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1 Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova CORSO DI FORMAZIONE PER IL CONSEGUIMENTO DELLA SPECIALIZZAZIONE PER LE ATTIVITÀ DI SOSTEGNO DIDATTICO AGLI ALUNNI CON DISABILITA’ 2014 - 2015 OBIETTIVI DIDATTICI NELL’EDUCAZIONE DI SOGGETTI AUTISTICI Corsista: Del Din Guido Matricola: 1087835 Direttore del corso Ch. ma Prof.ssa Marina Santi
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Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

Apr 08, 2023

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Page 1: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

1

Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova

CORSO DI FORMAZIONE

PER IL CONSEGUIMENTO DELLA SPECIALIZZAZIONE

PER LE ATTIVITÀ DI SOSTEGNO DIDATTICO

AGLI ALUNNI CON DISABILITA’

2014 - 2015

OBIETTIVI DIDATTICI NELL’EDUCAZIONE DI

SOGGETTI AUTISTICI

Corsista: Del Din Guido

Matricola: 1087835

Direttore del corso

Ch. ma Prof.ssa Marina Santi

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Abstract

Questo elaborato teorico intende sviluppare una riflessione sulla peculiarità dell’azione

didattica in ambiente scolastico in relazione ad alunni affetti da disturbi dello spettro

autistico. Soprattutto in casi in cui il quadro clinico è grave, infatti, gli interventi educativi

si avvicinano molto a quelli di terapia e di riabilitazione. Per meglio distinguere i compiti

dell’insegnante di sostegno rispetto a quelli di ambito medico e riabilitativo, si è scelto di

analizzare alcune formulazioni degli obiettivi perseguiti da queste tre forme di presa in

carico. Questa chiave di lettura ha inoltre permesso di approfondire l’articolazione del

concetto di obiettivo didattico, una nozione basilare per le scienze dell’educazione,

soprattutto nella seconda metà del Novecento.

Nel primo paragrafo è stata chiarita la distinzione tra intervento terapeutico, intervento

riabilitativo e intervento didattico. Si è soprattutto sottolineato come il contesto della

scuola si differenzia da quello della riabilitazione in quanto è costituito per gran parte da

una rete di relazioni tra pari. La riabilitazione si fonda invece su un rapporto duale, in un

setting molto strutturato. All’interno della scuola, dunque, l’alunno con disturbi autistici è

chiamato a trasferire e generalizzare, in un contesto meno artificiale e più imprevedibile,

gli apprendimenti conseguiti attraverso la riabilitazione.

Nel secondo paragrafo è stata presentata l’articolazione del concetto di obiettivo didattico

proposta da G. De Landsheere. Si sono distinti tre livelli di astrazione. Il livello più astratto

degli scopi generali dell’educazione è contraddistinto da opzioni di carattere assiologico,

frutto dell’evoluzione storico-sociale: il principio dell’inclusione scolastica rientra tra tali

opzioni. Al livello intermedio si collocano le tassonomie di obiettivi didattici elaborate

dalla psicopedagogia nella seconda metà del Novecento. Particolare attenzione è stata

riservata al lavoro di B. S. Bloom, che distingue tra campo cognitivo, campo affettivo e

campo psico-motorio, costruendo una gerarchia di obiettivi di complessità crescente,

formulati in un linguaggio mentalista non osservabile. In linguaggio comportamentale sono

invece espressi gli obiettivi operativi, posti al terzo livello: la loro formulazione deve

consistere in una descrizione univoca di un comportamento osservabile e del contesto

d’azione. A questo livello si pone anche l’importante distinzione tra obiettivi di

padronanza, obiettivi di transfert e obiettivi d’espressione.

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Il terzo paragrafo consiste in una sintetica panoramica dei modelli di trattamento

riabilitativo più diffusi, specifici per l’autismo. Queste tecniche di riabilitazione possono

essere ricondotte a due famiglie principali: i metodi comportamentali, che applicando lo

schema stimolo-risposta e utilizzando soprattutto la tecnica del rinforzo, mirano a

modificazioni comportamentali determinate; i metodi evolutivi o affettivi, che partono

invece da un approccio psicodinamico e fanno leva soprattutto sul rapporto emotivo con il

paziente.

Nel quarto paragrafo presento alcune formulazioni degli obiettivi terapeutici, riabilitativi

ed educativi riguardanti il trattamento dell’autismo. In particolare, vengono citate la

formulazione, di chiara matrice comportamentale, contenuta nelle Linee guida per

l’autismo della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza e altre

due formulazioni legate al tema dell’inclusione scolastica, una di matrice psicodinamica,

l’altra con un linguaggio vicino a quello delle tassonomie di obiettivi à la Bloom.

Nel paragrafo conclusivo si tenta di ricollegare le formulazioni di obiettivi presentate nel

paragrafo precedente con l’articolazione teorica del concetto di obiettivo didattico. In

particolare, si osserva come la prassi riabilitativa possa far largo uso di obiettivi operativi

di padronanza, formulati in linguaggio comportamentale, mentre in ambito scolastico gli

obiettivi didattici sono più complessi e dunque difficili da tradurre in termini osservativi.

Le tassonomie psicopedagogiche à la Bloom sono d’altra parte uno strumento più adeguato

per la pratica scolastica, ma il loro linguaggio mentalista risulta ambiguo e di difficile

applicazione alle peculiarità dell’autismo.

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INDICE

1. Introduzione: terapia, riabilitazione, educazione……………………………. 7

2. Il concetto di obiettivo didattico……………………………………………… 10

3. Modelli di intervento terapeutico e riabilitativo per l’autismo……………… 17

4. Obiettivi terapeutico-riabilitativi e obiettivi didattici a confronto…………… 22

5. Conclusioni…………………………………………………………………….. 28

Bibliografia………………………………………………………………………… 31

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1. Introduzione: terapia, riabilitazione, educazione

I cosiddetti “disturbi dello spettro autistico” si differenziano da altre disabilità o malattie

psichiche perché, più di altri tipi di patologia, richiedono “un intervento massiccio di tipo

educativo”1. Ciò rende tali disturbi particolarmente significativi per chi lavora nel mondo

scolastico, perché l’inclusione sociale offerta dalla scuola riveste nel trattamento

dell’autismo un ruolo di prim’ordine, che si affianca agli interventi di natura propriamente

medica (nella fattispecie, neuropsichiatrica) in modo più radicale rispetto al trattamento di

altre disabilità diffuse, quali ad esempio sindromi genetiche (Down, X fragile, ecc.) o

cerebrolesioni.

L’importanza decisiva dell’inclusione scolastica per il trattamento dell’autismo può

essere dedotta anche solo da una definizione clinica del disturbo (che comunque presenta

una variabilità di manifestazioni difficilmente riassumibili in una definizione):

L’autismo è una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo biologicamente

determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative

all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla capacità di stabilire

relazioni con gli altri. L’autismo, pertanto, si configura come una disabilità “permanente” che accompagna il

soggetto nel suo ciclo vitale, anche se le caratteristiche del deficit sociale assumono un’espressività variabile

nel tempo2.

Essendo il “deficit sociale” l’elemento centrale del quadro clinico, la cura dei soggetti

autistici non può avvenire esclusivamente nei contesti altamente protetti e controllati della

terapia medica o del trattamento riabilitativo, caratterizzati da relazioni uno - uno.

L’ambiente scolastico, invece, dal momento che è l’istituzione privilegiata in cui avviene

la prima socializzazione dell’individuo fuori dal nucleo familiare, rappresenta il contesto

più appropriato dove far emergere, affrontare e tentare di superare le problematiche

relazionali.

