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M.M. Bares - M.R. Nobile, Volte tabicadas nelle grandi isole del Mediterraneo: Sicilia e Sardegna [XV-XVIII secolo], in Construyendo Bóvedas Tabicadas, Atti del “Simposio internacional

May 13, 2023

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Enzo Bivona
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• Ignasi Bosch i Reitg (1910-1985): una patente para construir bóvedas tabicadas. Chamorro Trenado, Miquel Àngel; Llorens Sulivera, Joan y Llorens Sulivera, Miquel 239

• A uso y costumbre de buen oficial: sobre construcción y ruina de bóvedas tabicadas en la Valencia de los siglos XVII y XVIII. Gil Saura, Yolanda 249

• Estabilidad de la construcción sin cimbra. Fortea Luna, Manuel y Pedrera Zamorano, José Luís 263

• La construcción tabicada hoy. Martín Jiménez, Carlos y García Muñoz, Julián 275

• Bóvedas tabicadas reloaded: una propuesta evolutiva desde Mallorca. Ramis González, Miquel 285

3. MECÁNICA ESTRUCTURAL

• Cáscaras delgadas de fábrica. Heyman, Jacques 295

• Nuevas bóvedas tabicadas: análisis, diseño y construcción. Ochsendorf, John 309

• Análisis estructural de cúpulas tabicadas: la cúpula interior de la Basílica de la Virgen de los Desamparados en Valencia. Huerta Fernández, Santiago 319

• La comprensión de la tracción. Alonso Durà, Adolfo y Martínez Boquera, Arturo 337

• El análisis experimental aplicado a bóvedas tabicadas. Llorens Sullivera, Miquel, Llorens Sullivera, Joan y Chamorro Trenado, Miquel Àngel 349

4. DESARROLLO DEL SIMPOSIO

• Programa 365

• Ceremonia de apertura 369

• Ceremonia de clausura 383

• Algunos de los paneles presentados en el Simposio 387

• Índice de autores 391

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Modica, capella della chiesa di Santa Maria del Gesù.

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RIASSUNTOAllo stato attuale delle ricerche le volte “tabicadas” costituiscono per la Sicilia e la Sardegna

una scoperta recente, troppo episodici risultano ancora i casi conosciuti. Paradossalmente sono le fabbriche più precoci, tutte in Sicilia (torre di Pozzallo, castello di Butera, convento di Santa Maria del Gesù a Modica), quelle che presentano minori difficoltà storiografiche, poiché diret-tamente collegabili a committenti catalani e quindi a esperienze costruttive di importazione. Più problematici appaiono gli esempi riscontrabili in importanti edifici civili della Palermo del Settecento e individuabili anche attraverso le fonti notarili. Altrettanto si può dire per i cosiddetti “ ladrillos de boveda” documentati in Sardegna. I rapporti con le tecniche costruttive adottate nella Roma antica e con i trattati francesi del Settecento costituiscono ancora un pro-blema fondamentale.

ABSTRACTAt the present state of research the tile vaults are for Sicily and Sardinia a recent discovery

and sporadic cases are still unknown. Paradoxically, the earliest buildings are all in Sicily (tower of Pozzallo, Butera castle, convent of Santa Maria del Gesù in Modica), and they are also those with less historiographical problems because directly related to Catalan commissioners conse-quently linked to construction experiences from abroad. More problematic are the examples of important civic buildings in Palermo (eighteenth century) also found through notarial sources. The same can be said for the so-called “Ladrillos de boveda” documented in Sardinia. The rela-tion between antique Rome construction techniques and French XVIIIth century treaties are also a central issue.

*Gli autori hanno discusso e organizzato insieme la stesura del saggio. La prima parte del testo è comunque di Marco Rosario Nobile; la seconda di Maria Mercedes Bares

Volte tabicadas nelle grandi isoledel Mediterraneo: Sicilia e Sardegna

(XV-XVIII secolo)

Maria Mercedes Bares -Marco Rosario Nobile

Università degli Studi di Palermo

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A partire dalle relazioni e dalle osser-vazioni trascritte da alcuni architetti impegnati nella ricostruzione della

