1 Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova CORSO DI FORMAZIONE PER IL CONSEGUIMENTO DELLA SPECIALIZZAZIONE PER LE ATTIVITÀ DI SOSTEGNO DIDATTICO AGLI ALUNNI CON DISABILITA’ 2014 - 2015 OBIETTIVI DIDATTICI NELL’EDUCAZIONE DI SOGGETTI AUTISTICI Corsista: Del Din Guido Matricola: 1087835 Direttore del corso Ch. ma Prof.ssa Marina Santi
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Obiettivi didattici nell'educazione di soggetti autistici
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Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova
CORSO DI FORMAZIONE
PER IL CONSEGUIMENTO DELLA SPECIALIZZAZIONE
PER LE ATTIVITÀ DI SOSTEGNO DIDATTICO
AGLI ALUNNI CON DISABILITA’
2014 - 2015
OBIETTIVI DIDATTICI NELL’EDUCAZIONE DI
SOGGETTI AUTISTICI
Corsista: Del Din Guido
Matricola: 1087835
Direttore del corso
Ch. ma Prof.ssa Marina Santi
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Abstract
Questo elaborato teorico intende sviluppare una riflessione sulla peculiarità dell’azione
didattica in ambiente scolastico in relazione ad alunni affetti da disturbi dello spettro
autistico. Soprattutto in casi in cui il quadro clinico è grave, infatti, gli interventi educativi
si avvicinano molto a quelli di terapia e di riabilitazione. Per meglio distinguere i compiti
dell’insegnante di sostegno rispetto a quelli di ambito medico e riabilitativo, si è scelto di
analizzare alcune formulazioni degli obiettivi perseguiti da queste tre forme di presa in
carico. Questa chiave di lettura ha inoltre permesso di approfondire l’articolazione del
concetto di obiettivo didattico, una nozione basilare per le scienze dell’educazione,
soprattutto nella seconda metà del Novecento.
Nel primo paragrafo è stata chiarita la distinzione tra intervento terapeutico, intervento
riabilitativo e intervento didattico. Si è soprattutto sottolineato come il contesto della
scuola si differenzia da quello della riabilitazione in quanto è costituito per gran parte da
una rete di relazioni tra pari. La riabilitazione si fonda invece su un rapporto duale, in un
setting molto strutturato. All’interno della scuola, dunque, l’alunno con disturbi autistici è
chiamato a trasferire e generalizzare, in un contesto meno artificiale e più imprevedibile,
gli apprendimenti conseguiti attraverso la riabilitazione.
Nel secondo paragrafo è stata presentata l’articolazione del concetto di obiettivo didattico
proposta da G. De Landsheere. Si sono distinti tre livelli di astrazione. Il livello più astratto
degli scopi generali dell’educazione è contraddistinto da opzioni di carattere assiologico,
frutto dell’evoluzione storico-sociale: il principio dell’inclusione scolastica rientra tra tali
opzioni. Al livello intermedio si collocano le tassonomie di obiettivi didattici elaborate
dalla psicopedagogia nella seconda metà del Novecento. Particolare attenzione è stata
riservata al lavoro di B. S. Bloom, che distingue tra campo cognitivo, campo affettivo e
campo psico-motorio, costruendo una gerarchia di obiettivi di complessità crescente,
formulati in un linguaggio mentalista non osservabile. In linguaggio comportamentale sono
invece espressi gli obiettivi operativi, posti al terzo livello: la loro formulazione deve
consistere in una descrizione univoca di un comportamento osservabile e del contesto
d’azione. A questo livello si pone anche l’importante distinzione tra obiettivi di
padronanza, obiettivi di transfert e obiettivi d’espressione.
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Il terzo paragrafo consiste in una sintetica panoramica dei modelli di trattamento
riabilitativo più diffusi, specifici per l’autismo. Queste tecniche di riabilitazione possono
essere ricondotte a due famiglie principali: i metodi comportamentali, che applicando lo
schema stimolo-risposta e utilizzando soprattutto la tecnica del rinforzo, mirano a
modificazioni comportamentali determinate; i metodi evolutivi o affettivi, che partono
invece da un approccio psicodinamico e fanno leva soprattutto sul rapporto emotivo con il
paziente.
Nel quarto paragrafo presento alcune formulazioni degli obiettivi terapeutici, riabilitativi
ed educativi riguardanti il trattamento dell’autismo. In particolare, vengono citate la
formulazione, di chiara matrice comportamentale, contenuta nelle Linee guida per
l’autismo della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza e altre
due formulazioni legate al tema dell’inclusione scolastica, una di matrice psicodinamica,
l’altra con un linguaggio vicino a quello delle tassonomie di obiettivi à la Bloom.
Nel paragrafo conclusivo si tenta di ricollegare le formulazioni di obiettivi presentate nel
paragrafo precedente con l’articolazione teorica del concetto di obiettivo didattico. In
particolare, si osserva come la prassi riabilitativa possa far largo uso di obiettivi operativi
di padronanza, formulati in linguaggio comportamentale, mentre in ambito scolastico gli
obiettivi didattici sono più complessi e dunque difficili da tradurre in termini osservativi.