Socializzazione e comunicazione sono un’area importante dell’azione educativa

scolastica, per ogni allievo, anche se la struttura dei programmi d’istruzione tende a

privilegiare competenze di tipo cognitivo. I campi affettivo e relazionale devono essere

1 P. Venuti, L’autismo. Percorsi di intervento, Carocci, Roma 2003, p. 160.

2 S.I.N.P.I.A., Linee guida per l’autismo. Diagnosi e interventi, Erickson, Trento 2005, p. 10.

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invece posti esplicitamente al centro dei progetti educativi appositamente predisposti per

soggetti autistici, soprattutto avanzando nei gradi di scolarità, dove spesso i contenuti

disciplinari prendono il sopravvento sulla cura delle competenze trasversali di tipo emotivo

e relazionale. La scuola, come micro-sistema sociale3, è il primo contesto in cui è possibile

strutturare un intervento volto a migliorare le relazioni interpersonali, perché costituisce

una zona sociale intermedia tra gli ambienti iper-protetti e limitati della famiglia e del

colloquio terapeutico e l’area incontrollata dell’universo sociale esterno.

La costruzione e la gestione delle interazioni, in soggetti autistici, non seguono quei

processi spontanei e automatici che i soggetti sani danno per scontati. Le strategie per

relazionarsi agli altri devono pertanto essere oggetto di un’azione didattica pianificata e

devono talvolta costituire il principale contenuto del curricolo personalizzato per l’alunno

autistico. Nei frequenti casi dove le capacità di comunicazione sono altamente

compromesse e addirittura manca lo sviluppo del linguaggio parlato, l’azione educativa

risulta molto difficile e si distacca ampiamente dalla normale prassi di insegnamento

scolastico, avvicinandosi a modalità tipiche dell’agire terapeutico-riabilitativo.

Proprio per questo, è utile chiarire la distinzione concettuale tra terapia, riabilitazione ed

educazione. La separazione di questi tre ambiti, nella realtà, non è mai netta ed è anzi

auspicabile che le tre modalità d’azione si sovrappongano, nella sinergia degli esperti delle

tre aree.

La terapia è la modalità di intervento propria di neuropsichiatri, psichiatri e psicologi.

Incorporata al trattamento terapeutico è la diagnosi, ossia l’identificazione dei disturbi in

linguaggio medico, che rappresenta il punto di partenza della presa in carico da parte delle

istituzioni sanitarie. Parallela e talvolta sovrapposta alla diagnosi è l’osservazione

funzionale, che costituisce un arricchimento dell’approccio medico diagnostico attraverso

un’analisi più accurata delle interazioni tra individuo e ambiente. Il cosiddetto modello

“bio-psico-sociale”, raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità attraverso

l’ICF (International Classification of Functioning), è il nuovo paradigma di inquadramento

delle disabilità, un paradigma che dovrebbe costituire una migliore piattaforma di

comunicazione tra istituzioni socio-sanitarie ed enti scolastici.

3 Cfr. U. Bronfenbrenner, The Ecology of Human Development: Experiments by Nature and Design, Harvard

University Press, Cambridge (MA) 1979.

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In rapporto alla presa in carico di pazienti autistici da parte del sistema sanitario

nazionale, il terapeuta considera ed interviene sugli aspetti emotivo-relazionali, da una

punto di vista medico (prescrivendo ad esempio cure farmacologiche) e svolgendo

soprattutto un ruolo di progettazione, supervisione e raccordo tra soggetto, famiglia, tecnici

della riabilitazione, insegnanti e altri erogatori di servizi. Il supporto alla famiglia e

l’organizzazione degli interventi riabilitativi ed educativi sono dunque il complemento

dell’azione medico-terapica in senso stretto.

La riabilitazione è il trattamento sistematico volto “al recupero di alcune funzionalità

deficitarie e parte dal rinforzo e dall’utilizzo delle funzioni non compromesse per poi

estendersi alle aree problematiche”4. Rispetto al terapeuta, il tecnico della riabilitazione è

di solito chiamato a costruire una relazione più stretta col soggetto autistico ed anzi la

qualità della relazione (condivisione, reciprocità, fiducia, investimento affettivo) è forse

l’elemento decisivo per la riuscita degli interventi riabilitativi. Forme di riabilitazione

diffuse in Italia sono la musicoterapia (riabilitazione espressivo-comunicativa), la

psicomotricità (riabilitazione espressivo-corporea) e i progetti lavorativo-occupazionali

(riabilitazione espressivo-costruttiva).

A differenza della riabilitazione, l’educazione, in ambito scolastico e familiare, non si

concentra su determinate funzionalità, ma si propone di affrontare tutti gli aspetti della vita

quotidiana nel suo complesso. I risultati della riabilitazione vanno esercitati e soprattutto

generalizzati all’interno dell’ambiente educativo: la generalizzazione consiste nel

trasferimento delle capacità, riabilitate in contesti specifici e protetti, a situazioni meno

strutturate e artificiali, in vista di performance da conseguire nella normale vita sociale.

Caratteristica dell’educazione scolastica è l’inserimento dell’alunno autistico in una rete

di relazioni complessa, nei micro-sistemi classe e istituto. Viene in questo modo superato il

carattere fortemente duale degli interventi terapeutici e riabilitativi, in cui il soggetto è

chiamato a stare in una relazione privilegiata e pressoché esclusiva con il terapeuta o il

riabilitatore.

Nell’educazione scolastica, la complessità del contesto relazionale richiede una

progettazione e una strutturazione di ambienti e attività estremamente accurata. Le variabili

contestuali, essendo più numerose rispetto che nei trattamenti terapeutici e riabilitativi,

4 P. Venuti, cit., p.87.

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sono impossibili da controllare in modo sistematico e per questo l’organizzazione delle

esperienze formative è sottoposta a un forte grado di indeterminatezza, che va

precedentemente considerata. Punto di partenza di una progettazione didattica solida è la

definizione degli obiettivi di apprendimento, formulati sulla base dell’osservazione

funzionale dell’alunno e dell’identificazione della sua zona di sviluppo prossimale5. Gli

obiettivi dell’educazione dell’alunno disabile devono comunque essere funzionali al

progetto di vita, ossia all’idea delle modalità di vita futura post-scolastica che il soggetto

potrà verosimilmente condurre, attraverso il sostegno di famiglia e istituzioni.

2. Il concetto di obiettivo didattico

L’educazione è un’attività sociale diretta a fini determinati, che hanno sempre costituito

materia di dibattito per filosofi, politici, educatori. Nel Novecento, soprattutto nel secondo

dopoguerra, la pedagogia ha però elaborato un discorso molto più strutturato e consapevole

sulle finalità dell’insegnamento, ponendo al centro di una riflessione epistemologica e

metodologica la questione della definizione degli obiettivi didattici.

La “didattica per obiettivi” può essere vista come uno dei principali approcci

contemporanei alla programmazione degli insegnamenti. Tale approccio è stato oggetto di

elaborazione tecnico-concettuale negli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto negli Stati

Uniti d’America e successivamente in Europa. La didattica per obiettivi si è poi affermata,

a partire dagli anni Settanta, come impostazione teorica dominante nell’organizzazione

amministrativa delle azioni di insegnamento all’interno del sistema scolastico italiano.

Il concetto di obiettivo didattico, se non altro nelle formulazioni canoniche (come quella

di R. F. Mager6), risente fortemente dell’influenza esercitata dal comportamentismo in

psicologia: il caposaldo dei sostenitori della didattica per obiettivi è la descrizione dei

comportamenti, osservabili e misurabili, che l’allievo dovrà assumere al termine degli

interventi, nel caso in cui questi ultimi si dimostreranno efficaci. Quest’operazione

preliminare permetterà quindi di valutare con rigore gli esiti finali dell’insegnamento e di

progettare con maggior consapevolezza il curriculum di attività didattiche.

