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16 E ra l’autunno del 1649 quando Francesco Merlino (?-1650), uno dei giuristi più acclamati dell’intero Viceregno 1 , assegnava a Massimo Stanzione (1585-1656) il compito di dipingere la grande tela con la Visitazione ( fig. 1 ) che, entro la Quaresima dell’anno seguente, egli avrebbe voluto vedere sull’altare della propria cappella nella chiesa napoletana del Gesù Nuovo 2 . Per l’artista, che all’epoca dei fatti aveva ormai raggiunto l’apice di una carriera intensa e piena di gratificazioni sul piano sociale e professionale, si trattava di un incarico di tutto rispetto, da onorare con la dedizione e l’impegno opportuni non solo per la collocazione di notevole prestigio che sarebbe stata accordata alla pala, ma, soprattutto, per via dell’elevatis- sima caratura del committente, reggente della Cancelleria e presidente del Sacro Regio Consiglio, il più alto tribunale dello Stato 3 . Eppure, in linea con una prassi operativa a cui non sempre gli studi di ambito meridionale paiono disposti a riconoscere il debito rilievo 4 , Massimo non esitò a delegare ad altri buona parte dell’esecuzione mate- riale della tela, affidandola a una delle tante giovani leve che, a quel tempo, cercavano di mettersi in luce all’interno del suo avviatissimo atelier . Nella circostanza, la scelta ricadde su Santillo Sannino che, complici sia la prematura morte del Merlino che la scomparsa, di certo più sentita e sofferta, dello stesso Stanzione, poté concludere il lavoro che aveva già principiato nel novembre del 1649 solo dopo una lunga interruzione 5 . Egli, infatti, rimesse le mani sulla tela che era rimasta incompleta nella bottega in cui fu « acconciato » 6 in gioventù, vi si applicò nuovamente soltanto a partire dal 1659, riuscendo finalmente a condurre in porto l’impresa nell’estate del 1660 7 . La travagliata vicenda della Visitazione Merlino, non sfuggita sul finire del Seicento a un periegeta avveduto come Carlo Celano 8 e ben nota ai nostri giorni alla storiografia specialistica 9 , costituisce probabilmente la testimonianza più eloquente del rapporto che, a cavallo tra il quinto e il sesto decennio del XVII secolo, il Sannino seppe costruire con lo Stanzione una volta ammesso nel suo studio. Un legame, senz’altro stretto e preferenziale, che fu alimentato dalla fiducia riversata dal maestro nelle doti dell’allievo e che, come lasciano credere le notizie raccolte da Bernardo De Dominici 10 e le poche tracce documentarie riemerse sinora sul conto di Santillo 11 , non dovette rimanere confinato entro i limiti di una collaborazione occasionale e circo- scritta ad operam. MAURO VINCENZO FONTANA Nel segno del Cavalier Stanzione. Due aggiunte a Santillo Sannino
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Nel segno del Cavalier Stanzione. Due aggiunte a Santillo Sannino

May 16, 2023

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Era l’autunno del 1649 quando Francesco Merlino (?-1650), uno dei giuristi più acclamati dell’intero Viceregno 1, assegnava a Massimo Stanzione (1585-1656) il compito di dipingere la grande tela con la Visitazione (fig. 1) che, entro la Quaresima dell’anno seguente, egli avrebbe voluto vedere sull’altare

della propria cappella nella chiesa napoletana del Gesù Nuovo 2. Per l’artista, che all’epoca dei fatti aveva ormai raggiunto l’apice di una carriera intensa e piena di gratificazioni sul piano sociale e professionale, si trattava di un incarico di tutto rispetto, da onorare con la dedizione e l’impegno opportuni non solo per la collocazione di notevole prestigio che sarebbe stata accordata alla pala, ma, soprattutto, per via dell’elevatis-sima caratura del committente, reggente della Cancelleria e presidente del Sacro Regio Consiglio, il più alto tribunale dello Stato 3.Eppure, in linea con una prassi operativa a cui non sempre gli studi di ambito meridionale paiono disposti a riconoscere il debito rilievo 4, Massimo non esitò a delegare ad altri buona parte dell’esecuzione mate-riale della tela, affidandola a una delle tante giovani leve che, a quel tempo, cercavano di mettersi in luce all’inter no del suo avviatissimo atelier. Nella circostanza, la scelta ricadde su Santillo Sannino che, complici sia la prematura morte del Merlino che la scomparsa, di certo più sentita e sofferta, dello stesso Stanzione, poté concludere il lavoro che aveva già principiato nel novembre del 1649 solo dopo una lunga interruzione 5. Egli, infatti, rimesse le mani sulla tela che era rimasta incompleta nella bottega in cui fu « acconciato » 6 in gioventù, vi si applicò nuovamente soltanto a partire dal 1659, riuscendo finalmente a condurre in porto l’impresa nell’estate del 1660 7.La travagliata vicenda della Visitazione Merlino, non sfuggita sul finire del Seicento a un periegeta avveduto come Carlo Celano 8 e ben nota ai nostri giorni alla storiografia specialistica 9, costituisce probabilmente la testimonianza più eloquente del rapporto che, a cavallo tra il quinto e il sesto decennio del XVII secolo, il Sannino seppe costruire con lo Stanzione una volta ammesso nel suo studio. Un legame, senz’altro stretto e preferenziale, che fu alimentato dalla fiducia riversata dal maestro nelle doti dell’allievo e che, come lasciano credere le notizie raccolte da Bernardo De Dominici 10 e le poche tracce documentarie riemerse sinora sul conto di Santillo 11, non dovette rimanere confinato entro i limiti di una collaborazione occasionale e circo-scritta ad operam.

