Top Banner
1
320

Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Feb 02, 2023

Download

Documents

Welcome message from author
This document is posted to help you gain knowledge. Please leave a comment to let me know what you think about it! Share it to your friends and learn new things together.
Transcript
Page 1: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

1

Page 2: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Questo volume è realizzato in collaborazione con

e grazie al contributo della Fondazione Musicale Umberto Micheli e di Lundbeck Italia S.p.A.

Proprietà letteraria riservataPer i testi:© 2009 RCS Libri S.p.A., MilanoPer le fotografie (eccettuate quelle da p. 14 a p. 55):© Lelli e Masotti, © Silvia Lelli e © Roberto MasottiPer il testo di Luciano Berio:© Luciano Berio, Agli amici degli «Incontri Musicali», in «Incontri Musicali», n. 2, maggio 1958,Edizioni Suvini Zerboni, Milano, pp. 69-72. Per gentile concessione di Talia Pecker BerioLa musica di Pierre Boulez è di proprietà dell’autorePer la musica di György Kurtág:© Editio Musica Budapest. Per gentile concessionePer il testo e le immagini di Luigi Nono:© Eredi Luigi Nono. Per gentile concessionePer la musica di Salvatore Sciarrino:© Edizioni Musicali Rai Trade, Roma-Milano. Per gentile concessione

ISBN 978-88-7768-526-1

Preparazione del Cd-rom a cura di Claudia Abbiati Realizzazione del Cd-rom di Massimiliano Pancini Grafica e impaginazione: Valentina BrunelliIn copertina: Pianoforte preparato (da Patrizio Fariselli), Milano, Fono Roma 1977© Lelli e Masotti

I lettori che desiderano informarsi sui libri della casa editrice Archintopossono consultare il sito internet: www.archinto.itL’indirizzo e-mail è [email protected]

2

Page 3: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Milano, laboratoriomusicale del Novecento

Scritti per Luciana Pestalozza

a cura di Oreste Bossini

Archinto

3

Page 4: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

4

Page 5: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Indice

Introduzione 9

PARTE PRIMA. TESTIMONIANZE 13

La musica non moriràTestimonianza di Luciana Abbado Pestalozza raccolta da Oreste Bossini 17

Milano e la musica 49

Claudio AbbadoTestimonianza raccolta da Angela Ida De Benedictise Vincenzina Caterina Ottomano 51

Giorgio Battistelli 57

Luciano BerioAgli amici degli «Incontri Musicali» 59

Pierre Boulez 62

Aldo Clementi 64

Michele dall’Ongaro 65

Ivan Fedele 68

Luca Francesconi 70

György Kurtág 71

Giacomo Manzoni 74

Luigi Nono 76

5

Page 6: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Salvatore Sciarrino 83

Fabio Vacchi 88

PARTE SECONDA. STUDI 93

Cesare Fertonani, Emilio SalaPer una storia della musica a Milano nel secondo dopoguerra 95

Alfonso AlbertiPoetiche musicali a Milano dal dopoguerra a oggi 99

Franco FabbriAltre musiche a Milano, dal dopoguerra a «Musica nel nostro tempo» 125

Paolo PetazziVingt ans après: su «Musica nel nostro tempo» 146

Luca Civelli Tra indirizzi ed etichette: il jazz a Milano 151

Lidia BramaniLe radici ottocentesche dell’editoria musicale a Milano 169

Davide VergaUn ampliamento dell’idea di presente. Musica antica a Milano attraverso ricordi, esperienze, testimonianze 180

Marco MoiraghiLa canzone e il teatro musicale di Gino Negri nella vita artistica milanesedegli anni Cinquanta e Sessanta 207

Febo GuizziRoberto Leydi etnomusicologo e organizzatore di cultura 218

Bianca De MarioPassaggi in storie vere di nessuno. I viaggi di Luciano Berio alla Scala 243

6

Page 7: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Carlo LanfossiStockhausen a Milano 256

Nicola ScaldaferriLo Studio di Fonologia musicale della Rai nella Milano del dopoguerra 267

Enzo RestagnoIl Concorso pianistico «Umberto Micheli» 276

Ringraziamenti 281

Silvia Lelli, Roberto MasottiLa musica che abbiamo vistoFotografie fuori testo tratte dall’Archivio Lelli e Masotti

Cd-rom allegato: Cronologia e programmi delle stagioni di «Musica nel nostro tempo»a cura di Claudia Abbiati (Dipartimento di Storia delle Arti, della Musicae dello Spettacolo – Università degli Studi di Milano)Realizzazione di Massimiliano Pancini

7

Page 8: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

8

Page 9: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Introduzione

Milano ha sempre vissuto in maniera controversa il rapporto con il passato. L’ansia diabitare il presente sembra cancellare con incredibile facilità la memoria della trama diesperienze che forma il tessuto del suo patrimonio culturale. Forse proprio la ricchez-za della sua storia ha generato nel corpo del mondo musicale milanese una lotta per-manente per la sopravvivenza, che probabilmente non lascia molto tempo per ricor-dare quel che si è fatto in passato e per riflettere su ciò che è avvenuto. Senza dubbioquesta continua pressione delle necessità contingenti rappresenta un robusto segno divitalità e rivela l’inesauribile energia del suo territorio, la sterminata megalopoli pada-na che definiamo in sintesi Milano, ma la rimozione pressoché totale di una riflessionecritica sulla propria storia rischia di provocare alla lunga gravi danni a un sistema mu-sicale frutto del lavoro di molte generazioni. Malgrado la ricca attività degli ultimi an-ni, alcuni effetti negativi sembrano già affliggere la vita musicale, rivelando i segni del-l’invecchiamento e dell’arretratezza del sistema musicale milanese. Il primo segnale dimalessere sembra il pericolo di una crisi strutturale di sovrapproduzione, che potreb-be indurre istituzioni, associazioni e fondazioni musicali ad alimentare l’offerta per di-fendere la propria visibilità, con il rischio di esporre i bilanci a gestioni azzardate ed’incrementare in maniera eccessiva il peso contrattuale delle agenzie nelle scelte arti-stiche. Il secondo effetto negativo, in parte conseguenza del primo, consiste nel rap-porto in percentuale sempre più squilibrato tra produzione e distribuzione della mu-sica. Milano è una città che distribuisce ormai una ingente quantità di musica, produ-cendone però sempre di meno. Per usare una metafora, è come se l’acqua venisse for-nita quasi soltanto tramite le bottigliette, mentre si lasciano seccare i pozzi. Se non siprovvederà per tempo a ristrutturare il sistema musicale e ad attirare nuove energiecreative, la musica a Milano è destinata a subire una crisi pesante e duratura, malgra-do gli apparenti splendori del presente.

Conoscere la propria storia non rappresenta soltanto una sorta di virtù culturale dapraticare per dovere, come la pietas di Enea, bensì lo strumento indispensabile per im-maginare il futuro. Lo scopo di questo libro consiste nel cercare di mettere un po’ d’or-dine nella caotica sequenza di avvenimenti che hanno costellato la storia musicale diMilano, a partire dalla Liberazione fino ai giorni nostri. Ci sembrava il primo passo dacompiere per contribuire a una riflessione seria, profonda, senza pregiudizi su quel cheha significato la musica in questa città e sulle ragioni della sua eccezionale vitalità. Gliscritti compresi in questo volume non formano in alcun modo una sintesi storiografi-

9

Page 10: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ca coerente. Le lacune sono ben più numerose degli argomenti trattati e sarebbe inge-nuo pretendere di offrire un panorama completo degli ultimi sessant’anni di storia incosì poco spazio. La necessità di intraprendere questa traversata nel deserto – tale è ineffetti la situazione della storiografia moderna su Milano – sembrava tuttavia più im-pellente, benché la consapevolezza dei limiti di questo tentativo consigliasse di affron-tare l’avventura con il massimo pudore scientifico.

Per festeggiare gli ottant’anni di Luciana Pestalozza abbiamo raccolto dunque que-sta messe di scritti eterogenei, tutti rivolti però a definire i contorni di un determinatoaspetto della vita musicale milanese. Il mosaico che risulta dal loro insieme mostra co-me la figura di Luciana mantenga un posto, più o meno rilevante, in ciascuna di que-ste esperienze, testimoniando nella maniera più eloquente la fondatezza del presenteomaggio.

Un breve commento sul metodo di questa raccolta. L’indice del libro rivela la natu-ra anfibia del progetto, per metà giornalistica e per metà storica. La divisione in dueparti riflette infatti il carattere duplice degli interventi. La prima sezione, Testimo-nianze, esprime il desiderio di conoscere il punto di vista di coloro che formano e han-no contribuito a formare il tessuto musicale di Milano, a partire proprio dal toccanteracconto di Luciana della sua vita legata alla musica. Abbiamo chiesto pertanto a varimusicisti, milanesi e non, di raccontare qual è il loro rapporto con Milano, perchéun’inchiesta di questo genere sembrava un elemento essenziale per comprendere co-me si sta sviluppando la relazione tra il territorio e le sue risorse creative.

L’altro corno del libro è rappresentato dalla sezione dedicata ai contributi di caratte-re scientifico, affidati in parte a studiosi di comprovata esperienza e in parte a ricerca-tori del Dipartimento di Storia delle Arti, della Musica e dello Spettacolo dell’Uni-versità degli Studi di Milano. Cesare Fertonani ed Emilio Sala spiegano in maniera esau-riente, all’inizio della seconda parte, il carattere eterogeneo di questa antologia e i nodidi metodo e di contenuto che essa mette in evidenza. È importante tuttavia segnalare illavoro di questo gruppo di giovani ed eccellenti studiosi, alle prime prove della loro vi-ta professionale, perché l’apertura e la fiducia nei confronti delle nuove generazionihanno rappresentato un elemento costante dell’attività di Luciana Pestalozza.

Accanto ai contributi e alle testimonianze verbali, il libro contiene un ampio e ra-gionato percorso d’immagini provenienti dall’Archivio fotografico di Silvia Lelli eRoberto Masotti. Le immagini di Lelli e Masotti, alle quali vanno aggiunte le fotogra-fie sparse nel testo messe gentilmente a disposizione da Luciana Pestalozza, costitui-scono un documento insostituibile e integrano in maniera essenziale la memoria di cer-te fasi della vita musicale di Milano.

Questo libro non sarebbe venuto alla luce senza l’aiuto generoso di molte persone,che hanno contribuito con le loro idee e la loro esperienza a conferire al progetto for-ma e sostanza. La prima persona da ringraziare tuttavia è Luciana Pestalozza stessa,

10

Page 11: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

perché, una volta compreso il valore della sua testimonianza soprattutto per le gene-razioni più giovani, ha accettato di comparire in primo piano, superando l’istintiva re-pulsione per atteggiamenti contrari alla propria indole. La Milano piena di slanci e dipassioni, a volte sacrosanti e a volte forse discutibili, vissuta da Luciana sembra sem-pre più lontana, ma proprio per questo appare oggi tanto più degna di rispetto e me-ritevole di essere raccontata. Luciana ha visto incrinarsi uno dopo l’altro molti miti diquel mondo, senza lasciarsi tuttavia sopraffare dall’amarezza. A suo modo, lavorandocon i fatti, ha incarnato la coscienza critica della musica contemporanea milanese, riu-scendo a inventare un nuovo destino a questa forma d’espressione della cultura del no-stro tempo e a ricucire con pazienza un rapporto con le istituzioni e con la società chesembrava sul punto di dissolversi.

Un particolare ringraziamento infine va a Pierre Boulez, György Kurtág e SalvatoreSciarrino, che hanno reso prezioso questo volume scrivendo musiche nuove. Il loro ge-sto generoso trascende il significato e i risultati di questo progetto, per collocarsi in unasfera nella quale soltanto la dedicataria è in grado di apprezzare nella maniera più giu-sta il valore dell’omaggio.

Oreste Bossini

11

Page 12: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

12

Page 13: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

PARTE PRIMATESTIMONIANZE

13

Page 14: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

14

Luciana, 1933.

Page 15: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Ma vie serait une belle histoire qui deviendraitvraie au fur et à mesure que je me la raconterais.

Simone de Beauvoir, Mémoires d’une jeune fille rangée

15

Page 16: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

16

Page 17: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

La musica non moriràTestimonianza di Luciana Abbado Pestalozza raccolta da Oreste Bossini

La casa gialla

I miei fratelli Claudio e Gabriele e io (un po’ prima di loro), siamo nati a Milano in viaPiolti de’ Bianchi, in una casa gialla, con il tetto spiovente che oscurava il nostro ap-partamento al quarto piano. Mia madre spesso si lamentava di questa oscurità: avevabisogno di luce. In realtà la casa, oltre che buia, era diventata piccola per la nostra fa-miglia. I miei genitori quando vi erano entrati avevano solo Marcello, che era nato inviale Lombardia, ma nel giro di cinque anni eravamo arrivati noi altri tre. Siamo natitutti e quattro in casa, come usava allora, con l’aiuto di un ostetrico. Ho molti ricordidi questa casa, le ombre notturne, i bimbi che piangevano, le buone merende con bur-ro e zucchero, ma uno in particolare. Una mattina, eravamo nel giugno del 1933, miopadre mi venne incontro nel corridoio e mi disse: «Lucianina, questa notte è arrivatoda Parigi in aereo un fratellino, si chiama Claudio». Quando sedici mesi dopo arrivòGabriele, mi dissero più semplicemente che l’aveva portato una cicogna. Non mi eromai accorta che la mamma avesse un pancione.

La nostra era una normalissima famiglia borghese, sebbene gli altri ci considerasse-ro in maniera particolare, per via della musica. Il nonno materno, siciliano, che tra-smise la sua saggezza a mia madre, si chiamava Guglielmo Savagnone, insegnava Dirit-to romano ed ecclesiastico all’Università di Palermo ed era esperto di papirologia. Ilnonno paterno, che non ho conosciuto, era Michele Abbado, piemontese e laureato inScienze naturali alla Scuola Normale di Pisa. Insegnava chimica al liceo Beccaria diMilano e alla facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Milano, ma covava unaprofonda passione per la musica. Il nonno Michele, detto Nino, suonava il violino e ilpianoforte e in gioventù avrebbe voluto avere un’orchestra. Ebbe anche l’occasione,da giovane, di dirigere un’operetta a Fossano, in Piemonte, ma le vicende della vita lodistolsero dalla musica. Aveva sposato una donna molto graziosa, nonna Vittoria, e la-vorò moltissimo anche per esaudire, buono com’era, i suoi desideri. Scrisse diversi ma-nuali di scienza per i licei, pubblicandoli con gli editori Cogliati e Vallardi, ma non riu-scì mai a realizzare il suo sogno di diventare un direttore d’orchestra. Per questo indi-rizzò i due figli verso la musica: Michelangelo, mio padre, studiò il violino e la ziaBabette il pianoforte. Mio padre così è diventato il primo musicista di professione del-la famiglia. A sette anni prese la licenza di teoria e solfeggio con Ettore Pozzoli (i fa-mosi solfeggi di Pozzoli!), manifestando una passione, decisamente rara in un bambi-

17

Page 18: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

no, per lo studio del solfeggio. In seguito si diplomò in violino con Enrico Polo e incomposizione con Giacomo Orefice, e iniziò la carriera di insegnante e di concertista.Il suo primo incarico di insegnante fu a Palermo, dove vinse il concorso per la catte-dra di violino in Conservatorio. Andò a Palermo provvisto di una serie di lettere di pre-sentazione, come usava ai tempi, una delle quali era per il professor Savagnone. Quan-do si presentò a casa del professore, trovò ad attenderlo uno dei figli che lo introdus-se ai famigliari annunciando: «’U stranieru c’è». In salotto c’era però anche una giova-ne fanciulla, Maria Carmela, dai bellissimi occhi neri, e mio padre decise immediata-mente che quella ragazza sarebbe diventata sua moglie. Maria Carmela, donna colta,era diplomata in pianoforte e la musica contribuì in maniera notevole al loro fidanza-mento. Si sposarono nel 1925 e subito si trasferirono. Mio padre vinse prima il con-corso per una cattedra a Parma e infine quello per il Conservatorio di Milano, dovesubentrò nell’insegnamento al suo maestro Enrico Polo e rimase tutta la vita. Nel cor-so degli anni dalla sua scuola sono usciti numerosissimi allievi, fra cui i più noti furo-no Pina Carmirelli e Franco Fantini, a lungo violino di spalla della Scala.

La musica da camera e la musica del Settecento erano le predilette di mio padre, checoltivava il far musica insieme in diverse maniere, ma soprattutto con il trio che avevaformato insieme con il pianista Carlo Vidusso e il violoncellista Gilberto Crepax, pa-

18

Carlo Vidusso, Michelangelo Abbado e Gilberto Crepax, anni Quaranta.

Page 19: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

dre di Franco e di Guido. Le prove del trio si svolgevano quasi sempre a casa Crepax,un appartamento spazioso con un bel pianoforte a coda. La casa non c’è più. È statadistrutta nei bombardamenti della guerra. Con i Crepax nacque subito un’amiciziamolto forte. Mia madre aveva un’intesa perfetta con la moglie di Crepax, Maria, don-na bella e simpaticissima. Anche noi figli diventammo amici, in particolare Marcello eio di Franco, ragazzino estroverso e brillante, che da adulto lavorò prima alla Ricordie poi alle Messaggerie Musicali. Claudio e Gabriele legarono invece soprattutto con ilcoetaneo Guido, un bambino estremamente timido e silenzioso, ma con un talentosbalorditivo per disegnar figure. Già a quattro anni sapeva ritagliare nella carta con

19

Luciana con la pecora, Marcello sul monopattinoe Franco Crepax sull’automobilina, 1932.

Page 20: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

delle forbicine dalle punte arrotondate meravigliose figurine di cavalli in movimento edivenne poi famoso per la sua Valentina.

Si delineavano già delle sottili distinzioni tra noi figli, benché ci separassero solo po-chi anni d’età. Noi grandi, Marcello e io, eravamo studiosi e con educazione più for-male, andavamo ai giardinetti accompagnati dalla mamma o dalla cameriera, mentre ipiccoli, Claudio e Gabriele, cresciuti durante la guerra, un po’ in mezzo alla strada,avevano modi più liberi e indipendenti.

Quando avevo cinque anni ci trasferimmo in via Fogazzaro, che è stata la nostra ve-ra casa. Mio padre voleva un appartamento che fosse luminoso e abbastanza grande daconcedere spazio a tutti, che avesse il terrazzo e si trovasse vicino al Conservatorio, al-le scuole elementari e al liceo Berchet. Al piano sotto il nostro abitava il poeta SergioSolmi con la famiglia. Spesso, la domenica, Eugenio Montale andava a trovarlo e ascol-tavano l’Orchestra d’archi di mio padre che suonava al piano superiore. Per noi Solminon era un poeta, ma un avvocato che lavorava alla Banca Commerciale. Aveva due fi-gli geniali, René e Lella. Durante la Resistenza, abbiamo temuto il peggio per loro.L’avvocato era stato arrestato e portato in via Rovello, luogo di tortura. Stavamo tuttii giorni con il fiato sospeso, perché da un momento all’altro i fascisti potevano venirea prendere il resto della famiglia. Per diverse notti i ragazzi andarono a dormire dai vi-cini. La guerra ebbe se non altro il merito di risvegliare un sentimento di solidarietà al-l’interno dei palazzi, dato che non era possibile uscire la sera per il coprifuoco. Le fa-miglie cercavano di aiutarsi e in generale si avvertiva una maggiore solidarietà fra lepersone.

Nell’ottobre 1942, Milano subì il primo pesante bombardamento. Davanti a casanostra c’era un deposito di carta, che si incendiò. Ricordo le lingue di fuoco che si al-zavano altissime nel cielo. I miei decisero di portarci via dalla città. Una famiglia diamici ebrei, sul punto di fuggire dall’Italia, ci offrì la villa al mare, ad Alassio. Era unposto splendido, con un grande giardino. A noi ragazzi passare dal buio e dal freddodi Milano al sole e al mare, sembrò una cosa meravigliosa. Fu un anno magnifico. Nonavevamo consapevolezza di quel che stava avvenendo nel mondo. Ancora adesso mivergogno di avere festeggiato l’armistizio, la sera dell’8 settembre 1943, pensando chela guerra fosse finita, senza rendermi conto che stava per cominciare, in realtà, il pe-riodo più duro, quello dell’occupazione tedesca. I miei genitori erano andati a Romaper salutare lo zio Giuseppe Savagnone, che sarebbe dovuto partire per il fronte, e il5 settembre riuscirono a tornare ad Alassio per miracolo, prima che l’Italia fosse ta-gliata in due.

La mamma, lettrice eccezionale, era molto interessata alla letteratura, oltre che allamusica. Ha pubblicato alcuni libri di fiabe siciliane e persiane e ha anche scritto un ro-manzo sulla storia dei partigiani, Tre ragazzi coraggiosi. Mia madre ha avuto qualche le-game con la Resistenza e ha aiutato alcune famiglie ebree a passare il confine. Era in con-

20

Page 21: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

tatto con padre David Maria Turoldo. Un giorno questo sacerdote giovane e dai capellirossi venne a casa e mi consegnò un pacco di lettere da dare alla mamma, che aveva ilcompito di distribuirle senza farsi notare. Quando la situazione era diventata già parec-chio rischiosa, mia madre si diede da fare per aiutare la famiglia Orefice, quella che ciaveva offerto la villa di Alassio, a passare il confine con la Svizzera. La mamma assiste-va in particolare la vecchia signora Lucia Orefice, che viveva reclusa in un appartamen-tino. Mia madre era molto credente e sperava sempre di riuscire a convertirla al cattoli-cesimo. Spesso tornava a casa raggiante, perché l’anziana signora sembrava convinta aparlare con il parroco, ma alla sera arrivava regolarmente una telefonata di Lucia che so-steneva di aver bisogno di altro tempo per pensarci. Naturalmente non si convertì mai.

L’intervento nella fuga in Svizzera degli Orefice non passò però inosservato e miamadre venne convocata in Questura. Per fortuna fu interrogata da un funzionario si-ciliano che si era laureato proprio con il nonno Savagnone. Il poliziotto si limitò a con-gedarla, raccomandandole di pensare alla famiglia e di non fare sciocchezze. Bene omale da quel momento mia madre non si spinse oltre.

Il violino Garimberti

A casa nostra si faceva musica sempre. Bisogna considerare che nella nostra famiglia lamusica rappresentava la quotidianità. L’attaccamento di mio padre al lavoro di musi-cista e la regolarità con cui lo realizzava equivalevano alla dedizione con la quale il vi-cino di casa svolgeva la sua professione. Il lavoro e lo studio erano la bussola della no-stra vita. La domenica si andava a messa e nel pomeriggio si faceva una passeggiata tut-ti insieme – mamma e babbo dietro, a braccetto, e noi figli davanti – ma il resto dellagiornata veniva dedicato comunque allo studio. Durante la settimana potevamo gioca-re dopo pranzo fino alle due e mezzo, poi si riprendeva a studiare.

In primavera, dopo le discussioni sul mare, amato dalla mamma, e sulla montagna,amata dal babbo, mio padre partiva alla ricerca della casa: Val d’Aosta, le Dolomiti op-pure la Versilia o l’Adriatico. La prima preoccupazione di mio padre, quando prende-va in affitto una casa (se era in montagna, portava con sé l’arco del violino per con-trollare che il soffitto della baita fosse abbastanza alto perché l’arco non lo urtasse)consisteva nel procurarsi un pianoforte per permettere a Marcello e a Claudio di stu-diare. La scelta del luogo dove fare le vacanze era l’unico punto di disaccordo fra i mieigenitori, per il resto estremamente affiatati. In casa regnava sempre una bella armonia.

Le mie prime vere impressioni musicali risalgono agli anni dell’adolescenza, benchéabbia ascoltato musica fin dalla culla. In casa venivano gli allievi di mio padre, poiMarcello ha cominciato a studiare il pianoforte, quindi il repertorio pianistico e violi-nistico era pane quotidiano per me. Il Gradus ad Parnassum e il Clavicembalo ben tem-

21

Page 22: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

perato li ho ripassati, per così dire, due volte, prima con Marcello e poi con Claudio.Vivevo completamente immersa nella musica, ma quasi senza rendermi conto di as-sorbire i suoni come una spugna. La prima volta che ebbi coscienza precisa di un ascol-to musicale fu ad Alassio, nel 1942. Ricordo ancora l’emozione provata, sulle scale del-la villa, sentendo Marcello che studiava la Ciaccona di Bach nella trascrizione di Bu-soni. Conoscevo bene quel pezzo, che avevo sentito molte volte suonato da mio padreo dai suoi allievi, ma per la prima volta, anche se un po’ tardivamente, a tredici anni,mi resi conto di percepire un fenomeno meraviglioso come la musica.

Vivevo tutto come attraverso un velo e provavo una specie di adorazione per Mar-cello, la persona che mi ha guidato di più nella conoscenza della musica. Dopo le ele-mentari, Marcello si era iscritto al Conservatorio e aveva continuato gli studi classici informa privata. Non ho mai dimenticato l’orario appeso sulla parete, davanti alla suascrivania, dove mio padre aveva scritto di suo pugno e in modo dettagliato il tempo dadedicare allo studio delle varie materie. Nei miei confronti la disciplina non era altret-tanto rigida. Mi offendeva che i miei genitori non pretendessero da me quello che pre-tendevano da Marcello. Evidentemente ero una femminista ante litteram.

Ero lo specchio di quel che facevano i miei fratelli, in particolare Marcello, che erabrillante negli studi e molto serio nel lavoro. Mio fratello mi usava spesso per studiare

22

Marcello Abbado e Paul Hindemith con l’orchestra dei Pomeriggi Musicali,Teatro Nuovo 1947.

Page 23: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

e ripassare. Ricordo per esempio la volta che venne chiamato dai Pomeriggi Musicaliper eseguire la Kammermusik n. 2 per pianoforte e orchestra di Paul Hindemith, di-retta dall’autore stesso. Mio fratello la studiò a memoria in venti giorni. Trascorrevo legiornate ascoltandolo ripetere decine di volte ogni passaggio, con la musica in mano,malgrado non capissi bene a cosa gli servisse il mio aiuto.

Quando Claudio manifestò in maniera decisa il desiderio di studiare musica, versogli otto anni, mio padre era riluttante a indirizzare al pianoforte un altro figlio. Lamamma però, che ne aveva intuito le doti, si impose e convinse mio padre ad assecon-darlo. Aveva ragione, perché Claudio dimostrò subito di suonare trasmettendo emo-zioni. Ricordo che il direttore del Conservatorio, Giorgio Federico Ghedini, telefonòa mio padre raccomandandogli di essere presente al saggio di classe di Claudio con leVariations sérieuses di Mendelssohn perché, come disse, «qui c’è qualcosa». Fin dall’i-nizio Claudio pensava di diventare musicista e come pianista tenne alcuni concerti.Ricordo per esempio una bellissima interpretazione del Quarto Concerto di Beethoven.Aveva formato un quintetto in Conservatorio con i compagni Giulio Franzetti, dive-nuto in seguito spalla alla Scala, il violinista Enzo Porta, la viola Pasquale Palmieri e ilvioloncello Paolo Salvi. Per settimane li ho sentiti studiare il Quintetto di Brahms, chehanno suonato diverse volte per parecchi anni.

Non so perché verso gli otto anni cominciai a studiare il violino. Sentivo che qual-cosa dovevo fare anch’io. Ho studiato prima con un’allieva di mio padre, poi con luistesso. Suonavo un bel violino, che il liutaio Ferdinando Garimberti aveva costruitoapposta per mio padre. Ho studiato con regolarità fino all’ottavo corso, ma in manie-ra sempre molto distaccata. Il mio problema era il suono. Avevo una buona imposta-zione ed ero intonata, ma la qualità del suono non corrispondeva ai miei desideri equesto per me era un tormento. Non riuscivo a riconoscermi in quel che suonavo. Aun certo punto ho smesso, senza drammi.

Un’orchestra per le donne

Tra gli allievi di mio padre c’erano molte ragazze, che trovavano ben poche possibilitàdi uno sbocco professionale. Le orchestre, a quei tempi, non assumevano musiciste euna ragazza senza doti eccezionali aveva rarissime occasioni di lavoro. Fu mia madre asuggerire l’idea di formare un’orchestra femminile e così, già negli anni della guerra,nacque l’Orchestra d’archi di Milano, composta con una forte presenza di donne. Miopadre era un ottimo organizzatore e si occupava di tutto, compreso il rilascio dei pas-saporti e le pratiche fiscali. L’orchestra riuscì a trovare anche qualche sovvenzione evenne invitata a tenere concerti in Sud America e in Spagna, ma si trattava di piccoletournée. Le prove si svolgevano la domenica mattina a casa nostra e tutta la famiglia

23

Page 24: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

veniva mobilitata per l’occasione. Marcello e io avevamo il compito di sgomberare ilgrande studio del babbo, per fare posto alle sedie e ai leggii; a me era riservato ancheil compito di archivista, per conservare e distribuire le parti. A volte assisteva alle pro-ve un gruppo di amici e conoscenti, tra i quali c’era Gianandrea Gavazzeni, che rac-contò queste riunioni in un bellissimo articolo intitolato Musica fra le macerie. Sì, per-ché la casa era stata semidistrutta da un bombardamento e noi vivevamo accampatinella parte rimasta sana.

Erano tempi molto duri, specie per un musicista. Lo stipendio del Conservatorionon bastava più, i concerti e gli allievi privati erano spariti. Con la guerra la nostra vi-ta cambiò in maniera radicale. Niente cameriera, addio a ogni comodità, venduti glioggetti preziosi. Dovevamo provvedere da soli alle faccende domestiche e non sempresi riusciva a riempire lo stomaco, ma i miei genitori non si lamentavano di fronte a noifigli delle nostre condizioni. Non si parlava mai di soldi in casa nostra e non ho maiavuto la sensazione di essere diventata povera. Affamata sì, ma non povera, benché miaccorgessi che di tanto in tanto dalla credenza spariva qualche bel piatto d’argento.

Le serate dei miei genitori, di norma, si svolgevano in questa maniera: dopo cena,mentre noi ragazzi andavamo a dormire, mio padre studiava il violino ancora un’ora,poi sbrigava fino a mezzanotte la corrispondenza che serviva a procurare i concerti.Mia madre cuciva. Ha cucito con le sue mani le camicie dei miei fratelli e la prima giac-ca di Marcello, per quanto in maniera non impeccabile. Anch’io mi cucivo gli abiti dasola, quando si trovava la stoffa, e lavavo i piatti. L’importante era andare avanti, re-stare uniti e mantenere costante il ritmo della nostra vita, scandita fra scuola, musica,lavoro. Dai miei genitori ho imparato a lavorare e studiare alla sera. La notte per me èun luogo magico, infinito. Uno spazio da colmare liberamente, senza vincoli di orari.

L’assoluzione

Ero comunque piuttosto libera, non ho mai avuto restrizioni particolari. A quindici an-ni possedevo le chiavi di casa e potevo uscire quando volevo, badando solo a non ri-entrare troppo tardi. Frequentavo soprattutto gli amici di Marcello, e più tardi quellidella cerchia di Claudio. Giocavo al pallone, ma il mio destino era sempre quello distare in porta. Poi Claudio introdusse uno stile nuovo nella nostra vita domestica.Marcello e io non osavamo portare a casa gli amici, eravamo timorosi della severità delbabbo. Claudio invece non ci pensava due volte a invitare i compagni a studiare a ca-sa, e magari li invitava anche a pranzo, sotto l’occhio benevolo della mamma, felice dipreparare grandi pastasciutte per tutti, e quello più perplesso di mio padre.

Mia madre era una donna intelligente e aveva il dono di saper gestire la famiglia contatto e determinazione. Decideva tutto lei in un’intesa profonda con mio padre.

24

Page 25: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Non c’è stata molta confidenza fra me e mia madre. Lei rispettava le mie scelte, ben-ché non sempre le condividesse, mentre io ho nutrito nei suoi confronti una conside-razione che è andata sempre crescendo man mano che la vita scorreva. Aveva una ma-niera molto libera di insegnare le cose. Il francese per esempio. Era stata educata aPalermo dalle suore francesi del Sacro Cuore, un’educazione rigida. Pensare in italia-no e non in francese era per loro un peccato da dichiarare in confessione. Con me pe-rò la mamma ebbe un atteggiamento del tutto opposto. Quando manifestai il deside-rio di imparare il francese, il giorno dopo mi regalò una grammatica, ma in seguito nonsi preoccupò più di sapere se e come la usassi. Faceva parte del suo stile, non era di-sinteresse. Mia madre pensava che il suo compito consistesse nel fornirci gli strumen-ti, stava a noi decidere come usare quella opportunità.

25

Luciana e Claudio Abbado, Bellaria 1951.

Page 26: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

La sua apertura mentale era ammirevole. Una volta, avrò avuto nove anni, andai aconfessarmi in chiesa e il sacerdote mi negò l’assoluzione perché non frequentavo l’o-ratorio. Tornata a casa, mia madre, mentre stirava, mi chiese che penitenza mi avesseassegnato il prete e io le confessai, con suo sbalordimento, di non aver ricevuto l’asso-luzione. Lei, senza pensarci due volte, sbottò: «Ti assolvo io e domani vai a fare la co-munione!». Adesso che non c’è più ho molti rimpianti per le cose che avremmo potu-to dirci e che allora tacevamo. Parlavamo pochissimo fra di noi, forse perché finivamoper occuparci sempre di cosa pratiche. Anche negli ultimi anni, dopo la morte di miopadre, sentivo che il nostro rapporto era circoscritto alle necessità quotidiane: infer-miere, badanti, cibo, mentre con i miei fratelli era diverso. Rimpiango di non aver avu-to con lei lo stesso tipo di dialogo. Una volta, poco tempo prima di lasciarci, mi chie-se quasi con stupore come avessi potuto cambiare così tanto da quando ero ragazza.Timida com’ero, avvertivo sempre il confronto con i miei fratelli così brillanti e sicuridi quello che facevano. Non mi sono mai pentita di aver preso la decisione di lavorarefuori casa, malgrado le perplessità di mia madre. Per una donna della sua generazioneera forse un po’ difficile comprendere il mio desiderio di sentirmi autonoma. Mia ma-dre ha lavorato moltissimo, ma non avrebbe mai pensato di occupare la sua giornatanella maniera in cui l’ho fatto io. È sempre stata rispettosa delle scelte dei figli, ma miosservava con un certo stupore.

