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O m a g g i o a
Danilo Donati creatore di visioni
Gianfranco Angelucci
Non sono ancora in molti a sapere che Danilo,superati i settanta
anni, aveva scoperto una venanarrativa potente come una fiumana,
inarrestabile.Quando ero ancora direttore della Fondazione Fellini,
nel1999, mi aveva fatto leggere un brogliaccio - 982 paginescritte
a pennarello - su una storia ambientata durante laguerra, al
passaggio del fronte, a Firenze. In frontespizio una visione dei
ponti e del lungarno sottoun cielo altissimo, erratico di nuvole
bianche. Vi si narravala vicenda di un gruppo di omosessuali,
costretti a queltempo a una semiclandestinità, che salvano nella
casa diuno di loro, in un sottotetto, un aviatore
americanoprecipitato nei boschi. Sullo sfondo bellico
minuziosamente ricostruito, il fluiredenso, romantico, sensuale,
coltissimo, di una esistenzanegata che però non rinuncia a se
stessa e i cui adepti,come monaci di un assurdo medioevo,
proteggono epreservano, in ogni sua espressione, il decoro e la
bellezzache i tempi vorrebbero cancellare. Una prova letteraria
sbalorditiva, appassionante. Miadoperai immediatamente per farla
trascrivere al computere renderla proponibile agli editori. E
presto il manoscrittofu acquisito da Newton Compton, che lo diede
alle stampecon il titolo di Coprilfuoco, secondo il desiderio di
Daniloche in assonanza a quella delicata allusione contenuta
nel
gioco di parole - il coprifuoco della guerra e il copri
fuocodella diversità - avrebbe prediletto in copertinaun’immagine
allegorica, la riproduzione, da luiaccuratamente scelta, di un
sontuoso camino secentesconel cui cuore divampano le fiamme di un
fuoco divorante. Uscito nel 2001, il romanzo è stato selezionato
per ilPremio Strega, imponendosi nella cinquina finale. MaDanilo
non si era lasciato distrarre dall’inatteso consenso,incalzato da
quella nuova urgenza di scrivere che non gliconcedeva pace, quasi
presentisse che il tempo adisposizione era prossimo a scadere.
Stava lavorando contemporaneamente a una serie diracconti, Dei
pranzi e delle cene, e a un nuovo romanzo fiume.Del primo progetto
ne parlavamo da tempo, fin dalla primavolta che mi aveva raccontato
l’episodio che aveva perprotagonista Luchino Visconti, una
esilarante cena di fineanno nella villa di Via Salaria che riunisce
attorno allapreziosa mensa del Conte, capriccioso e stizzoso, i
suoiaffamatissimi assistenti; la stesura era degna del
raccontoorale. Lo stile si adattava ogni volta al
personaggio:rarefatto e misterioso nell’incontro con Fellini, loro
due dasoli, in un ristorante dell’Eur; delicatissimo e raffinato
nellaricostruzione di una colazione con Ottone Rosai, il
suomaestro, d’arte, di gusto e di vita. Alcuni altri erano in corso
d’opera, ma già schizzati, DavidLean a Bora Bora, Silvana Mangano,
e ancora una cenaprincipesca, sotto la luna, alle Murelle, la sua
amatissimaresidenza umbra, la sera in cui l’amico Fellini, al
terminedelle riprese di Casanova, gli reca in dono, con
regalesorpresa, un piano a mezza coda. Donati venivacomponendo un
nuovo Convivio, chiamando a raccolta igrandi artisti con cui aveva
lavorato colti nell’inermeabbandono della mensa, rivelatorio più
d’ogni altro. Non contento dell’impresa aveva aggredito d’impeto
unalunga narrazione, una vera e propria saga sulla malavitaromana,
una rêverie antropologica oltre che linguistica suuna umanità che
aveva frequentato molto da vicino e in cuiriconosceva l’impronta di
una aristocrazia, un codiced’onore, smarriti nella truce violenza
di una società senzapiù contorni. Lui emiliano e fiorentino di
adozione, cosìaffascinato, come del resto Pasolini, da una lingua
in cuiriassaporava con nostalgica allegria una schiettezza,
unaautenticità irrimediabilmente perduta. Questa sua
frenesialetteraria lo occupava fino a riempirgli le ore della
notte.“Lavoro sempre - si vantava - mi sveglio e mi metto
ascrivere.” Era come se la sua traboccante, inesaustacreatività,
non trovando gli sbocchi naturali in un cinemache avvertiva giorno
dopo giorno più estraneo, o
nell’amata pittura a cui si negava (si negava? Provate
ariguardare i cartoni preparatori per i Lombardi, o i
bozzetticreati durante la preparazione di Caterina di
Russia!),avesse spezzato la crosta fluendo libera sulla
pagina.Quante volte l’avevo spinto, ascoltandolo nei racconti
dellasua infanzia a Suzzara, in certi raccapriccianti dettagli
dellasua vita, quante volte l’avevo esortato a fissarli sulla
carta!E adesso i risultati mi davano ragione. Avremmo
potutotrasformare le sue storie in copioni teatrali
ocinematografici, lavorato finalmente in libertà, come glipiaceva e
continuava a vagheggiare da mesi. Lui ed io, allatesta
dell’impresa. “Hai visto? Ci ha lasciato.” Commenta Bruno, come
difronte a una inaudita stravaganza. Bruno Lenzi, insiemealla
moglie e le figlie, è la famiglia di Danilo. Si è seduto sulbordo
del letto, come si fa con un malato, e continua pertutto il tempo a
passargli la mano su e giù per la gamba,come se lo accarezzasse.