Sicilia sud orientale, dopo il terremoto del 1693, si può dedurre che nell’Isola esistevano tre alternative differenti per realizzare le co-perture voltate, in Sicilia denominate con il termine «dammusi» (Labisi 1773, 162; Nobi-le 2004, 151-161). Le calotte potevano essere «reali», realizzate in pietra a vista; «realine», ottenute con un conglomerato di gesso e pietrame; «finte», cioè leggere, con struttura lignea, incannucciato e gesso. L’uso del lateri-zio non sembra rientrare nelle opzioni possi-bili. Anche se la zona di cui parliamo, il Val di Noto, è caratterizzata da una pietra parti-colarmente adatta alla costruzione, effettiva-mente, tra XV e XVIII secolo la volta in mat-toni costituisce un episodio minoritario per l’intero ambito regionale. In realtà, dal XII al XVI secolo esistono in Sicilia molti esempi di volte in mattoni con modalità esecutive più sperimentali o più convenzionali [comun-que con mattoni messi di taglio], come per esempio nelle cupole della chiesa normanna di San Pietro e Paolo a Forza d’Agrò (fig. 1) o nelle cinquecentesche crociere della gran-de chiesa dello Spasimo a Palermo, ma molto più rare sono le volte tabicadas. È necessario comunque avvertire che gli studi sono agli esordi e che molteplici dati sono ancora in-disponibili. Del resto solo fortunati ritrova-menti documentari o operazioni di restauro possono offrire informazioni sicure e consen-tire una esatta diagnosi sui sistemi costruttivi utilizzati nelle volte. Allo stato attuale delle conoscenze, per esempio, non si possono offrire informazioni precise su quale siano i metodi costruttivi utilizzati in alcune volte del Cinquecento a Palermo [volta nel palazzo reale, cappella di Santa Barbara nel chiostro di San Domenico, locali annessi alla chiesa della Pietà] (fig. 2). Sono scomparse inoltre alcune opere che avrebbero potuto offrire significativa testimonianza di una operosità

che oggi appare lontana dalle pratiche più diffuse in ambito isolano. Così è per la cap-pella Vincilao nella chiesa di San Francesco a Castelbuono [Palermo], costruita dal maestro Nicolino Gambaro, pressoché integralmente in mattoni, nei primi anni settanta del XVI secolo, che indicava l’esistenza di fornaci e di una produzione locale di laterizi complessi [destinati anche a formare rocchi di colon-ne]. I documenti notarili descrivono poi una copertura con una volta a nove chiavi, una circostanza che renderebbe quest’opera una tra le più vicine, fra le architetture realizzate in Sicilia, alle pratiche coeve in uso in ambito aragonese o valenciano (Magnano Di San Lio 1996, 86-90).

Anche la conoscenza del tipo di criterio costruttivo che da pochi anni chiamiamo «tabicado», e talora «volta catalana», appare in Italia non ancora perfettamente chiaro; il mondo delle volte leggere composte di mattoni in folio costituisce una scoperta re-cente. Così rimangono ancora pressoché in-comprensibili per molti studiosi i «laderillos

Fig. 1. Forza d’Agrò, chiesa normanna di San Pietro e Paolo, cupola (foto degli autori).

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de boveda» che si trovano in documenti di fabbriche della Sardegna. Le due più grandi isole del Mediterraneo, Sicilia e Sardegna, co-stituiscono comunque un ponte tra il mondo aragonese [all’avanguardia nella storia della volta tabicada] e l’Italia [con la sua lunga sto-ria e le sue molteplici tradizioni regionali] e giustificano la suddivisione di compiti che, in questa occasione, ci siamo dati.

I casi più antichi di volte tabicadas sono anche i più facili da interpretare. Tra il primo e il secondo decennio del XV secolo, volte di questo tipo si possono osservare nella torre-palazzo di Pozzallo, voluta da Bernat Cabrera (Nobile1997, 8: 16-38); (fig. 3). La precocità delle date potrebbe persino spingere a ipo-tizzare che la committenza si sia avvalsa di un importante personalità che possedeva la necessaria esperienza in questo campo. Sap-piamo che nel luglio 1419 Guillem Abiell si preparava a lasciare Barcellona (Conejo 2002, 336), e che sarebbe morto nel novembre 1420 a Palermo, forse non è troppo azzardato rite-

nere che il Cabrera (in quegli stessi anni, re-sidente in Catalogna) scelse questo maestro per completare la sua dimora siciliana.

