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DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
DomenicaLadi Repubblica
il fatto
Theodor Herzl, messia tragicoSANDRO VIOLA
la memoria
Io, l’ultima dama di compagnia
la lettura
EMILY DICKINSON e NADIA FUSINI
cultura
spettacoli
Il libro dei desideri dei grandi del jazzCONCITA DE GREGORIO
l’immagine
L’Eur ovvero la fabbrica del potere
CARLO BONINI
ROMA
Dice Antonio: «Ti hanno mai pisciato addosso? Vogliodire, hai
idea di che cosa significhi sentirti zuppo dellapuzza di qualcuno
che si tira fuori l’affare e si svuotasulla tua testa, mentre hai
l’ordine di startene immo-bile, con il tuo casco e la tua tuta, nel
boccaporto di una curva, perchéaltrimenti, il lunedì, dicono che
sei stato un irresponsabile a semina-re il panico tra chi sta
guardando la partita? Eh? Ne hai un’idea? A meè successo nello
stadio di Perugia un paio di anni fa e sento ancora iltanfo».
Antonio, quarantotto anni, è una “guardia”. Come
Filippo,trentanove, e come Lorenzo, trentacinque (sono nomi di
fantasia cheproteggono le loro reali identità, note a Repubblica).
Un «servo dei ser-vi dei servi», come gli cantano nelle piazze e
negli stadi del nostro Pae-se. È un “celerino” della polizia di
Stato, in servizio in un importantereparto mobile. Filippo scherza:
«Almeno il piscio è ignifugo e non tihanno “acceso” come Lorenzo».
È successo a Genova, nel luglio di seianni fa. In piazza Tommaseo.
I giorni del G8. Una molotov. Lorenzoposa il boccale di birra che
sta bevendo, si alza come un Cristo in cro-ce: «Qui. Mi è arrivata
qui, sul petto. Un paio di secondi e non vedi piùun cazzo, perché
la retina è accecata dalla vampata. Senti solo le urladei colleghi
che ti stanno intorno e, usando le mani e gettandoti perterra,
pensi a fare alla svelta quello che ti hanno insegnato per
spe-gnerti da solo e non accendere chi ti sta intorno».
(segue nelle pagine successive)
Tirauna brutta aria di scontro generazionale. Ragazzi con-tro
poliziotti. L’area “antagonista” è carica di risenti-mento per i
fatti del G8: una brutta pagina, esplorata mal-volentieri,
raccontata peggio, fra reticenze, mezze am-missioni e bruschi
ripensamenti. Fra quelli che due domeniche fahanno devastato mezza
Italia non mancavano i simpatizzanti dell’e-strema destra. In
molti, troppi ragazzi, dominano diffidenza, ranco-re, astio, e, per
usare una delle parole più amate delle curve “nere”,rabbia. E, dopo
i tragici fatti di Arezzo, ragazzi che non hanno maiesercitato, in
vita loro, nessuna forma di violenza, canticchiano sar-casticamente
sparatece addosso sparatece a tutti. Nello stesso tempo,chi lavora
quotidianamente a stretto contatto con la polizia non puòche
apprezzarne l’alta professionalità, e compiacersi per certi
risul-tati eccellenti, come la cattura dei latitanti o la
risoluzione (ad onta delchiacchiericcio dei salotti mediatici) di
complessi casi criminali.
Ma ci si può rassegnare a un’immagine così schizofrenica? Da
unaparte la polizia buona, sana, efficiente e per giunta così
democraticache ti cattura il capobastone senza sparare un colpo né
sporcarsi lemani nemmeno con un amichevole buffetto. Dall’altra le
asprezzedella strada, la repressione, il manganello, l’immancabile
(e pun-tualmente ricorrente nella storia patria) pallottola
vagante. La stra-da. Che ha le sue leggi, le sue regole non scritte
e persino la sua lingua.
(segue nelle pagine successive)
Vitapoliziotto
daF
OT
O A
GF
FILIPPO CECCARELLI e MASSIMILIANO FUKSAS
NICOLA CARACCIOLO e HORTENSE SERRISTORI
Le mappe del Paradiso in TerraALBERTO MANGUEL e AGOSTINO
PARAVICINI BAGLIANI
L’erbario segreto di Emily Dickinson
GIANCARLO DE CATALDO
“Ma a noi nessuno chiede scusa”Ecco chi sono e cosa pensanoi
celerini nel mirino degli ultras
Repubblica Nazionale
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la copertina
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
(segue dalla copertina)
«Se, come me quel gior-no, hai il culo di indos-sare una tuta
ignifuga enon perdi la testa, restivivo e con la pelle concui ti ha
messo al mon-
do tua madre. Se no, bene che ti vada, ti ri-trovi scuoiato dal
calore».
Antonio, Filippo e Lorenzo guadagnanomilletrecento euro netti al
mese. Più o me-no il soldo di un operaio specializzato. Do-vrebbero
lavorare sei giorni su sette, sei oreal giorno, ruotando su quattro
turni (07-13; 13-19; 19-01; 01-07). Dovrebbero. Di-cono non vada
mai così. «Lavori fino aquando c’è bisogno. Sai, forse, quando
co-minci. Non sai mai quando stacchi». Perogni ora di
straordinario, sei euro. La do-menica, dodici euro forfettari.
«Che, in bu-sta paga, vedi dopo quattro o cinque me-si». Nessuno li
ha costretti a infilarsi in unatuta da ordine pubblico. Né la fame,
né l’a-nalfabetismo, né il luogo di nascita. DiceAntonio: «Se i
ragazzi mi permettono, vistoche ho i capelli bianchi e ho
cominciato nel‘79 nel reparto mobile di Padova, ti dico: di-mentica
Pierpaolo Pasolini. I suoi celerininon esistono più. Quando ero un
ragazzi-no, nei mezzi che ti portavano in piazza ein cui aspettavi
non doveva volare una mo-sca e, se proprio trovavi qualcosa da
legge-re, era qualche giornaletto porno. Oggi, neinostri Ducato, i
colleghi ciattano sui por-tatili, leggono quotidiani, ascoltano
l’i-pod. Non lo vuole capire nessuno. O forsefanno finta di non
capirlo, perché fa co-modo per poterci dare allegramente
deisubumani. Sia quando si tratta di fare unpo’ di scaricabarile
nelle nostre gerarchie,sia quando la politica, tutta la politica,
de-stra e sinistra, decide di coprire le provo-cazioni di chi ha
deciso di fare bordello instrada. Respiriamo la stessa aria,
abbiamogli stessi desideri e viviamo immersi negli
prio nazista. Beh, dopo un servizio si attac-carono di brutto. E
non ti sto a dire cosauscì dalle loro bocche. Dopo di allora, li
hovisti difendersi e proteggersi in piazza co-me fratelli. Forse
perché la strada gli avevamostrato il volto ipocrita della politica
econ lei quello delle scelte di ordine pubbli-co». Racconta
Antonio: «Accade che all’i-nizio di una settimana veniamo messi
diservizio a una manifestazione di antagoni-sti e ce ne stiamo a
fare da spettatori men-tre qualche decina di dementi fa la
spesaproletaria in un supermercato. Accade in-fatti che l’ordine è
quello di assistere im-mobili. Di non provarci neanche a
farlismettere, perché la direttiva è non cederealle provocazioni.
Io il furto lo chiamo rea-to e sarei anche un ufficiale di polizia
giu-diziaria, ma tant’è. Non sono nato ieri. Be-ne, passano un paio
di giorni e ci ritrovia-mo in piazza Montecitorio, con gli
operaidel Sulcis. Hai presente, no? Ragazzi e pa-dri di famiglia
che si fanno il culo duecen-to metri sotto terra, lasciandoci un
pezzodi vita ogni giorno, per portare a casa me-no soldi del
sottoscritto. Va tutto bene, fin-ché uno di questi operai che
chiedevanoinutilmente di essere ricevuti nel palazzodella politica
ha l’idea di scavalcare unadelle transenne che proteggono la zona
dirispetto della piazza. Non l’avesse mai fat-to. Riceviamo
immediatamente l’ordinedi caricare e facciamo a pezzi quei
pove-retti. Uno dei miei, alla fine, piangeva. Si èavvicinato a uno
degli operai più malcon-ci e gli ha dato il suo sacchetto con la
robada mangiare. Volevano metterlo sotto pro-cesso disciplinare.
Dopo una settimanacosì, pensi significhi qualcosa dire sono
didestra o di sinistra?». Filippo annuisce:«Per non parlare di
certi parlamentari. Ar-rivano alla testa dei cortei con il
tesserinoin mano e capisci che sta per cominciareuna recita che
umilia tutti. Ti racconto unastoria soltanto, l’ultima. Sgombero
dei ru-meni a Roma. Li raccogliamo nelle barac-copoli e ne
concentriamo un po’ nell’uffi-cio per il decoro urbano della Ama, a
Pon-
CARLO BONINI
“Noi, servi dei servi dei servi”
MANGANELLONon è il controverso “Tonfa”
in dotazione ai carabinieri
Di gomma flessibile, va usato
in parallelo al terreno
SCUDODi plastica trasparente,
in due formati, può essere
spezzato dal lancio di una
bottiglia piena d’acqua
CASCOIn fibra di vetro, con celata
integrale. Va indossato
all’ultimo momento
utile prima delle cariche
PISTOLAÈ la Beretta calibro nove
per ventuno di ordinanza,
custodita in una fondina
speciale anti-disarmo
“Dimenticate Pasolini, i suoi celerini non esistono più”Parlano
tre poliziotti del reparto mobile, quelli che ognidomenica
fronteggiano gli ultras nelle piazze e negli stadi
stessi gran casini di quelli che ci troviamodi fronte nelle
piazze e negli stadi. Il pro-blema dell’affitto. Quello della
“terza setti-mana”. Quello di non far sembrare tuo fi-glio, a
scuola, diverso dagli altri perché al-terna sempre le stesse due
paia di scarpe.Quello di tua moglie che si è rotta di non ve-derti
mai e un giorno la trovi con un altro».
Lorenzo annuisce. Valle Giulia la cono-sce anche lui. Ma non per
Pasolini, che nescriveva quando ancora non era nato. Per-ché ha
mollato la facoltà di architettura alterzo anno, «con tutti trenta
e lode». Cono-sce l’arabo. Ha studiato il Corano. È di de-stra.
«Molto di destra». Come Filippo, lau-reato in scienze politiche, ex
degli “Irridu-cibili”, gli ultras della Lazio. «Quando dissia mia
madre che la facevo finita con la cur-va e che entravo in Polizia,
credo sia stato ilgiorno più bello della sua vita. Peccato
nonsapesse ancora che quel giorno sarebbestato il presupposto di
quello più brutto.Successe la prima volta che le portai a casada
lavare la mia tuta da ordine pubblico. Latirò fuori dal sacchetto e
vide che la schie-na era imbrattata di scaracchi grandi
comepizzette. Si mise a piangere senza avere ilcoraggio di
chiedermi niente». Antoniopreferisce non dire per chi vota. La
mettecosì: «Sono stato per qualche anno nellascorta di Enrico
Berlinguer, ho protettoArafat in uno dei suoi viaggi a Roma,
quan-do lo cercavano americani e israeliani e bi-sognava impedire
che lo facessero sparire.In quel periodo mi davano della
“guardiarossa”. Poi succede che, dopo il G8 di Ge-nova, chiacchiero
con un giornalista di unquotidiano di sinistra. Gli racconto la
miastoria e quello che penso e lui si scusa. Midice che non
scriverà, perché ha bisogno diun celerino fascista. Un poliziotto e
bastanon serviva».
Eppure la politica c’entra. Eccome. Lo-renzo: «Nei reparti trovi
di tutto. Dal co-munista, all’anarchico, a quello che votaDs o
Forza Italia. E spesso ci si scazza. Unavolta mi capitò di trovarmi
con due colle-ghi. Uno era ebreo. L’altro un vero e pro-
Repubblica Nazionale
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te Marconi, dietro il cinodromo, in attesadi trasferirli verso
la frontiera. Arriva l’ono-revole di Rifondazione Francesco
Carusoalla testa di un centinaio di ragazzi. Daquello che si
capisce, vogliono impedirepacificamente il trasferimento dei
rume-ni, bloccando l’uscita dei pullman. E la co-sa, politicamente,
ci sta. Bene, sai che ac-cade? Dopo un po’ si avvicina a noi del
re-parto e dice: “Ma che ve lo devo insegnareio come si fa?