Oppure gli sistema la manica dellacasacca scura perché scenda
meglio sul polso. Lo tratta conun affetto e una intimità
stupefacente, come se fosse vivo.Una semplicità, una mancanza di
retorica, da lasciarmiincantato e anche da riuscire a farmi sentire
un po’ grossoed inerte. Sono sempre più convinto che la vera,
l’unicapietas appartenga soltanto all’umiltà. Capivo qualeprofonda
consolazione dovesse aver provato Danilo aregalare dignità e
benessere a quella famiglia, a farne lapropria famiglia. Rimango
solo con Danilo, non midispiace quel dialogo a due, silenzioso,
assorto, ora che luinon c’è più. Cerco di avvertire la sua anima,
il suo noumen, se staancora aggirandosi intorno, nell’appartamento
di viaNicola Ricciotti. Lui è un ariete come me, nato il 6
apriledel 1926, dunque esattamente vent’anni e sei giorni
piùvecchio di me. Avevo ricevuto l’ultima sua telefonata,registrata
in segreteria, appena qualche giorno prima:“Questo film mi sta
ammazzando.” Si lamentava con un filo di voce sofferente. E, subito
dopo,il suo tipico strattone in avanti: “Sul set ormai
c’èpochissimo da fare: per le due ultime sequenze è tuttopronto, se
la caveranno loro. Ti chiamerà Mario Cotone, l’organizzatore, è
impazzito perCoprilfuoco e vuole commissionarti la sceneggiatura,
cosìpartiamo subito.” Mi aggiro nello spazio non vasto dellasua
stanza. Sul comò c’è l’orologio con il cinturino dimetallo,
attaccato con una catena da tasca a un mazzo dichiavi. Lo sollevo
per sentirne il ticchettio, ma non batte. Intorno,
sulle pareti, quadri di sante, palesemente oleografici. Equalche
tela, dipinta da lui stesso. Il letto, con testiera diferro a
pomelli, a doppia piazza, è perfettamente rifatto.Danilo appoggia
direttamente sulla sopracoperta, ilguanciale bianco, scoperto, per
la testa. Mi siedo sulla sediaposta accanto, verso il fondo. Sul
comodino (un pezzo instile come quasi tutto nell’arredo) è
appoggiata una minutae graziosa cornice rotonda composta da una
coronapolicroma di pietre dure. Contiene il ritratto fotografico
diuna donna giovane, la madre. Suoni di campanello allaporta. Altri
arrivi. Quando nuove persone entrano nellastanza io ne esco. Mi
trattengo nello studiolo, mi guardointorno. Pesanti e stracolme
librerie color verde oliva allepareti, volumi rari e importanti di
repertori storici e visivi.La cultura pittorica di Danilo, così
straordinariamenteimpiegata, stravolta e immaginifica, nel suo
mestiere. Unmobile a sportelli, dello stesso colore, fa da imbotto
allaporta. Sul lato opposto, contro una seconda scaffalatura,
ilminuscolo tavolino da lavoro, una scrivaniolad’antiquariato in
foggia stondata, ad otto, così come lui l’halasciato. Una grossa
lente d’ingrandimento, gli occhiali, lemedicine (Exedrin e Feldene
Fast, una scatola sopra l’altra),un paio di forbici da redazione,
il lume bianco snodato. Sulpiano c’è un libro: La Cupola di
Brunelleschi, di Ross King(Rizzoli). Capitolo I - Il 19 agosto del
1418. La data, 1418,è riscritta a matita, in risalto, sul bordo
bianco accanto altesto. Una lente più piccola, fra le pagine, funge
dasegnalibro. Nel vano della finestra, a terra, pile di libri.