Sappiamo che, dopo il terremoto del 1693, l’ingegnere militare spagnolo Domingo Garai riparò le volte del secondo piano, so-stituendo certamente i mattoni, ma il sesto ribassato dei costoloni non dovette mutare poiché le indicazioni precisano che occor-reva rifare sei crociere con pietra di intaglio e mattoni «nella forma che era innanti». Si precisava inoltre che i solai erano in legname ricoperti da mattoni, quindi sostanzialmente indipendenti dalla volta sottostante; la rela-zione mostra inoltre come l’ingegnere Ga-rai giudicasse questo tipo di costruzione: «li dammusati di questa torre erano fabricati col capriccio dell’abbellimenti antichi che ricer-cavano molta spesa essendo più presto debile che forte»1. Va comunque chiarito che la tor-re era diventata un presidio militare e i pro-blemi che solai e volte comportavano erano strettamente condizionati non dall’originario

Fig. 2. Palermo, palazzo reale, cappella di San-ta Barbara nel chiostro di San Domenico, locali annessi alla chiesa della Pietà, XVI secolo (foto degli autori).

Fig. 3. Pozzallo,crociere, in una sala della torre-palazzo voluta da Bernat Cabrera, XV secolo (foto degli autori).

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uso residenziale, ma dai contraccolpi prodot-ti dall’artiglieria.

Pressoché contemporanea alla costruzione della torre Cabrera è la realizzazione di cro-ciere costolonate nel donjon di Butera, dove sappiamo che, al di sotto dello strato di into-naco, le volte tra i costoloni sono realizzate con mattoni disposti di piatto. Committente della costruzione dovrebbe essere Calcerando Santapau, appartenente a un’altra importante famiglia catalana (Heritier-Salama 2010).

Agli anni ottanta del Quattrocento risale la realizzazione del chiostro di Santa Maria del Gesù a Modica (fig. 4). Anche in questo caso le volte sono tabicadas e l’edificio, rea-lizzato su committenza del conte di Modica Fadrique Enriquez, è relazionabile a opere come il contemporaneo complesso conven-tuale di Santa Maria de Jerusalem a Barcello-na, che era stato avviato su committenza della regina e zia di Fadrique, Juana Enriquez.

Il ruolo e il nome dei committenti è suffi-ciente per decifrare le scelte costruttive come segnali di un’architettura «coloniale». Una

considerazione che si rafforza se si tiene con-to che non sembra esistere in loco una produ-zione di laterizio adatto alle circostanze; per queste date non abbiamo cioè notizie di for-naci e di lavorazione di mattoni cotti. Forse, esattamente come per le ceramiche di Mani-ses, i mattoni delle volte giunsero da lontano. Evidente è poi che i tre casi presentati siano frutto del lavoro di maestranze catalane tra-

Fig. 4. Modica, chiostro di Santa Maria del Gesù, veduta attuale e ricostruzione fotografica delle volte tabicadas, anni ottanta del Quattrocento (elaborazione e foto degli autori).

Fig. 5. Sardegna, volta a vela ribassata nel centro storico di Alghero (foto degli autori)

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sferitesi, anche per brevi periodi, in Sicilia; si tratta probabilmente, cioè, delle opere super-stiti di una serie molto più vasta. Interessante appare comunque l’immediatezza con cui tecniche sperimentate meno di una genera-

zione prima siano state esportate per volontà di alcuni aristocratici.

Il limite maggiore di queste esperienze, cioè l’assenza di una adeguata manifattura di laterizi, sembra trovare conferma proprio nel

Fig. 6. Sardegna, esempi di «laderillos de boveda» (Scarpellini 2009).

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complesso di Santa Maria del Gesù a Modica. Le volte di alcune cappelle della chiesa, oggi ridotte a rudere, mostrano un paramento in-terno con blocchetti di pietra che possiedono uno spessore molto limitato. L’ipotesi, che co-munque merita ulteriori approfondimenti, è che si sia tentato di applicare la tecnica delle volte tabicadas ai materiali locali.

Quanto è andato perduto costituisce co-munque la parte maggioritaria (si pensi che l’area di Pozzallo e Modica venne sconvolta da un grande terremoto nel 1693 che ha la-sciato ben poche testimonianze antecedenti) e solo in modo intuitivo si può immaginare che anche le fabbriche della corona fossero coinvolte da iniziative simili. Potrebbe essere il caso dei castelli reali di Palermo, Messina o Cagliari, quest’ultimo certamente sottoposto a lavori di ristrutturazione nelle coperture tra il secondo e il terzo decennio del XV secolo.