Mauro Vincenzo Fontana

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Scandagliando gli studi sul Seicento partenopeo – e non penso solo a quelli che si sono confrontati con tematiche di stretta pertinenza stanzionesca –, si ha tuttavia la chiara impressione che il nome e la figura del Sannino non godano oggi di una fortuna particolare. Anzi, al contrario, nei riguardi di questa personalità la critica pare essersi ormai orientata su una lettura assai severa e riduttiva, che, se per un verso mortifica oltremisura gli esiti conseguiti dal pittore negli anni in cui operò come maestro autonomo, dall’altro non sembra poter riuscire a rendere giustizia della considerazione che egli seppe conquistarsi presso uno dei più celebrati maestri della scuola napoletana 12.Sullo sfondo di un simile scenario storiografico, il contributo odierno si propone di discutere un paio di nuove aggiunte al catalogo del pittore, non solo nell’intento di approdare a una migliore messa a fuoco della sua fisionomia stilistica, ma, più in generale, nella prospettiva di pervenire a un assestamento delle nostre conoscenze sui tempi e sui modi che scandirono la diffusione della « bella maniera 13 » di Massimo nell’Italia meridionale. I due dipinti di cui renderò conto in questa sede, infatti, consentono di tracciare rotte inedite nella mappa dello stanzionismo secentesco, dal momento che entrambi si trovano ab antiquo al di fuori della cintura metropolitana di Napoli dove, sino a oggi, si credeva confinato quasi del tutto il campo d’azione di Santillo 14.Provando a entrare da subito nel cuore del nostro ragionamento, credo convenga principiare il discorso da questa castigatissima Annunciazione (fig. 2), una tela, dalle dimensioni tutt’altro che modeste 15, con cui ho già avuto modo di cimentarmi in occasione di una recente giornata di studio tenutasi a Matera nel dicembre del 2011 16.

Fig. 1 - Massimo stanzione, santillo sannino, Visitazione, Napoli, Gesù Nuovo.

Fig. 2 - santillo sannino, Annunciazione, Gravina in Puglia, Cattedrale.

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Provvista ancora della cornice originale – un’elegante carpenteria lignea con motivi vegetali che, a giudicare dalla fattura dell’intaglio e dalla tipologia della doratura, va senz’altro ricondotta all’attività di una bottega partenopea operosa sul finire del terzo quarto del Seicento – la pala è ricoverata al presente nella sagrestia della cattedrale di Gravina in Puglia, una collocazione che le è stata accordata solo da tempi relativamente recenti e che condivide con altri manufatti recuperati da alcune chiese cittadine dismesse al culto 17. Benché occorra fare i conti con uno stato di conservazione non ottimale, e basti dire delle lacerazioni ben evidenti nel supporto, dei diffusi cedimenti della tela e del generale inscurimento della superficie pittorica, l’opera lascia intravvedere una qualità complessiva tutt’altro che banale, ciò che consente a buon diritto di eleggerla tra i migliori prodotti di schietta cultura partenopea giunti in Terra di Bari nella seconda metà del XVII secolo. Ignorata dalle guide locali primonovecentesche 18, inoltre, essa risulta pressoché sconosciuta agli studi moderni, nonostante sia trascorsa già una trentina d’anni da quando, non senza un’adeguata riproduzione fotografica, venne fatta conoscere da Vincenzo Pugliese 19. All’interno del denso e citatissimo contributo sulla pittura napoletana in Puglia uscito nel 1984 20, infatti, lo studioso non tralasciava di accennare all’Annuncia­zione in esame come alla prova ispirata di un « epigono » di Francesco Guarino, un’opera, egli si premurava di precisare, aggiornata sullo « stanzionismo finale » del grande maestro solofrano e da leggersi « a corollario » del suo biennale soggiorno a Gravina 21.E in effetti, per quanto il nesso rivendicato con la maniera del Guarino non appaia più un riferimento a cui potersi allineare – così come quello a favore di Oronzo Malinconico (1661-1709) ventilato da Riccardo

Fig. 3 - Massimo stanzione, Annunciazione, Firenze, santo stefano al Ponte.