Incima si distingue Diario di un ladro, di Jean Genet,
OscarMondadori (riferimento inevitabile per il romanzopicaresco che
Danilo stava mettendo insieme sul mondoromano dei ladri). Sul
tavolino accanto, poco più di una base, poggiano unpesante
abat-jour di travertino a cappello quadrato écru, eun paio di
volumi, uno sopra l’altro: un Dizionario deiProverbi e il mio
romanzo Federico F. , con un segnalibro apag. 13 e un’ampia croce
segnata a matita a fianco delladescrizione del sogno premonitore di
Fellini, nel puntopreciso in cui viene detto: “trovavo una lapide
di marmogrigio, rettangolare, simile alle pietre tombali, e una
fessuraper la corrispondenza con sopra scritto: DISPERSO
DEIDISPERSI”.Da quando è scomparso Fellini, e con lui una
concezionedi cinema che in Italia stenta a sopravvivere, Danilo
haavvertito che il suo lavoro non serviva più. Non che
loaffrontasse con meno impegno o minore rissosità neldifendere le
proprie scelte, ma era come una accademia
DANILO DONATI SCENOGRAFO(Luzzara, 6 aprile 1926 – Roma, 2
dicembre 2001
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svuotata di sostanza. Negli ultimi tempi aveva lavorato
altelevisivo Nanà (prima o poi troverò l’occasione perraccontare la
genialità di quegli ambienti, di quei costumi!),e naturalmente ai
due film di Robero Benigni, La Vita èBella, premio Oscar 1999, ed
ora il Pinocchio, che costituiràl’ultimo lascito della sua
maestria. Produzioni degne di luie della sua concezione dell’arte
scenica (se mai Donatiabbia intimamente creduto che possa esistere
davvero!)sono sempre meno frequenti, rare eccezioni. Che spaziopuò
esserci, oggi, per un art director che si ispira a MonsùDesiderio?
Non ricordo se stava preparando la Grand Opera del TeatroCarlo
Felice di Genova o già il Pinocchio; mentreriguardavamo, a casa
sua, i bozzetti tracciati a matita grassae carboncino, aveva tirato
fuori il librone dagli scaffali. “Loconosci?” Sotto quell’unico
nome di fantasia, eranoraccolte le composizioni pittoriche di due
pittori lorenesidel Seicento, attivi a Napoli, inventori di città
fantastiche eirreali, di rovine romantiche e di architetture
goticheggianti(all’origine del’capriccio’ settecentesco). Danilo
conoscevaa memoria ogni tavola, ogni particolare, ogni ombra.
Misembrò di percepire cosa stesse cercando di far affiorareper
Pinocchio, di cui disprezzava non la grande metafora delburattino,
ma la tartufesca, asfittica, morale piccoloborghese e leopoldina
che gli è stata cucita addosso perconvenienza. Danilo è un genio.
Sfonda pareti inesistenti, di carta velina,e al di là, come per
magia, dispiega un intero mondo chesta aspettando soltanto il film.