26

Claudio Abbado con la mamma Maria Carmela, Teatro alla Scala 1978.

Page 27: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

La piccola radio

La musica rimaneva comunque al centro della nostra vita domestica. In casa venivanomolti musicisti. Ghedini, durante la guerra, veniva a condividere con noi i pranzi fattidi nulla, sotto gli occhi allarmati di noi ragazzini affamati. Ildebrando Pizzetti peresempio, quando capitava a Milano, era nostro ospite. C’era molta confidenza soprat-tutto con i Gavazzeni. Il padre di Gianandrea, un avvocato antifascista, era amico deimiei genitori. Gianandrea, più giovane di mio padre, era conosciuto allora come pia-nista e aspirava a diventare compositore, non pensando minimamente di dedicarsi al-la direzione d’orchestra. Fu Pizzetti, che era stato suo insegnante di composizione, aconsigliare a mio padre di affidare Marcello a Gavazzeni per lo studio del pianoforte.A volte accompagnavo mio fratello a lezione a casa del maestro, che abitava in un belpalazzo in piazza Fontana. Gavazzeni si arrabbiava moltissimo con lui perché non stu-diava abbastanza e gli diceva cose del tipo: «T’impunti come un cavallo! Ecco, tu mifai bestemmiare! Ma sei tu che ti devi confessare, perché tua è la colpa!». Gavazzeniera molto legato a mio padre. Durante la guerra era sfollato a Baveno, sul lago Mag-giore, e una sera venne arrestato dai fascisti che per fortuna lo rilasciarono la mattinadopo. Temendo il peggio, tuttavia, decise di fare testamento e indicò proprio mio pa-dre come esecutore delle sue volontà.

Intanto scoprivo nella musica cose nuove, che mi emozionavano. Ho ricevuto vari col-pi al cuore «musicali» a quell’epoca. Uno lo ebbi subito dopo la guerra, ascoltando unapiccola radio che ci era stata regalata. In una notte insonne, seduta per terra vicino allaradio, mi capitò di ascoltare per la prima volta il Concerto in sol di Ravel. Rimasi rapita,mi sembrò una musica inaudita, di una freschezza e di una bellezza incredibili. Oggi èconsiderato un capolavoro della tradizione, ma per me, allora, fu una rivelazione.

La carta per la stufa

Il 25 aprile ’45 eravamo a Milano. I mesi precedenti erano stati durissimi: la paura deibombardamenti, le notti nei rifugi antiaerei, il terrore seminato dai fascisti, la dura oc-cupazione dei tedeschi. Non ne potevo più della guerra. Desideravo che succedessequalcosa, qualsiasi cosa, purché terminasse quell’agonia. Eravamo tornati a Milano daAlassio, perché mio padre insegnava regolarmente in Conservatorio e mia madre so-steneva che la famiglia dovesse restare unita, malgrado la casa mezza bruciata e il pe-ricolo dei bombardamenti. Il riscaldamento consisteva soltanto in una stufetta a car-bone, che dovevo accendere alla mattina, prima di andare a scuola. Siccome non ave-vamo niente per avviare la stufa, usavo dei pacchi di carta velina accatastati in corri-doio. In seguito scoprii che quel mucchio di carte erano in realtà le dispense di un ca-

27

Page 28: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

talogo delle biblioteche musicali, che mio padre tempo dopo cercò inutilmente dap-pertutto. «Deve essere bruciato durante la guerra», ripeteva, senza sapere fino a chepunto avesse ragione. Non ho mai avuto il coraggio di confessargli la verità, sarebbestato un dolore troppo grande.

La Liberazione significava tornare a respirare, riprendere una vita normale. La no-vità più sentita, per noi, fu la creazione dei Pomeriggi Musicali, che iniziarono a tenerconcerti al Teatro Nuovo. Andavamo sempre il sabato a sentire l’orchestra, diretta daun magnifico musicista come Nino Sanzogno, che ha fatto ascoltare musiche bellissi-me e nuove, lavorando ai programmi con Nando Ballo. Poco alla volta ricominciavauna vita musicale a Milano. Quando la Scala fu ricostruita, andammo a sentire il pri-mo concerto diretto da Arturo Toscanini. Per me tuttavia, Victor De Sabata era dimaggior fascino, le sue esecuzioni erano letteralmente sconvolgenti, benché abbia go-duto di una popolarità più circoscritta, forse perché ha lasciato meno dischi. Toscaniniera una figura leggendaria e ha suscitato grande ammirazione per la fermezza delle sueposizioni antifasciste; come interprete, ha avuto il merito di leggere in maniera nuovale partiture del grande repertorio.

La figlia minore di Toscanini, Wally, era molto amica della mamma, che fra l’altro sioccupava anche di sua zia, Ida Polo. Toscanini ed Enrico Polo erano infatti cognati,dal momento che avevano sposato due sorelle. Dall’amicizia della mamma con Wallynacque anche un piccolo episodio per me di una certa importanza. Nel 1950 si tennea Palazzo Reale l’esposizione degli autografi bachiani e mi chiamarono, su suggeri-mento di Wally, assieme ad altri ragazzi e ragazze, per avvolgere i volumi nella carta ve-lina, prima di riporli nelle casse. Quell’esperienza mi ha permesso di scoprire la bel-lezza dei manoscritti musicali, che per me hanno sempre costituito un mondo affasci-nante. L’emozione di venire in contatto diretto, tramite la scrittura musicale, con legrandi menti della musica è sempre rimasta viva in me, anche nel mio lavoro editoria-le. Ricordo di aver regalato a mio padre, in quell’occasione, un fac-simile dei Sei Solosenza basso accompagnati, le famose Sonate e Partite per violino di Bach, sebbene il ma-noscritto fosse della seconda moglie di Bach, Anna Magdalena. A quel tempo Bach erauna vera e propria mania per me. Pur suonando malamente, passavo le mie serate leg-gendo come potevo al pianoforte le Cantate e le altre opere che avevo a disposizione,accennando con la voce le parti principali. Amavo in particolare il Magnificat. Perqualche tempo ho anche cantato in un coro di madrigalisti, un’esperienza che mi hasempre accompagnato. Sono convinta che cantare in un coro permette meglio di com-prendere il senso della musica e il rapporto con gli altri.

In casa nostra andare al «Quartetto» era un rito settimanale. Ogni anno i miei geni-tori rinnovavano l’abbonamento ai concerti, ai quali io andavo di rado. Le volte chenon potevano andare, passavano il pomeriggio cercando qualcuno a cui cedere i bi-glietti. Per loro sarebbe stato un delitto sprecare un biglietto del «Quartetto». La loro

28

Page 29: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

dedizione significava rispettare un impegno preso sottoscrivendo un abbonamento,perché anche ascoltare musica richiede serietà. Io ero ben contenta della loro uscitasettimanale. Ne approfittavo per leggere a letto fino a tardi, cosa assolutamente proi-bita alla sera. Avevo ereditato dalla mamma la passione per la lettura. Quando trovavaun libro che la appassionava era capace di stare tutto il pomeriggio sdraiata a leggere.La mia biblioteca privata era sistemata dietro al letto. Di giorno escogitavo dei trucchiper continuare a leggere. Tenevo nel cassetto dello scrittoio libri come I tre moschet-tieri di Dumas, che leggevo avidamente invece di studiare. Per fortuna la mia stanzadava direttamente sull’anticamera. Come sentivo dei passi avvicinarsi, chiudevo discatto il cassetto e mi chinavo sulla traduzione dal latino.

Le trecce tagliate

Fino a diciannove anni portavo le trecce. Un giorno mia madre mi consegnò al par-rucchiere ordinando: «Via le trecce». Se fosse dipeso da mio padre, credo che le avreitenute per sempre. Il cambiamento provocò l’effetto sperato, evidentemente, perchémi accorsi che i ragazzi cominciavano a guardarmi. Tra i nostri amici c’era anche LuigiPestalozza, che aveva un fratello pianista, Carlo, che poi sposai. Venivano da una fa-miglia borghese, con tradizioni musicali solide, in cui la musica era praticata attiva-mente. La nonna di mio marito, presidente del Lyceum, suonava il pianoforte moltobene e ospitava in casa sua i maggiori artisti di passaggio a Milano. Mio suocero, cheera avvocato, suonava invece il violino, anche lui piuttosto bene a giudicare dal fattoche affrontava le Sonate e Partite di Bach. I rapporti con Carlo erano stati sempre ami-chevoli, ma formali. Le volte che teneva un concerto, andavamo a sentirlo e scambia-vamo qualche parola alla fine, niente di più. Tagliate le trecce, anche lui a un certo pun-to si accorse di me e incominciò a invitarmi al cinema.

Ci siamo sposati in chiesa, ma la messa non venne celebrata, dal momento che Carloera iscritto al Partito socialista. Io avevo venticinque anni e lui trentatré. Sono semprestata grata a mio marito perché mi ha aperto un mondo per me nuovo. Sapevo poco dipolitica, per esempio, venivo da una famiglia dove di politica non si parlava, blanda-mente democristiana, e non avevo una visione chiara di quanto stava accadendo. Gra-zie a lui ho imparato molte cose, anche nell’ambito dell’arte e della cultura. Carlo eraun uomo ricco di interessi e di curiosità al di là della musica. Sento una profonda ri-conoscenza nei suoi confronti, perché tramite la sua intelligenza sono venuta in con-tatto con un universo culturale a me quasi del tutto sconosciuto. Da parte mia l’hospinto a occuparsi in maniera approfondita di certi aspetti della musica e gli ho datoun sostegno di cui aveva bisogno per mantenere fede a quel principio di rigore asso-luto nell’attività di musicista.

29

Page 30: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Carlo suonava poche cose, ma in maniera perfetta. Il Quaderno di Annalibera diLuigi Dallapiccola, la registrazione delle Variationen op. 27 di Anton Webern e del ci-clo di Hindemith Ludus tonalis costituirono per lui il coronamento di un percorso in-terpretativo al quale si era dedicato con la massima concentrazione. Purtroppo avevaun rapporto terribilmente sofferto con il pianismo, che concepiva secondo principiideali talmente elevati da provocare in pratica una feroce autocensura. Viveva dentrodi sé un conflitto devastante tra la dimensione assoluta dell’interpretazione e le neces-sità quotidiane della realtà, pur essendo consapevole di raggiungere risultati impor-tanti nelle musiche a lui più congeniali. Abbiamo discusso tante volte di questi pro-blemi. Era difficile aiutarlo a superare i suoi conflitti interiori, benché credo che nelfondo del cuore lo desiderasse. Poi si è ammalato e sono convinta che certe malattiesiano generate, almeno in parte, dalle infelicità che portiamo dentro.

Il colonnello della Philips

Mio padre conduceva la famiglia, come il lavoro, con criteri rigorosi. Aveva stabilito,per esempio, che i figli contribuissero al vitto. Marcello e Claudio non avevano pro-

30

Luciana e Carlo Pestalozza, 1953.

Page 31: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

blemi, dal momento che avevano cominciato presto a tenere concerti. Io invece mi eroiscritta a Matematica e al massimo davo qualche lezione privata, che mi consentiva for-se di comprarmi le calze. Mi sentivo a disagio e non volevo pesare sulle spalle dei miei.Così decisi di lasciare l’università e di mettermi a lavorare, tanto più che la matemati-ca non era la mia vita. L’unico posto che mi venne offerto fu alle Messaggerie Musicali,come commessa nel negozio. Sono rimasta lì per un anno a vender musica. È stataun’esperienza utilissima, perché con quel lavoro ho cominciato a esplorare il mondodell’editoria, a conoscere i vari cataloghi e le nuove revisioni. Mi era stato affidato ilcompito di «prezzare» le edizioni. Quando arrivavano i nuovi cataloghi, dovevo can-cellare i vecchi prezzi e sostituirli con i nuovi, tutto a mano, naturalmente. A un certopunto mi stancai di vendere musica e senza chiedere il permesso a nessuno, mi trasfe-rii nel reparto dischi, dove lavoravo insieme a un’altra ragazza. Era il 1953, comincia-vano a uscire i primi dischi a 33 giri e quel mondo mi interessava. Sapevamo a memo-ria tutti i cataloghi e conoscevamo tutte le novità, che in fondo non erano molte all’e-poca. Quella dimestichezza con i dischi è stata in parte la mia fortuna. La multinazio-nale olandese Philips aveva aperto una filiale italiana, di nome Melodicon. Il direttorecommerciale era un colonnello totalmente digiuno di musica, che si faceva aiutare danoi. Veniva in negozio con degli elenchi e dei dischi campione, privi di etichetta. Sicco-me non era in grado di riconoscere i brani musicali, mi pregava di rivelargli cosa con-tenessero i dischi. Per me era un gioco da ragazzi riconoscere i brani e gli interpreti.Ma il colonnello rimase sbalordito e mi chiese di diventare la sua segretaria, cosa cheaccettai al volo. Così per cinque anni ho lavorato alle dipendenze del colonnello, oc-cupandomi di tutto, compresa la produzione di dischi di musica leggera. Successiva-mente passai a Casa Ricordi. Il primo contatto con la Ricordi fu Franco Crepax, cheaveva cominciato a occuparsi del settore discografico e mi avrebbe preso volentieri alavorare con sé. La cosa non andò avanti, ma l’anno successivo mi venne offerto dallaRicordi un posto all’interno delle edizioni musicali. Cominciai a lavorare a fianco diEugenio Clausetti, amministratore delegato, che mi insegnò qualcosa di editoria, manon molto. Ho dovuto imparare da sola a costruirmi un profilo professionale, osser-vando il lavoro degli altri, imparando il mestiere dai più esperti. Non sapevo nulla dieditoria musicale, di incisione, di stampa. Sono entrata alla Ricordi nel dicembre del’58, quando presidente era Guido Valcarenghi. In quegli anni la Ricordi era un’azien-da ancora piuttosto famigliare, chiusa al nuovo. Gli autori di spicco erano IldebrandoPizzetti, Renzo Rossellini, Giancarlo Menotti (avevo sentito dire che avevano rifiutatoStravinskij). Ma la Ricordi puntava anche su compositori come Manuel de Falla, cheera scomparso lasciando incompiuto il suo opus magnum, l’Atlántida. Un allievo diFalla, Ernesto Halffter, si era appropriato, per così dire, del diritto di metter le manisulla gran massa di appunti e abbozzi lasciati dal compositore. Halffter era una perso-na simpatica, ma decisamente poco affidabile. Spese anni e anni a studiare gli abbozzi

31

Page 32: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

per ricostruire il lavoro, tutto a spese della Ricordi. Si fece prendere un appartamentoa Milano, una segretaria, tutto quanto gli occorresse. Assistevo alle riunioni di Clau-setti con Halffter incredula, sbalordita dalla fantasia di quell’uomo, capace di inventa-re ogni volta una giustificazione nuova per procrastinare in maniera sfacciata il termi-ne del lavoro. Alla fine l’opera andò in scena alla Scala, con scarso successo. Halffterstesso, dopo la prima rappresentazione, sostenene che in realtà avrebbe dovuto fare unaltro tipo di lavoro e che non aveva potuto mettere in atto le sue intenzioni. In sostan-za, cercò di ricominciare da capo, senza esito.

Nel ’58, era stato da poco costruito il nuovo stabilimento della Ricordi in via Salo-mone, dove avevo l’ufficio. Lì erano sistemati, oltre al famoso caveau con tutti gli au-tografi dei grandi compositori, il magazzino per la vendita e quello del noleggio per leedizioni musicali, che all’epoca erano ancora due rami separati della produzione. Ladivisione fra le due attività in realtà creava dei problemi, perché in alcuni casi si finivaper mettere in commercio edizioni analoghe, in vesti editoriali differenti. La stampamusicale è inevitabilmente piena di errori, se ne trovano sempre. Succedeva dunqueche il materiale per il noleggio venisse corretto, man mano che un direttore d’orche-stra o un musicista segnalava un errore nella partitura, mentre gli spartiti in vendita,che provenivano dalla stessa fonte ma che nessuno correggeva, restavano con gli erro-ri. Flavio Testi, che all’epoca lavorava nel settore delle edizioni a noleggio, si era resoconto di questi inconvenienti e aveva elaborato un progetto per riorganizzare il lavoroeditoriale, unificando le varie competenze. La riforma era necessaria. Il progetto ven-ne giudicato in maniera positiva ai piani alti, ma la Ricordi propose a me anziché a luidi assumere la direzione del nuovo settore. L’impegno era gravoso, tenuto conto cheavevo due bambini piccoli e una famiglia da mandare avanti, ma accettai.

Il latte e il piombo

Quando sono arrivata in via Salomone, nel salone all’ultimo piano lavoravano ancorauna quindicina di incisori. La stanza era stata costruita apposta per ospitare la sala del-l’incisione musicale, con le finestre rivolte a nord, perché il sole non battesse diretta-mente. Ogni tavolino era sistemato sotto una finestra in modo da ricevere una bella lu-ce, con un leggio per la musica, la lastra da incidere, i punzoni e gli altri attrezzi. Perterra, di fianco al tavolino, c’era un cartone di latte, perché ogni incisore doveva berealmeno mezzo litro di latte al giorno per legge, dal momento che lavorava con il piom-bo. In realtà non era un mestiere pericoloso, sebbene il pavimento fosse ricoperto ditrucioli di piombo. Veramente dannosa, invece, era la fusione delle lastre, che si face-va in un locale al pianterreno. In una grande caldaia veniva fusa una lega di piombo,antimonio e rame; poi un operaio prendeva con un mestolo il metallo incandescente e

32

Page 33: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

lo versava nelle forme, che variavano a seconda delle due dimensioni: in ottavo e inquarto. Le lastre, una volta raffreddate, venivano rifilate, lucidate e mandate all’ultimopiano per l’incisione. Per diventare buoni incisori occorrevano dieci anni, il tempoequivalente al corso di pianoforte in Conservatorio.

L’incisore doveva conoscere la scrittura musicale, naturalmente, ma soprattutto la di-visione dei valori. Si trovava di fronte la lastra vergine in cui tutto, dal pentagramma aogni segno di pausa, doveva essere inciso. Un buon incisore doveva stabilire, innanzi tut-to, in base al manoscritto dell’autore, quanti pentagrammi avrebbe potuto contenere cia-scuna lastra e dove sistemare la voltata di pagina. Occorrevano occhio ed esperienza, per-ché il numero dei pentagrammi poteva dipendere, per esempio, dall’andamento musica-le, nel senso che più note acute o gravi fuori dal rigo erano scritte in partitura, più spa-zio era necessario fra un pentagramma e l’altro. Loro lo chiamavano «mettere in pagina»ossia impaginare. La bravura di un incisore si rivelava soprattutto nell’abilità di creareuna battuta armoniosa, perché la buona spaziatura della scrittura musicale facilita in ma-niera essenziale la lettura. L’impaginazione, che ovviamente era la prima cosa da fare, ve-niva realizzata con molta cura perché un errore significava buttar via la lastra. Correggerele lastre era un lavoro molto faticoso. Per correggere un segno inciso bisognava ribatte-re punto per punto la lastra sul retro con un punzone e un martelletto in modo che ilpiombo salisse di nuovo e la superficie tornasse a essere pronta per un nuovo segno.L’incisione era un lavoro difficile, ma molto interessante. Nello stanzone regnava un re-ligioso silenzio. Nessuno parlava perché il lavoro richiedeva la massima concentrazione.Si sentiva soltanto il battito dei martelletti, tic tic, ogni segno un colpo. Le legature inve-ce venivano eseguite a mano incidendo direttamente la lastra con un bulino. Occorrevamolta abilità per ingrossare o snellire una curva a mano libera. Era un’arte che andavaoltre la capacità professionale. La maggior parte dei ragazzini presi come apprendisti al-la Ricordi veniva dai Martinitt (gli orfanelli milanesi), come il padre del noto autore dicanzoni Mogol, per esempio. Si chiamava Mariano Rapetti, era un uomo molto simpati-co e aveva cominciato alla Ricordi come incisore, salendo poi i gradini della carriera fi-no a diventare direttore delle edizioni di musica leggera. Era una generazione di perso-ne serie e in gamba. Ho conosciuto bene l’ultimo caporeparto degli incisori, GiovanniRiccardi, un grande artigiano, fiero del suo lavoro. Quando cominciò a svilupparsi la tec-nica digitale per la composizione, con la diffusione del computer, mi affrettai a metterloin guardia per tempo. L’incisione finirà, gli dissi, perché è un sistema troppo costoso elento. Il computer soppianterà l’incisione a mano. Riccardi fu di una chiusura radicale.Non ne volle mai sentir parlare. Visse l’inevitabile trasformazione del sistema produttivocome un tradimento. Quando cercavo di tornare sull’argomento rispondeva in manieracategorica: «Il giorno in cui nessuno vorrà più incidere a mano, smetterò di lavorare». Ecosì è stato. Riccardi sosteneva, e credo a ragione, che la bellezza, la morbidezza della pa-gina incisa, non potevano essere sostituite da nessuna macchina. Io stessa, benché fossi

33

Page 34: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

propensa in genere ad accogliere con favore le novità, rimasi molto perplessa vedendo iprimi risultati dell’impaginazione a computer. In alcuni programmi mancava addiritturala possibilità di incolonnare i valori. Bastava spostare una nota da destra a sinistra percreare una completa confusione nella partitura. Ma in breve tempo i software di scrittu-ra musicale raggiunsero l’attuale perfezione, risolvendo ogni genere di problema.

Il maestro Broussard

La musica contemporanea non veniva stampata con il sistema dell’incisione, salvo ra-re eccezioni. Per questi lavori si ricorreva invece a copisti a mano esterni. Oppure, nel-la maggior parte dei casi, si riproduceva l’autografo dell’autore con fotocopie, mentrei materiali d’orchestra erano copiati a mano. I compositori più sperimentali avevanointrodotto nella scrittura musicale una tale quantità di innovazioni, cercando di rag-giungere un’impossibile completezza di indicazioni musicali per l’esecutore, che il co-sto di incisione su lastra sarebbe risultato proibitivo per l’azienda. Alla Ricordi lavora-va il maestro Fausto Broussard, un bravissimo musicista, che aveva composto in gio-ventù anche notevoli brani per coro e vinto diversi concorsi. Broussard era la personapiù timida, introversa e modesta che abbia mai conosciuto. Si sentiva sempre inferio-re agli autori, i quali però si fidavano ciecamente della sua competenza. I compositorisi rivolgevano a lui per risolvere ogni problema per la preparazione dei materiali mu-sicali e avere un consiglio su particolari tecnici. Broussard affidava poi i lavori ai varicopisti, in base alle difficoltà del pezzo e alle caratteristiche di ciascun autore.

Sylvano Bussotti, per esempio, scriveva direttamente su lucido le sue partiture me-ravigliose, vere e proprie opere d’arte. Purtroppo siamo stati degli sciagurati con i suoiautografi, per motivi economici. Stampavamo in eliografia le partiture direttamente dalmanoscritto, facendo passare nelle macchine eliografiche questi gioielli, invece di ri-produrre gli autografi in pellicola, per farne delle copie. Una volta Bussotti venne a tro-varci e si accorse che i suoi autografi avevano gli angoli rovinati. Si inquietò moltissi-mo e li ritirò immediatamente. So che di recente sono state mandate al macero le co-pie stampate delle sue partiture, veri capolavori, una decisione vergognosa.

Il primo atto dell’editore, quando un autore consegnava un autografo, era di asse-gnare il numero di catalogo. Nel 1966, l’anno in cui ho assunto la direzione della pro-duzione musicale, il catalogo Ricordi aveva raggiunto quota 129.000. Appena ricevevoun nuovo lavoro mi affrettavo per prima cosa a inserire nei libroni del catalogo gene-rale la data di consegna, il titolo, eccetera. Era l’atto di nascita editoriale di una nuovaopera musicale. Una volta compiuta l’iscrizione, informavamo tutti gli uffici dell’in-gresso di un nuovo lavoro e cominciava la vita, per così dire, sociale di un’opera, ov-vero i contratti, la Siae, la stampa, la promozione, la diffusione.

34

Page 35: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Una parte importante del mio lavoro consisteva nella gestione delle ristampe, vale adire come e quando ristampare le centinaia di lavori del catalogo generale, controllan-do le eventuali correzioni da fare nelle matrici e la disponibilità della carta che faceva-mo fabbricare appositamente. C’era poi il problema delle copertine, e negli anni rea-lizzai un progetto per la loro modernizzazione.

Gli spartiti per canto e pianoforte delle opere, per esempio, venivano pubblicati an-che con il testo tradotto in inglese e in tedesco. Le traduzioni dei libretti, però, invec-chiavano presto e bisognava provvedere a una nuova edizione, che in genere veniva in-cisa a partire dalle vecchie lastre. Poi c’erano le edizioni didattiche, fra cui i famosi «Poz-zoli», che avevano una bella grafica di copertina, disegnata da Attilio Rossi, la collana dipartiturine di classici e i libretti d’opera. Ci fu poi il periodo felice quando fu introdottal’educazione musicale nella scuola media, con tutto il seguito di edizioni. Sembrava unavvio per l’insegnamento della musica nelle scuole, ma non si andò più in là.

Credo di avere introdotto qualche novità nel lavoro editoriale della Ricordi. Trattavoinfatti le edizioni musicali come se fossero normali libri e ho inserito la data di pub-blicazione. L’assenza della data nelle edizioni musicali aveva sempre costituito un gros-so problema nello stabilire l’esatta cronologia delle opere. Nella musica contempora-nea avevo fatto aggiungere, nelle pagine finali delle partiture, un breve profilo biogra-fico dell’autore, in tre lingue, utile nel caso di compositori meno conosciuti. La nuovamusica aveva inoltre bisogno di un apparato di spiegazioni dei segni interpretativi, avolte molto complesso e difficile da tradurre. Insomma, il periodo in cui ho lavoratoalla Ricordi è stato un’epoca di trasformazioni.

Il processo alla Ricordi

In quegli anni stavano avvenendo altri profondi mutamenti nel mondo dell’editoriamusicale. Un aspetto molto importante, che ha coinvolto direttamente la Ricordi, è sta-to l’avvento delle edizioni critiche. La necessità di rivedere con criteri filologici alcunicapisaldi del repertorio, logorati dalla routine e incrostati di tradizioni interpretativediscutibili, era nell’aria. Benché allora avessi un’idea piuttosto vaga di cosa significas-se un’edizione critica musicale, mi battei fin dall’inizio per rinnovare seriamente le edi-zioni classiche. Avevamo in catalogo delle buone (per l’epoca) revisioni, per esempioquelle di Attilio Brugnoli per Chopin e di Alfredo Casella per le Sonate di Beethoven,ma l’azienda faceva aggiornamenti maldestri, affidati a personaggi mediocri, invece dirinnovare in maniera seria l’edizione dei classici. Il primo tentativo di varare un’edi-zione critica risale al 1969, quando Alberto Zedda curò la pubblicazione del Barbieredi Siviglia, una delle opere più devastate dai rimaneggiamenti e dalle troppo libere tra-dizioni degli interpreti. Decidemmo di affrontare quel lavoro, che richiese diversi an-

35

Page 36: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ni, dopo che Zedda ci aveva mostrato quante differenze esistessero tra le versioni cor-renti di quest’opera popolarissima e l’autografo di Rossini. Col senno di poi è facileconstatare quanto fosse ingenuo quel primo tentativo e quanti difetti contenesse, co-me mise in evidenza un autorevole musicologo, Philip Gossett, ma quell’edizione eraun primo frutto di una nuova tendenza che si stava manifestando e che fu un punto dipartenza determinante per i futuri sviluppi dell’edizione critica. La pubblicazione del-la partitura e del commento critico del Barbiere coincise con la splendida rappresen-tazione scaligera dell’opera nella celebre edizione diretta da Claudio con la regia diJean-Pierre Ponnelle.

Di certo questi due avvenimenti determinarono il risveglio della Fondazione Rossinidi Pesaro e il successivo inizio delle edizioni critiche di Rossini.

C’era stato però un episodio importante a monte, un vero e proprio scandalo, cheaveva fatto capire la necessità di un approccio editoriale diverso ai testi del repertorio.Un direttore d’orchestra australiano, Denis Vaughan, aveva chiesto di consultare l’au-tografo della Traviata. Le chiavi del caveau, dove erano conservati gli autografi di Verdie di Puccini e di tutti i compositori precedenti, coevi e contemporanei pubblicati daRicordi, erano affidate allora (poi passarono al maestro Broussard e a me) al vecchiomaestro Raffaele Tenaglia, che aveva conosciuto Puccini e girava ancora con un grancravattone di seta. Tenaglia era un uomo all’antica, gelosissimo delle sue prerogative diconservatore. Quando Vaughan, dopo aver consultato l’autografo della Traviata, de-nunciò le discrepanze con la partitura stampata, Tenaglia, furibondo e spaventato, sirifiutò di concedergli ancora la consultazione dell’autografo. Le discrepanze consiste-vano ad esempio nell’estensione delle indicazioni della dinamica assegnata a uno stru-mento a tutti gli altri dell’orchestra, senza segnalare l’intervento. In base alle sue ana-lisi, Vaughan pubblicò un articolo dove sosteneva che l’edizione Ricordi contenevanientemeno che 10.000 errori! L’articolo provocò un terremoto, com’è facile immagi-nare. Il maestro Tenaglia, anziché parlare direttamente con Vaughan per spiegare qua-li erano i criteri editoriali in uso da Ricordi, che aveva pubblicato le partiture con lasupervisione dell’autore, ebbe una reazione violentemente aggressiva. Naturalmente cifurono proteste e la polemica si gonfiò. La Ricordi venne accusata di aver travisatoVerdi e di aver falsificato le partiture. Lo scandalo culminò in una sorta di processopubblico, organizzato al Conservatorio, proprio per sostenere le ragioni dell’editore.La difesa era affidata a Flavio Testi, mentre il critico Giulio Confalonieri presiedeva ildibattito. C’era anche una piccola giuria, della quale faceva parte anche mio padre. Laserata si concluse con un totale insuccesso, a causa dell’arroganza nazionalistica diConfalonieri e dell’incapacità di Testi di argomentare con calma le proprie tesi.Vaughan, invece, che parlava un ottimo italiano, mantenne con pacatezza il suo puntoe risultò il vincitore morale dell’incontro. Questo scandalo però, benché largamente in-fondato, suonò come un campanello d’allarme e spinse la Ricordi a considerare con

36

Page 37: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

maggior attenzione la necessità di un serio approccio filologico. L’impresa non erasemplice. La prima difficoltà consisteva nel formulare dei criteri scientifici rigorosi.L’altro ostacolo era rappresentato da una generazione di musicologi dotati di grandiqualità di scrittura e di pensiero, ma con poca o nulla dimestichezza con la musica.D’altro canto neppure i musicisti risultavano i più indicati per un lavoro del genere,perché mancava loro il necessario rigore della mentalità scientifica.

Resto dell’opinione che quella delle edizioni critiche fosse una strada che avrebbedovuto essere imboccata ben prima e con maggiore convinzione, come avevano fattoaltre case editrici, ad esempio la Henle, con le splendide edizioni Urtext dei classici. LaRicordi si è mossa soltanto con l’avvio delle edizioni critiche di Rossini, da sola per ilBarbiere, e in seguito in collaborazione con la Fondazione Rossini di Pesaro, e di quel-le di Verdi con la Chicago University Press. Direttore dei progetti era Philip Gossett,che si occupava appassionatamente di tutto, compresa l’incisione.

Una delle iniziative a cui sono più legata è stata l’edizione critica delle Sonate di Do-menico Scarlatti, a cura di Emilia Fadini, purtroppo ancora incompiuta. Un’impresaeditoriale storica, dal momento che le opere per tastiera di Scarlatti erano disponibiliin precedenza da Ricordi soltanto nella versione di Alessandro Longo, totalmente pri-va di conoscenza filologica. Per dire quanto fosse improba la fatica di ripristinare unalezione corretta delle Sonate, ricordo che all’inizio si era pensato di presentare la nuo-va edizione correggendo le vecchie lastre dell’edizione Longo. Ci accorgemmo benpresto che in realtà si trattava di una riscrittura e che la via migliore da percorrere erauna nuova incisione.

La svolta verso il nuovo

La famiglia Ricordi non era più da tempo proprietaria dell’azienda, manteneva soltan-to una quota minoritaria delle azioni della società.

I maggiori azionisti erano i fratelli Colombo, due signori di Varese che si manifesta-vano una volta all’anno, in occasione della riunione di bilancio. Uno rimaneva del tut-to muto, mentre l’altro si limitava a proferire un breve cenno di saluto. Questo era tut-to il loro apporto. Il nuovo amministratore delegato, Guido Rignano, era invece un uo-mo intelligente e accorto, ambizioso e furbo. Nessuno avrebbe immaginato che dopoaver lavorato per lunghi anni con successo all’allargamento delle attività della Ricordie allo sviluppo del settore editoriale, avrebbe consegnato tutto alla multinazionaleBertelsmann (Bmg). Nessuno in Italia denunciò questa vendita, che privava il paese inmaniera scandalosa della sua maggiore casa editrice musicale.

