman&Yanagida (2009) e Frellesvig, Horn&Yanagida (2013), secondo cui

la distribuzione di wo dipenderebbe da fattori pragmatici come la definitezza, la

specificità, la referenzialità.

Si noti che questo è un problema connesso in parte alla questione dell'allineamento

morfosintattico del giapponese antico (§4.1). Gli autori che hanno studiato

l'allineamento del giapponese antico hanno tutti attribuito a wo una funzione

morfologica o pragmatica e non solo interiezionale – come invece facevano Matsuo,

Oyama e gli studiosi che hanno seguito le loro ricerche (Cap. 3) – e molti di loro si sono

chiaramente interrogati sul perché wo alternasse così frequentemente con ø. È utile però

sottolineare che nessuno studioso ha attribuito questa alternanza a un problema legato

all'allineamento: la particella wo viene intesa come marca del caso accusativo o come

particella che non esprima affatto un caso, e in entrambe le ipotesi alternerebbe con ø

per motivi non legati all'allineamento (identificazione dell'oggetto, referenzialità,

specificità). Anche Miyagawa, che come si vedrà ritiene che la distribuzione di wo sia

dovuta alla presenza di una forma verbale piuttosto che di un'altra, ritiene che wo sia

176

Page 178: Origine e funzioni della particella giapponese wo

effettivamente una marca di caso accusativo al pari di ø: semplicemente, alcune forme

verbali (la forma di fine frase ad esempio) richiederebbero ø come marca

dell'accusativo, altre (come la forma attributiva) richiederebbero la marca

dell'accusativo wo. Ciò che è opportuno mettere in evidenza quindi è che l'allineamento

non cambia in base alla presenza di wo o di ø in nessuna delle teorie che sono state

analizzate. Abbiamo esaminato la teoria di autori che ritengono che la marca di default

dell'oggetto sia ø e wo venga assegnato su base pragmatica come Yanagida&Whitman

(2012), autori che pensano che wo sia la marca di default e che ø sia un mero fenomeno

di “case drop” favorito dall'adiacenza dell'oggetto al verbo e da fattori pragmatici come

Wrona&Frellesvig (2009), autori che credono che wo alterni con ø in base alla forma

del verbo come Miyagawa, ma nessuno di questi studiosi attribuisce al giapponese

antico un determinato allineamento morfosintattico piuttosto che un altro sulla base

dell'alternanza wo-ø.

Inoltre, come nel caso di Matsuo e Oyama (Cap. 3), anche nello studio

dell'alternanza wo-ø si pone il problema del periodo storico in cui furono scritte le fonti

che ogni studioso sceglie di trattare. Miyagawa ad esempio, pur prendendo alcuni

esempi dal Man'yoshu, studia anche opere di epoca Heian, come Tosa Nikki (935 d.C.),

Murasaki Shikibu Nikki (primi anni dell'XI secolo) e Izumi Shikibu Nikki (primi anni del

XI secolo)347, in cui trova un riscontro della sua teoria. Frellesvig, Yanagida e molti altri

studiosi invece si concentrano su testi del periodo Nara, come i senmyō e le preghiere

(norito), oltre che chiaramente lo stesso Man'yoshu, ma la loro teoria non sembra essere

applicabile ai testi di epoca Heian. E questo – come si vedrà – probabilmente ha influito

sulle conclusioni che gli studiosi hanno proposto.

4.2.1 La ragione morfosintattica dell'alternanza wo-ø

Miyagawa (1989)348 fu uno dei primi studiosi ad attribuire all'alternanza wo-ø

una ragione morfosintattica, mentre in precedenza le motivazioni di questo fenomeno

347 Il Murasaki Shikubu Nikki e l'Izumi Shikibu Nikki sono diari che narrano avvenimenti nella corte nelperiodo Heian.

348 La teoria di Miyagawa è stata influenzata dalle ricerche di Setsuko Matsunaga, con cui ha collaboratoe che prima di lui aveva studiato la distribuzione delle particelle giapponesi. I testi di riferimento sonoMiyagawa (1989), Miyagawa&Ekida (2003), Miyagawa (2012).

177

Page 179: Origine e funzioni della particella giapponese wo

erano state attribuite a un valore meramente interiezionale di wo, che quindi poteva

liberamente alternare con ø e aggiungeva soltanto un'enfasi sull'elemento precedente.

Miyagawa teorizzò che la distribuzione di wo fosse ampiamente prevedibile e

dipendesse dalla forma del verbo: la forma di fine frase del verbo (SS) richiederebbe

che l'oggetto non venga marcato (possibilità che Miyagawa chiama abstract case), la

forma attributiva del verbo (RT) richiederebbe invece la presenza di wo (detto

morphological case). Quelli che Miyagawa chiama abstract case e morphological case

sembrano quindi essere in distribuzione complementare: wo sarebbe presente con il

verbo flesso in forma attribuitiva, non sarebbe presente con il verbo in forma di fine

frase.

Chiaramente questo non implica che wo occorra solo nelle frasi subordinate (in cui

la forma attributiva è molto comune) e mai in frase principale (che tende ad avere il

verbo in forma di fine frase): il verbo coniugato in forma di fine frase appare ad

esempio preceduto dalla particella to nel discorso indiretto e nelle subordinate oggettive,

e allo stesso modo la forma attribuitva compare molto frequentemente in una frase

principale caratterizzata dal fenomeno del kakari-musubi349. Si vedano ad esempio le

seguenti frasi:

この 人 歌 よまん と おもふ

kono pito uta yoma-n to omopu

questa persona poesia ø comporre.MZ-CONG.SS QUOT pensare.SS

'questa persona pensò di voler comporre poesie' (Tosa Nikki 土佐日記 1.7);

我ひとりや は 尊き しるし を 承らむ

ware pitori ya pa taputoki shirushi wo uketamapara-mu

io da solo-ENF TOP prezioso.RT dimostrazione- OGG accettare.MZ-CONG.RT

'io da solo accetterei questa preziosa dimostrazione?' (Senmyō 宣命 13,5).

349 Miyagawa (2012: 225). Il fenomeno del kakari-musubi prevede che, in presenza di alcune particellepragmatiche come ka, ya, namo, koso, zo, la forma del verbo nella frase principale non sia la SS, mauna forma come quella perfettiva (in presenza di koso), o la attributiva (con le altre particelle). Sulleparticelle pragmatiche e la costruzione del kakari-musubi si veda §1.1.5. Gli esempi seguenti sonopresi da Miyagawa&Ekida (2003: 7).

178

Page 180: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Nel primo esempio il verbo yaman 'voler comporre' è in forma conclusiva e precede

la particella to che introduce una subordinata oggettiva, e l'oggetto uta 'poesia' non è

marcato da wo; viceversa nel secondo esempio, benché uketamaparamu 'voler accettare'

sia il verbo della frase principale, si trova in forma attributiva a causa della presenza

della particella ya (regola del kakari-musubi), e l'oggetto shirushi 'dimostrazione,

segnale' è marcato da wo.

Oltre alla forma attributiva, anche la forma perfettiva (IZ), utilizzata in genere in

frasi subordinate, può partecipare al kakari-musubi in presenza della particella koso, e

richiederebbe secondo Miyagawa l'espressione di wo a marcare l'oggetto. Con la forma

sospensiva (RY) invece può occorrere sia ø sia wo: la scelta dipende dalla flessione del

verbo reggente, se è una forma di fine frase (SS) si utilizzerebbe ø, altrimenti (RT, IZ) si

marcherebbe espressamente l'oggetto con wo350.

Si trovano numerosissimi controesempi alla teoria proposta da Miyagawa, e

quindi è forse meglio identificare la distribuzione da lui studiata come una tendenza

generale piuttosto che come una regola fissa, come invece sembra intenderla l'autore.

Lo stesso Miyagawa nota molte occorrenze di wo in frasi in cui, secondo la sua ipotesi,

non avrebbe dovuto essere presente (e viceversa, ø in frasi in cui si sarebbe aspettato la

presenza di wo) e tenta di dare una ratio in alcuni casi alla immensa mole di eccezioni

che si riscontrano351. Possiamo citare alcuni esempi. Un primo esempio è la presenza del

verbo su 'fare', che a prescindere dalla forma del verbo in cui è flesso richiederebbe il

caso astratto: l'autore spiega questo fatto affermando che su in genere incorporerebbe

l'oggetto, che quindi non dovrebbe essere marcato. Un secondo esempio sono i

composti formati da oggetto e verbo, in cui wo non sarebbe mai presente: questo si

spiegherebbe proprio a causa della natura del costrutto, un composto. Diversamente, un

suffisso molto diffuso come -tari tenderebbe a selezionare il caso morfologico anche

quando compare in forma di fine frase, e l'autore si limita a segnalare questa eccezione

senza tentare di spiegarne il motivo. Un'ulteriore eccezione sono i composti verbali, il

cui oggetto, nota Miyagawa, compare spesso marcato da wo benché il composto verbale

sia flesso in SS: anche in questo caso l'autore non spiega il motivo. Molte occorrenze di

wo in presenza della forma di fine frase sono inoltre spiegate da Miyagawa sulla base di

350 Miyagawa (2012: 255).351 Miyagawa&Ekida (2003: 28-9)

179

Page 181: Origine e funzioni della particella giapponese wo

un elemento molto arbitrario come l'enfasi, ad esempio la frase seguente352:

この 人を 見ん

kono hito wo mi-n

questa persona-OGG vedere.MZ-CONG.SS

'intende vedere questa persona' (Izumi Shikibu Nikki 和泉式部日記 444, 5).

Non potendo giustificare in altro modo la presenza di wo in concomitanza con la

forma del verbo di fine frase, l'autore conclude che in questa frase wo esprimerebbe

enfasi e dovrebbe essere considerata una particella interiezionale e non una particella

che esprima l'oggetto. Questa sembra una interpretazione arbitraria e soggettiva, e che

potrebbe essere utilizzata per qualsivoglia controesempio: procedendo su questa strada

si arriverebbe alla teorizzazione di Matsuo (§3.1) secondo cui tutte le occorrenze di wo

dovrebbero essere intese come interiezionali in quanto ancora la particella non avrebbe

avuto funzione grammaticale. Sembra quindi una spiegazione insoddisfacente, anche a

causa del fatto che non è chiaro sulla base di cosa l'autore preferisca intendere una

determinata occorrenza come enfatica o meno.

Un fatto molto interessante invece è che Miyagawa tenta di spiegare sulla base

della sua teoria il motivo per cui, a partire dell'epoca Heian, il marcare l'oggetto con wo

divenne sempre più diffuso: l'autore attribuisce questo sviluppo al merger tra forma di

fine frase (SS) e forma attributiva (RT)353. Come già visto (§3.3), a cavallo fra la fine del

periodo Heian e l'inizio del periodo Kamakura, la RT e la SS confluirono nella RT, che

quindi venne sempre più utilizzata anche in contesti in cui la forma verbale richiesta

sarebbe stata la SS. Dato che, nella teoria di Miyagawa, la RT reggerebbe

necessariamente wo mentre la SS richiederebbe ø, la confluenza di RT e SS nella RT

comporterebbe anche una diffusione della marcatura dell'oggetto con wo. È utile

sottolineare però che Miyagawa non sembra scartare completamente la teoria di Matsuo

(§3.1), secondo la quale l'aumento di frequenza delle occorrenze di wo sarebbe dovuto

all'influsso della pratica del kanbun-kundoku, ma afferma che questa pratica non

avrebbe potuto influire in modo così massiccio sulla lingua dell'epoca: il mutamento

352 L'esempio è ripreso da Miyagawa&Ekida (2003: 32).353 Miyagawa&Ekida (2003: 10-11); Miyagawa (2012: 261).

180

Page 182: Origine e funzioni della particella giapponese wo

deve aver avuto cause interne, che Miyagawa riconosce nel merger fra forma di fine

frase e forma attributiva in quest'ultima354.

Un secondo elemento molto particolare da notare è che lo studio di Miyagawa è

portato avanti su testi di periodi differenti in cui l'autore ritiene di riscontrare la stessa

distribuizone dell'alternanza wo-ø: in Miyagawa (1989) viene studiato principalmente il

corpus del Man'yoshu, in Miyagawa&Ekida (2003) i due autori propongono ulteriori

conferme della teoria in testi di epoca Heian come il Murasaki Shikibu Nikki, e

addirittura in Miyagawa (2012) l'autore porta esempi riguardo la distribuzione di wo

presi dallo Heike Monogatari355. L'autore prende quindi in considerazione testi scritti a

distanza di moltissimi anni l'uno dall'altro.

La teoria di Miyagawa non è affatto condivisa e viene criticata da moltissimi

studiosi, principalmente in relazione all'antico giapponese. Motohashi da un lato e

Wrona e Frellesvig dall'altro lato concentrano la loro attenzione sui testi di epoca Nara,

il primo sul Man'yoshu, i secondi sui senmyō e sulle preghiere (norito)356. In entrambi

gli studi, gli autori notano che la distribuzione di wo non è così nettamente connessa con

la forma attribuitva del verbo come ritiene Miyagawa. Motohashi riporta che nel

Man'yoshu, ad esempio, la particella wo in funzione di marca dell'oggetto occorre 1526

volte e di queste 102 volte con un verbo in forma di fine frase (SS) e ugualmente 102

volte con un verbo in forma attributiva (RT): viceversa, le occorrenze di ø in

connessione con una forma attributiva (RT) sono circa 50, ma non riporta il numero

delle occorrenze di ø in presenza di una forma di fine frase (SS). La presenza della

particella non sembra quindi affatto condizionata dalla forma del verbo reggente, come

vorrebbe Miyagawa, e infatti in connessione con le due forme del verbo su cui lo studio

di Miyagawa si basa maggiormente (SS e RT) wo occorre con la stessa identica

frequenza (102 volte ciascuna). Wrona e Frellesvig invece propongono un rigorosissimo

studio dei senmyō e dei norito, e anche loro notano che la presenza di wo non è

necessariamente legata da una forma verbale in particolare. Nei senmyō, ad esempio,

wo occorre 74 volte in presenza di una forma attributiva (RT), 77 volte in presenza di

354 Miyagawa (2012: 233).355 Miyagawa (2012: 235-51), lo Heike Monogatari risale al 1300.356 Si vedano Motohashi (1989: 59-61) e Wrona&Frellesvig (2009: 576). Le statistiche a cui si fa

riferimento sono ripresi da questi due testi.