Così nasce anche Satyricon, ilsuo primo rapporto con Fellini, e la
successivacollaborazione per alcuni capolavori degli anni Ottanta
eNovanta, che non si sa quando l’Italia conoscerà di nuovo.In tanti
ricordano la sagoma del transatlantico Rex, inAmarcord, che svapora
sognante sul mare notturno diRimini (la piscina di Cinecittà). Ma
Casanova, l’avete mai piùrivisto sul grande schermo?E’ per cercare
di dar corpo a queste raccontabile maestriache stavo progettando,
insieme a Danilo, una grandemostra sul suo lavoro, dal titolo
eloquente (ripreso nelpresente articolo): Danilo Donati, creatore
di visioni.Avevamo già scelto il luogo, la Reggia di Colorno,
unapiccola Versaille vicino Parma, non troppo distante dal suopaese
di nascita. Avevamo effettuato i sopralluoghi,avremmo riunito nelle
decine di stanze a disposizione,costumi e scenografie dei film
realizzati con Pier PaoloPasolini, Franco Zeffirelli, e
naturalmente Fellini: I Clown,Roma, Amarcord, Casanova, Ginger e
Fred. Egli stesso aveva
già fatto l’inventario nelle sartorie teatrali
ecinematografiche, recuperato gran parte dei suoi costumi,molti dei
quali sono già stati acquisiti dall’Università diParma. Avevo
ritrovato presso un collezionista privatogran parte dei paramenti
cardinalizi che avevano figuratonel défilé ecclesiastico di Roma. E
avremmo ricompostoun’intera carriera, pezzo per pezzo, compresi i
film mairealizzati, come l’impresa gigantesca della Caterina
diRussia, varata da Bob Guccione, di cui esistono uncentinaio di
cartoni preparatori. Poi purtroppo i progettidella Fondazione
Fellini sono stati spezzati in volo, cometutti ormai sanno. E anche
la mostra di Donati aveva subitoil contraccolpo. Ma l’idea per noi
non si era perduta,continuavamo a radunare materiali e suggestioni,
in attesa ditrovare le condizioni favorevoli per essere ripresa.
Intantoalcuni suoi costumi, fatti girare dalle sartorie, apparivano
quie là in rassegne minori, e Danilo si incolleriva, si
inaspriva.Non era così che voleva fosse esposto il suo lavoro. Non
cheavesse torto, eppure che incredibile emozione incontrarne
latraccia! Recentemente l’iniziativa era stata
attuatadall’appuntamento tradizionale di Cava de’ Tirreni. Per la
parte felliniana erano esposti alcuni costumi di PieroGherardi per
Giulietta degli Spiriti, gli altri appartenevano aDanilo: creazioni
di Roma (1972), Casanova (1976), Intervista(1987). Gherardi e
Donati, entrambi collaboratori eccelsi diFederico Fellini, fra i
più congeniali - e geniali - interpretidella visionarietà del
regista riminese. E’ importante partireda loro per aprire uno
spiraglio sulle differenti concezioniche sottendono l’art direction
nel cinema: il decor comefedele costruzione scenica oppure come
soggettivitàespressionistica. Per Fellini, è ben noto, al pari
della scenografia, del trucco,delle luci, il costume è un connotato
psicologico, primaancora che storico, dei personaggi. Fellini,
compulsivodisegnatore, schizzava gli abiti dei suoi attori insieme
allecaratteristiche somatiche, le espressioni del viso, i tratti
delportamento. Stabiliva le fogge, i colori, illustrava
particolariinsostituibili, ‘descriveva’ i protagonisti delle storie
daraccontare utilizzando matite e pennarelli, acquarelli epenna
biro, con la stessa aggettivazione colorata che usavanel parlare.
Centinaia, migliaia sono i disegni cheaccompagnavano la lavorazione
del film e che finivanoincollati sui tavoli, appesi al muro,
gelosamente custoditinelle cartelle di progetto, negli atelier
degli architetti,scenografi, costumisti, arredatori. Fellini
disegnava sempre,in ogni contesto, per ogni occasione, caricaturava
gli ospitidel pranzo sugli stessi tovaglioli, o la persona che gli
sedeva
di fronte alla scrivania servendosi dei fogli extrastrong
cheteneva in risma costantemente davanti a sé. I caratteri deisuoi
film nascevano così, ‘scarabocchiati’ sulla carta comeavrebbe fatto
un burattinaio nella sua baracchetta, unaspecie di teatralizzazione
mentale che prendeva forma dallesue fantasie per tramutarsi nelle
Gelsomine, Cabirie,Sceicchi Bianchi, Anitone e Gradische, via via,
film dopofilm, in una teoria infinita di tipologie immaginate e
giàvere, fantasmi indistruttibili della fantasia comune, fino
aduscire dalla schermo per entrare a far parte di quelsingolare
Carro di Tespi che lo seguiva docilmente in ogniavventura. Compreso
l’ultimo Benigni di La Voce dellaLuna, un Pinocchio astrale e
leopardiano che neaccompagna il congedo. Nessun altro regista,
forse, quantoFellini, ha radunato attorno a sé tante creature che
nonsmettono di sfilare in parata al ritmo conciliatorio
dellamarcetta di Otto 1/2, un caravanserraglio in cuicontinuiamo a
specchiare i mille frammenti di noi stessi,schegge rimosse di una
sconosciutezza riemersa alla luce. I personaggi di Fellini non
esigevano dunque abiti di scena,ma livree, come vengono chiamati i
piumaggi degli uccelli,ognuno con la propria, inconfondibile, per
esserericonosciuti dagli occhi e dall’anima, senza possibilità
dierrore. Ai costumisti veniva richiesto questo talento, eGherardi
per un lato, Donati per l’altro, ciascuno colproprio stile, sono
riusciti a trasformare idee e concetti inaltrettanti capolavori di
visualità. Nella mostra di Cavafigurava l’algido Giacomo Casanova
biancovestito in duegruppi settecenteschi contrapposti, due
sequenze distintedel film: il salotto di Madame Durfé e la cena di
Voltaire.L’amante veneziano che nel film possedeva le
fattezzestravolte di Donald Sutherland, si aggirava elegante
inmezzo alla sua umanità preferita, dame addobbate inarchitetture
stupefacenti e nobili di rara raffinatezza; gliscintillii di
Hogarth, la minuziosa registrazione pittorica diWatteau, del
Guardi, del Canaletto, erano quasi tangibili, ilSettecento era lì,
davanti a noi, racchiuso nello scrignodell’Histoire de ma vie.