Dopo gli esempi quattrocenteschi [che co-munque sono emersi solo in tempi recenti], sembra esistere una lunga pausa e il tema del-le volte in mattoni collocati di piatto ricom-pare in Sardegna e in Sicilia solo nel XVIII secolo. I «laderillos de boveda», documentati a Cagliari tra 1703 e 1750, non dovrebbero offrire molti dubbi sulla loro interpretazione e del resto quando è assente l’intonaco questo tipo di costruzione si può osservare anche in altri luoghi della Sardegna (Scarpellini 2009, 271-303). In alcuni casi i documenti precisa-no che si tratta di «laderillos de boveda de Ge-nova», forse indicando [come sembra essere il caso degli esempi quattrocenteschi siciliani] una loro manifattura e provenienza esterna o una conformazione particolarmente adatta alle destinazione d’uso. Il problema storiogra-fico che si pone è quello di capire se questa seconda fase possa essere in qualche modo legata a sperimentazioni precedenti, a even-tuali fabbriche quattrocentesche, o se invece non rispecchino, sin dalla denominazione, un altro sistema costruttivo di provenienza italiana.(fig. 5)

La tecnica chiamata «realina in folio», si può ritrovare in molteplici esempi di Paler-mo e del nord della Sicilia. La struttura in fo-lio, ottenuta con strati di due o di tre mattoni, è diversa dalle volte tabicadas, ma ha anche alcuni punti di contatto. La differenza più evidente sta nell’inserimento di uno strato di conglomerato nell’estradosso, soprattutto nell’appoggio delle arcate, come si può evi-denziare nei manuali di tecniche costruttive siciliane e sarde. (fig. 6)

Si può registrare l’uso di questi criteri sia in piccole volte, per esempio nell’intradosso delle scale, che in grandi saloni [villa Villa-rosa a Bagheria]. I mattoni detti «pantofali» sono murati con gesso e talora possono persi-no essere accostati a conci di pietra (Marconi 1997, 233-236). Con questo sistema, l’uso dei mattoni non presenta sostanziali differenze da quello che sfrutta conci in pietra di piccole dimensioni per il paramento dell’intradosso, con solo una parziale funzione strutturale. Il termine volta «realina», del resto è usato indif-ferentemente ogni qual volta sia presente il conglomerato. Tuttavia attraverso i documen-ti che si sono potuti esaminare non tutto ap-

Fig. 7. Léon Dufourny, schizzo di volta in matto-ni e controvoltine di rinfianco.

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pare elementare o scontato. Il 13 ottobre 1790 due architetti, uno francese, Léon Dufourny, e l’altro locale, Giuseppe Venanzio Marvuglia, discutono a Palermo sul tema delle volte in mattoni e la conversazione, riassunta insieme a uno schizzo dall’architetto francese (fig. 7), mi pare degna di nota.

«Nous parlâmes assez longtemps sur l’art et principalement sur la constructions des voûtes briquetés qui ne sont autre chose que celle décrites par le Comte d’Espie dont parle Laugier [Essais, page 134]. On les fait ici à 2 et a 3 ranges de briques ou de quarreaux, quand on veut marcher dessus. Leurs reins sont [ren-forcé ?].par des petits contre murs [A] qui les brident ou par de petites voûtes longitudi-nales [B] qui font le même effet. Une de ces voûtes qu’il avait construit sur des murs trop faibles, les ayant [endommagés ?] il fit mettre deux pièces de bois [C] qui suivaient les reins de la voûte et entraient dans les deux murs de pignons, puis il fit remplir les reins de ma-çonnerie de manière que la voûte ne pouvait pousser les murs»2.

Le indicazioni offerte dalla testimonianza di Dufourny in merito alla variante sicilia-na delle volte in mattoni sono significative. Nonostante l’esplicito riferimento al trattato francese, risalta immediatamente il problema delle “spinte”, come si sa ignorato da d’Espie e criticato da Ventura Rodriguez (Sotomayor [1776] 1993), e della necessità di accorgimenti specifici, come i contro muri o le controvolte.