Fig. 4 - santillo sannino, Sacra Famiglia con i santi Anna e Gioacchino, Napoli, Museo diocesano.

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Lattuada 22 – le coordinate stilistiche tratteggiate dal Pugliese coglievano nel segno nel rimarcare un debito nei confronti del lessico dello Stanzione. Un debito, corre l’obbligo di aggiungere, che si manifesta in tutta la sua flagranza già nell’archi-tettura spaziale della scena, scopertamente para-frasata dalla straordinaria Annunciazione (fig. 3) di Massimo conservata nella chiesa fiorentina di Santo Stefano al Ponte 23.Che si tratti proprio della mano del Sannino, poi, non si faticherà troppo a comprenderlo evocando il confronto, sulla scia di quanto suggerito da Giuseppe Porzio 24, con due impegni napole-tani dell’artista : la pala di identico soggetto e la Sacra Famiglia con i santi Anna e Gioacchino (fig. 4) 25 licenziate per San Giovanni Battista delle Monache e le tre Storie di san Pietro d’Alcan tara che, in concomitanza della canoniz-zazione del frate iberico da parte di Clemente IX, egli venne chiamato a eseguire nel 1669 per la cappella omonima in Santa Maria la Nova 26. Più in particolare, appaiando la pala gravinese alla Sacra Famiglia e alla scena con l’estasi del santo estremegno – un dipinto, questo, di cui non mi pare superfluo ricordare la lusinghiera menzione che si ritrova nelle Vite dedominiciane 27 – si scoprono perfettamente sovrapponibili la stesura controllata e la calibrata accordatura delle tinte, la costruzione delle anatomie e la tipologia dei panneggi. Così come del tutto identiche, inoltre, appaiono le fisionomie addolcite e la resa degli affetti che, non estranea l’adozione di un lume dai trapassi chiaroscurali morbidi e graduali, pare volutamente calcare sul pedale devozionale per stemperare la vis dramatica propria del patetismo dell’ultimo Stanzione.Quanto alle circostanze che fecero da sfondo alla commissione dell’opera, al momento risulta difficile pronunciarsi con esattezza, stante la completa mancanza di notizie documentarie che aiutino a ricostruire la questione. Di sicuro, però, oltre al fatto che il dipinto dovette essere concepito e ultimato a Napoli, c’è che il suo arrivo a Gravina debba ricollegarsi agli interessi collezionistici degli Orsini, feudatari con il titolo ducale della cittadina pugliese sin dal XV secolo 28. Scorrendo l’inventario dei quadri che, nel febbraio del 1707, il partenopeo Nicolò di Simone 29 venne chiamato ad apprezzare nella residenza gravinese della famiglia, infatti, si scopre che nella « Camera dell’Arconio contigua alla Camera dentro i specchi » era affissa alla parete una « Annu[n]ciata di Mano della Scola di Massimo 30 ». Una tela, quest’ultima, che si presentava con la propria incorniciatura « stretta dorata » e che, a giudicare dalla perfetta compatibilità delle misure 31, dovette essere proprio quella che oggi si ammira nella sagrestia della cattedrale.

Venendo al secondo dipinto che credo debba risarcirsi al pennello del Sannino, un’Apparizione della Vergine con il Bambino a san Francesco Saverio (fig. 5) 32, esso si trova ab origine nel Vallo di Diano, una piccola subregione della Campania meridionale in cui, presso la committenza ecclesiastica locale, le formule espres-sive messe a punto dallo Stanzione non paiono aver trovato un terreno veramente fertile 33. Custodita all’interno

Fig. 5 - santillo sannino, Apparizione della Vergine con il Bambino a san Francesco Saverio, teggiano, sant’Agostino.