Caricate i rumeni sui vostrimezzi di ordine pubblico e fateli
uscire daun altro ingresso. A quel punto noi ce neandiamo e siamo
tutti contenti”. Siamotutti contenti? Chi è contento di
partecipa-re a una farsa? I rumeni? Noi celerini? I ra-gazzi che
sono venuti lì per impedire losgombero?».
Antonio, Filippo, Lorenzo continuano araccontare, scendendo ogni
volta un gra-dino in più nel loro microcosmo. Filippospiega che,
una volta abbassata la visiera,l’elmo che indossano amplifica i
rumoridella piazza o dello stadio, lasciandoti perore un senso di
ottundimento. Che quel-l’insopportabile e indistinto rumore
difondo, alla fine, ti fa concentrare soltantosul tuo respiro,
trasformandolo in un’os-sessione acustica. Lorenzo dice che quan-do
sei in strada «devi dimenticare chi sei,come ti hanno educato tuo
padre e tua ma-dre, altrimenti diventi pazzo e reagiresticome non
devi». Ma in fondo stanno gi-rando intorno a una verità che fanno
faticaa esprimere, finché Filippo non la rovesciasul tavolo delle
birre che hanno continua-to ad ammucchiarsi per tutta la sera,
comefosse un rigurgito. «Sai che penso davvero?Che l’uomo sano è
nella tuta da ordinepubblico. Che ti devo dire, forse pensoquesto
perché è la mia unica via di uscitapsicologica. Forse perché
l’unico momen-to in cui non mi sento solo in questo Paeseè quando
divido la piazza e gli stadi con imiei colleghi». «È vero», dice
ora Lorenzo.«Perché non può che essere solo chi è ser-vo dei servi
dei servi. Ma servo della possi-bilità che questo Paese resti
democratico.
E vuoi la prova? Domenica 11 novembre, ilgiorno della morte di
Sandri, ero allo stadioOlimpico. Sai quanti dei nostri sono
finitiall’ospedale? Trentasette. A un certo pun-to ci sono venuti
addosso con un’accetta.E, come è noto, avevamo l’ordine di
nonreagire. Lunedì mattina, tutti hanno chie-sto scusa. Il capo
dello Stato, il ministrodell’interno, il capo della polizia.
Tuttihanno giustamente chiesto scusa alla fa-miglia di Sandri.
Qualcuno ha chiesto scu-sa ai reparti celere che a Roma,
Milano,Bergamo, Parma hanno sopportato di tut-to e di più? A quelli
che sono finiti in ospe-dale, come un collega che ha quasi persoun
occhio per una bomba carta? Non hachiesto scusa nessuno. Chiedere
scusa ètroppo? Diciamo allora, qualcuno ha rin-graziato i “servi
dei servi dei servi”? Nessu-no. E allora perché dovremmo meritare
ri-spetto? Perché un ragazzino di quattordicianni dovrebbe capire
che non sta benescrivere su un muro “uno, dieci, cento, mil-le
Raciti”?».
Antonio, Filippo e Lorenzo sono sicuriche i giorni della collera
e dell’odio sonosolo all’inizio. E che la ferita di Genova e delG8,
mai rimarginata, può solo tornare adaprirsi, ad infettarsi della
linfa velenosadegli stadi. A Genova c’erano anche loro.Su Genova,
Filippo sta scrivendo un ro-manzo: «È cominciato tutto lì. Anche
senon so se troverò mai qualcuno che lo pub-blicherà. In fondo, a
chi può interessare ilracconto di quei giorni attraverso gli
occhidi un celerino? Non è importato a nessunoper sei anni. Perché
dovrebbe importareoggi? Ma non me ne frega nulla se resteràsolo un
manoscritto. Fa bene a me ricor-dare quei tre giorni in cui è stata
sospesa lalegalità. E perché è accaduto. E come».
Ora salutano. Lorenzo infila la mano nelcassetto della sua auto.
Ne estrae due cd.«Tieni, te li regalo. Così sai cosa ascoltoquando
mi infilo la tuta da ordine pubbli-co e quando me la tolgo tornando
a casa damio figlio». Johann Sebastian Bach: Varia-zioni Goldberg,
Gloria in excelsis Deo.
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
Gli sbirri e gli stradaiolidisperazioni allo specchio
(segue dalla copertina)
La strada, dove il poliziotto è coniglio o infame,e chi si
maschera per spaccare tutto, sempli-cemente, stradaiolo. Ora, alla
gente comune
gli stradaioli fanno paura, e se ne chiede, puntual-mente, la
repressione. E i brillanti successi dell’An-timafia lasciano del
tutto indifferenti gli stradaioli.Non è che esistano due polizie. È
la percezione del-la divisa che divide nettamente gli stradaioli
dal re-sto del mondo. Non è più, come ai tempi della fa-mosa
lettera di Pasolini per i fatti di Valle Giulia, unoscontro di
classe. Quando si schierò dalla parte deiragazzi del Sud in divisa
contro i figli dei borghesiche giocavano alla rivoluzione, Pasolini
osò infran-gere, una volta per sempre, il tabù, caro alla
sinistradel tempo, di una sbirraglia braccio armato della
re-pressione politica. Nell’immaginario pre-sessan-tottino, il
poliziotto era “questurino”, “piedipiatti”:figura che non
autorizzava nessun trasporto, nes-suna epica. Erano, quelle parole
di Pasolini che tan-to fecero discutere, uno schiaffone al
conformismodei luoghi comuni e l’apertura di una linea di credi-to
verso i volti, i corpi, i sentimenti di giovani chenon potevano,
non dovevano essere mandati inguerra contro altri giovani. Parole
pesanti: perchéprovenivano da un comunista e da un omosessua-le, in
quanto tale violentemente perseguitato.
Oggi, a quarant’anni di distanza, lo sbirro e il gio-vane
stradaiolo sono un’altra volta l’uno di fronteall’altro. Un’altra
volta giù nella strada. Dove ilconfronto è immediato e diretto e
non ci sono me-diazioni che tengano. Non è più il tempo di
ValleGiulia, ma i luoghi comuni esistono anche oggi. Sichiamano
“pochi estremisti”, “emergenza ultrà” evia dicendo. Oggi la lettera
nobile e ispirata delpoeta non farebbe nessun effetto. Nella
violenza distrada, oggi, c’è qualcosa di diverso, a un tempo
più
atroce e amaro. Nella strada lo “sbirro” è la facciapiù visibile
dello Stato. Nell’aggredire questa figu-ra, simbolica e reale, gli
stradaioli ci scagliano con-tro una violenza che non è più
ideologica, non è piùpolitica, ma ha il sapore di una profonda
dispera-zione esistenziale. È un sapore di vite precarie,soffocate
da un senso di esclusione che si fa ribel-lione, più simile al
riot, alla sommossa spontanea,che a intenti sorretti da chissà
quale disegno stra-tegico. Il tifo calcistico, la curva eletta a
luogo di ela-borazione di un pensiero mitico, strutturato intor-no
a poche parole d’ordine da difendere a ogni co-sto, la Bandiera, la
Fede, l’Onore, tutto questo puòcostituire persino un alibi, ma non
spiega né esau-risce l’ampiezza e la trasversalità del
fenomeno.
Il giovane poliziotto è, in questo momento, ora eadesso,
l’incarnazione di un “sistema” che alimen-ta promesse vane sapendo
di non poterle mante-nere. È il volto degli inafferrabili e lontani
banchie-ri che decidono del nostro destino e, indifferenti al-la
nostra carne viva, ci considerano “numeri”aziendali. È l’immigrato,
un poverocristo che ha ilsolo torto di venire da un altro mondo e
che accu-siamo di rubarci il lavoro. È l’arcigno guardianodella
soglia di una felicità riservata agli altri, ai pre-destinati, ai
fortunati, agli integrati. Per questo sicolpisce lo “sbirro”. Ora,
poiché le strade non pos-sono diventare teatro di guerriglia,
indagini e re-pressione devono fare il loro corso. Ma la
repres-sione, da sola, non basta. Se non vogliamo conti-nuare a
consolarci con la storiella dei “pochi faci-norosi” o, peggio,
rassegnarci a perdere un corpo-so settore dei nostri giovani, li
dobbiamo convin-cere, con i fatti, che lo Stato non è
Molochdivoratore di innocenti, che non si può essere di-sperati né
a vent’anni e nemmeno a trenta. Chedietro il volto del giovane
poliziotto non si nascon-de la maschera del Nemico.
GIANCARLO DE CATALDO
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“Respiriamo la stessa aria, abbiamo gli stessi desiderie viviamo
immersi negli stessi casini di chi ci sta davanti:il problema
dell’affitto, quello della terza settimana...”
Repubblica Nazionale
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il fattoPadri della patria
Ai primi di dicembre le spoglie dell’unico nipotedel fondatore
del sionismo verranno esumate a Washingtone ritumulate a
Gerusalemme, vicino a quelle del nonnoDietro questa pietosa
cerimonia c’è la storia tormentatadi una famiglia perseguitata
dalla follia e dalla mortee un lungo conflitto dottrinale in seno
all’ebraismo
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
una ventina d’anni: ma fu Herzl a trasformare unmovimento sin
allora amorfo, senza basi dottri-narie e organizzative, in
un’efficiente macchinapolitica e propagandistica (provvista d’una
ban-ca e d’un giornale) che impose il dibattito sul sio-nismo
all’attenzione dei governi europei. E il tut-to avvenne in appena
un paio d’anni, dopo che
nel 1895 era tornato a Vienna da Parigi, dov’erastato
corrispondente del migliore giornale au-striaco, la Neue Freie
Presse. E lì aveva assistitosgomento all’ondata antisemita
scatenatasi colcaso Dreyfus.
Ma nonostante i primi successi nella mobilita-zione sionista, il
favore che incontravano i suoi ar-ticoli e gli sguardi ammirati che
l’avvolgevano adogni comparsa in pubblico, Theodor Herzl era unuomo
depresso, l’animo lacerato da un’infelicevita familiare. Il
rapporto con sua moglie Julie Na-schauer, figlia d’un potente
finanziere ebreo, erastato tempestoso sin dal viaggio di nozze nel
1889.Già in quei primi giorni la giovane donna aveva in-fatti
rivelato una mancanza d’equilibrio, una la-bilità psichica che
risalivano probabilmente aduna storia d’isteria familiare. Era
soggetta a con-tinui sbalzi d’umore, a collere furibonde. Né
que-sto era tutto, dato che anche i rapporti tra Julie e lamadre di
Herzl — da questi fervidamente, anzimorbosamente amata — s’erano
subito inveleni-ti, producendo una continua e snervante turbo-lenza
nelle giornate della famiglia.
Non è un caso che i biografi del fondatore delnuovo Israele si
soffermino a lungo sullo sfondoviennese della sua vita. Primo, per
la contiguitàcon alcuni dei personaggi di quella che chiamia-mo la
Grande Vienna. Da giovanissimo, quandoi suoi genitori s’erano
trasferiti da Budapest nel-la capitale austriaca, Herzl aveva
infatti abitato alungo nella Praterstrasse, non lontano dallo
stu-dio di Sigmund Freud e a due passi dalle abita-zioni di Arthur
Schnitzler e Gustav Mahler. E insecondo luogo, perché Herzl —
l’ebreo colto, raf-finato, che sogna di veder rappresentata una
suacommedia al Burgtheater, ma con alle spalle undramma familiare —
sembra uscito da un ro-manzo degli scrittori viennesi dell’epoca,
Sch-nitzler soprattutto, ma anche Zweig o Roth. Cosìcome avrebbe
potuto essere il padre o marito d’u-na paziente afflitta da crisi
isteriche, e finita in cu-ra da un medico di cui in quegli anni
stava cre-scendo la fama: il Dottor Freud.