5 Cfr. L. S. Vygotsky, Pensiero e linguaggio, Giunti, Firenze 1976 (IV ed.).

6 R. F. Mager, Preparing Instructional Objectives, Fearon, Palo Alto 1962.

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Gilbert de Landsheere – in una monografia datata7, ma ancora valida sul piano teorico –

articola una serie di specificazioni che offrono un quadro approfondito del concetto di

obiettivo didattico. In questo paragrafo riprenderò tali distinzioni, che fanno leva

sull’individuazione di tre livelli di astrazione decrescente: finalità generali dell’educazione,

tassonomie di obiettivi secondo ampie categorie comportamentali, obiettivi operativi

specifici.

2.1 I fini dell’educazione

A questo livello, si pongono questioni molto generali e astratte circa la funzione che le

istituzioni educative svolgono all’interno di una determinata società. Questi interrogativi

sono certamente ambigui e piuttosto lontani dalla pratica concreta dell’insegnamento, ma

in essi emergono quelle scelte assiologiche di fondo che vanno poi a informare gli

atteggiamenti di insegnanti e alunni. R. W. Tyler8 ha proposto un’interessante schema che

analizza la dinamica di trasformazione degli obiettivi generali del sistema scolastico:

all’origine del processo stanno le istanze costituite dai bisogni degli studenti,

dall’organizzazione della società e dalla configurazione delle discipline (i contenuti

dell’insegnamento); queste istanze dovrebbero poi essere vagliate alla luce dei principi

teorici della psicologia dell’apprendimento e della filosofia dell’educazione; gli organismi

istituzionali preposti procedono quindi ad effettuare le decisioni organizzative che

concretizzano progressivamente gli obiettivi generali emersi.

Visto l’argomento del presente lavoro, la questione degli obiettivi generali

dell’educazione non è da approfondire. In relazione alla tematica del trattamento

dell’autismo va comunque sottolineato come l’inclusione entro uno stesso sistema-scuola

di alunni normodotati e portatori di handicap sia un’opzione valoriale di fondo,

relativamente recente (a partire dagli anni Settanta), che attraverso misure legislative e

amministrative ha avuto importanti ricadute sulla mentalità e sulle pratiche di

insegnamento nell’istruzione italiana. L’integrazione di soggetti disabili nella comunità è

attualmente un obiettivo generale del sistema scolastico e pertanto l’educazione di alunni

7 V. De Landsheere, G. De Landsheere, Définir les objectifs de l’éducation, Editions Georges Thone, Liège 1975,

trad. it. Definire gli obiettivi dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1977. 8 R. W. Tyler, Basic Principles of Curriculum and Instruction, Chicago University Press, Chicago 1950.

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affetti da autismo deve essere soprattutto funzionale alla loro vita adulta dentro il tessuto

sociale del territorio.

2.2 Le tassonomie di obiettivi

A un livello intermedio di astrazione, gli obiettivi didattici perdono il carattere assiologico

di finalità del sistema, cominciando invece a riferirsi più nello specifico alle abilità

dell’individuo che apprende. La formulazione di questi obiettivi intermedi non è ancora in

termini di comportamenti osservabili: viene invece utilizzata una terminologia mutuata

dalla psicologia dell’apprendimento, che fa ampio uso di un lessico mentalista (che si

riferisce cioè ad operazioni mentali non osservabili, ma che si è soliti attribuire ai soggetti).

Gli psico-pedagogisti della seconda metà del XX secolo hanno stilato numerosi quadri

tassonomici, al fine di precisare il più esaurientemente possibile il sistema di funzioni

cognitive, affettive e psicomotorie che l’azione didattica sollecita negli allievi.

La costruzione scientifica di tassonomie in campo pedagogico ha preso il via soprattutto

col lavoro di B. J. Bloom, che a partire dalla fine degli anni Quaranta, in collaborazione

con altri ricercatori, ha stilato una classificazione degli obiettivi di insegnamento che ha

avuto un’enorme diffusione in America e in Europa. La catalogazione proposta da Bloom

si divide in tre macro-aree: il campo cognitivo, il campo affettivo e il campo psicomotorio

(l’autore ha però pubblicato delle opere sistematiche soltanto a proposito dei primi due

campi9).

La tassonomia di Bloom è datata ed è stata oggetto di numerose critiche, ma credo che

meriti di essere qui esaminata perché la sua impostazione è costitutiva per il concetto di

obiettivo didattico nella pedagogia contemporanea. I principi alla base della costruzione

teorica di Bloom vengono riassunti nel seguente passo di De Landsheere:

1. Il principio didattico. La tassonomia deve fondarsi sui principali gruppi di obiettivi che si perseguono nel

processo dell’insegnamento.

9 B. S. Bloom, M. D. Engelhardt, E. J. Furst, W. H. Hill, D. R. Krathwohl, Taxonomy of Educational Objectives: The

Classification of Educational Goals, Handbook I: Cognitive domain, David McKay Company, New York 1956. D.

R. Krathwohl, B. S. Bloom, B. B. Masia, Taxonomy of Educational Objectives: The Classification of Educational

Goals, Handbook II: Affective domain, David McKay Company, New York 1964.

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2. Il principio psicologico. La tassonomia deve corrispondere, per quanto è possibile, a quel che sappiamo in

materia di psicologia dell’apprendimento; non può in nessun caso andare contro i suoi principi riconosciuti

come validi.

3. Il principio logico. Le categorie tassonomiche devono articolarsi in modo logico.

4. Il principio obiettivo. La gerarchia degli obiettivi non corrisponde a una gerarchia di valori; l’importanza

dei comportamenti descritti ad un livello dato non dipende da questo.

Al di là di questi principi, la tassonomia si ordina in base ad un principio strutturale: il principio della

complessità crescente. Dal punto di vista psicologico, memorizzare è una cosa meno complessa che valutare.

Dal punto di vista pedagogico, portare gli alunni a ricordare a memoria è più semplice che portarli

all’autonomia del giudizio. D’altronde, sembra che l’accrescersi della complessità si accompagni ad un

aumento della difficoltà dell’insegnamento e dell’apprendimento10

.

Un problema evidente dell’intera costruzione è l’artificialità nello stabilire confini netti tra

le categorie: il comportamento umano è una struttura olistica, l’alunno reagisce agli

interventi educativi come un tutto inscindibile. Sembra impossibile anche solo demarcare

un limite preciso tra le tre macro-aree cognitiva, affettiva e psicomotoria. La tassonomia

mantiene comunque una certa efficacia pratica d’aiuto nella programmazione e soprattutto

nella valutazione delle attività didattiche, nonostante l’impianto teorico sia a volte fragile.

IL CAMPO COGNITIVO

Bloom propone di distinguere sei categorie di abilità cognitive, di complessità

tendenzialmente crescente. Le prime due categorie corrispondono a forme di

apprendimento più semplici e vengono caratterizzate coi termini “conoscenza” e

“comprensione”. La conoscenza è interpretata essenzialmente come performance

mnemonica, che si traduce in operazioni di discriminazione e nominazione: usando un

termine preso dalla filosofia del linguaggio, interessa l’estensione dei concetti. La

comprensione presuppone invece un utilizzo del concetto in relazione ad altri concetti

(attraverso definizioni, ad esempio) e investe dunque la sfera intensionale. Le altre quattro

categorie di abilità cognitive colgono forme di apprendimento complesse. L’applicazione

si riferisce all’individuazione di un collegamento tra casi particolari e principi generali.