Nei documenti relativi alla costruzione settecentesca di palazzo Belmonte a Palermo (1780-1781)3, opera dell’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia, si ha una diretta con-troprova di quanto descritto sinora. Si parla infatti dei «dammusi», a tre foglie, e dei «con-traddammusi» a due. Da quanto si può ar-guire i «contraddammusi» sono le voltine di rinfianco citate da Dufourny. Sopra i dammu-si si stende il cosidetto «intarcisato» fatto di pietrame e calce, probabilmente molto sottile nella sommità della volta [a tre fogli perché

calpestabile]. Il sistema a questa date (fine XVIII secolo) sembra comunque costituire una consolidata pratica, frutto di una lunga esperienza, e non una scelta innovativa impo-sta dall’architetto. Il recente ritrovamento di volte dello stesso tipo nella villa Branciforte a Bagheria4 può aprire un varco nelle consi-derazioni sinora esposte. Se realizzate conte-stualmente alle strutture murarie, le volte in mattoni disposti di piatto dovrebbero appar-tenere agli anni sessanta del Seicento, proiet-tandoci a un secolo prima dei più noti casi palermitani. Ancora più interessante è che in questo periodo la famiglia dei Branciforte possedeva la torre di Butera, come si ricorderà uno dei primi casi di struttura con volta tabi-cada che conosciamo. Forse un filo rosso può legare le esperienze del Quattrocento a quelle del pieno barocco a Palermo.

Naturalmente occorre ancora studiare ed esaminare altri casi, ma la realtà è che in Sicilia, come altrove, la leggerezza e l’elasti-cità delle volte tabicadas erano ampiamente sostituibili dalle volte finte a incannucciato. Dalla fine del Cinquecento [ma si possono probabilmente ritrovare esempi precedenti]

Fig. 8. Noto, chiesa di Santa Chiara, volta ovale in canne e gesso, disegno di Rosario Gagliardi (Biblioteca comunale di Noto).

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la volta in canne e gesso, separata dal tetto o dal solaio soprastante, appare la risposta più efficace al problema dei terremoti (fig. 8). Per l’uso dei mattoni in folio resta comunque da comprendere quali siano gli eventuali debiti e gli intrecci con le tecniche costruttive usate nell’Italia centrale e meridionale.

Uno studio delle volte con mattoni in folio in Italia è stato in parte già compiuto (Frattaruolo 2000), ma necessita di precisa-zioni storiografiche che consentano di com-prendere l’esistenza di relazioni verticali, cioè di durature tradizioni locali e di persistenze, e di relazioni orizzontali, cioè di eventuali rapporti tra esperienze coeve, con particola-re riferimento a quanto accade nella Spagna orientale tra XIV e XVII secolo. Come vedre-mo, entrambe le possibilità di approfondire il tema si presentano accidentate e facilmente suscettibili di errori interpretativi.

Una ricerca tematica sulla variegata realtà regionale italiana deve necessariamente par-tire dal mondo romano. Il problema è vec-chio. Nei primi anni del XIX secolo Rondelet

pubblica Théorique et pratique de l’Art de Bâtir [poi tradotto anche in italiano a Mantova nel 1831]. Rondelet descrive la costruzione delle «volte formate con mattoni posati in piano e murati in gesso» e nota come questa forma di costruire le volte abbia «qualche rapporto» col processo impiegato dagli antichi costrut-tori romani. Solo successivamente attribuisce la paternità agli architetti del Roussillon dove asserisce che la tecnica «è in uso da tempo im-memorabile» (Rondelet [1802] 1831, Lib. IV - sez. III). Questo ricorso a una storia lontana nel tempo può costituire un buon punto di partenza anche per i nostri ragionamenti.

Come è noto, una serie di monumenti romani conserva volte in mattoni [posti di piatto o in folio]. Nonostante a prima vista ci sia una affinità con quanto oggi definiamo volta «tabicada», queste calotte hanno carat-teri molto differenti. In primo luogo diverso è il procedimento costruttivo, che necessità di centine, e soprattutto radicalmente alter-nativa è la presenza di un robusto spessore di conglomerato nell’estradosso. Si tratta di

Fig. 10. Tivoli, Terme di villa Adriana, volta a cro-ciera «aristada» con mattoni bessali (Lugli 1957).

Fig. 9. Ostia antica, coperture con grandi matto-ni posti di piatto (foto degli autori).