181

Page 183: Origine e funzioni della particella giapponese wo

una forma di fine frase (SS); 62 sono le occorrenze di ø con una forma attributiva, 57

con una forma di fine frase. Lo schema di Wrona e Frellesvig è il seguente357:

senmyō: ø wo norito: ø wo

RT 62 74 RT 28 30

SS 57 77 SS 7 17

In Motohashi (1989) e Wrona&Frellesvig (2009) si conclude quindi che la

distribuzione della particella wo non sarebbe dovuta alla forma del verbo: la presenza di

questa particella non sarebbe strutturalmente limitata ad alcuni contesti e allo stesso

modo ø non sarebbe obbligatoria in altri contesti. L'alternanza dovrebbe quindi

dipendere da un fattore differente, che in entrambi gli studi viene identificato in un

fattore pragmatico come la referenzialità e la definitezza dell'oggetto (§4.2.2).

4.2.2 La ragione pragmatica dell'alternanza wo-ø: il DOM

Per differential argument marking ('marcatura differenziale degli argomenti') si

intende un fenomeno in cui un determinato argomento viene marcato espressamente o

meno sulla base di proprietà semantiche o pragmatiche come animatezza, definitezza,

specificità. Si tratta quindi di marcare espressamente o meno il sostantivo che funge da

soggetto, oggetto o oggetto indiretto: si distinguono infatti differential subject marking

(DSM), differential object marking (DOM, che qui interessa) e differential indirect

object marking (DIOM), che è stato oggetto di studio solo negli ultimi anni358. Lo stesso

fenomeno viene anche identificato con il nome di differential case marking, e infatti

Malchukov afferma che la marcatura differenziale “involves an alternation of an overt

357 I due autori riportano tutte le occorrenze di wo anche in connessione con forme imperative,perfettive, infinitive del verbo, ma per semplicità qui si riportano soltanto le statistiche riguardandi laforma attributiva e forma di fine frase.

358 Su quest'ultimo si veda l'articolo di Kittilä (2011), che lo definisce DRM, differential recipient marking, ma scrive espressamente di riferirsi all'oggetto indiretto come relazione grammaticale e non al ruolo semantico del ricevente. Alcuni autori però preferiscono, forse più correttamente, utilizzare la dicitura relativa ai ruoli semantici, identificando ad esempio il DOM come DPM (differential patient marking), ma riferendosi comunque alla marcatura del paziente P con verbi bivalenti VAP e non con verbi monovalenti VP. Come è già stato visto più volte, relazioni grammaticali come il soggetto non possono essere riconosciute di default all'interno di tutte le lingue del mondo (il soggetto è l'elemento che ha l'accordo con il verbo, se non vi è accordo, il soggetto non è identificabile), quindi probabilmente definire la marcatura differenziale in termini di ruolo semantico è più corretto, ma la tradizione degli studi (che risale a Bossong) utilizza le diciture DSM, DOM e DIOM, che si è deciso qui di mantenere.

182

Page 184: Origine e funzioni della particella giapponese wo

case with the absence of a case marker”359. Come nello studio degli allineamenti

morfosintattici (§4.1.1), però, l'utilizzo non sempre corretto del termine “caso” non deve

fuorviare, in quanto la marcatura differenziale può essere effettuata tramite un suffisso

di caso (§2.1), ma anche tramite un morfema più libero come una particella preposta e

postposta, come avviene in giapponese.

Il criterio sulla base di cui si marca o meno il sostantivo è connesso generalmente al

fatto che le sue caratteristiche non corrispondano a quelle che normalmente

caratterizzano la categoria a cui appartiene. Secondo Aissen esisterebbe una

associazione a livello prototipico ben precisa fra relazioni grammaticali e tratti come

animatezza o definitezza, ovvero i tratti su cui si basa la marcatura differenziale360: il

soggetto sarebbe prototipicamente alto nella scala di animatezza e definitezza, mentre

l'oggetto sarebbe prototipicamente basso e sarebbe quindi caratterizzato da inanimatezza

e indefinitezza. Le due scale di animatezza e definitezza sono dette prominence scales e

sono le seguenti361:

L'oggetto prototipico sarebbe quindi inanimato, non specifico e indefinito (basso

nelle due scale), mentre il soggetto prototipico sarebbe umano, animato, specifico e

definito (alto nelle due scale). La marcatura differenziale si attuerebbe quando il

referente ha proprietà differenti rispetto al quelle prototipiche della categoria a cui il

sostantivo appartiene, e quindi correrebbe maggiormente il rischio di essere confuso con

359 Malchukov (2008: 204).360 Aissen (2003: 437-9).361 Le due scale sono riprese da Aissen (2003: 436-7). La scala di animatezza che qui si riporta è la

versione di Aissen, che sembra semplificata a partire da quella di Silverstein (§4.1.1).

183

Fig. 15: Scala di animatezza di Aissen

Fig. 16: Scala di definitezza/specificità di Aissen

Page 185: Origine e funzioni della particella giapponese wo

un diverso argomento. Dato che il tipo di marcatura differenziale che interessa

maggiormente in questo contesto è il DOM, prendiamo ad esempio l'oggetto: se esso ha

proprietà semantico-pragmatiche tipiche del soggetto (quindi è animato, specifico e

definito), potrebbe con più probabilità essere sottoposto a marcatura esplicita proprio

per differenziarlo dal soggetto362, se invece presenta proprietà tipiche della sua categoria

(inanimato, indefinito) la marcatura esplicita sarebbe meno probabile.

La marcatura differenziale è spesso basata su una sola di queste proprietà, sia essa

l'animatezza o la definitezza/specificità: ad esempio, in malayalam si marcano solo gli

oggetti animati, in turco soltanto gli oggetti specifici, in ebraico solo quelli definiti.

Avviene in molte lingue, però, che la marcatura differenziale sia connessa a entrambe le

proprietà: ad esempio in romeno l'oggetto viene marcato se animato e specifico, mentre

in hindi si marcano sempre gli oggetti animati (sia definiti che indefiniti), mentre gli

inanimati solo se definiti (ma la marcatura degli oggetti inanimati non è comunque

obbligatoria)363. Nei sistemi in cui entrambe le proprietà vengono utilizzate come criteri

per la marcatura differenziale, tali proprietà non hanno la stessa importanza ed è in

genere l'animatezza ad avere la priorità sulla definitezza e ad essere il tratto che ha

maggior influenza: secondo de Swart e de Hoop questo sarebbe dovuto al fatto che

l'animatezza sarebbe considerata una proprietà intrinseca del sostantivo, che non

potrebbe essere modificata, mentre la definitezza/specificità sarebbe una proprietà

esterna, contingente e connessa alla sfera pragmatica364.

La marcatura differenziale dell'oggetto, in conclusione, si applica ad un oggetto

semanticamente atipico (animato) e/o informazionalmente atipico (definito o specifico)

e permette di distinguere tale oggetto dal soggetto della frase, a cui prototipicamente

appartengono queste caratteristiche.

Benché il temine differential object marking risalga agli studi di Bossong nei

362 Dalrymple&Nikolaeva (2011: 3). Come già accennato (§4.1.3), questo criterio viene generalmenterispettato nella marcatura differenziale dell'oggetto, mentre nella marcatura differenziale del soggettospesso questo non avviene Se l'oggetto è marcato nel caso sia animato, il soggetto in teoria dovrebbeessere marcato nel caso non sia animato: in molte lingue accade, invece, che il soggetto sia marcatosolo se alto nella scala di animatezza. Si veda Malchukov (2008: 206-11).

363 Questi sistemi sono chiamati da Aissen “two-dimentional DOM”. Si veda Aissen (2003) pernumerosi esempi e schemi esplicativi. Su malayalam e hindi si veda de Swart&de Hoop (2007: 599-600; 602-4), sul turco l'articolo Enç (1991).

364 de Swart&de Hoop (2007: 606-7).

184

Page 186: Origine e funzioni della particella giapponese wo

primi anni '80365, il fenomeno della marcatura differenziale è stato studiato con molta

attenzione solo negli ultimi anni: infatti i primi studi sull'argomento riguardo il

giapponese antico non poterono prendere in considerazione la teorizzazione di Aissen e

le ricerche successive.

Come è stato accennato, una delle prime ricerche che attribuì all'alternanza wo-ø in

giapponese antico (epoca Nara) una ragione non connessa alla teoria interiezionale

(Cap. 3) né ad un fattore morfosintattico (§4.2.1) venne svolta da Motohashi, che si basò

sui parametri di Hopper e Thompson366. Hopper e Thompson furono due degli studiosi

che per primi proposero un approccio differente al concetto di transitività,

interpretandola come una nozione composta da diversi fattori e quindi una scala dotata

di diversi gradi. Chiaramente tanti più fattori sono presenti, tanto più la frase è intesa dai

due autori come transitiva. I fattori sono connessi ad esempio con il numero dei

partecipanti, l'aspetto (perfettivo o imperfettivo), la puntualità e la volontarietà

dell'azione, l'opposizione tra frase affermativa e negativa, tra evento realmente accaduto

o meno (realtà e irrealtà), il coinvolgimento dell'oggetto e l'identificazione dell'oggetto.

Secondo Motohashi, la distribuzione della particella wo dipenderebbe dalla presenza di

questi tratti: l'oggetto sarebbe espressamente marcato da wo a patto che siano presenti

questi fattori, altrimenti si preferirebbe non marcare affatto il sostantivo. Ad esempio:

心 しらずて 心 を しる 人

kokoro shira-zu-te kokoro wo shiru hito

cuore ø conoscere.MZ-NEG.RY-GER cuore-OGG conoscere.RT persona

'non conoscendo i sentimenti' 'persona che conosce i sentimenti'

(Man'yōshū 万葉集, maki 14, n. 3566); (Man'yōshū 万葉集, maki 2, n. 99);

都 見ば 都 を 見れば

miyako mi-ba miyako wo mireba

capitale ø guardare.MZ-COND capitale-OGG guardare.IZ-TEMP

'se guardo la capitale' 'quando guardo la capitale'

(Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 848); (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 32).

365 Si veda ad esempio Bossong (1983).366 Motohashi (1989: 79-84). Si veda anche Hopper&Thompson (1980).

185

Page 187: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Si veda la prima coppia di esempi: la prima frase è negativa e secondo Motohashi

sarebbe per questo motivo che wo non è presente a marcare l'oggetto kokoro 'cuore,

sentimenti', nella seconda frase questa particella invece viene espressa e questo sarebbe

dovuto al fatto che la frase è affermativa. Motohashi spiega nello stesso modo la

seconda coppia di frasi: la prima non presenta wo e questo sarebbe connesso con il fatto

che il verbo si trova in forma imperfettiva (MZ) e regge il suffisso -ba, che esprime in

questo caso il condizionale, viceversa l'oggetto della seconda frase sarebbe marcato da

wo in quanto il verbo si trova in forma perfettiva (IZ) e regge lo stesso suffisso -ba, che

in questa frase esprime una temporale367. Motohashi quindi connette la prima coppia di

esempi al tratto affermativo/negativo, la seconda al tratto realtà/irrealtà di Hopper e

Thompson368.

Uno dei fattori più importanti dello studio di Hopper e Thompson è l'identificazione

dell'oggetto. Questo parametro è connesso con una serie di proprietà che permettono di

definire se un oggetto sia altamente identificabile o meno, e sono le seguenti:

Oggetto: Identificabile Non identificabile

nome proprio nome comune

umano, animato inanimato

concreto astratto

singolare plurale

numerabile (count) non numerabile (mass)

referenziale, definito non referenziale

Anche queste proprietà sono prese in considerazione da Motohashi nel suo studio

sulla distribuzione di wo: anche in questo caso la particella wo sarebbe presente nel caso

in cui dovesse marcare un oggetto altamente identificabile, mentre si preferirebbe non

marcare espressamente l'oggetto se esso non fosse altamente identificabile. Si vedano le

367 Come già accennato più volte, il suffisso -ba ha due funzioni: esprime una subordinata condizionalese segue una forma MZ del verbo (forma imperfettiva), mentre esprime una temporale o causale sesegue una forma IZ (perfettiva).

368 Un controesempio alla teoria di Motohashi è già stato visto nell'Introduzione ai Cap. 3 e 4. NelMan'yoshu si trova una frase come 都見れば miyako mireba 'quando guardo la capitale', frase quindisimile all'esempio di Motohashi (miyako wo mireba), in cui non è presente wo a marcare l'oggettomiyako 'capitale'. Eppure le condizioni di Hopper e Thompson sono soddisfatte in questa frase cosìcome lo sono nell'esempio di Motohashi. Questo è solo uno dei tanti controesempi che si trovano neitesti e che lasciano quindi pensare che la teoria dell'autore non permetta di dare una ratio a tutte leoccorrenze di wo (si veda anche §5.1).

186

Page 188: Origine e funzioni della particella giapponese wo

seguenti frasi:

一本 のなでしこ 植ゑし

pito-moto no nadeshiko uwe-shi

uno-CLASS-ATTR garofano ø piantare.RY-PASS.RT

'ho piantato un garofano' (Man'yōshū 万葉集, maki 18, n. 4070);

谷辺に 生ふる 山吹を

tani-be ni opuru yamabuki wo

valle-dintorni-LOC crescere.RT yamabuki369-OGG

宿に 引き植ゑて

yado ni piki-uwe-te

giardino-LOC portare.RY-piantare.RY-GER

'ho portato e piantato nel giardino uno yamabuki che cresceva nei dintorni della

vallata' (Man'yōshū 万葉集, maki 19, n. 4185).

Motohashi spiega che nel primo esempio wo non sarebbe presente in quanto il

sostantivo che avrebbe dovuto marcare (nadeshiko 'garofano') è inanimato, mentre nella

seconda frase, l'oggetto yamabuki, benché inanimato, potrebbe essere inteso come

definito in quanto è specificato da una relativa: al contrario di nadeshiko 'garofano',

yamabuki sarebbe altamente individuabile e quindi regolarmente marcato da wo.

Alcune proprietà legate al parametro dell'identificazione dell'oggetto (come

animato/inanimato e referenziale/non referenziale) vengono prese in considerazione

anche nello studio più recente del differential object marking, che – come visto – viene

connesso a tre parametri fondamentali ovvero animatezza, definitezza e specificità370. La

differenza tra le ricerce sul DOM e lo studio di Hopper e Thompson sembrerebbe

risiedere nel fatto che, secondo questi due ultimi studiosi, i diversi parametri che

definiscono la transitività sarebbero correlati fra loro: ad esempio, secondo Hopper e

Thompson, l'espressione della marca dell'oggetto in turco, che viene connessa nei

diversi studi al parametro della specificità, dipenderebbe anche dal parametro

369 Yamabuki è il nome giapponese della pianta chiamata in italiano rosa del Giappone.370 Malchukov&de Swart (2009: 345).