Le tassonomie psicopedagogiche à la Bloom sono d’altra parte uno strumento più adeguato
per la pratica scolastica, ma il loro linguaggio mentalista risulta ambiguo e di difficile
I cosiddetti “disturbi dello spettro autistico” si differenziano da altre disabilità o malattie
psichiche perché, più di altri tipi di patologia, richiedono “un intervento massiccio di tipo
educativo”1. Ciò rende tali disturbi particolarmente significativi per chi lavora nel mondo
scolastico, perché l’inclusione sociale offerta dalla scuola riveste nel trattamento
dell’autismo un ruolo di prim’ordine, che si affianca agli interventi di natura propriamente
medica (nella fattispecie, neuropsichiatrica) in modo più radicale rispetto al trattamento di
altre disabilità diffuse, quali ad esempio sindromi genetiche (Down, X fragile, ecc.) o
cerebrolesioni.
L’importanza decisiva dell’inclusione scolastica per il trattamento dell’autismo può
essere dedotta anche solo da una definizione clinica del disturbo (che comunque presenta
una variabilità di manifestazioni difficilmente riassumibili in una definizione):
L’autismo è una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo biologicamente
determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative
all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla capacità di stabilire
relazioni con gli altri. L’autismo, pertanto, si configura come una disabilità “permanente” che accompagna il
soggetto nel suo ciclo vitale, anche se le caratteristiche del deficit sociale assumono un’espressività variabile
nel tempo2.
Essendo il “deficit sociale” l’elemento centrale del quadro clinico, la cura dei soggetti
autistici non può avvenire esclusivamente nei contesti altamente protetti e controllati della
terapia medica o del trattamento riabilitativo, caratterizzati da relazioni uno - uno.
L’ambiente scolastico, invece, dal momento che è l’istituzione privilegiata in cui avviene
la prima socializzazione dell’individuo fuori dal nucleo familiare, rappresenta il contesto
più appropriato dove far emergere, affrontare e tentare di superare le problematiche
relazionali.
Socializzazione e comunicazione sono un’area importante dell’azione educativa
scolastica, per ogni allievo, anche se la struttura dei programmi d’istruzione tende a
privilegiare competenze di tipo cognitivo. I campi affettivo e relazionale devono essere
1 P. Venuti, L’autismo. Percorsi di intervento, Carocci, Roma 2003, p. 160.
2 S.I.N.P.I.A., Linee guida per l’autismo. Diagnosi e interventi, Erickson, Trento 2005, p. 10.
8
invece posti esplicitamente al centro dei progetti educativi appositamente predisposti per
soggetti autistici, soprattutto avanzando nei gradi di scolarità, dove spesso i contenuti
disciplinari prendono il sopravvento sulla cura delle competenze trasversali di tipo emotivo
e relazionale. La scuola, come micro-sistema sociale3, è il primo contesto in cui è possibile
strutturare un intervento volto a migliorare le relazioni interpersonali, perché costituisce
una zona sociale intermedia tra gli ambienti iper-protetti e limitati della famiglia e del
colloquio terapeutico e l’area incontrollata dell’universo sociale esterno.
La costruzione e la gestione delle interazioni, in soggetti autistici, non seguono quei
processi spontanei e automatici che i soggetti sani danno per scontati. Le strategie per
relazionarsi agli altri devono pertanto essere oggetto di un’azione didattica pianificata e
devono talvolta costituire il principale contenuto del curricolo personalizzato per l’alunno
autistico. Nei frequenti casi dove le capacità di comunicazione sono altamente
compromesse e addirittura manca lo sviluppo del linguaggio parlato, l’azione educativa
risulta molto difficile e si distacca ampiamente dalla normale prassi di insegnamento
scolastico, avvicinandosi a modalità tipiche dell’agire terapeutico-riabilitativo.
Proprio per questo, è utile chiarire la distinzione concettuale tra terapia, riabilitazione ed
educazione. La separazione di questi tre ambiti, nella realtà, non è mai netta ed è anzi
auspicabile che le tre modalità d’azione si sovrappongano, nella sinergia degli esperti delle
tre aree.
La terapia è la modalità di intervento propria di neuropsichiatri, psichiatri e psicologi.
Incorporata al trattamento terapeutico è la diagnosi, ossia l’identificazione dei disturbi in
linguaggio medico, che rappresenta il punto di partenza della presa in carico da parte delle
istituzioni sanitarie. Parallela e talvolta sovrapposta alla diagnosi è l’osservazione
funzionale, che costituisce un arricchimento dell’approccio medico diagnostico attraverso
un’analisi più accurata delle interazioni tra individuo e ambiente. Il cosiddetto modello
“bio-psico-sociale”, raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità attraverso
l’ICF (International Classification of Functioning), è il nuovo paradigma di inquadramento
delle disabilità, un paradigma che dovrebbe costituire una migliore piattaforma di
comunicazione tra istituzioni socio-sanitarie ed enti scolastici.