Bisogna riconoscere a Rignano di essere stato favorevole al nuovo e aperto alla mu-sica contemporanea. Ricordo ancora il giorno in cui mi disse, mentre eravamo in coda

37

Page 38: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

alla mensa, di aver invitato fra gli autori Luigi Nono. Sapeva che la notizia mi avrebbefatto piacere. In precedenza, prima della venuta di Rignano, avevo tentato inutilmen-te di far venire alla Ricordi un gruppo di giovani autori tra i quali Bruno Maderna,Luciano Berio e Franco Donatoni. Il progetto non costituiva un grande onere per l’a-zienda, ma Eugenio Clausetti, allora amministratore delegato, lo aveva respinto in ma-niera decisa, perché era convinto che quella musica non avesse un futuro. Io invececredevo in maniera appassionata nella musica contemporanea. L’inventiva di quei gio-vani compositori, che conoscevo e ammiravo, mi induceva a schierarmi dalla loro par-te, senza riserve. Tutto ciò che era nuovo mi colpiva e mi entusiasmava. Ero ardente-mente convinta della necessità di rinnovare le forme espressive della musica e dell’ar-te in generale. Ancora adesso spero sempre di trovare in un nuovo lavoro un’emozio-ne fresca e coinvolgente, per quanto sappia perfettamente che il tentativo di dire qual-cosa di nuovo raramente ha successo e i capolavori non nascono tutti i giorni. Se nonci fosse stata questa molla, non credo che mi sarei occupata di tutto quello che ho fat-to nella vita di lavoro. Molti compositori erano amici e colleghi di Marcello e frequen-tavano casa nostra. Ero incantata dal mondo della nuova musica. Il Festival di MusicaContemporanea di Venezia era il punto d’incontro più importante, oltre che la mi-gliore occasione per ascoltare le novità di giovani artisti. Mi attraevano anche i musi-cologi come Mario Bortolotto e Mario Messinis e sentivo il desiderio di conoscerli, diparlare con loro. Milano era allora chiusa a queste nuove forme espressive. Le pocheiniziative esistenti, come gli «Incontri Musicali», organizzati da Berio in Conservatorio,raccoglievano un pubblico sparuto, a volte formato da non più di venti persone.

Fautrice com’ero della musica contemporanea, considerai l’acquisizione di Nono unpasso importante per la Ricordi. Nel frattempo, la situazione stava cambiando e l’in-gresso di nuovi autori portò a trasformare anche la politica artistica della casa editrice.Con Nono entrarono in Casa Ricordi anche Giacomo Manzoni, Niccolò Castiglioni,Franco Donatoni, Sylvano Bussotti e altri, incluso un giovanissimo Salvatore Sciarrino,poco più che ventenne, che arrivò nel 1969. Le scelte erano compiute da un comitatoartistico formato da Mimma Guastoni e da me, con una serie di consulenti per ciascunsettore: Francesco Degrada per la musica antica, Armando Gentilucci per la musicacontemporanea, Riccardo Allorto per le edizioni didattiche. Le registrazioni eranoscarse, i dischi ancor più rari. Per valutare gli autori più giovani ci rimettevamo so-prattutto all’esperienza e alla competenza di Gentilucci.

Sous le pavé la plage

Il ’68 non l’ho vissuto direttamente, avevo altri problemi di vita e di famiglia. La con-testazione mi ha lasciato l’impressione di una forza non ben incanalata. Senz’altro c’e-

38

Page 39: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ra molto da riformare, ma non passando attraverso una distruzione. La Ricordi non harisentito in maniera particolare di quel periodo. Tutto è rimasto circoscritto all’ambi-to delle normali rivendicazioni sindacali, che io ho vissuto prima dalla parte dei lavo-ratori e in seguito da quella dei dirigenti. Avendo conosciuto per esperienza personalei problemi dei lavoratori, il mio cuore è sempre rimasto vicino a loro, benché non par-tecipassi più agli scioperi. I dipendenti comunque si trovavano abbastanza bene, nonmi pare ci siano mai state tensioni esasperate. La Ricordi aveva una tradizione piutto-sto paternalista, che nel tempo si è andata affievolendo. A Natale si teneva la festaaziendale, dove non mancava mai un regalo per i bambini dei dipendenti. Queste fe-ste, questi gesti, peraltro graditi dai lavoratori e dagli impiegati, manifestavano l’esi-stenza di un buon rapporto.

Ho avuto parecchie occasioni di constatare il rapporto affettivo fra la Ricordi eMilano. Persino quando gli stabilimenti di viale Campania erano stati distrutti daibombardamenti, il noleggio dei materiali musicali non si è interrotto grazie alla buonavolontà di un vecchio dipendente, che teneva aperto una specie di spaccio nella porti-neria di via Berchet, la sede centrale, a due passi dal Duomo.

Mio fratello Claudio venne nominato direttore musicale del Teatro alla Scala nel ’68,ma vi aveva già lavorato. Mi ricordo che il suo primo concerto, nel 1965, comprende-va la Seconda Sinfonia di Mahler che avrebbe dovuto dirigere subito dopo a Salisburgo.Per noi della famiglia questo incarico rappresentava una sorta di evoluzione naturaledel rapporto fra Claudio e la Scala. Conoscevamo Claudio, le sue doti, la sua capacitàdi formulare programmi, le sue idee sulla musica e perciò a noi la sua nomina appari-va semplicemente una cosa giusta. Claudio ha sempre avuto una idea chiara e una vi-sione precisa dei suoi obiettivi. L’idea dei cicli e dei festival, sviluppata in seguito an-che a Vienna e a Berlino, era una delle sue più radicate convinzioni. I suoi programmierano concepiti secondo un progetto culturale, termine oggi forse un po’ desueto, mache serviva a chiarire al pubblico che cosa si voleva fare. Un programma di musichepur bellissime non lascia molto nella coscienza dell’ascoltatore, se le opere rimangonoslegate fra loro. Ho imparato molto osservando Claudio e il suo modo di lavorare. Lapresenza di un uomo di teatro come Paolo Grassi, nel ruolo di sovrintendente, è statafondamentale per imprimere un nuovo corso alla Scala, e anche quella di registi comeGiorgio Strehler. Della sua collaborazione con Claudio alla Scala si ricorda sempre ilSimon Boccanegra, ma mi sembra giusto sottolineare che avevano creato insieme spet-tacoli pieni di fantasia, come ad esempio Macbeth e un’insuperabile edizione dell’Amo-re delle tre melarance di Sergej Prokof’ev.

39

Page 40: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Qualche ritratto

Luigi Nono mi incuteva un profondo senso di rispetto e di ammirazione. Mi sentivoinadeguata di fronte a lui, rimanevo bloccata. Non ho mai sentito con lui la confiden-za che c’è stata invece con Berio, per esempio, benché lo vedessi abbastanza spesso siaa Milano sia in Sardegna, dove aveva una casa vicino a quella di Claudio. Nono miprendeva molto in giro, ma io lo capivo sempre un minuto dopo. Aveva un enorme ca-risma, soprattutto la capacità di guardare oltre il proprio tempo. L’avevo conosciuto incasa di Giacomo Manzoni, all’epoca in cui Nono aveva firmato il contratto con laRicordi, nei primi anni Sessanta. Nono era molto amico di Claudio e di Maurizio Pol-lini. Lo conoscevo più attraverso i racconti di Claudio che direttamente, ma in segui-to ebbi molte occasioni di incontrarlo, quando arrivò alla Ricordi. Mi telefonava qual-che giorno prima da Venezia e poi veniva a consegnare il nuovo lavoro. Mentre la mag-gior parte dei compositori si serviva dei lucidi preparati da noi per scrivere la musica,Nono usava della normale carta da musica stampata, spesso incollando due fogli unosopra l’altro. Era ordinato e preciso nella preparazione della partitura. Parlava moltocon il maestro Broussard per spiegare come desiderava fossero preparate le parti e perdiscutere le varie richieste tecniche. Consegnava il lavoro in modo abbastanza pun-tuale, cosa assai rara fra gli autori. Dopo la sua scomparsa e la formazione di un comi-tato per la stampa delle sue opere, ci dedicammo, i musicologi e io, alla pubblicazionedelle sue edizioni critiche, che uscirono con le splendide copertine che Emilio Vedova,generosamente e con una passione che nasceva dalla lunga amicizia con Nono, avevaappositamente studiato e dipinto.

Con la moglie di Nono, Nuria Schoenberg, ho sempre avuto un rapporto affettuo-sissimo. Ammiro molto Nuria per il rigore e la passione che mette nel suo lavoro.Nessuno avrebbe immaginato, quando scomparve Nono, con quali eccezionali risulta-ti sarebbe stata capace di conservare e far vivere il suo lascito artistico e intellettuale.Gigi è morto nella casa dei genitori, proprio davanti alla Giudecca. Nuria in quel pe-riodo stava lavorando negli Stati Uniti a un monumentale volume su suo padre, ArnoldSchönberg, un libro molto complesso dal punto di vista editoriale e difficilissimo daimpaginare. Quando seppe che la malattia di Gigi si era aggravata, lasciò immediata-mente il lavoro e corse a Venezia. Dopo la sua scomparsa, Nuria si occupò di sistema-re la montagna di libri, di carte, di musiche lasciate. Nel giro di pochi anni, Nuria èriuscita a trovare a Venezia una sistemazione degna per l’Archivio Luigi Nono, che conil tempo è stato organizzato in maniera impeccabile e oggi offre a moltissimi studiosi emusicisti di tutto il mondo la possibilità di studiare la musica di Nono con gli stru-menti migliori e i documenti originali.

Ho conosciuto Franco Donatoni da ragazza. Era amico di Marcello e qualche volta ve-

40

Page 41: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

niva a casa nostra. Era insicuro e sembrava infelice. Veniva da Verona e pareva risen-tire delle sue origini. Nella sua famiglia c’era un’atmosfera tesa e litigiosa, che gli pro-curava un tormento profondo. Da giovane era piuttosto goffo, viveva con pochi mez-zi e soffriva la mancanza di radici solide e di studi classici importanti. Si sentiva in qual-che maniera inferiore, ma grazie alla sua enorme intelligenza riuscì presto a crearsi unsuo mondo. Anche come compositore, all’inizio, non aveva fiducia in se stesso, tant’èvero che gli sembrò strano che un suo Quartetto avesse vinto un concorso di compo-sizione a Bruxelles. Ha lavorato moltissimo e faticosamente per mandare avanti la fa-miglia. Dopo il matrimonio e la nascita dei suoi due bambini, faceva letteralmente ditutto, dalle trascrizioni per canto e pianoforte delle opere di Dallapiccola per SuviniZerboni, alla correzione di bozze per Ricordi. Scriveva anche le note di copertina deidischi Ricordi, finché un giorno successe un guaio.

Gli venne chiesto di presentare le Fontane di Roma di Ottorino Respighi e lui scris-se un testo che era in realtà una feroce stroncatura. Il capo redattore dei dischi Ricordi,con molta leggerezza, pubblicò il testo così come gli era stato consegnato, senza nem-meno leggerlo. La vedova di Respighi, donna Elsa, invece, lesse tutto e telefonò aValcarenghi protestando e chiedendo la testa di Donatoni. Valcarenghi chiamò me, sa-pendo che ero sua amica e mi disse: «Quest’uomo non deve più metter piede qui den-tro». Tutto quel che riuscii a ottenere fu che continuasse a lavorare per noi esterna-mente. In quel periodo Franco lavorava all’Enciclopedia Ricordi, diretta da ClaudioSartori. Andai all’ultimo piano, dov’era sistemata la redazione, in uno stanzone caldis-simo d’estate e gli comunicai l’ostracismo della direzione. Ci mettemmo d’accordo, co-munque, per la sua collaborazione da casa. Conservo ancora un quaderno dove se-gnavo i pagamenti dei suoi lavori, per esempio la correzione delle bozze di libri sul jazze cose del genere. Fu un momento molto difficile e delicato, perché mi sembrava unacosa terribile che una mente come la sua fosse costretta a barcamenarsi così, benchéritenessi che quella volta se la fosse proprio cercata. Donna Elsa era terribile, quandosi toccava la musica del marito. Una volta fece licenziare un intero gruppo d’ascoltodella Rai. Allora la radio aveva nove punti d’ascolto, con una serie di musicisti che ave-vano il compito di ascoltare le trasmissioni e di segnalare immediatamente qualunquetipo di incidente. Una sera venne trasmessa un’opera di Respighi, registrata in teatro.Per errore durante il montaggio era rimasto inciso anche un pezzo delle prove, dove sisentiva il direttore d’orchestra sbraitare in modo poco urbano, che andò in onda.L’indomani donna Elsa telefonò alla Rai, chiese il licenziamento di tutto il gruppo, nelquale c’era anche Piero Santi, perché nessuno di loro in realtà aveva ascoltato la tra-smissione e segnalato l’incidente. Sono aneddoti, però indicano anche il clima in cui silavorava.

Attorno al Piccolo Teatro si era formata una cerchia ristretta di musicisti, tra i quali

41

Page 42: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Gino Negri, Fiorenzo Carpi e Giacomo Manzoni. Collaboravano alle rappresentazio-ni, scrivendo le musiche o suonando il pianoforte. Credo che Gino Negri venga ap-prezzato di più adesso come autore. Era un eccellente cabarettista. Lo ricordo al Tea-tro Gerolamo, teatrino minuscolo ma delizioso, da cento posti, perfettamente adatto alui, così minuto. Cantava con la sua voce dalla «r» particolare, accompagnandosi condue pianoforti verticali disposti ad angolo retto che suonava stando in piedi. In partefaceva ridere, in parte metteva paura. I testi delle sue canzoni erano dissacranti, se laprendeva con il Papa, con tutto quello che era conformista. La sua musica però erastrettamente tonale e in quei momenti di ribellione, nei quali si lottava per il cambia-mento, nemmeno per lui c’era posto. Ripensando a quel periodo, bisogna ammettereche chi lottava per la nuova musica aveva un atteggiamento radicale di chiusura versotutto il resto: o quello o niente. Chi la pensava in modo diverso veniva un po’ emargi-nato. Ma bisogna anche comprendere qual era la situazione. Come ho già detto, tuttociò che costituiva la ricerca del nuovo ci attirava fortemente. A me sembrava che quel-lo fosse l’unico modo di smuovere le acque e di costruire qualcosa per il futuro. Nonè che non ascoltassi o non apprezzassi anche il resto, ma mi sembrava una musica fa-cile, comoda, con meno cose da dire. Autori come Francis Poulenc o Benjamin Britten,per paradosso, mi interessano di più adesso, e oggi mi sembra di scoprire nella loromusica certi aspetti che allora non avvertivo.

Ogni volta che venivano eseguiti pezzi nuovi, ciascuno di noi sperava che fossero ca-polavori e cercavamo in ogni modo di sostenerli, anche perché spesso venivano conte-stati da una parte del pubblico.

Considero una fortuna il fatto di aver vissuto abbastanza da riascoltare certe musi-che di quell’epoca con altre orecchie. Oggi mi sento maggiormente consapevole diquel che ascolto. Se ti piace qualcosa, ti piace davvero. Allora invece, l’atteggiamentomilitante contava di più, e si considerava tutto quel che era d’avanguardia buono apriori, perché nuovo. Non sempre ci piaceva quel che ascoltavamo, ma non eravamodisposti a riconoscerlo. Ciò non significa che avessi un atteggiamento falso, bensì te-stimonia quale fosse la nostra fede, la nostra fiducia irriducibile nel valore del nuovo.Eravamo convinti che quella fosse la strada giusta e resto dell’opinione che in sostan-za avessimo ragione. Oggi, tramontato il periodo di sperimentazione, e ritornati giu-stamente al piacere del suono, ci rendiamo conto che questo tipo di musica ha co-munque impresso una spinta in avanti indispensabile, di cui tutti si sono giovati se-condo la propria sensibilità. Se non ci fosse stato quel rivolgimento, non so come sa-rebbe la musica oggi. Anche gli autori in apparenza più lontani dal mondo della nuo-va musica, sono stati influenzati da un periodo così fertile. Non si cancella un feno-meno tanto ampio e incisivo come la musica del secondo Novecento.

42

Page 43: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

«Musica nel nostro tempo»

Verso la metà degli anni Settanta, un gruppo di musicisti e intellettuali milanesi, tra iquali Giacomo Manzoni, Maurizio Pollini, Piero Santi e Claudio, aveva cominciato aragionare su cosa si poteva fare per dare slancio alla vita culturale della città. AnchePaolo Grassi, sovrintendente della Scala, era particolarmente interessato. Manzoni miannunciò che il nuovo assessore alla Cultura della Provincia, Novella Sansoni, avevaintenzione di organizzare una rassegna musicale e stava cercando una persona per co-ordinare il progetto. Era stato fatto il mio nome per quell’incarico. Novella Sansoni eraun’esponente del Pci, che nel 1975 costituiva il partito di maggioranza nella giunta del-la Provincia di Milano, avendo appena vinto le elezioni amministrative. Aspettavo latelefonata di chiamata, perché la proposta mi interessava moltissimo e avevo una granvoglia di sperimentare nuove attività. Conoscevo bene l’editoria e alcuni problemi del-l’organizzazione musicale, ma tanti aspetti mi erano sconosciuti. Ricevetti l’incarico.Novella mi chiamò e passò subito a dettagli concreti. Dava molta importanza all’a-spetto grafico dei programmi. Mi disse che nella locandina si sarebbe dovuto dare piùspazio agli autori e meno agli interpreti, mentre di norma il rapporto era inverso. Cifurono vari incontri per discutere i particolari e i modi di lavoro. Grassi avrebbe volu-to che fosse la Scala a organizzare la manifestazione, ma la maggior parte dei sosteni-tori del progetto insisteva per lasciare la rassegna nelle mani di un’amministrazionepubblica. Ricordo la riunione in casa di Grassi, quando gli fu riferito che sarebbe sta-ta Novella Sansoni a occuparsi di «Musica nel nostro tempo». «Beh, proviamo questaSansoni…», commentò a denti stretti. Il comitato artistico era formato da varie perso-ne. In primo luogo vi partecipavano i direttori artistici delle quattro orchestre milane-si, ovvero quelle della Scala, della Rai, dei Pomeriggi Musicali e dell’Angelicum. L’ideadi coinvolgere direttamente queste istituzioni era stata geniale. Ciascuna di loro offri-va un concerto, cosa che riduceva immediatamente il costo complessivo della stagione.La Provincia integrava il bilancio della manifestazione con 300 milioni di lire all’anno,con i quali si pagavano tutti gli altri concerti. Oltre ai direttori artistici delle orchestre,facevano parte del comitato artistico musicologi, professori dell’Università e persona-lità del mondo musicale. Il mio compito consisteva nell’ascoltare quel che veniva det-to durante le riunioni che organizzavo con regolarità, nel prender nota delle varie pro-poste e coordinare il lavoro. Per me è stata una grande opportunità. Ascoltando gran-di direttori artistici, come ad esempio Francesco Siciliani e altri, ho imparato come sicrea un programma e quali sono i meccanismi che stanno dietro un cartellone di con-certi. Anche Maurizio Pollini si occupava dei programmi. Ricordo pomeriggi interi tra-scorsi con lui a ripassare tutta la produzione della scuola di Vienna, pensando a qualipezzi eseguire e a come si potessero combinare. Io prendevo nota su un quaderno e misentivo fortunata. Quell’esperienza mi ha dato la possibilità di conoscere tanti punti di

43

Page 44: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

vista sulla musica, tanti repertori, tanta musica nuova. Era una grande apertura cultu-rale. L’idea di fondo di «Musica nel nostro tempo» consisteva nel presentare non solola musica nuova del Novecento, ma anche ogni tendenza che nella storia della musicaavesse manifestato caratteristiche innovative e spirito di ricerca. Non la musica diMendelssohn o di Brahms, bensì quella di Schumann, per esempio. Questa imposta-zione «progressiva» era un approccio nuovo e diverso all’attività concertistica.

Il mio impegno in questa organizzazione musicale in seguito mi ha attirato diversecritiche, dal momento che tutti sospettavano dei favoritismi verso gli autori dellaRicordi. Erano critiche infondate, perché non ho mai scelto un programma di «Musicanel nostro tempo». Mi limitavo a eseguire un compito di coordinatrice per realizzareidee di altri.

Il primo concerto, nella Sala Verdi del Conservatorio, riscosse un successo clamo-roso e dimostrò che il pubblico sentiva la necessità di scoprire cose nuove.

Verso una nuova avventura

Ho lavorato alla Ricordi per trentaquattro anni e ho assistito alla trasformazione siadelle tecniche editoriali, sia dell’atteggiamento della dirigenza verso le nuove produ-zioni. Ci sono state anche delle incertezze nel fare determinate scelte; per quanto amas-si il mio lavoro, questo alla fine mi ha stancata e un po’ allontanata. Così, dentro di mea poco a poco è maturata la decisione di lasciare l’azienda, una volta raggiunta l’età del-la pensione, cosa che è avvenuta nel giugno del 1992. È stata una separazione senzatraumi, al contrario, tanto è vero che la persona chiamata a prendere il mio posto, ilmusicologo Gabriele Dotto, era stato portato alla Ricordi proprio da me, molti anniprima.

Smettere di lavorare alla Ricordi è stata una grande liberazione. Allevata alla scuolaseria e disciplinata di mio padre, avevo sempre accettato le decisioni della casa editri-ce, anche quando contrastavano con il mio punto di vista. Nel momento in cui l’ho la-sciata, mi sono sentita finalmente libera. Libera soprattutto di dedicarmi a un nuovolavoro che mi appassionava e che richiedeva molto tempo, la fondazione dell’associa-zione Milano Musica. Avevo sentito che era terminato un ciclo della mia vita, peraltromolto lungo, e non immaginavo che potesse suscitare in me quel sentimento di libera-zione: diventare completamente responsabile, fino in fondo, soltanto delle mie azioni.

All’origine di Milano Musica non ci fu un desiderio di rivincita, dopo che il gruppostorico di «Musica nel nostro tempo» era stato liquidato in maniera scortese dalla nuo-va amministrazione della Provincia. In principio si trattò esclusivamente di un fattopratico. Quando venimmo congedati, avevo in corso un progetto con Pierre Boulez,che ovviamente era stato programmato con largo anticipo. Dalla direzione artistica ap-

44

Page 45: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

pena insediata, nessuno mi chiese se avevo già qualcosa per la nuova stagione, dunquesi prospettava un’alternativa: disdire l’impegno con Boulez oppure condurre in portoil progetto in qualche altra maniera. Contattai il direttore del Centre Culturel Françaisdi Milano, Patrice Martinet. Nel frattempo avevo conosciuto Paolo Martelli, mecena-te, amico di Luciano Berio e della nuova musica. Potevo contare su altri sostenitori,come l’amministratore delegato della Banca Commerciale, Sergio Siglienti, appassio-nato di musica contemporanea. Riuscimmo, in definitiva, a mettere insieme varie ri-sorse e a trovare i fondi per organizzare la settimana «Boulez a Milano». Era il giugnodel 1990. Le due serate all’Ansaldo, dove era stato allestito lo spazio per l’esecuzionedi Répons, andarono al di là di ogni aspettativa. Avevamo preparato 500 sedie: do-vemmo sistemarne altre 500 per far fronte alla grande affluenza. Sulla scia di quel suc-cesso, ci rendemmo conto che esisteva ancora a Milano un pubblico interessato allamusica contemporanea, e ritenemmo che fosse un peccato disperderlo. Per questo mo-tivo decisi di tentare una nuova avventura e cominciai a coinvolgere varie persone nelprogetto di Milano Musica. Ho dovuto imparare a costruire e gestire la nuova asso-ciazione, presieduta da Paolo Martelli. Abbiamo ricevuto qualche contributo e nel1992 siamo riusciti a organizzare la prima edizione del Festival, dedicata a FrancoDonatoni. All’inizio l’intenzione era di mantenere una cadenza biennale, ma abbiamocapito subito che era opportuno fare qualcosa ogni anno. Grazie all’aiuto della Scala,sono nati dunque i «Percorsi di musica d’oggi». Carlo Fontana, allora sovrintendente,ci mise a disposizione il Teatro Lirico per tenere alcuni concerti e da quel momentosiamo riusciti a produrre ogni anno un festival.

Abbiamo cominciato con Franco Donatoni perché era molto popolare a Milano.Ritenevo che potesse interessare maggiormente una figura familiare, amata come mu-sicista e come persona. La monografia successiva è stata dedicata a Edgard Varèse, nel1994. Mi era apparso sempre più chiaro quanto la musica di Varèse, ancora non mol-to eseguita, fosse stata una fonte fondamentale per tanti autori del secondo Novecento.Poi è stata la volta di Luciano Berio nel 1996 e di György Kurtág nel 1998. Ricordo lediscussioni sul nome di Kurtág, che era un compositore conosciuto poco e male. In-vece quell’edizione ebbe un successo enorme. Kurtág tenne lezioni memorabili, nonsulla sua musica, ma su un repertorio cameristico di autori come Schubert e Schu-mann. Poi via via sono seguiti gli altri ritratti.

Confesso di aver sempre avuto presente la linea artistica di «Musica nel nostro tem-po». Speravo di aver imparato la lezione, dopo tredici anni di lavoro a fianco di illustrimusicologi e direttori artistici. Naturalmente «Musica nel nostro tempo» era struttu-rata come una stagione concertistica, mentre Milano Musica organizza un festival chedura circa un mese e mezzo. La decisione era stata presa da Carlo Fontana, una sera acasa di Giacomo Manzoni. Sono comunque convinta che Milano Musica abbia porta-to idee nuove, come ad esempio il largo spazio dato alla musica elettronica, strumen-

45

Page 46: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

to fondamentale nella musica delle nuove generazioni. Con l’aiuto di un comitato arti-stico abbiamo approfondito nuove tendenze, come quella – molto importante – che le-ga l’immagine ai nuovi linguaggi.

Le circostanze sono cambiate, soprattutto riguardo alle abitudini dell’uditorio, manella sostanza ritengo che il nostro pubblico di oggi provenga, almeno in parte, dall’e-sperienza di «Musica nel nostro tempo», che ormai è ricordata a Milano come un mo-mento unico e magico. C’è di certo una continuità nelle due manifestazioni, in quantoentrambe sono animate dallo stesso desiderio di far conoscere i nuovi sviluppi della ri-cerca musicale.

Il futuro

Il mio futuro sono i figli: Claudio e Andrea Pestalozza, che sono il dono più preziosodella mia vita. Sono molto grata per quello che mi hanno insegnato. Non desidero dirmolto, perché ogni parola può avere varie interpretazioni. Posso dire di avere un buonrapporto con loro, anche se il cammino è stato lungo e complicato.

Per il resto, oggi mi sento forse meno ottimista. Milano sta attraversando un mo-mento di crisi, come tutta l’Italia. Viviamo un periodo di approssimazione, di incon-

46

Andrea Pestalozza.

Page 47: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

sapevolezza, di distorsioni, di ignoranza che peggiora ogni giorno di più. La mancan-za di un insegnamento della musica nelle scuole ha prodotto un disastro al quale nes-sun governo, né di destra, né di sinistra, ha tentato di mettere riparo. Ed è sorpren-dente che, malgrado lo sfacelo della cultura musicale, l’interesse per la musica non sisia spento. Ma non rallegriamoci troppo delle pur molte eccezioni. La maggior partedegli italiani non sa nemmeno cosa sia la musica cosiddetta classica. Non direi che loStato, e neppure i sindaci e le amministrazioni comunali delle città, abbiano aiutatomolto la cultura. Non condivido però le critiche di chi ritiene Milano un malato incu-rabile, dal punto di vista culturale. La presenza di un gran numero di iniziative, dovu-te alla buona volontà di singole persone, la rende una città tuttora interessante. Milanoresta una città ricca di stimoli, che dobbiamo cercare di sviluppare.

In generale, quello che mi preoccupa è la mancanza di chiarezza. Assisto sbalorditaalla confusione nel linguaggio, al continuo stravolgimento del significato delle parole.Per rimanere in ambito musicale, un tempo nella definizione di musica contempora-nea si comprendeva la tendenza alla ricerca e alla sperimentazione, poi si è comincia-to a definire contemporanea qualsiasi forma d’espressione musicale che appartenesse

47

Claudio Pestalozza.

Page 48: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

48

al nostro tempo. Allora si è passati a definire questo tipo di ricerca come musica d’ar-te, ma adesso si tende a chiamare musica d’arte anche il rock, il jazz e la canzone d’au-tore. Nutro il massimo rispetto per questi generi musicali, per il talento e la professio-nalità degli autori di tante belle canzoni, quelle che restano nel cuore e accompagnanole nostre vite. Ma questo continuo slittamento del senso delle parole mi inquieta, nel-la musica e non solo. Più che di una trasformazione, parlerei di un tradimento del sen-so delle parole. Ritengo giusto e indispensabile distinguere dagli altri il lavoro di unmusicista che ha studiato a lungo e si è preparato in maniera approfondita. Non co-nosco un compositore di valore che non abbia alle spalle una grande preparazione euna seria cultura. Vale certamente anche per la pittura o per la letteratura, ma nellamusica il percorso di un aspirante autore mi sembra più impervio. L’abbondanza digiovani musicisti mi dà invece una grande gioia. Spesso sento affermare che la musicacontemporanea è morta, che non interessa più a nessuno. Al contrario, vedo molti gio-vani con una solida preparazione, in grado di affrontare un’attività impegnativa comescrivere una partitura. Indipendentemente dal risultato, buono o mediocre, penso allaloro fatica e al loro impegno. A volte mi paiono votati al martirio, ma loro credono inquello che fanno e mi sembra che abbiano qualcosa di speciale. La musica non mori-rà, almeno su questo non ho dubbi.

Page 49: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Milano e la musica

49

Page 50: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

50

Page 51: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Claudio AbbadoTestimonianza raccolta da Angela Ida De Benedictis

e Vincenzina Caterina Ottomano

La città di Milano è innanzitutto legata ai miei ricordi di infanzia, una città filtrata da-gli occhi di un bambino che si apre per la prima volta alla bellezza della musica e del-la cultura. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia dove si respirava da sempremusica: è una vocazione familiare. Mio padre Michelangelo, violinista, suonava in triocol pianista Carlo Vidusso e il violoncellista Gilberto Crepax, mentre mia madre, chesuonava il pianoforte, ci dava i primi rudimenti di musica. I Trii di Schubert, Brahmse Beethoven sono davvero i primi ricordi che ho della mia infanzia. Ho cominciato astudiare musica a sette anni, e alla stessa età, dal loggione della Scala, ho ascoltato perla prima volta i Nocturnes di Debussy. La magia straordinaria di quei suoni non mi hapiù abbandonato: da quel momento, ho sognato di ricrearla anch’io!

Ricordo, in particolare, che a dieci anni ero letteralmente «impazzito» per Béla Bar-tók. E quando tornavo da scuola, con un gessetto preso in classe, scrivevo sul muro dicasa in via Fogazzaro: VIVA BARTÓK. Era il 1943, si era in piena guerra, e i nazisti oc-cupavano Milano. Meno di un secolo prima, i giovani patrioti risorgimentali avevanoriempito i muri della città con VIVA VERDI, uno slogan politico in barba a Cecco Bep-pe. Forse la Gestapo pensò che anche dietro Bartók ci fosse qualche messaggio d’op-posizione, perché vennero dal portiere per chiedergli: «Ma chi l’ha scritto? E poi, chiè questo Bartók, un partigiano?». E invece Bartók era Béla Bartók, il grande composi-tore ungherese…

Ma quelli, a Milano, erano anche gli anni dei giochi e della spensieratezza, e mentremio padre e il suo trio si esercitavano, io e Guido Crepax, figlio di Gilberto, avevamoinventato il «Grande Gioco delle Battaglie»: Guido disegnava e realizzava i pezzi e icampi quadrettati su cui si muovevano navi, armamenti, soldati e altri personaggi.Stabilivamo le regole di movimento, che erano la cosa più importante oltre alla musi-ca, sempre in sottofondo. A volte c’era il jazz, molto amato da Guido, che sapeva imi-tare il suono della tromba accostando le mani alla bocca e «vocalizzando» al modo diArmstrong, Gillespie e Parker. Una delle battaglie predilette era quella sul lago gelatotra cavalieri teutonici e russi guidati da Alexandr Nevskij, e come nel film di Ejzensteinla nostra colonna sonora era proprio la cantata Alexandr Nevskij di Prokof’ev. Cia-scuna delle due schiere era formata da amici. Partecipavano Luisa, futura moglie diGuido, i nostri compagni di scuola e poi dell’università, e gli amici di Franco, fratellomaggiore di Guido. C’erano Emilio Tadini, Enzo Belli Nicoletti e altri: giornalisti, mu-sicisti, architetti, artisti tra cui Dario Fo, persone che sarebbero diventate tutte, cia-

51

Page 52: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

scuna a suo modo, rappresentanti della migliore Milano del dopoguerra, aperta e vivanel raccogliere stimoli e provocazioni culturali internazionali. Trascorrevamo giorni in-teri immersi nelle battaglie: pirati contro spagnoli nelle Antille, francesi contro inglesinella battaglia di Azencourt, quella di Pavia tra francesi e spagnoli, battaglie napoleo-niche, la Grande Guerra… Tutto era ripreso dalla storia vera, di cui però si poteva mo-dificare lo svolgimento: si partiva alla pari e vinceva l’uno o l’altro gruppo.

