Mar 22, 2016
BENITO GAGLIARDI
ONORA TE STESSO
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Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata
ONORA TE STESSO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6307-658-5 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2014 Stampato da
Logo srl Borgoricco - Padova
Il dialetto utilizzato all’interno del romanzo non è quello
corretto. L’intento è di rendere le frasi in napoletano quan‐
to più comprensibili, sperando che nessuno si offenda.
Il mondo è iniquità:
se lo accetti sei complice, se lo cambi sei carnefice.
Jean‐Paul Sartre
A chi ha letto il mio primo libro e
a Maria Francesca
che rende belle le giornate anche quando non lo sono
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I MORTI
Oroscopo del 2 novembre:
“Cancro: la settimana che sta per iniziare non sarà delle
migliori. Venere e Saturno non sono dalla vostra parte.
Soffrirete di mal di testa e avrete dolori diffusi per tutto il
corpo. Se dovete concludere affari o investimenti rinviate
tutto, altrimenti rischiereste di fare un grosso buco
nell’acqua. In amore potrebbero esserci incomprensioni
con il vostro partner. Il nostro consiglio è: giocate in dife‐
sa.”
È probabile che se avessi sentito prima il mio oroscopo
non sarei partito. Avrei senz’altro rinviato. Oltretutto non
riesco a spiegarmi perché mi sia messo contro sia Saturno
sia Venere. Eppure non gli ho fatto nulla. Del resto è così
che va per tutti:
Abbiamo bisogno dei quiz per sapere chi siamo.
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Abbiamo bisogno dei tarocchi per sapere se siamo inna‐
morati. Abbiamo bisogno degli sceneggiati televisivi per
piangere. Abbiamo bisogno dell’ordine del nostro capo
per lavorare. Siamo schiavi degli eventi e ci arrendiamo al‐
la loro forza. Obbediamo senza alcun segno di ribellione
ai capricci del fato. Siamo convinti di avere dei nemici e di
essere in guerra chissà con chi o cosa. Siamo sicuri che le
nostre disfatte derivino da qualche forza superiore che si
diverte a prendersi gioco di noi, ma il vero demone è den‐
tro di noi. È lì che si gioca la partita.
Subito dopo aver sentito l’oroscopo, cambio la stazione
radio e pesco dal cilindro un pezzo di Cocciante che fa‐
rebbe venire i brividi perfino ascoltarlo in una sauna:
“Sincerità, questo è il nome che io vorrei dare a te”.
Hai presente quando guidi e viene fuori una canzone che
vorresti tanto cantare, ma non riesci a pronunciare una
sola parola altrimenti piangi? Ecco, non è proprio quello
che mi sta succedendo, ma ci siamo vicini.
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«Allora ditelo che vi siete messi d’accordo per rompermi il
cazzo stamattina!»
Se ci fosse stata mia figlia Rosaria avrebbe risposto: “Ma
serio.”
Sul sedile di fianco a me c’è Nicola “Dom Pérignon” e la
sua affermazione è decisamente migliore di quella che a‐
vrebbe avuto mia figlia: «Gennà, ma non stai buono o’
frat?».
Il mio dito magico continua a pigiare lo stereo e pesca un
altro capolavoro degli anni sessanta, che fa: “Stasera mi
butto, stasera mi butto, mi butto con te”. La canto a mo‐
do mio e la trasformo in: «Stasera mi butto, stasera mi
butto, ca capa into cess».
«Vabbè, ma allora è confermato che non stai buono, Gen‐
nà» mi dice Nicola.
Conobbi Nicola in occasione della morte di mio padre.
Serviva un loculo e il cimitero di Secondigliano era pieno.
Il problema del posto a Napoli è molto sentito. Anche nel
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cimitero è difficile trovarne uno. Non c’erano loculi nem‐
meno a pagarli oro. Mi resi conto che a Napoli bisogna
avere le conoscenze pure dopo la morte. È difficile addi‐
rittura riposare in pace se muori in una città come questa.
Non mi feci scrupoli sulle attività losche poste in essere da
Dom Pérignon. Del resto mia madre mi aveva sempre ri‐
petuto: «Bisogna farsela con tutti, Gennaro mio. Coi buoni
e coi cattivi!».
Dom Pérignon si presentò all’appuntamento presso il bar
La Ghirlanda, di fronte al cimitero. La prima cosa che notai
furono i suoi numerosi tattoo sulle sue braccia muscolose
e il suo ciuffo alla Little Tony. Dom Pérignon mi spiegò che
in quel periodo non era affatto semplice trovare un locu‐
lo.
«Gennà,» disse «se vuoi seppellire tuo padre ci devi dare il
formaggio, bisogna organizzare lo sfratto.»
«Che c’entra lo sfratto col funerale di mio padre?»