L’analisi consiste nell’identificazione di elementi costituenti strutture complesse e nella

ricerca delle loro mutue relazioni. La sintesi si realizza in performance di tipo creativo. Al

10

V. De Landsheere, G. De Landsheere, cit., pp. 66-67.

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vertice delle abilità cognitive, secondo la tassonomia, si trova la valutazione, come

capacità critica e di decisione. Per quanto riguarda queste ultime tre categorie, diventano

sempre più discutibili la divisione (dato che le operazioni associate sono sempre

interconnesse) e l’aderenza al principio della complessità crescente.

IL CAMPO AFFETTIVO

Bloom intende gli obiettivi di tipo affettivo come quelli “che considerano le modificazioni

degli interessi, degli atteggiamenti, dei valori, come pure i progressi nel modo di giudicare

e la capacità di adattamento”11

. Una tale interpretazione tende a schiacciare la dimensione

affettiva su quella cognitiva, trascurando soprattutto le competenze sociali che

l’educazione è chiamata ad affinare nell’alunno. Questo approccio emerge chiaramente

nella scelta delle cinque categorie principali in cui si articola la tassonomia degli obiettivi

affettivi (frutto di un lavoro condotto più da D. R. Krathwohl che da Bloom). Il criterio

scelto per ordinare i comportamenti che si riferiscono a interessi, atteggiamenti e valori è il

principio di interiorizzazione, che è “l’incorporazione, l’adozione come propri di valori, di

comportamenti pratici, di idee, di norme, che provengono da un’altra persona o dalla

società”12

. Di qui viene costruita una gerarchia che presenta la seguente successione:

ricezione, ovvero stato affettivo amorfo di mera attenzione agli stimoli; risposta, dove

l’alunno manifesta un comportamento attivo in risposta a determinati stimoli, prima su

richiesta e poi spontaneamente; valorizzazione, livello in cui il soggetto attua delle scelte di

preferenza e manifesta impegno in determinati contesti d’azione; organizzazione, dove

viene messa in atto una riflessione consapevole sui valori e sui comportamenti ad essi

associati; caratterizzazione, come formulazione di una propria Weltanschauung, percepita

come elemento costitutivo della propria identità. Questa tassonomia degli obiettivi affettivi

appare alquanto parziale e nel prosieguo avremo modo di ampliarla alla luce della

letteratura successiva, soprattutto in relazione alle problematiche della pedagogia speciale.

IL CAMPO PSICOMOTORIO

Gli obiettivi didattici di tipo psicomotorio sono probabilmente quelli meno curati nei

sistemi educativi occidentali e anche la loro classificazione risulta più difficoltosa. Bloom

11

Citato in V. De Landsheere, G. De Landsheere, cit., p. 131. 12

Ivi, p. 146.

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e collaboratori non pubblicarono ad esempio la terza parte che avrebbe dovuto completare

la loro tassonomia. La categorizzazioni disponibili derivano spesso dalle teorie sullo

sviluppo del bambino. Un lavoro che si riallacciava esplicitamente alla tassonomia di

Bloom è stato quello di R. Kibler13

, che ha proposto quattro ambiti generali di abilità:

abilità motoria generale, che interessa i movimenti più ampi e gli spostamenti; abilità

motorie fini, che richiedono una maggiore coordinazione del movimento con le aree

sensoriali e maggior controllo nell’esecuzione; comportamenti di comunicazione non

verbale, quali mimica, gestualità, espressioni facciali; comportamenti verbali, di

produzione sonora.

2.3 Gli obiettivi operativi

A questo livello viene abbandonato il linguaggio mentalista delle tassonomie:

l’operazionalizzazione dei concetti psico-pedagogici consiste nel formulare gli obiettivi in

termini di comportamenti osservabili e misurabili, cercando il più possibile di eliminare

vaghezza e ambiguità. La formulazione deve comprendere i seguenti quattro elementi:

- un verbo comportamentale che indica l’azione che l’alunno deve compiere (ad es.

scrivere, rispondere);

- il prodotto, l’oggetto su cui verte l’azione (in questa voce compaiono anche quelli che

tradizionalmente sono indicati come i contenuti dell’insegnamento);

- le condizioni, la situazione materiale nella quale l’alunno viene posto per effettuare

l’azione (ad es., “posto di fronte a 15 quesiti con quattro opzioni di risposta ciascuno”)

e le condizioni psicologiche, ossia gli apprendimenti anteriori;

- i criteri di riuscita, ossia la descrizione della performance che manifesta il

raggiungimento dell’obiettivo (ad es. “rispondere in modo corretto all’80% dei

quesiti”).

La specificazione di questi quattro aspetti in termini osservabili può apparire a volte

macchinosa e pedante. Il concetto di obiettivo operativo svolge però soprattutto una

funzione metodologica, come ideale regolativo per la prassi didattica: ancorare

13

R. Kibler, L. Barker, D. Miles, Behavioral Objectives and Instruction, Allyn and Bacon, Boston 1970.

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l’insegnamento ad effetti concreti e ostensibili, per evitare “le formulazioni nebulose,

favorevoli al vuoto pedagogico”14

. In questo modo viene messa in atto una

responsabilizzazione di insegnanti ed educatori e viene ridotto il margine di discrezionalità

nella valutazione del loro operato.

Una critica sicuramente pertinente al concetto di obiettivo operativo è che il rigore della

formulazione obbliga spesso a trattare soltanto comportamenti cognitivi elementari. Gli

obiettivi didattici più complessi, che sono lo scopo principale dell’educazione, non si

lasciano tradurre in linguaggio comportamentale. Un’utile sistematizzazione della

complessità crescente degli obiettivi distingue tre categorie:

- gli obiettivi di padronanza, che riguardano un segmento di contenuti e un contesto del

tutto circoscritti e prevedibili: essi corrispondono ai due livelli inferiori della

tassonomia di Bloom (conoscenza e comprensione) e sono gli unici a poter essere

definiti in termini comportamentali senza perdite di significato;

- gli obiettivi di transfert, in cui i comportamenti appresi in un determinato contesto

devono essere applicati a una nuova situazione, che possiede un certo grado di analogia

con quelle note; a questo livello, la formulazione di obiettivi operativi è difficoltosa,

perché la trasferibilità degli apprendimenti presuppone che l’insieme dei nuovi contesti

sia aperto e non definibile;

- gli obiettivi di espressione, che corrispondono ai gradi più alti della tassonomia di

Bloom (sintesi e valutazione); tali obiettivi non possono essere descritti attraverso un

comportamento finale da acquisire e anche i criteri di valutazione degli esiti didattici

non possono essere univoci.

Qui possiamo scorgere un’aporia. Da un lato, le finalità generali del sistema scolastico

risiedono certamente negli obiettivi di maggior complessità; dall’altro lato, gli obiettivi

operativi che permettono una rigorosa programmazione e valutazione dell’insegnamento

sono obiettivi di padronanza relativamente limitati. Rimane dunque aperta la questione del

collegamento tra obiettivi di padronanza e obiettivi di ordine superiore, questione difficile

da dirimere e con ampi margini di variabilità a seconda di contesti e individui.

14

V. De Landsheere, G. De Landsheere, cit., p. 275.

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3. Modelli di intervento terapeutico e riabilitativo per l’autismo

La sintomatologia dei disturbi dello spettro autistico sembra legata a modalità

caratteristiche di funzionamento mentale e percettivo, qualitativamente diverse rispetto a

quelle dei soggetti sani. Intervenire sui comportamenti problematici che derivano da questa

funzionalità caratteristica presuppone quindi un’interpretazione ipotetica dei processi

mentali non osservabili. Negli ultimi anni, nella comunità scientifica, si sono affermati

quattro modelli di interpretazione del quadro clinico:

1. Teoria socio-affettiva, secondo la quale “esisterebbe nell’autismo un’innata incapacità,

biologicamente determinata, di interagire emozionalmente con l’altro. Tale incapacità,

secondo una reazione a cascata, porterebbe all’incapacità di imparare a riconoscere gli stati

mentali degli altri, alla compromissione dei processi di simbolizzazione, al deficit del

linguaggio, al deficit della cognizione sociale”15

.