Vivere nella Milano del dopoguerra, e viverla dentro la musica, ha significato per meanche poter assistere alle prove di Arturo Toscanini alla Scala nel 1948, poter ascolta-re sotto la sua direzione musica di Schubert, Cajkovskij e i Quadri di un’esposizione diMusorgskij nell’orchestrazione di Ravel… Mi colpì la sua severità con gli strumentisti,ma quest’impressione di durezza quasi svanì quando lo incontrai privatamente qual-che tempo dopo. Mio padre aveva studiato con suo cognato, Enrico Polo, e mia ma-dre aveva avuto modo di incontrare qualche volta la moglie di Toscanini, la signoraCarla. Una volta, parlandole, mia madre accennò all’orchestra da camera in cui io al-l’epoca suonavo il pianoforte. Mi trovai così invitato a casa del Maestro dove eseguii ilConcerto in re minore di Bach (suonavo come solista e dirigevo). Lo ricordo ancoramentre, con i suoi occhi penetranti, mi diceva: «Avrai un grande successo»…

Da quel momento in poi capii che dovevo scegliere: contemporaneamente studiavoal Conservatorio di Milano pianoforte con Vincenzo Calace, composizione con GiulioCesare Paribeni e Bruno Bettinelli e direzione con Antonio Votto. Ancora prima di di-plomarmi, dirigevo un ensemble da camera chiamato i «Solisti di Milano» – formatoda giovani musicisti come Bruno Canino e Giulio Franzetti – dove a volte suonavo an-che come solista il piano o il cembalo. È con questo gruppo che avevo cominciato aprogrammare a Milano concerti dove venivano affiancati brani di repertorio a compo-sitori contemporanei come Bartók, Hindemith, Berg o Petrassi. Del resto, le possibili-tà di ascoltare composizioni contemporanee – a Milano come altrove – erano alloramolto rare, e noi eravamo giovani ed entusiasti, motivati da un sincero desiderio di sen-tire ed eseguire musica nuova. Ma l’esperienza della doppia attività di direttore ed ese-cutore non durò molto… a me piace approfondire le cose e ho preferito percorrereuna sola strada, quella del direttore d’orchestra. Così, negli anni Cinquanta mi sonospostato dalla mia città d’origine per studiare a Vienna con Hans Swarowski. Dopo ildiploma è arrivata quindi l’importantissima esperienza negli Stati Uniti con il primopremio al Concorso Mitropoulos, il lavoro a fianco di Leonard Bernstein e, infine, nel’64, l’invito esteso personalmente da Herbert von Karajan a dirigere per il Festival diSalisburgo con i Wiener Philharmoniker.

Sono ritornato a Milano in modo più o meno stabile a metà degli anni Sessanta. Nel1965 ho diretto la prima assoluta di Atomtod di Giacomo Manzoni sullo stesso podiodella Piccola Scala che, cinque anni prima, aveva ospitato il mio debutto con l’Orche-stra del teatro milanese (in quell’occasione, nel novembre del 1960, l’intero program-

52

Page 53: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ma era dedicato ad Alessandro Scarlatti in occasione del tricentenario della nascita).Erano anni di profondi cambiamenti nella società e nella vita politica e culturale diMilano, città che si trovava al crocevia dei fermenti e delle trasformazioni che avreb-bero inciso così tanto anche negli anni a venire. In quel generale clima di rinnovamentorientra anche la mia nomina a direttore musicale dell’Orchestra del Teatro alla Scala,proposta e sollecitata dagli stessi orchestrali, che accettai con entusiasmo e che segnòl’inizio di un’avventura durata quasi vent’anni.

Il clima all’interno del Piermarini era quello giusto e con l’aiuto di Antonio Ghirin-ghelli prima e di Paolo Grassi in seguito (con il quale nel 1972 assunsi anche la dire-zione musicale dell’intero teatro) incominciò una vera e propria stagione di rinnova-mento sia sul piano della programmazione teatrale e concertistica, sia su quello dellagestione della Scala. Innanzitutto, cominciammo a programmare le stagioni su basetriennale, proponendo veri e propri temi monografici; nel triennio 1969-71, per esem-pio, l’occasione del bicentenario della nascita di Beethoven ci spinse a proporre l’inte-grale sinfonica e sinfonico-corale del compositore. Ma amo ricordare anche nello stes-so periodo l’ideazione del «ciclo Mahler», che colmava una delle più grosse lacune delrepertorio scaligero. Lo stesso avvenne nel triennio successivo: io, Grassi e MassimoBogianckino presentammo in conferenza stampa l’intera attività sinfonica dal ’72 al ’74incentrata su Brahms, Bruckner, Bartók e Schönberg. I cittadini di Milano poteronocosì ascoltare per la prima volta in assoluto la Prima Sinfonia di Bruckner o musicheallora davvero poco note dei maggiori musicisti della seconda scuola viennese o dicompositori come Leós Janácek.

Era quello il momento giusto anche per promuovere le realtà musicali contempora-nee, per allargare e arricchire i cartelloni delle stagioni operistiche e concertistiche conil repertorio del Novecento storico e d’avanguardia. Oggi, come allora, sono convintoche eseguire la musica contemporanea sia non tanto un dovere quanto un processo na-turale, così come ai tempi di Beethoven si eseguiva la musica di Beethoven! Quindi, daquando ho incominciato a dirigere alla Scala ho aperto le porte a Boulez, a Stock-hausen, a Nono, a Berio, a Maderna e ad altri compositori allora giovanissimi comeSciarrino, Ferneyhough, Donatoni…

Anche per il pubblico e l’intera orchestra è stata un’esperienza importantissima: undiscorso aperto al moderno e contemporaneo ha creato un nuovo modo di ascoltare efare musica, testimoniato da un teatro sempre esaurito, anche nelle prime esecuzionidi opere contemporanee come Como una ola di fuerza y luz e Al gran sole carico d’a-more di Nono, Gruppen di Stockhausen, o insolite come il Prometeo di Skrjabin.

L’attenzione verso il pubblico ci portò anche a pensare alla Scala non più come a unteatro riservato alla sola élite milanese ma a concepire il nostro lavoro artistico comeaccessibile a tutti. Anche per questo nacque l’iniziativa di organizzare concerti per la-voratori e studenti, che ampliavano la programmazione tradizionale del teatro ripro-

53

Page 54: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ponendo, a prezzi notevolmente ridotti, concerti o opere del cartellone stagionale e of-frivano a un pubblico più ampio ed eterogeneo – solitamente escluso dalle sale teatra-li per ovvie ragioni economiche – le stesse opportunità di ascolto e di crescita cultura-le offerte agli habitués teatrali. Ma l’avvicinamento della Scala a queste nuove catego-rie di pubblico fu anche un avvicinamento, se si può dire, «fisico» e diretto ai diversicontesti sociali e alle realtà lavorative da cui questo pubblico proveniva: tramite unprogetto creato insieme alla Regione Lombardia – e parallelo ad altre attività che con-temporaneamente si sviluppavano in altre regioni come l’Emilia Romagna – portai l’or-chestra del Piermarini nelle fabbriche, tra cui la Necchi, e in altri auditori non tradi-zionali come i Palazzetti dello Sport di Cinisello Balsamo e Sesto San Giovanni, luoghidove ho sempre incontrato un entusiasmo nuovo e calorosissimo di un pubblico fattodi operai e non operai, di lavoratori di qualsiasi ceto.

Accanto alla scoperta dell’«attuale» e all’impegno sociale, la programmazione dellaScala proponeva, naturalmente, anche opere di repertorio come quelle di Verdi, Doni-zetti e Rossini. Ma anche in questo caso l’approccio era diverso, si cercava un nuovomodo di rileggere le pagine del passato e un nuovo modo di proporle al pubblico.Questo obiettivo lo abbiamo raggiunto sempre con un lavoro di équipe e di stretta col-laborazione con i cantanti e con i registi, come è avvenuto con Giorgio Strehler, Jean-Pierre Ponnelle, Jurij Ljubimov e Luca Ronconi, ma anche grazie allo studio costantedelle partiture e all’approfondimento delle opere nel loro contesto storico. Ecco per-ché ho sempre pensato che fosse necessario organizzare dibattiti e conferenze per ar-rivare direttamente al pubblico e informarlo prima delle rappresentazioni. Questo èstato possibile ad esempio nel ’72 durante il III Congresso Internazionale di StudiVerdiani ospitato alla Piccola Scala, o nel ’76, quando l’esecuzione del Wozzeck fu pre-ceduta da un ciclo di conferenze che spiegavano l’opera e la figura del compositoreAlban Berg.

Dei miei anni scaligeri, durati fino al 1986, mi piace anche ricordare tutti gli artistie le orchestre straniere ospitate al Piermarini nell’ambito di scambi che hanno portatoa Milano realtà musicali anche molto distanti dalla nostra (penso, per esempio, alloscambio con il Teatro Bol’soj promosso nel 1973-74), e che hanno fatto conoscere l’Or-chestra della Scala al di fuori dell’Italia (come a Londra e Parigi) e dei confini europei(negli Stati Uniti, per esempio, o in Giappone, dove ci recammo in tournée nel 1981).I nomi dei direttori ospiti a Milano in quegli anni sono talmente tanti che è quasi im-possibile ricordarli tutti… Herbert von Karajan, Leonard Bernstein, John Barbirolli,George Szell, Zubin Mehta, Colin Davis, Lorin Maazel, Georges Prêtre, WolfgangSawallisch, Georg Solti…

Nel clima di fermento che ha caratterizzato il mio percorso milanese rientra anchela nascita della rassegna musicale «Musica nel nostro tempo» e dell’Orchestra Filarmo-nica della Scala. La rassegna partì nella seconda metà degli anni Settanta e tra gli idea-

54

Page 55: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

tori riuniva, oltre a me, i nomi di Maurizio Pollini, Giacomo Manzoni e Novella San-soni (allora assessore alla Cultura della Provincia di Milano). Fu un momento intensoe ricchissimo raggiunto anche grazie al coinvolgimento di diverse istituzioni (non solomusicali) della vita milanese, come la Provincia, il Teatro alla Scala, i Pomeriggi Musi-cali, la Rai. Con «Musica nel nostro tempo» abbiamo cercato di promuovere e diffon-dere la musica contemporanea tra gli ascoltatori più giovani e, più in generale, tra unpubblico diverso da quello dei grandi circuiti concertistici. Nonostante i programmifossero molto densi e proponessero spesso musiche davvero difficili, le sale erano sem-pre piene e, soprattutto, piene di un pubblico davvero attento e interessato! Ricordoancora il secondo concerto della rassegna, quando diressi alla Scala nel novembre del1976 musiche di Monteverdi, Schönberg e Stockhausen (si trattava di Gruppen): ilpubblico era così entusiasta che dovetti bissare l’intero programma integralmente! Avolte capitava che lo stesso concerto, magari proposto solo qualche giorno prima allaScala e oggetto di critiche o di proteste da parte degli abbonati o del pubblico più tra-dizionale, venisse acclamato nel momento in cui era riproposto al pubblico di «Musicanel nostro tempo»… un’esperienza del genere mi è successa per esempio con laBerceuse variata di Sciarrino, che ha scatenato nel novembre del 1977 due reazioni to-talmente opposte! La rassegna si è interrotta qualche anno dopo il mio passaggio daMilano a Vienna e si è conclusa nel 1986 con il ciclo dedicato a Pelléas et Mélisande di

55

Luciana Pestalozza e Claudio Abbado, Reggio Emilia 2006.

Page 56: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Debussy. È stata una parentesi di quasi vent’anni che penso sia stata molto importan-te per Milano, poiché ha aperto strade nuove per l’ascolto ma, soprattutto, ha regala-to a tanti giovani compositori la possibilità di far conoscere la propria musica esegui-ta, spesso, dai più grandi interpreti dell’epoca.

La nascita di «Musica nel nostro tempo» precede di pochi anni la fondazione del-l’Orchestra Filarmonica della Scala, che ho promosso agli inizi degli anni Ottanta, di-rigendola per la prima volta al Piermarini il 25 gennaio 1982. Il mio modello erano al-lora alcune realtà orchestrali già esistenti in Europa, come quella dei Wiener Philhar-moniker, per esempio. Il mio ideale era promuovere anche a Milano un’orchestra chesvolgesse un’attività autonoma da quella dell’ente teatrale, e questo per sviluppare an-cor più quel processo di approfondimento del repertorio sinfonico e, in un senso an-cora più ampio, di internazionalizzazione del cartellone che avevamo avviato alla Scaladalla seconda metà degli anni Sessanta. Nel 1968, quando ho cominciato a lavorare, ri-cordo che in seno all’Orchestra esisteva allora solo il Quartetto e che pochi suonava-no musica da camera. Con la costituzione della Filarmonica anche Milano – comeVienna o Berlino – si arricchiva di un’orchestra sinfonica di livello internazionale e unadelle migliori in Italia.

Milano in quegli anni ha rappresentato davvero molto per me. Qui ho potuto svol-gere il mio lavoro con grande passione, la sola cosa che permette di realizzare cosestraordinarie. Sono stati anni ricchi di iniziative, di esperienze condotte con amore perl’arte, la cultura e per il pubblico. Spero davvero che tutto questo percorso possa con-tinuare a svilupparsi a Milano e che, insieme agli spazi, restino aperte anche certe pro-spettive per una libera diffusione della cultura.

56

Page 57: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Giorgio Battistelli

Chi volesse scrivere una storia della musica contemporanea dovrebbe dedicare più di unsemplice capitolo alle vicende delle istituzioni, dei festival, delle orchestre che l’hannosostenuta. Dapprima ne sono stati sostenitori militanti, quasi una sorta di Doppelgängerla cui progettualità si aggiungeva, integrandolo, allo spirito sperimentale della nuovamusica. Poi ne hanno assicurato la sopravvivenza, sfidando le rivincite del senso comu-ne prima ancora che l’erosione dei bilanci. Infine sono approdati a una fase nuova, quel-la attuale, una «fase terza», verrebbe da dire, dalla quale rischierebbero tuttavia di esse-re soffocati se non sapessero identificare con precisione il proprio ruolo.

Applicando questo schema al lavoro svolto da Luciana Pestalozza con Milano Mu-sica, ci si accorge subito di un carattere specifico, probabilmente unico in Italia: la con-tinuità. Nell’epoca dello slancio e in quella della disaffezione verso il nuovo in musica,così come in quella che tende a trattare anche gli autori contemporanei con una logi-ca di marketing, Milano Musica ha saputo mantenersi fedele alla sua impostazione ori-ginaria e concentrarsi sul lavoro concreto dei compositori. Anche le trasformazioni at-traversate da Milano Musica nel corso degli anni sono state un riflesso di quanto an-dava accadendo nella pratica della musica contemporanea d’arte e non un sintomo diindebolimento.

Per come ho conosciuto Luciana Pestalozza, la sua capacità di tenere la rotta anchecon tempo di burrasca non mi sorprende. I miei primi incontri con lei risalgono all’i-nizio degli anni Ottanta e sono ambientati nel mondo di Casa Ricordi. Avevo propo-sto alcune delle mie prime composizioni e Mimma Guastoni, che le aveva accolte coninteresse, mi affidò appunto alle cure di Luciana. Subito mi resi conto di avere di fron-te un interlocutore di grande competenza, che possedeva una visione ampia della nuo-va musica non solo italiana, ma europea e internazionale, che sapeva mettere in con-nessione processi formali, stili, persino questioni generazionali, da lei affrontate conuna chiara visione dei percorsi storici anche individuali e senza pregiudizi. Il confron-to fu prezioso, un’iniezione di fiducia nei confronti del proprio lavoro come la si puòavere quando qualcuno è capace di entrare dentro ciò che è stato scritto e pensato nonlimitandosi a osservarne soltanto la confezione. Il mio primo pezzo per orchestra da leiaccettato, Il racconto di Monsieur B, composto nel 1980 e poi eseguito a Tokyo insie-me a musiche di Sylvano Bussotti, è anche il frutto dell’intenso confronto con LucianaPestalozza.

Da allora capii che tanto il suo lavoro di editore quanto la sua attività ideativa e or-

57

Page 58: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ganizzativa a Milano Musica procedevano da una stessa radice: l’attenzione per la nuo-va musica nutrita dalla competenza e dalla passione, certo, ma anche da quello che de-finirei un «ascolto stereofonico», ovvero dalla capacità di mettere in sintonia la realtàitaliana e il mondo fuori d’Italia. La coerenza del Festival di Milano Musica, la pro-fonda organicità delle sue proposte, non riposa sul fatto di avere dato vita, nel tempo,a programmi di tipo monografico. Questo è solo un aspetto esteriore, fermarsi al qua-le significherebbe mancare il senso del Festival milanese. È semmai il modo in cui vie-ne costruito ciò che sta attorno alle monografie, sono le scelte compiute nel campo del-la produzione ormai storicizzata e in quello delle opere appena scritte o appositamen-te commissionate, a definirne meglio il carattere. A Milano, in particolare, tanti giova-ni compositori hanno trovato nella presenza di Luciana Pestalozza un punto di riferi-mento costante, tanto che il Festival non si è limitato a proporre una rassegna di ascol-ti, ma anno dopo anno ha cercato di allargare il perimetro offrendo la rara possibilitàdi una prospettiva, di un futuro, non lavorando solo per l’oggi e non cullandosi nellariproposta del già noto. Alcuni autori, come Fausto Romitelli o come Luca France-sconi ai suoi esordi, o alcune realtà come quella di Agon, non avrebbero percorso lastessa strada se non avessero trovato la disponibilità di ascolto e di interlocuzione cheMilano Musica e Luciana Pestalozza hanno offerto loro. E tantissimi altri autori sonostati seguiti e incoraggiati da una struttura attenta, non rimasta identica a se stessa ep-pure fedele alle proprie convinzioni di principio.

Diventare punto di riferimento in uno spazio localizzato è fondamentale, oggi, in unpanorama nel quale i fenomeni di globalizzazione rischiano di standardizzare ogni pro-posta. Ma decisivo è rimanere nel luogo continuando a tenere fisso lo sguardo su ciòche avviene altrove, fare in modo che il proprio radicamento si configuri come un os-servatorio su orizzonti più ampi e non come il riflesso di una chiusura provinciale.Luciana Pestalozza appartiene a una generazione che è stata capace di mettersi in re-lazione continua con le trasformazioni del linguaggio musicale. Che continui a farlocon l’energia e la competenza di sempre spiega perché l’integrità di Milano Musica siatutt’uno con la sua apertura.

58

Page 59: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Luciano BerioAgli amici degli «Incontri Musicali»1

Asserire che gli «Incontri Musicali» esistono come esiste un qualsiasi periodico o unaqualsiasi associazione di concerti sarebbe inesatto: quasi un anno di ritardo nella stam-pa del secondo fascicolo e una stagione di concerti differita potrebbero addirittura farpensare al naufragio di una impresa iniziata con baldanza grazie al momentaneo aiutodi molti amici. Ora, proprio per evitare malintesi con i nostri amici – cui va tutta la no-stra riconoscenza – e per chiarire la posizione morale nella quale sono nati i concertidegli «Incontri Musicali», desideriamo precisare che mai si è pensato di giungere allacostituzione di una associazione capace di inserirsi pomposamente nelle contese con-certistiche, all’ombra di vetuste architetture e di sontuosi bilanci. Non potevamo, né ciinteressava, giungere a simili risultati, convinti che il voler esibire la maschera dell’ap-parente prosperità di un palcoscenico o di un musicista in frac serva solo ad aggrava-re quelle distanze e quelle disparità, spesso drammatiche, che esistono anche nelle fac-cende musicali, così come vengono più o meno falsamente assunte.

Ci sembra invece più utile continuare a cogliere al volo le possibilità di proporre l’at-tenzione sugli aspetti più importanti, originali e vivi della musica d’oggi, soprattutto at-traverso l’ascolto di quelle opere che inevitabilmente risultano assai poco convenientiagli apparati regolatori del corrente costume musicale, essendo ormai chiaro che lafunzione di codesti apparati risiede unicamente nel mantenere se stessi.

Le opere musicali atte a dimostrare una incongruenza di luogo e di tempo tra unanuova sensibilità formale della musica e, poniamo, la prospettiva rettangolare e vellu-tata di un palco di prima fila, esistono già: il prenderne atto vorrà dire ricondurre – conmezzi nuovi – la presenza della musica alla normalità delle sue funzioni, che non sonosolamente quelle di alimentare festival e serate di gala e di celebrare i fasti di una lin-gua splendida e morta, ma che sono quelle di comunicare, tout court, nella maniera,nel luogo e con i mezzi più adatti.

Era quindi logico che gli «Incontri Musicali» non si costituissero secondo le con-suete formule organizzative – formule delle quali l’artista di oggi non è più responsa-bile – ma si limitassero ad affidarsi alla buona sorte, certi della bontà di una idea e inattesa che il tempo, la volontà e il lavoro dei musicisti suggerissero più chiaramentequali strumenti attivi di riconciliazione fossero in grado di sostituirsi, almeno in parte,ai rituali borghesi dell’attuale consumo di musica. Questo non vuol certo dire che sidesideri l’incendio dei vecchi teatri e l’impiccagione degli impresari e dei funzionarigovernativi addetti ai passatempi musicali: infatti, se è vero che la nuova sensibilità for-

59

Page 60: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

male della musica esprime la realtà di un impegno umano del musicista contempora-neo, è anche vero che da un palco di prima fila si ascolta Bach, Beethoven e Verdi, l’im-pegno umano dei quali è parte di noi stessi.

Quali siano gli strumenti di riconciliazione non è ancora chiaro: ma a dircelo non so-no certo i festival né quelle opere musicali che, proprio in omaggio alle prospettive d’a-scolto della tradizione borghese, si basano sulla parodia dei rapporti classici e si sfor-zano di segnalare in maniera spettacolare contenuti impotenti a manifestarsi e a iden-tificarsi come forme musicali (è assai più espressivo e artistico un buon film che un me-lodramma moderno o un quadro realista).

L’arte non è mai stata sorda alla storia; il mondo civile, sia pure con tutte le sue crisi, sitrasforma come un corpo vivo, come una vera Natura: elabora simboli, linguaggi viventie gli oggetti della sua esistenza. L’artista è il primo a non esserne escluso e a immedesi-marsi nella sua temporalità, nelle sue luci e nelle sue ombre: l’artista crea per il suo mon-do civile, non per una immortalità futura né per i templi di una immortalità antica. Dallacantata sacra, al balletto, al melodramma, al teatro wagneriano, l’artista ha sempre deter-minato le condizioni di ascolto della sua opera, o si è adattato funzionalmente – facendo-le sue – a quelle condizioni di costume, pratiche e di cultura che costituivano la necessi-tà del suo lavoro, che – pur senza influire direttamente sui significati e sui contenuti spi-rituali dell’opera – agivano sul suo modo di pensare l’arte, sul suo manifestarsi e sul suocollocarsi nella società. Anche il gesto eccezionale di Berlioz che compone il Requiem perun coro di 800 persone, per una smisurata orchestra comprendente, fra l’altro, 18 con-trabbassi e 10 timpanisti e per 4 orchestre di ottoni dislocate ai quattro punti cardinali,tenendo conto della struttura architettonica della chiesa des Invalides (e, certamente, te-nendo conto anche di un’ordinanza governativa che incaricava il Ministero della Guerradi tutte le spese di esecuzione), anche quel gesto individuale può esser valutato alla lucedell’esigenza estrema e rivoluzionaria di istituire rapporti funzionali con l’ambiente.

Oggi la radio, i dischi e i mezzi di registrazione e di riproduzione in genere, il deca-dimento musicale dei riti religiosi e dei cerimoniali borghesi, una più netta distinzionedei generi musicali – hanno diminuito e mutato il pubblico della sala da concerto.L’amatore di musica contemporanea e il critico musicale conoscono tutte le novità di-scografiche e seguono i programmi della radio assai più di quanto non seguano le ese-cuzioni di musica contemporanea, le quali, se non si tratta della occasione mondana especiale di un festival, avvengono talvolta in sale semivuote.

Orbene, tutto questo non significa crisi, nel senso che la musica contemporanea nonabbia un pubblico che l’ascolti, ma, più precisamente, significa crisi dell’ascolto col-lettivo: significa che oggi esiste l’esigenza di valutare creativamente e di controllare an-che quei fatti che sono capaci di influire su una diversa disponibilità della musica e so-no in grado di istituire nuovi rapporti funzionali che non siano solamente l’emanazio-ne di attività scientifiche, industriali, economiche o la corruzione di abitudini storica-

60

Page 61: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

mente decadute. D’altronde, ed è quello che più conta, la stessa creazione musicalecontemporanea manifesta la tendenza a cercare nuove modalità di contatto col pub-blico: tanto attraverso l’abbandono dei cliché di organico strumentale (ancora legati airapporti della polifonia tonale) e la diversa disposizione dei gruppi strumentali e delpubblico, quanto attraverso le nuove esigenze d’ascolto della musica elettronica; tan-to, in genere, attraverso tutte quelle opere il cui linguaggio sottintende un atteggia-mento spirituale di tipo non dualistico, quanto attraverso la nuova concezione archi-tetturale delle sale di pubblico spettacolo, concepite proprio in omaggio a quell’atteg-giamento spirituale (il Teatro Nazionale di Mannheim e la sala Philharmonie di immi-nente costruzione a Berlino sono, in tal senso, modelli esemplari).

Queste considerazioni non vogliono proporre o dimostrare una tesi né prepararel’annuncio di sensazionali concerti degli «Incontri Musicali»: anche al di fuori di taliconsiderazioni la buona musica continua ad esser scritta e i suoi contenuti spiritualicontinueranno ad essere assunti ora come fatto aristocratico di cultura, ora come unbene di massa o come «une fureur et un mystère» individuale. Noi volevamo sottopor-re all’attenzione di chi, meglio di noi, sa raccogliere i fili innumerevoli della presenzadella musica in questo vasto mondo, alcune idee che, sia pure in maniera complemen-tare, guidano il nostro lavoro. Ma soprattutto volevamo giustificarci con gli amici delfatto che gli «Incontri Musicali» siano tuttora in balia della buona sorte.

Anche quest’anno la buona sorte è intervenuta a far sì che potessimo assolvere il no-stro compito. Non con una stagione di concerti invernali al Nord, come lo scorso an-no, ma con una settimana estiva di concerti al Sud (dal 9 al 17 giugno a Napoli): e diquesto siamo profondamente grati alla Radiotelevisione Italiana. Tanto più grati inquanto, riprendendo il motivo delle precedenti considerazioni, vediamo proprio nellepossibilità future della radio lo sviluppo di nuove relazioni musicali, anche al di fuoridelle consuete e tipiche funzioni del programma radiotrasmesso. Tali possibilità futu-re, è chiaro, non consistono certo nel considerare la radio il luogo di un assurdo eser-cizio estetico o di un dramma intellettuale, ma nel considerarla quello che obbiettiva-mente è: un moderno apparato che, per la sua stessa natura e per le funzioni che è ingrado di assolvere, è oggi di gran lunga il più qualificato ad agire funzionalmente nelnostro mondo civile e, quindi, ad influire anche sul costume musicale (i benefici e i di-sastri operati in questo ultimo decennio dalla radio sul gusto musicale corrente stannoa dimostrare di quali influenze essa sia capace).

Anche per questa ragione, infine, gli «Incontri Musicali» saranno maggiormente epiù fecondamente incontri.

1 Questo scritto di Luciano Berio è stato pubblicato per la prima volta su «Incontri Musicali», n. 2,maggio 1958, Suvini Zerboni, Milano, pp. 69-72. Il testo farà poi parte del volume degli scritti di Berioin corso di pubblicazione.

61

Page 62: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Pierre Boulez

Bien chère Luciana,Voici un petit morceau de manuscrit qui vous fera penser à moi comme je pense à

vous et à tous les jours splendides que, grâce à vous, j’ai pu passer plus d’une fois àMilan.

C’est toujours une joie de vous rencontrer, vous si rigoureuse dans vos choix, si en-thousiaste pour arriver aux buts artistiques que vous vous êtes proposé, si cordialeavec nous tous quand nous allons commencer le concert. Je vous souhaite encore denombreuses années à œuvrer dans ce superbe milieu musical que vous avez créé etdont nous bénéficions tous avec joie et avec gratitude. Je me réjouis de vous revoirbientôt et de vous revoir aussi souvent et aussi longtemps que possible.

[Indicazioni della partitura:]Une page d’éphéméride (ou plus exactement ici, un quart de page!)(Première page d’éphéméride pour piano solo)

P. Boulez, février 20091

1 Carissima Luciana,Ecco un pezzetto di manoscritto che la farà pensare a me come io penso a lei e a tutti i giorni splen-didi che, grazie a lei, ho potuto trascorrere più di una volta a Milano.È sempre una gioia incontrarla, lei così rigorosa nelle sue scelte, così entusiasta per raggiungere i tra-guardi artistici che si è prefissata, così cordiale con noi tutti quando stiamo per iniziare il concerto. Leauguro di operare ancora tanti anni in questo superbo ambiente musicale che ha creato e di cui ap-profittiamo tutti con gioia e con gratitudine. Non vedo l’ora di rivederla fra poco e di rivederla il piùspesso e più a lungo possibile.

[Indicazione della partitura:]Una pagina di almanacco (o, più esattamente, un quarto di pagina!)(Prima pagina di almanacco per pianoforte solo)P. Boulez, febbraio 2009

62

Page 63: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

63

Page 64: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Aldo Clementi

Il volto di Milano musicale non sarebbe così senza l’attività musicale di LucianaPestalozza.

Da quando sono venuto a Milano (’54-’61) sin’adesso Luciana è stata sempre attiva e– forse – anche l’Italia musicale ha un nuovo volto.

Grazie, Luciana, con immutato affetto!

64

Page 65: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Michele dall’Ongaro

Inutile scusarsi con chi legge: è evidente che in testi di questo genere il ricordo perso-nale si mescoli col resto e che, di conseguenza, un po’ di autoreferenzialità filtri nono-stante le cautele. La premessa basti ad invocare la benevolenza del lettore e soprattut-to della festeggiata, notoriamente esigente.

Che Luciana fosse persona esigente, almeno quanto affettuosa, mi apparve chiaro sindai primi incontri. Si parla di una quarantina di anni fa. L’Orchestra della Rai di Mi-lano era impegnata nella registrazione di un’opera di mio nonno materno GiuseppeSavagnone, zio di Luciana. Mia madre, che curava la regia radiofonica, decise di por-tarmi con sé. In quel soggiorno milanese passai un periodo dai cugini che non cono-scevo ancora: Luciana, il marito Carlo Pestalozza, Claudio e Andrea (ricordo la primafulminante immagine: Andrea praticamente sdraiato su una superba – e invidiatissima– pista elettrica Scaletrix apostrofarmi impaziente: «Hai portato le macchinette?»).

Un’atmosfera ideale: coccolatissimo da questa cugina grande che mi pareva irrefre-nabile, clamorosamente attiva in casa (mattina e sera, tra colazione e cena era tutto unafesta) e fuori (lo capivo da come usciva gagliarda e da come rientrava affannata). E po-meriggi passati giocando, andando alle prove, facendo un po’ di musica in famiglia eascoltando i racconti di Carlo. Sapevo di lui dalla vulgata familiare, ovviamente. Nono-stante avessi solo dieci anni scorgevo dietro l’affettuosa cordialità un’inquietudine in-candescente. Ascoltavo incantato ragionare su Hindemith e Ludus tonalis, su Stravin-skij o raccontare del Conservatorio di Bergamo. Insomma: una pacchia. L’unico pro-blema era studiare il pianoforte: non mi sentivo del tutto a mio agio sapendo di cotanteorecchie così prossime. Ma riuscii invece a incassare un paio di rassicuranti consigli,che ancora mi porto dietro.

Pochi anni dopo, sotto lo stesso tetto, conobbi un giovane compositore di cui si dice-vano meraviglie. Aveva avuto l’incarico al Conservatorio milanese ma viveva a Roma equando veniva per le lezioni era ospite di Luciana. Si chiamava Salvatore Sciarrino. Sisuonava un po’ a quattro mani e mi capitò di accompagnarlo al Conservatorio per sbir-ciare le sue lezioni. Rammento benissimo lo sconcerto degli allievi (e lo spasso del mae-stro) che si aspettavano di imparare armonici e chissà cosa e invece si trovavano a stu-diare armonia e contrappunto.

65

Page 66: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Poco alla volta all’immagine «privata» di Luciana si iniziò a sovrapporre quella pub-blica, e la consapevolezza diretta del suo rigore professionale si innestò più concreta-mente in quella già sedimentata dell’affabilità domestica. Questa sorta di cross-fade era,per ragioni anagrafiche e biografiche, parallelo alla (mia) consapevolezza delle cosemusicali. Parlo della metà degli anni Settanta: gli anni di «Musica nel nostro tempo» edi quel che ruotava intorno a essa. Certo, lo scarto tra la situazione romana e quella mi-lanese era davvero impressionante. Da un lato Casa Ricordi (e quindi di nuovo Lucianae la scatenatissima Mimma Guastoni), Suvini Zerboni, la Scala, ancora il riverbero del-lo Studio di Fonologia (ebbi il grande privilegio di vivere un’indimenticabile visita gui-data con Marino Zuccheri pochi mesi prima della chiusura), il miglior Conservatoriod’Italia, con insegnanti come Azio Corghi, Giacomo Manzoni, Franco Donatoni, Bru-no Canino, Antonio Ballista, la presenza di Claudio Abbado, Maurizio Pollini, PaoloGrassi, Giorgio Strehler, una visione della musica diversa, e l’Europa lì, a due passi.Insomma: le idee, le teste, le istituzioni, il mercato, le risorse. Un modello molto chia-ro di sviluppo e di progetto di cui si sente fin troppo la mancanza ai giorni nostri, nonsolo a Milano. Dall’altro il Conservatorio romano, in quegli anni tra i più retrivi d’Ita-lia, e – per fortuna – alcune presenze di riferimento: ovviamente Goffredo Petrassi,Aldo Clementi, Mario Bortolotto, Boris Porena, Guido Turchi, Franco Evangelisti. Epoi gli eroici sforzi di Nuova Consonanza. Erano anni in cui però ci si poteva trovarela sera al Folk Studio o, più spesso, al Beat ’72, leggendario scantinato del quartierePrati dove incontravi ancora qualche protagonista del Mev (Musica elettronica viva)ovvero Alvin Curran, Richard Teitelbaum, Frederic Rzewski e succedeva anche a noigiovanissimi di improvvisare, forse perché una sera non si era presentato il pianista at-teso, insieme a Domenico Guaccero o Richard Trythall, magari vicino a David Tudorcapitato per caso nei paraggi. Anni in cui ti trovavi a dare una mano ad alcuni amicijazzisti per occupare un locale abbandonato in via Galvani, fondando la Scuola Po-polare di Musica di Testaccio. Insomma: situazioni in cui – diversamente da Milano –il «nuovo» emergeva quasi esclusivamente fuori dalle istituzioni, con il robusto contri-buto di una comunità internazionale (come dimenticare l’eccezionale figura del baro-ne Marschall, indiscussa guida del Goethe Institut?) che aveva eletto Roma come se-conda patria. Esperienze segnate da una grande curiosità per strade musicali diverse,mescolate, spurie e quasi del tutto trascurate dall’establishment. Da segnalare, tra l’al-tro, che di lì a pochissimo furono proprio questi umori e queste risorse a essere inter-cettati dal talento del giovanissimo Renato Nicolini, appena catapultato sulla poltronadi assessore alla Cultura capitolina.