3 Cfr. U. Bronfenbrenner, The Ecology of Human Development: Experiments by Nature and Design, Harvard
University Press, Cambridge (MA) 1979.
9
In rapporto alla presa in carico di pazienti autistici da parte del sistema sanitario
nazionale, il terapeuta considera ed interviene sugli aspetti emotivo-relazionali, da una
punto di vista medico (prescrivendo ad esempio cure farmacologiche) e svolgendo
soprattutto un ruolo di progettazione, supervisione e raccordo tra soggetto, famiglia, tecnici
della riabilitazione, insegnanti e altri erogatori di servizi. Il supporto alla famiglia e
l’organizzazione degli interventi riabilitativi ed educativi sono dunque il complemento
dell’azione medico-terapica in senso stretto.
La riabilitazione è il trattamento sistematico volto “al recupero di alcune funzionalità
deficitarie e parte dal rinforzo e dall’utilizzo delle funzioni non compromesse per poi
estendersi alle aree problematiche”4. Rispetto al terapeuta, il tecnico della riabilitazione è
di solito chiamato a costruire una relazione più stretta col soggetto autistico ed anzi la
qualità della relazione (condivisione, reciprocità, fiducia, investimento affettivo) è forse
l’elemento decisivo per la riuscita degli interventi riabilitativi. Forme di riabilitazione
diffuse in Italia sono la musicoterapia (riabilitazione espressivo-comunicativa), la
psicomotricità (riabilitazione espressivo-corporea) e i progetti lavorativo-occupazionali
(riabilitazione espressivo-costruttiva).
A differenza della riabilitazione, l’educazione, in ambito scolastico e familiare, non si
concentra su determinate funzionalità, ma si propone di affrontare tutti gli aspetti della vita
quotidiana nel suo complesso. I risultati della riabilitazione vanno esercitati e soprattutto
generalizzati all’interno dell’ambiente educativo: la generalizzazione consiste nel
trasferimento delle capacità, riabilitate in contesti specifici e protetti, a situazioni meno
strutturate e artificiali, in vista di performance da conseguire nella normale vita sociale.
Caratteristica dell’educazione scolastica è l’inserimento dell’alunno autistico in una rete
di relazioni complessa, nei micro-sistemi classe e istituto. Viene in questo modo superato il
carattere fortemente duale degli interventi terapeutici e riabilitativi, in cui il soggetto è
chiamato a stare in una relazione privilegiata e pressoché esclusiva con il terapeuta o il
riabilitatore.
Nell’educazione scolastica, la complessità del contesto relazionale richiede una
progettazione e una strutturazione di ambienti e attività estremamente accurata. Le variabili
contestuali, essendo più numerose rispetto che nei trattamenti terapeutici e riabilitativi,
4 P. Venuti, cit., p.87.
10
sono impossibili da controllare in modo sistematico e per questo l’organizzazione delle
esperienze formative è sottoposta a un forte grado di indeterminatezza, che va
precedentemente considerata. Punto di partenza di una progettazione didattica solida è la
definizione degli obiettivi di apprendimento, formulati sulla base dell’osservazione
funzionale dell’alunno e dell’identificazione della sua zona di sviluppo prossimale5. Gli
obiettivi dell’educazione dell’alunno disabile devono comunque essere funzionali al
progetto di vita, ossia all’idea delle modalità di vita futura post-scolastica che il soggetto
potrà verosimilmente condurre, attraverso il sostegno di famiglia e istituzioni.
2. Il concetto di obiettivo didattico
L’educazione è un’attività sociale diretta a fini determinati, che hanno sempre costituito
materia di dibattito per filosofi, politici, educatori. Nel Novecento, soprattutto nel secondo
dopoguerra, la pedagogia ha però elaborato un discorso molto più strutturato e consapevole
sulle finalità dell’insegnamento, ponendo al centro di una riflessione epistemologica e
metodologica la questione della definizione degli obiettivi didattici.
La “didattica per obiettivi” può essere vista come uno dei principali approcci
contemporanei alla programmazione degli insegnamenti. Tale approccio è stato oggetto di
elaborazione tecnico-concettuale negli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto negli Stati
Uniti d’America e successivamente in Europa. La didattica per obiettivi si è poi affermata,
a partire dagli anni Settanta, come impostazione teorica dominante nell’organizzazione
amministrativa delle azioni di insegnamento all’interno del sistema scolastico italiano.