2. Deficit della teoria della mente, ossia della “capacità di riflettere sulle emozioni, sui

desideri e sulle credenze proprie e altrui e di comprendere il comportamento degli altri in

rapporto non solo a quello che ciascuno di noi sente, desidera o conosce, ma in rapporto a

quello che ciascuno di noi pensa che l’altro sente, desidera o conosce”16

.

3. Debolezza della coerenza centrale, ossia della “capacità di sintetizzare in un tutto

coerente, o se si preferisce di sistematizzare in un sistema di conoscenza, le molteplici

esperienze parcellari che investono i nostri sensi”17

.

4. Deficit delle funzioni esecutive: con “funzioni esecutive” si intendono una serie di abilità

coinvolte nella realizzazione di un qualsiasi compito o nella risoluzione di un problema.

Tali abilità possono essere così sintetizzate: “capacità di attivare e mantenere attiva, a

livello mentale, un’area di lavoro”; “capacità di formulare un piano di azione”; “capacità di

non rimanere rigidamente ancorati ai dati percettivi che provengono dal contesto”;

15

S.I.N.P.I.A, cit., p.12. 16

Ivi, p.13. 17

Ibidem.

Page 18: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

18

“capacità di inibire risposte impulsive”; “capacità di essere attenti alle informazioni di

ritorno, per correggere in base ad esse il piano di azione”; “capacità di spostare in modo

flessibile l’attenzione”18

.

I vari modelli di intervento riabilitativo sono invece essenzialmente riconducibili a due

famiglie: gli approcci di tipo comportamentale e gli approcci evolutivi o interattivi. I

modelli del primo tipo applicano i principi della psicologia comportamentista. Gli

atteggiamenti problematici del soggetto vengono attentamente osservati e analizzati in

quattro componenti: l’antecedente, cui viene attribuito un ruolo causale; il comportamento

in esame, osservato e ove possibile misurato; il conseguente, ovvero ciò che deriva dal

comportamento (in particolare le reazioni del soggetto agente e degli altri, dove si

localizzano i rinforzi); il contesto, la situazione (luogo, momento, persone coinvolte,

oggetti) in cui si verifica il comportamento. Si cerca quindi di modificare i meccanismi

stimolo–risposta individuati attraverso questa analisi, facendo uso di rinforzi positivi,

rinforzi negativi e punizioni. Le tecniche di insegnamento abituali degli approcci

comportamentali sono: la sollecitazione/aiuto (prompting), la riduzione delle sollecitazioni

(fading), il modellamento (modeling), il modellaggio (shaping), la task analysis

(scomposizione del compito nelle parti costituenti), il chaining (concatenamento dei micro-

comportamenti individuati nella task analysis) anterogrado o retrogrado19

.

Caratteristiche dei modelli comportamentali “tradizionali” sono l’azione di insegnamento

estremamente strutturata (articolata in procedure predefinite), l’artificialità del contesto, il

rapporto uno-uno con il tecnico della riabilitazione. I cosiddetti approcci

neocomportamentali, invece, pur applicando sempre i principi della psicologia

comportamentista, si distaccano da quelli “tradizionali” in quanto ritengono che

l’artificialità del contesto causi problemi nella generalizzazione degli apprendimenti a

situazioni di vita quotidiana, fuori dal setting della riabilitazione. L’apprendimento deve

pertanto avvenire nei contesti naturali che il soggetto autistico abitualmente frequenta

(famiglia, scuola, attività del tempo libero). Ciò implica che il training del tecnico della

18

Ivi, p. 14. 19

La letteratura sulle tecniche comportamentali è molto vasta. Per un inquadramento di tali tecniche in relazione

all’handicap, segnalo P. Meazzini (a cura di), Handicap. Passi verso l’autonomia. Presupposti teorici e tecniche di

intervento, Giunti, Firenze 1997.

Page 19: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

19

riabilitazione sia rivolto principalmente a genitori, fratelli, insegnanti e coetanei, chiamati

ad implementare i programmi di intervento attraverso le succitate tecniche.

Al contrario dei modelli comportamentali, gli approcci evolutivi ritengono che l’aspetto

su cui far leva nell’intervento riabilitativo sia la sfera emotiva e relazionale, che

trasformandosi influenza le aree cognitive, percettive, esecutive, ecc.; conformemente a

questo assunto, vengono utilizzati principi e concetti di matrice psicodinamica.

“L’intervento si propone di sviluppare e/o potenziare le predisposizioni strutturali e

funzionali che attivano le interazioni e la crescita mentale; il terapeuta, il riabilitatore o

l’educatore si pongono come un Io ausiliario che va a integrare le predisposizioni

genitoriali non attivate nel corso del primo sviluppo”20

. L’idea è infatti che i deficit neuro-

biologici del bambino autistico impediscano l’instaurarsi di un rapporto normale col

genitore nei primi mesi di vita; l’anormalità di questa relazione produce poi a cascata una

serie di comportamenti patologici, che vanno interpretati essenzialmente come forme di

difesa di fronte all’insuccesso nella comunicazione interpersonale.

I modelli di tipo evolutivo si propongono di creare situazioni di intervento prive di ansia

per il soggetto autistico e libere dalla richiesta di prestazioni specifiche. Si tenta anzi di

enfatizzare lo stato di piacere prodotto dai vissuti relazionali, affinché il paziente sia

motivato a persistere nell’interazione. L’ipotesi è che i soggetti autistici non abbiano

acquisito determinate competenze a causa di carenze nelle relazioni interpersonali;

l’apprendimento di tali competenze passa dunque attraverso la riattivazione di percorsi

interattivi, ma tale riattivazione deve essere in primo luogo sostenuta a livello effettivo-

motivazionale dal desiderio di comunicazione e scambio. Il terapeuta deve assumere

l’identità di chi accoglie, accetta e fa stare bene, tollerando e favorendo livelli di

comportamento e di gioco di fasi precedenti dello sviluppo, per recuperare elementi del

mancato tragitto evolutivo.

Presenterò ora un rapido elenco dei programmi di riabilitazione più affermati a livello

internazionale:

- programma TEACCH (Treatment and Education of Autistic and related

Communication Handicapped Children): di impostazione comportamentista, fa però

leva soprattutto sull’adattamento del contesto (un ambiente di lavoro organizzato in

20

P. Venuti, cit., p. 80.

Page 20: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

20

spazi chiaramente delimitati, una scansione temporale precisa) più che sull’utilizzo di

rinforzi ripetuti;

- programma LEAP (Learning Experiences, an Alternative Program for Preschoolers

and their Parents): di tipo neocomportamentista, enfatizza la necessità di effettuare gli

interventi con tecniche comportamentali negli abituali contesti di vita del bambino

(scuola e famiglia), con grande coinvolgimento dei compagni di classe;

- UCLA Young Autism Project: ideato da Lovaas, è un esempio privilegiato di

applicazione del modello comportamentista, prevedendo un’approfondita analisi e

scomposizione dei comportamenti, un sistematico utilizzo dei rinforzi e un grande

coinvolgimento della famiglia;

- Denver Model: riconducibile all’approccio evolutivo, enfatizza il ruolo del gioco e

l’elicitazione del comunicare;

- Developmental Intervention Model at the George Washington University: si focalizza

sull’analisi delle modalità autistiche di processare le informazioni e sul livello di

sviluppo emotivo del bambino, per poi incrementare i circoli di comunicazione e le

competenze di simbolizzazione;

- metodo TED (Thérapie d’Echange et de Développement): approccio di tipo evolutivo,

che consiste in un programma di stimolazione focalizzato su alcune funzioni quali

attenzione, percezione, motricità, imitazione, comunicazione, regolazione, in un

contesto in cui l’operatore deve essere aperto e disponibile al contatto corporeo e

affettivo.