187

Page 189: Origine e funzioni della particella giapponese wo

dell'aspetto, in quanto gli oggetti individuabili sarebbero sempre connessi con l'aspetto

perfettivo e gli oggetti non individuabili con l'aspetto imperfettivo371. Nello studio del

differential object marking, invece, la marcatura dell'oggetto si basa soltanto su

parametri semantici (animatezza) e pragmatici (definitezza e specificità), che non

sembrano essere necessariamente connessi con ulteriori diversi fattori.

Il fattore a cui si attribuiscono, nei più recenti studi sul giapponese antico, le ragioni

dell'alternanza wo-ø è infatti proprio il fattore pragmatico della specificità. Il parametro

della specificità non è semplice da chiarire, e molti studiosi hanno tentato di darne una

definizione univoca372 anche a causa del fatto che su questo fattore si basa la marcatura

differenziale dell'oggetto in molte lingue più note e più studiate rispetto al giapponese

antico, come ad esempio lo spagnolo373. L'elemento che contraddistingue il fattore della

specificità, su cui sembra esservi un generale accordo fra gli studiosi, è il fatto che il

referente debba essere “ancorato pragmaticamente” ad un'altra entità identificabile per il

parlante374. Questa interpretazione della nozione di specificità è basata sull'idea di

discourse linking (D-linking): la specificità comporta una connessione con un referente

precedentemente stabilito, un nesso quindi fra il referente dell'espressione specifica e un

referente già noto o di cui si è già parlato. Tale connessione permette che il referente

dell'espressione specifica sia facilmente identificabile per il parlante: infatti la

specificità è anche spesso identificata con il fatto che “the speaker can identify the

referent” oppure “the certainty of the speaker about the identity of the referent”375.

La nozione di specificità è strettamente collegata a quella di definitezza, eppure i due

371 Hopper&Thompson (1980: 275-6). Sul parametro della specificità nel differential object marking inturco si veda Enç (1991).

372 Per una panoramica delle diverse definizioni proposte dagli studiosi si veda von Heusinger (2002:245-7). Una delle più curiose spiegazioni del concetto di specificità che l'autore segnala è la seguente:un costituente si definisce specifico quando può essere parafrasato con l'espressione “a certain”. Unadefinizione come questa può forse essere accettabile per spiegare l'idea di specificità in inglese masicuramente non può essere riconosciuta come valida per tutte le lingue.

373 Aissen (2003: 462-4). Il DOM in spagnolo si manifesta con la preposizione a, preposta agli oggettispecifici, mentre gli oggetti non specifici non vengono marcati: in realtà secondo recenti studi il DOMin spagnolo dipenderebbe anche da fattori come l'animatezza, si veda García García (2005: 22-8); perun ampio studio sull'argomento si veda Leonetti (2004).

374 Dalrymple&Nikolaeva (2011: 53-54). Si veda anche Leonetti (2004: 78-9) che parla di un costituente“referentially anchored to another object in the discourse”, e la stessa definizione è utilizzata anche davon Heusinger (2002) in tutto il suo articolo. Sulla definizione di specificità intesa come D-linking èbasata anche la ricerca di Frellesvig, Horn e Yanagida sul giapponese antico, quindi è utilesottolinearla.

375 Queste sono alcune delle definizioni proposte da von Heusinger (2002: 245-6).

188

Page 190: Origine e funzioni della particella giapponese wo

concetti sono differenti. Innanzitutto si distinguono espressioni definite ed espressioni

indefinite. Tutte le espressioni indefinite devono avere come referente un elemento

nuovo, mai introdotto nel discorso, al contrario tutte le espressioni definite devono avere

referenti precedentemente introdotti nel discorso (una connessione forte)376: in altre

parole, gli indefiniti non possono avere antecedenti nel discorso, i definiti devono

necessariamente averli. Come è già stato visto, invece, un'espressione specifica deve

avere un referente che sia connesso ad un altro referente già stabilito: si tratta quindi di

una connessione più debole, ma chiaramente l'espressione è considerata specifica anche

in presenza di una connessione più forte (nelle espressioni definite). Ne consegue che

tutti i sostantivi definiti sono necessariamente interpretabili anche come specifici,

mentre i sostantivi indefiniti possono essere specifici o meno: il referente di una

espressione indefinita specifica deve essere nuovo, ma connesso ad un referente

precedentemente stabilito, il referente di una espressione indefinita e non specifica deve

invece essere completamente scollegato da referenti già noti. La differenza fra

espressioni indefinite specifiche e definite (necessariamente specifiche) sta quindi nella

connessione con referenti già stabiliti: i sostantivi definiti devono avere una identity

relation con il referente già noto (devono quindi avere lo stesso identico referente), i

sostantivi indefiniti specifici hanno una inclusion relation con il referente già noto

(devono essere soltanto connessi, anche in modo più debole, con questo referente). Le

espressioni indefinite e non specifiche, viceversa, non devono avere alcuna connessione

con referenti già noti.

376 Enç (1991: 7-8). La spiegazione che segue è ripresa da questo testo.

189

Fig. 17: Differenza tra oggetti definiti, indefiniti specificie indefiniti non specifici

Page 191: Origine e funzioni della particella giapponese wo

È utile sottolineare ancora, quindi, che tutti i sostantivi definiti sono specifici, mentre

ai sostantivi indefiniti si può dare una interpretazione specifica o meno, in base al

contesto. Nomi personali e pronomi, ad esempio, sono definiti e dunque anche specifici,

mentre un costituente indefinito come “un ragazzo” può essere specifico o meno in base

al fatto che il suo referente abbia o meno una connessione con un altro referente

stabilito e quindi sia o meno identificabile. Nelle lingue che utilizzano la marcatura

differenziale dell'oggetto basata sul parametro della specificità, il morfema che marca

l'oggetto permette una interpretazione specifica del costituente e segnala

l'individuabilità di un referente, che sia già stato citato (identity relation) o che sia

pragmaticamente connesso con un altro referente già nominato (inclusion relation).

Solo recentemente gli studiosi hanno identificato criteri pragmatici per dare una

ratio all'alternanza wo-ø nel periodo Nara. Come si è accennato (§4.1.3), un primo

tentativo è stato fatto da Wrona e Frellesvig377, secondo i quali alcuni dei fattori che

influenzerebbero la presenza o l'assenza di wo sarebbero la definitezza e referenzialità

dell'oggetto, in quanto oggetti definiti e referenziali tenderebbero ad essere marcati da

wo. In altri studi è stato identificato il parametro della specificità come criterio che

determinerebbe l'alternanza wo-ø, e i primi autori che hanno proposto questa teoria sono

stati Yanagida e Whitman378: dato che un'espressione definita è necessariamente anche

specifica, lo studio di Yanagida e Whitman non contraddice la teoria di Frellesvig e

Wrona, ma piuttosto propone un parametro più ampio (la specificità), che includa anche

il primo (la definitezza). Una ricerca più approfondita sul differential object marking e il

criterio della specificità in giapponese antico è stata eseguita successivamente dagli

stessi Yanagida e Frellesvig, in collaborazione con Horn379, ed è opportuno soffermarsi

su questo studio che sembra riuscire a conciliare differenti teorie di diversi studiosi.

Innanzitutto gli autori notano che l'oggetto specifico verrebbe marcato da wo, mentre

l'oggetto non specifico tenderebbe a non essere marcato. Ad esempio, nella seguente

frase l'oggetto marcato da wo è interpretato dagli autori come specifico:

377 Wrona&Frellesvig (2009: 577-8). 378 Whitman&Yanagida (2009: 126).379 Sul recente studio di Frellesvig, Horn e Yanagida si veda la loro presentazione dell'agosto 2013 alla

Conferenza Internazionale di Linguistica Storica a Oslo, proposta di nuovo nell'aprile 2014 allaconferenza “The Diachronic Typology of Differential Argument Marking” presso l'Università diKonstanz. Ad oggi, i rispettivi volumi delle conferenze non sono ancora stati pubblicati. Si veda lapresentazione Frellesvig, Horn&Yanagida (2013).

190

Page 192: Origine e funzioni della particella giapponese wo

賜り たる 茅花を 食めど

tabari- taru tubana wo pame-do

ricevere.RY-PASS.RT tubana380-OGG mangiare.IZ-CONC

'nonostante abbia mangiato i fiori di tubana che ho ricevuto'

(Man'yōshū 万葉集, maki 8, n. 1462).

L'interpretazione specifica dell'oggetto tubana è probabilmente facilitata anche dal

fatto che questo sostantivo regge una relativa tabaritaru 'che ho ricevuto': uno dei

contesti che renderebbe specifico un costituente indefinito è proprio la relativizzazione,

in quanto la frase relativa indicherebbe che il parlante ha un particolare referente in

mente, cosa che nei costituenti non specifici non accade381.

Gli autori studiano le occorrenze della particella wo in connessione da un lato con i

classificatori numerali, dall'altro con i pronomi interrogativi. Per quanto riguarda i

classificatori numerali, gli studiosi notano che, se la loro teoria fosse corretta e la

particella wo venisse utilizzata per marcare gli oggetti specifici, questo permetterebbe di

interpretare i classificatori numerali sulla base del sostantivo a cui sono connessi: se il

sostantivo è specifico (quindi marcato) il classificatore avrebbe una interpretazione

partitiva o universale, ma se il sostantivo non è specifico l'unica possibile

interpretazione sarebbe una interpretazione cardinale. Gli autori propongono una

interessante coppia di esempi in cui è presente lo stesso sostantivo, lo stesso

classificatore e lo stesso verbo, ma l'interpretazione della frase dipende dalla presenza o

meno della particella wo:

上つ 瀬に 鵜を 八つ 潜け

kami tu se ni u wo ya-tu kaduke

sopra-ATTR rapida-LOC cormorano-OGG otto-CLASS far immergere.RY

下つ 瀬に 鵜を 八つ 潜け

shimo tu se ni u wo ya-tu kaduke

380 Tubana è il nome giapponese della specie di piante, Imperata cylindrica, comunemente chiamataJapanese bloodgrass.

381 Sulla funzione della relativa nella identificazione di un costituente specifico si vedaDalrymple&Nikolaeva (2011: 54).

191

Page 193: Origine e funzioni della particella giapponese wo

sotto-ATTR rapida-LOC cormorano-OGG otto-CLASS far immergere.RY

'far immergere tutti i miei otto cormorani nelle rapide superiori, far immergere tutti i

miei otto cormorani nelle rapide inferiori' (Man'yōshū 万葉集, maki 13, n. 3330);

鵜 八つ 潜けて 川瀬 尋ねむ

u ya-tu kaduke-te kapa-se tadune-mu

cormorani otto-CLASS far immergere.RY-GER fiume-rapida cercare.MZ-CONG.SS

'perlustreremo fiumi e rapide, facendo immergere i nostri tanti cormorani'

(Man'yōshū 万葉集, maki 19, n. 4158).

Un primo elemento da notare è che l'espressione 八つ ya-tu (otto-CLASS) ha un

duplice valore: spesso esprime il numero cardinale 'otto' seguito dal classificatore

generico tu, ma in alcuni casi sembra avere il significato molto più generico di 'molti'382.

Nella prima frase, l'oggetto u 'cormorano' ripetuto due volte è marcato da wo in

entrambi i casi, e questo permetterebbe, secondo gli autori, di assegnare al classificatore

una interpretazione universale ('tutti e otto i cormorani'); nel secondo esempio invece

l'oggetto non è marcato dalla particella in quanto non sarebbe specifico, e questo

permetterebbe soltanto una interpretazione più generica ('i nostri tanti cormorani').

L'interpretazione in questo secondo esempio non è cardinale, come affermato

precedentemente dagli studiosi, e chiaramente la differenza di interpretazione è

possibile nei due esempi riportati solo grazie al duplice valore che si attribuisce a ya-tu,

e può essere utile osservare ulteriori esempi. Nella seguente frase infatti, il valore che

viene attribuito al classificatore numerale è cardinale, a causa del fatto che l'oggetto

koromo 'veste' non è marcato da wo e quindi è inteso come non specifico:

衣 二重 着て

koromo puta-pe ki-te

veste ø due-CLASS vestire.RY-GER

'vestendo l'abito a due strati' (Nihonshoki 日本書紀, 49).

382 Si veda Vovin (2005: 360).

192

Page 194: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Il secondo elemento che gli studiosi approfondiscono è l'utilizzo di wo quando marca

i pronomi interrogativi. Come accennato precedentemente, alcuni costituenti sono

considerati definiti (e quindi specifici) per loro natura, ad esempio i pronomi personali o

i nomi di persona: infatti, i pronomi di prima e seconda persona wa/ware e na/nare sono

sempre marcati da wo. Allo stesso modo definiti sono anche i costituenti che indicano

entità che siano state precedentemente citate oppure che siano presenti al discorso.

Un'interpretazione indefinita è invece generalmente attribuita ai pronomi interrogativi,

come 何 nani 'cosa' o 誰 ta, tare 'chi': anche in questo caso, se il sintagma nominale in

cui è presente il pronome (sia che esso sia la testa del sintagma sia che abbia funzioni

differenti, ad esempio attributive) è marcato da wo allora viene interpretato come

specifico, altrimenti viene inteso come non specifico. Si vedano i due seguenti esempi

con il pronome ta:

誰を か 見む と 思ひつつ

ta wo ka mi-mu to omopi-tutu

chi-OGG INTER vedere.MZ-CONG.SS QUOT pensare.RY-GER

日長く 恋ひし 妹に 逢へる かも

ke-nagaku kopi-shi imo ni ape-ru kamo

giorno-lungo.RY desiderare.RY-PASS amata-OGIN incontrare.IZ-PERF.RT PART

'pensando “quale persona vedrò?”, incontro la mia amata che ho desiderato giorno

dopo giorno' (Man'yōshū 万葉集, maki 11, n. 2614b);

筑波嶺に 逢はむ と 言いし 子は 

tukupa-ne ni apa-mu to ipi-shi ko pa

tukupa-cima-LOC incontrarsi.MZ-CONG QUOT dire.RY-PASS.RT ragazza-TOP

誰が 言 聞けば か 

ta ga koto kike-ba ka

chi-ATTR parola ø ascoltare.IZ-CAUSAL INTER

みね 逢はずけむ

mi-ne apa-zu-kemu

HON-sonno incontrare.MZ-NEG.RY-CONG

193

Page 195: Origine e funzioni della particella giapponese wo

'la ragazza che (mi) ha promesso che ci saremmo incontrati alla cima di Tsukuba non

(mi) ha incontrato per dormire383, (è) perché ha ascoltato le parole di chi?'