Il concetto di obiettivo didattico, se non altro nelle formulazioni canoniche (come quella
di R. F. Mager6), risente fortemente dell’influenza esercitata dal comportamentismo in
psicologia: il caposaldo dei sostenitori della didattica per obiettivi è la descrizione dei
comportamenti, osservabili e misurabili, che l’allievo dovrà assumere al termine degli
interventi, nel caso in cui questi ultimi si dimostreranno efficaci. Quest’operazione
preliminare permetterà quindi di valutare con rigore gli esiti finali dell’insegnamento e di
progettare con maggior consapevolezza il curriculum di attività didattiche.
5 Cfr. L. S. Vygotsky, Pensiero e linguaggio, Giunti, Firenze 1976 (IV ed.).
6 R. F. Mager, Preparing Instructional Objectives, Fearon, Palo Alto 1962.
11
Gilbert de Landsheere – in una monografia datata7, ma ancora valida sul piano teorico –
articola una serie di specificazioni che offrono un quadro approfondito del concetto di
obiettivo didattico. In questo paragrafo riprenderò tali distinzioni, che fanno leva
sull’individuazione di tre livelli di astrazione decrescente: finalità generali dell’educazione,
tassonomie di obiettivi secondo ampie categorie comportamentali, obiettivi operativi
specifici.
2.1 I fini dell’educazione
A questo livello, si pongono questioni molto generali e astratte circa la funzione che le
istituzioni educative svolgono all’interno di una determinata società. Questi interrogativi
sono certamente ambigui e piuttosto lontani dalla pratica concreta dell’insegnamento, ma
in essi emergono quelle scelte assiologiche di fondo che vanno poi a informare gli
atteggiamenti di insegnanti e alunni. R. W. Tyler8 ha proposto un’interessante schema che
analizza la dinamica di trasformazione degli obiettivi generali del sistema scolastico:
all’origine del processo stanno le istanze costituite dai bisogni degli studenti,
dall’organizzazione della società e dalla configurazione delle discipline (i contenuti
dell’insegnamento); queste istanze dovrebbero poi essere vagliate alla luce dei principi
teorici della psicologia dell’apprendimento e della filosofia dell’educazione; gli organismi
istituzionali preposti procedono quindi ad effettuare le decisioni organizzative che
concretizzano progressivamente gli obiettivi generali emersi.
Visto l’argomento del presente lavoro, la questione degli obiettivi generali
dell’educazione non è da approfondire. In relazione alla tematica del trattamento
dell’autismo va comunque sottolineato come l’inclusione entro uno stesso sistema-scuola
di alunni normodotati e portatori di handicap sia un’opzione valoriale di fondo,
relativamente recente (a partire dagli anni Settanta), che attraverso misure legislative e
amministrative ha avuto importanti ricadute sulla mentalità e sulle pratiche di
insegnamento nell’istruzione italiana. L’integrazione di soggetti disabili nella comunità è
attualmente un obiettivo generale del sistema scolastico e pertanto l’educazione di alunni
7 V. De Landsheere, G. De Landsheere, Définir les objectifs de l’éducation, Editions Georges Thone, Liège 1975,
trad. it. Definire gli obiettivi dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1977. 8 R. W. Tyler, Basic Principles of Curriculum and Instruction, Chicago University Press, Chicago 1950.
12
affetti da autismo deve essere soprattutto funzionale alla loro vita adulta dentro il tessuto
sociale del territorio.
2.2 Le tassonomie di obiettivi
A un livello intermedio di astrazione, gli obiettivi didattici perdono il carattere assiologico
di finalità del sistema, cominciando invece a riferirsi più nello specifico alle abilità
dell’individuo che apprende. La formulazione di questi obiettivi intermedi non è ancora in
termini di comportamenti osservabili: viene invece utilizzata una terminologia mutuata
dalla psicologia dell’apprendimento, che fa ampio uso di un lessico mentalista (che si
riferisce cioè ad operazioni mentali non osservabili, ma che si è soliti attribuire ai soggetti).
Gli psico-pedagogisti della seconda metà del XX secolo hanno stilato numerosi quadri
tassonomici, al fine di precisare il più esaurientemente possibile il sistema di funzioni
cognitive, affettive e psicomotorie che l’azione didattica sollecita negli allievi.
La costruzione scientifica di tassonomie in campo pedagogico ha preso il via soprattutto
col lavoro di B. J. Bloom, che a partire dalla fine degli anni Quaranta, in collaborazione
con altri ricercatori, ha stilato una classificazione degli obiettivi di insegnamento che ha
avuto un’enorme diffusione in America e in Europa. La catalogazione proposta da Bloom
si divide in tre macro-aree: il campo cognitivo, il campo affettivo e il campo psicomotorio
(l’autore ha però pubblicato delle opere sistematiche soltanto a proposito dei primi due
campi9).
La tassonomia di Bloom è datata ed è stata oggetto di numerose critiche, ma credo che
meriti di essere qui esaminata perché la sua impostazione è costitutiva per il concetto di
obiettivo didattico nella pedagogia contemporanea. I principi alla base della costruzione
teorica di Bloom vengono riassunti nel seguente passo di De Landsheere:
1. Il principio didattico. La tassonomia deve fondarsi sui principali gruppi di obiettivi che si perseguono nel
processo dell’insegnamento.