«Gennà, non fare l’indiano. Per avere un loculo, occorre
che qualcun altro sia sfrattato. Dobbiamo fare l’indagine.»
«L’indagine?»
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«Gennà, facci lavorare. Dobbiamo capire quale loculo
possiamo sfrattare. Si sfrattano i morti che non ricevono
più visite. Capiscimi…»
Dovetti sborsare ottomila euro per seppellire mio padre.
Inoltre, da allora, per difendere l’investimento, compro
due mazzi di fiori tutte le domeniche per evitare che an‐
che mio padre possa essere sfrattato.
Giunti all’aeroporto, Dom Pérignon mi fornisce le ultime
istruzioni. Dovrò essere discreto e non appena giunto a
Marrakesh dovrò chiamare Nino D’Angelo. «È così che si
fa chiamare il nostro contatto» mi spiega Dom Pérignon.
Subito dopo, Dom Pérignon mi saluta alla svelta, metten‐
domi un bigliettino nel taschino della giacca.
Ho preso molte volte l’aereo, eppure tremo come la pri‐
ma volta. Hai presente quando la paura ti afferra le gam‐
be e le braccia e non ti permette di muovere gli arti? Ecco,
sto provando qualcosa di simile in questo momento.
Fosse per me, limiterei al massimo l’uso di questo mezzo,
ma c’è il matrimonio di mia figlia da organizzare e ho do‐
vuto richiedere nuovamente l’aiuto di Dom Pérignon. A
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Napoli i matrimoni sono una questione di onore. Bisogna
mostrare al quartiere la ricchezza di famiglia, anche quella
che non c’è. Soprattutto quella. Organizzare un matrimo‐
nio a Napoli costa in media sui quarantamila euro. Risto‐
rante, bomboniere, viaggio di nozze, chiesa, fiori. Non ci si
può accontentare. Non si può fare a meno di nulla. I ma‐
trimoni sono un vero business a Napoli. Il prezzo delle
chiese può arrivare fino a mille euro. Tuttavia, la tassa del
vicariato non dovrebbe superare i duecentocinquanta eu‐
ro circa. Per non parlare dei ristoranti. Un pranzo costa
dai settanta ai centocinquanta euro per persona. Se anda‐
te a mangiare nello stesso ristorante in un’altra occasione
non spenderete più di quaranta euro per un pranzo, ma è
una questione di prestigio. Si rischia di perdere credibilità
all’interno del quartiere se non ci si sposa in questo modo.
Anche volendo, non potremmo fare diversamente. Sa‐
rebbe una vergogna.
Appena varco la porta dell’aeroporto, mi viene un dolore
allo stomaco e alla vescica e sono costretto ad andare in
bagno.
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Le porte delle turche sono tutte chiuse, porca miseria. Di
fronte alle porte c’è un orinatoio libero, ma non ci riesco.
Ho la sensazione che chi pisci lì, lo faccia perché vuole
guardarti il pisello. Uno potrebbe pensare che non mi va‐
da che me lo guardino perché ce l’ho piccolo, ma la verità
è che provo fastidio al solo pensiero che un altro uomo
me lo guardi e magari si ecciti. E poi fateci caso, sono
sempre i vecchietti e i tipi strani a pisciare all’aperto. Co‐
me cazzo si fa a pisciare avendo due tizi, uno alla tua sini‐
stra e un altro alla tua destra che buttano l’occhio sulle
tue parti basse, me lo dite?
Questo specchio è poco benevolo con me. Mica ho la
fronte così larga; anche la stempiatura è accentuata.
Nemmeno la pancia è così come appare. Farò un reclamo.
“Gennà, fai proprio schifo. Ti devi dare una regolata.”
“Che cazzo vuoi?” mi rispondo.
“Mangi come un turco in calore. Hai fatto la stessa panza
di Maurizio Costanzo.”
“Guarda a te” mi rispondo.
“Ma te sono io” mi ridico a mia volta.
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“Ucciditi” mi dico.
Manca ancora una mezz’oretta prima dell’imbarco, così
compro Cronache di Napoli e mi metto a sedere. Di fronte
a me c’è un uomo ben vestito che legge Il Sole 24 Ore. Mi
hanno sempre affascinato le persone che leggono quei
giornali. Ho sempre pensato che avessero un’intelligenza
fuori del comune. Io non ci capisco un tubo. Una volta ho
provato ad acquistarne uno prima di un viaggio in treno.
Volevo darmi un tono. Naturalmente, dopo dieci minuti
ero già con gli occhi concentrati sul mio Cronache di Na‐
poli.
«Come va la borsa oggi?» gli chiedo.
«Il guaio in Italia è che nessuno fa ciò che sa. A vendere i
titoli ci mettono persone che conoscono poco o nulla di
ciò che vende. E peggio ancora chi acquista lo fa solo per
la mania del “gioco”» risponde lui.