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della chiesa di Sant’Agostino a Teggiano, la tela, già accostata con cautela a Michele Regolia (doc. 1632-1686) 34, è stata più convintamente riferita alla mano di un « ignoto stanzionesco », un’etichetta che le fu asse-gnata un paio di decenni fa, quando, nel 1989, essa venne esposta nel corso di una mostra allestita nella certosa di Padula 35. In quella circostanza, per entrare più nel dettaglio, la pala fu accompagnata da un’attenta scheda di catalogo stilata da Concetta Restaino che, sulla scorta di confronti mirati con la produzione avanzata del caposcuola partenopeo, giungeva a supporre una familiarità diretta e profonda con la maniera di Massimo 36.Ed è proprio sulla traccia di tale inquadramento stilistico che, come credo, si può legittimamente stringere l’obiettivo intorno al nome del Sannino. Oltre a rivelarsi in piena sintonia con l’Annunciazione gravinese, infatti, la tela risulta informata dello stesso ordine di pensieri che innerva le opere certe del pittore, dalla succitata Sacra Famiglia alla malconcia pala con le Opere di misericordia corporale, siglata e datata al 1665, conservata a Massalubrense nella chiesa di Santa Maria della Misericordia 37. Più in particolare, si veda come il tono patentemente didascalico del registro narrativo, la predilezione per un’impaginazione di immediata leggibilità, l’ambientazione quotidiana del fatto sacro e il sentimentalismo illanguidito tradiscano la volontà di rivisitare l’eloquio dello Stanzione in una chiave più devota e feriale, sì da riuscire a toccare le corde emotive di un sentimento religioso ancora fortemente intriso della spiritualità controriformata. Tipici dello stanzionismo addolcito e accostante di Santillo, inoltre, risultano la costruzione dei volti – quasi una traspo-sizione vernacolare dei caratteri fisionomici propri del linguaggio di Massimo – l’intelaiatura luministica, sfrondata da trapassi chiaroscurali troppo netti e decisi, e l’impasto pittorico che, se si rassoda nel modellare i panneggi e le anatomie floride del puttini, tende gradatamente a sfaldarsi nella resa del cielo macchiato e del paesaggio collinare che si apre sullo sfondo aldilà della balaustra.A sostegno di questa proposta attributiva, d’altro canto, non si potrà fare a meno di chiamare in causa anche una notizia d’archivio risalente al primo Ottocento, recuperata da Luigi Avino nel 2003 38 ma mai ricollegata sinora al dipinto in questione. Ai fini del nostro discorso, infatti, mi pare di primario interesse far notare come, in un inventario del 1811 relativo alle opere conservate in Sant’Agostino, l’Apparizione della Vergine a san Francesco Saverio fosse già accostata al nome del Sannino 39. Una paternità, questa, tutt’altro che scontata per le conoscenze dell’epoca e che, verosimilmente, dovette essere suggerita o dalla presenza della firma del pittore, di cui comunque oggi non ci è giunta nessun’altra testimonianza, o, ancora, da una più antica attestazione documentaria che al momento risulta irrintracciata.A volersi interrogare sulla commissione della pala – una questione su cui, per la verità, la critica non si è mai soffermata –, credo che una risposta convincente possa ritrovarsi cercando nella rete dei rapporti che il pittore intrattenne con gli eredi del già citato Francesco Merlino. Continuando a leggere la voce inventariale compilata nel 1811, infatti, si apprende che il dipinto venne eseguito « a divozione della famiglia Calà 40 », un casato di illustri origini calabresi che, trasferitosi in pianta stabile a Napoli nei decenni centrali del Seicento, ottenne nel 1654 il feudo di Teggiano grazie all’impegno di uno dei suoi esponenti di maggiore fama 41. Si tratta di quel Carlo Calà, nipote per via materna del Merlino, giurista di comprovato talento e presidente dal 1652 della Regia Camera della Sommaria 42, che risulta legato in modo diretto a Santillo almeno dal 1659. Fu proprio lui, infatti, a rivolgersi al pittore per assegnargli il completamento della pala con la Visitazione che, come si accennava in avvio, una decina di anni prima venne commissionata dallo zio allo Stanzione 43.Una volta riconsegnata l’opera al catalogo del Sannino, occorrerà necessariamente ridiscuterne la cronologia che, già fissata dalla Restaino 44 alla sesta decade del Seicento, andrà invece posticipata di qualche anno. Con ogni probabilità, infatti, il dipinto dovette essere ultimato nel settimo decennio del secolo, forse solo qualche tempo prima dell’Educazione della Vergine del Suor Orsola Benincasa che, con una data ancorata con certezza al 1668 45, si configura al presente tra le più avanzate testimonianze figurative rimasteci dell’atti­vità dell’artista 46.

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In apertura, non posso non ricordare con gratitudine Marcello Benevento, Massimiliano Cosi, Giuseppe Digennaro, Lucia Lobifaro, Pino Navedoro, Daniele Nuzzolese, Giuseppe Porzio e don Giuseppe Puppo.