(Fudoki 風土記, 2).

Nel primo esempio, il referente del pronome interrogativo ta sarebbe specifico, in

quanto secondo gli studiosi si sottintenderebbe un'espressione come 'chi fra coloro che

mi amano': il referente sarebbe quindi specifico perché risulterebbe identificabile e,

seguendo le definizioni di Enç, avrebbe una inclusion relation con un altro referente ben

noto ('coloro che mi amano'). In questo primo esempio, infatti, l'oggetto è marcato da

wo. Nel secondo esempio, invece, il parlante non avrebbe affatto in mente il referente: il

referente non sarebbe specifico e secondo gli autori si potrebbe sottintendere

un'espressione come 'chi in tutto il mondo'. In questo secondo caso, quindi, l'oggetto

koto 'parola' non è marcato da wo e anche il pronome interrogativo seguito dalla

particella attributiva ga assumerebbe una interpretazione non specifica.

Gli autori quindi concludono che gli oggetti non specifici non verrebbero marcati da

wo, mentre gli oggetti specifici verrebbero marcati. Eppure, notano alcuni casi in cui,

pur essendo l'oggetto specifico, esso tenderebbe a non essere marcato da wo: in alcuni

contesti, quindi, benché gli studiosi si aspetterebbero la presenza della particella wo,

essa non compare. Il primo contesto che viene identificato dagli studiosi è connesso alla

teoria di Miyagawa, che – come è già stato detto (§4.2.1) – fu uno dei primi autori a

notare che la particella wo tende ad occorrere maggiormente in frasi il cui verbo è in

forma attributiva piuttosto che in frasi il cui verbo occorre in forma di fine frase. Anche

Frellesvig, Horn e Yanagida notano che in alcune frasi con il verbo in forma conclusiva,

benché l'oggetto sembri definito (e quindi specifico), non è presente la particella wo e

tale oggetto occorre non marcato. Si veda ad esempio la seguente frase:

佐保川 の 清き 川原に 鳴く

sapo-gapa no kiyoki kapara ni naku

sapo-fiume-ATTR puro.RT greto-LOC cantare.RT

383 Il termine ne è utilizzato qui per indicare l'atto del dormire ma vuole essere un gioco di parole con ne'cima', quindi questa parte può essere tradotta sia “incontrare sulla cima (di Tsukuba)” sia “incontrarciper dormire assieme”.

194

Page 196: Origine e funzioni della particella giapponese wo

千鳥 かはづ と 二つ 忘れかねつ も

tidori kapadu to puta-tu wasure-kane-tu mo

piviere rana e ø due-CLASS dimenticare-non potere.RY-PERF.SS PART

'non posso dimenticare il piviere e la rana, entrambi, che cantavano sul limpido greto

del fiume Sapo!' (Man'yōshū 万葉集, maki 7, n. 1123).

In questa frase i due oggetti sembrano essere definiti, il parlante sembra avere ben in

mente il referente di tidori 'piviere' e di kapadu 'rana': i due sostantivi che fungono da

oggetto sono anche specificati da una relativa, cosa – che come già detto – permette di

intendere un elemento come specifico. Nonostante questo, l'oggetto non è marcato da

wo, e gli autori attribuiscono l'assenza della particella al fatto che il verbo sia in forma

di fine frase: se è presente un verbo in questa forma, come già notato da Miyagawa, può

accadere che la particella non venga utilizzata. Un elemento importante che deve essere

sottolineato è il fatto che, mentre Miyagawa identificava questa tendenza come una

regola ferrea di cui spiegava tutte le eccezioni, i tre autori si limitano a notare l'assenza

di wo in presenza di verbo in forma di fine frase, senza trarne alcuna conclusione.

Anche i tre studiosi notano che, al contrario della forma di fine frase, le forme del verbo

attributiva e perfettiva non ammettono l'assenza di particella wo a marcare l'oggetto.

Una seconda particolarità che i tre studiosi notano è connessa al verbo 待つ matu

'aspettare'. Gli autori osservano che questo verbo tende ad ammettere l'oggetto non

marcato, anche nel caso in cui esso sia definito. Si veda ad esempio:

妹は 我れ 待つらむ ぞ

imo pa ware matu-ramu zo

amata-TOP io ø aspettare.SS-CONG.RT PART

'la mia amata probabilmente mi sta aspettando'

(Man'yōshū 万葉集, maki 18, n. 4072).

Questa frase pone alcuni problemi. Come è già stato accennato i pronomi personali

sono definiti per loro natura, quindi la particella wo avrebbe dovuto marcare l'oggetto

ware; oltretutto la frase presenta un verbo in forma attributiva (RT) a causa della regola

195

Page 197: Origine e funzioni della particella giapponese wo

del kakari-musubi (§1.1.5), che comporta una modifica della forma del verbo di fine

frase (da SS a RT oppure IZ) in presenza di particelle pragmatiche come zo, namo e così

via: come era già stato detto dai tre autori, la forma attributiva del verbo non ammette

l'assenza di wo e quindi un oggetto non marcato esplicitamente. I tre studiosi

attribuiscono l'assenza di wo alla presenza del verbo matu 'aspettare', che ammetterebbe

occorrenze di oggetti non marcati anche se definiti. Purtroppo gli autori non provano a

ipotizzare una motivazione per la quale questo avverrebbe e sarebbe necessario studiare

in modo puntuale tutte le occorrenze del verbo matu nei testi antichi per poter notare

eventuali tendenze o spiegazioni. Nella frase proposta sopra, ad esempio, il soggetto del

verbo 'aspettare' è imo 'amata', marcato dalla particella del topic pa: dato che la funzione

della marcatura differenziale dell'oggetto è quella di evitare una confusione di

interpretazione fra oggetto e soggetto nel caso in cui il primo presenti le caratteristiche

prototipiche del secondo, si potrebbe ipotizzare che, essendo imo marcato dalla

particella del topic, questa possibilità di errore sia molto remota.

In conclusione, questa ricerca sulla marcatura differenziale dell'oggetto in

giapponese antico legata a un criterio di specificità dell'oggetto può chiaramente esser

d'aiuto nell'interpretazione dei testi antichi, in quanto permette di intendere in modo più

corretto alcune frasi che altrimenti rimarrebbero ambigue. Ad esempio, è importante

interpretare correttamente se l'oggetto di un verbo come 求む motomu 'cercare' sia

specifico o meno: l'unico elemento disponibile che permette una giusta interpretazione è

la presenza o meno della particella wo. Si vedano ad esempio queste due frasi:

君が 乳母 求むらむ 妻を 求む

kimi ga omo motomu-ramu tuma wo motomu

signore-SOGG balia ø cercare.SS-CONG.SS moglie-OGG cercare.SS

'il mio signore cerca una balia' 'cerco mia moglie'

(Man'yōshū 万葉集, maki 12, n. 2925); (Man'yōshū 万葉集, maki 10, n. 1826).

Nella prima frase, l'assenza di wo permette di interpretare l'oggetto in modo corretto

e permette di comprendere che il referente di omo 'balia' non sia identificabile nella

mente del parlante e che non abbia un antecedente nel discorso: il referente di omo è

196

Page 198: Origine e funzioni della particella giapponese wo

nuovo nel discorso e non è mai stato nominato. Viceversa, nella seconda frase la

presenza della particella wo permette di capire che il parlante (e soggetto della frase in

prima persona sottinteso) ha un referente ben chiaro in mente: l'oggetto imo è definito, e

quindi marcato da wo. Se nella prima frase il soggetto sembra cercare una qualsivoglia

balia, nella seconda frase il soggetto non sembra cercare una moglie in generale, ma

essere alla ricerca della propria moglie. Una interpretazione specifica dell'oggetto può

quindi essere molto d'aiuto nella corretta comprensione (e traduzione) di alcune frasi, a

cui altrimenti si rischia di attribuire un senso differente.

Il successivo sviluppo della marcatura differenziale dell'oggetto (DOM) in

giapponese non è affatto chiaro. Secondo Frellesvig, Horn e Yanagida, questo fenomeno

avrebbe avuto un utilizzo fondamentale in epoca Nara, ma nell'epoca Heian esso

avrebbe iniziato ad essere utilizzato in modo meno frequente: nei testi successivi si

incontrerebbero frequentemente oggetti specifici non marcati da wo e viceversa oggetti

non specifici, che mancherebbero in modo evidente di un antecedente nel discorso,

marcati da wo. Come è già stato accennato (§3.2), secondo Shibatani invece la

marcatura differenziale inizierebbe ad essere attuata proprio in epoca Heian, mentre in

epoca Nara la particella wo avrebbe semplicemente potuto essere utilizzata o meno in

modo facoltativo. Shibatani pensa – come si è già visto – a una sfumatura semantica

espressa dalla particella wo: la particella sarebbe stata utilizzata per marcare oggetti il

cui referente fosse una persona particolare (come l'imperatore) oppure quando si volesse

esprimere un forte attaccamento o emozione. Una terza posizione è sostenuta da

Motohashi, secondo cui l'applicazione del criterio dell'individuazione dell'oggetto di

Hopper e Thompson non è legata solo al giapponese antico, ma anche al giapponese

classico di epoca Heian: come si è già detto (§3.2), l'autore utilizza questo parametro

per dare una ratio alle occorrenze di wo notate nei testi di epoca Heian da Matsuo, a cui

quest'ultimo non era in grado di dare una spiegazione convincente.

In realtà, dato che in epoca Heian la particella wo, come visto più volte, sembra aver

già iniziato a subire il processo di grammaticalizzazione, appare improbabile che il

criterio pragmatico che determinava il DOM in epoca Nara fosse stato anche utilizzato

in epoca Heian come criterio unico. È invece possibile che in epoca Heian la marcatura

differenziale dell'oggetto stesse iniziando a scomparire, e che quindi l'alternanza wo-ø

197

Page 199: Origine e funzioni della particella giapponese wo

non dipendesse più in modo regolare da un criterio netto come la specificità: questo

avrebbe permesso alla particella wo di marcare anche oggetti non specifici e di non

marcare oggetti specifici. Si deve sottolineare infatti che il criterio proposto da

Motohashi dell'individuazione dell'oggetto comprende parametri diversi e più ampi

rispetto al criterio della specificità: per essere individuabile secondo i criteri di Hopper e

Thompson, un oggetto può sì essere referenziale e definito (quindi specifico), ma può

anche essere animato, singolare, concreto. La specificità sembra quindi essere solo una

delle possibilità che rendano un oggetto individuabile, nello studio di Hopper e

Thompson su cui si basa Motohashi. È quindi possibile che l'utilizzo di wo in epoca

Heian non dipenda più soltanto e regolarmente da un parametro di specificità, ma anche

da altri parametri, non più solo pragmatici ma anche ad esempio semantici (oggetto

animato, concreto), rimanendo comunque all'interno del criterio dell'individuabilità

dell'oggetto di Hopper e Thompson. È possibile che sia questo sviluppo ad aver portato

Shibatani a ipotizzare un l'utilizzo di wo in connessione con elementi emotivamente

rilevanti (nomi di persona, pronomi e così via), una sfumatura semantica legata a wo in

epoca Heian. Ciò che invece non sembra convincente dell'idea di Shibatani è il fatto che

in epoca Nara il marcare l'oggetto con wo sarebbe stato solo facoltativo: come si è visto,

sembra esservi invece un criterio ben preciso che determina la distribuzione della

particella wo in epoca Nara. In epoca Heian, invece, la distribuzione di wo aumenta, non

è più legata a un solo criterio pragmatico di specificità, ma anche ad altri criteri: la

marcatura differenziale dell'oggetto andrà poi gradualmente a sparire e la particella

subirà un processo di grammaticalizzazione, anche sotto l'impulso del materiale sino-

giapponese in cui l'espressione di wo era per sua natura obbligatoria e della

grammaticalizzazione di altre particelle come ga e no, che nel periodo Kamakura si

diffusero nella loro funzione di marca del soggetto384.

384 Di questi impulsi alla grammaticalizzazione di wo si era già parlato nel Cap. 3.

198

Page 200: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Capitolo 5

Applicazione e validità delle teorie sull'alternanza wo-ø

In questo capitolo conclusivo si proveranno ad applicare ad alcune poesie del

Man'yoshu le differenti teorie che sono state analizzate nelle precedenti sezioni. Le

ipotesi che sono state discusse sono principalmente tre. La prima è la teoria di

Miyagawa (§4.2.1), secondo cui l'alternanza wo-ø dipenderebbe dalla forma del verbo

della proposizione in cui l'oggetto si trova: in presenza di un verbo in forma attributiva o

perfettiva l'oggetto sarebbe marcato da wo, viceversa con un verbo in forma di fine frase

l'oggetto non sarebbe marcato. La seconda è invece la teoria di Motohashi (§4.2.2),

secondo cui l'oggetto verrebbe espressamente marcato da wo solo in presenza dei

parametri di Hopper e Thompson, che permettono di definire il livello di transitività

della frase: si tratta di parametri come il numero dei partecipanti, l'aspetto (perfettivo o

imperfettivo), la puntualità e la volontarietà dell'azione, l'opposizione fra frase

affermativa e negativa, fra evento realmente accaduto o meno (realtà e irrealtà), il

coinvolgimento dell'oggetto e l'identificazione dell'oggetto (se è animato, concreto,

singolare, definito e referenziale). La terza ipotesi è avanzata da Frellesvig, Horn e

Yanagida (§4.2.2), sulla scia di Whitman&Yanagida (2009), che propongono un unico

parametro pragmatico che possa spiegare l'alternanza wo-ø, la specificità: un oggetto è

specifico se è “ancorato pragmaticamente” a un referente già nominato o noto, e quindi

è identificabile nella mente del parlante. Si deve escludere la teoria interiezionale (Cap.

3), che chiaramente non permette un' analisi ben precisa, in quanto qualsivoglia

occorrenza di wo potrebbe essere intesa come enfatica in modo completamente

soggettivo e arbitrario. Mentre le teorie proposte da studiosi come Miyagawa o

Motohashi permetterebbero, secondo gli stessi autori, di prevedere in modo certo la

presenza di wo su base sintattica o pragmatica, al contrario la teoria interiezionale non

permette di predire i contesti in cui wo sarebbe presente, in quanto l'utilizzo di questa

particella dipenderebbe solo dal coinvolgimento dell'autore nei confronti dell'evento

descritto o della persona interessata.