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volte pesanti, distinte per concezione e com-portamento statico dalle leggere volte del Quattrocento aragonese. La grande dimen-sione dei mattoni [bipedali, di circa 60cm di lato], come il caso delle coperture rilevate a Ostia antica [II sec. d.C] (fig. 9), indica che il mattone stesso fosse chiamato a svolgere la funzione di centina, atta a contenere la colata cementizia. Tuttavia questa particolarità non è generalizzabile, poiché in molti casi si può osservare anche l’uso di mattoni di dimen-sioni ridotte [bessali, di 20cm di lato]. Questo appare per esempio il caso della volta a cro-ciera «aristada» delle terme di villa Adriana a Tivoli (fig. 10), dove sono anche inseriti, alter-nativamente, anche mattoni posti di taglio. Un caso simile si può riscontrare nella volta elicoidale del mausoleo di Adriano (fig. 11) e, in modo indiretto, un parallelo tra queste opere serve anche a comprendere il momen-to di maggiore diffusione e sperimentazione della tecnica costruttiva.

La particolarità dell’inserimento sporadi-co di mattoni posti di taglio, - che in alcuni casi penetrano nell’opera cementizia [in par-ticolare negli archi di rinforzo] e in altri casi sporgono di qualche centimetro nell’intra-dosso, con la finalità prevalente di agevolare l’ammorsamento degli intonaci di rivesti-mento [evidente nei casi citati] - costituisce una caratteristica peculiare delle volte in folio romane (Lugli 1957, I: 681-684) che, come si vedrà più avanti, sembra venga ripresa con al-cune varianti in esempi dell’Italia centro-me-ridionale di età moderna [Pescara, Catignano, palazzo De Flaminis, XVIIIsec].

Vanno poi evidenziate ulteriori caratteri-stiche, come l’alleggerimento degli intradossi [ottenuto tramite getti di malta ricca di gras-sello, di pronta presa, e piccoli scapoli di tufo poroso, pietra pomice, oppure per mezzo dell’inserimento di anfore e di tubi fittili, re-alizzati appositamente per questo scopo]. Ne conseguiva un risparmio nell’uso delle centi-ne, così come evidenziato da Choisy5.

Possiamo immaginare che i modelli roma-ni abbiano costituito un precedente fonda-mentale, un criterio da osservare e replicare nei secoli successivi, specialmente a partire dall’epoca moderna. Nell’Italia centrale e meridionale, lungo tutto il medioevo non si sono riscontrate soluzioni apparentabili a quanto sinora descritto. Nel suo saggio Ma-ria Rosa Frattaruolo cita il caso del cammi-namento coperto con calotte a vela in mat-toni nella fortezza progettata da Giuliano da Sangallo a Pisa [dal 1509] (Vasari [1550] 1986, 607), venute alla luce in occasione dei lavori di restauro e di ricostruzione, che sono, a tutti gli effetti, delle tabicadas (fig. 12). La verifica di un’indicazione così promettente avrebbe potuto aprire un campo di studio di grande interesse per il nostro lavoro. Una improvvi-sa apparizione della tecnica in Italia centrale del primo Cinquecento avrebbe cioè messo in luce nodi storiografici di grande pregnan-za. Sangallo è poi, come tutti sanno, un sa-piente archeologo, in grado di reinterpretare le rovine romane e trarne insegnamenti per la sua pratica di architetto; si sarebbe potuto trattare di uno sviluppo autonomo, a partire dallo studio dell’antico. Ragionevolmente non si sarebbe neanche potuto escludere che

Fig. 11. Roma, Mausoleo di Adriano, volta eli-coidale (foto degli autori).

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l’architetto fiorentino fosse venuto a contat-to con una tecnica in uso da un secolo nella Spagna orientale. Da questo punto di vista le esperienze elaborate a Napoli nel XV se-colo potevano avere svolto un ruolo da pon-te. Purtroppo, avvertiamo subito che l’opera considerata non ha relazioni con quanto previsto dal celebre architetto toscano. Del resto niente di simile è segnalato dagli esperti che si sono occupati di tecniche costruttive del rinascimento italiano, come Pier Nicola Pagliara (Pagliara 2002, 522-541), e la vicenda di Giuliano da Sangallo si caratterizza soprat-tutto per sperimentazioni sulle volte a getto. È del tutto plausibile che a fine XVIII seco-lo i camminamenti della fortezza siano stati soggetti a modifiche per conto della famiglia Scotto, proprietaria all’epoca del complesso.