Eppure lo spirito che aleggiavasilenzioso e implacabile era ancora
altro, un’epocainventata, una laguna di ghiaccio in cui Giacomo
Casanovastringeva fra le braccia la bambola meccanica, null’altro
cheun inerte e disanimato manichino femminile. Nonun’epoca dunque
della Storia ma un paesaggio interiore cheDonati ha saputo tradurre
a livelli così assoluti dameritargli l’Oscar, il premio più ambito
dellacinematografia mondiale.Del film Roma era esposto un solo
costume succinto; si
riferiva alla sequenza dei ‘casini di lusso’,
l’apparizionedall’ascensore della splendida prostituta
napoletana,interpretata da Fiona Florence, che toglie il fiato e la
parolaa tutti i maschi in attesa, compreso il
giovanissimoprotagonista, turbato senza scampo nei sensi e
nell’animada quella città vagheggiata che sarebbe divenuta la
suapatria d’elezione. Nella seconda ampia sala di
entrata,l’esemplare di un altro film, Intervista, il frac azzurro
diMandrake indossato con sublime ironia da MarcelloMastroianni,
ultimo ruolo da lui interpretato nella lunga einsuperabile
collaborazione con l’amico Federico, unasalutare e sfrontata
parodia di se stesso, complice AnitaEkberg ben lontana dai fasti
della Fontana di Trevi, in unadelle sequenze più struggenti, in una
delle dichiarazionid’amore al cinema più commoventi, di tutta la
storia dellasettima arte.Se la grande mostra su Danilo Donati giace
ancora in attesadel maturarsi dei tempi, la riflessione sul suo
lavoro è giàiniziata, prenderà l’avvio da questa stessa rivista
che, in unodei prossimi numeri, dedicherà un intero speciale alla
suafigura e alla sua arte. E per l’estate del 2002, a Rieti -
dovele amministrazioni locali stanno approntando un
magnificoprogramma di rassegne e di premi riservati all’arte
scenica- sarà varata una personale dei suoi film, la prima in
Italia,accompagnata da una anticipazione di reperti scenografici.Un
assaggio sostanzioso di quella filosofia della‘matericità’,
attraverso la quale Donati ha saputo regalare alnostro cinema il
momento forse più alto della più autenticatradizione figurativa
italiana.
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Danilo Donati sul set del Pinocchio di Roberto Benigni
Le immagini che presentiamo sono state realizzate sul set
delPINOCCHIO di Roberto Benigni.
NEL 1994 INIZIÒ A LAVORARE PER ROBERTO BENIGNI; EPROPRIO PER UN
FILM DI BENIGNI, PINOCCHIO, DONATIDIEDE VITA AL SUO ULTIMO
CAPOLAVORO CON IL QUALE SIAGGIUDICÒ PER LE MIGLIORI SCENOGRAFIE E I
MIGLIORICOSTUMI IL PREMIO DAVID DI DONATELLO. TERMINATIQUESTI SUOI
ULTIMI, "SOGNANTI" COSTUMI, DONATI MORÌ AROMA, IL 2 DICEMBRE
2001.
Photo: Sergio StrizziSet design: Danilo Donati
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The interior of the Fairy’s house
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La casa della fata