Per concludere questo studio sulla particella wo sono state scelte alcune poesie del

199

Page 201: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Man'yoshu, partendo da due coppie di frasi proposte l'una da Shibatani, l'altra da Wrona

e Frellesvig385 come esemplificazioni dell'alternanza wo-ø. La prima coppia è formata da

miyako wo mireba kanashiki e miyako mireba kanashimo 'quando guardo la capitale

sono triste'; la seconda coppia è composta da awoyanagi ume to no pana wo wori e ume

no pana wori 'spezzare i fiori di pruno (e di salice)'. In entrambe le coppie di frasi si

nota che, benché sia presente lo stesso oggetto e lo stesso predicato (miyako 'capitale' e

miru 'guardare' nella prima coppia; nella seconda coppia pana 'fiore' e woru 'spezzare'),

in una l'oggetto è marcato con wo, nell'altra non lo è, ma in senso del verso è

sostanzialmente la stessa. Oltre agli esempi proposti da Shibatani da un lato e da Wrona

e Frellesvig dall'altro, sono state scelte anche altre poesie che presentano lo stesso

oggetto e verbo, per fornire un numero più alto di occorrenze a cui applicare le teorie

degli studiosi. Un elemento importante che deve essere notato è che gli studiosi, nel

proporre gli esempi nei loro articoli, citano soltanto la parte di poesia o il verso in

particolare che concerne la ricerca che portano avanti. In questo contesto invece tale

consuetudine può rivelarsi in parte svantaggiosa, in quanto non permetterebbe di

osservare in modo chiaro la presenza (o l'assenza) di una “ancora pragmatica” che

consentirebbe di intendere un oggetto come specifico: la ricerca di una “ancora

pragmatica” dell'oggetto specifico risulta – come si vedrà – difficile pur analizzando la

poesia nella sua interezza, e chiaramente sarebbe ancor più complessa una ricerca

limitata a solo una parte del testo. Per questo motivo si è scelto di riportare in modo più

completo le poesie che vengono citate. Come si è già accennato, il Man'yoshu è

composto in grande maggioranza da poesie dette 短歌 tanka, formate da 5 versi per un

totale di 31 more (la scansione dei 5 versi è 5-7-5-7-7): le poesie di questo tipo saranno

riportate interamente. Di poesie più lunghe come i 長歌 chōka (la cui scansione è 5-7,

5-7, 5-7...7-7), che non è necessario citare interamente, verrà riportata solo la sezione

che precede l'oggetto marcato (o meno) da wo, per osservare l'eventuale presenza di una

“ancora pragmatica”.

385 Shibatani (1990: 340), gli esempi di Shibatani sono già stati citati nell'Introduzione ai Cap. 3 e 4 esono versi delle poesie del Man'yoshu maki 1 n.32, 33; Wrona&Frellesvig (2009: 567), si tratta diversi delle poesie del Man'yoshu maki 5 n.821, 843. Questi esempi verranno ripresi nelle paginesuccessive, a cui si rimanda per glosse e ulteriori spiegazioni.

200

Page 202: Origine e funzioni della particella giapponese wo

5.1 Esempi con 都 miyako + 見る miru

Il primo gruppo di poesie presenta l'oggetto (marcato o meno) miyako 'capitale' e

il verbo miru 'guardare'. Gli esempi proposti da Shibatani, che però non prova a spiegare

il motivo dell'alternanza wo-ø, sono i seguenti:

古の 人 に 我れあれ や

inishipe no pito ni ware are ya

antico-ATTR persona-COP io PART

楽浪の 古き 都 を 見れば 悲しき

sasanami no puruki miyako wo mire-ba kanashiki

Sasanami-ATTR antica.RT capitale-OGG guardare.IZ-TEMP triste.RT

'è forse perché sono un uomo del passato, quanto sono triste quando guardo l'antica

capitale di Sasanami' (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 32);

楽浪 の 国 つ 御神 の うらさびて

sasanami no kuni tu mi-kami no urasabi-te

Sasanami-ATTR paese-ATTR HON-spirito-SOGG indebolirsi.RY-GER

荒れたる 都 見れば 悲しも

are-taru miyako mire-ba kanashi mo

essere in rovina.RY-PASS.RT capitale ø guardare.IZ-TEMP triste.SS PART

'lo spirito della terra di Sasanami si è indebolito, e io sono triste quando guardo la

capitale in rovina' (Man'yōshū 万葉集, maki 1, n. 33).

Innanzitutto, per comprendere meglio le due poesie, si deve sottolineare che

l'imperatore Tenji spostò la capitale a Ōmi, nella zona di Sasanami, nell'anno 667 d.C.:

Ōmi fu la capitale per soli quattro anni e dopo la morte di Tenji l'imperatore Tenmu, suo

fratello, portò la capitale ad Asuka. Ōmi è citata in molte poesie, sia del Man'yoshu che

successive, in quanto divenne un importante simbolo culturale e politico386. A

386 Si veda Duthie (2014: 321 ss.) per un interessante studio del ruolo della capitale Ōmi nella letteratura antica.

201

Page 203: Origine e funzioni della particella giapponese wo

prescindere quindi dal criterio del D-linking387, ovvero la presenza di un referente già

nominato nel discorso che abbia il ruolo di antecedente dell'oggetto specifico, la capitale

di cui si parla in entrambe le poesie è definita: il parlante/autore sembra avere

perfettamente presente nella sua mente la capitale di cui sta parlando e inoltre l'autore

guarda la capitale, cosa che rende l'oggetto presente al discorso. L'oggetto sembra

quindi essere definito (e di conseguenza necessariamente specifico).

Nella prima frase (la poesia n. 32) l'oggetto miyako 'capitale' è regolarmente marcato

da wo. La particella wo è inserita in una proposizione con il verbo in forma perfettiva IZ

(mireba), e questo conferma la teoria di Miyagawa, secondo cui i verbi in forma

perfettiva reggerebbero necessariamente l'oggetto marcato con wo; anche la teoria di

Motohashi viene convalidata da questa frase, in quanto si esprime una azione realmente

accaduta, volontaria, e l'oggetto sembra individuabile in quanto è definito, concreto,

singolare (pur essendo inanimato). Come si è visto, miyako 'capitale' è chiaramente

specifico, e questo convalida anche la teoria di Frellesvig, Horn e Yanagida.

La seconda frase (la poesia n. 33) pone invece alcuni problemi in quanto l'oggetto

miyako ha le stesse caratteristiche pragmatico-semantiche dell'oggetto della poesia n.

32, ed è inserito nello stesso contesto della frase precedente, eppure non è marcato da

wo. Una possibile spiegazione è legata alla metrica: entrambe le poesie sono tanka, la

cui scansione metrica – come già visto – è 5-7-5-7-7, e l'inserimento di wo porterebbe il

penultimo verso della poesia n.33 ad essere ipermetrico. La scansione metrica della

poesia n. 33 è la seguente:

sasanami no/ kuni tu mikami no/ urasabite/ aretaru miyako/ mireba kanashimo

5 7 5 7 7

Se il poeta avesse inserito la particella wo questo avrebbe comportato problemi alla

scansione metrica del verso, ed è quindi possibile che per questo motivo abbia scelto di

387 Si veda (§4.2.2). Il criterio del discourse linking è legato alla specificità in quanto essa comporta unaconnessione con un referente precedentemente stabilito, un nesso quindi fra il referentedell'espressione specifica e un referente già noto o di cui si è già parlato. Tale connessione permetteche il referente dell'espressione specifica sia facilmente identificabile per il parlante: infatti laspecificità è anche spesso identificata con il fatto che “the speaker can identify the referent” oppure“the certainty of the speaker about the identity of the referent”.

202

Page 204: Origine e funzioni della particella giapponese wo

non utilizzare la particella. Il lettore riconosce comunque facilmente miyako come

oggetto del verbo mireba grazie anche alla stretta vicinanza fra i due elementi: infatti,

come affermano anche Wrona e Frellesvig388, la vicinanza fra verbo e oggetto può

favorire l'assenza di wo. Si deve sempre ricordare, nello studio di testi come il

Man'yoshu, che si tratta di opere poetiche e che quindi le necessità metriche possono in

alcuni casi avere la precedenza sui parametri pragmatico-semantici che influiscono sulla

presenza di alcune particelle (come ga o wo).

Un terzo esempio è proposto – come già accennato – anche da Motohashi:

雲に 飛ぶ 薬食む よ は

kumo ni tobu kusuri pa-mu yo pa

nuvola-LOC volare.RT medicina mangiare.RT COMP TOP

都 見ば いやしき 我が 身

miyako mi-ba iyashiki a ga mi

capitale ø guardare.MZ-COND miserabile.RT io-ATTR corpo

また 変若ぬべし

mata woti-nu-beshi

di nuovo essere ringiovanito.RY-PERF.SS-dovere.SS

'piuttosto che prendere la medicina per volare sulle nuvole, il mio ignobile corpo si

ringiovanirebbe se guardassi la capitale' (Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 848).

In questo esempio l'oggetto occorre non marcato e precede una forma imperfettiva

del verbo (MZ). Curiosamente, né Miyagawa né Frellesvig, Horn e Yanagida effettuano

ricerche sulle occorrenze di wo in presenza della forma imperfettiva; Motohashi invece

ritiene che la particella wo non verrebbe espressa nel caso in cui l'evento non fosse

realmente accaduto, e un evento non accaduto è generalmente espresso con una forma

imperfettiva del verbo389: nella frase qui proposta, il verbo in forma imperfettiva (MZ)

388 Wrona&Frellesvig (2009: 577).389 La forma MZ del verbo viene utilizzata con numerose funzioni e quella di esprimere un evento non

accaduto non è affatto l'unica: viene sì utilizzata con suffissi negativi, congetturali e condizionali adesprimere eventi non ancora accaduti ma anche, ad esempio, con suffissi che permettono di rendere lafrase causativa o passiva e in questo caso l'azione è accaduta o sta accadendo.

203

Page 205: Origine e funzioni della particella giapponese wo

richiederebbe l'assenza della particella, viceversa negli esempi precedenti il verbo in

forma perfettiva (IZ) reggerebbe l'oggetto marcato da wo. Purtroppo la forma

imperfettiva del verbo è probabilmente la forma più trascurata negli studi dei diversi

autori, e non è quindi possibile esprimere ulteriori considerazioni. Ciò che si può

affermare invece con una certa sicurezza è che l'oggetto in questa poesia è specifico,

anche se non è definito da alcuna relativa, non ha antecedente già nominato nel discorso

e non regge forme attributive che lo definiscano: nell'introduzione a questa poesia e alla

poesia n. 847 (che la precede immediatamente nel maki 5) infatti si legge 'poesie circa la

mancanza del paese d'origine', e per 'paese d'origine' puru sato 故郷 si intende la

capitale Nara390. L'oggetto miyako 'capitale' nella poesia sembra quindi essere definito (e

specifico) per cui avrebbe dovuto essere regolarmente marcato da wo. Il motivo per cui

esso invece non compaia marcato da wo deve quindi essere attribuito a un fattore non

pragmatico, che può forse essere la presenza di una forma del verbo imperfettiva, che in

questa frase esprime una azione non accaduta, come vorrebbe Motohashi.

Sembrerebbe quindi che esistano alcuni casi in cui, benché l'oggetto sia specifico (o

definito e referenziale, nei termini di Motohashi), esso non è marcato da wo: gli oggetti

non specifici non verrebbero mai marcati, mentre gli oggetti specifici sarebbero marcati

con wo, ma la particella potrebbe non essere espressa in alcuni contesti. Questi contesti

sarebbero – come già visto in §4.2.2 – la presenza di una forma di fine frase del verbo,

la presenza del verbo matu, e nell'esempio precedente forse – secondo lo studio di

Motohashi – l'espressione di una azione non realmente accaduta. L'assenza di wo in

questi contesti sarebbe però una possibilità e non una regola come testimoniato anche

dalla seguente poesia:

うちひさす 宮へ 上る と たらちしや

uti pi sasu miya pe noboru to taratishiya

(makura-kotoba)391 palazzo-DIR salire.SS QUOT (makura-kotoba)

390 Vovin (2011: 82).391 Per makura-kotoba 枕詞 (lett. 'parola cuscino') si intende una delle più importanti figure retoriche

giapponesi. Si tratta sostanzialmente di epiteti, utilizzati in modo stabile per introdurre alcune parole:ad esempio, uti pi sasu (uti non è chiaro cosa significhi, pi 'sole', sasu 'splendere') è epiteto di miya'palazzo (imperiale)' e miyako 'capitale'. Anche taratishiya è epiteto di papa 'madre' ma non è affattochiaro il suo siginificato. Si veda Vovin (2011: 127).

204

Page 206: Origine e funzioni della particella giapponese wo

母が 手 離れ 常 知らぬ 国の

papa ga te panare tune shira-nu kuni no

madre-ATTR mano-separarsi.RY di solito sapere.MZ-NEG.RT paese-ATTR

奥処を 百重 山 越えて

oku-ka womomo-pe yama koe-te

interno-posto-OGG cento-CLASS montagne attraversare.RY-GER

過ぎ行き いつ しかも都を 見む

sugi-yuki itu shi kamo miyako wo mi-mu

passare.RY-andare.RY quando PART PART capitale-OGG guardare.MZ-CONG

と 思ひつつ 語らひ居れど おのが 身し

to omopi-tutu katarapi-wore-do ono ga mi shi

QUOT pensare.RY-GER parlare.RY-esistere.IZ-CONC me stesso-ATTR corpo PART

労はしければ 玉桙 の 道の

itapashikere-ba tama poko no miti no

dolorante.IZ-CAUSAL gioiello lancia-COMP strada-ATTR

隈廻に 草 手折り

kumami ni kusa ta-wori

curva-LOC erba ø mano-strappare.RY

'pensando di andare al palazzo su cui splende il sole, mi allontanai dalle braccia di

mia madre; attraversando e passando per luoghi solitamente ignoti e interni di province

e centinaia di montagne, benché pensassi ripetutamente e (mi) dicessi “Quando vedrò la

capitale?”, dato che il mio corpo era dolente, spezzai alcune erbe sulla curva della strada

che è come una lancia ingioiellata' (Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 886).

In questo esempio, l'oggetto miyako è retto dal verbo mi-mu (vedere.MZ-CONG.SS).