La programmazione nei festival e nelle rassegne di quegli anni (non esclusa quella di«Musica nel nostro tempo») racconta anche di queste differenze e persino di certe dif-fidenze, se mi si passa il termine. Un po’ come nelle capitali musicali europee dei seco-li precedenti, quasi si sentiva la diversità di usi e convenzioni, di stili, di generi, di ten-

66

Page 67: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

denza che fioriscono in comunità che operano a distanza anche di pochi chilometri.Tutto il contrario di quella immagine di continuum indifferenziato che qualcuno oggivorrebbe appiccicare all’esperienza delle cosiddette avanguardie.

Nel modo di muoversi dentro questo pentolone di idee e proposte, mi pare sianosempre evidenti in Luciana le caratteristiche che a dieci anni mi avevano colpito: la ge-nerosità e la curiosità intellettuale, la dedizione al lavoro, la forza sorridente, la capa-cità di unire forze diverse e di costruire reti, la lealtà. E il rigore, innanzitutto.

Certamente Milano Musica deve molto a «Musica nel nostro tempo». Ma credo sipossa dire che è anche un’esperienza diversa. Sono cambiate le cose, sono cambiate aMilano come altrove, ma identica è rimasta la missione del porsi domande e del cer-care risposte. Se un’edizione del Festival la si potesse dedicare, per una volta, non a uncompositore di suoni ma di idee allora sarebbe bello dedicarla a lei.

67

Page 68: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Ivan Fedele

Il mio rapporto con Milano è sempre stato caratterizzato da due opposti sentimenti:grande coinvolgimento o indifferenza reciproca.

Da quella fredda mattina del gennaio ’59 in cui l’«Espresso del Levante» prove-niente da Lecce depositò me e la mia famiglia alla Stazione Centrale, sono accadutetante di quelle cose che occorrerebbe un libro per raccontarle, per render conto dimezzo secolo di vita in cui è successo di tutto: a me, alla città e alla nostra relazione.

Il primo impatto fu terribile. Provavo proprio repulsione per una città grigia, fred-da, nebbiosa, che mi appariva un luogo di punizione! Venivo dal Salento, la terra «delsole, del mare e del vento» come amiamo dire noi di laggiù. Ed avevo cinque anni…Ma ben presto restai affascinato e coinvolto dalle tante novità: il ritmo di vita già allo-ra frenetico, la scuola, l’apprendimento della musica, la metropolitana (abitavo in piaz-zale Oberdan e ogni giorno mi ci facevo accompagnare: mi sembrava un luna park!).

Tutto ciò e molto altro ancora cominciarono a farmi sentire un piccolo cittadino diuna metropoli che, allora, non tendeva ad omologare o addirittura isolare le diversità,bensì offriva generosamente la sua accoglienza a chi non vi era nato.

Vennero poi gli anni della contestazione giovanile e io vissi in prima persona, parte-cipando a occupazioni, assemblee e cortei, il movimento del ’68. Frequentavo la IVginnasio al liceo Parini e mi sembrava che la società si potesse rapidamente cambiarein meglio, ma soprattutto mi sentivo coinvolto in un progetto di dimensione planeta-ria ed ero convinto che Milano ne fosse il centro… La città sembrava vivere quella tem-perie in maniera così forte che non c’era luogo dove il dibattito tra «il vecchio e il nuo-vo» non tenesse banco.

Provai una grande delusione quando la deriva terroristica di alcuni gruppi portò a unoscuramento della vita del Paese e di conseguenza della sua massima città industriale.

Era la seconda metà degli anni Settanta. Anni bui in cui mi ritirai dall’impegno po-litico attivista (non attivo) e mi concentrai sugli studi universitari e musicali. Appro-fondii la conoscenza del repertorio musicale moderno e contemporaneo, cominciai ascrivere musica con impegno e finalmente mi diplomai in composizione al Conser-vatorio «G. Verdi» e vinsi, in quello stesso anno 1980, il Gaudeamus Musikpreis conChiari (per orchestra) e il mio Primo Quartetto. Ero entusiasta e fiducioso per la miavocazione di compositore. Credevo che avrei potuto crescere artisticamente e comin-ciare a far conoscere la mia musica proprio partendo da Milano. Ma qui, dopo ven-t’anni da quella fredda mattina del gennaio ’59, si chiuse la grande stagione del coin-

68

Page 69: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

volgimento e si aprì una parentesi di almeno tre lustri di indifferenza. L’indifferenza trala città (intesa come le istituzioni musicali e le persone che ne avevano la responsabili-tà) e me, ma anche tra me e la città. Tant’è vero che la mia attività si svolse prevalen-temente all’estero. E con soddisfazione. Dapprima l’Olanda, poi la Francia, soprattut-to, e la Germania divennero i paesi che mi accolsero con più attenzione e in cui mi sen-tivo veramente a mio agio. Nazioni in cui le cose funzionavano secondo criteri che mierano più chiari.

Tanto fu il mio distacco/assenza dagli ambienti musicali milanesi (eppure continua-vo a viverci!) che, quando in città si eseguiva sporadicamente la mia musica, la do-manda che mi veniva posta più frequentemente era (e talvolta lo è ancora…): «Sei ve-nuto apposta da Parigi?», oppure: «Ma ora dove vivi, a Strasburgo?», e anche: «Daquanti anni manchi da Milano?»…

A questo distacco ne corrispose anche un altro: quello con la città vera e propria.Irriconoscibile la Milano degli anni Ottanta e Novanta, rispetto a quella, fiera e or-

gogliosa di sé, degli anni Sessanta e Settanta! Una città imbolsita, superficiale, mo-daiola, salottiera e pettegola, ma anche violenta, indifferente, non solidale. Insomma,una città provinciale di un milione e cinquecentomila abitanti. Tutto l’opposto di quel-la metropoli lungimirante nella quale avevo creduto e sperato insieme a tanti miei com-pagni di avventura.

Ma io amo Milano di cui sono figlio adottivo e a cui devo, comunque, tanto. Ed orache le incomprensioni reciproche sembrano sciogliersi, mi auguro di poter dare il miocontribuito di arte e di esperienza maturate altrove a un processo di rinascita cultura-le che la città merita e i milanesi, mi sembra, attendono.

69

Page 70: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Luca Francesconi

Ciò che realmente fa la differenza è lo statuto di cultura.La fede, e la speranza, riposte nell’idea che esista un luogo dove si realizzi una fu-

sione «alta» fra pensiero e azione.Non «alta» per censo o classe.Ma per profondità e finezza di intenzione, per onestà intellettuale e libertà di pen-

siero.Dunque si tratta di un luogo di libertà, senza ideologia preconcetta.Cionondimeno pieno di impegno e di lavoro.La libertà non è uno spazio libero, come diceva Giorgio Gaber.Così, anno dopo anno, in Italia e a Milano, con una determinazione e una forza im-

pareggiabili Luciana ha portato per mano il pensiero profondo della musica occiden-tale. Così, con naturalezza.

E lo ha mantenuto vivo e provocatorio per tre generazioni di ascoltatori; nonché dimusicisti, dei quali spesso è stata l’unico punto di riferimento serio.

Un lavoro immenso, ma sempre nutrito dall’entusiasmo e arricchito da un sorrisosulle labbra; anche nei momenti più difficili. Come oggigiorno, quando l’idea stessa dicultura è calpestata.

Ecco, il suo lavoro rappresenta in modo esemplare questa combinazione, l’unicagiusta?, fra serietà e gioco, rigore e leggerezza.

Perché Luciana, si diverte.Questo è il suo segreto.

70

Page 71: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

György Kurtág

71

Page 72: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

72

Page 73: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

73

Page 74: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Giacomo Manzoni

Sono cittadino di Milano, ci sono nato e ci ho passato ormai più di sessant’anni; pur-troppo però ho perduto una delle stagioni credo più vivaci della vita culturale cittadi-na, gli anni dal ’48 al ’50, durante i quali terminavo il liceo a Messina dove scoprivo inmodo definitivo la mia vocazione musicale. Da questo punto di vista mi sento per co-sì dire senza radici profonde nella mia città, o meglio sento uno spazio di esperienzavuoto che nulla e nessuno potrà mai farmi recuperare. Tuttavia ho visto e vissuto ab-bastanza della vita musicale della mia città per averla capita nella sua logica interna chemi sembra la distingua da altre città del mondo di dimensioni e potenzialità analoghe.Credo sia la presenza a Milano della Scala che contribuisce a determinarne la peculia-rità. Teatro d’opera tra i più prestigiosi, essa catalizza su di sé la principale attenzionedei musicofili: è come se fosse il simbolo della musica tout court, della musica non tan-to cittadina quanto universale. Questo tende certamente a mettere in ombra altre isti-tuzioni e ad assorbire la più larga fetta delle sovvenzioni, siano esse pubbliche o, daqualche decennio ormai, in buona misura private. È vero che verso metà Ottocento,proprio a Milano, nacque in sana reazione al melodramma dilagante la prima Societàdel Quartetto italiana, gloriosa in tempi andati e preziosa per un ampliamento dellacultura musicale: proprio per la sua importanza e il rilievo che assunse presso buonaparte della borghesia milanese colta essa riuscì a lungo a mantenersi come punto di ri-ferimento per la musica proveniente in massima parte da paesi esteri; il che vale del re-sto, su un altro versante, più popolare, per l’associazione cameristica degli Amici del-la musica, nata una trentina d’anni dopo il «Quartetto» nel 1891 e oggi ancora fioren-te in vari centri italiani.

Ma venendo alla seconda metà del secolo scorso, quello che ho direttamente vissu-to, mi è sembrato di capire che Milano non dà volentieri spazio a iniziative minori, adifferenza per esempio di città come Roma o Berlino dove esse, soprattutto per quan-to riguarda la produzione contemporanea, che qui in particolare mi interessa, sembra-no fiorire con maggiore ricchezza e libertà. Per questo rimpiango di essere stato as-sente proprio in anni durante i quali certamente un’analoga fioritura, legata alla rina-scita anche culturale postbellica, deve essere esistita nella mia città. Si capì poi che aMilano, se si vuole in qualche modo fare concorrenza alla Scala, è necessario realizza-re iniziative di grande respiro, con le spalle finanziariamente solide e con ampie visio-ni culturali. Della fioritura di quegli anni rimase in effetti per un lungo periodo credosolo l’iniziativa dei Pomeriggi Musicali, dovuta a Remigio Paone e al coraggio cultura-

74

Page 75: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

le di Ferdinando Ballo, che dava largo spazio alla produzione contemporanea; mentrel’esistenza, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, di un’orchestra e di un coro dellaRai di discreto livello professionale permise di avere per così dire un contrappeso allapolitica musicale scaligera, per lungo tempo rivolta soprattutto alla tradizione e al mo-dernismo ultramoderato. Ma con la musica contemporanea – fatto salvo il periodo fe-condo dello Studio di Fonologia della Rai, anche quello però, guarda caso, un feno-meno sostanzialmente di nicchia – i rapporti di Milano furono per troppo tempo trop-po poco cordiali: fu necessario arrivare al 1975, con la nascita di «Musica nel nostrotempo» perché un’istituzione solida e ben insediata nel territorio come la Provincia siassumesse con entusiasmo il compito di un «lancio» a tutto campo della più significa-tiva produzione musicale del secolo scorso, con una stagione di concerti distribuitalungo tutto l’anno. I risultati furono oserei dire strepitosi, proprio dal punto di vistadella diffusione di quella musica presso un vastissimo pubblico di giovani e non solo.Quell’iniziativa – di cui Luciana Pestalozza fu costante punto di riferimento: e qui miunisco agli amici che con questa pubblicazione festeggiano il traguardo dei suoi ottan-t’anni – declinò gradualmente per l’ostilità verso la cultura, specie contemporanea, ti-pica di troppi politici del nostro paese, i Pomeriggi abbandonarono l’attenzione alleesperienze musicali avanzate, i complessi Rai furono brutalmente eliminati, e oggi inquesto settore la città è sguarnita come poche altre in Europa: se non fosse per mani-festazioni con carattere di festival, cioè limitate nella durata, come MiTo in settembree il Festival di Milano Musica in ottobre, ideato e diretto con entusiasmo da Luciana,la musica contemporanea sarebbe ridotta a poche iniziative coraggiose ma minori, cir-coscritte alla musica da camera, che non possono contare su un sostegno finanziarioadeguato né possono permettersi di conseguenza le grandi sale cittadine.

Le osservazioni sommarie che sin qui ho fatto sembrano confermare la mia opinio-ne che Milano, la città della finanza, dell’editoria, delle grandi università, dei più dif-fusi quotidiani nazionali, fino a qualche decennio fa delle grandi industrie, la città in-fine della Scala, è disponibile a credere solo in iniziative di grande respiro, che assicu-rino alla sua borghesia amante della musica una continuità e un livello garantiti. Po-trebbe anche essere un fatto positivo se in questa prospettiva non mancasse propriol’apertura verso quella musica del nostro tempo che a tanti sta a cuore. Ritengo che sedi nuovo una importante realtà musicale cittadina, ben sostenuta dall’intervento pub-blico, affrontasse con coraggio e con ampio respiro questa tematica, troverebbe anco-ra una volta in tanti settori e strati della popolazione milanese, compresi quelli cultu-ralmente più emarginati, una risposta adeguata e forse entusiastica. Restiamo in attesa.

75

Page 76: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Luigi Nono

20/3/80

Luciana caravedi le possibilità di Venezia ma sono i veneziani (i capi vari) che restano mone e mo-nasse –grazie –

!TUTTI!qui questi fogli per favore da fotocopiare: 4 per i LASALLE e spedirli aereo a CINCINNATI

1 per archivio vostro1 per me –

(poareto sempre da bon ultimo) –così il quartetto è ora a posto –la partitura la scrivo dopo l’esecuzione e il lavoro precedente, a giugno Bonnper favore non dare la partitura attuale a nessuno: sai bene che solo a Claudio puoi edevi dare tutto – ai patentati illetterati NO!!!

PROMETEO –È iniziato – Un nuovo divertimento mio, e nuovo metodo di studio prestudio – se vie-ni a VE,lo potrai vedere sulle pareti = muri della mia stanza –PERCUSSIONE – C.C. DALLAP.GRAZIE –CERC[H]ERÒ DI RICORDARMI

le altezze definite a Mi, poiché la mia copia con esse è sparita –Non la trovo –Con calma faccio la partitura definitiva della percussione – ma il PROMETEO MI FA VIVERE –A Perugia con i LaSalle = ottimo lavoro insieme e in parte la musica ha sorpreso an-che me – è il pensiero musicale umano più ricco e bello – dalle onde al Dallapiccola alquartetto è nuovo sviluppo e testa e cuore – Prometeo libererà ancor più. Ti abbrac-cio con affetto con te la NONNA MARIA CARMELA – GiGi

76

Page 77: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

77

Page 78: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

78

Pestalozza/L 79?-??-?? al QuartettFragmente-Still…

Cara Lucianaecco le 2 citazioni da me fatte,nell’introduzione al quartetto,da Hölderlin –le ho indicate con 1) e 2), da letteraecct.

2 «DIE ZARTEN TÖNEN DES INNERSTEN LEBENS»(«l’armonia delicata della vita interiore»LETT. di SETTEMBRE 1799.

1 «DASS WIR ENTSCHIEDEN DER HOFFNUNG DAS LEBEWOHL SAGTEN»(«DIRE ADDIO ALLA SPERANZA»)LETT. DI NOVEMBRE 1799

per ora ho una stanza studio nella vecchia casa dei miei alle Zattere, oltre l’acqua – funziona, in silenzio e «Torre» per il «Prometeo»CHI È??? COME È? COSA DIVENTA? con affetto GiGi

Page 79: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

79

Page 80: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

59 a RICORDI (LUCIANA PESTALOZZA) ’74 - ?? - ??1974

(come da cronologia RICORDI)(Pestalozza)Chiedere a Nono– se la partitura comprende tutto il nastro– se anche la parte vocale e quella di pianoforte è copiata completamente– a proposito dei nastri:dove e quando verranno usati, chi li restituirà.

(Nono)Cara LucianaÈ LOGICO (E ANCHE AUTORITARIO

CHE VOI MI ABBIATE COSTRETTO

A COPIARE A COPIARE E A TIRAR

RIGHE CON RIGHELLO: ROBA DA

APPRENDISTA ARCHITETTO O

GEOMETRA) OSTIA!QUINDI CHE C’È IL GRAFICO

DEL NASTRO

ANCHE QUESTE CI SONO!!!ANCHE CON TANTE OSTIE

PER VIA DEI TEMPI SINCRONI CHE

SU DISCO SON FISSATI

ORA SU PARTITURA FINALMENTE

E IN CONCERTO ERANO UN

PO’ (SOPRATUTTO VOCE) NELLE

GRAZIE DELLA CANTANTE

CIOÈ NON A POSTO. (MAURIZIO SÌ NATURALMENTE)COSSA TI VOL DE PIÙ?PRENDO AUSCHWITZ PER FORSE

A CHAMPIGNY CON «A FLORESTA»(MONTREUIL È SALTATO PERCHÉ

SONO IDIOTI E NON HANNO

IL 4 PISTE)ECCO CON TUTTO CIO

TE ABRAZO E BASO

Gigi80

Page 81: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

81

Page 82: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

82

Page 83: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Salvatore Sciarrino

Non un vero parlare bensì un rimuginio, questo di solito intendiamo con l’espressio-ne fra sé e sé.

Più bello sarebbe con se stessi tentare un dialogo.Non si tratta tanto di essere critici. Il dialogo interiore avvia ad aprire la mente, al-

lo sviluppo delle proprie potenzialità, all’autosuperamento (tutte cose che più o menolegano la personalità di ognuno con la creazione artistica).

Decidersi al dialogo con se stessi, ciò vorrebbe Fra sé, sorta di capriccio (sarebbe iln. 8) da suonare per intero sulla corda grave.

Una sola voce si sdoppia e si risponde, generando un’alternanza di strofe comple-mentari e un incrocio di piani sonori con opposte funzioni, notati su differenti penta-grammi: due per le figure, uno di sfondo.

Trasfigurano lo strumento vari fattori combinati, più complessi e imponderabili diquanto si possa enunciare. Timbricamente conta di sicuro la vetrosa, ricercata emis-sione flautando in alto sul tasto; ma specialmente la contrapposizione di registro sullastessa corda, che in modo irregolare e variabile imbriglia e scatena inerzia e disarmo-nicità del corpo vibrante. Sono queste tensioni esasperate, improprie nel rapporto fraelasticità e spessore, che arricchiscono il suono e lo portano da natura a natura, oltrela sua normale identità.

Con mille auguri a Luciana Pestalozza dal suo Salvo.

83

Page 84: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

84

Page 85: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

85

Page 86: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

86

Page 87: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

87© Edizioni Musicali Rai Trade, Roma-Milano. Per gentile concessione

Page 88: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Fabio Vacchi

A Luciana,che tanto ha fattoper la musica contemporanea

Benché talvolta definito e considerato veneziano – soprattutto all’estero e con più fre-quenza prima della facile acquisizione di dati biografici via Internet – sono nato aBologna e mi sento bolognese, non solo per i miei ancora vivi legami famigliari e ami-cali, ma anche perché lì ho ricevuto un’eccellente preparazione, avendo compiuto glistudi in quel Conservatorio con Giacomo Manzoni. A Bologna, poi, ho conosciutopersonaggi davvero importanti per la mia formazione, in tutti i campi, dalla pittura al-la letteratura, dalla scienza al cinema.

Voglio anche ricordare il peso, nella Bologna degli anni Settanta, di altri aspettiestremamente positivi. Primo fra tutti la militanza politica, che si praticava in un climaassai più pragmatico e meno estremista di altre città italiane ed europee, con un’atti-tudine a collaborare con il capitalismo illuminato, che a sua volta doveva tenere contodelle istanze sociali.

E poi, in generale, quella libertà di pensiero che si estendeva a un erotismo aperto esereno (pre-Aids e pre neomoralismo clericale) e alla possibilità reale e quotidiana diuna convivenza interrazziale, intergenerazionale, interclassista. A Bologna, cosa che siprotrasse almeno fino a tutti gli anni Settanta, in un’osteria chiacchieravi con il barbo-ne, l’intellettuale di grido, il vecchietto, il senegalese.

Base della mia estetica e del mio stesso artigianato compositivo fu, oltre all’acquisi-zione delle tecniche tradizionali e d’avanguardia, la conoscenza, per trasmissione ora-le, del patrimonio musicale greco, nord-africano, americano, attraverso l’amicizia constudenti provenienti da tutto il mondo e la consuetudine di interpretare con loro il re-pertorio popolare. Furono gli anni in cui imparai, tra l’altro, a suonare il bouzouki,l’oud, la lira cretese e altri strumenti dell’area extra europea.

Dal ’74 iniziò la mia fase veneziana, segnata da altri incontri fondamentali nel cam-po della composizione: Hans Werner Henze mi permise di recarmi a Tanglewood e mifece eseguire a Montepulciano e a Roma; Luigi Nono mi offrì la sua simpatia e il suoappoggio, cercandomi spontaneamente dopo avere ascoltato l’esecuzione di un miobrano e introducendomi, tra l’altro, all’Experimentalstudio der Heinrich-Strobel-Stiftung di Friburgo. Ancora mi commuovo pensando che inserì un mio brano in unsuo ipotetico concerto di autori contemporanei, che non riuscì a realizzare perché cilasciò prematuramente. Se dell’uno ho ritenuto e amato il senso del teatro, dell’altro

88

Page 89: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

non smetto di studiare e analizzare un’attitudine al lirismo che sintetizza la sostanzamigliore e più lungimirante dell’avanguardia di quegli anni. Fu per me il periodo deiprimi passi, del sostegno da parte di organizzatori generosi, di esperienze con diretto-ri importanti, di letture accanite, dell’affacciarmi al mondo concertistico, dei concorsivinti, delle delusioni, del senso di scoramento dovuto alla sensazione di non essere gra-dito, a priori, solo perché critico nei confronti degli stilemi di un’avanguardia di cuinon accettavo ciò che allora giudicavo come scorie accademiche di un nucleo storicofruttuoso, ma spesso svilito e contraddetto dai suoi epigoni.

Ed eccomi arrivare, nel ’93-’94, a Milano. Città dove già si trovava la mia casa edi-trice, Ricordi, e che io percepivo, in ambito italiano, come l’ambiente più temibile, piùlegato a quel tipo di avanguardia dalla quale ero nato, nella quale ero destinato a cre-scere e dal cui giogo volevo nel contempo liberarmi.

Cominciarono così anni in cui, insieme alla mia sempre maggiore affermazione a li-vello nazionale e internazionale – grazie anche all’aiuto di celeberrimi interpreti – cre-sceva il senso di emarginazione per ciò che spesso avvertivo come accanimento neimiei confronti dovuto non alla qualità del mio lavoro, ma al giudizio dato su di esso, apriori, su basi dogmatiche. Malgrado ciò, sentivo di non poter aderire ai vari movi-menti «neo», dei quali non condividevo, dal punto di vista etico ed estetico, né le pre-messe né gli obiettivi. Eppure il mondo stava cambiando e le stesse esperienze rock epop, oltre a un nuovo modo di vivere e indagare il repertorio etnico, mi dicevano chedovevo avere il coraggio di continuare per la mia strada.

Spesso mi sono sentito dire, dagli amici milanesi, da coloro che anche qui mi soste-nevano – magari non del tutto, magari con riserva, ma forse, proprio per questo, devoammettere, col senno di poi, in buona fede – che ero esagerato, finanche noioso. Mi sen-tivo ripetere di smetterla con questi discorsi, che parevano frutto di animosità e se fos-sero stati veri non mi avrebbero permesso di esistere e di impormi come compositore.

Vorrei invece precisare alcuni aspetti che sto io stesso mettendo a fuoco in questi ul-timi anni. Da un lato continuo a credere che questo dogmatismo sia esistito e in parteesista, a Milano, in Italia, all’estero. Certo, si è incrinato e ha lasciato spazio, suo mal-grado, al diverso. Ma, diciamolo, ha fatto anche danni. Tra i più gravi, ha deterioratoil rapporto con il pubblico, trattato con inammissibile snobismo, e ha schiacciato al-cuni compositori che non sono riusciti, come me, a trasformare un certo ostracismo inun mezzo per rafforzarsi. C’è chi ha smesso di scrivere e chi, per non infilarsi in un vi-colo cieco, ha coltivato, per reazione, atteggiamenti passatisti e banalizzanti, illuden-dosi di trovare una scorciatoia per uscire da un’impasse che era, a parer mio, reale, manon aggirabile in modo così superficiale.

Peraltro, e in parte in contraddizione con quanto detto finora, ho sempre più co-scienza – una coscienza che sta crescendo negli ultimi anni – dell’importanza di quellaformazione d’avanguardia e addirittura della positività di certi suoi atteggiamenti drasti-

89

Page 90: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ci. Infatti, se è vero che la modernità non ha nulla a che fare con la tabula rasa, se è veroche i dogmatismi estetici provengono dallo stesso ceppo storico e antropologico di quel-li politici e religiosi, è altrettanto vero che la tendenza di una parte della comunicazionecontemporanea alla superficialità, al pastiche, a una fruizione tanto facile quanto passiva,è stata coraggiosamente contrastata proprio dall’estetica dell’avanguardia.

E se oggi c’è chi può immedesimarsi in una musica come la mia, ritrovando addirit-tura elementi di partecipazione emotiva e percettiva universali, basati su attitudini cul-turali e fisiologiche comuni a tutto il genere umano e non solo a un gruppo ristretto diiniziati, se è possibile una sintesi costruttiva – e non solo distruttiva – di un patrimo-nio stratificatosi nella civiltà occidentale e oggi in grado di confrontarsi con altre cul-ture, si deve proprio a quell’ardita e perfino un po’ fanatica perseveranza con la qua-le, a Milano, si organizzava, si proponeva, si scriveva musica difficile, talvolta sapientetalvolta astrusa, musica ostica ai più, musica «contemporanea». Perché comunque Mi-lano, nel bene e nel male, è sempre stata e continua a essere un ponte italiano perl’Europa e per il mondo. Quindi, dando per imprescindibile la mia ricerca di un com-promesso – atteggiamento che, mediato da Amos Oz, sto quanto mai rivalutando nel-la sua accezione positiva e dinamica, sia sul piano politico che su quello esistenziale edestetico – devo riconoscere che se sono quello che sono e se qualcuno comprende ciòche faccio, invece di apprezzare solo facili ipnotismi sonori, è grazie a chi ha lottato permantenere vivi alcuni valori irrinunciabili: la ricerca della preziosità, la necessità dellacoerenza, la coscienza anche estetica, filosofica e concettuale del fare musica, un ap-proccio all’ascolto che non sia solo frutto di accattivante intontimento, peggio se con-fezionato in modo pseudo-colto.

Quindi più passa il tempo e più sento il bisogno di non perdere di vista non solo lamia formazione originaria, non solo il mio accanito studio della musica etnica, ma an-che quell’intransigenza estetica (che a me pareva, a torto o a ragione, particolarmentecoltivata a Milano), alla quale devo molto, sia per ciò che di essa ho rifiutato, sia perciò che di essa ho mantenuto. Ho avuto la forza di liberarmi di quanto trovavo ana-cronistico e controproducente all’evoluzione del linguaggio musicale oggi, e mi riferi-sco in particolare alla metafisica contrapposizione tra tonalità e atonalità, come fosse-ro entità astratte e aprioristiche anziché sedimentazioni umane, in immanente e meta-morfico divenire. Ma non avrei potuto, senza tali esperienze, giungere a questo puntodi equilibrio tra sperimentazione e comunicazione, tra tradizione e innovamento.Perché il linguaggio musicale, nella coscienza collettiva, seppure elitaria (ma oggi èsempre più evidente che si tratta di un’élite intellettuale, non sociale, che abbracciagruppi eterogenei e intergenerazionali, come ho modo di constatare ai concerti di mu-sica mia, come insegnante e nelle migliaia di mail di musicisti o appassionati che rice-vo), sarebbe rimasto fermo e rivolto solo al passato. Quel passato che invece può rivi-vere con tutte le sue potenzialità, ponendosi circolarmente in sinergia con le tante, vi-

90

Page 91: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

tali spinte del mondo d’oggi. Grazie Milano, dunque. Una Milano dove ho insegnatoe insegno incontrando studenti straordinari, una Milano più aperta – dal punto di vi-sta della solidarietà sociale – di quel che sembra e di quel che vota, più disponibile adaccogliere i giovani e gli stranieri di quanto non sia disposta ad ammettere. Una Milanoche ha dato i natali alla donna che amo e ad alcuni tra gli amici più cari, che cresce imiei figli in un quartiere problematico, nel quale però si esercita (purtroppo fuori dal-le istituzioni) una quotidiana solidarietà, in grado di far comunicare classi sociali, ge-nerazioni e culture diverse quando urgono le vere, essenziali priorità della vita, comela salute delle persone, il supporto agli anziani, l’integrazione degli extracomunitari,l’aiuto ai disagiati, l’accudimento degli animali. Una città cui sono debitore di quasitutto, compresa la possibilità, diretta o indiretta, di incontrare grandi colleghi, diret-tori, interpreti, organizzatori, registi, scrittori, studiosi, giornalisti e lo stesso LucianoBerio, cui tanto devo non solo per il sostegno concreto e per l’oblativa amicizia, ma an-che e soprattutto per la lezione imprescindibile di rigore e libertà, di sapienza esclusi-va e immediatezza popolare che ci ha lasciato, aprendo la strada a noi tutti, giovani enon, italiani e non, conosciuti e non.

91

Page 92: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

92

Page 93: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

PARTE SECONDASTUDI

93

Page 94: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

94

Page 95: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Cesare Fertonani, Emilio Sala Per una storia della musica a Milano nel secondo dopoguerra

Giro tra le rovine di Milano. Perché questa esaltazione in me? Dovrei essere triste einvece sono formicolante di gioia. [...] Sento che da queste rovine sorgerà una cittàpiù forte, più ricca, più bella.

Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, 1944

Quando Oreste Bossini ci chiese di collaborare al volume per gli ottant’anni di LucianaPestalozza, pensammo subito che sarebbe stata una buona occasione per incomincia-re a raccogliere idee, materiali, studi per abbozzare se non altro alcune linee guida diuna ricostruzione storica della musica a Milano a partire dal secondo dopoguerra. Chela città moderna con le sue istituzioni, i suoi musicisti, la sua attività editoriale, il suoimmaginario sonoro possa diventare in quanto tale oggetto di indagine storiografica èun dato emergente nei più recenti studi musicologici; si veda per esempio in tal sensola fortuna di un libro come quello di Reinhard Strohm sulla Bruges tardomedioevale1

o il più recente contributo di Dinko Fabris sulla Napoli barocca.2 Negli ultimi decen-ni anche Milano – il cui deficit di autorappresentazione rispetto a centri musicali qua-li Venezia, Roma, Napoli, Firenze, Torino, Ferrara, Mantova è tanto evidente quantosorprendente – ha finalmente attirato l’attenzione della musicologia internazionale,sebbene sinora soprattutto per ciò che riguarda il periodo cinque-seicentesco; esem-plari a questo proposito i volumi di Robert L. Kendrick The Sounds of Milan, 1585-16503 e di Christine Suzanne Getz, Music in the Collective Experience in Sixteenth-Century Milan.4 Uno dei valori aggiunti della nuova storia culturale del paesaggio so-noro urbano è quello di rivitalizzare e rilanciare in una diversa chiave anche gli studilocali che a Milano e in Lombardia sono sempre stati fiorenti in campo musicologico.Questi ultimi, che hanno sempre coltivato il dettaglio erudito (magari un po’ fine a sestesso), assumono, in una prospettiva antropologica (quella della storia culturale e del-la microstoria), un senso nuovo: come ha sostenuto Clifford Geertz, l’etnografia èun’arte che opera «alla luce della conoscenza locale [local knowledge]».

Terminato il periodo barocco, dopo l’arrivo degli austriaci, l’apertura internaziona-le e la vocazione modernista di Milano si manifestano tra l’altro nello sviluppo dellasinfonia preclassica di Giovanni Battista Sammartini – e di altri autori di rilievo – giàa partire dagli anni Venti del Settecento. Nella sinfonia la società e la cultura dell’epo-ca trovano un modello musicale emblematico in cui riconoscersi e al contempo capa-ce di proporsi sulla scena europea come prodotto di richiamo, diffusione e irradia-mento internazionale; in altri termini, attraverso la sinfonia si costruisce, in un proces-

95

Page 96: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

so di autorappresentazione culturale e ideologica, l’identità musicale della nuova Lom-bardia austriaca. Un altro momento ben più noto e celebrato della centralità culturalee del respiro europeo della città coincide con la Milano stendhaliana («Milano è statoper me dal 1800 al 1821 il luogo dove ho desiderato costantemente abitare»). Inte-ressante notare che in Stendhal è già presente in filigrana un’opposizione che non haperso ancora oggi la sua forza modellizzante: da una parte Roma, la città eterna e mo-numentale e dall’altra Milano, città moderna, vitale, elettrizzante. Ma nonostante im-portanti imagines milanesi (Alessandro Manzoni, le Cinque giornate, I lombardi allaprima crociata di Verdi, Cento anni di Rovani, la Scapigliatura, Demetrio Pianelli di DeMarchi ecc.), cui Stendhal ha dato senz’altro l’avvio, resta la difficoltà di parlare di unvero e proprio «mito di Milano» come è stato fatto per Parigi o Londra. Milano restauna città schiacciata sul presente. E ciò in ragione forse della tendenza ad un attivismoche brucia ogni pausa di tipo autoriflessivo o autocontemplativo. Il che è per lo menosorprendente se si osserva che siamo comunque di fronte a una realtà fortemente ca-ratterizzata e differenziata fin dai tempi dell’affermarsi della tradizione liturgica am-brosiana (si pensi anche, in una dimensione più moderna e popolare, al carnevale chenon coincide cronologicamente con quello del resto d’Italia). Ma, appunto, la specifi-cità di Milano non è mai diventata né mito né storia.