Il dramma familiare di Herzl non restò circo-scritto ai
dissapori con la moglie, e col tempo si sa-rebbe trasformato in una
tragedia. Tragedia cuiegli non assistette, perché morì nel 1904:
dopo iprimi due congressi sionisti, quando ancora pen-sava
d’accettare la proposta inglese d’uno Statodegli ebrei in Uganda.
Il precipizio s’aprì infattimolto più tardi, e riguardò i suoi tre
figli, Pauline,Hans e Trude. Rimasti orfani (la madre era mor-ta
tre anni dopo Herzl) e affidati ai parenti Na-
SANDRO VIOLA Fragilità psichicae due suicidi nell’arcodi due
generazioni
Herzl, messia dalla vita tragica
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Quando a Vienna Theodor Herzl en-trava in un teatro, lungo le
file dellaplatea si sentiva mormorare: «È arri-vata sua maestà». La
frase era in par-te sarcastica. Essa alludeva infatti al-le
accoglienze trionfali che le comu-
nità ebraiche in Europa centrorientale, ma anchea Londra o a
Istanbul, tributavano ad Herzl ognivolta che egli andava ad esporre
il progetto d’unoJudenstaat, il nuovo Israele dove ricondurre
gliebrei della diaspora. Ma in parte la frase riflettevaanche
l’impressione che proveniva dall’aspettofisico del personaggio. In
quella metà degli anniNovanta dell’Ottocento, ancora trentenne,
Herzlera infatti un uomo di lineamenti perfetti, gran-de eleganza,
l’incedere e i gesti d’un primo atto-re. Non solo: era benestante,
sposato ad unadonna molto ricca, con alle spalle un largo suc-cesso
come giornalista e qualche buon esito an-che come commediografo. Le
donne, infatti, lorincorrevano.
Il primo a sapere quale effetto producesserosugli astanti la sua
figura e il suo carisma, era luistesso. Quando a Sofia un migliaio
d’ebrei eranoandati ad accoglierlo alla stazione inneggiando
a«Herzl, re d’Israele», e lo stesso era avvenuto conaltre comunità
della diaspora, quelle invocazio-ni non l’avevano lasciato
indifferente. Si tende adimenticarlo, ma le prime idee di Herzl
sullo Sta-to ebraico non prevedevano né una vera formarepubblicana
né un ordinamento democratico,e neppure una benché minima
interferenza del-la religione nella vita sociale.
Fervidi ammiratori dell’aristocrazia asburgi-ca, sua madre e lui
covavano una vera e propriasmania di nobiltà. La madre Jeannette
pretende-va di discendere dai re di Giudea, lui avrebbe vo-luto
essere prima d’ogni altra cosa un aristocrati-co. Sognava d’essere
un conte ricevuto all’Hof-burg da Francesco Giuseppe, si paragonava
neisuoi diari a Bismarck e a Napoleone, e più tardiaveva immaginato
che nello Judenstaat il poteresarebbe stato tenuto da una specie di
Doge, e tra-smesso per via ereditaria.
D’altronde, non fosse stato un sognatore,Herzl non sarebbe forse
riuscito nella sua impre-sa di raccogliere attorno al progetto
sionista gliebrei di Serbia, Bulgaria, Romania, Polonia, Rus-sia,
stabilendo così le premesse della rinascitad’Israele. È vero
infatti che l’idea e le speranzed’un ritorno a Sion circolavano in
Europa già da
Repubblica Nazionale
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
schauer, Pauline, Hans e Trude vissero infatti vi-te sciagurate,
prendendo anche loro i tratti di cer-ti cupi personaggi della
narrativa finis Austriae.Come la madre anche lei psichicamente
fragile,tossicomane e in un continuo va e vieni dalle ca-se di
cura, Pauline morì a Bordeaux nel 1930 peruna overdose di morfina.
Hans, che a vent’annis’era convertito al cattolicesimo e per un
certo pe-riodo era stato paziente di Freud, andò al funera-le della
sorella e due giorni dopo si suicidò con uncolpo di pistola. Né
andò meglio a Trude. Sposa-ta Neumann, per anni ricoverata in
cliniche permalattie mentali e poi in un ospedale psichiatri-co,
nel 1942 Trude venne portata via dai nazisticon tutti gli altri
pazienti ebrei dell’ospedale e in-ternata nel campo di
concentramento di There-sienstadt. Alcuni mesi dopo morì, e il suo
cada-vere scomparve, forse cremato o forse in una fos-sa
comune.
Ma Trude aveva avuto un figlio, Stephan Neu-mann, nato nel 1918,
l’unico nipote di TheodorHerzl. Ed è di costui che s’è molto
parlato in que-ste settimane sulla stampa israeliana: i suoi
restistanno infatti per essere traslati a Gerusalemme,sul monte
Herzl, dove sono sepolti il leader sioni-sta, i suoi genitori, sua
sorella e i figli Pauline eHans. I giornali parlano dell’evento
perché inIsraele non c’è un pieno consenso, anzi c’è statoun
dibattito con toni a volte aspri, sull’arrivo deiresti di Stephan
Neumann. E il motivo della di-scussione è presto detto. Anche il
figlio di TrudeHerzl-Neumann ebbe un destino fosco, e alla fi-ne
tragico, come quello di sua madre e dei suoi zii.Una vita
totalmente «contraria», come hanno so-stenuto due o tre rabbini,
«ai valori dell’ebrai-smo».
Quando i nazisti si preparavano all’Anschluss,poche settimane
prima dell’invasione, Stephanvenne infatti inviato in Inghilterra
da un vecchioamico di Herzl, David Wolfshon. Lì, più o menocome il
protagonista d’un grande romanzo del-l’ultimo quindicennio,
Austerlitz di George Se-bald, il diciottenne Neumann frequentò una
pu-blic schoole poi l’università. Quindi cambiò il no-me divenendo
Stephen Norman, si convertì alcristianesimo e infine partecipò
all’ultimo scor-cio della guerra come ufficiale nell’esercito
bri-tannico. Fu davvero anche lui, a Londra, un pa-ziente di Freud?
Alcuni biografi di Herzl ne sonocerti, altri no. In ogni caso
Norman morì suicidanel ‘46. Stava a Washington con un modesto
in-carico all’ambasciata inglese, e una mattina sigettò dal
Massachussets Avenue Bridge.
Sono stati necessari perciò molti sforzi da par-te d’un paio
d’organizzazioni sioniste america-ne, per far accettare in Israele
(ai sionisti religio-si, agli ultra-ortodossi) la sepoltura di
StephenNorman, convertito e suicida, vicino ai suoi pa-renti sul
monte Herzl. La legge rabbinica proibi-sce infatti di seppellire i
suicidi in un cimiteroebraico, e questo sembrava aver bloccato il
pro-getto della Jewish American Society for HistoricPreservation,
che per prima aveva pensato allatraslazione.
Del resto, già l’anno scorso era stato anche lun-go e difficile
convincere i rabbini ad autorizzarela sepoltura a Gerusalemme dei
due figli di Herzl,Pauline e Hans, in due tombe vicine a quella
delpadre. La tossicomania di Pauline, la conversio-ne e il suicidio
di Hans davano una solida base al-le obiezioni degli ortodossi. Nel
caso dei due figlic’erano però le volontà testamentarie del
padre,che aveva scritto di voler essere seppellito nelloStato degli
ebrei (il giorno che ce ne fosse statouno) accanto ai genitori,
alla sorella e ai figli. Vo-lontà che alla fine hanno avuto la
meglio sulleproteste degli oppositori.
Resta che il leader del sionismo, assolutamen-te laico, non
aveva fatto i conti con la pedanteria ei cavilli dei rabbini. La
traslazione dei suoi genito-ri e della sorella sul monte Herzl
avvenne infatti al-l’inizio dei Cinquanta: ma per i figli s’è
dovutoaspettare il 2006, un altro mezzo secolo. Nessunameraviglia
quindi che anche l’opposizione allasepoltura del nipote sia stata
nei mesi scorsi mol-to dura, animosa. Del nipote di Herzl, gli
ultraor-todossi — che del resto non hanno mai accettatoil sionismo
— non volevano neppure sentir parla-re. Sinché uno degli esponenti
della Jewish Ame-rican Society, Jerry Klinger, non ha pensato di
pro-durre uno strano documento. Un referto clinicosostenuto da chi
sa quali dati, secondo cui la fa-miglia di Theodor Herzl (lui
stesso, i genitori e lamoglie) era affetta da turbe psichiche
ereditarie:le turbe all’origine del suicidio di Stephen Nor-man. E
così, con l’attestazione d’una patologiamentale del grande
ispiratore del nuovo Israele,la diatriba s’è finalmente
conclusa.
Tra pochi giorni il figlio di Trude Herzl-Neu-mann avrà infatti
una tomba vicina a quelle inmarmo chiaro con intorno arbusti
d’alloro in cuiriposano i bisnonni e gli zii, non lontano da
quel-la del famoso nonno. Del quale — perché fossepossibile
traslare a Gerusalemme i resti dellosventurato nipote —, s’è dovuto
insinuare chenon fosse proprio a posto con la testa.
Dopo essersi convertitoStephen Normansi tolse la vita a 28
anni
LA DINASTIAQui accanto a sinistra, quattro ritratti di Theodor
Herzl:su una cartolina postale; in una caricatura dell’epoca,mentre
piange sulle rovine di Gerusalemme; e su un paiodi francobolli
israeliani. Nelle altre immagini, da sinistra:due appunti di Herzl
con l’abbozzo della bandieradi un futuro Stato ebraico; Herzl nel
1898, al centrodi una delegazione sionista a bordo di una nave;qui
sotto, con i suoi tre figli Hans, Trude e Pauline,in una foto che
risale probabilmente al 1897
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Repubblica Nazionale
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l’immagine36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE
2007
Autentiche meraviglie ri-posano di solito nelle can-tine. E
tanto più a Roma, laCittà Eterna, dove la me-moria ammuffita
dell’i-pogeo nasconde tesori di
sorprendente e inusitato valore, come seil buio e l’oblio, il
disordine della storia ela damnatio della memoria si
fosseropreoccupati di conservare certe testimo-nianze con l’occulto
scopo di riportarlealla luce nel momento opportuno...
In breve e con la ragionevole promes-sa, dato anche l’argomento,
di misurared’ora in poi il tasso di retorica: negli scan-tinati del
Palazzo della civiltà italiana, ilcosiddetto “Colosseo quadrato”, e
inquelli del Palazzo degli uffici, dove ha se-de Eur Spa, sono
stati ritrovati diversi ri-marchevoli materiali tra cui delle
fotostupende. O meglio: per iniziativa delprofessor Mauro Miccio,
che nella suapur varia carriera di teorico e managerdella
comunicazione mai avrebbe so-spettato di trasformarsi in una specie
diarcheologo della sua azienda oltre chedella zona in cui lavora,
sono state re-staurate delle lastre fotografiche, inveropiuttosto
malridotte, che adesso offronoallo sguardo visioni degne di un
Cartier-Bresson. Mentre invece sono istantaneeanonime, trovatelle,
probabilmenteprodotte nel corso di sopralluoghi peresigenze di
lavoro.
Ebbene: queste immagini non solocantano, ma in qualche modo
riscattanole stesse ragioni che le avevano precipita-te sotto
terra, nell’abbandono e nella ver-gogna. Rappresentano infatti i
lavori dicostruzione dell’E42, il vasto insedia-mento che
l’architettura del regime mus-soliniano aveva in programma per
de-gnamente celebrare, con un’esposizio-ne internazionale che poi
mai si fece, ivent’anni della marcia su Roma; e la glo-ria
pregiudiziale del fascismo; e il genioitalico ritornato sui «colli
fatali» dell’Ur-be; e l’attitudine bellica di un popolo cheil Duce
qualificava «di poeti di artisti dieroi di santi di pensatori di
scienziati dinavigatori di trasmigratori» come anco-ra si legge sul
frontone di quel gigantesco
cubo razionalista che perfino nel nume-ro dei piani (sei) e
delle arcate (nove) sem-bra dovesse riflettere, conteggiandole,
lelettere di Benito e di Mussolini.