9 B. S. Bloom, M. D. Engelhardt, E. J. Furst, W. H. Hill, D. R. Krathwohl, Taxonomy of Educational Objectives: The
Classification of Educational Goals, Handbook I: Cognitive domain, David McKay Company, New York 1956. D.
R. Krathwohl, B. S. Bloom, B. B. Masia, Taxonomy of Educational Objectives: The Classification of Educational
Goals, Handbook II: Affective domain, David McKay Company, New York 1964.
13
2. Il principio psicologico. La tassonomia deve corrispondere, per quanto è possibile, a quel che sappiamo in
materia di psicologia dell’apprendimento; non può in nessun caso andare contro i suoi principi riconosciuti
come validi.
3. Il principio logico. Le categorie tassonomiche devono articolarsi in modo logico.
4. Il principio obiettivo. La gerarchia degli obiettivi non corrisponde a una gerarchia di valori; l’importanza
dei comportamenti descritti ad un livello dato non dipende da questo.
Al di là di questi principi, la tassonomia si ordina in base ad un principio strutturale: il principio della
complessità crescente. Dal punto di vista psicologico, memorizzare è una cosa meno complessa che valutare.
Dal punto di vista pedagogico, portare gli alunni a ricordare a memoria è più semplice che portarli
all’autonomia del giudizio. D’altronde, sembra che l’accrescersi della complessità si accompagni ad un
aumento della difficoltà dell’insegnamento e dell’apprendimento10
.
Un problema evidente dell’intera costruzione è l’artificialità nello stabilire confini netti tra
le categorie: il comportamento umano è una struttura olistica, l’alunno reagisce agli
interventi educativi come un tutto inscindibile. Sembra impossibile anche solo demarcare
un limite preciso tra le tre macro-aree cognitiva, affettiva e psicomotoria. La tassonomia
mantiene comunque una certa efficacia pratica d’aiuto nella programmazione e soprattutto
nella valutazione delle attività didattiche, nonostante l’impianto teorico sia a volte fragile.
IL CAMPO COGNITIVO
Bloom propone di distinguere sei categorie di abilità cognitive, di complessità
tendenzialmente crescente. Le prime due categorie corrispondono a forme di
apprendimento più semplici e vengono caratterizzate coi termini “conoscenza” e
“comprensione”. La conoscenza è interpretata essenzialmente come performance
mnemonica, che si traduce in operazioni di discriminazione e nominazione: usando un
termine preso dalla filosofia del linguaggio, interessa l’estensione dei concetti. La
comprensione presuppone invece un utilizzo del concetto in relazione ad altri concetti
(attraverso definizioni, ad esempio) e investe dunque la sfera intensionale. Le altre quattro
categorie di abilità cognitive colgono forme di apprendimento complesse. L’applicazione
si riferisce all’individuazione di un collegamento tra casi particolari e principi generali.
L’analisi consiste nell’identificazione di elementi costituenti strutture complesse e nella
ricerca delle loro mutue relazioni. La sintesi si realizza in performance di tipo creativo. Al
10
V. De Landsheere, G. De Landsheere, cit., pp. 66-67.
14
vertice delle abilità cognitive, secondo la tassonomia, si trova la valutazione, come
capacità critica e di decisione. Per quanto riguarda queste ultime tre categorie, diventano
sempre più discutibili la divisione (dato che le operazioni associate sono sempre
interconnesse) e l’aderenza al principio della complessità crescente.
IL CAMPO AFFETTIVO
Bloom intende gli obiettivi di tipo affettivo come quelli “che considerano le modificazioni
degli interessi, degli atteggiamenti, dei valori, come pure i progressi nel modo di giudicare
e la capacità di adattamento”11
. Una tale interpretazione tende a schiacciare la dimensione
affettiva su quella cognitiva, trascurando soprattutto le competenze sociali che
l’educazione è chiamata ad affinare nell’alunno. Questo approccio emerge chiaramente
nella scelta delle cinque categorie principali in cui si articola la tassonomia degli obiettivi
affettivi (frutto di un lavoro condotto più da D. R. Krathwohl che da Bloom). Il criterio
scelto per ordinare i comportamenti che si riferiscono a interessi, atteggiamenti e valori è il
principio di interiorizzazione, che è “l’incorporazione, l’adozione come propri di valori, di
comportamenti pratici, di idee, di norme, che provengono da un’altra persona o dalla
società”12
. Di qui viene costruita una gerarchia che presenta la seguente successione:
ricezione, ovvero stato affettivo amorfo di mera attenzione agli stimoli; risposta, dove
l’alunno manifesta un comportamento attivo in risposta a determinati stimoli, prima su
richiesta e poi spontaneamente; valorizzazione, livello in cui il soggetto attua delle scelte di
preferenza e manifesta impegno in determinati contesti d’azione; organizzazione, dove
viene messa in atto una riflessione consapevole sui valori e sui comportamenti ad essi
associati; caratterizzazione, come formulazione di una propria Weltanschauung, percepita
come elemento costitutivo della propria identità. Questa tassonomia degli obiettivi affettivi
appare alquanto parziale e nel prosieguo avremo modo di ampliarla alla luce della
letteratura successiva, soprattutto in relazione alle problematiche della pedagogia speciale.