Certo, se c’è un periodo in cui l’apertura internazionale e la vocazione modernistadi Milano sembrano concentrarsi e assumere una dimensione di particolare efferve-scenza e consapevolezza è quello del secondo dopoguerra. Nella città del 25 aprile, chesarebbe ben presto diventata «capitale morale», si liberano nuove energie e si molti-plicano le iniziative: dalla ricostruzione della Scala con il ritorno di Toscanini alla na-scita del Piccolo Teatro con l’organica presenza di un compositore come FiorenzoCarpi; dalla costituzione dello Studio di Fonologia musicale della Rai alle esperienzedelle neoavanguardie; dal proliferare dei locali di musica extra-colta con le sue nuovecase editrici ed etichette discografiche alla riscoperta della «musica antica». Si trattaspesso di iniziative fra loro interconnesse, un fatto quest’ultimo di cui la ricostruzionestoriografica non può non tener conto. Piuttosto che isolare i singoli elementi abbia-mo sentito l’esigenza di promuovere un’indagine che valorizzasse la connessione, connumerosi cambi di punti di vista e diversi giochi di scala. D’altronde, l’incrocio deglielementi e, per esempio, il superamento di una rigida opposizione tra l’ambito colto equello popolare è un tratto abbastanza accettato e vistoso del mondo musicale cui fac-ciamo riferimento: Cathy Berberian e Luciano Berio che passano da «Monteverdi aiBeatles», dalle «canzoni popolari» all’«opera aperta»; Roberto Leydi che s’interessa dijazz, frequenta lo Studio di Fonologia musicale e partecipa nello stesso tempo al folkrevival; Fiorenzo Carpi che compone l’opera sperimentale, mai rappresentata, La por-ta divisoria su libretto di Giorgio Strehler (caso emblematico di avanguardismo rien-trato) e poi approda alla «musica applicata»; Gino Negri che spazia programmatica-

96

Page 97: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

mente dalla canzone a una forma particolare di teatro musicale da camera cui si ri-chiama anche Luciano Chailly quando collabora con Dino Buzzati.

Proprio attraverso la molteplicità dei punti di vista, il rincorrersi e l’incrociarsi del-le prospettive i contributi di questo volume aprono una serie di spaccati che gettanoluce sul ruolo di Milano come laboratorio musicale del Novecento. L’intento non èquello di offrire una storia completa ed esaustiva della musica a Milano nel secondodopoguerra, impresa forse ancora oggi assai problematica da realizzare (basti pensareche restano fuori dal quadro, in quanto argomenti non specificamente tematizzati, leistituzioni concertistiche, la musica sacra, la critica e l’insegnamento della musicologianelle università); mette conto comunque sottolineare l’autentica originalità e l’impulsopropositivo delle ricerche che hanno generato i testi qui raccolti.

Trattando delle poetiche e dello stile dei compositori che più hanno caratterizzatocon la loro presenza la vita musicale della città dal dopoguerra a oggi – Luciano Berio,Bruno Maderna, Giacomo Manzoni, Franco Donatoni, Niccolò Castiglioni, Paolo Ca-staldi, Giorgio Gaslini, Salvatore Sciarrino, Azio Corghi, Adriano Guarnieri senza di-menticare peraltro Bruno Bettinelli, Luciano Chailly e Riccardo Malipiero, sino a quel-li delle ultime generazioni – Alfonso Alberti disegna la mappa dei rapporti tra attivitàartistica e didattica della composizione, anzitutto nel Conservatorio «G. Verdi». Le«altre musiche» di cui scrive Franco Fabbri abbracciano un panorama variegato quan-to ricco di relazioni e interconnessioni interne che comprende lo sviluppo di un’edito-ria collegata all’industria della canzone e all’affermarsi dei cantautori, il mondo dei lo-cali e l’ambiente del jazz, il rock’n roll, l’avventura del Nuovo Canzoniere Italiano, lenumerose iniziative e aggregazioni connotate da un forte impegno politico e sociale si-no a giungere allo scenario dei secondi anni Settanta, in cui inizia «Musica nel nostrotempo». Proprio alle stagioni di questa storica rassegna di musica contemporanea è de-dicata la riflessione retrospettiva di Paolo Petazzi, primo di una serie di contributi chefocalizzano l’attenzione del discorso su alcuni temi, aspetti e personaggi di questo vi-vacissimo e multiforme laboratorio musicale. Luca Civelli approfondisce la presenza el’importanza del jazz in uno scritto ad ampio raggio che prende in considerazione le ri-viste, i locali, le etichette discografiche e naturalmente i musicisti della città che puòessere definita a buon diritto la capitale italiana del jazz. Le radici ottocentesche del-l’editoria musicale sono puntualmente rintracciate da Lidia Bramani, mentre DavideVerga ricostruisce storia e fenomenologia del fenomeno, macroscopico e in crescitaesponenziale nel corso dei decenni, della «musica antica» (tanto che si può tranquilla-mente affermare che, oltre che del jazz e, com’è ovvio, dell’editoria, Milano è stata an-che la capitale italiana della cosiddetta early music). Altri saggi si occupano nello spe-cifico di personalità artistiche e culturali che hanno inciso profondamente nello scena-rio musicale della città. Con le sue canzoni e il suo teatro, Gino Negri è protagonistadel contributo firmato da Marco Moiraghi; Roberto Leydi emerge nel testo di Febo

97

Page 98: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Guizzi come fondamentale figura di riferimento anche nell’ambito della nascente et-nomusicologia italiana; le significative esperienze milanesi di due tra i massimi com-positori del secondo Novecento, Luciano Berio e Karlheinz Stockhausen, sono rac-contate rispettivamente da Bianca De Mario e Carlo Lanfossi. Spetta quindi a NicolaScaldaferri rendere conto dello Studio di Fonologia musicale della Rai, luogo simbolodi una stagione decisiva nella storia della musica elettronica (e non solo) degli anniCinquanta e Sessanta, mentre Enzo Restagno conclude con un contributo sul Con-corso pianistico «Umberto Micheli».

1 R. Strohm, Music in Late Medieval Bruges, Clarendon Press, Oxford 1985; 19902.2 D. Fabris, Music in Seventeenth-Century Naples, Ashgate, Aldershot 2007.3 R.L. Kendrick, The Sounds of Milan, 1585-1650, Oxford University Press, Oxford 2002.4 C.S. Getz, Music in the Collective Experience in Sixteenth-Century Milan, Ashgate, Aldershot 2006.

98

Page 99: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Alfonso AlbertiPoetiche musicali a Milano dal dopoguerra a oggi

Mi sembra vi siano (almeno) due punti di partenza possibili. Entrambi determinati dalfatto che il dopoguerra è, appunto, ciò che viene dopo la guerra e il fascismo, e perciòil momento in cui da un lato si affrontano le questioni rimaste aperte e dall’altro si escepoco per volta da un isolamento culturale.

Il primo punto di partenza consiste in una possibile specificità poetica milanese in-travista a metà anni Cinquanta da Luigi Pestalozza, una specificità nel segno dell’im-pegno civile. Citando una dichiarazione di Vittorio Fellegara:

Alcuni musicisti, come me e altri giovani, tendono a un sincretismo, a una posizione cioè chenasce da una profonda esigenza realistica in base alla situazione postbellica italiana (dove ilrealismo nel cinema, in letteratura, in pittura ha avuto un particolare momento favorevolepiù che in altri paesi), e che sente al tempo stesso di non poter rifiutare, ma anzi di doverdialetticamente risolvere, le conquiste di quarant’anni di travaglio creativo.1

Nella prima metà degli anni Cinquanta, a Milano, nascono La legge di Giacomo Man-zoni, il Concerto funebre in memoria dei caduti della Resistenza di Paolo Castaldi,l’Epitome per il Bois du Cazier di Angelo Paccagnini, l’opera Uomini e no (da ElioVittorini) di Niccolò Castiglioni e le Lettere di condannati a morte della Resistenza ita-liana ed Epigrafe per Ethel e Julius Rosenberg di Vittorio Fellegara.

La memoria freschissima della Resistenza, la vicenda dei coniugi Rosenberg (con-dannati in America per spionaggio a favore dell’Unione Sovietica dopo un processomolto controverso), le morti sul lavoro a Marcinelle (Bois du Cazier è il nome della mi-niera) e altre tematiche calde nutrono l’ispirazione di alcuni compositori e l’engage-ment civile e morale delle loro partiture.

Come rileva Piero Santi, «non [tanto una] “scuola” ispirata ad una determinata poe-tica ma […] una cerchia di giovani musicisti confluiti su comuni posizioni ideologichee morali ch’essi tentano di risolvere in modo personale nell’interno della creazione mu-sicale stessa».2

La prospettiva engagée è destinata per alcuni a rimanere un punto imprescindibiledel discorso artistico. Non limitandosi a caratterizzare titoli, dediche ed epigrafi, maentrando in vario modo nelle concrete strutture musicali. Già, perché come osserveràpoi Giacomo Manzoni:

Basta […], perché io possa considerarmi un musicista impegnato, il fatto di aver musicato

99

Page 100: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

testi di Eluard o di Hikmet? Di aver dedicato Ombre alla memoria di Guevara? Di aver am-bientato la mia prima opera di teatro, La sentenza, nella Cina rivoluzionaria, o di aver mes-so sotto accusa nella seconda, Atomtod, il flagello atomico? No, ovviamente questo non ba-sta a qualificare un compositore tra quelli impegnati, né è motivo sufficiente per evitare au-tomaticamente l’accusa di reazionario musicale.3

Proprio nell’opera di Manzoni l’impegno ad andare oltre nella riflessione sul suono (dicui si dirà più avanti) non è mai disgiunto dall’impegno ad andare oltre nella riflessio-ne sulla realtà. La critica delle strutture preconfezionate e coatte del suono è criticadelle strutture preconfezionate e coatte del mondo. Proporre una diversità musicale èlo stesso che proporre una diversità civile e sociale.

Credo che sia necessario ritrovare il coraggio di un produrre che si misuri con la storia, sen-za ovviamente riesumazioni del passato, che son solo testimonianze di impotenza: e cioè […]la MUSICA come complesso vivente e pulsante di idee, contrasti, relazioni appunto comples-se, in cui si possa rintracciare la concreta posizione dell’uomo di oggi nella realtà dramma-tica del vissuto sociale. Sento questa tematica non come l’esplicitazione in termini musicalidi una protesta «sociale» […], ma come possibilità di un modo di produrre musica che ciradichi come uomini pensanti al di fuori dei sistemi di mercato […], in nome di quello chevorremmo fosse una diversa umanità.4

Per altri compositori, il dichiarato impegno civile delle partiture diventerà col tempoun tratto meno frequente e determinante. In un compositore come Niccolò Casti-glioni, per esempio, assistiamo a un evaporare progressivo dei tratti engagés; non saràpiù così frequente che la sua musica parli dell’uomo fra altri uomini, quanto invece del-l’uomo solo con le sue paure e con le sue evasioni in mondi immaginari.

Un secondo punto di partenza possibile per il nostro percorso è invece di tipo tec-nico-artigianale. Si tratta della presa di coscienza, da parte dei compositori dell’areamilanese, di sviluppi del linguaggio musicale che in Italia sono stati congelati da fasci-smo e seconda guerra mondiale.

Nel 1949 Riccardo Malipiero e Wladimir Vogel organizzano a Milano un Congressointernazionale per la musica dodecafonica che serve a portare in primo piano i pro-blemi connessi alla composizione con dodici note.5 Sono gli anni in cui vengono final-mente proposti al pubblico alcuni grandi lavori della seconda scuola di Vienna. AllaScala si ascoltano l’Ode to Napoleon Buonaparte op. 41 e il Theme and variations op.43a di Schönberg; nel 1952 viene allestito Wozzeck.

Il nome di Luciano Berio non compare nella lista di compositori milanesi che LuigiPestalozza avvicina alle tematiche engagées; infatti queste tematiche non emergono conparticolare ed esplicita evidenza dai titoli del suo catalogo di quegli anni. Berio è co-munque uno dei nomi guida per la musica milanese, in particolare in questa secondaprospettiva. L’appropriazione delle nuove tecniche compositive, presupposto per l’ini-

100

Page 101: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

zio della propria ricerca, avviene per lui già nei primissimi anni Cinquanta, quando nel1952 segue Luigi Dallapiccola in America ai corsi di Tanglewood. Due anni dopo, inun pezzo per orchestra come Nones, la scrittura seriale si può già dire per lui acquisi-ta e assimilata: le prime pagine della partitura sono uno specchio molto fedele di uncerto puntillismo internazionale di quegli anni, con una completa polverizzazione diregistri, durate, dinamiche e timbri; il primo minuto di musica, in cui difficilmente unostesso strumento suona più di due note per volta e quasi mai con la stessa dinamica, èperò solo il punto di partenza di un percorso che all’interno del brano porta i suoni araggrupparsi in oggetti musicali di più ampie dimensioni. Il ruolo guida di Berio si ma-nifesta anche nelle iniziative concrete: prima fra tutte, gli «Incontri Musicali», nella lo-ro duplice identità di serie di concerti in cui ascoltare una certa musica e di rivista incui di questa stessa musica parlare.

Alcuni autori di poco più giovani rispetto a Berio cominciavano la loro avventuracon qualche anno di ritardo. Per Franco Donatoni un punto di svolta è l’estate del1954, quando si reca a Darmstadt e fra ascolti di musica nuova, lezioni di René Lei-bowitz e un seminario di Ernst Krenek viene a contatto con l’imperante credo della se-rialità. Tornato in Italia, si applica diligentemente ad analizzare le Variationen per or-chestra op. 31 di Schönberg «munito di quattro matite di colori diversi».6 Il suo lin-guaggio, prima di stampo bartokiano, si trasforma e adotta le tecniche di scrittura del-la composizione seriale. Tra i frutti di questa nuova maniera vi sono due lavori per pia-noforte solo in cui il compositore indossa senza timidezze le vesti del discepolo chechiosa o parafrasa le opere dei maestri: la Composizione in quattro movimenti (1955),in cui sono vivissime le lezioni di Webern e di Dallapiccola, e le Tre improvvisazioni(1957), esplicitamente legate alla Deuxième Sonate di Boulez.

Anche Niccolò Castiglioni imbocca nel 1954 la strada verso la serialità, con la primacomposizione dodecafonica, gli inediti Quattro canti per pianoforte; un primo puntodi arrivo sono invece gli anni 1958 e 1959, con la serialità complessa e fantasiosa diInizio di movimento e Cangianti. Per questi compositori e per altri, l’incontro con quel-lo che possiamo definire lo stile internazionale anni Cinquanta è una tappa da cui ri-partire per l’elaborazione della propria poetica. Un’influenza a cui subito se ne associauna seconda, con decisive conseguenze poetiche per alcuni di loro: l’incontro con l’e-lettronica. Al 1955 risale l’apertura dello Studio di Fonologia musicale della Rai diMilano, voluta dall’allora direttore dei programmi radiofonici Giulio Razzi e dal diret-tore centrale tecnico radio Gino Castelnuovo. Anima dell’iniziativa sono Luciano Be-rio e Bruno Maderna, che assumono la direzione della ricerca musicale. Lo studio mi-lanese consente finalmente all’Italia e a Milano in particolare di stare al passo con ana-loghe iniziative nate all’estero, il Groupe de Recherches et de Musique Concrète fon-dato a Parigi nel 1951 e lo Studio für elektronische Musik creato da Herbert Eimert lostesso anno a Colonia. Nella dialettica in atto fra l’elettronica «alla francese», imper-

101

Page 102: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

niata sui principi della musica concreta e perciò essenzialmente sulla registrazione dieventi sonori, e quella «alla tedesca», centrata sulla sintesi dei suoni e sul loro control-lo con strumenti compositivi ancora di natura seriale, lo studio milanese trova una suaposizione di sintesi.

Le possibilità dello studio milanese non solo non valgono a uniformare stili e poeti-che, servono anzi da cartina di tornasole per mettere in evidenza i tratti più personaliin ogni compositore.

La produzione elettronica nata dalle ricerche allo Studio di Fonologia è uno dei filiche legano a Milano un compositore eminentemente veneziano come Luigi Nono.Rigore, asciuttezza e durezza dominano i suoi lavori elettronici di quegli anni, dettatidall’ansia di testimoniare e denunciare (si tratti della tragedia di Auschwitz, della con-dizione operaia, o dell’ostilità senza volto di Intolleranza 1960). Per lui, più che pertanti altri, il mezzo elettronico diventa di lì in poi una via privilegiata; in particolare, lasuccessiva presa di contatto con le tecniche di elaborazione del suono in tempo realecostituirà uno snodo decisivo nella sua produzione. Nel suo primo contatto con loStudio di Fonologia di Milano, interviene in Luigi Nono un mutamento della prassicompositiva che non è solo suo personale, ma prevedibilmente cambia le abitudini an-che degli altri colleghi alle prese con i «nove oscillatori»:

Alla sua prima apparizione in Studio Gigi aveva con sé un progetto, alquanto astratto, cheaveva preparato a casa; un progetto che riproduceva una sua idea di «suono» da raggiunge-re con una sovrapposizione di frequenze sinusoidali messe insieme […]. Ad un certo mo-mento arriviamo al dunque: io dovevo sincronizzare i magnetofoni, ne avevo sei da far par-tire simultaneamente […]. Si ascolta finalmente il «suono» risultante: un fischio!7

Da quel momento in poi, il pezzo di musica si farà a contatto col suono elettronico, inperenne colloquio con esso; nella poetica di Nono si radica, anche grazie a questa espe-rienza, l’idea di una musica che nel suo farsi labirintico prende le mosse dal materialee, senza imporre regole astratte, ascolta, ricerca ed esplora.

Dell’uso che invece Bruno Maderna fa dell’elettronica sembra opportuno sottoli-neare l’elemento lirico. In un brano come Continuo (1958), da un lato vengono enfa-tizzate le potenzialità evocative del mezzo; a proposito di questo pezzo si è parlato diun «inizio magico, quasi soffiato e screziato di efflorescenze notturne», di «suoni se-greti della natura» per i quali è certo che «una forte carica di poesia vi è rimasta impi-gliata».8 D’altro canto, le sonorità vengono ordinate a comporre una curva emotivachiarissima e coinvolgente. Uscire dal nulla, far montare la tensione fino a un puntoculminante e ritornare al nulla; unico vero elemento di asimmetria, un repentino tor-nare in primo piano della tensione poco prima della fine. Nulla di rivoluzionario, co-me si vede, nessuna ricerca di soluzioni drammaturgiche inedite: ciò che è inedito è la

102

Page 103: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

capacità di aderire a questa curva e di credere in essa, così come caratteristico di tantipezzi posteriori di Maderna sarà l’abbandono genuino a situazioni drammatiche note,ma evidentemente ancora ricche di potenzialità.

Anche Luciano Berio, nel suo approccio all’elettronica, porta in primo piano le pro-prie preoccupazioni poetiche, fra cui, in Thema (Omaggio a Joyce) e nel successivoVisage, la riflessione sulla voce e sul linguaggio verbale. Thema consiste nell’interpre-tazione, da parte di Cathy Berberian, di un episodio dell’Ulisse di Joyce (dal capitoloundicesimo, «delle sirene») e nella sua trasfigurazione con mezzi elettronici.

Come dubitare che espressioni come «Imperththn thnthnthn» siano onomatopee di trilli,che «Chips, picking chips» alludano agli staccati, o che «A sail! A veil awawe upon the wa-ves» facciano pensare ai glissandi?9

Ecco perciò che il testo viene sottoposto a un processo grazie al quale, con la sovrain-cisione di più tracce e altre possibilità elettroniche, ne vengono esplicitate le potenzia-lità latenti; costruendo una struttura a più livelli in cui il testo e la sua comprensibilitàdiventino solo uno dei parametri.

Non a caso si è usato il termine processo, vista l’importanza che questo concetto ri-veste in tanta parte del far musica di Luciano Berio. Certo, il fatto di riconoscere nel-la processualità un elemento fondante della composizione sembrerebbe il classico uo-vo di Colombo: l’apparire di oggetti, il loro modificarsi, il loro entrare in relazione e illoro costituire la forma proprio così, grazie alle loro continue dinamiche reciproche,questa è evidentemente una caratteristica per nulla esotica dell’attività compositiva. Seil processo però, invece di coinvolgere gli oggetti nel testo (che magari sono figure do-tate di una propria forte identità), dà l’impressione di avere come oggetto il testo stes-so, nella sua interezza, la questione è tutt’altro che pacifica. Pensiamo per esempio aThema, in cui il «testo» è prima dato e poi sottoposto a riletture intrecciate. O, moltianni dopo, a Rendering, in cui un testo incompiuto della storia della musica (la Decimasinfonia di Franz Schubert) vive la propria particolare avventura. Pensiamo anche alparticolare rapporto che lega le Sequenze per strumento solista agli Chemins per stru-mento solista e orchestra, essendo questi ultimi una sorta di tropo delle prime, ove al-la parte solistica se ne aggiunge una orchestrale che la rilegge e la ricontestualizza.

Ma pensiamo anche a momenti dell’attività creativa di Berio in cui, senza soluzionicosì esplicite, in qualche modo difficile a dirsi la musica sembra chiamare in causa sestessa, esibendo il proprio farsi. Nella Sequenza IV per pianoforte può accadere che ilprogressivo disfarsi delle strutture accordali nelle trame di figurazioni veloci non ap-paia all’ascolto come un evento eminentemente narrativo, in cui una figura prende ilsopravvento sull’altra; bensì, si può creare l’illusione di un testo in progress che si stia«facendo» durante l’esecuzione. Ancora più significativo, forse, il processo che nella

103

Page 104: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Sequenza I per flauto porta gli spazi bianchi della pagina (la notazione ritmica è pro-porzionale, cioè più gli elementi della notazione sono vicini nello spazio più gli eventisonori rappresentati sono vicini nel tempo) a riempirsi progressivamente. È il testo acompletarsi, o piuttosto ad arricchirsi di note a margine e di interpretazioni.

I testi e le loro immagini successive si combinano in strutture in cui la polifonia ac-quista il suo senso più ampio: polifonia di eventi sonori, ma anche e soprattutto poli-fonia di linguaggi e di idee, di mondi persino.

Non c’è dubbio che noi ci portiamo sempre appresso delle premesse, una massa di espe-rienze, «il fango che ci sta alle spalle» di Sanguineti, insomma, e, quindi, una virtualità discelte nel rumore della storia che sempre ci accompagna. E noi possiamo dare un senso aquesto rumore solo a patto di saperlo filtrare, solo a patto di saperci prendere delle respon-sabilità selezionando consapevolmente questa cosa o quell’altra – e cercando di compren-dere quale posizione e quale combinazione degli eventi selezionati, filtrati, corrisponde me-glio alle nostre esigenze e a un miglior rendimento di noi stessi. Fuor di metafora, c’è sem-pre, predisposto per noi, un rumore di storia e di esperienze musicali, una virtualità di scel-te, dai quali noi continuiamo a estrarre, precisandoli e anche trasformandoli, funzioni e pro-cessi musicali.10

In quei tardi anni Cinquanta in cui Umberto Eco riflette su temi del tutto analoghi ein cui Pierre Boulez allinea in uno dei formanti della sua Troisième Sonate pour pianoun Texte, una Glose, una Parenthèse e un Commentaire, si costituisce con la polifoniatestuale di Omaggio a Joyce uno dei percorsi di Luciano Berio, che insieme a mille al-tri avrebbe fatto della sua presenza un punto di riferimento imprescindibile.

Alternative

Di strade maestre non ce ne sono. Eppure, messe a confronto con quei percorsi che,senza fondersi in uno, non di rado trovano dei punti di incontro linguistici e poetici,vi sono delle vie che mostrano marcatissime peculiarità.

Se, pensando che il linguaggio musicale sia in continua e graduale evoluzione, si pro-vasse a rappresentare questa evoluzione con una linea (molto frastagliata e ramificata,ma in sostanza – e significativamente – ben direzionata) tracciata su un foglio; e si im-maginasse che su questa linea un verso rappresenti il moderno e l’altro l’antico (o lareazione, nel caso il punto di partenza diventi un punto verso cui dirigersi): in tal casole scelte poetiche di Paolo Castaldi apparirebbero probabilmente come linee che esco-no dal foglio e puntano da qualche parte (senza tornare indietro, ma anche senza an-dare avanti su alcuna delle strade del moderno) fuori da esso. Un po’ come quel dragodi Escher che è stato disegnato su un foglio a due dimensioni, ma ostinatamente non

104

Page 105: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ci sta e fa in modo di piegare il foglio, farci un buco e metterci dentro la testa. Il com-positore adotta più spesso l’espressione «scavare una galleria» oppure «superare a si-nistra», ma l’aggiunta di una dimensione sembra accordarsi particolarmente bene congli aspetti concettuali della poetica di Paolo Castaldi e con il suo cambiamento di pro-spettiva in merito al linguaggio musicale.

Se con l’espressione «linguaggio musicale» intendiamo quelle strutture che, costituitedall’autore, sono portatrici di significato, allora nell’opera di Castaldi il linguaggio musi-cale non risiede specificamente nelle strutture melodiche, armoniche, ritmiche e timbri-che, perché queste in genere sono già date. Già date dalla storia, nella forma di musica giàscritta da altri; si tratti di una battuta di uno studio di Chopin, oppure di un cliché piani-stico, di un tema di Debussy o di uno stilema bachiano. L’intervento dell’autore sta nelloscegliere, nel prendere e nel mettere in relazione gli uni con gli altri gli oggetti scelti.

Una composizione per certi versi paradigmatica è Grid (1969) per pianoforte.Leggiamo dal testo introduttivo:

Una nota musica, resa quasi tensione di griglia (modulazione pilota, in elettronica: grid bias),detta il comportamento morfologico a un’altra nota musica, resa quasi corrente anodica.Adesso, per migliore chiarezza, lo scrivo di nuovo. La forma di una musica istante per istan-te comanda, volevo dire plasma, la materia di una musica ad essa estranea, secondo il pro-prio intrinseco modello, o vuoi andamento o decorso nel tempo.11

La «nota musica» è l’Etude op. 10 n. 3 di Chopin: sue sono la ritmica, la tessitura pia-nistica, la stratificazione verticale degli eventi. L’«altra nota musica» è il Liebestraum diLiszt: sue le note, sua l’armonia. Non tanto objets trouvés, quanto objets choisis: il com-positore li ha scelti, ha fatto in modo che entrassero a contatto e ha assistito al radica-le cortocircuito che è avvenuto fra di loro (complice non dichiarato ma indubitabile).

Il già dato non sono solo suoni già composti, ma pure parole già scritte, pensieri giàpensati e intenzioni poetiche già sperimentate: tutto questo in una nuova relazione. InCardini (1977), solfeggio parlante per voce sola, i frammenti tratti dal benemerito vo-lume di solfeggi avanzati di Ettore Pozzoli interagiscono con un profluvio di didasca-lie verbali, in una triplice veste (e per tre volte terminando, ma solo l’ultima per dav-vero): prima didascalie musicali, poi poetiche, infine didascalie in cui irrazionale e fol-lia dettano legge.

In un certo senso, le riflessioni fatte or ora sono incomplete e fallaci, per cui ci siprova (come non di rado accade nei testi di Paolo Castaldi) a ripercorrerle una secon-da volta. Si è detto che il significato non risiede specificamente nelle strutture sonorea livello locale, perché già date: eppure, questi oggetti portano con sé anche i loro si-gnificati originari, con le loro originali ambiguità e ritrosie, ora moltiplicate dal lorotrovarsi in un collage o in un altro genere di relazione.

105

Page 106: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Secondariamente, è forse ingannevole pensare che nella relazione stabilita fra gli og-getti risieda eminentemente il significato (stando così le cose, l’operazione non sareb-be autenticamente concettuale). Nemmeno nelle relazioni fra gli oggetti, ma nel fattodi metterli in relazione; nel cercarli e mettersi in ascolto della loro voce, nel prenderli,trasformarli, nell’essere disposti ad accogliere il senso che ne uscirà infine (e che inqualche modo il proprio istinto sta determinando silenziosamente): qui stanno inven-zione e poesia.

Negli anni Cinquanta anche Giorgio Gaslini comincia il suo percorso creativo, cheda subito si connota come del tutto particolare. Nel 1964, il suo Manifesto di musicatotale chiarirà così le sue convinzioni:

La musica è per l’uomo. La musica nasce dall’uomo per l’uomo.A noi interessa l’uomo totale.Siamo quindi per la sintesi di tutte le culture e quindi per la fusione di tutti i linguaggi mu-sicali.Poiché totale significa anche passato oltreché presente e futuro, non poniamo limite all’usodi linguaggi musicali del passato.Totale non significa caos. Significa non tralasciare ciò che anche per un solo uomo conta, eoperare per un tutto futuro, al vertice di un’evoluzione del mondo; significa intuire, deside-rare e sollecitare l’avvento, attraverso i processi storici di un uomo totale.Ci appare superato ogni dogmatismo stilistico limitato a culture specifiche e ci dichiariamoper l’assunzione di tutte le culture musicali in un unico atto libero di creazione espressiva.12

Nella carriera di Gaslini l’attività jazzistica e non jazzistica costituiranno sempre duepoli alternativi non conflittuali, capaci di stimoli reciproci, di influenze e intersezionifeconde. E al di fuori del jazz i generi saranno sempre in dialogo fra di loro, rifiutan-do una divisione percepita come coatta e strumentale. Gaslini è l’autore che nei centobrani del Song Book fa propria la canzone d’autore, «quella straordinaria piccola for-ma […] [con] una forza comunicativa e psicologica di penetrazione sociale [tale] chesarebbe veramente senza ragione e anche un po’ snob se venisse disertata dai compo-sitori “colti” del nostro tempo»;13 ma è anche l’autore che nel Lieder Book interroga latradizione liederistica, analizzando in essa testi, forme e linguaggi e ricreando quantovi è di sotterraneamente costante nel suo percorso. Del 1957 è Tempo e relazione, cheGaslini scrive per il suo ottetto e che combina nientemeno che composizione con do-dici note e jazz. Serie originali, inverse e retrograde danno corpo a uno swing scono-sciuto a Darmstadt; mentre il totale cromatico integra le possibilità delle tradizionalidivagazioni armoniche jazzistiche. Mostrando nei fatti che «il musicista è tenuto ad in-teressarsi degli altri e non c’è più posto per presunzioni di valore stilistico». E portan-do avanti «una scelta di fondo che si traduce in un’assunzione di tutti gli stili e i gene-ri musicali in un unico personale uso. Vi sono infinite scelte, poi, negli usi di determi-

106

Page 107: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

nati stilemi, ma tutto ciò è affidato all’autenticità del musicista, alla sua carica espres-siva, alla sua percezione poetica, alla sua intuizione artistica».14

Proprio il disco di Tempo e relazione, finito prima nelle mani di Marcello Mastroian-ni e poi in quelle di Michelangelo Antonioni, è il movente del primo e grande impe-gno cinematografico di Gaslini, le musiche di scena per il film La notte di Antonioni;queste aprono al compositore un’altra delle strade che, senza intralciarsi reciproca-mente, costituiscono tuttora il suo cammino di artista multiforme.

Ritorni, passaggi, permanenze

Sessant’anni di musica a Milano sono anche una storia di periodici arrivi e partenze.Nel 1960, Luciano Berio lascia il capoluogo e l’Italia per l’America, tornando a

Tanglewood come composer in residence, e poi, su invito di Darius Milhaud, assumen-do una cattedra presso il Mills College, a Oakland.

Anche Niccolò Castiglioni compie lo stesso tragitto nel 1966, ma l’assenza è più bre-ve, e il compositore torna a Milano all’inizio degli anni Settanta; per restarci, salvo ri-cordare che alla metropoli caotica il compositore avrebbe sempre preferito l’isola-mento della sua casetta di Bressanone. L’inizio degli anni Settanta coincide anche conla progressiva definizione del suo stile più noto, fatto di tratti poetici fra loro in rela-zione a formare un quadro molto ben riconoscibile. Uno di questi tratti è la predile-zione per il registro acuto e sovracuto, evidentissima all’ascolto di brani come Sweetdai Tre pezzi per pianoforte (1978) o La fontanella di Ganna da Come io passo l’estate(1983), «suite per pianisti principianti». Per associazione di idee, il registro acuto ri-chiama alla mente freddo, ghiaccio, neve. Tutti elementi dell’immaginario poetico diCastiglioni, in cui vale la pena di sottolineare che il freddo non ha nulla di ostile, es-sendo invece salubre e benefico, e portando con sé il fascino del paesaggio invernale ela bellezza di ciò che è puro. Titoli come Ghiaccio sul Rosengarten, o come La brina,sono frequenti nelle partiture di Castiglioni, e un compositore da lui venerato fuEdvard Grieg, nella cui musica si respira così spesso l’atmosfera algida del Nord. Altroelemento che va a comporre il quadro della poetica di Castiglioni è quello del gioco edella danza. In He proprio da una danza si parte, una danza stilizzata ma inequivoca-bile, in cui fra l’altro la giocosità del movimento si armonizza con l’uso esclusivo delregistro sovracuto. E ancora movenze danzate troviamo nel Laendler, secondo tempodella Sonatina (1985), e in Canzone per il mio compleanno da Come io passo l’estate. Inquesti due ultimi casi un altro tratto poetico fa irruzione, evidentissimo: il tono naïf.Che dire di questo insieme di caratteri stilistici? La maniera più semplice di riassumerlisarebbe di ricorrere alle immagini: ascoltando la musica di Castiglioni a partire daglianni Sessanta, si viene condotti per mano in un luogo in cui agisce un potente incan-

107

Page 108: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

tesimo. I colori che dominano sono un bianco purissimo, associato talvolta a tinte pa-stello, altre volte a filigrane dorate o argentate. Tutto ciò che ci circonda ha l’apparen-za del cristallo e della porcellana, tutto è liscio e lucente. Ma, ciò che più conta, chiun-que vi entri si ritrova bimbo e con occhi di bimbo guarda davanti a sé gli oggetti del-la vita.