Il verbo miru 'vedere', come si nota dalla glossa, si trova in forma imperfettiva in quanto

precede il suffisso -mu che esprime una congettura o una volontà: questo suffisso a sua

volta si trova in forma di fine frase e precede la particella to che viene postposta a un

discorso diretto o indiretto. L'oggetto è definito e il fatto che sia specifico sembra

confermato dalla “ancora pragmatica” miya 'palazzo (imperiale)', che funge da

205

Page 207: Origine e funzioni della particella giapponese wo

antecedente nel discorso. Si noti che questo è il primo esempio in cui si trova un

antecedente nel discorso: questo fatto è probabilmente dovuto al maggiore numero di

versi presenti nella poesia, che permette di introdurre elementi che abbiano connessioni

con referenti di cui si parlerà successivamente, cosa chiaramente molto difficile da

compiere in un tanka composto da 31 more. La sezione di poesia che è stata citata è

infatti la prima parte di un chōka, una poesia più lunga la cui scansione metrica è 5-7, 5-

7, 5-7...7-7. Questo è uno dei casi in cui wo marca regolarmente l'oggetto definito e

quindi specifico, benché si tratti di un contesto in cui può accadere che l'oggetto venga

marcato dal morfema ø: la forma del verbo è una forma di fine frase (SS) che

permetterebbe, secondo Frellesvig, Horn e Yanagida, ma anche nella teoria di

Miyagawa, l'assenza di wo. Anche la vicinanza fra verbo e oggetto spesso permette

l'assenza di wo, come già accennato. Inoltre, l'azione non è compiuta, in quanto si tratta

di una congettura, un pensiero espresso dal soggetto in prima persona: questo secondo

Motohashi avrebbe dovuto far sì che l'oggetto non fosse marcato. Come si vede, non si

tratta di vere e proprie regole, ma di tendenze e possibilità, che quindi sono soggette a

numerosissimi controesempi.

5.2 Esempi con 花 pana + 折る woru

Nella poesia n. 886 proposta in precedenza (§5.1) si trova anche un primo

esempio di occorrenza del verbo 折る woru 'spezzare'. L'oggetto in questa poesia è 草

kusa 'erba', che non è marcato da wo. Uno dei motivi possibili è che l'oggetto non

sembra affatto specifico: non ha un antecedente, non è ancorato pragmaticamente ad

alcun altro elemento già citato nel discorso, e il parlante non sembra aver in mente erbe

specifiche o particolari. Il criterio di Frellesvig, Horn e Yanagida è quindi rispettato. I

parametri proposti da Motohashi sembrano invece rispettati solo in parte. Si tratta di una

azione puntuale, volontaria, affermativa, realmente accaduta, l'oggetto è coinvolto:

questi elementi avrebbero potuto determinare la presenza di wo. L'oggetto però è

indefinito, non numerabile, inanimato: questi parametri legati all'identificazione

dell'oggetto permetterebbero ad esso di non essere marcato da wo, come di fatto

avviene. La presenza di numerosi parametri nella teoria di Motohashi sembra un'arma a

206

Page 208: Origine e funzioni della particella giapponese wo

doppio taglio: da un lato permetterebbe di giustificare molte occorrenze (e non

occorrenze) di wo grazie al fatto che, avendo numerosi criteri fra cui scegliere, è

piuttosto probabile che uno di essi venga rispettato, ma dall'altro lato proprio la

presenza di un numero molto alto di parametri non dà la possibilità di capire se vi sia

una scala gerarchica tra loro. Ad esempio, nella poesia n. 886 vengono rispettati alcuni

criteri, ma ne vengono violati altri: ciò che non è affatto chiaro è se debbano essere

rispettati un numero minimo di criteri o se esista una scala gerarchica tra loro, secondo

la quale, anche se non venissero rispettati molti parametri, uno di essi avrebbe la priorità

sugli altri. Sulla base della poesia n. 886, si potrebbe affermare che il criterio principale

sia quello dell'identificazione dell'oggetto, ma altri esempi (come la poesia n. 848 citata

in §5.1) suggerirebbero che l'opposizione realtà-irrealtà abbia la precedenza.

Si riscontra lo stesso problema nelle due seguenti poesie, proposte come esempi

dell'alternanza wo-ø da Wrona e Frellesvig:

梅の 花 折りかざしつつ 諸人の

ume no pana wori-kazashi-tutu moro-pito no

pruno-ATTR fiore ø spezzare.RY-decorarsi.RY-GER tutti-persona-ATTR

遊ぶを 見れば 都しぞ 思ふ

asobu wo mire-ba miyako shi zo omopu

giocare.RT-OGG guardare.IZ-TEMP capitale PART PART pensare.SS

'quando vedo tutte le persone divertirsi, spezzando fiori di pruno e decorandosi (con

essi), penso alla capitale' (Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 843);

青柳 梅 と の 花を 折りかざし

awo-yanagi ume to no pana wo wori-kazashi

verde-salice pruno-COM-ATTR fiori-OGG spezzare.RY-decorarsi.RY

飲みての 後は 散りぬ とも よし

nomi-te no noti pa tiri-nu tomo yoshi

bere.RY-GER-ATTR dopo TOP cadere.RY-PERF.SS anche se bene.SS

'va bene se spezzando i fiori del salice verde e del pruno e decorandoci (con essi),

207

Page 209: Origine e funzioni della particella giapponese wo

dopo aver bevuto, (essi) cadono' (Man'yōshū 万葉集, maki 5, n. 821).

La prima poesia non presenta wo a marcare l'oggetto pana 'fiori', connesso con il

verbo worikazashi 'spezzare e decorarsi'. Il verbo è in forma sospensiva (RY), e secondo

Miyagawa questo fa sì che si debba analizzare il verbo reggente per prevedere la

presenza di wo: il verbo reggente è asobu 'giocare' in forma attributiva e tale forma del

verbo reggerebbe necessariamente wo, cosa che invece non avviene. Anche nella

seconda poesia l'oggetto, in questo caso marcato da wo, è retto dal verbo in forma

sospensiva worikazashi, il cui verbo reggente tirinu 'cadere' si trova però in forma di

fine frase: anche in questo esempio la regola proposta da Miyagawa non viene rispettata

in quanto la forma di fine frase del verbo, secondo lo studioso, reggerebbe

necessariamente un oggetto non marcato. Per quanto riguarda invece i criteri di

Motohashi, anche in questo caso essi sono in parte rispettati, in parte violati. In

entrambe le poesie si tratta di azioni volontarie, realmente accadute, affermative,

l'oggetto è completamente coinvolto (in quanto i fiori vengono spezzati): questi

parametri dovrebbero secondo Motohashi permettere di marcare l'oggetto con wo.

L'oggetto però non sembra altamente individuabile: l'unico fattore che lo renderebbe

identificabile sarebbe la concretezza, ma esso è anche inanimato, plurale, denominato

con nome comune, e questi fattori favorirebbero l'assenza della marcatura esplicita. In

entrambe le poesie i fattori che favorirebbero la presenza di wo e i fattori che ne

promuoverebbero l'assenza sono riconoscibili allo stesso modo, eppure nella poesia n.

843 wo non è presente, mentre nella poesia n. 821 l'oggetto è marcato: basandosi quindi

sui criteri di Motohashi non si riesce affatto a spiegare la differente marcatura

dell'oggetto in questi due esempi, in quanto potrebbe sembrare che alcuni fattori

prendano il sopravvento nella prima frase, altri abbiano una maggiore importanza nella

seconda frase. Un aiuto per dare una motivazione alla diversa marcatura dell'oggetto

può essere riconosciuto invece nello studio di Frellesvig, Horn e Yanagida, benché un

antecedente pragmatico, una “ancora”, sia assente in entrambe le poesie e quindi

potrebbe risultare complesso identificare un oggetto come specifico o meno. In realtà,

nelle due frasi l'agente che compie l'azione espressa dal verbo della subordinata in

forma sospensiva (worikazashi) è differente: nella prima frase l'agente è moropito 'tutte

208

Page 210: Origine e funzioni della particella giapponese wo

le persone' e quindi l'azione non è direttamente compiuta dal parlante, mentre nella

seconda frase è possibile sottintendere un agente in prima persona. Nella prima poesia

quindi sono 'tutte le persone' che spezzano i fiori e li utilizzano per decorarsi, mentre

nella seconda poesia è il parlante stesso che, dopo aver bevuto, spezza i fiori e si decora

con essi. Nel primo esempio il parlante sembra guardare da lontano le persone che

spezzano i fiori, mentre nel secondo esempio egli sembra direttamente coinvolto in

questa azione. Questo può forse permettere di riconoscere l'oggetto della prima poesia

come non specifico, in quanto esso non sembra ben identificabile nella mente del

parlante, mentre l'oggetto della seconda poesia può essere riconoscibile come definito in

quanto è proprio il parlante a compiere una azione ai danni di un referente in particolare.

Potrebbe essere questo il motivo per cui l'oggetto nella prima poesia è marcato col

morferma ø, mentre nella seconda poesia è marcato con la particella wo.

Il parametro della specificità permette di motivare in modo sicuro le occorrenze di

wo anche nel seguente ultimo esempio. Trattandosi di una poesia molto lunga (il tipo

detto chōka), verrà riportata solo la prima sezione, in cui sono presenti le due

occorrenze di wo analizzate: come si è già detto, non citare soltanto il verso singolo, ma

analizzare una intera sezione di poesia può essere necessario per riconoscere un

eventuale antecedente che permetta di identificare un oggetto come specifico.

かけまく も あやに 畏し

kake-ma-ku mo aya ni kashikoshi

parlare.MZ-CONG-NMLZ PART insolitamente degno.SS

天皇の 神の 大御代に 田道間守

sumeroki no kami no opomiyo ni Tadimamori

imperatore-ATTR dio-ATTR grande regno-LOC Tajimamori

常世に 渡り 八桙 持ち

toko-yo ni watari ya-poko moti

eterno-terra-LOC passare.RY otto-lancia portare.RY

参ゐ 出 来 し 時

mawi- de- ko- shi toki

209

Page 211: Origine e funzioni della particella giapponese wo

venire(HUM).RY-uscire.RY-venire.RY-PASS.RT quando

時じくの かくの 木の 実を

tokiziku no kaku no ko no mi wo

continuo.RY-ATTR profumo-ATTR albero-ATTR frutto-OGG

畏くも 残したまへれ 国も 狭に

kashikoku mo nokoshi-tamape-re kuni mo se ni

degno.RY PART lasciare.RY-HON.IZ-PERF.IZ paese PART pieno PART

生ひ立ち栄え 春 されば 孫枝

opitati- sakae paru sara-ba hi-koe

crescere.RY-fiorire.RY primavera essere.IZ-CAUSAL nipote-ramo

萌いつつ 霍公鳥鳴く 五月に は 初花を

moi-tutu potogisu naku satuki ni pa patu-pana wo

spuntare.RY-GER cuculo cantare.RT quinto mese-TEMP TOP primo-fiore-OGG

枝に 手折りて 娘子らに つとにも

eda ni ta-wori-te wotome-ra ni tuto ni mo

ramo-LOC mano-strappare.RY-GER ragazze-PLUR-OGIN regalo-PART PART

遣りみ 白栲の 袖に も 扱入れ

yari-mi shiro-take no sode ni mo kokire

mandare.RY-SUFF bianca-veste-ATTR maniche-LOC PART inserire.RY

かぐはしみ 置きて 枯らしみ あゆる

kagupashi-mi oki-te karashi-mi ayuru

essere profumato-SUFF conservare.RY-GER seccare.RY-SUFF cadere.RT

実は 玉に 貫きつつ 手に 巻きて

mi pa tama ni nuki-tutu te ni maki-te

frutto-TOP gioiello-COMP passare.RY-GER mano-LOC avvolgere.RY-GER

見れども 飽かず

mire-domo aka-zu

vedere.IZ-CONC annoiarsi.MZ-NEG.SS

210

Page 212: Origine e funzioni della particella giapponese wo

'parlarne è straordinariamente degno. Quando nel grande regno degli dei imperiali,

Tajimamori attraversò la terra eterna e tornò indietro portando otto lance, poiché si

degnò di lasciare (a noi) il frutto dell'albero del perpetuo buon profumo, (esso) crebbe

fiorendo e riempì il paese. In primavera, spuntando i rami nuovi, nel quinto mese in cui

il cuculo canta, spezziamo a mano i primi fiori del ramo e (li) mandiamo in regalo alle

ragazze, (li) inseriamo nelle maniche della veste bianca, e (li) riponiamo (così) si

seccano poiché hanno un buon profumo; i fiori che cadono passano come gioielli, e

avvolgendoli alle mani, pur guardandoli, non ci si annoia' (Man'yōshū 万葉集, maki 18,

n. 4111).

Gli oggetti diretti che devono essere evidenziati sono principalmente due: tojiku no

kaku no ko no mi 'il frutto dell'albero del perpetuo buon profumo' e patu-pana 'i primi

fiori', entrambi marcati da wo. Entrambi sono retti da verbi in forma sospensiva (RY),

ed entrambe le forme sospensive sono rette a loro volta da verbi in forma perfettiva

(IZ): la forma perfettiva, secondo Miyagawa, reggerebbe necessariamente un oggetto

marcato, quindi il criterio di questo autore è rispettato. Per quanto riguarda il parametro

della specificità, si nota che il secondo oggetto (patu-pana) ha una chiara ancora

pragmatica nel primo oggetto tojiku no kaku no ko no mi, che lo precede di alcuni versi:

i 'primi fiori' di cui si parla nei versi successivi sono fiori che provengono dall'albero

'del perpetuo buon profumo' portato dal personaggio leggendario Tajimamori. Il primo

oggetto funge da antecedente per il secondo, che quindi occorre marcato in modo

regolare. L'oggetto tojiku no kaku no ko no mi non ha invece un antecedente che

permetta di definirlo specifico. Sembrerebbe che l'autore avesse un preciso albero in

mente, grazie anche all'alto numero di forme attributive che lo precedono e che

permettono di specificarlo, ma non si può affermare con sicurezza che il referente sia

definito: ciò che consente di riconoscere questo referente come definito (e quindi

specifico) è probabilmente il fatto che la storia di questo albero e del personaggio

Tajimamori è molto famosa in Giappone. Tajimamori compare nel Kojiki e nel

Nihonshoki e venne mandato dall'imperatore Suinin nella terra eterna (toko yo) per

cogliere i frutti dell'albero del perpetuo buon profumo, identificato tradizionalmente con

il tachibana, albero che dà frutti simili a mandarini. Il referente di tokijiku no kaku no

211

Page 213: Origine e funzioni della particella giapponese wo

ko no mi è quindi noto all'autore e con buona certezza anche ai suoi lettori: si tratta di un

albero in particolare, famoso nella tradizione giapponese, e questo permette di

identificarlo come definito (e specifico). Per tale motivo l'oggetto può essere marcato da

wo, come di fatto accade.

I differenti criteri proposti da Motohashi, anche in questo caso, non permettono

invece una spiegazione univoca, in quanto – come si è già detto – le due azioni sono

volontarie, affermative e realmente accadute, l'oggetto è concreto, coinvolto e

referenziale, ma è inanimato: la presenza di molti parametri da analizzare rende difficile

identificare la precisa motivazione per cui la particella wo sia presente in entrambi i

casi.