Ebbene, in cima a quel monumentoinconcluso, nel vuoto della
campagnaassolata si staglia oggi la sagoma di unoperaio che ha la
grazia raccolta di unacrobata. In un’altra foto si vede una filadi
lavoratori che a forza di braccia tiranoun cavo con le stesse
facce, gli stessisguardi e la stessa concentrazione di cer-te icone
del New Deal. Potenza. Equili-brio. Geometria. Poesia. Operai a
caval-cioni sull’arco che Adalberto Libera nonha ancora appoggiato
al vertice del Pa-lazzo dei congressi: ma in bilico su unastruttura
appoggiata a dei tubi Innocen-ti c’è anche l’ingegnere con il suo
cappel-lo Borsalino, ed è come se danzasse tra fi-li e carrucole,
sotto un cielo bianchissi-mo, come una specie di figura di
Chagall.
Sono figurazioni astratte e insiemeumanissime presenze che a
settant’annidi distanza finiscono per purificare quel-la pazza
avventura architettonica che ful’E42. Il pasto dei manovali, il
silenzio chesi coglie su quella scena, le scarpe impol-verate in
primo piano, il grappolo d’uva,
le pietre spezzate, tutto sembra anticipa-re le inquadrature del
neorealismo. Dueragazzini a bocconi sui mosaici di stilekitsch
imperiale, una scopa e un secchiodi calce riabilitano l’onore del
lavoro e infondo della realtà di fronte alla dissenna-ta superbia
di quelle forme.
Memorie pesanti che recuperano dicolpo la loro leggerezza. Viene
da pensa-re che forse è stato davvero un bene chequelle lastre
fotografiche, quei pezzi divetro alla gelatina ai sali d’argento
sianorimaste sepolte così a lungo, pure sfidan-do umidità,
crinature, fratture, graffi, im-pronte, abrasioni; ma anche
fastidio, ver-gogna, mancanza di senso.
Un umile scalpellino è alle prese conun marmoreo bassorilievo,
apoteosi dellavoro e della santità, pare di capire, alpiano di
sopra; mentre al piano terra, agrandezza naturale, si santifica la
po-tenza militare, legionari con casco e fu-cile a tracolla,
bandiere, labari, insegne,gagliardetti, donne supplicanti un
con-dottiero a cavallo, anche se in piedi, epure con elmetto, un
braccio protesonel saluto romano, l’altro con il pugnoappoggiato
minacciosamente sui fian-chi. E l’omino vero che nell’umile foto
di
lavoro se ne sta lì sotto, a rifinire quellabizzarra creazione
che presto verrà tra-gicamente contraddetta dagli eventi —e ciò che
resta di quel tempo è la sua ca-micia, il suo berretto, la pacifica
sua fati-ca. Postuma, per giunta, eppure o forseproprio per questo
tale da ristabilire unaragionevole gerarchia di ricordi, di valo-ri
e di segni, e proprio nel cuore del so-gno mattoide dell’E42.
Fu il più illuminato dei gerarchi, Giu-seppe Bottai, a spingere
Mussolini suquella strada già nel 1935, in vista delventennale del
regime. Il Duce scelsel’area delle Tre Fontane, e subito fu
en-tusiasta del progetto, che interessò i mi-gliori architetti su
piazza. Ma già allora ilcapo del fascismo aveva troppe cose acui
pensare, né alcuno che temperassela sua conclamata, patologica
megalo-mania. Ancora oggi si fatica a capire co-sa veramente
significasse quel progettoper Mussolini, se non il tentativo,
forse,di regolare personalmente i suoi conticon Roma, quale essa
era e ancor piùquale lui la sentiva: scettica,
pittoresca,disordinata, opportunista, irridente.Così si proclamò
demiurgo della fanto-matica “Terza Roma”, dopo quella dei
Cesari e dei Papi, convincendosi dellanecessità di allestire una
bianca sceno-grafia per i riti totalitari.
Sul piano estetico puntò sull’impe-rium, sul grandioso e sul
moderno, pro-ponendo l’E42 come «l’ostentazioneconsapevole e matura
della civiltà italia-na, romana e fascista in tutti i suoi
aspet-ti», come ha sintetizzato Vittorio Vidotto(Roma
contemporanea, Laterza, 2006).Non era previsto che qualcuno
potesseopporsi a quest’idea.
«La Terza Roma — venne inciso sull’e-dificio nei cui scantinati
finirono le foto— si dilaterà sopra altri colli lungo le rivedel
fiume sacro sino alle spiagge del Tir-reno». Ma in questa pur
legittima indica-zione urbanistica, almeno sulla carta, en-trò di
tutto: teatri, palazzi, musei, padi-glioni (uno da dedicare al
fratello defun-to di Mussolini), archi di trionfo in metal-lo,
elementi di classicismo onirico e ci-miteriale, statue di uomini
nudi chetenevano a freno cavalli o si strusciavanoaddosso a leoni
con la lingua penzolante.Ma soprattutto guerrieri, armi,
eroismo.
Si è poi capito, purtroppo, dove butta-va questa impostazione.
Ora si com-prende bene come quelle frenesie, quel-
FILIPPO CECCARELLI
IL PROGETTO
Nel 2005 dai sotterranei del Palazzodegli uffici, dove ha sede
l’Eur Spa,sono emersi sedicimila scatti fotograficimai visti sulla
storia dell’ E42. Il progettodi restauro, voluto dall’Eur Spa e
dalla Sovrintendenza ai beni culturalidel Lazio, di oltre tremila
negativisu lastre di vetro sarà presentatoa Venezia durante il
Salone dei beni e delle attività culturali dal 29 novembreal primo
dicembre. Dal 12 al 20 gennaio2008 all’Eur sarà realizzata una
mostracon una selezione di trecento immaginidal titolo Istantanee
di vita
Eur, la fabbrica del potere
Quando Bottaiconvinse Mussolinia celebrarecon un grandeprogetto
il ventennaledel fascismo, il Duceentusiasta scelsel’area delle
TreFontane. Lì sarebbesorto l’E42,il quartiere simbolodella “Terza
Roma”Il regime cadde,quei palazzi rimaseroDai loro scantinatisono
saltate fuorimigliaia di fotoche documentanouna storia italiana
Cantieri
Repubblica Nazionale
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
le forme, quei materiali, tutto insommaera coerente con un
potere che stava an-dando a rotta di collo verso la sua
autodi-struzione. La guerra prima rallentò i can-tieri, poi tra
mille vicissitudini abban-donò l’Eur al suo destino, che per la
veritàebbe poi a rivelarsi meno drammaticodel previsto, dal momento
che il quartie-re resuscitò dalla sua desolazione di ster-pi e
travertino divenendo ricca zona resi-denziale, sede di ministeri,
impiantisportivi, set cinematografici e luna park;e al giorno
d’oggi anche così lodevol-mente interessata alla sua storia, l’ex
En-te Eur ora Eur Spa, da affrontare onerosilavori di restauro
figurativo.
Ma nel frattempo, e quindi nell’imme-diato dopoguerra, il
Palazzo degli uffici,da cui oggi il professor Miccio
governaagevolmente seduto su una preziosascrivania anni Trenta pure
scovata incantina e risanata, si trovò a ospitare cen-tinaia di
esuli giuliano-dalmati. Per cuisottoterra, chissà come, finirono
anchedelle foto di quella stagione, e ce n’è unadi bimbe che
giocano e saltano e ballanocon i loro grembiulini nei viali
deserti. Inquella Roma, in quell’Italia così povera einsieme così
ricca di speranza.
L’Eur è un’eccezione, una contraddizio-ne irripetibile nella
storia di Roma. Èun progetto monumentale che ricor-
da un passato pesante ma allo stesso tempo èun luogo di forte
dinamismo, trasformazione,vitalità. Lo anima una tensione alla
modernitàche non ha mai smesso di agire. Se arriva trop-po tardi
per l’Esposizione universale del 1942per cui era stato pensato
(scoppia la Secondaguerra e tutto va all’aria), arriva troppo
prestorispetto alla sensibilità comune: la sua proie-zione
avveniristica scardina schemi urbanisti-ci e consuetudini
estetiche. I migliori architet-ti che vengono chiamati a lavorarci
hannoesperienze internazionali, una cultura forma-ta nel mondo. Si
trattava di ricostruire il Paese,circolava entusiasmo e ottimismo,
si era pas-sati per l’esperienza del Futurismo e della suafiducia
nel progresso, nelle tecnologie, nellacomunicazione. Nasceva il
mito del piroscafo,dell’aereo, dei viaggi.
Al di là della propaganda, delle tentazioni au-tocelebrative e
monumentali, il capolavoro ur-banistico di Marcello Piacentini
porta in sé igermi di un’accoglienza del nuovo, di uno
spe-rimentalismo fino ad allora mai praticato. Lodimostra il fatto
che quando la guerra inter-rompe il sogno dell’Esposizione (che è
il tenta-tivo dell’Italia di allinearsi all’Occidente piùavanzato)
e molti edifici rimangono incompiu-ti e i cantieri aperti, l’Eur
continua a produrreidee e ricostruzioni. All’interno del
quartierecompletato nel dopoguerra, sono nate alcunedelle
architetture più significative di Roma,opere che uniscono classico
e moderno (ba-rocco e international italian style) edifici
distraordinario valore simbolico, spesso ricon-ducibili
all’orizzonte metafisico di De Chirico:il Palazzo della civiltà
italiana di Guerrini, LaPadula e Romano; il Palazzo dei ricevimenti
edei congressi di Adalberto Libera; il Palazzo de-gli uffici di
Gaetano Minnucci; i musei e il tea-tro sulla piazza imperiale cui
collaborarono Fa-riello, Muratori, Quaroni, Moretti e altri;
l’edi-ficio delle Poste di Banfi, Belgioioso, Peressut-ti e Rogers;
il Museo della civiltà romana diAschieri, Bernardini e
Pascoletti.
Non è un caso che l’Eur anche per Fellini siastato l’unico set
in grado di competere con Ci-necittà. E il cinema, che tanto
rappresentò peril fascismo in termini di modernità e comuni-cazione
oltre che di propaganda, è uno spiritoche si aggira ancora nel
quartiere. Ne interpre-ta lo spirito e incarna quello che mai
dovrem-mo dimenticare: che la città vive in un metabo-lismo
continuo. Roma in particolare incarnaquesta prospettiva, ha un
passato sedimentatoche spinge sempre verso il dopo.
Tra gli edifici della ricostruzione, tra i più si-gnificativi ci
sono i contenitori realizzati dal-l’Eni, dalla Società generale
immobiliare e dal-l’Inps, il Grattacielo Italia, il ministero delle
Fi-nanze e il nuovo palazzo sede della Democra-zia cristiana, di
Saverio Muratori. Altri, portatia termine per l’occasione delle
Olimpiadi ro-mane del 1960, come il “Fungo” di Colosimo,Martinelli
e Varisco, il Palazzo dello sport diPierluigi Nervi e Marcello
Piacentini, e il bellis-simo Velodromo olimpico di Ligini, Ortensi
eRicci ma che è ormai scomparso. Non dimen-tichiamo l’“asse”
piacentino rappresentatodalla via Cristoforo Colombo per ricucire
lacittà al mare (e ristabilire nelle intenzioni origi-narie il
legame storico e ideologico con l’anticoporto della Roma
imperiale). La mia Nuvola siinserisce in questa traiettoria:
materiale aereo“incorniciato” in un cubo, morbidezza
nellarazionalità, comunicazione dentro la storia e lamemoria. Sta
dentro un passato “pesante” masi alza leggera.