1.  Sulla figura di Francesco Merlino, per-sonaggio di indiscusso spessore intellettuale e autore, nel 1635, di un acutissimo trattato giuridico uscito a Napoli in lingua spagnola (Biblioteca nazionale di Napoli, Ms. XXIII-B-4 : Breve discurso del derecho, 1635), si veda in breve A. Musi, Mezzogiorno spa­gnolo. La via napoletana allo stato moderno, Napoli, 1991, p. 72, 213.2.  In merito alle circostanze in cui venne commissionata la Visitazione Merlino, si veda quanto osservato da T. Willette, in S. Schütze, T. Willette, Massimo Stanzione. L’opera completa, Napoli, 1992, p. 123, 244, no A108.3.  Ibid., p. 244, no A108.4.  Relativamente al ritardo che, in sede sto-riografica, si continua ad accusare rispetto alla questione del funzionamento delle botteghe napoletane attive nel Seicento, si vedano a titolo esemplificativo le conside-razioni avanzate nel 1992 dal Willette, in ibid., p. 121.5.  Ibid., p. 244, no A108.6.  B. De Dominici, Vite de’ pittori, scul­tori e architetti napoletani, Napoli, Ric-ciardi, 1742-1745, ed. a cura di F. Sricchia Santoro, A. Zezza, Napoli, 2003-2008, II, 2008, p. 120.7.  T. Willette, in S. Schütze, T. Willette, op. cit. nota 2, p. 244, no A108.8.  C. Celano, Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli. Gior­nata terza, Napoli, nella stamperia di Gia-como Raillard, 1692, p. 55-56 : « Nell’altra [cappella] che segue a questa, dedicata alla Visitatione della Vergine, similmente tutta de marmi commessi, fu fatta a spese di don Francesco Merlini regente di Cancelleria e presidente del Sacro Consiglio, huomo di profondissima dottrina. Il quadro che in essa si vede, nel quale sta espressa la Visi-tatione di Nostra Signora a santa Elisabetta con san Zaccaria e san Gioseppe, è opera del cavaliere Massimo, il quale, per essere passato a miglior vita, lo lasciò imperfetto. Fu terminato da un suo discepolo detto il Pozzolano, giovane che, se non fusse stato prevenuto dalla morte, havrebbe uguagliato

il maestro ». Sulla possibilità, ancora tutta da verificare, che la figura del Sannino coin-cida con quella dell’altrimenti sconosciuto allievo dello Stanzione indicato dal Celano con l’appel lativo di « Pozzolano », si veda quanto riferito dal Willette (in S. Schütze, T. Willette, op. cit. nota 2, p. 122, 169, 181, nota 153) e da A. della Ragione (Massimo Stanzione e la sua scuola, Napoli, 2009, p. 5).9.  Al riguardo, si veda in sintesi il quadro bibliografico tracciato da A. Zezza, in B. De Dominici, op. cit. nota 6, p. 120, nota 97.10. B. De Dominici, op. cit. nota 6, p. 120-121.11.  Venuto a mancare « circa il 1685 » secondo l’attendibile testimonianza del De Dominici (op. cit. nota 6, p. 121), il pittore, di cui continuano a ignorarsi il luogo e l’anno di nascita, risulta documentato per poco più di un quarto di secolo, dal 1649 al 1675 (T. Willette, in S. Schütze, T. Willette, op. cit. nota 2, p. 123, 145, note 25-29). Oltre che alla Visitazione Merlino, le carte d’archivio di cui disponiamo oggi provano la collabo-razione dell’artista almeno a un’altra impresa di prestigio condotta dallo Stanzione nella fase estrema della sua carriera. Sempre nel 1649, infatti, Massimo risulta aver stornato al Sannino quaranta ducati per un dipinto, dal soggetto imprecisato e al presente disperso, che gli venne richiesto dal principe di Cardito Mario Loffredo (al riguardo, si veda ibid., p. 123, 266, documento D36).12. Tra i giudizi più caustici emessi dalla cri-tica recente, conta riferire del parere espresso da Stefano Causa (La strategia dell’atten­zione. Pittori a Napoli nel primo Seicento, Napoli, 2007, p. 178) sull’Annunciazione in San Giovanni Battista delle Monache e di quello formulato da A. della Ragione (Pit­tori napoletani del Seicento, Napoli, 2011, p. 31) all’indi rizzo della tela con le Opere di misericordia nella chiesa di Santa Maria della Misericordia a Massalubrense.13. B. De Dominici, op. cit. nota 6, ed. Napoli, 1840-1846, III, 1844, p. 211.14.  Perdute le tele documentate per la chiesa partenopea di San Tommaso d’Aquino (su cui si veda G. B. D’Addosio, Documenti inediti di artisti napoletani dei secoli XVI e XVII dalle polizze dei banchi, Napoli, 1920, p. 106-107), allo stato attuale delle ricerche il catalogo del Sannino si compone in tutto nemmeno di una quindicina di pezzi, quasi tutti disseminati tra Napoli (chiesa di Santa Maria la Nova, chiesa di San Giovanni Battista delle Mona-