5.3 Osservazioni conclusive

Come si è tentato di dimostrare, delle tre teorie che provano a dare una ratio

all'alternanza wo-ø, la proposta di Frellesvig, Horn e Yanagida è quella che permette in

modo più sicuro di spiegare la presenza o l'assenza di wo nel periodo Nara.

Lo studio di Miyagawa presenta numerosi controesempi, quindi – come si è già detto

– è probabilmente preferibile ritenere la sua teoria una tendenza generale piuttosto che

una regola ferrea, come viene confermato anche da Frellesvig, Horn e Yanagida: la

forma attributiva del verbo tenderebbe a reggere l'oggetto marcato, la forma di fine frase

tenderebbe a reggere l'oggetto non marcato, ma questo non avverrebbe necessariamente

in tutte le occorrenze di queste forme verbali.

Per quanto riguarda lo studio di Motohashi, la presenza di numerosi parametri crea

effettivi problemi nell'analisi delle occorrenze di wo. Si tratta di dieci criteri, a cui si

sommano ulteriori sei parametri di cui si compone l'individuabilità dell'oggetto

(animato, concreto, definito, numerabile, singolare, nome proprio): è quindi piuttosto

improbabile che tutti vengano soddisfatti. Si dovrebbe allora definire una scala

gerarchica, in cui un determinato parametro (come l'opposizione realtà-irrealtà, ad

esempio) venga identificato come prioritario rispetto agli altri parametri, e la cui

presenza comporti necessariamente la marcatura esplicita dell'oggetto, oppure si

dovrebbe segnalare un numero minimo di criteri che debbano o meno essere rispettati e

212

Page 214: Origine e funzioni della particella giapponese wo

che permetta di prevedere la presenza di wo. I parametri di Motohashi non sembrano

quindi molto attendibili nel dare una motivazione certa all'alternanza wo-ø.

Uno studio invece che si è rivelato particolarmente affidabile è quello di Frellesvig,

Horn e Yanagida, secondo cui la particella wo è connessa con una marcatura

differenziale dell'oggetto basata sul criterio della specificità. La difficoltà maggiore che

si riscontra nello studio di questo parametro, però, è il tipo di testo all'interno di cui esso

viene applicato. I testi giapponesi antichi, se escludiamo le preghiere e gli editti

imperiali che furono molto influenzati dal kanbun-kundoku (§3.1) e quindi per loro

natura presentano un numero molto maggiore di particelle segnate esplicitamente, sono

principalmente testi poetici molto brevi come quelli del Man'yoshu, all'interno di cui

non è semplice identificare una “ancora pragmatica” di un oggetto specifico. E questo è

vero anche nei casi frequentissimi in cui gli autori si limitano a citare il verso singolo

che deve essere analizzato e non l'intera poesia: come si è visto, lo studio dell'intero

testo può invece aiutare nel riconoscere un antecedente nel discorso, che permetta di

definire “specifico” un oggetto. Allo stesso modo, come si è visto nelle poesie n. 886 e

n. 4111, testi più corposi, e non limitati alle sole 31 more permesse dai componimenti di

tipo tanka, consentono in modo più certo di connettere un oggetto marcato ad una

“ancora pragmatica” che funga da antecedente. Pur riconoscendo questa difficoltà legata

al tipo di testo e alle fonti che sono disponibili, il parametro della specificità dell'oggetto

sembra comunque essere il criterio più attendibile sulla base di cui analizzare

l'alternanza wo-ø nei testi del periodo Nara, e che riesce in modo più sicuro a dare una

spiegazione univoca alle occorrenze della particella wo.

213

Page 215: Origine e funzioni della particella giapponese wo

Conclusione

Gli argomenti fondamentali di cui si è discusso sono da un lato i diversi valori

attribuibili alla particella wo e quindi la sua categorizzazione all'interno delle classi

individuate da Yamada, e dall'altro lato le motivazioni che sono alla base dell'alternanza

di questa particella con il morfema ø nel segnalare l'oggetto diretto.

Nel primo capitolo è stata infatti analizzata la rigida classificazione delle particelle

ad opera di Yamada Yoshio nel 1908, che distinse sei tipologie di particelle (finali,

interiezionali, di congiunzione, restrittive, pragmatiche e di “caso” o grammaticali): tale

distinzione è generalmente ritenuta valida sia per il giapponese antico che per il

giapponese moderno e viene accettata dalla maggior parte degli studiosi sia giapponesi

che occidentali (§1.1). Si è poi discusso della categoria di “caso” (definito da De Mauro

“una classe di forme avente funzione unitaria”), criticando i moderni approcci allo

studio dei casi che permetterebbero di riconoscere una categoria di “caso” in tutte le

lingue del mondo, e concludendo che tale categoria non è in realtà riconoscibile in

giapponese (§1.2).

Nel secondo capitolo sono state esaminate le tipologie di particella all'interno di cui

wo viene inserita, ovvero le differenti funzioni che questa particella aveva nel

giapponese antico e classico: wo viene classificata come particella grammaticale (§2.1),

interiezionale (§2.2), finale (§2.3) e di congiunzione (§2.4). Sono stati inoltre analizzati

i criteri sintattici proposti da Kondō (1980) per inserire in modo corretto ogni

occorrenza di wo all'interno di una di queste categorie. Un elemento importante di cui si

è discusso in questo capitolo è la costruzione in -mi (§2.5): essa esprime una

subordinata causale di cui wo marca il sostantivo, che viene interpretato – gli studiosi

non sono concordi – come soggetto o oggetto della frase.

Nei capitoli successivi si è analizzata in modo più preciso la funzione di espressione

dell'oggetto diretto della particella wo e la sua alternanza col morfema ø. Nel terzo

capitolo è stata discussa la teoria interiezionale proposta da studiosi come Matsuo (§3.1)

o Oyama (§3.2), secondo cui questa particella fino al periodo Heian non avrebbe avuto

una connessione con l'oggetto diretto, ma piuttosto una funzione meramente

214

Page 216: Origine e funzioni della particella giapponese wo

interiezionale, e sarebbe stata utilizzata per innalzare il livello emotivo del discorso.

L'utilizzo di wo si sarebbe poi diffuso a causa della sempre crescente complessità della

frase e dell'influsso del materiale sino-giapponese. Si è inoltre esaminata la teoria di

Akiba (§3.3), che tenta di spiegare il mutamento che portò la particella wo ad avere una

funzione grammaticale a partire da un utilizzo solo interiezionale: l'autore ricostruisce

un valore pragmatico di wo, che permetterebbe di connettere l'utilizzo interiezionale con

la funzione grammaticale.

Della funzione pragmatica connessa a wo si è discusso nel capitolo quattro, che è

diviso in due sezioni. Nella prima sezione sono stati esaminati i possibili allineamenti

morfosintattici che vengono attribuiti dagli studiosi al giapponese antico (§4.1):

l'allineamento viene ricostruito dai differenti studiosi come nominativo-accusativo

(Wrona e Frellesvig), parzialmente attivo-stativo (Yanagida e Whitman da un lato,

Vovin dall'altro) oppure ergativo-assolutivo (Motohashi principalmente). Nella seconda

sezione sono state analizzate le teorie degli studiosi che hanno tentato di dare una ratio

all'alternanza wo-ø (§4.2) e le motivazioni oscillano tra una questione morfosintattica

(secondo Miyagawa dipenderebbe dalla forma del verbo reggente) e una questione

pragmatica: in quest'ultimo caso si tratterebbe del cosiddetto differential object marking,

un fenomeno in cui l'oggetto viene marcato o meno sulla base di proprietà come

l'animatezza, la definitezza o la specificità. Secondo Motohashi, infatti, wo sarebbe

espressa solo in presenza dei parametri di Hopper e Thompson (dieci criteri, il più

importante dei quali sembra essere l'identificazione dell'oggetto, che contrappone

oggetti animati, referenziali e concreti a oggetti inanimati, indefiniti e astratti), mentre

secondo la formulazione comune di Frellesvig, Horn e Yanagida, sarebbe il parametro

della specificità dell'oggetto a determinare la presenza di wo: un oggetto è specifico

quando il suo referente è ancorato pragmaticamente a un'altra entità già nominata o è

identificabile nella mente del parlante.

Le teorie discusse in quest'ultima sezione sono state poi applicate ad alcune poesie

del Man'yoshu nel quinto capitolo, per confermarne la validità e la capacità di

permettere di prevedere la presenza o l'assenza di wo. Si è concluso che la teoria di

Miyagawa è interpretabile maggiormente come una tendenza piuttosto che come una

regola fissa, lo studio di Motohashi pone problemi a causa dell'ampio numero di criteri

215

Page 217: Origine e funzioni della particella giapponese wo

che devono essere rispettati, mentre la proposta di Frellesvig, Horn e Yanagida consente

con maggior sicurezza di motivare in modo preciso la presenza o l'assenza di wo.

Un problema fondamentale, di cui si è discusso lungo tutto questo lavoro, è connesso

ai tipi di testo disponibili per lo studio della lingua giapponese antica. Tra i testi scritti

nel periodo Nara392 si distinguono due tipologie. Da un lato, testi fortemente influenzati

dal materiale sinogiapponese, come editti imperiali (senmyō) e preghiere (norito), ma

anche mokkan (tavolette di bambù o legno che recano brevi scritte o messaggi): in

questi testi la frequenza di occorrenze di particelle espresse in modo esplicito è molto

più alta, proprio a causa dell'influsso del kanbun-kundoku393. Dall'altro lato testi in versi,

come le poesie del Man'yoshu o le canzoni del Kojiki, la cui scansione metrica è

generalmente 5-7-5-7-5-7-7: la presenza delle particelle in questi testi è chiaramente

condizionata dalle necessità metriche, e ciò rende i testi poetici parzialmente inadeguati

allo studio delle particelle. Inoltre, come giustamente è stato fatto notare da

Frellesvig394, lo studio di testi poetici, il cui stile letterario e retorico è ricco di

esclamazioni, di lamenti, di invocazioni, può fuoriviare gli studiosi, che potrebbero

interpretare le particelle come “enfatiche”, mentre in realtà la loro funzione era ben

diversa. Giungendo poi al periodo Heian395, con la nascita e lo sviluppo di nuovi generi

letterari come i racconti (monogatari) e i diari (nikki) composti da parti in prosa, poesia

e dialogiche, le necessità espressive degli autori si modificano enormemente: diventa

quindi più consueto incorrere in frasi più complesse ed elaborate, che presentano un

maggior numero di particelle (grammaticali, ma anche interiezionali e di congiunzione)

per facilitare la lettura e la comprensione del testo. I testi di epoca Heian sembrano

molto più adeguati allo studio delle particelle grazie anche alla grande varietà di

tipologie testuali contenute in essi, ma si tratta comunque di testi posteriori di alcune

centinaia di anni rispetto alle prime attestazioni del giapponese antico, che quindi non

possono rispecchiare in modo fedele la lingua antica.

Un elemento che però si riscontra, seppure con frequenza diversa, nei testi di

392 I testi del periodo Nara sono studiati principalmente da Motohashi (1989), Bentley (2001), Vovin(2005; 2009b), Wrona&Frellesvig (2009), Yanagida (2005; 2006), Whitman&Yanagida (2009; 2012).

393 Della pratica del kanbun-kundoku si è parlato in §3.1.394 Frellesvig (2010: 124-5).395 Gli studiosi che si concentrano maggiormente sui testi di epoca Heian sono Miyagawa (1989; 2012),

Miyagawa& Ekida (2003), Matsuo (1938; 1944), Hiroi (1957), Oyama (1958).

216

Page 218: Origine e funzioni della particella giapponese wo

entrambe le epoche è l'alternanza wo-ø: essa si trova nei testi poetici del Man'yoshu

come nei dialoghi del Tosa Nikki, negli editti imperiali di epoca Nara come nelle sezioni

in prosa dei grandi monogatari di epoca Heian. Questo permette di trarre alcune

conclusioni. Innanzitutto, l'espressione della particella wo non era obbligatoria nei

periodi Nara e Heian, e ciò non permette di definire il suo utilizzo per segnalare

l'oggetto come una funzione grammaticale: se così fosse stato, essa sarebbe stata

espressa in modo obbligatorio, a prescindere da necessità metriche, scelte personali

dell'autore, o altri criteri. Si tratterebbe piuttosto di una funzione pragmatica, ossia wo

segnalerebbe soltanto gli oggetti caratterizzati dalla proprietà pragmatica della

specificità: questa particella sarebbe attribuita su base pragmatica, quindi, ma con

limitazioni di tipo grammaticale, in quanto non marcherebbe qualsivoglia elemento

purché specifico, ma soltanto l'oggetto (e forse – come accennato e come si vedrà a

breve – anche il paziente in alcuni casi di marcatura atipica).

Ciò solleva due problemi: da un lato l'impossibilità di applicare la classificazione di

Yamada e la categoria del “caso”, dall'altro lato la necessità di tracciare uno sviluppo

delle funzioni della particella wo, partendo dalle prime attestazioni del giapponese

antico fino ai giorni nostri.

La classificazione di Yamada – come visto numerose volte – pone il problema di

fondo del rapporto biunivoco fra forma e funzione. Se, ad esempio, la particella ya

viene classificata come particella interiezionale, ma si trovano moltissime occorrenze in

cui essa deve essere classificata come particella pragmatica in quanto partecipa al

fenomeno del kakari-musubi396, si decide di identificare due particelle differenti, l'una

con funzione interiezionale l'altra con valore pragmatico. È una classificazione netta e

categorica, che non sembra ammettere la possibilità che ad un'unica forma

corrispondano più funzioni, e che quindi ad un'unica particella possano essere attribuiti

molteplici valori: questo è invece chiaramente possibile e di fatto avviene molto

frequentemente. Può accadere che tali valori siano in parte comparabili con le funzioni

tradizionalmente riconosciute come prototipiche di un caso grammaticale delle lingue

indoeuropee, ma ciò non è sufficiente per riconoscere la categoria di “caso” in

giapponese: imbrigliare lingue tipologicamente e genealogicamente differenti all'interno

396 Del fenomeno del kakari-musubi si è parlato in §1.1.5. Si tratta di una regola secondo cui la presenzadi una particella pragmatica provoca la modifica della forma del verbo.

217

Page 219: Origine e funzioni della particella giapponese wo

di categorie descrittive costruite sulla base delle lingue occidentali più note è sempre un

rischio, e si dovrebbe invece studiare ogni lingua dando risalto alle sue peculiarità.