Accanto a questi programmi fortemente strutturati, soprattutto in Italia è diffuso il ricorso

ad attività terapeutico-riabilitative riconducibili a metodi più generali, la cui validità

scientifica è a volte messa in questione:

- la psicomotricità: riconducibile agli approcci evolutivi, attraverso una serie di esercizi

motori e di contatto fisico mira a sollecitare nell’individuo l’incontro e la conoscenza

del proprio “Io corporeo”, ossia l’organizzazione delle sensazioni relative al proprio

corpo in relazione ai dati del mondo esterno;

- la musicoterapia: integrata a modelli di intervento di tipo evolutivo, si concentra sulle

capacità di espressione e comunicazione, sfruttando parametri musicali che dovrebbero

recuperare schemi dell’interazione prelinguistica madre-bambino;

Page 21: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

21

- la terapia occupazionale: che punta sulla manipolazione di oggetti, in contesti che

prevedono obiettivi di lavoro e la condivisione dello spazio con altri;

- la comunicazione aumentativa alternativa: amplia le possibilità di comunicazione del

paziente utilizzando il metodo dei simboli grafici (pittogrammi che vengono indicati,

riducendo la complessità dell’atto comunicativo) oppure il metodo della

comunicazione facilitata (un operatore fornisce un sostegno fisico-motorio, tenendo la

mano del paziente, cosa che però suscita dubbi sull’autenticità della comunicazione).

Menziono infine altre due strategie di intervento meno diffuse, che partono da due dei

quattro modelli interpretativi del quadro clinico esposti all’inizio di questo paragrafo:

- l’intervento secondo i principi della teoria della mente: applicato soprattutto con

soggetti autistici ad “alta funzionalità”, parte dall’interpretazione dell’autismo come

compromissione della capacità di attribuire a se stessi e agli altri stati mentali e consiste

in un percorso guidato per imparare a riconoscere le emozioni e a decifrare gli stati

mentali delle persone;

- il metodo di riorganizzazione neurologica (metodo Delacato): sottolineando il deficit

della coerenza centrale nei soggetti autistici, prevede un programma di stimolazioni

sensoriali ripetute ed intense, che dovrebbero riattivare stadi di sviluppo neurologico

che non si sono verificati nell’ontogenesi, ma che sono ancora suscettibili di

attivazione, per ripristinare una modalità percettiva più adeguata.

Una menzione a parte merita infine la terapia di attivazione emotiva e reciprocità

corporea (AERC), un approccio terapeutico-riabilitativo indirizzato a bambini autistici

molto piccoli e ispirato da studi di ambito etologico. Questo approccio rivede e trasforma

la cosiddetta pratica dello holding: il bambino viene preso sulle ginocchia e tenuto stretto

dai genitori, obbligandolo a un rapporto faccia a faccia che fa esplodere una crisi nel

bambino, alla quale i genitori devono rispondere in maniera positiva, calmandolo con

affetto e complimenti. Questa tecnica, volta a rompere in modo intrusivo l’isolamento del

bambino autistico, viene definita di matrice “etodinamica”.

Questa breve panoramica, sebbene non esaustiva, dovrebbe aver dato un’idea della

varietà di possibili percorsi terapeutici e riabilitativi con cui le istituzioni medico-sanitarie

affrontano il problema dei disturbi autistici. Viene spesso ripetuto che non esiste una

Page 22: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

22

strategia di trattamento che garantisca successo per ogni individuo: riabilitazione e terapia

neuropsichiatrica, similmente all’educazione, sono pratiche fortemente indeterminate,

variabili a seconda di contesti e soggetti, e non possono pertanto essere completamente

ridotte a prescrizioni procedurali standardizzate.

Nel prossimo paragrafo verranno tematizzati gli obiettivi comuni a pressoché tutti i

modelli di trattamento terapeutico-riabilitativo e verranno confrontati con un paio di

formulazioni di obiettivi didattici per l’educazione di soggetti autistici. Questo confronto è

diretto a mettere in evidenza le zone di sovrapposizione tra prassi terapeutica, prassi

riabilitativa e prassi educativa, ma anche a comprendere i difetti nel trasferire modalità di

intervento di matrice medico-sanitaria all’interno del contesto scolastico.

4. Obiettivi terapeutico-riabilitativi e obiettivi didattici a confronto

Le modalità di trattamento riabilitativo presentate nel precedente paragrafo combaciano

spesso con prassi di tipo educativo. Tuttavia, l’educazione in ambiente scolastico non deve

cedere alla tentazione di imitare all’interno dei propri contesti modelli di intervento

progettati e attutati in ambito medico:

[L’integrazione scolastica], così importante per il progetto di vita della persona affetta da autismo infantile,

non è ottenibile con una semplice trasposizione di approcci che hanno dimostrato la loro efficacia in contesti

differenti. Infatti, l’organizzazione della scuola italiana relativamente alla frequenza degli allievi in situazioni

di handicap è assolutamente particolare e unica, per cui le proposte operative vanno calibrate ed adattate a

tale istituzione. In particolare sono necessari una grossa flessibilità organizzativa, un investimento vero di

risorse, un coinvolgimento di tutte le figure interne ed esterne alla scuola che interagiscono col bambino e

l’adozione di affinate metodologie di facilitazione dell’integrazione21

.

L’elemento che segna una distanza rilevante tra esperienza scolastica e cure mediche è

dato dalla struttura dei rapporti interpersonali: in ambito scolastico, l’alunno con handicap

è inserito in un gruppo di pari ed è chiamato ad imparare a gestire una rete di relazioni

orizzontali che implicano autonomia e adattamento; nei contesti di terapia e riabilitazione,

21

L. Cottini, Educazione e riabilitazione del bambino autistico, Carocci, Roma 2002, pp. 165-166.

Page 23: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

23

invece, il paziente è inserito in una relazione diadica verticale, in cui gode di speciali

diritti, ma è anche in una situazione di evidente soggezione.

Nella pratica concreta, l’insegnante di sostegno – sebbene secondo le normative venga

assegnato all’intera classe – viene spesso a costruire con l’allievo disabile una relazione

duale analoga a quella attuata dal tecnico della riabilitazione. Questo fenomeno non è certo

da demonizzare e rappresenta anzi talvolta una necessità della dinamica educativa.

L’insegnante di sostegno deve però sempre organizzare le eventuali attività

individualizzate, eseguite fuori dal contesto della classe, in vista della successiva

generalizzazione degli apprendimenti all’interno del gruppo dei pari. Da un punto di vista

strettamente didattico, uno degli scopi principali dell’inclusione scolastica è l’applicazione

delle abilità acquisite all’interno di nuovi contesti, meno strutturati e più vicini a situazioni

di vita reale (obiettivi didattici di transfert).

Premesso questo, vorrei procedere ora a confrontare gli obiettivi dei trattamenti

riabilitativi specifici per l’autismo con alcune formulazioni degli scopi cui deve mirare

l’educazione in ambiente scolastico di soggetti autistici. Le formulazioni che andrò a

menzionare non ambiscono all’esaustività, ma costituiscono a mio modo di vedere una

buona sintesi dell’ampia letteratura sull’argomento.