che, Seminario Arcivescovile Maggiore, sala degli Angeli presso il complesso del Suor Orsola Benincasa) e la penisola sorrentina (Massalubrense, chiesa di Santa Maria della Misericordia). Significativa eccezione, in tal senso, è la presenza di una tela dell’artista nell’area settentrionale della Basilicata, la Madonna con il Bambino e sant’Anna (firmata « Santolo Sannino » e datata 1664) custodita a Lavello nella chiesa intestata alla madre della Vergine.15. Non tenendo conto della cornice, il dipinto misura 205 × 172 cm.16. Mi riferisco al seminario Il barocco a Matera e nel materano, organizzato con la cura di Elisa Acanfora presso la sala Sassu dell’Università degli Studi della Basilicata, in cui ho avuto modo di presentare una rela-zione dal titolo Per Santillo Sannino e gli Stabile. Due aggiunte.17.  Tra le opere di maggior pregio che vi si conservano, non mi pare fuori luogo segna-lare un inedito Cristo risorto che appare a Maria, una tela che, a onta del pessimo stato di conservazione, credo possa lecitamente riferirsi alla mano del lucano Antonio Stabile (attivo tra Napoli e la Basilicata nella seconda metà del XVI secolo).18. D. Nardone, Notizie storiche sulla citta di Gravina dalle sue origini all’unita ita­liana : 455­1870, Gravina, 1923, ed. a cura di F. Raguso, Modugno, 1990.19.  V. Pugliese, « Pittura napoletana in Puglia I », in R. Pane (a cura di), Seicento Napoletano : arte, costume, ambiente, Milano, 1984, p. 237, 535, nota 183. Vale la pena precisare come, all’epoca del suo intervento, il Pugliese segnalasse il dipinto all’interno dei locali dell’episcopio gravi-nese, eretto a stretto ridosso della cattedrale cittadina.20.  Ibid., p. 196-243.21.  Ibid., p. 237. Sulla permanenza a Gravina di Francesco Guarino, protrattasi sotto gli auspici del duca Ferdinando III Orsini tra il 1649 e l’anno di morte del pittore (1651), rimando il lettore alla ricostruzione dei fatti offerta da Riccardo Lattuada nel lavoro monografico sull’artista apparso nel 2000 e recentemente rieditato con alcuni aggiorna-menti (Francesco Guarino da Solofra nella pittura napoletana del Seicento (1611­1651), Napoli, 2000, reed. Napoli, 2012).22. R. Lattuada, op. cit. nota 21, p. 268-269, no G35.23. Per quel che concerne il portentoso

Dottore di ricerca in storia dell’arte moderna, con una tesi discussa a Firenze sull’attività di Giovanni Balducci (1560 ­ post 1632), Mauro Vincenzo Fontana è stato borsista presso la Fondazione Roberto Longhi e, successivamente, con un progetto sulla committenza del cardinal Alessandro de’ Medici, presso l’Académie de France à Rome (Bourse André Chastel). Attualmente, insegna Storia e Tecnica del Restauro all’Università degli Studi della Basilicata (sede di Matera).