IL CAMPO PSICOMOTORIO
Gli obiettivi didattici di tipo psicomotorio sono probabilmente quelli meno curati nei
sistemi educativi occidentali e anche la loro classificazione risulta più difficoltosa. Bloom
11
Citato in V. De Landsheere, G. De Landsheere, cit., p. 131. 12
Ivi, p. 146.
15
e collaboratori non pubblicarono ad esempio la terza parte che avrebbe dovuto completare
la loro tassonomia. La categorizzazioni disponibili derivano spesso dalle teorie sullo
sviluppo del bambino. Un lavoro che si riallacciava esplicitamente alla tassonomia di
Bloom è stato quello di R. Kibler13
, che ha proposto quattro ambiti generali di abilità:
abilità motoria generale, che interessa i movimenti più ampi e gli spostamenti; abilità
motorie fini, che richiedono una maggiore coordinazione del movimento con le aree
sensoriali e maggior controllo nell’esecuzione; comportamenti di comunicazione non
verbale, quali mimica, gestualità, espressioni facciali; comportamenti verbali, di
produzione sonora.
2.3 Gli obiettivi operativi
A questo livello viene abbandonato il linguaggio mentalista delle tassonomie:
l’operazionalizzazione dei concetti psico-pedagogici consiste nel formulare gli obiettivi in
termini di comportamenti osservabili e misurabili, cercando il più possibile di eliminare
vaghezza e ambiguità. La formulazione deve comprendere i seguenti quattro elementi:
- un verbo comportamentale che indica l’azione che l’alunno deve compiere (ad es.
scrivere, rispondere);
- il prodotto, l’oggetto su cui verte l’azione (in questa voce compaiono anche quelli che
tradizionalmente sono indicati come i contenuti dell’insegnamento);
- le condizioni, la situazione materiale nella quale l’alunno viene posto per effettuare
l’azione (ad es., “posto di fronte a 15 quesiti con quattro opzioni di risposta ciascuno”)
e le condizioni psicologiche, ossia gli apprendimenti anteriori;
- i criteri di riuscita, ossia la descrizione della performance che manifesta il
raggiungimento dell’obiettivo (ad es. “rispondere in modo corretto all’80% dei
quesiti”).
La specificazione di questi quattro aspetti in termini osservabili può apparire a volte
macchinosa e pedante. Il concetto di obiettivo operativo svolge però soprattutto una
funzione metodologica, come ideale regolativo per la prassi didattica: ancorare
13
R. Kibler, L. Barker, D. Miles, Behavioral Objectives and Instruction, Allyn and Bacon, Boston 1970.
16
l’insegnamento ad effetti concreti e ostensibili, per evitare “le formulazioni nebulose,
favorevoli al vuoto pedagogico”14
. In questo modo viene messa in atto una
responsabilizzazione di insegnanti ed educatori e viene ridotto il margine di discrezionalità
nella valutazione del loro operato.
Una critica sicuramente pertinente al concetto di obiettivo operativo è che il rigore della
formulazione obbliga spesso a trattare soltanto comportamenti cognitivi elementari. Gli
obiettivi didattici più complessi, che sono lo scopo principale dell’educazione, non si
lasciano tradurre in linguaggio comportamentale. Un’utile sistematizzazione della
complessità crescente degli obiettivi distingue tre categorie:
- gli obiettivi di padronanza, che riguardano un segmento di contenuti e un contesto del
tutto circoscritti e prevedibili: essi corrispondono ai due livelli inferiori della
tassonomia di Bloom (conoscenza e comprensione) e sono gli unici a poter essere
definiti in termini comportamentali senza perdite di significato;
- gli obiettivi di transfert, in cui i comportamenti appresi in un determinato contesto
devono essere applicati a una nuova situazione, che possiede un certo grado di analogia
con quelle note; a questo livello, la formulazione di obiettivi operativi è difficoltosa,
perché la trasferibilità degli apprendimenti presuppone che l’insieme dei nuovi contesti
sia aperto e non definibile;
- gli obiettivi di espressione, che corrispondono ai gradi più alti della tassonomia di
Bloom (sintesi e valutazione); tali obiettivi non possono essere descritti attraverso un
comportamento finale da acquisire e anche i criteri di valutazione degli esiti didattici
non possono essere univoci.