(Testo raccolto da Alessandra Retico)
Quel set metafisiconato troppo presto
MASSIMILIANO FUKSAS
UOMINI E PALAZZI• Ultimi ritocchial bassorilievodi Publio
MorbiducciStoria edilizia
di Roma
(1939)• Operai al lavorosu una strutturain ferro del cantieredel
Palazzodei ricevimentie congressi(1940)• Un gruppodi operai
durantela pausa pranzo(1937-1941)• Lavoratori sottosforzo nel
trascinareuna macchinada costruzione(1937-1941)• Un gruppo di
bimbeprofughe giuliane fanno un girotondo davantial “Colosseo
quadrato”,dove erano ospitate(1958)• Nella foto in bassoa sinistra,
il progettooriginale dell’E42(Tutte le foto pubblicatein queste
pagine sonogentilmente concessedall’Eur Spa)
Repubblica Nazionale
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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
la memoriaSangue blu
Hortense Serristori, nobildonna fiorentina colta e curiosa,
attraversagli anni Venti e Trenta del Novecento in intimità con la
famiglia realeitaliana e con i grandi della politica, della
letteratura, dell’arte
E fissa gli incontri e i ricordi di quell’epoca in un diarioche
ora viene pubblicato
berto; dietro segue il nostro re al bracciodella regina
Elisabetta. Costei è in mauve,e così leggera e aggraziata nei
movimen-ti che mi fa venire in mente ciò che mi dis-se un giorno
Beaumont, della sua fami-gliarità con gli uccelli, e questo non
misorprende: la sua persona così minuta egraziosa non va
intimidita. Dietro vengo-no i fidanzati e tutti gli sguardi si
fissanosu questa coppia così ben assortita e cosìpiacevole da
guardare: sono snelli, ele-ganti, slanciati, splendenti di salute e
fre-schezza, lui bruno e lei bionda, lui inuniforme e lei in
bianco; lui ci presenta alei per nome, una per una, senza mai
sba-gliare — oh memoria dei nomi e dei volti,virtù essenziale dei
re! — lei ci porge lamano da baciare e sorride a tutti, gli
occhiblu raggianti di felicità. [...]
La regina Elena conduce suo figlio e reVittorio Emanuele la
regina Elisabetta.Sovrani e principi, stranieri e italiani,
se-guono a due a due. Le principesse hannogentiluomini a sorreggere
gli strascichi,alcuni dei quali talmente ricchi che senzaquesto
aiuto le poverette non potrebberomuoversi — si ammira in modo
partico-lare lo strascico di velluto rosso ricamatoin oro della
casata degli Hesse che indos-sa la principessa Mafalda. I gioielli
sonofantastici — la principessa Ruprecht diBaviera ha dei rubini
incredibili — il dia-dema della duchessa di Bramante è com-posto di
diamanti del Congo, ciascunaprovincia del Belgio ne ha donato
uno…
Traduzione di Piero Gellie Angelica Chiara Gallo
© 2007 Baldini Castoldi Dalai Spa
IL LIBRO
Memorie di Hortense
(qui accanto ne riportiamoalcuni brani) scritto
da Hortense de la GándaraSerristori e a cura di Piero
Gelli, è pubblicatoda Baldini Castoldi Dalai,
ha 280 pagineche comprendono un riccoapparato fotografico,
costa17,50 euro, e sarà in libreriadal 27 novembre. Si trattadel
diario che, sotto forma
di lunga letteraa una nipote, la contessaSerristori, una delle
figurepiù in vista della nobiltà
fiorentina e dama di cortedella regina Elena, scrisse
tra il 1927 e il 1943
HORTENSE DE LA GÁNDARASERRISTORI
AMORE per Roma (22 di-cembre 1927). Cara, hosempre amato molto
Ro-ma. Non posso nascon-derti che quando era gio-vane tua nonna era
frivola
e mondana, e dal punto di vista dellamondanità Roma è stata
davvero unacittà unica, al contempo capitale e me-tropoli
religiosa, centro sportivo e ritrovoartistico, e in più, un clima
meraviglioso.Roma attirava tutto ciò che c’era di desi-derabile in
Europa; tutto quello che con-tava passava per Roma.
La nobiltà romana regnava ancora neisuoi palazzi, così belli che
il Kaiser, conge-dandosi dalla principessa Doria la sera delgran
ballo che lei aveva dato per festeg-giare le nozze d’argento del re
Umberto edella regina Margherita, ringraziando ledisse che, il
giorno in cui la principessa sirecasse a Berlino, lui con sommo
dispia-cere non avrebbe potuto offrirle nulla diparagonabile alla
festa di quella sera.(Ammetto che è più o meno la verità:
hopartecipato a un ballo di corte a Berlino,ho avuto l’onore di
pranzare al tavolo delKaiser: tutto molto bello, ma non
parago-nabile al «decoro» di palazzo Doria).
Quegli anni furono l’âge d’or del GrandHotel. La nobiltà di
provincia vi regnava;ci andavamo tutti, ma i più fedeli erano
isiciliani: i Trabia, i Florio, i Mazzarino. Lospettacolo che
offriva il restaurant delGrand Hotel, soprattutto le sere
quandoc’era qualche gran festa in città, qualchegala per sovrani
stranieri e tutte le donnescendevano in grandi toilette e diademi—
toilette che non avevano niente daspartire con i ridicoli stracci
di oggi —era davvero unico e destava l’ammira-zione di tutti.
La regina Elena (22 dicembre 1927).Anche la regina allora era
bellissima:altissima, molto snella, la pelle scura, oc-chi neri,
aveva l’aria di una Madonna bi-zantina. Il tipo poteva anche non
piacere,ma a Parigi la sua bellezza riscosse ungrande successo. Vi
aveva accompagna-to il re per una visita ufficiale a MonsieurLoubet
nell’ottobre del 1903 e, quando sipresentò seguita dalle dame — sia
quelleche l’accompagnavano da Roma sia altreche si trovavano in
quel momento in città— Parigi si entusiasmò, andò in visibilio
eattraverso le mille voci della folla, dei gior-nalisti, degli
chansonniers fu tutta un’o-vazione per noi. Posso ben dire noi,
per-ché in quel corteo dove brillavano gli astridi prima grandezza
come Franca Florio,Vittoria Teano, Maria Trinità, Jeanne Vi-giano,
anche coloro che belle non erano,lo sembravano. Questa
impressionedurò anche dopo la partenza della regina.Venivamo
riconosciute nei negozi, a tea-tro, segnate col dito, per poco non
ci ap-plaudivano! Per una stagione fummo gliidoli di Parigi, la
città incantatrice! [...]
La regina ha due passioni: da un lato lanatura, la vita
selvaggia e libera, la caccia,la pesca; dall’altro la medicina, le
opera-zioni, le infermiere ecc. [...]La regina haavuto un destino
felice, brillante, «Ichgönne es Ihr!», sebbene non le siano
man-cate le pene. Amava molto il suo Paese, ela soppressione del
Montenegro fredda-mente eseguita dagli Alleati l’ha profon-damente
afflitta, e ancor più ha soffertoper il fatto che la sua famiglia
l’ha ritenu-ta in qualche modo responsabile, accu-sandola di non
aver saputo difendere lasua Patria.
Quando, dopo la guerra, la vecchia re-gina del Montenegro,
fuggiasca, esiliata,passò per Roma, si rifiutò di scendere
dalvagone. Ed è lì che ricevette sua figlia.Nessuno ha assistito a
questo incontro,da cui la nostra regina è uscita silenziosae con
gli occhi rossi. La catastrofe russa èstata un’altra pena per lei.
Era russa nel
FOTO DEDICATESopra, MariaJosè col piccoloVittorioEmanueleQui
accanto,HortenseSerristoriA destra dall’alto:VittorioEmanuele IIIe
Mussolini
La dama di compagniadell’ultima Regina
prestano servizio a turno alla regina, abi-tano a palazzo e
viaggiano con lei; orahanno molto da fare e una grande
re-sponsabilità perché non c’è una grande-maîtresse: la regina
Margherita aveva lasua, la marchesa di Villamarina, che chia-mavano
dama d’onore — ma l’attuale renon l’ha voluta per la sua sposa
temendol’influsso che una dama sempre a contat-to tutto l’anno con
la giovane principessapotrebbe avere sul suo animo, o il
grandepotere che potrebbe esercitare a corte. Difatto il ruolo di
dama d’onore è semprevacante e sono le dame di corte che
fannotutto.
Poi ci sono le dame di palazzo, nomi-nate in ogni città, la cui
funzione consistenell’accompagnare la regina alle cerimo-nie di
palazzo, nelle udienze o nelle usci-te. Quelle romane hanno ancora
qualco-sa da fare, ma quelle in provincia quasinulla. Da quando
sono stata nominataper Firenze, ho avuto in tutto quattro gior-ni
di servizio. Ti racconto tutto questo,piccola mia, perché chissà
mai dove sa-ranno combinazioni di diamanti e stra-scichi di velluto
blu quando sarai grande?Orneranno ancora le spalle di giovanidonne
e frusceranno ancora dietro la sciadi Altezze future? Speriamo
bene!
Umberto e Maria Josè (4-8 gennaio1930). Roma, la Città Eterna,
eternamen-te in festa sotto un cielo sfolgorante, siprepara ad
accogliere una futura regina!Bandiere, archi di trionfo, luminarie,
ro-vine illuminate a giorno, passaggio ditruppe, fanfare e così
via. [...]
Sono le dieci e un quarto quando arri-vano nel nostro salone —
noi formiamoun cerchio — la regina Elena in blu zaffi-ro appare per
prima al braccio del re Al-
cuore come tutti gli slavi e alla Russiaguardava come a una
seconda e più gran-de Patria. Le sorelle erano sposate in Rus-sia,
lei stessa era stata allevata a Smolny esi riteneva destinata a
sposare qualchegranduca. La regina Vittoria di Spagna ungiorno mi
disse che aveva pensato a leiper l’imperatore Nicola II.
Comunquesia, credo che abbia sofferto molto di que-ste due
catastrofi.
Il Vaticano (5 dicembre 1929). Siamo lìdalle 9 e 30 della
mattina e solo verso mez-zogiorno qualcosa si muove al soglio diSan
Pietro, il re e la regina si congedanodal cardinale Merry del Val,
arciprete del-la basilica e scendono lentamente la sca-linata — la
regina e le sue dame, la du-chessa Cito, tua zia Frankey
Guicciardinie Donna Nini Grazioni, tutte in bianco,diadema e velo
bianco, la regina con unostrascico d’argento sorretto da Cito,
suogentilhomme de service, le dame con illoro di velluto blu; il re
e il suo seguito inuniforme e decorazioni, i dignitari ponti-fici
nei loro meravigliosi costumi. Monsi-gnor Caccia Dominioni è
accanto al re,Ruspoli alla regina. Al seguito c’è ancorauna dama in
abito e velo nero, è la con-tessa di Val Cismon, la moglie
dell’amba-sciatore d’Italia presso la Santa Sede, maquesta macchia
scura si perde nellosplendore del corteo e nell’abbaglianteluce del
sole. Ancora qualche istante e lesette auto attraversano lentamente
labellissima piazza, mentre le truppe pon-tificie rientrano in
Vaticano; il cordone dipiazza Rusticucci viene tolto e la folla
in-vade la piazza. Vediamo passare ancora ilcardinale Gasparri,
diretto al Quirinale arendere visita, poi lo spettacolo è finitoper
noi stanchi ma ben ripagati della fati-ca perché il colpo d’occhio
era magnifico!
Le dame di corte (7 dicembre 1929).Alla corte d’Italia, le
regine hanno damedi due specie: ci sono le dame di corte che
Repubblica Nazionale
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Alla vigilia della Prima guerra mondiale in Europa c’eranodue
sole repubbliche: la Francia e la Svizzera. Tutti gli altristati
erano monarchie. La regalità: un concetto che ha radi-
ci profonde nella storia europea. Un’idea di pompa, di gloria e
dipotere che oggi ci è estranea ma che fino a poco tempo fa
rappre-sentava politicamente la norma.
Le memorie della contessa Hortense Serristori hanno questo
diaffascinante. Ci consentono di capire come si viveva all’ombra
diuna grande dinastia europea, quella italiana. È un tema che ho
toc-cato spesso nel mio lavoro di giornalista storico televisivo.
L’ulti-mo lavoro per Rai Tre si intitolava appunto Casa Savoia: era
la sto-ria del regno di Vittorio Emanuele III e della fine della
monarchia.A più riprese negli ultimi anni ho avuto occasione di
intervistare laprincipessa Maria Gabriella di Savoia su questi
temi. L’ho sentitadi nuovo molto recentemente e l’ho trovata sul
piede di guerra.S’era appena dissociata con una lettera a
Repubblica da una ri-chiesta di danni allo Stato italiano avanzata
da suo fratello Vitto-rio Emanuele. Esasperazione motivata: a lei
va il merito d’aver ca-pito che è giunto il momento di rivedere
storicamente i complica-ti rapporti tra monarchia e paese. Ha messo
in piedi una fonda-zione con relativo archivio per custodire le
memorie dell’ex casaregnante. Manca cioè, ritengo, alla
storiografia italiana un’operache riconsideri — un po’ sul modello
di quello che ha fatto De Fe-lice per il fascismo — quegli aspetti
pur sempre essenziali del no-stro passato. Il successo della
rubrica alla quale collaboro su RaiTre, La grande storia in prima
serata, dimostra che c’è un vero in-teresse per vedere le immagini
e sentire il racconto della nostra tor-mentata storia recente,
purché fatto in spirito di obiettività.