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capolavoro fiorentino dello Stanzione, si veda l’ancora valida scheda di catalogo com-pilata dal Willette nel 1992 (in S. Schütze, T. Willette, op. cit. nota 2, p. 219, no A63). Sul modello stanzionesco che avrebbe ispirato il dipinto gravinese, inoltre, conta registrare l’opinione di segno differente del Pugliese (op. cit. nota 21, p. 237) che, tra le diverse variazioni elaborate da Massimo sul tema dell’Annunciazione, si sbilanciava a favore di quella realizzata per la chiesa partenopea di Santa Maria Regina Coeli.24. G. Porzio, in P. Leone de Castris (a cura di), Il Museo Diocesano di Napoli. Percorsi di Fede e Arte, Napoli, 2008, p. 142, no 46.25.  Su questo specifico dipinto (240 × 144 cm), confluito oggi nel Museo Diocesano di Napoli dopo essere stato a lungo depositato nella chiesa dell’Incoronata Madre del Buon-consiglio a Capodimonte, si veda G. Porzio, op. cit. nota 24, p. 142, no 46. Quanto alla tela compagna con l’Annunciazione, essa si custodisce oggi presso la Corte d’Appello di Castel Capuano.26. Evocate dal De Dominici (op. cit. nota 6, p. 120) a riprova delle doti sviluppate dall’artista « nell’egregia scuola » dello Stan-zione, le Storie di san Pietro d’Alcantara – su cui si vedano i moderni interventi di T. Wil-lette (in S. Schütze, T. Willette, op. cit. nota 2, p. 123) e di A. Zezza (in B. De Dominici, op. cit. nota 6, p. 120, nota 99) – si accom-pagnano nella chiesa francescana di Santa Maria la Nova a un altro ciclo su tela in cui il pittore recitò una parte da protagonista. Si tratta delle tre Storie di san Bonaventura, messe in opera nella cappella appartenuta prima ai Lanario e ai de Juliis e poi, da ultimo, ai de Sanctis, che Santillo avrebbe realizzato con la collaborazione di un altro allievo dello Stanzione, il meglio conosciuto Giuseppe Marullo (?-1685). Più in partico-lare, rimettendosi alla proposta avanzata da Nicola Spinosa (A. Schiattarella, in G. A. Galante, Guida sacra della città di Napoli, Napoli, 1872, ed. a cura di N. Spinosa, Napoli, 1985, p. 98, nota 296), al Sannino sarebbero da riferire le due tele laterali, mentre la pala issata sull’altare spetterebbe al Marullo.27.  B. De Dominici, op. cit. nota 6, p. 120. Sul basamento della croce, vergata in carat-teri capitali, si legge ancora la firma del pit-

tore : « santillo / sannino ».28. Sulla vicenda, si veda D. Nardone, op. cit. nota 18, p. 159-161.29.  Sul conto di Niccolò di Simone, singolare figura di pittore, connoisseur e restauratore che, insieme ad Alessandro Majello, fu uno dei pionieri a Napoli nella pratica del tra-sporto dei dipinti su tela, manca ancora uno studio dal taglio monografico. Oltre al ritratto abbozzato dal De Dominici (op. cit. nota 6, I, 2003, p. 673, 796), occorre dunque riman-dare alle aperture tracciate da M. Cagiano de Azevedo (« Una scuola napoletana di restauro nel XVII e XVIII secolo », in Bol­lettino dell’Istituto Centrale per il Restauro, 1, 1950, p. 44-45) e da A. Conti (Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Milano, 1973, p. 119-120) e poi, più recentemente, agli interventi di P. Panza (Antichità e restauro nell’Italia del Sette­cento. Dal ripristino alla conservazione delle opere d’arte, Milano, 1990, p. 69), di P. D’Alconzo (Deliciae principis. Tutela del patrimonio storico­artistico e restauro dei dipinti delle collezioni reali a Napoli dal 1734 al 1830, tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli, IX ciclo, 1998, p. 24-25, 29-30) e di chi scrive (Bernardo De Dominici e il restauro a Napoli nella prima metà del Settecento, in corso di stampa).30.  « 15 Febr.[aio] 1707. Inventario de quadri dell’Ecc.[ellentissi]ma Casa di Gravina e loro valuta, e di ch’mano si siano, fatto dal Sig.[no]r Nicola di Simone, Pittore Napolitano. […] Un altro [quadro] di p.[al]mi 8 e 6 l’Annu[n]ciata di Mano della Scola di Massimo, valu-tato sc.[udi] dieci con cornice stretta dorata », Roma, Archivio Capitolino, Fondo Orsini, Busta 413, c. 58. L’inventario compilato dal di Simone è trascritto in forma integrale nell’ancora utilissimo volume uscito nel 1980 per mano di G. Rubsamen (The Orsini inventories, Malibu, 1980, p. 51).31.  Nel sistema metrico decimale attuale, un palmo napoletano corrisponde a circa 26,3 cm.32. Restaurato nel 1989 e non più dotato della cornice originale, il dipinto misura 227 × 175 cm.33.  Per uno spaccato sul contesto artistico locale tra epoca medioevale e moderna, si veda F. Abbate, « Aspetti della cultura figu-