«Dottò, è la storia di tutti i giorni. Nessuno fa ciò che sa
fare. È la malattia dei giorni nostri questa. Che ci volete
fare?»
«Lei forse ha ragione.»
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«Dottò, dove siete diretto?»
«Milano.»
«Andate dove stanno i soldi veri, dottò.»
«I soldi non esistono più. Ormai siamo nell’era della carto‐
larizzazione.»
«E che significa? Parlate potabile, dottò.»
«Lasciamo stare. Io la saluto che finalmente inizia il mio
imbarco.»
«Buon viaggio, dottò.»
«Anche a lei.»
Purtroppo sta per iniziare anche il mio d’imbarco e non ho
più la compagnia del genio della finanza. Mi sarei sentito
più al sicuro se avessi viaggiato con lui.
Alla fine le persone che leggono Il Sole 24 Ore in un modo
o nell’altro riescono sempre a cavarsela. Mio padre sa‐
rebbe fiero di me se mi sentisse pronunciare queste mas‐
sime.
Sull’aereo faccio giusto in tempo a sedermi e ingoio subi‐
to il mio calmante. Il mio posto è il migliore. Sono nella
prima fila e posso tranquillamente stendere le gambe
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senza che qualcuno si giri e mi faccia capire senza dirmi
niente che gli do fastidio. Roba che ti viene da dirgli:
«Parla, deficiente, cosa vuoi dirmi con questa occhiata?
Caccia le palle.»
Al che lui mi risponderebbe probabilmente che sono un
maleducato e a questo punto si aspetterebbe di tirare a‐
vanti con la discussione fino a quando le hostess non ci ri‐
chiamassero. Invece io, sì che saprei come sorprenderlo.
Per fortuna sono in prima fila e non dovrò discutere con
nessuno. Dopo un po’ le hostess preparano il loro teatrino
e iniziano a pigliarci per il culo con la menata del salvagen‐
te e della mascherina per l’ossigeno. Una di loro parla al
microfono e l’altra mima. Mentre loro continuano questo
spettacolo penoso la maggior parte delle persone legge il
giornale, qualcun altro spegne il cellulare, altri ancora
chiudono gli occhi cercando di pensare ad altro.
Io invece butto giù un altro calmante. Tanto se succedes‐
se qualcosa, moriremmo tutti, con o senza salvagente.
Con o senza mascherina. Oggi è il giorno dei morti. “Quale
giorno migliore per aggregarsi al club?” penso tra me e
me. Mi viene in mente che non sono andato a trovare mio
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padre e mi prende un pizzico di senso di colpa. Ricordo
ancora il giorno in cui è morto. Mi ripetevano tutti le stes‐
se cose: «Gennà, però si è fatto una bella vecchiaia».
«Gennà, ha campato assai.»
«Gennà, aveva un’età.»
Nessuno ebbe compassione per il mio dolore. Quando
una persona anziana muore, sembra che non si debba
soffrire. Sembra che non si abbia il diritto di piangere. Mio
padre era un uomo semplice e silenzioso, ma soprattutto
era un gran lavoratore. Una vita intera passata a lavorare
senza mai farsi passare un vero sfizio.
Mio padre era felice solo la domenica mattina: sfoggiava
sempre l’abito e metteva anche la cravatta. Sarà che la
cravatta mette in pace con il mondo, ma lui era contento
quando la indossava. Aveva le mani nere e logorate dalla
fatica, ma se non ti soffermavi su quei dettagli sembrava
davvero un gran signore, mio padre, la domenica mattina.
Il pranzo domenicale gli metteva gioia, e dopo essersi sco‐
lato una bottiglia di vino iniziava anche a parlare.
Di solito stava zitto. Quando tornava da lavoro mangiava
e andava a letto subito dopo senza dire una sola parola.
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La domenica, invece, dopo aver bevuto iniziava a ridere, a
parlare e a raccontare qualche aneddoto della sua vita. Il
più delle volte ci raccontava qualche episodio capitatogli
durante la guerra e noi tutti pendevamo dalle sue labbra.
Perché la guerra è affascinante e chi dice il contrario è un
depresso imbottito di psicofarmaci. Poi, però, perdeva il
controllo della situazione e finiva per alzare le mani su no‐
stra madre.