Il quadro non è però completo. Dire che il paese sognato e rappresentato da Ca-stiglioni non sia reale, sarebbe insulso; è pur vero, però, che se questo paese è reale, loè in un senso molto particolare e soprattutto in un senso molto fragile. Non si può (nonsi può?) restare bambini in ogni momento della propria esistenza. Lo stupore, il sorri-so, l’affetto incondizionato, la gioia di essere uomini vanno e vengono, sono sempre dariconquistare con difficoltà. Castiglioni, che adorava la neve, si racconta andasse perstrada con degli occhiali suoi particolari, in cui i cristalli di neve erano stati disegnatisulle lenti e perciò si sovrapponevano all’immagine reale. In ogni stagione, con qua-lunque tempo, l’inverno benefico dell’anima diventava possibile. Ma allo stesso tem-po, la soluzione artificiale smaschera l’impossibilità reale. Non deve stupire perciò se,in molti dei brani che prendono per mano l’ascoltatore e lo conducono in questo par-ticolarissimo mondo, la superficie di questo stesso mondo si incrina; la visione minac-cia di scomparire, la si vede andare in pezzi.

Il periodo che va dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta vede an-che la presenza a Milano di Salvatore Sciarrino. Nel 1973 abbiamo la rappresentazio-ne dell’opera Amore e Psiche; nel 1974 il compositore comincia ad insegnare al Conser-vatorio e dal 1977 al 1985 risiede nel capoluogo lombardo.

È il periodo in cui nascono le sue prime opere di grandi dimensioni, Amore e Psiche(1972), appunto, e Un’immagine di Arpocrate (1974-1979) per pianoforte, orchestra ecoro. Vengono scritte le prime Sonate per pianoforte, Prima (1976) e Seconda (1983);i primi lavori del corpus di opere per flauto solo, All’aure in una lontananza (1977) eHermes (1984); i primi quintetti, Codex purpureus II (1984) e Centauro marino (1984).

I due momenti che, soprattutto in questa fase del percorso di Sciarrino, fanno l’u-nicità della sua poetica sono l’invenzione delle figure musicali e la loro articolazione.

Quello dell’invenzione è un momento decisivo, perché le figure ne escono chiarissi-mamente connotate, non assomigliando molte volte ad alcun altro gesto musicale al difuori di quella pagina. «Altre» per la loro essenzialità, visto che di frequente si trattadi eventi singolarmente semplici e fragili. Oppure per il loro carattere germinale; in-vestigando il nascere del suono dal niente, e il suo ritornare in esso. «Altre», anche, peril loro frequente legarsi ad archetipi e segni primordiali, a cui si avvicinano con fortecapacità mimetica: il respiro, la luce e gli elementi costitutivi del mondo naturale.Venendo all’ascoltatore da uno spazio che sta al di fuori dell’esperienza consueta, le fi-gure di Salvatore Sciarrino sfidano non solo la percezione, ma pure la sensibilità a met-tersi in gioco, eludendo i tabù e inseguendo immagini di volta in volta sfuggenti, arca-

108

Page 109: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ne e paurose. Sono un innesco, che contiene una sfida e una promessa.Il tremolo su una nota sola, in crescendo e diminuendo, che apre All’aure in una lon-

tananza sembra essere una semplice riverberazione del silenzio che lo circonda; questosilenzio volendo indagare, e volendo ad esso dare un volto. I gesti musicali della PrimaSonata per pianoforte fanno propria invece una fluidità anomala rispetto all’esperien-za consueta, fatta più spesso di solidità e punti fermi; una fluidità esemplare essendogià la prima figura polverizzata in venti rapidissimi suoni, che rinunciano a un attaccoe a un’identità propri per legarsi in un’immagine che ha dell’elemento aereo, per comeappare e scompare senza costituirsi in una forma stabile.

Delle figure della Seconda Sonata così dice il compositore:

Gli accordi disarmonici dapprima scandiscono il silenzio. Da quando sgorga il flusso can-giante, divengono motivo di frammentazione e verranno sostituiti da generazioni di altri ele-menti: grappoli densi di suono, poi accordi armonici trasparenti.Gli accordi armonici suonano un po’ come campane e sorgono gradualmente dal basso; in-fine invadono l’intero campo sonoro rispondendosi dagli estremi registri. A un certo puntoli sentiremo divenire opachi, secondo una misurata e imponderabile deformazione interna.15

Qui già si tratta dell’articolazione delle figure nel tempo, altro tratto distintivo dellapoetica di Salvatore Sciarrino. Questa articolazione rinuncia a modellarsi sulla struttu-ra regolare del discorso logico, fatta di tesi, antitesi e sintesi periodiche e univoche; mi-mando invece più umani percorsi della mente. Accogliendo per esempio fra le propriestrutture fondamentali quella dell’attesa: stasi periodica e necessaria, amplificazione diogni movimento successivo. E la ripetizione, sua forma privilegiata. Quando poi al-l’attesa fa seguito il diverso, quasi sempre la dialettica che ne vien fuori è multipla,equivoca, sfuggente. Soprattutto, viene riconosciuta la necessità di un percorso nonunivoco:

Una delle forme più caratteristiche degli ultimi anni si dovrebbe chiamare forma a finestre,finestre di tempo. Essa consiste nell’interferire di dimensioni parallele. Chi lavora abitual-mente con l’intelligenza artificiale e i computer forse ha già afferrato quello che intendo.D’altra parte, è quasi il rivelarsi di un fatto a noi connaturato. Poiché qualcosa di analogoavviene continuamente nella vita d’un uomo: mentre compiamo un’azione, vengono in men-te altre cose, e la nostra coscienza lavora nell’intermittenza, passando rapidamente dal tem-po dell’azione reale a quello mentale. […] Dunque è attraverso il taglio brusco della conti-nuità temporale che irrompe l’altro, che il tempo può saltare e manifestare una diversa pro-spettiva del medesimo percorso.16

Sospensioni, illuminazioni, reticenze e fratture costituiscono sentieri sempre diversi.Tutti estranei alla logica dei manuali, nessuno estraneo alle esperienze della mente.

In questo, la musica di Salvatore Sciarrino trova uno dei sensi più forti del suo es-

109

Page 110: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

sere «naturale»: nel suo farsi così come si fanno il pensare e l’investigare dell’uomo,senza griglie, senza sovrastrutture. L’estasi, più volte evocata dal compositore nella suaopera, non è più l’arcana prerogativa di pochi, raccontata da cronache passate e forseirreali: è piuttosto uno degli snodi della mente, il più decisivo. Non mito o metafora,ma eventualità concreta, quando il pensiero si spoglia di tutto e resta nudo.

Per un compositore che, nato a Milano, ha peregrinato per qualche anno in Americavolendo lasciare un’Europa che gli stava stretta, e poi è tornato in una Milano che glisarebbe stata troppo larga, e per un altro che dopo i suoi anni milanesi avrebbe trova-to in Città di Castello il luogo d’elezione per la vita e l’opera, ve ne sono numerosi in-vece che a Milano restano. Il capoluogo lombardo è la città dove si svolgono i percor-si creativi di Bruno Bettinelli, di Riccardo Malipiero, di Luciano Chailly. C’è pureFranco Donatoni che, nato a Verona, giunge nel capoluogo lombardo e ne fa la dimo-ra di una vita. La metà degli anni Settanta è per lui il momento di una svolta poeticadecisiva: fra Etwas ruhiger im Ausdruck (1967) e Ash (1976) si percepisce una meta-morfosi netta, destinata a farsi definitiva. L’atteggiamento negativo e la polverizzazio-ne del materiale sonoro lasciano il posto alla ricostruzione di ritmi marcati, spesso nel-la forma di semicrome che corrono inesorabili da una pagina all’altra del brano.Determinando contorni netti e oggetti riconoscibili: in una parola, figure. O piuttostouna figura soggiacente, come suggerisce Gianmario Borio: «Il momentaneo appariredella figura, la sua oggettivazione in una frase o aggregato è semplicemente il gesto diquesta figura; la figura in sé è qualcosa di sovraordinato, un essere in potenza».17

Cosa dice questa figura soggiacente, cosa vuole? Le sue regole sembrano esserequelle che Donatoni indicava nella musica di Bartók:

1. esposizione della cellula e crescita dell’organismo;2. crescita e non sviluppo: conservazione del frammento;3. giustapposizione di organismi: mutamento, non evoluzione;4. stasi della pulsazione, tempo continuo, condizione «notturna», rumore, sussurro, vibra-zione come mobilità timbrica in uno spazio immobile.18

Il suo volto è quello di un dinamismo implacabile; in apparenza almeno, perché questomovimento che mai s’arresta è rigido e quando cambia lo fa a scatti, senza transizioni.Tutto si muove e tutto sta fermo: negli organismi che nascono in questa fucina dominal’equivoco, e parlare di verve luminosa e di spirito ludico è lecito quanto parlare di in-quietudine del non potersi mai arrestare e nemmeno sapere quale sarà il traguardo.

Altra inquietudine, quella del proliferare: in alcuni casi, le metamorfosi sembranonon dover avere un termine, se non quando finalmente si sarà riusciti a liberarsi di untarlo, di un’idea fissa. Le quarantanove (sette per sette, secondo una numerologia ca-ra a Donatoni) Françoise Variationen conducono il compositore e l’ascoltatore in un’e-

110

Page 111: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

sperienza sterminata, in cui si ha l’impressione di muoversi in circolo, senza che maicambi la distanza dal centro.

I gesti della musica esibiscono, è vero, i loro bravi contorni riconoscibili, che cam-biano repentinamente da una pagina all’altra, ma a ben vedere ciò che li accomuna èdecisivo quanto ciò che li distingue; hanno tutti le carte in regola per dar luogo aun’immagine, ma l’immagine mai si presenta; tutti incarnando una figura, senza che al-cunché venga raffigurato.

Atteggiamento speculare a quello delle figure di Sciarrino: là «lo stupore di un’uto-pia che si rivela», qui la necessaria estromissione dello stupore, di quello stupore, dal-l’esperienza, perché quell’«altro» mai si rivela. Quel fondo dell’«io» che Donatoniamava chiamare l’«antecedente» altro non può che manipolare e trasformare senza fi-ne l’oggetto che tiene in mano, con una tenacia che è il senso di tutto; quasi che dopouna delle mille manipolazioni debba uscirne la combinazione che, sola, fa uscire dalcircolo vizioso. Ma nessuno lo crederebbe: la combinazione uscirà un’altra volta, for-se saranno altri a vederla apparire.

È su questo confine fra illusione e disillusione, fra eccitazione e ossessione che lamusica dell’ultimo Donatoni trova il suo spazio poetico; è lì che trova il modo di eser-citare sull’ascoltatore una pressione psicologica intensa, tenace, ineludibile.

Scuola e scuole

È tutto da stabilire in che misura e in che senso si possa insegnare a scrivere musica;in ogni caso, uno dei luoghi deputati per l’insegnamento della composizione è stato edè il Conservatorio milanese, nelle cui fila sono passati in qualità di allievi e insegnantila maggior parte dei protagonisti della seconda metà del Novecento musicale.

Di qualcuno dei compositori-insegnanti, come Niccolò Castiglioni, si ricorda la straor-dinaria libertà lasciata agli allievi e l’idiosincrasia verso ogni tentazione di plasmare unapoetica musicale nascente a propria immagine e somiglianza. Di altri, come Franco Do-natoni (dal 1955 al 1967 insegnante di armonia e contrappunto; dal 1970 di composi-zione), si ricorda, almeno per alcuni periodi della sua attività didattica, la determinazio-ne a portare in classe tecniche, idee, elementi di scrittura specifici del proprio far musi-ca. Impressionante la quantità di compositori passati dalla sua scuola, a Milano e altro-ve: Pascal Dusapin, Armando Gentilucci, Sandro Gorli, Magnus Lindberg, Luigi Man-frin, Luca Mosca, Fausto Romitelli, Esa-Pekka Salonen, Giuseppe Sinopoli, AlessandroSolbiati, Javier Torres Maldonado, Giovanni Verrando, fra gli altri.

Appartengono invece ai rami più diversi i grandi nomi della musica passati dallaclasse di Bruno Bettinelli (dal 1957 insegnante di composizione): Riccardo Muti,Maurizio Pollini, Francesco Degrada, Azio Corghi, per citarne solo alcuni.

111

Page 112: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

La carriera didattica di Bettinelli è estremamente significativa in quanto specchio diuna concezione della musica schiettamente umanistica, fatta di comunicazione e con-divisione. Al suo linguaggio musicale restano estranee la radicale ricerca sul suono diGiacomo Manzoni oppure l’invenzione di vocaboli sonori totalmente altri, così comela troviamo in Salvatore Sciarrino. La sua carriera creativa si svolge nel segno della ri-cerca di un artigianato musicale condivisibile, basata in termini di continuità direttasulla tradizione e sulle sue forme; tradizione e forme da indagare con tenacia per por-tare alla luce e ricreare ciò che vi è in esse di ancor oggi vitale.

Un invito a costruire, perciò, prima che a problematizzare la possibilità di costruire.In questo contesto, anche il dichiarato diatonismo di tante sue composizioni per coroacquista un senso specifico, manifesto di una prassi estremamente concreta che fa sca-turire il proprio linguaggio dalle possibilità naturali e non stravolte di un organico vo-cale o strumentale.

Alcuni elementi della composizione con dodici note e della serialità, ritenute piùidonee al proprio artigianato, diventano compagni fedeli, con i quali restare a collo-quio per una vita senza che il rapporto debba logorarsi.

Fra i compositori allievi di Bruno Bettinelli spicca Azio Corghi, che in un suo testoin ricordo dell’insegnante fa proprie senza esitazione le istanze dell’artigianato e dellacapacità costruttiva:

Di formazione a mio parere ce n’è solo una: c’è la formazione; e la formazione nel nostro me-stiere è essenzialmente di carattere tecnico-professionale e parallelamente di stampo cultu-rale, estetico e soprattutto etico. […] Noi sappiamo che nella musica, come del resto in tut-ti i generi artistici, c’è un periodo di apprendistato, di formazione, in cui si pongono delleregole; queste regole sono le regole di un gioco, che bisogna rispettare e che il maestro de-ve far osservare. Qualcuno dice che è come giocare a scacchi, ma è in realtà un allenamentoa superare le difficoltà che sempre si pongono davanti al compositore: come uscire da unasituazione difficile, come avere otto parti e farle muovere una indipendente dall’altra, lavo-rando naturalmente anche sulla struttura verticale… Perché dico questo: perché il discorsoportato avanti dalla tradizione non può essere ignorato proprio nel senso della scoperta delnuovo.19

In Azio Corghi, una delle manifestazioni di un positivo rapporto con la tradizione è lacarriera di operista, otto titoli in poco più di quindici anni, le cui fonti di ispirazionespaziano da José Saramago (Blimunda, 1989; Divara, 1993; Il dissoluto assolto, 2004) aCechov (Tat’jana, 1999; Senja, 2002) e alla storia del melodramma (Isabella, 1996;Rinaldo & C., 1997). Opere in cui il teatro è vissuto come possibilità concreta e noncome problema in cerca di una soluzione, che consista in una rottura delle sue strut-ture tradizionali o in una sua radicale trasformazione.

In altri ambiti della produzione di Corghi si manifesta con frequenza la compresen-

112

Page 113: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

za di linguaggi di oggi e di ieri, associati in base a operazioni concettuali diversificate.Il Lamento d’Arianna di Claudio Monteverdi, solo frammento noto dell’Arianna del

1608, e quella sua particolarissima «seconda versione» che è il Pianto della Madonna(non solo elaborazione contrappuntistica della prima, ma anche contraffazione testua-le, con Arianna abbandonata dall’amante che si identifica con Maria a cui è stato strap-pato il figlio) colpiscono l’immaginazione creativa di Corghi, che parte proprio da essiper il proprio «… Fero dolore». I due brani di Monteverdi vengono non solo messi aconfronto l’uno con l’altro (nelle loro vesti melodiche e armoniche originarie, trasfigu-rati da strumentazioni e modi d’attacco inconsueti), ma anche intrecciati, con la voceche si trova a impersonare in rapida successione l’una e l’altra donna, simbolo di unastessa e universale femminilità. Ciò accade fra le quinte di un linguaggio musicale nonmonteverdiano, che non intende opporsi dialetticamente al linguaggio «ospite», quan-to invece trovare quella perfetta fusione dettata dalla comunanza di toni e intenzioni.

[…] oggi al compositore non si chiede più di essere o non essere atonale. Ci si aspetta chesappia sfruttare i mezzi che preferisce per dire qualcosa di «nuovo», che sia in sintonia conla sensibilità d’oggi. Può farlo con mezzi atonali o meno, può contaminare gli stili o sinte-tizzarli in una scrittura personale. Quel che conta è che lo sappia fare genialmente, con ilguizzo e la personalità che segnano l’opera d’arte. Una sfumatura, una prospettiva, un mo-do di filtrare ed intendere l’armonia, il timbro, la forma o, nel teatro, il rapporto con la pa-rola, possono essere altrettanto innovativi di un semplice «mezzo» (materiale, tecnica com-positiva o strumento) usato poi in termini semplicistici o tali da portare ad un vicolo ciecoespressivo.20

Non si possono né vogliono additare, in questo frammento di storia che si è scelto co-me oggetto, delle poetiche musicali che valgano come stendardi collettivi e come au-tentica comunione di una ricerca. Eppure, facendo un passo indietro e tornando aBruno Bettinelli, si può convenire che la fiducia in una tradizione e la determinazionea fare, prima che a problematizzare radicalmente questo fare, sono tratti che (pur nel-le loro sfumature e nella loro non didascalicità) indicano un qualche percorso sul qua-le a compositori diversi può capitare di affiancare il passo.

Dal 1969 insegna al Conservatorio anche Luciano Chailly. In lui pure troviamo il ri-ferimento alla storia come punto di partenza privilegiato per la propria ricerca. Si può,molto semplicemente, additare nel ciclo delle 12 Sonate tritematiche un manifestoparadigmatico di questo atteggiamento; una forma della tradizione (per certi aspetti laforma della tradizione) viene assunta come oggetto su cui riflettere e da cui prenderele mosse. In maniere per nulla criptiche: la sonata resta una sonata, perché non haesaurito la sua capacità di fecondare l’immaginazione Il fatto che i temi-personaggiodiventino tre, lungi dallo stravolgere i connotati, sancisce ulteriormente la conservatavitalità delle relazioni possibili all’interno di questa forma.

113

Page 114: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Fiducia nell’evoluzione del linguaggio e diffidenza per le rivoluzioni sono segni pu-re dell’attività compositiva di Riccardo Malipiero, che al Conservatorio di Milano noninsegnò, ma che piace ricordare in questo punto proprio in virtù del suo approccio se-renamente costruttivo al problema del linguaggio. Scrive di lui Quirino Principe:

Riccardo Malipiero [è] una testimonianza […] di come sia possibile […] rendere vano ilproblema del «posto» assegnato a un artista nella storia (pardon, nella Storia […]). Egli è ta-le testimonianza, così come lo fu e lo è uno che gli fu amico e sodale, Luigi Dallapiccola.Perché? La risposta è nell’affermazione che udii dalla voce di Malipiero dieci anni fa, e cheregistrai allora in un mio breve scritto su di lui: «Non ho fatto il compositore: sono un com-positore».21

Anche Camillo Togni non insegnò al Conservatorio di Milano, ma pure per lui la car-riera e il percorso creativo ruotarono spesso intorno al capoluogo lombardo. Quellacomposizione con dodici note alla quale per la prima volta lo avvicinò alla fine deglianni Trenta l’ascolto della musica di Arnold Schönberg, e che durante gli anni di iso-lamento del fascismo e della seconda guerra mondiale si nutrì delle partiture della bi-blioteca di Luigi Rognoni, diventa anche per Togni un punto di riferimento stabile, chescelte poetiche personali plasmano e trasformano, ma le cui radici non vengono meno.

Una sostanziale lontananza dall’ambito milanese fa sì che, in queste pagine, LuigiDallapiccola compaia soprattutto come una figura sullo sfondo, ma è proprio questa fi-gura che getta la sua ombra di nume tutelare su un tale percorso linguistico e poetico.I percorsi compositivi di Bruno Bettinelli, Riccardo Malipiero, Luciano Chailly, CamilloTogni e altri ancora sono quanto vi sia di più vicino all’idea di un linguaggio musicaleche consenta di parlare direttamente, comprendendosi vicendevolmente e costruendoinsieme una nuova tradizione, a disposizione di chi a sua volta voglia dire. La lezione diSchönberg, che dopo la frantumazione di una lingua secolare forgiava un contesto incui determinati aspetti sintattici avessero di nuovo senso e nel quale di nuovo potessenascere una lingua condivisa, indica la strada di questo moderno umanesimo.

Suono, gesto, corpo

Fra i vocaboli menzionati nel titolo di questo capitolo non figura la parola «nota», sosti-tuita significativamente da «suono». Da un lato una frequenza esatta, una misurazione,un oggetto riconoscibile e codificabile, un parametro che vorrebbe quasi dirsi parame-tro principe, tutto coordinando e tutto determinando; dall’altro tutto ciò che sta dietroquesta presunta esattezza, a lato e nelle intercapedini delle sedicenti certezze sonore.

La ricerca sul suono, inteso in questo senso, è uno dei fili rossi che corrono lungo lacarriera creativa di Giacomo Manzoni.

114

Page 115: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

L’oceano del suono in mezzo al quale ci troviamo dopo aver lasciato da lunga pezza lontanoda noi le più solide terre della tonalità è davvero immenso, e non è percorso da nessuna rotta[…]. È lì, proprio lì in mezzo, che il compositore deve saper nuotare; e non è affatto detto cheda qualche parte vi sia una sponda sicura, né personalmente, sarei ansioso di avvistarla.22

Gli esempi, nella produzione di Giacomo Manzoni, si moltiplicano, si tratti di suonimultifonici, di registri inediti, di effetti di suono-rumore, di ibridazione dei fonemi, diintenzionali distorsioni e quant’altro ancora. Pure l’altezza (la «nota»), cessando di es-sere depositaria di certezze, diventa strumento per generare l’equivoco e il dubbio. InParole da Beckett (1970-71) lo spazio sonoro è diviso in quarti di tono, il cui accumu-lo in agglomerati di grandi dimensioni dà luogo a effetti vicini a quelli del rumore bian-co (compresenza di tutte le frequenze all’interno di una determinata fascia), ottenutiperò proprio a partire dalla nota, che non si erge più a difesa di un sistema di valoriinattaccabili.

Nel primo capitolo si diceva del legame inscindibile fra questa ricerca e l’impegnodi essere nel mondo in maniera consapevole e critica. Questo il senso del fuggire le re-gole della «nota», e la sua presunzione di semplicità e di ineluttabilità «naturale»; que-sto il senso dell’addentrarsi in tutte le possibilità ancora ignote.

[…] il linguaggio come presenza attiva nelle contraddizioni, dunque come momento princi-pale nella formazione di vera o falsa coscienza: proprio come Manzoni di continuo ribadi-sce ma sempre riferendosi al suono come fatto musicale discriminante, cioè contro il fetic-cio della sua purezza, contro la stessa nuova musica quando ne fa l’alibi della sua irrespon-sabilità sociale.23

Un compositore la cui ricerca poetica presenta punti di contatto con quella di Manzoniè Adriano Guarnieri. Nell’attenzione per il suono, inteso in questo caso nei suoi aspettieminentemente e radicalmente materici. Aprire la partitura dell’opera Medea (1991) èun’esperienza visiva che già contiene una parte dell’esperienza di ascolto: la pagina èsemplicemente gremita di materia sonora, il tratto di chi scrive non cerca alcuna traspa-renza, anzi sembrerebbe andare intenzionalmente nella direzione dell’intrico e del gro-viglio. In questo rituale della matericità e del precipitare degli uni sugli altri degli eventientra prepotentemente il virtuosismo strumentale: parti densissime, che spesso si pon-gono all’interprete non diversamente da un rebus in attesa di una soluzione. Universo so-noro ipertrofico e terribile, in cui le ragioni della «nota» ancor più indietreggiano.

Il suono, si diceva. Ma anche il gesto che lo determina; e anche il corpo che compiequel gesto. Corpo, gesto e teatralità sono concetti cardine della musica di SylvanoBussotti.

Il gesto del comporre si fissa sulla partitura in una maniera totalmente singolare, av-vicinando la pagina di musica a una tela dipinta (e il crinale, se mai esiste nelle pagine

115

Page 116: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

musicali, viene superato da Bussotti nella sua attività pittorica). Ma questo stesso ge-sto, fatto di ispessimenti e rarefazioni del tratto, di disposizione non convenzionale de-gli elementi nello spazio, di un incurvarsi di ciò che dovrebbe essere rettilineo e vice-versa, e di un proliferare di segni e linee che congiungono, dividono, segnalano – que-sto gesto del comporre, insomma, smania di incarnarsi nel gesto di chi suona (anche inquesto caso, il crinale spesso è cancellato da quel Sylvano Bussotti che siede al piano-forte). La variabilità del tratto chiede di trasformarsi in plasticità e duttilità del tocco;la rete di linee e segni che mappano la pagina chiede di diventare il gesto di chi, aven-do di fronte una pluralità di percorsi e letture, esita e si decide fulmineamente, ma for-se poi torna sui suoi passi. La natura discontinua del gesto (compositivo e interpreta-tivo) è resa manifesta dal moltiplicarsi di didascalie e di situazioni divergenti; ne escel’immagine di un soggetto musicale che mette allo scoperto la propria complessità e leproprie contraddizioni. «Sotto ai suoni, prima di essi (e non so ancora quanto in fun-zione di essi), stanno dei fogli che esito a definire scritti o disegnati; partiture che nonsono tali, avventure della scrittura che finge di preludere al suono, ma che si affermadi per se stessa.»24

L’affinità mimetica di gesto creativo e interpretativo diventa tema dominante in di-verse occasioni. In un breve e recente pezzo pianistico, Lo studiolo di Luca Signorelli,come dubitare che lo «scivola», il «quasi s’arresta», il «riprende» e il «corre» (l’uno do-po l’altro in rapida successione), e poi, dopo interruzione con corona, finalmente lo«scorre e canta!», non ritraggano oltre che la mano del pianista anche quella del com-positore nell’atto di scrivere (e quella del suo alter ego rinascimentale nell’atto di di-pingere)? Più precisamente, nell’atto di cominciare l’opera, esitanti (compositore e pit-tore) fra mille idee prepotentemente volitive e intransigenti: una penna (pennello) checomincia di getto, si interrompe, di nuovo abbozza, poi viene posata e infine torna atracciar segni, avendo ora trovato la via.

Un dissenso

Sulle pagine di «Musica/Realtà» si lessero nel 1981 le seguenti righe: «La musica mo-derna in gran parte annoia mortalmente. È brutta, sgradevole e ingrata. All’orecchiocome allo spirito, alla mente, alla pelle. […] Essa puzza […]. Essa è brutta perché nonsi serve di nessun linguaggio comune agli uomini».

E ancora: «L’unica maniera di essere “capiti” è strettamente legata all’unica manieradi essere “graditi”; l’unica maniera di essere “graditi” è fortemente connessa alla possi-bilità di provocare passioni, o affetti, o sentimenti vitali (cioè costruttivi) in chi ascolta».25

L’autore di queste righe era Marco Tutino (che fino al 1998 ha avuto residenza sta-bile a Milano). L’articolo viene comunemente considerato uno dei momenti decisivi

116

Page 117: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

per la nascita del cosiddetto movimento neoromantico. Movimento mai costituitosi uf-ficialmente, piuttosto un naturale raccogliersi di compositori che la pensano diversa-mente. Il salotto di Marco Tutino accolse in quegli anni Carlo Galante, Luca Mosca,Lorenzo Ferrero, Giampaolo Testoni, Paolo Ugoletti.

Impossibile, come in altri casi, sottintendere sotto un’etichetta una reale identità dipoetiche e soluzioni linguistiche. Ciò che qui interessa sottolineare, in alcuni di questiautori, è che le scelte linguistiche sono la logica conseguenza delle dichiarazioni di in-tenti. Il valore riconosciuto nella semplicità (strumento visto come necessario per il co-municare) induce a sciogliere alcuni tabù, per esempio ammettendo la possibilità diimpiegare vocaboli armonici semplici e desunti dalla sintassi tonale (ricreando talvoltaelementi di quella stessa sintassi) e l’adozione di forme più chiaramente scandite. Si ri-nuncia al proliferare di livelli polifonici e ad altri elementi la cui complessità pregiudi-cherebbe un certo ideale di ascolto musicale.

Vengono accolte entusiasticamente le possibilità di un rapporto diretto con il gran-de pubblico, anche connesse a temi di scottante attualità. È il caso, per esempio, delRequiem per Giovanni Falcone, che vede riuniti per la stesura della partitura MarcoTutino, Lorenzo Ferrero, Carlo Galante, Paolo Arcà, Matteo D’Amico, Giovanni Solli-ma, Marco Betta.

In alcuni casi, come quello di Lorenzo Ferrero e del suo Mare nostro (1985), il dis-senso nei confronti dell’altro si fa apertamente acido e sarcastico.

(si librano nell’aria le note inconfondibili di un pezzo seriale. Tutti e cinque gli isolani appaio-no dapprima sconcertati, poi sempre più irritati verso quel genere di musica, pur con diverse ca-ratterizzazioni)

PIGLIATUTTO Morbido miele un corno!MARCHINGELLO Cambio di consonante:

è fiele lassativoRIMESTINO e ASTRADIVA … molesto e noiosante!CANDEGGINA Ma forse conta molto

la pratica d’ascoltoVINERBLUT (Reazione non prevista,

disfatta puntillista!)26

Nel quadro che siamo andati tratteggiando, la posizione neoromantica non appare co-me qualcosa di imprevedibile e di repentino, al contrario rappresenta il coagularsi, e ildivenire improvvisamente visibile, della sempre viva diversità di posizioni nell’inten-dere il moderno.

Si diceva in precedenza che, pur in assenza di strade maestre, molti dei percorsi deicompositori attivi negli ultimi sessant’anni si intrecciano. Per esempio, nel riconosce-re in una certa complessità un momento imprescindibile del fare musica: una com-

117

Page 118: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

plessità che dia ragione della ricchezza e multiformità delle cose, della non univocitàdelle direzioni, della frantumazione delle esperienze temporali che viviamo in ogniistante. Complessità che sia essa stessa oggetto poetico, e che possa ribaltarsi nel suoopposto quando, al termine di un ascolto partecipe e investigatore, se ne riconoscanole radici, umanamente semplici.

Il dissenso si dirige in parte contro questa idea, ma anche e soprattutto (nelle suefrange più stimolanti) contro lo sclerotizzarsi dell’idea in ideologia o peggio ancora inaccademia. In questo senso, l’aspra reazione di una parte dei compositori rende espli-cita una ben più diffusa insofferenza; insofferenza verso sedicenti tabulae rasae, pre-sunti principi fondanti e falsi tabù su cui la generazione dell’oggi riapre quelle discus-sioni che erano state date per chiuse.

Oggi

Per esempio, la discussione sui luoghi della complessità: la chiarificazione di alcuniparametri musicali, lungi dal sabotare la ricchezza, la molteplicità e l’ambiguità deicontenuti, può aprire ad essi nuovi spazi. Scrive Ivan Fedele:

La psicoacustica ci insegna […] che i nostri limiti percettivi e le nostre categorie del pensie-ro ci portano ad assimilare strutture complesse ed articolate solo a determinate condizioni,soprattutto quelle inerenti la dimensione temporale. Abbiamo bisogno di un tempo con-gruo, affinché possiamo rielaborare le informazioni percettive del «teatro della memoria», incui la forma si dà forma.27

In tanta sua musica, proprio il fatto che gli oggetti armonici si presentino con la do-vuta lucidità permette ad essi di diventare veri attori del dramma e generare comples-sità ulteriori; sfidando l’orecchio e la mente a cogliere geometrie, simmetrie, passaggie metamorfosi. La riconoscibilità di un evento si scopre condizione necessaria per ognisuo possibile itinerario, in cui esso possa essere memorizzato, messo da parte e infineritrovato. Operazioni mentali che in tanta altra musica confidano nell’intervento delmisteriosissimo subliminale e che qui invece giungono alla coscienza e costituisconopercorsi scanditi e incisivi.

Un falso tabù, che invece è la musica di Alessandro Solbiati a smentire spesso e vo-lentieri, è quello della cantabilità e della melodia tout court. Non più sequenze in sen-so strutturalista, le successioni di suoni amano ricomporsi in oggetti in cui viva unapossibilità di cantare oggi, analoga alla possibilità di cantare sperimentata (non è forsetroppo ardito sostenerlo) da ogni cultura e da ogni epoca. Il gesto lirico si configuraperciò come archetipo, uno fra i tanti pronti a mettersi in relazione fra loro e a com-

118

Page 119: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

porre strutture narrative: il suono che canta, quello che rintocca, quello che si oscurae quello che di nuovo si illumina (e i mille altri che ancora sono archetipi del nostrosentire) vanno a comporre una vicenda che si costruisce passo dopo passo. Con in-trecci da sciogliere e contrasti da comporre, in un percorso in cui gli archetipi si ibri-dano e le loro relazioni precipitano nell’ambiguità; suggerendo innumerevoli svolgi-menti, non ratificandone alcuno.