Le memorie di Hortense Serristori vanno in questa direzione.Ci
aiutano a capire quel mondo così diverso da quello della
gentecomune di allora ma anche dalla mentalità contemporanea.
LaSerristori era, ce lo conferma Maria Gabriella, molto legata alla
re-
gina Elena di cui era stata “dama di palazzo”. La figlia
MariaBossi Pucci, era stata “dama di corte” della madre
di Maria Gabriella, la “regina di mag-gio” Maria José. Anzi
qualcosadi più: un’amica stretta so-prannominata “chiffon”,
strac-cetto cioè. Alla corte d’Italia siparlava molto il francese.
E il pie-montese, occorre aggiungere.
“Dame di corte”, “dame di pa-lazzo”: sfumature esoteriche
qua-si, il cui significato oggi ci sfuggecompletamente ma che
allora ap-pariva importantissimo. La Serri-stori nata nel 1871,
morirà nel 1960 aottantanove anni. Il suo diario —scritto anche
quello in francese — siconcluderà subito dopo la fine dellaSeconda
guerra mondiale. Ha preso laforma, un po’ artificiale, d’una serie
dilettere a una nipote molto amata. De-scrive grandi avvenimenti
conosciuti: laPrima guerra mondiale, la Marcia su Ro-ma, la
Conciliazione e via enumerando.La Serristori ha frequentato grandi
scrit-tori, D’Annunzio, Moravia, Berenson peresempio. Tuttavia la
parte che c’è sembra-ta più interessante del suo libro è quella
cheriguarda la vita di corte. È l’argomento cheabbiamo preferito
nella scelta dei brani cheriportiamo.
Risponde al desiderio di sapere come si viveva all’ombra di
unaimportante dinastia. Perché tale era casa Savoia. Imparentata
contutte le famiglie regali d’Europa aveva un millennio di potere
allespalle — dalla Savoia al Piemonte, all’Italia. Cosa ha
significato es-sere re? C’è in questa tradizione anche qualcosa di
strano e so-prannaturale per la mentalità tradizionale. Un grande
classico
della storiografia francese, I re taumaturghidi Marc Bloch,
di-mostra quando fosse diffusa nel Medioevo la credenza che ire
avessero il potere magico di guarire con l’imposizione del-le mani
certe malattie. L’ultimo re guaritore fu Carlo X, inFrancia, che
perse il trono nel 1830. Nel secolo Ventesimonessuno più credeva né
praticava questi riti ma l’idea che cipotesse essere qualcosa di
trascendente, di più che umanonella regalità, è andata avanti molto
a lungo. E traccia di que-sta atmosfera si ritrova nel libro della
Serristori. Sono suffi-cientemente vecchio per avere avuto tra i
testi sacri dellamia gioventù Il mondo magicodi De Martino e il
Ramo d’o-ro di Fraser. Ecco con quale arcaica solennità la
Serristoridescrive una cerimonia regale: «Il primo corteo è
quellodella regina. Insieme alle principesse e ai loro seguiti.
Suamaestà occupa la tribuna centrale, proprio sopra il trono.La
regina è incantevole, elegantemente vestita di velluto,ornata con
magnifiche perle e un grande cappello “garnid’esprits” che le
incornicia il viso. Alla sua destra siede laprincipessa di
Piemonte, alla sua sinistra la duchessa Ele-na d’Aosta. Infine
giunge il re che prende posto sul trono,sotto le tribune; al suo
fianco per ordine di diritto nellasuccessione, i principi del
sangue. Gli aiutanti di campo
restano sempre in piedi. Le nuove uniformi scintillano».
Il teatro scintillantedella corte Savoia
NICOLA CARACCIOLO
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
IN VOLO CON BALBOSopra, Margheritadi Savoia nel 1922Sotto,
Hortense Serristorinel 1939 dopo un volocon Italo BalboA destra,
dall’alto:dediche di Puccini,Trilussa, Serao
AUTOGRAFIQui sopra, una poesia autografadi Gabriele D’Annunzio e
una seriedi dediche, l’ultima di Paul Valery,tratte dal libro degli
ospiti
DISEGNI Sopra, Arthur NevilleChamberlainA destra un disegnodi
Vernette Henraux
Guardando i disegni di Pillinini vienein mente Totò... (Gianrico
Carofiglio)
prefazione di Gianrico Carofiglio
Edizi
oni D
edal
owww.edizionidedalo.it
Info Tel. 0422 513150 - 0422 513185 -
www.laviadellaseta.info
Prenotazioni turistiche Tel. +39 0422 422891 -
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20 Ottobre 2007 | 4 Maggio 2008
GENGIS KHANE IL TESORO DEI MONGOLI
Main Sponsor
Chinese Academy of International CultureComune di Treviso -
Fondazione Italia CinaTouring Club Italiano
Organizzazione: Sigillum
Repubblica Nazionale
-
Ognidesiderio ha la propria cartografia, ogni mappa i
propripunti di partenza e di arrivo. Impegnati a trovare un
sensonell’incessante abbinamento di molecole che ci compon-gono e
ci scompongono, da lungo tempo immaginiamoche le nostre azioni
rispondano a un significato e a una mis-sione, e che quindi quel
che realizziamo su questa terra
possieda un valore morale o etico, sottoposto al giudizio di un
Ammini-stratore Supremo che a tutto offre ricompensa o castigo. E
così le nostreanime, pensionate dopo la morte della carne,
passeranno all’eternità inuna sorta di residenza per anziani,
decente o spaventosa, a seconda del-l’inclinazione della bilancia.
Come testimoniano le tombe troglodite, ta-le speranza è ben antica.
Per i greci, le anime dei morti viaggiavano tutteassieme verso quel
luogo comune denominato Ade, dove attendevano illoro destino sui
grigi prati di asfodelo. Chi aveva offeso gli dei era con-dannato
al Tartaro, dove veniva poi torturato; chi godeva del favore
divi-no era trasportato alle isole benedette o Eliseo: l’Ade si
trova sotto terra oal di là del mare; in alcuni casi eccezionali,
può essere visitato da chi è an-cora in vita. Odisseo, Orfeo ed
Enea si annoverano tra i privilegiati.
Ho descritto una delle oltretombe: ce ne sono migliaia. Tutte le
popo-lazioni del mondo hanno immaginato una versione dell’aldilà
nella qua-le i buoni sono premiati e i cattivi puniti. C’è chi
crede che tali promessecorrompano. Ivo, vescovo di Chartres,
durante una missione voluta da
San Luigi, re di Francia, raccontò al re che lungo la strada
aveva incontra-to una signora dall’aria malinconica, che aveva in
una mano una torcia enell’altra un’anfora. Il vescovo, incuriosito,
volle sapere di più sul suo con-to e le chiese cosa avrebbe fatto
con quel fuoco e quell’acqua. «L’acqua èper spegnere l’Inferno»,
rispose la donna, «e il fuoco per incendiare il Pa-radiso. Voglio
che gli uomini amino Dio per il solo amore di Dio». Perquanto
ammirevole possa apparirci una simile impresa, la nozione di
Pa-radiso (così come quella di Inferno) perdura con i suoi
celestiali incanti:un luogo futuro, alla portata delle anime con la
fedina penale pulita (è be-ne ricordare che l’unico a ricevere la
promessa del Paradiso direttamen-te dalle labbra di Gesù, sia stato
un ladro).
Esiste però un altro Paradiso, più solido, meglio immaginabile,
forsepiù accessibile, un luogo nel quale un tempo abbiamo goduto
del dirittodi abitazione e dal quale siamo stati esiliati. Il primo
Paradiso è intangi-bile, extraterrestre, spirituale, descritto con
un linguaggio di metafore eallegorie. Il secondo (ci piace credere)
è concreto, sensuale, nascosto sep-pur in questo mondo, e per
tanto, vanta un’autentica cartografia.
Spesso si confonde un Paradiso con l’altro, il Paradiso celeste
presun-tamente promesso ai giusti e l’Eden terrestre presuntamente
perduto. Laconfusione (e la distinzione) non è nuova. Tra le oltre
4.500 pagine checompongono lo Zibaldone, uno dei libri più
singolari, personali e ambi-
ziosi della biblioteca universale, ce ne sono alcune in cui
Giacomo Leo-pardi, dopo dieci lunghi anni di riflessione su tutte
le cose, s’interroga sulsignificato di questo Paradiso terreno.
Secondo Leopardi, il Paradiso in cuiAdamo ed Eva sono stati creati
fu uno dei piaceri materiali e carnali, un“paradiso voluptatis” che
doveva essere coltivato e protetto. A differenzadel Paradiso
celeste che i giusti si aspettano dopo la morte del corpo, il
Pa-radiso terrestre (seppur perduto) ha qualcosa di verosimile, di
materialee persino di carnale, niente ingiustizie sul lavoro,
imbrogli economici otormenti filosofici: una sorta di Club
Mediterranée, potremmo dire, avantla lettre. Dinanzi a tali
incanti, l’ascetico Paradiso futuro diventa astrattofino
all’inverosimile. «E la felicità promessa dal Cristianesimo non può
almortale parer mai desiderabile [...] Ed oso dire che la felicità
promessa dalpaganesimo (e così da altre religioni), così misera e
scarsa com’ella è pu-re, doveva parere molto più desiderabile,
massime a un uomo affatto in-felice e sfortunato, e la speranza di
essa doveva essere molto più atta a con-solare e ad acquietare,
perché felicità concepibile e materiale, e della na-tura di quella
che necessariamente si desidera in terra».
L’altro, il Paradiso terrestre o Eden è, secondo la Genesi, un
giardino nelquale persino Dio ama passeggiare. Etimologicamente lo
si è voluto as-sociare alla parola ebraica miquedemche possiede un
significato spazia-le (“in oriente”) e temporale (“fine
dell’inizio”). Il Dizionario Biblico edi-tato da Paul J. Achtemeier
lo fa derivare da edemche vuol dire “lusso, pia-
cere, delizia”; Achtemeier sottolinea tuttavia che i filologi
moderni lo as-sociano a una voce sumera, edin, che si traduce con
“pianura” o “prato”.Attraverso i secoli, l’Eden ha trasmesso le sue
incantevoli caratteristichea un’immaginaria nostalgia: quella
dell’Età dell’oro classica, nella qualeil mondo intero è un
giardino, «quand’era cibo il latte», dice Guarini, «delpargoletto
mondo, e culla il bosco;/e i cari parti loro/godean le gregge
in-tatte,/né temea il mondo ancor ferro né tosco!». È questa la
caratteristicaprincipale dell’Eden: si coniuga nel tempo passato,
desiderio di ciò che èperduto, negato, di ciò che ora è proibito. È
la terra come vorremmo chefosse, come sogniamo che sia. Per questo
crediamo, con più o meno fe-de, di poterla ritrovare.