Le Linee guida per l’autismo della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e

dell’Adolescenza esplicitano per prima cosa il parallelismo tra criteri diagnostici e finalità

terapeutiche:

La diagnosi si basa su una serie di manifestazioni “osservabili”, le quali rappresentano l’espressione di una

compromissione funzionale in tre aree:

- l’interazione sociale;

- la comunicazione;

- gli interessi e le attività.

Ne deriva che il progetto terapeutico prevede l’attivazione di una serie di interventi finalizzati a:

- migliorare l’interazione sociale;

- arricchire la comunicazione;

- favorire un ampliamento degli interessi e una maggiore flessibilità degli schemi di azione.

Questa precisazione, che può sembrare scontata, vuole sottolineare la necessità di una scelta di coerenza: se si

adotta per la diagnosi un approccio clinico-descrittivo, la pianificazione dell’intervento deve essere ispirata a

Page 24: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

24

una definizione altrettanto chiara degli obiettivi da perseguire, che sono necessariamente quelli scelti come

criteri diagnostici22

.

Operazionalizzando tali scopi generali in rapporto a soggetti autistici in età scolare,

vengono specificati i seguenti obiettivi prioritari, in ordine curricolare, che interessano

l’area sociale e comunicativa:

1. guardare alla persona quando viene chiamato per nome;

2. guardare a un oggetto quando viene nominato;

3. prestare attenzione a chi parla;

4. usare il contatto oculare per mantenere l’interazione;

5. imitare azioni semplici, suoni, parole;

6. attirare l’attenzione di qualcuno;

7. facilitare i comportamenti di richiesta;

8. dire no o fare gesti di diniego;

9. dire sì o fare gesti di assenso;

10. salutare gli altri;

11. denominare le persone;

12. denominare le cose;

13. descrivere ciò che gli altri stanno facendo23

.

Per quanto riguarda invece l’area degli interessi e delle attività, l’operazionalizzazione

degli obiettivi risulta più difficile. Gli interventi in quest’area riguardano soprattutto la

gestione delle stereotipie del soggetto. Queste possono avere una funzione comunicativa e

in tal caso il lavoro terapeutico è finalizzato al conseguimento di forme espressive più

congruenti. In altri casi, però, comportamenti stereotipici non sembrano svolgere un ruolo

di comunicazione e sono semplicemente riconducibili ai caratteri di ripetitività e

perseveranza; in tali circostanze, è necessario ricorrere a modificazioni ambientali e nuovi

stimoli che interrompano il circuito della stereotipia.

L’ordine di obiettivi esplicitati dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e

dell’Adolescenza costituisce una sintesi realistica degli scopi delle azioni concrete di presa

in carico messe in atto dalle istituzioni di tipo sanitario. Significativo è il fatto che questo

documento ufficiale dei neuropsichiatri italiani manifesti un’inclinazione verso un

22

S.I.N.P.I.A., cit., pp. 73-74. 23

Ivi, pp. 97-98.

Page 25: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

25

approccio e un lessico di tipo comportamentista. Il discorso sull’educazione e l’inclusione

scolastica di soggetti autistici propende invece verso formulazioni che mettono

maggiormente in rilievo le componenti affettive, relazionali e valoriali. Quest’opzione

teorica non dipende probabilmente da fattori contingenti, ma piuttosto dalla peculiarità dei

processi educativi in ambiente scolastico, rispetto alle prassi terapeutico-riabilitative di

matrice medica.

Riporto qui a titolo di esempio l’ordine di obiettivi indicati da Paola Venuti per un

progetto educativo rivolto a soggetti con autismo24

. Tale formulazione nasce nell’ambito

della psicologia e psicoterapia ad indirizzo dinamico, ma mi sembra sia adeguata a

rispecchiare anche il vissuto e la pratica dell’insegnante di sostegno.

I) Costruzione di una relazione a partire dall’osservazione delle situazioni vissute dal

soggetto: l’azione educativa presuppone uno scambio reciproco tra i soggetti coinvolti; il

primo compito dell’educatore è dunque quello di costruire una relazione di partecipazione,

relazione che la patologia dell’autismo rende ardua e labile. L’insegnante è chiamato a

osservare e interpretare le stereotipie, nel tentativo di immaginare il mondo vissuto

dall’alunno autistico, punto di partenza per i primi scambi comunicativi.

II) Dalla relazione di fiducia al rispetto dei bisogni, delle richieste e dei desideri espressi: i

soggetti autistici hanno spesso difficoltà a far capire le proprie intenzioni, il proprio disagio

e i propri bisogni; molti dei loro comportamenti problematici sono proprio tentativi

inefficaci di comunicazione. L’insegnante deve dunque assumere che dietro alla stereotipia

o al gesto bizzarro si nasconda un’esigenza legittima, che va riconosciuta e rispettata.

Inoltre, soprattutto con soggetti adolescenti, gli obiettivi dell’insegnamento andrebbero

concordati e non imposti, potenziando la capacità di autodeterminazione dell’allievo.

III) Dalla reciprocità duale alle relazioni sociali: questo è probabilmente l’obiettivo

principale dell’integrazione scolastica. Come è stato sostenuto in precedenza, la peculiarità

della prassi educativa all’interno della scuola, rispetto agli interventi di riabilitazione, è

proprio la possibilità per il soggetto autistico di conseguire e generalizzare i nuovi

24

P. Venuti, cit., pp. 163-184.

Page 26: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

26

apprendimenti in una rete di relazioni tra pari. Compito dell’insegnante è costruire un

contesto di socializzazione adatto alle problematiche dell’allievo seguito: in particolare,

l’educatore dovrà essere un elemento anticipatorio e rassicurante, nel gestire le

manifestazioni di paura ed evitamento tipiche dei disturbi autistici. Nel rapporto guidato

con gli altri, il soggetto autistico dovrebbe progressivamente costruirsi un’immagine

coerente delle intenzioni e dei vissuti propri e delle altre persone; per questo, l’altro

importante compito dell’insegnante è sollecitare l’allievo a considerare gli stati d’animo

propri e altrui, decodificando quei segnali verbali e non verbali di comunicazione

interpersonale che normalmente vengono dati per scontati.

IV) Dalla relazione con gli altri alla scoperta del mondo esterno: una volta raggiunto

l’obiettivo della gestione delle relazioni interpersonali in contesti protetti e strutturati

interni alla scuola, il passo ulteriore è costituito dall’esplorazione di ambienti e situazioni

di vita quotidiana. L’impossibilità per l’educatore di anticipare e controllare i fattori

disturbanti può rendere tali uscite altamente stressanti per il soggetto autistico; paure ed

episodi di crisi vanno messi in conto, ma sono tappe obbligate per acquisire un

adattamento soddisfacente alla vita sociale.

V) Dalla scoperta del mondo esterno allo sviluppo delle autonomie: il massimo livello

raggiungibile di organizzazione e indipendenza nella cura della propria persona e nel

muoversi negli ambienti sono il traguardo comune a tutte le tipologie di presa in carico di

soggetti disabili – familiari, sanitarie, riabilitative, scolastiche. Il prerequisito decisivo per

raggiungere questo scopo è che il soggetto abbia maturato un sufficiente livello di

autostima e di amore per la propria individualità. Bisogna dunque che gli interventi mirati

al recupero o potenziamento di abilità determinate, su cui a volte l’insegnante non può

agire direttamente, siano affiancati da un lavoro psicologico sull’immagine del proprio Sé.

L’educazione in ambiente scolastico può dare un importante contributo in questo processo

di costruzione d’identità, dato che è nella relazione e nel riconoscimento reciproco con i

pari che l’immagine di Sé prende forma.