Qui possiamo scorgere un’aporia. Da un lato, le finalità generali del sistema scolastico
risiedono certamente negli obiettivi di maggior complessità; dall’altro lato, gli obiettivi
operativi che permettono una rigorosa programmazione e valutazione dell’insegnamento
sono obiettivi di padronanza relativamente limitati. Rimane dunque aperta la questione del
collegamento tra obiettivi di padronanza e obiettivi di ordine superiore, questione difficile
da dirimere e con ampi margini di variabilità a seconda di contesti e individui.
14
V. De Landsheere, G. De Landsheere, cit., p. 275.
17
3. Modelli di intervento terapeutico e riabilitativo per l’autismo
La sintomatologia dei disturbi dello spettro autistico sembra legata a modalità
caratteristiche di funzionamento mentale e percettivo, qualitativamente diverse rispetto a
quelle dei soggetti sani. Intervenire sui comportamenti problematici che derivano da questa
funzionalità caratteristica presuppone quindi un’interpretazione ipotetica dei processi
mentali non osservabili. Negli ultimi anni, nella comunità scientifica, si sono affermati
quattro modelli di interpretazione del quadro clinico:
1. Teoria socio-affettiva, secondo la quale “esisterebbe nell’autismo un’innata incapacità,
biologicamente determinata, di interagire emozionalmente con l’altro. Tale incapacità,
secondo una reazione a cascata, porterebbe all’incapacità di imparare a riconoscere gli stati
mentali degli altri, alla compromissione dei processi di simbolizzazione, al deficit del
linguaggio, al deficit della cognizione sociale”15
.
2. Deficit della teoria della mente, ossia della “capacità di riflettere sulle emozioni, sui
desideri e sulle credenze proprie e altrui e di comprendere il comportamento degli altri in
rapporto non solo a quello che ciascuno di noi sente, desidera o conosce, ma in rapporto a
quello che ciascuno di noi pensa che l’altro sente, desidera o conosce”16
.
3. Debolezza della coerenza centrale, ossia della “capacità di sintetizzare in un tutto
coerente, o se si preferisce di sistematizzare in un sistema di conoscenza, le molteplici
esperienze parcellari che investono i nostri sensi”17
.
4. Deficit delle funzioni esecutive: con “funzioni esecutive” si intendono una serie di abilità
coinvolte nella realizzazione di un qualsiasi compito o nella risoluzione di un problema.
Tali abilità possono essere così sintetizzate: “capacità di attivare e mantenere attiva, a
livello mentale, un’area di lavoro”; “capacità di formulare un piano di azione”; “capacità di
non rimanere rigidamente ancorati ai dati percettivi che provengono dal contesto”;
15
S.I.N.P.I.A, cit., p.12. 16
Ivi, p.13. 17
Ibidem.
18
“capacità di inibire risposte impulsive”; “capacità di essere attenti alle informazioni di
ritorno, per correggere in base ad esse il piano di azione”; “capacità di spostare in modo
flessibile l’attenzione”18
.
I vari modelli di intervento riabilitativo sono invece essenzialmente riconducibili a due
famiglie: gli approcci di tipo comportamentale e gli approcci evolutivi o interattivi. I
modelli del primo tipo applicano i principi della psicologia comportamentista. Gli
atteggiamenti problematici del soggetto vengono attentamente osservati e analizzati in
quattro componenti: l’antecedente, cui viene attribuito un ruolo causale; il comportamento
in esame, osservato e ove possibile misurato; il conseguente, ovvero ciò che deriva dal
comportamento (in particolare le reazioni del soggetto agente e degli altri, dove si
localizzano i rinforzi); il contesto, la situazione (luogo, momento, persone coinvolte,
oggetti) in cui si verifica il comportamento. Si cerca quindi di modificare i meccanismi
stimolo–risposta individuati attraverso questa analisi, facendo uso di rinforzi positivi,
rinforzi negativi e punizioni. Le tecniche di insegnamento abituali degli approcci
comportamentali sono: la sollecitazione/aiuto (prompting), la riduzione delle sollecitazioni
(fading), il modellamento (modeling), il modellaggio (shaping), la task analysis
(scomposizione del compito nelle parti costituenti), il chaining (concatenamento dei micro-
comportamenti individuati nella task analysis) anterogrado o retrogrado19
.
Caratteristiche dei modelli comportamentali “tradizionali” sono l’azione di insegnamento
estremamente strutturata (articolata in procedure predefinite), l’artificialità del contesto, il
rapporto uno-uno con il tecnico della riabilitazione. I cosiddetti approcci
neocomportamentali, invece, pur applicando sempre i principi della psicologia
comportamentista, si distaccano da quelli “tradizionali” in quanto ritengono che
l’artificialità del contesto causi problemi nella generalizzazione degli apprendimenti a
situazioni di vita quotidiana, fuori dal setting della riabilitazione. L’apprendimento deve
pertanto avvenire nei contesti naturali che il soggetto autistico abitualmente frequenta
(famiglia, scuola, attività del tempo libero). Ciò implica che il training del tecnico della
18
Ivi, p. 14. 19
La letteratura sulle tecniche comportamentali è molto vasta. Per un inquadramento di tali tecniche in relazione
all’handicap, segnalo P. Meazzini (a cura di), Handicap. Passi verso l’autonomia. Presupposti teorici e tecniche di
intervento, Giunti, Firenze 1997.