Il rifacimento recente delle volte della for-tezza di Pisa con tecniche tradizionali (Car-massi 1992, 91-96) testimonia una prassi che comunque sopravvive e che può aiutare a comprendere le differenze con il mondo ibe-rico. Le volte della fabbrica, molto raffinate

nel loro aspetto originario, erano conformate da una calotta sottile, rafforzata nei rinfianchi (fig. 13); queste sono state ricostruite senza centine, ma con l’ausilio di una struttura mo-bile composta da due archi che definivano la curvatura delle diagonali della volta. La mes-sa in opera è stata realizzata filare dopo filare, a partire dalle imposte fino a serrare il centro. Il tutto è stato alla fine saldato da una gettata di gesso.

La costruzione di volte leggere in mattoni sembra comunque costituire per Pisa una pra-tica abituale, anche se non antichissima. Un esempio ottocentesco è riscontrabile in una struttura collegata all’Arcivescovado (Gucci; De Falco; Cinotti 2009). In questo caso si trat-ta di un padiglione ribassato costruito con la aggiunta di due mezzane disposte di col-tello lungo gli assi principali; nell’estradosso sono presenti piccole controvolte [anch’esse costruite in folio] per ridurre il peso. Il pavi-mento soprastante poggia su un riempimen-to incoerente versato sui vani generati dalle controvoltine (fig. 14). Viene anche utilizzato

Fig. 13. Pisa, cittadella nuova, camminamento, volte tabicadas prima del restauro (Carmassi 1992).

Fig. 12. Pisa, cittadella nuova, camminamento, volte tabicadas durante i lavori di restauro e ri-costruzione (Carmassi 1992).

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il gesso per la rapidità della presa, che con-sentiva di montare la struttura senza l’ausilio di un sistema completo di centine. Nel suo insieme la struttura presenta molte analogie con quelle che si riscontrano a Palermo nel XVIII secolo.

Gli esempi del XIX secolo possono però essere frutto di procedimenti suggeriti dalla didattica accademica o ottenuti a partire dal-la diffusione di manuali e trattati, esulando pertanto dal nostro argomento di studio che mira a individuare l’esistenza di tradizioni se-colari e la loro permanenza. In realtà, come si può facilmente intuire, in Italia potevano circolare trattati francesi già nella metà del Settecento che presentavano descrizioni della tecnica en briques posées à plat.

Le caratteristiche costruttive intrinseche delle volte in folio [conosciute anche con la denominazione «Volterranee»] (Cangi 2005, 27-29), la loro leggerezza e relativa elasticità, spiegano il motivo per cui questa tecnica ab-bia avuto largo successo in zone geografiche sismiche come l’Italia centrale e soprattutto l’Abruzzo del Settecento [per poi assistere a una diffusione capillare nel secolo succes-sivo]. Le particolarità riconosciute da tutti, cioè il poco peso della struttura, dovuto allo

spessore ridotto, il conseguente ridimensio-namento dei piedritti, la spinta limitata, la rapidità di esecuzione dovuta all’utilizzo del gesso e di agevoli centine mobili e - in alcuni casi - del tutto in assenza di centine, insieme al notevole risparmio di materiale, fanno sì che l’utilizzo del sistema sia registrabile in pa-lazzi di prestigio come nell’edilizia minore. In Italia la tecnica si sviluppa fondamentalmen-te in due varianti: quella che genera strutture che possono sopportare un piano di calpestio e quindi ulteriormente rafforzate da arcate laterizie, oppure quella che produce «false volte» o «volte artificiali», senza una funzio-ne portante [con un solaio ligneo realizzato sopra la volta], caratterizzate da riempimenti con materiale compattato nelle imposte.

Esistono comunque varianti locali. I co-struttori attivi in Abruzzo mostrano una no-tevole perizia tecnica e realizzano raffinate soluzioni; la maggior parte di queste coper-ture voltate sembrano successive ai grandi terremoti che colpirono la regione nel primo Settecento. Nella zona di Pescara, dove ab-

Fig. 15. Pescara, Catignano, palazzo De Flami-nis, fine XVIII secolo (Varagnoli 2008).

Fig. 14. Pisa, struttura collegata all’Arcivescova-do, XIX secolo (Gucci, N.; De Falco, A. e Cinotti, M. 2009).