La ricerca del Paradiso terrestre conta su una vasta biblioteca
carto-grafica. Centinaia di documenti manoscritti e stampati, e una
bibliogra-fia di svariate pagine che non disdegnano né le fonti
secondarie né i sitiweb, hanno permesso ad Alessandro Scafi di dare
corpo, un anno fa, a unastraordinaria mostra presso il British
Museum di Londra, il cui catalogomagistrale, Il paradiso in terra:
Mappe del giardino dell’Eden, viene pub-blicato da Bruno Mondadori
in questi giorni. Le testimonianze sono nu-merose, e pochi tra gli
autori studiati da Scafi hanno avuto, come Sir JohnMandeville nel
Quattordicesimo secolo, la scrupolosità di dichiarare:«Del Paradiso
non posso dir nulla, non ci sono stato». Al contrario, senza
Da millenni gli uominihanno pensatoun luogo dove i giusti
dopo la morte abbiano la loro ricompensaMa non hanno mai smesso
di immaginarneun altro, più sensuale e concreto,da dove i nostri
progenitori furono cacciatiOra un libro raccoglie le carte che nei
secolihanno tracciato la possibile via del ritorno
CULTURA*
Alla ricerca del Paradiso perduto
Mappeledell’EdenALBERTO MANGUEL
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
atto di presenza, viaggiatori, storici, geografi, mistici e
visionari, hannodichiarato con imperturbabile convinzione che
l’Eden si trovava (si tro-va) in Mesopotamia, in Inghilterra, a
Gerusalemme, nel punto di coinci-denza tra Asia, Europa e Africa,
al nord dell’India, alla foce del Gange, nel-la Persia
settentrionale, sui monti del Libano. Alcuni cronisti sono di
unaprecisione esemplare: secondo Jean Mansel, per esempio, nel suo
Fleurdes histoires composto tra il 1460 e il 1470, l’acqua dei
fiumi del Paradisocade da una tale altezza che il suo fragore ha
reso sordi tutti gli abitantidelle regioni limitrofe. Il libro di
Scafi è istruttivo, rasserenante, erudito, e(agli occhi di questo
lettore profano) assolutamente completo.
Nel suo lungo percorso, dal primo Medioevo ai nostri giorni,
Scafi rac-coglie una serie di versioni moderne di mappe
paradisiache, disegnateda artisti così diversi come Hendrikje
Kühne, Beat Klein, Ilya ed EmiliaKabakos, i quali hanno tentato di
riscattare l’idea di un Paradiso terrestreper il nostro ormai
inguaribile secolo Ventunesimo. Tuttavia, penso esi-sta
un’ulteriore versione di questa interminabile idea. Nel 1615, sei
annidopo la firma del decreto di espulsione degli ultimi mori di
Spagna (que-gli arabi costretti a convertirsi al cristianesimo dopo
la prima espulsionedel 1502) Cervantes pubblicò a Madrid la Seconda
Parte del Don Chi-sciotte della Mancha. Nel capitolo 54, Sancho
incontra un suo vecchio vi-cino, il moro Ricote, il quale esiliato
dalla Spagna con i suoi consangui-nei, è tornato nella sua terra
natale travestito da pellegrino. «Fummo congiusta ragione puniti
con la pena dell’esilio, lieve e blanda, secondo alcu-ni, ma per
noi la più tremenda che ci si potesse infliggere. Dovunque stia-mo,
abbiamo nostalgia per la Spagna; poiché, infine, vi siamo nati ed è
lanostra patria naturale; non c’è nessun paese dove ci si accolga
come me-riterebbe la nostra sventura; e in Berberia, e in tutte le
parti dell’Africa do-ve speravamo d’esser ricevuti, accolti e
trattati bene, proprio lì invece èdove più ci si tratta male e ci
si offende».
Esilio e asilo: visioni entrambe, una di terra abbandonata e
l’altra di ter-ra promessa, che si fondono in quella Spagna che
rifiuta Ricote e in quel-la di cui lui ha nostalgia, confondendosi
in una cartografia illusoria e cir-colare. Per Ricote, quella
Spagna da cui è stato esiliato è (a voler essere let-terali) il
Paradiso perduto, il luogo al quale vuole arrivare e il luogo che
vor-rebbe non aver mai abbandonato. Per lui, come per i suoi eredi,
espul-sione, deportazione, allontanamento, si fondono in un solo
gesto di esi-lio che trasforma la terra di ognuno in terra
estranea. Un altro Paradisoforse esisterà pure, al di là dei mari,
ma Ricote e i suoi congeneri non lohanno trovato. Ciò nonostante,
continuano a sognare le mappe intimedei loro Eden perduti, che si
chiamino al-Andalus, Palestina, Marocco,Albania, l’America Latina
delle dittature militari, Iraq, Kurdistan, Cece-nia, Darfur,
Etiopia... Purtroppo, come è noto, la geografia del Paradiso èpiù
vasta della Terra stessa.
Traduzione di Fiammetta Biancatelli(© 2007, Guillermo Schavelzon
& Asocc., Literary Agency)
Alberto Manguel, autore di un celebreDizionario dei luoghi
immaginari, ha appena pubblicato
Iliade e Odissea, una biografia (Newton Compton Editori)
TERREE OCEANIIl Paradiso
terrestresecondo la
Mapa Mondi
Figura Mondi
di GiovanniLeardo
(Venezia1442)
TORRIE COLLINEIl Paradisoterrestre dalRudimentum
noviciorum
di LucasBrandis(Lubecca1475)
Repubblica Nazionale
-
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
Ma dove si trova il Paradiso terrestre? È una domanda
antichissima e sem-pre attuale. Ancora recentemente, studiosi hanno
tentato di scoprirlonelle regioni più svariate, in Mesopotamia, in
Arabia, in Armenia e per-
sino in un’isola delle Seychelles… La credenza del Paradiso
terrestre ha affasci-nato il cristianesimo fin dai primi secoli,
come ricorda Alessandro Scafi ne Il Pa-radiso in terra. Mappe del
giardino dell’Eden. La Genesi (2,8) raccontava che «ilSignore Dio
piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che
avevaplasmato», e questo passo biblico fu presto interpretato in
senso letterale. L’au-torità di sant’Agostino fu decisiva, anche
per quanto riguarda i quattro celebrifiumi che uscivano dall’Eden:
Pison (sovente identificato con il Gange), Ghicon(con il Nilo),
Tigri e Eufrate. «Sono veri fiumi e non espressioni figurate».
Agosti-no aggiungeva: Adamo aveva un corpo materiale, aveva dunque
vissuto in unParadiso materiale.
Alla costruzione dell’immaginario paradisiaco contribuirono
molto le anti-che traduzioni dei testi biblici. Per definire il
giardino, la versione ebraica usò leparole gan-be-Eden («un
giardino in Eden»). Nella Vulgata, Girolamo aggiunsela qualifica
«delizie». I traduttori della Settanta introdussero la parola
Paradisoche significa in greco “giardino recintato”.
La geografia del Paradiso si precisa intorno al Settimo secolo.
Isidoro di Sivi-glia identifica l’oriente di cui parlava la Genesi
con l’Asia: «Il Paradiso è un luogoche si trova nella parte
orientale dell’Asia». E sottolinea il fatto che l’Eden sia
ungiardino delle «delizie»: vi abbondano «ogni genere di piante ed
alberi da frutto,tra cui anche l’albero della vita». L’Eden è
inoltre un luogo in cui «non fa né fred-do né caldo, vi è sempre un
clima temperato», ma è un giardino reso inaccessi-bile «da una
spada ardente», è luogo «sbarrato da un muro di fuoco, che
arrivaquasi al cielo».
Situato in Asia da Isidoro, il Paradiso terrestre poteva ora
figurare anche su unacarta, e molte sono infatti le carte
medievali, qui studiate pregevolmente da Ales-sandro Scafi, che lo
presentano nelle sue varie forme, anche come isola o comecastello
accerchiato da mura. La sua inaccessibilità è rappresentata
dall’altezza.Il Paradiso viene immaginato nel punto più orientale
dell’Asia, ma verso l’alto«come situato in relazione al cielo»
(Duns Scoto). Anche Dante pone il Paradisosulla cima di una
montagna eccezionalmente alta, la montagna del Purgatorio.Virgilio
spiega a Dante che Gerusalemme e la montagna del Purgatorio sono
esat-tamente agli antipodi. Nelle carte medievali, a partire dalla
prima crociata (1096),Gerusalemme, luogo del sepolcro di Cristo,
viene posta al centro del mondo. Edecco che il Paradiso terrestre
situato in Asia diventa anticipazione dell’Incarna-zione e del
Paradiso celeste, tanto più che accanto al Paradiso terrestre
figuranosovente Enoch e Elia, i due profeti che aspettano la fine
del mondo.
Nella cartografia medievale vi è un secondo luogo recintato e
inaccessibile,contrassegnato da una negatività che si contrappone
all’Eden: è il luogo in cuisecondo la leggenda Alessandro Magno
racchiuse Gog e Magog, le temute tribùche a detta dell’Apocalisse
verrebbero a distruggere il mondo il giorno del giudi-zio. Le carte
medievali, sovrastate dal Paradiso terrestre, presentano dunqueuna
visione cristiana della storia del mondo. Ma l’Eden è anche un
Eldorado, re-gione sempre temperata e rigogliosa di vegetazioni e
di frutti abbondanti, e chegode di un’aria sana e
incontaminata.
All’uscita dal Medioevo quell’immaginario si sgretola. Fra
Mauro, uno deimassimi geografi del Rinascimento, nel suo mappamondo
(1459) relega il Para-diso terrestre in un medaglione posto al di
fuori del mondo abitato. Un secolodopo, un altro uomo di Chiesa,
Agostino Seuco, prefetto della Biblioteca Vatica-na, afferma che il
Paradiso terrestre fu distrutto dal diluvio. Anche secondo Lu-tero
scomparve per colpa del peccato. Per Calvino invece i quattro fiumi
dell’E-den erano rimasti inalterati nonostante il diluvio per la
benevolenza di Dio.
Questa nuova teoria religiosa tentava di risolvere l’equazione
tra il dogma deldiluvio e la scoperta del Nuovo Mondo. Ponendosi
contro la tradizione, fu peròdimenticata. Anzi proprio allora gli
studiosi incominciarono a ricercare il luogodove era vissuta la
prima coppia umana proponendo i posti più svariati: il TerzoCielo,
Babilonia, l’Arabia, la Palestina, la Terra del Fuoco, e anche il
Polo Artico.Il Paradiso terrestre perse così la sua originaria
funzione, di rappresentare in-sieme il passato (la nostalgia per
una purezza perduta), il presente (la vita del-l’uomo come
peregrinazione) e il futuro (il cammino verso il Paradiso
celeste),oltre che una natura in perfetto equilibrio perché tutta
orientata al volere di Dio.Tentando di scoprire dove si trovava su
basi “scientifiche”, la modernità situa-va il Paradiso terrestre
soltanto nel passato, lasciando ai poeti (John Milton,1667) il
compito di piangere Il Paradiso perduto.
Un giardino di deliziecinto da mura di fuoco
AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI
IL LIBRO
Si intitolaIl paradiso
in terra: mappedel giardino
dell’Eden (448pagine, 58 euro)
il librodi Alessandro Scafi
che BrunoMondadori
manda in libreriail 27 novembre
Attraverso più di duecento
immagini(alcune sono
riprodottein queste pagine),
il volumeripercorre la storiadella cartografia
del Paradisoin Occidente
MONDI IMMAGINARIIn alto, pagina di un manoscritto del De
civitateDei di Agostino, 1473-80 circa, BibliothèqueMunicipale di
Macon. Qui sopra, carta del mondodal Polychronicon di Ranulf
Higden, 1350 circa(Londra, British Library)
BIBBIE E MAPPAMONDIIn alto a sinistra, il giardino dell’Eden
in una Bibbia stampata a Wittenberg nel 1536;accanto, dettaglio
da un mappamondo (Londra,
1265 circa) qui sopra, l’incipit del libro della Genesida una
Bibbia conservata alla British Library
MONDO ABITATOCarta del mondo anglosassone
detta anche Cottoniana (Canterbury, 1025-1050circa), conservata
alla British Library di LondraLa mappa, che raffigura tutto il
mondo abitato,
contiene riferimenti indiretti al Paradiso terrestre
ADAMO ED EVADettaglio del Paradiso terrestreda un mappamondo di
Hanns Rüst(Augusta, 1480 circa). Il paradiso terrestreè raffigurato
come un giardino circondato da muraAll’interno Adamo ed Eva colgono
il frutto proibito
Repubblica Nazionale
-
la letturaScritto in verde
Quando la Dickinson incominciò a raccogliere foglie,petali,
steli aveva quattordici anni. Li incollava su grandifogli
accompagnandoli con una didascaliaUn esercizio botanico e alchemico
che gettò i semidei suoi versi e delle sue “geometrie
dell’estasi”Ora il suo “Herbarium” viene pubblicato in Italia
In tale occupazionesi apparentaa Shakespeare,che ha un
vocabolariovastissimo e distinguela cicuta dal crescionee dalla
zizzania
Rocambolesche vicendeereditarie portano un cer-to giorno le
spoglie dellastoria terrena di EmilyDickinson alla HoughtonLibrary
di Harvard. Arriva-
no enormi bauli con i libri di casa, i da-gherrotipi, vari
oggetti dell’infanzia, i ri-tratti dei Dickinson bambini, i
mano-scritti... E tra il bric-à-brac che accom-pagna l’esistenza,
un Herbarium. Ov-vero, un album dalla copertina rigida, dicolore
verde, che conta sessantasei pa-gine, in cui una mano esperta ha
con cu-
ra disposto in mostra 424 esemplari es-siccati di fiori e piante
da giardino, daprato o da interno, appartenenti a spe-cie autoctone
o naturalizzate nelle vici-nanze di Amherst, Massachusetts.