VI) L’autonomia nella comunicazione: il completamento del percorso educativo si realizza

attraverso la capacità di esprimere agli altri i propri bisogni e le proprie esperienze, magari

Page 27: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

27

mediante canali facilitati quali la comunicazione alternativa e aumentativa. A prescindere

dai supporti utilizzati è però importante che la comunicazione del soggetto autistico nasca

da un’autodeterminazione consapevole, dal desiderio di interagire e dalla scelta autonoma

di modalità espressive riconosciute dagli interlocutori. Il raggiungimento di questo stadio

può essere visto come indice di successo dei percorsi didattici.

VII) La consapevolezza di se stessi e il futuro: la finalità riassuntiva dei percorsi di

inclusione scolastica di soggetti disabili è la progressiva e concordata costruzione di un

progetto di vita, che contempli opportunità di vita sociale attiva nel territorio dopo il

termine dei cicli di istruzione. A differenza del sistema sanitario, la scuola a un certo punto

cessa di prendersi cura del soggetto: questa è una peculiarità del rapporto educativo, che

deve prevedere e preparare un momento in cui viene lasciato libero spazio all’individualità

dell’allievo, nella consapevolezza e accettazione dei suoi limiti.

La formulazione di questi sette obiettivi didattici risente dell’impostazione propria dei

modelli di intervento riabilitativo di tipo evolutivo o affettivo. I concetti centrali su cui

viene fatto leva sono infatti quelli di relazione e di identità personale. L’esplicitazione in

termini comportamentali osservabili di questi concetti risulta ardua, così come la

progettazione di interventi didattici altamente strutturati, volti a conseguire tali obiettivi.

Una formulazione alternativa, più vicina ad un approccio comportamentale, è quella di

Piero Crispiani. Gli scopi educativi generali da perseguire in ambito scolastico per soggetti

autistici sono sintetizzati nel seguente passo:

Il processo cognitivo di adattamento, che in soggetti normali si esercita con agio, nei casi di disturbo dello

sviluppo appare invece un momento critico e fonte di instabilità o crisi anche violente. Per tale motivo,

l’inserimento e la successiva integrazione si pongono come scopi educativi di notevole rilievo, oggetto di

progettazione e di lavoro per gli educatori e gli specialisti.

Per inserimento si intende la collocazione e il mantenimento di un soggetto in un ambiente.

Per integrazione si intende la sua consapevole partecipazione cognitiva alle attività e agli eventi che si

determinano nell’ambiente in cui è inserito.

Si determina lo stato di integrazione allorché il soggetto perviene a un sufficiente livello di:

- controllo emozionale;

- comunicazione;

Page 28: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

28

- comprensione del contesto;

- autonomia personale25

.

Una concretizzazione di questi obiettivi generali, formulati sopra in termini di adattamento,

inserimento e integrazione, è data nell’elenco seguente:

Scopo essenziale è quello di pervenire a un accettabile livello di condivisione sociale di ambienti e attività,

che consenta al bambino (o adulto) di:

- controllare emozioni;

- capire cosa accade intorno a lui;

- riconoscere persone, luoghi, oggetti;

- prevedere gli eventi;

- comunicare in qualche modo;

- procedere negli apprendimenti;

- partecipare ad alcune attività;

- essere sufficientemente autonomo;

- conoscere, in ogni momento, dov’è, cosa fa, cosa farà, che ora è;

- star bene26

.

Questi obiettivi non sono certo espressi in termini osservativi comportamentali, ma

manifestano un approccio ben diverso dalla precedente impostazione psicodinamica: il

linguaggio è semmai riconducibile a quello delle tassonomie di obiettivi à la Bloom.

5. Conclusioni

Per concludere, vorrei impostare una riflessione sull’articolazione del concetto di obiettivo

didattico, sviluppata nel secondo paragrafo, in relazione agli scopi del trattamento

riabilitativo e dell’inclusione scolastica di soggetti autistici. Queste considerazioni si

pongono chiaramente su un piano teorico e linguistico, laddove la pratica terapeutica e la

pratica educativa seguono un andamento dettato soprattutto dalle contingenze individuali e

dai condizionamenti materiali (logistici, amministrativi, istituzionali, economici) che

25

P. Crispiani, Lavorare con l’autismo. Dalla diagnosi ai trattamenti, Edizioni Junior, Azzano San Paolo (BG)

2002, pp. 187-188. 26

Ivi, p. 188

Page 29: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

29

lasciano poco spazio alle teorizzazioni. Tuttavia, anche i concetti attraverso cui vengono

formulati i propositi degli interventi possiedono un coefficiente di impatto sulla

progettazione e sulla valutazione delle azioni.

Partiamo dagli obiettivi operativi: la formulazione in linguaggio osservativo

comportamentale risulta adeguata nell’ambito della riabilitazione, in un contesto di tipo

medico. Questo perché la riabilitazione è in primo luogo indirizzata verso obiettivi di

padronanza: il conseguimento di performance determinate all’interno di un setting

strutturato. Scopo primario dell’educazione in ambiente scolastico, proprio per le

caratteristiche del contesto, è invece la generalizzazione degli apprendimenti e l’autonomia

(soprattutto nella comunicazione). Gli obiettivi didattici pertinenti sono dunque obiettivi di

transfert e obiettivi di espressione, la cui formulazione in termini comportamentali

abbiamo visto essere difficoltosa per l’impossibilità di definire univocamente il contesto e

la performance desiderata.

Passando al livello intermedio delle tassonomie, sono possibili le seguenti osservazioni.

Primo: il linguaggio mentalista, se già può risultare ambiguo in relazione ad alunni

normali, crea difficoltà ancor maggiori quando applicato a individui autistici. Ciò è dovuto

al fatto che i processi cognitivi di questi soggetti presentano modalità di funzionamento

peculiari, che rendono molto arduo l’esercizio di immedesimazione necessario per

applicare i verbi mentalisti al comportamento manifesto. Secondo: l’origine della

tassonomia di Bloom è legata al problema pratico della valutazione, in particolare di quella

che si può definire come valutazione sommativa individuale. Era stata infatti inizialmente

pensata come un ausilio per esaminatori di scuola superiore. Ora, il problema della

valutazione sommativa degli individui sembra avere un ruolo piuttosto limitato all’interno

del campo della pedagogia speciale, le cui finalità spesso non sono assimilabili ai criteri

valutativi tradizionali dei sistemi di istruzione. Terzo: le tassonomie di obiettivi didattici

appaiono sbilanciate sul versante del campo cognitivo, mentre nell’educazione di soggetti

autistici, soprattutto quando il quadro clinico è grave, sono prioritari gli obiettivi legati al

campo affettivo e al campo psicomotorio.

All’interno della pedagogia speciale, con particolare riferimento a soggetti autistici, il

concetto di obiettivo didattico va dunque declinato alla luce delle esigenze emerse: la

formulazione in termini osservativi comportamentali è più importante in ambito

riabilitativo che in ambito didattico, pur avendo un impatto positivo indubbio anche sulla

Page 30: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

30

progettazione delle azioni educative; gli obiettivi legati alla socializzazione e al controllo

emotivo devono essere oggetto di maggior articolazione e approfondimento, essendo scopi

prioritari del trattamento dell’autismo; la trasferibilità degli apprendimenti a contesti

extrascolastici deve essere, in misura maggiore rispetto alla prassi di insegnamento

abituale, il principio guida nell’individuazione degli obiettivi.

Per quanto riguarda infine il livello più generale e astratto, riguardante i fini

dell’educazione, si potrebbe aprire un ampio dibattito sugli aspetti etici e politici del diritto

di tutti all’istruzione e sul valore educativo dell’inclusione scolastica di soggetti con

handicap. Qui entrano in gioco scelte assiologiche, individuali e collettive, che devono

però giungere a inevitabili compromessi pragmatici con le condizioni concrete di esercizio

dell’insegnamento.

Page 31: Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici

31

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