Il pomeriggio lo passava russando e scoreggiando sul di‐
vano, ma quando la sbronza gli passava ci portava a Mer‐
gellina a mangiare il gelato. Lui e mamma, invece, man‐
giavano i taralli o la trippa. A dire il vero anch’io ero felice
la domenica. Mi piaceva vedere la famiglia unita e mio pa‐
dre che tentava goffamente di fare il padre. Quando si fa‐
ceva sera, da Mergellina si vedevano tutte le luci di Posil‐
lipo e soprattutto si vedeva la chiesa di Sant’Antonio tutta
illuminata. Era un vero spettacolo. Mia mamma mi rac‐
contava che era il paradiso e che in quella chiesa abitava‐
no Gesù, la Madonna e tutti i santi. «E Dio dove vive?» le
chiedevo. Lei mi rispondeva che Dio è ovunque a vegliare
su di noi. Sono queste piccole bugie che ti fanno sembra‐
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re il mondo meraviglioso, anche quando sei piccolo. Oggi
non sono andato a trovarlo e mi sento una merda. L’ho
trattato come una cosa vecchia anch’io. Si sarà offeso. Hai
voglia a comprargli i fiori tutte le settimane. Sta sempre lì
a metterti il muso. Sempre a rimproverarti qualcosa. Quel
loculo mi è costato una fortuna, ma mica lo apprezza. Do‐
vrei pensare solo a me, ma con il cazzo che ci riesco. Ci sta
poco da fare, l’unico comandamento da rispettare è: ono‐
ra te stesso.
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MARRAKESH
Oggi mi sento da Dio. Ci sono giorni in cui ci si sente in pa‐
ce con il mondo. In giorni come questi, nonostante la mia
artrosi, sarei capace di dribblare e fare un sombrero con
tunnel in omaggio ad Aronica. Mi chiederete dove sta la
difficoltà, ma il concetto lo avrete afferrato. Il più delle
volte finisce che in questi giorni qui non ti capita nulla.
Quelli, i guai e gli imprevisti, sono organizzati, che vi cre‐
dete? Escono fuori proprio quando vi sentite una merda.
Mica sono fessi.
Appena dopo l’atterraggio sono vittima di un attentato. È
l’afa che mi mette due mani alla gola e mi soffoca. Avevo
letto che a novembre il clima è ideale. Non oso immagina‐
re ad agosto.
Vedendo l’aeroporto, capisco che a Napoli non siamo
messi poi tanto male. Il nostro guaio è che siamo sempre
a lamentarci. Ci accorgiamo di quanto è bella la nostra
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terra solo quando siamo lontani da lei. Perfino gli artisti
provano la stessa sensazione. Bovio non avrebbe mai
scritto Lacrime napulitane se non si fosse allontanato da
Napoli per un periodo. Sergio Bruni e Mario Merola non
l’avrebbero mai cantata. Sono sicuro che Bovio, prima del‐
la partenza, andava al bar a lamentarsi con gli amici. Si
lamentava del fatto che Napoli non offriva nulla. «Non c’è
un lavoro, i servizi non funzionano. Bisogna abbandonare
Napoli per costruirsi un futuro diverso» ripeteva ai suoi
amici.
Qualche giorno dopo la partenza, la nostalgia l’avrà preso
per il cravattino e costretto a scrivere questa bellissima
canzone per farsi perdonare. Chissà se è andata veramen‐
te così. E poi che l’ha scritta Bovio l’ho letto su una rivista
che qualcuno ha dimenticato in aereo. Ero convinto che
l’avesse scritta Sergio Bruni quella canzone. Del resto è
così che funziona. Il gol è di chi lo segna, mica di chi lo co‐
struisce.
Prima di prendere il taxi mi ricordo del bigliettino che
Dom Pérignon mi ha messo nella camicia e chiamo Nino
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D’Angelo. Mi dice di raggiungerlo fuori dall’Hotel Marra‐
kesh.
Devo trattare con diversi tassisti appostati fuori
dall’aeroporto prima di trovare qualcuno disposto ad ac‐
compagnarmi all’hotel per quindici euro.
Durante il tragitto, il tassista cerca di vendermi
l’impossibile, senza riuscirci naturalmente. Quando arri‐
viamo nei pressi del centro, ci imbattiamo in vicoletti a dir
poco angusti. Alla nostra destra e alla nostra sinistra
sfrecciano motorini e asini. Gli asini non hanno la targa. E
nemmeno i motorini. Ci caricano di tutto su questi asini.
Altro che Suv. Mi sembrano dei gran lavoratori questi ma‐
rocchini. Non capisco perché quando vengono da noi si
mettono a pulire i vetri ai semafori. I più volonterosi si
mettono a vendere i fazzolettini, ma in generale sono dei
fannulloni, diciamocela tutta.
Arrivato fuori dall’Hotel, vedo diversi uomini sostare nei
dintorni, ma d’italiani non c’è traccia. Poi mi sento pren‐
dere sottobraccio. &ÉÎÅ ÁÎÔÅÐÒÉÍÁȢ &ÉÎÅ ÁÎÔÅÐÒÉÍÁȢ #ÏÎÔÉÎÕÁȢȢȢ