I grandi fogli vengono ripuliti dallapolvere, e dagli insetti
che vi si erano an-nidati, e si scopre così la bellezza del pri-mo,
anzi unico “libro” di Emily Dickin-son. La disposizione dei fiori,
le combi-nazioni di foglie e gambi e corolle, le eti-chette con i
nomi propri, per lo più in la-tino, tutto è incantevole. E oggi
perfet-tamente riprodotto in facsimile dallacasa editrice Elliot. È
un regalo meravi-glioso per noi appassionati di Emily.
Che ci avvicina ancora di più alla suapoesia. E conferma quel
che già sapeva-mo, e cioè che Emily Dickinson è unascienziata della
natura. Una naturalistaattenta e scrupolosa, che nell’Herba-rium
raccoglie non solo esemplari bo-tanici, ma i semi della sua
poesia.
I fiori essiccati sono ad arte accoppia-ti perché conversino
insieme i più umi-li e i più sofisticati. Come in quelle
sacreconversazioni della pittura rinasci-mentale, un muto colloquio
unisce ilgelsomino bianco e il crespino comu-ne, sì che la grazia
delicata del primosuggerisce a contrasto la forza tenacedel
secondo. Emily adora entrambe: sia
la forza che la fragilità. Dalla frequenzacon cui appaiono nelle
sue pagine èchiaro che ama i narcisi, ma anche i ge-rani, e le
margherite. Si identifica conuna margherita. E in poesia — la
nume-ro 19 — interpreta senza difficoltà laparte della rosa.
A volte sbaglia, confonde il toxico-dendron radicans con il
celastro, chia-ma la gentiana clausa con il nome dicardo stellato.
Sono errori non di in-competenza, ma di distrazione, secon-do me.
Li fa anche Henry Thoreau nelsuo erbario. Lo dico per avvertire che
ladevozione allo studio di fiori e piante eerbe era comune in
quegli anni. Attività
NADIA FUSINI
Il segreto di Emilyle poesie nascono dai fiori
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
IL LIBRO
L’Herbarium, per lungo tempo conservato nella bibliotecadi
Harvard, è rimasto finora sconosciuto al pubblicoitaliano. Ora
viene pubblicato da Elliot (250 pagine,120 euro) in edizione
facsimile, arricchito da alcuni saggiintroduttivi, dal catalogo e
da un indice delle speciebotaniche presenti. Vi sono anche alcune
poesie(che riproponiamo, tratte da Emily Dickinson: Tuttele poesie,
I Meridiani, Mondadori). All’Herbarium, che saràin libreria il 27
novembre, è anche dedicata una mostraal Museo civico di storia
naturale “G. Doria” di Genova
Repubblica Nazionale
-
Sapremo cogliereil simbolo se saremocapaci della
piroettametafisica, chestringe in vertiginosaintimità microe
macrocosmo
poetica, più che femminile per Emily.La quale in tale
occupazione si appa-renta ai poeti, più che alle donne:
aShakespeare, che ha un vocabolario bo-tanico vastissimo e
distingue la cicutadal crescione e dalla zizzania; e a Keats,che
quando poggia i piedi in vetta a uncolle riconosce il biancospino e
il labur-no e la siepe d’avellana e la rosa selvati-ca… Se i
romantici hanno letto Rous-seau, che è grande botanico, Emily
haletto senz’altro il grande saggio diEmerson sulla natura. E
condivide l’e-mozione di Thoreau, quando in Wal-den, di fronte alla
primavera, confessadi sentirsi «nel laboratorio dell’artista
che creò il mondo». Nel vocabolario tra-scendentale scienza e
teologia si ab-bracciano.
Né dobbiamo dimenticare che Emilyè una giovane donna istruita,
che si av-vantaggia delle migliori scuole. Appar-tiene non a caso a
una famiglia coinvol-ta nella storia dell’istruzione in Ameri-ca. E
nei sette anni trascorsi all’Amher-st Academy, fondata dal nonno,
doveentrò all’età di nove anni, imparò nonsolo a leggere, scrivere
e far di conto, masi educò alla filosofia, al latino, alla
bo-tanica. Nella convinzione che, grazie al-la scienza, l’amore
dovuto alla Creazio-ne, in quanto manifestazione dell’Altis-
simo, si sarebbe rafforzato. E dal cuoresarebbe sgorgata
spontanea l’esclama-zione di gratitudine a Dio padre, artefi-ce di
ogni bellezza.
Ma per riuscire a vedere che «il So-prannaturale non è altro che
il Natura-le rivelato» bisognava applicarsi: la «ri-velazione»
sarebbe mancata a chi nonavesse occhi «preparati». Ecco
perchéEmily, studentessa non solo scrupolo-sa, ma intelligente,
studia con passionela storia naturale, zoologia e botanica, eimpara
a distinguere il calice e il sepalo,la corolla, lo stame, il
pistillo, il ricetta-colo, il pericarpo, il seme.
È precisa Emily. Ha una mente lucida,
ama il dettaglio. Non usa mai l’immagi-ne del fiore in modo
decorativo, evoca-tivo — alla maniera di Wordsworth, perfare un
esempio. Semmai, lavora al mo-do opposto. Osservate la poesia 66:
neiprimi quattro versi descrive nudamen-te il processo che porta
dal bulbo al fio-re, nei tre successivi associa alla meta-morfosi
del bruco in farfalla. E negli ul-timi tre ci lascia perplessi.
Sapremo co-gliere il simbolo? Sì, se saremo capacidella piroetta
metafisica, che stringe invertiginosa intimità micro e
macroco-smo.
Ma intanto, sotto i nostri occhi è fio-rito un bulbo, è nata una
farfalla.
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
Dalla zolla, così,d’oro e scarlatto
sorgerà più d’un bulboche scaltramente fu nascosto
ad occhi espertiDal bozzolo, così,
balzerà più d’un vermecon tanti lieti colori
I contadini come me,i contadini come teguardano perplessi(Poesia
66, 1859 ca)
Un sepalo ed un petalo e una spinain un comune mattino
d’estate,
un fiasco di rugiada, un’ape o due,una brezza,
un frullo in mezzo agli alberi —ed io sono una rosa!(Poesia 19,
1858 ca.)
La pallida colonna del soffionesgomenta l’erba — ed ecco
che l’inverno d’un tratto si trasformain un coro di gemiti
infinito —
Una sontuosa gemma dallo stelospicca seguita da un fiore
sgargiante —
sono i soli che danno l’annunciodelle esequie compiute(Poesia
1519, 1881 ca.)
Fiorire - è il fine - chi passa un fiorecon uno sguardo
distratto
stenterà a sospettarele minime circostanze
coinvolte in quel luminosofenomeno
costruito in modo così intricatopoi offerto come una
farfalla
al mezzogiorno —Colmare il bocciolo — combattere il verme —
ottenere quanta rugiada gli spetta —regolare il calore - eludere
il vento —
sfuggire all’ape ladruncolanon deludere la natura grande
che l’attende proprio quel giorno —essere un fiore, è
profonda
responsabilità —(Poesia 1058, 1865 ca.)
Emily Dickinson
Repubblica Nazionale
-
Nome da farfalla, Pannonica, cognomeda banchiere, Rothschild. Fu
pianista, spia, pilotad’aerei, ereditiera ripudiata. Ma la sua
passione,
oltre ai centoventi gatti con cui viveva, erano i grandi geni
del sound che l’Americastava scoprendo. Li portava a casa, li
aiutava, li fotografava. Loro le confessavanosogni e aspirazioni.
Che sono stati raccolti in Francia in un libro per immagini
SPETTACOLI
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007
Bisogna immaginarsela unache nasce con un nome dafarfalla e un
cognome dabanchiere, Pannonica Roth-schild. Il destino è scritto
neinomi e il suo era questo: una
farfalla venuta al mondo in una gabbia d’o-ro, libera solo di
provare a scappare e co-stretta invece a sbattere le ali contro
milita-ri e baroni, sedi diplomatiche e mariti ap-passionati di
arti marziali, doveri, inchini,buonasera eccellenza come va.
Bisognaimmaginarsela dopo, quando finalmentelibera di vivere
ripudiata dalla famiglia econ centoventi gatti — una piccola
rendi-ta: piccola per lei gigantesca per i suoi ami-ci, una somma
capace di mantenere a vitanella New York degli anni Sessanta
decinee decine di musicisti, Thelonius Monk eCharlie Parker, Mingus
e Miles Davis —esce la sera, in macchina, e va a cercare fuo-ri
dalle bettole chi non ha niente salvo unmostruoso talento: «Dai,
sali sulla mia Ben-tley», andiamo che ti porto a casa, c’è unpiatto
di minestra e un letto, puoi restarefinché vuoi. Era altissima,
magra, pallida,con un viso lungo non bello ma davvero
ari-stocratico, quel naso, quegli occhi neri,quei capelli sempre
spettinati e gli abiti diseta a fiori e a colori scombinati, pezzi
di unguardaroba miliardario indossati comestracci senza valore, la
sigaretta sempre ac-cesa nel bocchino. Quando camminavanel sud
degli Stati Uniti accanto a Thelo-nius Monk, una montagna nera di
due me-tri, la gente per strada sputava per terra ecambiava
marciapiede. Una bianca ele-gante con un negro, che schifo.
Pannonica De Koenigswarter (il cogno-me del marito, il barone
Jules) è stata pia-nista e pittrice, militante antinazista e spiain
Africa, soldato e autista di camion, pilo-ta di aereo, fotografa,
madre di cinque figlie musa del jazz, mecenate di quella
irripe-tibile generazione di geni che l’Americadella segregazione
razziale trattava peggiodei cani: Art Blakey, Bud Powell, Sonny
Clark, Charlie Parker, John Coltrane, Char-lie Mingus, Miles
Davis, Sonny Rollins.Nella sua casa di New York sono morti duedi
loro: Parker e Monk. La casa si chiamavaCathouse: cat che sono i
gatti, certo, ma poinello slang nero del tempo “cats” erano i“tipi
randagi”, i musicisti. Ha accudito Co-leman Hawkins, epilettico, ha
assistitoBud Powell, depresso. Li ha mantenuti, hasfidato le
convenzioni e il giudizio sociale,ha vissuto con loro e per loro.
Ha ispiratotemi musicali come Pannonica (Thelo-nius Monk), Nica e
My dream of Nica(Sonny Clark), Blues for Nica (KennyDrew),
Thelonica (Tommy Flanagan), Ni-ca’s dream (Horace Silver) e decine
di altripezzi che sono oggi la storia del jazz.
Nel corso della seconda parte della suavita, la sua nuova vita,
ha fotografato conuna Polaroid gli uomini e le donne che vi-vevano
da lei come in una comune: Thelo-nius che balla e che gioca a ping
pong, chedorme su una sedia col cappello in testamentre Sonny
Clark, accanto, si fa una si-garetta e sbadiglia. Art Blakey che
scrive amacchina una lettera, John Coltrane checucina. Una galleria
di immagini strepito-se: sporche sciupate rotte, in bianco e ne-ro,
segnate dalle impronte digitali dei loroprotagonisti, i primi a
prenderle in manoquando lei ridendo gliele porgeva e diceva:guarda.
Di tanto in tanto, mentre li foto-grafava o li ri