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bondano il gesso e le argille [quindi in pre-senza di un’attività edilizia complessivamente legata all’uso di laterizi] viene spesso utilizza-to il tipo a crociera e a padiglione (Varagnoli 2008, 55-58). Uno degli esempi più interes-santi risulta quello già accennato del palazzo De Flaminis a Catignano [fine XVIII secolo] (fig. 15), dove si nota un ambiente diviso in tre campate coperte da crociere con mattoni in foglio lungo le unghie e posti di taglio lun-go le nervature. Questa conformazione ap-pare rinforzare gli angoli che si comportano come costoloni immersi nel conglomerato di riempimento dell’estradosso. Il rapporto con metodi riscontrabili nell’archeologia romana appare, in questo caso, sorprendente.

Un’altra variante risultano i più comuni rinforzi posti nell’estradosso - senza traccia nella superficie intradossale - molto utilizzati nelle volte a padiglione, come il caso di palaz-zo Castiglione [Pescara, Penne, s. XVIII] che presenta la volta del salone al piano nobile in due strati di mattoni in foglio con arcate di irrigidimento parallele al poligono di base e nessun potenziamento lungo le diagonali che sono irrigidite dalla tessitura dei laterizi, collocati a spina di pesce.

Da quanto si può osservare in Italia cen-trale [ma persino nella stessa Roma], la tec-nica ha una fioritura tardiva, concentrata nel XVIII secolo. Si dovrebbe pertanto supporre un’eventuale ripresa e perfezionamento di soluzioni antiche solo a partire dall’età tar-do barocca e dell’illuminismo. La possibilità che in questa fase si siano innestate teorie e modelli provenienti dai trattati è molto alta, mentre l’esperienza siciliana con i suoi esem-pi del primo XV secolo mostra tutta la sua precocità ed autonomia.

Proviamo però a offrire, in conclusione, una plausibile ipotesi di lavoro. Sappiamo che a Roma e a Napoli la prassi della volta a getto, l’opus caementicium con pozzolana, pietrame e calce, non è andata perduta nel medioevo e che la ripresa di tecniche antiche

nel Cinquecento [con volte a getto di grande dimensione] si avvalse di questa pratica con-solidata. Non è difficile immaginare che in piccole dimensioni [come ci conferma la pro-fessoressa Claudia Conforti, che qui si ringra-zia] un guscio di mattoni posti in folio potes-se agevolare, come una centina a perdere, la colata sull’estradosso (così è per esempio nel-le coperture delle scale dette «alla romana»).

La tecnica sembra conoscere una più am-pia fortuna solo nel Settecento, molto proba-bilmente a causa dell’osservazione di quanto prodotto dai terremoti, poiché lo strato di mattoni posti di piatto consentiva la ridu-zione di spessore del conglomerato e le vol-te più leggere erano molto meno pericolose nel caso di spinte orizzontali. A questo punto l’incrocio tra tecniche tradizionali, rivisita-zione dell’antichità romana, legittimazione scientifica offerta dai trattati francesi e caute-la antisismica potrebbero offrire un variegato sistema di concause per dare senso all’im-provviso sviluppo e diffusione della volta in folio nel Settecento.

NOTE1. Archivio di Stato di Modica, Contea, cautela,

vol. XV (inv. provv. N. 80), cc. 649r-651r.2. Ringrazio l’architetto Antonio Belvedere per

la segnalazione e per avermi fornito la versione ori-ginale del testo. Per la traduzione si veda: Léon Du-fourny ([1789-1793] 1991).

3. Le informazioni sui “dammusi” a due o a tre foglie si trovano in Archivio di Stato di Palermo, Notaio Sarcì e Pape 15072, ff. 282 r -285v e 15079, ff. 416 r – 418 v. Si ringrazia la dottoressa Sabina Mon-tana per la segnalazione.

4. Si ringrazia l’architetto Assia Alaimo per la segnalazione.

5. Il celebre studioso segnala attraverso i grafici esempi di utilizzo di centine mobili, oltre a spiegare in dettaglio diverse soluzioni riscontrate in edifici romani che dimostrerebbero una ricerca dei costrut-tori verso l’alleggerimento delle volte con mattoni posti di piatto: con un doppio strato continuo (ele-menti grandi per il primo e più piccoli per il secon-do) e l’aggiunta di filari di mattoni posti a coltello [uno schema di solito utilizzato per coprire grandi luci]; con uno strato continuo e un secondo strato che copre soltanto i giunti [nella versione che copre

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soltanto quelli perpendicolari all’asse della volta, per luci minori]. Per ulteriori informazioni si veda: Au-guste Choisy ([1883] 1997, 52-67).

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