rativa del Vallo di Diano. Committenza e territorio », in V. de Martini, C. De Cunzo, F. Abbate (a cura di), Il Vallo ritrovato. Sco­perte e restauri nel Vallo di Diano (cat. della mostra di Padula, certosa di San Lorenzo, 1989), Napoli, 1989, p. 31-42.34. F. Abbate, in ibid., p. 40.35. C. Restaino, in ibid. nota 33, p. 76, no 21. Preme precisare come, nel catalogo dell’espo-sizione, il dipinto fosse rubricato con un’erro-nea indicazione del santo, impropriamente riconosciuto in san Gaetano da Thiene.36. Loc. cit.37.  Una riproduzione dell’opera si ritrova in S. Schütze, T. Willette, op. cit. nota 2, p. 145, fig. 92.38. L. Avino, Per la storia delle arti nel Mezzogiorno, Baronissi, 2003, p. 23 ; Id., Gli inventari napoleonici delle opere d’arte del Salernitano, Baronissi, 2003, p. 365.39.  A proposito del dipinto si legge infatti « Quadro grande in tela di 5 x 9 opera di Santillo Sannino nel 1600 » (ibid., p. 23).40. Sebbene parziale, la trascrizione del documento è contenuta in L. Avino, op. cit. nota 38, p. 23.41.  Sulla vicenda dell’infeudamento ai Calà di Teggiano – anticamente conosciuta con il nome di Diano – e, più in generale, sui rapporti che questa famiglia ebbe nel XVII secolo con la cittadina campana, si veda P. Ebner, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, II, Roma, 1982, p. 470, 538, 574-576, 643-644.42. Nato a Castrovillari nel 1617, Carlo Calà era figlio di Giovanni Maria, avvocato fiscale calabrese operoso a Cosenza, e di Isabella Merlino, sorella del più volte menzionato Francesco. In relazione a questo personaggio, che fu a Napoli tra gli allievi più brillanti di Giovanni Andrea di Paolo, si veda l’accurato profilo biografico steso da A. Mazzacane, « Calà, Carlo », in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 16, Roma, 1973, p. 392-394.43. T. Willette, in S. Schütze, T. Willette, op. cit. nota 2, p. 244, no A108.44. C. Restaino, in V. de Martini, C. De Cunzo, F. Abbate, op. cit. nota 33, p. 76.45. Oltre ad apporre sulla tela la propria firma, infatti, l’artista vi vergò anche la data 1668.46. Cfr. supra note 11 e 14.

Page 8: Nel segno del Cavalier Stanzione. Due aggiunte a Santillo Sannino

23Études

RiassuntoL’intervento costituisce il primo affondo dal taglio monografico sull’attività di Santillo Sannino, una personalità che, a dispetto del ruolo di spicco giocato all’interno dell’atelier di Massimo Stanzione, non è riuscita sinora ad accendere interessi veramente approfonditi in sede critica. Partendo da un riesame del rapporto che legò l’artista al « Cavalier Massimo », il contributo tenta una lettura meno convenzionale e stereotipata dell’attività del pittore, nella prospettiva di restituire a questa figura una fisionomia più aderente alla sua effettiva portata storica. Più in particolare, l’occasione si presta per discutere due significative aggiunte allo scarno corpus di Santillo : la delicata Annunciazione conservata nella cattedrale di Gravina in Puglia, pressoché sconosciuta agli studi e riferita al presente a un epigono di Francesco Guarino, e la devota Apparizione della Vergine con il Bambino a san Francesco Saverio. Una tela, quest’ultima, custodita senza che se ne conosca l’esatta paternità nella chiesa di Sant’Agostino a Teggiano. Suffragate da confronti mirati con le opere certe dell’artista, tali proposte attributive conducono a una ricostruzione più piana e lineare dell’iter stilistico del pittore, gettando, al contempo, una luce inedita sul ruolo che egli giocò nella diffusione in Italia meridionale del raffinato naturalismo dell’ultimo Stanzione.

RésuméCet article constitue la première étude monographique sur l’activité de Santillo Sannino, une personnalité qui, malgré le rôle important qu’il joua dans l’atelier de Massimo Stanzione, n’a jusqu’à maintenant pas réussi à susciter l’intérêt de la critique. Partant d’un réexamen du rapport qui lia l’artiste à Stanzione, cette contribution tente une lecture moins convenue et stéréotypée de l’activité du peintre, dans le but de lui restituer un caractère plus proche de sa réelle portée historique. C’est en particulier l’occasion d’analyser deux ajouts significatifs au corpus restreint de Sannino : la délicate Annonciation conservée dans la cathédrale de Gravina in Puglia, presque inconnue des études et actuellement attribuée à l’entourage de Francesco Guarino, et l’Apparition de la Vierge à l’Enfant à saint François Xavier (conservée dans l’église Sant’Agostino à Teggiano, sans que l’on en connaisse avec précision la paternité). Ces propositions d’attribu-tion, appuyées sur des comparaisons précises avec les œuvres sûres de l’artiste, conduisent à une restitution plus claire et cohérente du parcours stylistique du peintre. Elles mettent également en évidence le rôle que Sannino joua dans la diffusion du naturalisme raffiné de la peinture tardive de Stanzione en Italie méridionale.