Vediamo nel dettaglio la situazione per quanto riguarda la particella wo. I suoi valori

sono in parte comparabili con le funzioni che gli studiosi riconoscono essere

prototipiche del caso accusativo397, in parte completamente differenti: è utile notare che

gli studiosi sembrano definire wo “particella dell'accusativo” sulla base della sua

funzione primaria di segnalare l'oggetto diretto, ma tale definzione non permette di dare

una spiegazione univoca a tutte le funzioni di questa particella. Quando essa viene

classificata come particella grammaticale (kaku joshi398), ha la funzione pragmatico-

grammaticale di segnalare l'oggetto solo se specifico: a differenza delle desinenze di

caso accusativo, non è quindi un marker obbligatorio e viene assegnata su base

pragmatica; ha anche una serie di funzioni concrete come l'espressione dei complementi

di tempo e luogo, utilizzi paralleli alle funzioni concrete del caso accusativo. Quando

viene classificata come particella interiezionale (kantō joshi), essa ha la funzione di

esprimere enfasi o esclamazione: questa funzione è comparabile con l'utilizzo

dell'accusativo di esclamazione, benché numerosi studiosi che pure definiscono wo

“particella dell'accusativo” non sembrano riconoscere tale funzione di questo caso;

quando viene categorizzata come particella finale (shū joshi) o di congiunzione

(setsuzoku joshi), essa ha valore di congiunzione temporale, causale o concessiva:

l'utilizzo come congiunzione non ha paralleli nelle funzioni del caso accusativo delle

lingue indoeuropee. Secondo Kondō, che sembra accettare in modo dogmatico la

classificazione di Yamada e non ammettere la possibilità che ad un'unica particella

possano essere attribuiti differenti valori, esisterebbero particelle wo diverse, omofone,

ad ognuna delle quali corrisponderebbe una funzione particolare. È invece assai più

probabile che si tratti di un'unica particella wo, che viene utilizzata con numerose

397 Si veda ad esempio lo studio di Kuryłowicz, che riprende Delbrück, di cui si è detto in §1.2.2.398 Le particelle di “caso” in tutto il lavoro sono state definite “particelle grammaticali” in quanto –

secondo la tradizione – segnalerebbero il soggetto, l'oggetto e i vari complementi: una funzionegrammaticale. Eppure, in molti casi la funzione non sembra essere nettamente grammaticale, maparzialmente pragmatica, seppur con limitazioni di tipo grammaticale, come nel caso di wo ingiapponese antico. Stessa situazione si ha, in giapponese antico, nel caso della particella ga, chemarcava il soggetto solo se animato (quindi su base semantica) ed era usata anche in funzioneattributiva. Allo stesso modo i, particella presa in prestito dal coreano, marcherebbe un “broad focussubject” (§4.1.4): sarebbe anch'essa attribuita su base pragmatica ma con limitazioni grammaticaliconnesse al soggetto.

218

Page 220: Origine e funzioni della particella giapponese wo

funzioni diverse e che esprima valori differenti.

Una ulteriore funzione di wo, su cui però non vi è affatto accordo fra gli studiosi e

che non avrebbe paralleli tra le funzioni dell'accusativo, sembrerebbe essere quella di

segnalare in alcuni casi il paziente di verbi monovalenti pazientivi (P di VP), come

riporta Vovin (1997; 2005). L'allineamento morfosintattico di base del giapponese

antico sembrerebbe essere stato infatti nominativo-accusativo – come affermano Wrona

e Frellesvig – ma all'interno di esso si troverebbero alcune rare costruzioni attivo-

stative, in cui wo, oltre a marcare il paziente di verbi bivalenti (P di VAP), marcherebbe

anche il paziente di verbi monovalenti pazientivi in rare e atipiche costruzioni ad

allineamento attivo-stativo399. L'esempio più evidente di questo utilizzo di wo è la

costruzione in -mi: in essa, wo segnalerebbe l'attante unico del “quality stative verb”,

espressione che Vovin utilizza per definire l'aggettivo che funge da predicato pazientivo.

Come il criterio pragmatico della specificità determina la presenza di wo nel marcare

l'oggetto di una frase transitiva, anche in queste costruzioni attivo-stative sembrerebbe

che wo nel marcare il paziente alterni con ø sulla base dello stesso criterio: il parametro

della specificità del paziente sembrerebbe poter essere infatti utilizzato per giustificare

l'alternanza wo-ø nella costruzione in -mi.

In conclusione si può quindi provare a tracciare lo sviluppo delle funzioni della

particella wo a partire dalle prime fonti scritte. Come si è visto, secondo un gruppo

nutrito di studiosi come Hashimoto, Konoshima e Shibatani, wo non avrebbe avuto già

una forte connessione con l'oggetto sin dal periodo Nara e Heian, ma sarebbe stata

utilizzata solo in funzione enfatica o interiezionale: il suo ruolo sarebbe stato in origine

quello di una interiezione esterna, pian piano grammaticalizzatasi nella marca

dell'oggetto diretto in uso oggi. Se così fosse, le occorrenze della particella wo in

funzione esclamativa o interiezionale dovrebbero essere un numero molto alto nelle

prime attestazioni. Invece, se escludiamo studi in cui ogni occorrenza di wo viene

interpretata in modo arbitrario e soggettivo come Hashimoto (1969) e che quindi non

permettono una suddivisione netta, si trovano ricerche che testimoniano come le

399 Secondo alcuni studi, infatti, l'allineamento attivo-stativo sarebbe presente in gradi diversi in tutte lelingue: si potrebbe quindi spesso identificare una lingua come appartenente ad un tipo accusativo oergativo di base, all'interno di cui si troverebbero anche attanti di verbi monovalenti codificati in modoatipico. Questa proposta è stata formulata da Bickel e Nichols, si veda §4.1.1.

219

Page 221: Origine e funzioni della particella giapponese wo

occorrenze di wo interiezionale non fossero affatto numerose nella lingua antica: Kondō

(1980) riconosce solo 13 occorrenze della particella wo in questa funzione all'interno di

tutti i testi di epoca Nara, mentre Vovin (2009b), concentrandosi solo sul Man'yoshu, ne

identifica appena quattro e afferma anche che a tre di esse si potrebbe attribuire un

valore grammaticale (ma, come visto in §2.2.1, anche il quarto esempio potrebbe essere

ricondotto a una funzione concreta di espressione del tempo continuato). L'utilizzo

interiezionale sembrerebbe quindi essere in realtà molto raro nelle prime attestazioni

scritte del giapponese antico, mentre l'utilizzo in funzione di marca dell'oggetto (se

specifico) è ben più frequente. L'utilizzo interiezionale appare molto più

frequentemente, e incontrovertibilmente, nei testi di epoca Heian per poi regredire fino

alla scomparsa nei periodi successivi: si potrebbe allora ipotizzare che in realtà la

funzione originaria non fosse affatto quella interiezionale, ma piuttosto quella

pragmatico-grammaticale di marca dell'oggetto specifico. Come avviene

frequentemente con i morfemi la cui funzione sia marcare l'oggetto, questa particella

avrebbe avuto anche un valore esclamativo che divenne molto diffuso solo nei testi del

periodo Heian. Nella funzione di marca dell'oggetto, la sua presenza nel periodo Nara –

come detto (§4.2) – era determinata dal criterio pragmatico della specificità dell'oggetto,

mentre sembra che nel periodo Heian questo criterio non sia più l'unico parametro in

base al quale si manifesta l'alternanza wo-ø: è possibile che fossero entrati in gioco

anche differenti elementi, ad esempio il criterio semantico dell'animatezza, che, insieme

ai criteri pragmatici di definitezza e specificità, è il parametro che più comunemente

influenza la marcatura differenziale dell'oggetto. Nel periodo Heian quindi wo marca

oggetti umani, animati, referenziali: è solitamente utilizzata con i pronomi e in presenza

di referenti particolari come l'imperatore o i partecipanti al discorso400. La sua

grammaticalizzazione, nella lingua scritta e nei registri più formali della lingua, si ha

proprio a partire dal periodo Heian, sotto la spinta della pratica del kanbun-kundoku (il

cui linguaggio tende ad essere più esplicito e ad essere caratterizzato da meno elisioni) e

della grammaticalizzazione di altre particelle come ga e no. Molto interessante risulta a

400 Sadler (2002: 250) correttamente nota che questi elementi possono essere connessi alla nozione didiscourse-manipulability di Hopper&Thompson (1984: 711). Manipolabili sono definiti quei referentila cui identità è continua nel tempo (continuity of identity) e hanno importanza nel discorso.

220

Page 222: Origine e funzioni della particella giapponese wo

questo proposito la ricerca effettuata da Miyagawa401, che mette a confronto i testi dello

Heike Monogatari (nella versione del 1371) e dello Amakusa Heike, testo che contiene

quasi tutto il racconto dello Heike e che venne ideato da Fabian Fucan (1565-1621) nel

1592 come libro di base per l'insegnamento del giapponese ai missionari. Lo studio di

Miyagawa mostra un'ampia tendenza al maggiore utilizzo di wo nel testo dello Amakusa

Heike: 1430 occorrenze di wo nello Heike sono riportate anche nello Amakusa Heike,

mentre 400 occorrenze del morfema ø nello Heike sono invece sostituite da wo nello

Amakusa. Ad una conclusione simile giunge anche Sadler402, che mette in parallelo tre

versioni del Genji Monogatari: l'originale testo del periodo Heian ad opera di Murasaki

Shikubu, una versione incompleta del 1723 e una terza versione del 1964 ad opera di

Tanizaki Jun'ichirō (1886-1965). Sadler nota che nelle parti in prosa la versione

originale del Genji presenta nel 73% dei casi la particella wo (il morfema ø è presente

nei restanti 27% dei casi), nella versione del 1723 le occorrenze di wo sono circa l'80%

del totale, mentre nella versione di Tanizaki sono il 96% del totale. Simili sono anche le

percentuali connesse alle parti dialogiche: anche in esse Sadler nota un graduale

incremento di occorrenze di wo a marcare l'oggetto. Per chiarezza si riporta lo schema

di Sadler delle occorrenze di wo nelle parti in prosa:

wo ø

Genji originale 72,6% 27,4%

Genji 1723 80,6% 19,4%

Genji 1964 96,4% 3,6%

Gli studi di Sadler e Miyagawa ben testimoniano il graduale incremento delle

occorrenze di wo con il passare dei secoli nei testi scritti. Nel parlato spontaneo però

ancora oggi la particella wo tende ad alternare con ø, e alcuni studi testimoniano anche

che in realtà è il morfema ø la marca più comune dell'oggetto diretto nel giapponese

parlato, piuttosto che la particella esplicita wo. Ad esempio, Aissen403 riferisce che nel

parlato informale la particella wo tende ad essere elisa in presenza di oggetti inanimati e

401 Miyagawa (2012: 235 ss.). Miyagawa si rifà alle ricerce di Suzuki, che aveva studiato le differenzefra i due testi dello Heike e dello Amakusa Heike.

402 Sadler (2002: 253 ss).403 Aissen (2002: 29-31), che cita lo studio di Fry.

221

Page 223: Origine e funzioni della particella giapponese wo

indefiniti, mentre l'espressione esplicita di wo è più frequente con oggetti animati e

definiti. Una frequenza altissima di elisione di wo è messa in luce da ulteriori due studi.

Il primo è la ricerca di Endo Hudson, Sakakibara e Kondo404, che mostra che una media

di due oggetti su tre non vengono marcati nel giapponese colloquiale. A conclusioni

simili giunge lo studio di Ono e Fujii405, secondo i quali nel giapponese parlato si

tendono a marcare esplicitamente circa il 30% degli oggetti diretti, mentre il restante

70% non viene marcato. I parametri che, secondo Ono e Fujii, determinerebbero

maggiormente la presenza della particella wo sono fattori come la referenzialità

dell'oggetto e la salienza e importanza nel discorso (se l'oggetto fungerà poi da topic o

esprime informazioni fondamentali che il parlante vuole sottolineare). Si è di fronte,

quindi, anche nel giapponese colloquiale moderno, ad una marcatura differenziale

dell'oggetto basata su fattori pragmatici (Ono e Fujii), ma anche in parte semantici

(Aissen): anche in questo caso, la marca dell'oggetto non ha funzione esclusivamente

grammaticale, non essendo obbligatoria.

Il fatto che la sua presenza sia determinata da fattori pragmatico-semantici è forse il

motivo per cui Tokieda Motoki406 sostiene che “wo viene utilizzata quando viene

identificato qualcosa che contrasta fortemente con il verbo, quindi piuttosto che un caso

logico, si dovrebbe dire che esprime un caso emotivo”. Similmente, è questo valore

pragmatico che permette a Miller – come visto nell'introduzione – di definire wo quale

marca di un “emphatic object”, adducendo l'esempio dell'opposizione hon wo kaku

'scrivere un libro (nel particolare)' e hon kaku 'scrivere libri (in generale)'407. Ed è

probabilmente questo utilizzo anche pragmatico delle particelle che ha permesso a

Rodriguez408 di definire le particelle “articoli”, intendendo forse che grazie alla

presenza/assenza di esse si segnalasse anche la definitezza del sostantivo. La particella

wo, in definitiva, a partire dalle prime attestazioni del giapponese antico fino ad arrivare

alla lingua colloquiale dei giorni nostri, non ha una funzione esclusivamente

grammaticale, eccezion fatta per la lingua scritta formale (in cui si è grammaticalizzata):

essa viene assegnata chiaramente con limitazioni di tipo grammaticale ma su base

404 Citata in Wrona&Frellesvig (2009: 575).405 Fujii&Ono (2000: 7).406 Tokieda è citato in Kondō (1980: 63). Anche qui, la traduzione è mia.407 Miller (1971: 27).408 Rodriguez (1604: 11), di questo fatto si era già parlato in §1.2.

222

Page 224: Origine e funzioni della particella giapponese wo

pragmatica, ed è connessa a criteri come la referenzialità, l'identificabilità, la

definitezza, l'importanza nel discorso409. Questo testimonia ancora una volta che la

categoria del “caso” grammaticale (accusativo, in questa circostanza, ma discorso

analogo si può fare in connessione al nominativo e alla particella ga) non può affatto

essere applicata al giapponese: le particelle giapponesi non esprimono nettamente valori

grammaticali, in quanto alla funzione grammaticale spesso si sovrappone un valore

pragmatico che l'etichetta “accusativo” o “nominativo” non riuscirebbe a convogliare.

409 Nei termini di Sadler (2002b: 76) "discourse salience" e "thematic importance”.

223

Page 225: Origine e funzioni della particella giapponese wo

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