19
riabilitazione sia rivolto principalmente a genitori, fratelli, insegnanti e coetanei, chiamati
ad implementare i programmi di intervento attraverso le succitate tecniche.
Al contrario dei modelli comportamentali, gli approcci evolutivi ritengono che l’aspetto
su cui far leva nell’intervento riabilitativo sia la sfera emotiva e relazionale, che
trasformandosi influenza le aree cognitive, percettive, esecutive, ecc.; conformemente a
questo assunto, vengono utilizzati principi e concetti di matrice psicodinamica.
“L’intervento si propone di sviluppare e/o potenziare le predisposizioni strutturali e
funzionali che attivano le interazioni e la crescita mentale; il terapeuta, il riabilitatore o
l’educatore si pongono come un Io ausiliario che va a integrare le predisposizioni
genitoriali non attivate nel corso del primo sviluppo”20
. L’idea è infatti che i deficit neuro-
biologici del bambino autistico impediscano l’instaurarsi di un rapporto normale col
genitore nei primi mesi di vita; l’anormalità di questa relazione produce poi a cascata una
serie di comportamenti patologici, che vanno interpretati essenzialmente come forme di
difesa di fronte all’insuccesso nella comunicazione interpersonale.
I modelli di tipo evolutivo si propongono di creare situazioni di intervento prive di ansia
per il soggetto autistico e libere dalla richiesta di prestazioni specifiche. Si tenta anzi di
enfatizzare lo stato di piacere prodotto dai vissuti relazionali, affinché il paziente sia
motivato a persistere nell’interazione. L’ipotesi è che i soggetti autistici non abbiano
acquisito determinate competenze a causa di carenze nelle relazioni interpersonali;
l’apprendimento di tali competenze passa dunque attraverso la riattivazione di percorsi
interattivi, ma tale riattivazione deve essere in primo luogo sostenuta a livello effettivo-
motivazionale dal desiderio di comunicazione e scambio. Il terapeuta deve assumere
l’identità di chi accoglie, accetta e fa stare bene, tollerando e favorendo livelli di
comportamento e di gioco di fasi precedenti dello sviluppo, per recuperare elementi del
mancato tragitto evolutivo.
Presenterò ora un rapido elenco dei programmi di riabilitazione più affermati a livello
internazionale:
- programma TEACCH (Treatment and Education of Autistic and related
Communication Handicapped Children): di impostazione comportamentista, fa però
leva soprattutto sull’adattamento del contesto (un ambiente di lavoro organizzato in
20
P. Venuti, cit., p. 80.
20
spazi chiaramente delimitati, una scansione temporale precisa) più che sull’utilizzo di
rinforzi ripetuti;
- programma LEAP (Learning Experiences, an Alternative Program for Preschoolers
and their Parents): di tipo neocomportamentista, enfatizza la necessità di effettuare gli
interventi con tecniche comportamentali negli abituali contesti di vita del bambino
(scuola e famiglia), con grande coinvolgimento dei compagni di classe;
- UCLA Young Autism Project: ideato da Lovaas, è un esempio privilegiato di
applicazione del modello comportamentista, prevedendo un’approfondita analisi e
scomposizione dei comportamenti, un sistematico utilizzo dei rinforzi e un grande
coinvolgimento della famiglia;
- Denver Model: riconducibile all’approccio evolutivo, enfatizza il ruolo del gioco e
l’elicitazione del comunicare;
- Developmental Intervention Model at the George Washington University: si focalizza
sull’analisi delle modalità autistiche di processare le informazioni e sul livello di
sviluppo emotivo del bambino, per poi incrementare i circoli di comunicazione e le
competenze di simbolizzazione;
- metodo TED (Thérapie d’Echange et de Développement): approccio di tipo evolutivo,
che consiste in un programma di stimolazione focalizzato su alcune funzioni quali
attenzione, percezione, motricità, imitazione, comunicazione, regolazione, in un
contesto in cui l’operatore deve essere aperto e disponibile al contatto corporeo e
affettivo.
Accanto a questi programmi fortemente strutturati, soprattutto in Italia è diffuso il ricorso
ad attività terapeutico-riabilitative riconducibili a metodi più generali, la cui validità
scientifica è a volte messa in questione:
- la psicomotricità: riconducibile agli approcci evolutivi, attraverso una serie di esercizi
motori e di contatto fisico mira a sollecitare nell’individuo l’incontro e la conoscenza
del proprio “Io corporeo”, ossia l’organizzazione delle sensazioni relative al proprio
corpo in relazione ai dati del mondo esterno;
- la musicoterapia: integrata a modelli di intervento di tipo evolutivo, si concentra sulle
capacità di espressione e comunicazione, sfruttando parametri musicali che dovrebbero