Gli itinerari poetici e ideologici che hanno segnato sessant’anni di musica a Milanosfociano nell’oggi, e in alcune loro manifestazioni subiscono marcate metamorfosi. Fa-bio Vacchi compone con Dai Calanchi di Sabbiuno (1995) una delle sue pagine più in-tense, scritta per celebrare i cinquant’anni della Resistenza italiana e ricordare una stra-ge compiuta dai nazisti nei pressi di Bologna. Allo stesso tempo, con questa e altre pa-gine, propone un’alternativa a quella via dell’impegno di cui si è parlato in un prece-dente capitolo: non rottura, non radicalità, non ricerca severa di un «oltre» rispetto allestrutture attestate del linguaggio, bensì una convinta adesione ad alcune di queste strut-ture, che permettano una comunicazione diretta, e la più vasta possibile. Ricordiamo, inquesto senso, anche il rapporto positivo di Vacchi con la musica per film (degna di no-ta è la sua collaborazione con Ermanno Olmi) e col teatro d’opera, a volte selezionandosoggetti legati alla grande attualità come ne La madre del mostro (2007).

Un altro itinerario musicale che prosegue la sua via, aperto alle trasformazioni, èquello della matericità.

Il dizionario semantico di oggi può metterci in contatto con altre culture, avventurarci a re-cuperare sonorità magmatiche. […] Bisogna aver coraggio, e come lo Stalker di Tarkovskijandare là dove stanno le energie feroci, allo stato brado. Non stravaganti ma «extra vagans»verso il nocciolo incandescente delle origini.28

La dichiarazione di intenti di Luca Francesconi ritrae con grande efficacia il ribollireostinato di tanta sua musica, percorsa da movimenti incessanti in spazi chiusi, comepossono essere per esempio accordi tenuti e insiemi di altezze polarizzate. A volte, daquesto spazio si fuoriesce, ma solo per ritornarvi, in una circolarità complessiva che ac-cumula energia potenziale e mai la sfoga.

Alcune strategie tecniche predilette sono quelle dell’ostinato e della figura ribattu-ta, che danno a partiture come Da capo per ensemble, Plot in fiction per oboe e en-semble e Kubrick’s Bone per cymbalom e ensemble la loro particolare cifra stilistica. InMambo per pianoforte, una stessa energia potenziale unifica la partitura, ma le diver-se sezioni la esplicitano a vari livelli: dalle prime pagine, in cui poche note isolate pre-figurano la tensione delle strutture ritmiche a venire, alle pagine successive, in cui ladanza e l’allucinazione prendono forma compiuta.

Passa dalla ricerca materica anche il percorso poetico di Giovanni Verrando; un

119

Page 120: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

esempio è l’esperimento condotto dal compositore in una serie di movimenti intitola-ti filtering e inseriti in diverse composizioni (Triptych, Triptych #2, Polyptych): trascri-vere sonorità elettroniche affidandole a strumenti acustici.

L’operazione di trascrizione parte dalle tecniche utilizzate per produrre i suoni degli studielettronici originari (rumori bianchi, filtraggi, spettri a sviluppo periodico, etc.) la trascri-zione delle quali, appunto, mi spinge a sviluppare un’orchestrazione specifica ed adeguata,facendo anche uso di strumenti non propriamente tradizionali (percussioni che produconorumori bianchi di altezze diverse, campionatore, basso e chitarra elettrica, etc.).29

E anche, nel ciclo inaugurato da First born unicorn, remind me what we’re fighting for,«suoni e timbri complessi (flauto polifonico, pianoforte orchestrale), [che chiedono]al solista di porsi in relazione strettissima, quasi simbiotica, con il proprio strumen-to».30 Una poetica che Giovanni Verrando definisce «dell’eccesso», in rapporto allasoglia della comunicazione standard: «Al di sotto e al di sopra di essa si prende di-stanza dalla normalità comunicativa, entrando in un territorio di ricerca tipico di uncerto atteggiamento artistico, dove hanno dimora le profezie e le attitudini storica-mente anomale».31

Esperienze che hanno punti di contatto con quelle del prematuramente scomparsoFausto Romitelli:

Al centro del mio comporre c’è l’idea di considerare il suono come una materia in cui spro-fondare per forgiarne le caratteristiche fisiche e percettive: grana, spessore, porosità, lumi-nosità, densità, elasticità. Quindi scultura del suono, sintesi strumentale, anamorfosi, tra-sformazione della morfologia spettrale, deriva costante verso densità insostenibili, distorsio-ne, interferenze, anche grazie al ricorso alle tecnologie elettroacustiche. E sempre maggioreimportanza data alle sonorità di derivazione non accademica, al suono sporco e violento diprevalente origine metallica di certa musica rock e techno.32

L’indagine sulla materia si nutre evidentemente anche dei nuovi sviluppi dell’elettro-nica. Dal 1990 a Milano uno dei punti di riferimento obbligati in questo campo è ilcentro di produzione, ricerca e sperimentazione musicale Agon: circa duecentocin-quanta produzioni fra concerti, commissioni, opere radiofoniche, teatro musicale, vi-deo-opere, progetti multimediali, colonne sonore, festival e rassegne. Fra i nomi lega-ti alla sua storia e al suo presente, Luca Francesconi, Michele Tadini, Massimo Marchi.

L’elettronica è il nucleo fondante della poetica di un compositore come GiuseppeGiuliano, in cui il rapporto fra mezzo tecnologico e scelte linguistiche è particolar-mente stretto: mai le geometrie del suono nell’ambiente o le sue modificazioni in tem-po reale giungono a posteriori, costituendo invece la sostanza stessa del comporre edettando il respiro e la forma dell’opera.

Altro compositore che dialoga frequentemente col mezzo elettronico è Alessandro

120

Page 121: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Melchiorre, la cui scrittura spesso pone l’ascoltatore di fronte agli interrogativi deltempo musicale, sfidandolo a stabilire il confine fra il muoversi e lo star fermi, in

un tempo musicale molteplice, che sappia rendere conto del movimento e dell’arresto, delcontinuo e del discontinuo, della durata e dell’istante, di quello scarto quotidiano rispetto altempo dell’orologio, scarto fatto di accelerazioni e decelerazioni, pause e riprese, sogni e in-cubi, malinconia e entusiasmo, che è proprio della vita stessa, movimento di cui la musica,quando è vera musica, coglie meglio di qualsiasi altra cosa l’essenza che ci rimanda.33

In generale, la tendenza delle poetiche musicali ad assumere connotati i più personalipossibili e ad identificarsi con i singoli compositori sembra rafforzarsi. Ecco perciò ilmondo di immagini di Stefano Gervasoni, fatto di attese stupite e di paesaggi sonoriche frusciano e stormiscono; di oggetti musicali dall’aspetto fragile e trasparente, te-naci nel loro prendere vita e popolare lo spazio. Le cui immagini amano creare il lororovescio, generando il luminoso dall’oscuro, il frenetico dall’immobile, l’irto e l’aguz-zo dalla superficie più morbida. E si dispongono, esse e i loro rovesci, in un tempo con-tinuamente frantumato, fatto di segnali e intermittenze. Nessuna vera dialettica fra gliestremi, nessun antagonismo da sciogliere; si finisce per credere all’identità di tutto ciòche accade, in una circolarità che tutto chiude. Salvo riuscire a scardinare quest’ulti-ma, con quell’evento totalmente altro, che nulla, in mezzo alla fioritura degli opposti,lasciava prevedere; una citazione da Schubert, per esempio, che improvvisamente mo-stri dov’è l’uscita.

Ecco poi il vitalismo di Mario Garuti, matericamente disinibito, finanche acido, ca-pace di effetti stranianti quando fa interferire testi e linguaggi oppure quando li spiaz-za, costringendoli fuori dal loro contesto di origine. Ecco i meccanismi precisi e ner-vosi di Gabriele Manca, che procedono a testa bassa finché dura la loro carica, incep-pandosi in tic ostinati, ostacolandosi vicendevolmente, ignorando chi e come verrà in-fine a disinnescarli. Ecco i paradossi di Roberto Andreoni, lasciati alla decifrazione diinterprete e ascoltatore: si tratti di incongruenze del tempo musicale, di derive stilisti-che, di intrusioni di scienza e tecnica nella pagina musicale. Tutti segno dello stuporedi scoprire relazioni fra le cose, e di crearne di nuove. Ecco l’immaginazione surrealedi Davide Mosconi (scomparso nel 2002), che decapita pianoforti, cuce calzemagliecon dentro arpa e arpista insieme, fa suonare musicisti legati l’uno all’altro come unmazzo di asparagi; portando lo spettatore a esplorare categorie mal viste e mal com-prese, prima fra tutte quella del comico.

E ancora, le immagini poetiche di Riccardo Nova, Yoichi Sugiyama, Javier TorresMaldonado, Ruggero Laganà, Gabrio Taglietti, Marco Molteni, Guido Boselli.

Capita anche che i compositori agiscano nel mondo della musica prendendone inmano le strutture e associando diverse competenze. Sandro Gorli da vent’anni è l’ani-

121

Page 122: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

122

ma del Divertimento Ensemble e con le sue scelte di programmazione e la sua attivitàdi direttore, oltre che con quella di compositore, va illustrando ciò che per lui è la mu-sica d’oggi. Con un punto di riferimento frequente, la produzione di Franco Donatoni,e una programmatica attenzione per le generazioni più giovani, che trovano nelle sta-gioni di Milano e Monza occasioni di visibilità e di prova. Ma anche con la preoccu-pazione costante di spiegare al pubblico il perché di questa o quella scelta poetica, ri-correndo alla formula del concerto con introduzione.

Analoga esperienza, con repertorio spesso divergente, quella dell’ensemble SentieriSelvaggi, con Carlo Boccadoro e Filippo Del Corno. Un gruppo che instaura un rap-porto di stretta collaborazione con compositori come Philip Glass, Louis Andriessen,Michael Nyman, David Lang e James MacMillan, e che esprime le ragioni di una mo-dernità senza restrizioni né pregiudizi. Se ne può forse vedere un manifesto nel Luna-rio della musica di Carlo Boccadoro, che per i trecentosessantacinque giorni dell’annosuggerisce altrettanti ascolti discografici, allineando Inverno In-ver di Niccolò Casti-glioni (2 gennaio), Songs for Beginners di Graham Nash (21 aprile), Lingo degli Alma-megretta (5 luglio) e così via, spaziando tra musica classica, world music, rock, jazz,funk, blues, soul, folk, hip hop e altro ancora.

Il traguardo dei vent’anni si avvicina anche per il Festival Traiettorie di MartinoTraversa a Parma, esso pure manifestazione della maniera con cui il compositore chelo anima legge la musica del presente; sviluppando parallelamente la Fondazione Pro-meteo, luogo di intersezione fra musica, scienza e arti visive, e la Casa del Suono, pro-getto che riguarda le più attuali frontiere dell’elettronica.

Quanto al Conservatorio di Milano, con Bruno Zanolini un compositore torna a es-serne direttore, come lo fu per lungo tempo con Marcello Abbado. Questo stesso Con-servatorio (affiancato da altre realtà, come l’Accademia Internazionale della Musica)ha ancora la responsabilità di ruolo guida nella formazione delle nuove generazioni, af-fidandone il compito a compositori come Davide Anzaghi, Paolo Arcà, Massimo Ber-tola, Sonia Bo, Elisabetta Brusa, Giuseppe Colardo, Irlando Danieli, Fulvio Delli Pizzi,Danilo Lorenzini, Dario Maggi, Pippo Molino, Paolo Rimoldi, Vittorio Zago e a di-versi fra quelli già citati.

Per la nuova generazione di compositori, che si affaccia alla ribalta di festival e sta-gioni, la Milano d’oggi è ancora un luogo dove ascoltare ed essere ascoltati, luogo diincontri, conoscenze e dibattiti. Una città attraversata da modi diversi di intendere lamusica d’oggi e di ieri, per la quale etichette, «ismi», scuole e correnti hanno poco sen-so, a confronto con la prepotente esuberanza delle personalità.

La via della soggettività che ha caratterizzato la produzione musicale del Novecento va ora per-corsa fino in fondo, in modo da raggiungere un eccesso di soggettivazione attraverso un per-corso nelle viscere del sé, nell’originalità dell’io. L’io infatti, per propria natura è nascostamen-

Page 123: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

123

te e inevitabilmente eccentrico (qualità da non confondersi con l’eccentricità apparente).La richiesta di autonomia ci suggerisce anche che nessuna accademia, una volta che ci abbiaofferto i mezzi tecnici necessari, può indicarci la strada. Nessuna imposizione esterna è ingrado di suggerire la via per l’intensità.L’intensità estetica dimora nell’io.34

La via non c’è, ma tutto il resto chiede di essere condiviso: una realtà da interpretare,uno scrivere musica che sia veramente necessario, una storia a cui dar seguito.

1 L. Pestalozza, I compositori milanesi del dopoguerra, «La rassegna musicale», XXVII/1, marzo 1957,pp. 27-43: 30.2 P. Santi, programma di sala del concerto degli «Incontri Musicali», 15 maggio 1957.3 F. De Poli, Dove va la musica moderna? Intervista con il compositore Giacomo Manzoni, «Il cangu-ro», II/5, maggio-giugno 1968, pp. 65-68: 68.4 G. Manzoni, Silenzio/ascolto in A. De Lisa (a cura di), Tradizione e utopia, Feltrinelli, Milano 1994,pp. 102-105: 104-105. 5 Cfr. C. Piccardi, Tra ragioni umane e ragioni estetiche: i dodecafonici a congresso, in S. Miceli (a curadi), Norme con ironie. Scritti per i settant’anni di Ennio Morricone, Suvini Zerboni, Milano 1998, pp.205-269.6 E. Restagno (a cura di), Donatoni, Edt, Torino 1990, pp. 17-18.7 Testimonianza di Marino Zuccheri, cit. in A.I. De Benedictis, Omaggio a Emilio Vedova, dal bookletdel cofanetto Luigi Nono. Complete works for solo tape, Ricordi Oggi STR 57001, pp. 7-11: 8.8 P. Donati, E. Pacetti (a cura di), C’erano una volta nove oscillatori…, Rai-Eri, Roma 2002, p. 155.9 E. Restagno, Ritratto dell’artista da giovane, in Id. (a cura di), Berio, Edt, Torino 1995, pp. 5-30: 19.10 L. Berio, Intervista sulla musica, a cura di R. Dalmonte, Laterza, Bari 1981, p. 72.11 P. Castaldi, Grid, Suvini Zerboni, Milano 1970, testo di presentazione.12 G. Gaslini, Manifesto di musica totale, in Id., Il tempo del musicista totale, Baldini&Castoldi, Milano2002, p. 9.13 Dal booklet di G. Gaslini, Song Book, Velut Luna CLVD 146, p. 2.14 G. Gaslini, Il tempo del musicista totale, cit., p. 9.15 S. Sciarrino, Le figure della musica da Beethoven a oggi, Ricordi, Milano 1998, p. 75.16 Dal booklet di S. Sciarrino, Esplorazione del bianco, Stradivarius STR 33539, pp. 4-5.17 G. Borio, La poetica della figura nella recente produzione di Donatoni, in Donatoni, cit., pp. 224-236:227-228.18 F. Donatoni, Presenza di Bartók, in Id., Il sigaro di Armando. Scritti 1964-1982, a cura di P. Santi,Spirali, Milano 1982, p. 89.19 G. Mercati, Bruno Bettinelli. Il cammino di un musicista, Rugginenti, Milano 1998, p. 290.20 L. Bramani, Composizione musicale. Colloquio con Azio Corghi, Jaca Book, Milano 1995, p. 42.21 Q. Principe, Il tempo ininterrotto, in Omaggio a Riccardo Malipiero, Suvini Zerboni, Milano s.d.,pp. 13-26: 14-15.22 G. Manzoni, L’oceano del suono, in Id., Scritti, a cura di C. Tempo, La Nuova Italia, Firenze 1991,pp. 83-84: 84.23 L. Pestalozza, Il suono oltre la nota; per il cambiamento, in C. di Gennaro, L. Pestalozza (a cura di),Per Giacomo Manzoni, «Quaderni di Musica/Realtà» (Supplemento 2), Lim, Lucca 2002, pp. 263-279: 271.24 U. Eco, prefazione a S. Bussotti, I miei teatri, Novecento, Palermo 1982, cit. in A. Lucioli, SylvanoBussotti, Targa Italiana, Milano 1988, p. 22.25 «Musica/Realtà», II/5, 1981, pp. 67 e sgg., cit. in M. Girardi, Il teatro musicale in Italia fra il 1980e il 1990, in L’opera negli anni Ottanta, atti del convegno, Roma, I.R.TE.M. (Quaderni dell’I.R.TE.M.,serie 3 n. 10), 1998, pp. 122-132: 127.

Page 124: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

26 Ibid., p. 128.27 La dualità di Antigone, intervista a Ivan Fedele di F. Manfriani, in Antigone, programma di sala peril 70esimo Maggio Musicale Fiorentino, Pendragon, Bologna 2007, pp. 37-49: 39.28 G. Manin, La musica è finita, intervista a Luca Francesconi, «Corriere della Sera», 30 settembre2008.29 G. Verrando, introduzione a Triptych, <www.giovanniverrando.it>, 2007.30 G. Verrando, introduzione a Second born unicorn, remind me what we’re fighting for, <www.gio-vanniverrando.it>, 2002.31 G. Verrando, La musica come esperienza estetica inattuale, <www.giovanniverrando.it>, 2004.32 F. Romitelli, cit. in <www.ricordi.it/compositori/r/fausto-romitelli-1/fausto-romitelli>.33 A. Melchiorre, Il flusso e l’ostacolo. Un’idea di tempo, «Sonus», IV/1-2, dicembre 1991-maggio1992, fasc. 10, pp. 2-9: 9.34 G. Verrando, La musica come esperienza estetica inattuale, cit.

124

Page 125: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Franco FabbriAltre musiche a Milano, dal dopoguerra a «Musica nel nostro tempo»

Altre musiche. Quali musiche?

È difficile spogliare l’aggettivo «altro» dalle sue connotazioni, dalle implicazioni ideo-logiche del suo impiego. «Altro» è ciò che si trova «oltre a…», è ciò che risulta «di-verso da…», quindi suggerisce perlomeno una priorità, se non una gerarchia. Prima cisi occupa di un argomento, lo si esaurisce, poi si passa ad «altro»: alle «varie ed even-tuali» come si dice negli ordini del giorno. Non ho dubbi che si potrebbero adattarefacilmente all’espressione «altre musiche» le considerazioni critiche che hanno accom-pagnato, per almeno un decennio, l’espressione «musica extra-colta», ad esempioquelle che Roberto Leydi mise in nota a un suo articolo per «Laboratorio musica» (larivista diretta da Luigi Nono, promossa congiuntamente dall’Arci e dalla Ricordi) nel1980. Ne riporto solo un frammento:

La distinzione dell’universo musicale in due grandi categorie: musica colta/musica extra-col-ta, a me pare tardiva conseguenza di una mentalità europeo-culto-centrica. Una simile dico-tomia, infatti, riconosce diritto di distinzione ad una delle tradizioni musicali dell’umanità,ponendo tutte le altre in una unica categoria, non meritevole (almeno in prima istanza) a (sic)riconoscimenti specifici. Cioè: da un lato alcuni secoli di creatività e attività musicale delleegemonie culturali europee (musica colta), da un lato, tutte assieme, le tradizioni musicali,fra loro diversissime, delle classi popolari europee, dei popoli che abitano altri continenti,con le loro interne distinzioni di culto e popolare, del jazz, della musica di consumo.1

Con una riserva, oggi necessaria, sul termine «musica di consumo», a sua volta con-notato ideologicamente (ma trent’anni fa di uso disinvolto), sottoscriverei parola perparola. Tuttavia, sarebbe miope non cogliere implicazioni ulteriori in quell’«altro», inquell’«extra». Così come l’espressione «musica extra-colta» (coniata o comunque so-stenuta da Luigi Pestalozza) era il sintomo dell’interesse vorace per molte e diverse cul-ture musicali cresciuto negli anni Settanta del secolo scorso e di un dibattito che coin-volgeva protagonisti di quelle culture (nei festival della stampa di sinistra, in manife-stazioni come Musica/Realtà, in organizzazioni musicali autonome come il NuovoCanzoniere Italiano, la cooperativa l’Orchestra, la Scuola Popolare di Musica di Te-staccio, in riviste come «Laboratorio musica» e «Musica/Realtà», e infine – sia puremoderatamente e molto gradualmente – in rassegne come «Musica nel nostro tem-po»), in anni molto più recenti l’espressione «altre musiche» affiora come la presa d’at-

125

Page 126: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

to che c’è un intero universo, molto differenziato e articolato, di musiche che le istitu-zioni musicali (dai teatri ai festival, ai conservatori, alle università, ai media che si oc-cupano della musica eurocolta) affrontano ancora con difficoltà, ma non possono farea meno di riconoscere. Con uno scarto quantitativo e qualitativo notevole fra le dueepoche: perché se già trent’anni fa era evidente che le pratiche «altre» erano larga-mente maggioritarie,2 l’ubiquità dell’ascolto attraverso altoparlanti determinata dall’u-so di cuffie, auricolari, installazioni in spazi pubblici e l’accessibilità a materiali regi-strati attraverso la rete hanno reso quella maggioranza del tutto schiacciante. L’«altramusica» è quella che gli abitanti del pianeta ascoltano abitualmente per varie ore algiorno, dovunque; invece la «non-altra», «questa qui», il primo punto in quasi tutti gliordini del giorno, quella a cui le istituzioni di cui sopra dedicano la quasi totalità delproprio interesse e delle proprie risorse, è coltivata da una purtroppo esigua minoran-za delle élite economiche e culturali dei paesi più ricchi. Ma la più che ragionevole re-sistenza a questo stato delle cose non deve farci dimenticare che per quanto l’universodelle culture musicali sia interconnesso, è pur sempre legittimo concentrare i propri in-teressi su una sua parte, e per il momento non occuparsi della parte rimanente. Il pro-blema, casomai, si presenta quando quel «per il momento» si prolunga per decenni osecoli, e la parte sulla quale si concentrano gli interessi (e le risorse) è sempre la stes-sa. La storia degli studi musicali, del resto, è anche la storia della (gradualissima e par-ziale) inclusione dell’«altro»: dalla definizione e dalla nascita della musicologia com-parata alla fine dell’Ottocento, alle nuove prospettive (non più eurocentriche e culto-centriche, per usare i termini di Leydi) che portano a metà del Novecento al conio deltermine «etnomusicologia», alla generalizzazione di quelle prospettive a tutte le cultu-re musicali (inclusa quella eurocolta) promossa dagli studi antropologici, alla nascita ealla diffusione dei jazz studies e dei popular music studies negli ultimi decenni del se-colo. Vedremo allora, nel seguito di questo saggio, diverse manifestazioni dei processidi categorizzazione, di inclusione ed esclusione: vedremo come in alcuni casi l’alteritàsia stata, anziché subìta, rivendicata, e come in altri casi nella vita musicale milanese illungo processo filogenetico degli studi musicali sia stato replicato nella molto più ra-pida ontogenesi di singole manifestazioni.

Prima di iniziare a occuparmi di queste «altre musiche», però, desidero chiarire i li-miti quantitativi e metodologici della trattazione. Per una buona parte dell’ultimo ses-santennio (del quale mi occuperò per circa due terzi) Milano è stata uno dei centriprincipali, o dei più significativi poli di attrazione, dell’intera vita musicale italiana, neipiù diversi generi (non escluse le musiche di tradizione orale, che hanno trovato nellacittà uno dei luoghi più importanti per la ricerca). Anche concentrandosi sull’«altro»,e quindi escludendo le attività musicali legate alla tradizione eurocolta, ci sarebbe diche riempire un’opera in diversi volumi, solo limitandosi a censire ciò che è esistito.Quindi la trattazione che segue sarà necessariamente più che sommaria. Inoltre (e qui

126

Page 127: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

la questione diventa anche personale), di almeno tre quarti di questo sessantennio –specialmente con riferimento alle «altre musiche», ma non solo – sono stato testimonediretto, in qualche caso uno dei numerosi protagonisti. Potrei cavarmela metodologi-camente ricorrendo al concetto antropologico dell’osservazione partecipe, salvo cheun osservatore partecipe di solito è uno studioso, inizialmente estraneo alla cultura chestudia, che se ne fa coinvolgere, soprattutto per aggiungere valenze emic al suo ap-proccio etic, cioè (a grandi linee) per capire le regole interne della cultura, riconosciu-te dai nativi, e non solo quelle che appaiono a un’osservazione «da fuori».3 Della mu-sica a Milano, almeno dal 1965 in poi, sono stato un praticante nativo, certamente at-tento e curioso, ma la mia storia di osservatore professionale, di musicologo «altro» edi storico, inizia ben più tardi, con un evidente rovesciamento (perlomeno cronologi-co) del paradigma dell’osservazione partecipe. Con tutta la buona volontà, e lo sforzodi attenermi ai documenti, sarà difficile che la memoria delle mie esperienze direttenon influisca sul «distacco scientifico» (nei limiti in cui sia possibile o auspicabile), so-prattutto là dove i documenti non esistono. Me ne scuso anticipatamente.

Editoria e Festival di Sanremo

E veniamo, dunque, a Milano. Il suo ruolo di capitale dell’editoria musicale è confer-mato anche da un esame delle canzoni partecipanti ai primi Festival (festivàl, come sidiceva allora) di Sanremo. Una fonte preziosa è costituita dalle registrazioni della se-conda edizione del 1952, tratte dagli archivi Rai e rese disponibili su Cd. Al terminedelle presentazioni di ognuna delle venti canzoni in gara, Nunzio Filogamo annuncia inomi degli autori, ma anche quello dell’editore, seguito dalla sede sociale. Quindicieditori sono di Milano; cinque (uno per ciascuna città) sono di Torino, Tortona, Bo-logna, Lugo di Romagna, Roma.4 Il fatto che si comunicassero al pubblico i nomi de-gli editori costituisce la migliore delle prove che il Festival («della canzone italiana»)fosse destinato a sostenere l’editoria musicale, dunque in larga parte l’editoria milane-se, secondo le modalità di un meccanismo promozionale collaudato fin dall’inizio delsecolo: una canzone ha successo in uno spettacolo di varietà, dunque i privati ne ac-quistano lo spartito e i capi delle orchestrine si affrettano a metterla in repertorio, pro-curando diritti di esecuzione. All’inizio gli interpreti del Festival erano in numero ri-dotto (nel primo del 1951 soltanto tre: Nilla Pizzi, Achille Togliani, il duo Fasano; nelsecondo si erano aggiunti Oscar Carboni e Gino Latilla), segno evidente che – comeper regolamento è sempre stato – fossero le canzoni a essere in gara, non gli interpre-ti. All’epoca, del resto, l’industria discografica si trovava ancora immersa nella crisi nel-la quale era precipitata, in tutto il mondo, durante gli anni Trenta: soltanto il rock’nroll, a partire dal 1956, avrebbe fatto risalire le vendite, e solo negli anni Sessanta la di-

127

Page 128: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

scografia avrebbe potuto rivendicare un ruolo competitivo rispetto all’editoria. Comevedremo, anche di questo processo di competizione interna nell’industria musicale sitrovano a Milano testimonianze significative. Ma tornando a quegli annunci di NunzioFilogamo, ci raccontano anche altro: ci dicono che gli autori delle canzoni di Sanremoerano in larga maggioranza gli stessi che avevano rifornito i cataloghi degli editori nelventennio precedente (e nel Ventennio, dunque). Da Mario Ruccione (1908-1969), ilcaso più sintomatico, autore della quarta classificata al Festival del 1952, Madonna del-le rose, della terza del 1954, E la barca tornò sola, della prima del 1955, Buon giorno tri-stezza, e della prima del 1957, Corde della mia chitarra, ma anche (in anni precedenti)delle meno edificanti Faccetta nera (1935), Camerata Richard (1941, una celebrazionedell’alleanza con la Germania hitleriana), Canzone dei sommergibili, Canzone legiona-ria eccetera; a Vittorio Mascheroni (1895-1972), compositore e talora paroliere di in-numerevoli successi nel genere nonsense (ma con sottintesi politici), da Papaveri e pa-pere del 1952 a Casetta in Canadà del 1957 (la canzone che avrebbe fatto traboccare ilvaso e indotto alcuni intellettuali torinesi a fondare il Cantacronache, per «evadere dal-l’evasione»), ma anche compositore nel 1932 dell’immortale Bombolo; a Mario Panzeri(1911-1991), il paroliere di Grazie dei fiori, la canzone vincitrice nel 1951, di Papaverie papere (1952), e di numerosissime altre, compresa la vincitrice del 1964, Non ho l’e-tà (per amarti), ma anche di Pippo non lo sa (1939), Maramao… perché sei morto (1939)e de Il tamburo della banda d’Affori (1942). Alcune delle canzoni scritte durante il Ven-tennio erano decisamente compromesse col regime, come indica soprattutto il caso diRuccione; altre partecipavano al clima svagato favorito dall’Eiar (alla quale si deve laformalizzazione dell’espressione «musica leggera»: un’eredità del fascismo accettata damolti intellettuali antifascisti con vera leggerezza); altre (specialmente verso gli annidella guerra, e in particolare quelle di Panzeri) strizzavano l’occhio alla «fronda»; al-tre, infine, guardavano ai modelli dello svago internazionale con una certa raffinatez-za, come soprattutto le canzoni di Giovanni D’Anzi (1906-1974), compositore di Nondimenticar le mie parole (1934), Ma le gambe (1938), Silenzioso slow (1940), Ma l’amo-re no (1942), e – milanese fra i milanesi – di Madonina (1938). D’Anzi fu presente aSanremo fin dalla prima edizione, vincendo la seconda con Viale d’autunno e piazzan-do la sua Conoscerti al terzo nel 1959, anno della seconda vittoria consecutiva di Do-menico Modugno. Proprio fino ad allora, nel pieno della guerra fredda, con la Rai sal-damente nelle mani dalla Democrazia Cristiana, il Festival di Sanremo svolse perfetta-mente il suo ruolo duplice di controllo politico della sensibilità di massa (con puntedecisamente nostalgiche, manifestate da canzoni come Vecchio scarpone del 1953),5 edi conservazione dello status quo e dei rapporti di forza nell’industria musicale, impo-nendo una rigida divisione del lavoro tra autori e interpreti, mentre in altri paesi (nel-la Francia di Trenet e Brassens, negli Usa di Chuck Berry, Buddy Holly e Paul Anka,nel Brasile di Jobim) trionfavano gli autori/interpreti, quelli che poi da noi si sarebbe-

128

Page 129: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ro chiamati cantautori. Per comprendere la funzione svolta dal Festival di Sanremonella cultura musicale italiana degli anni Cinquanta, e per verificare le modalità attra-verso le quali si esplicò (il regime monopolistico della Rai, soprattutto) basta confron-tare la situazione della popular music italiana con quella di altri paesi, nel medesimo pe-riodo, o meglio ancora confrontare le chiusure e la stagnazione della «musica leggera»sanremese (e di Galleria del Corso) con ciò che negli stessi anni avveniva nel nostro ci-nema. Avremmo mai avuto il Neorealismo se allora il cinema fosse stato un monopo-lio statale, controllato dagli uomini della Dc?

Dopo il successo di Modugno, comunque, le cose si evolsero rapidamente: la Gal-leria del Corso (luogo concreto e simbolico dell’editoria, come Tin Pan Alley a NewYork e Denmark Street a Londra), da sempre punto di ritrovo di autori, cantanti, stru-mentisti alla ricerca di un contratto, iniziava ad essere frequentata da una generazionenuova.

Night club e jazz a Milano

Durante gli anni Cinquanta la vita notturna milanese aveva visto gradatamente espan-dersi i punti di riferimento: al posto o al fianco – se erano sopravvissuti – dei luoghideputati della mondanità di anteguerra (il Sempioncino, il Cova, l’Embassy, il Giar-dino dell’Hotel Diana, la Società del Giardino) che avevano anche ospitato le primejazz band italiane, nascevano locali sul modello del night club angloamericano o delwhisky à go-go parigino.6 Il processo sarebbe continuato fino all’inizio degli anniSettanta, accompagnando la transizione dai locali prevalentemente dediti alla musicadal vivo (con spazi più o meno ampi per il jazz) alle discoteche «pure»: Santa Tecla,Whisky notte, Gi-Go (poi Whisky a gogò, poi Derby), Taverna Ferrario, Taverna mes-sicana, Sans souci, Marocco, Astoria, Porta d’Oro, Maxime, Gatto verde, Shanghai,per finire con Piper, Bang Bang, Voom Voom, Number One, Charly Max, Nepentha.7

Il Capolinea, locale interamente dedicato al jazz, nascerà nel 1970. Prima della sua fon-dazione, cui fece seguito una lunghissima serie di concerti dei massimi rappresentantidel jazz internazionale durata fino al 1999, la vita del jazz a Milano era punteggiata dal-le visite di alcuni dei grandi protagonisti della musica afroamericana, che in alcuni ca-si si soffermarono collaborando a incisioni o performance con colleghi milanesi (comeChet Baker nel 1959, o Jerry Mulligan negli anni Sessanta alla Taverna messicana).L’elenco dei jazzisti milanesi, di nascita o di adozione (molti i torinesi), che operano incittà negli anni Cinquanta, Sessanta e oltre può essere solo parziale: Giampiero Bone-schi, Gorni Kramer, Franco Cerri, Enrico Intra, Gianfranco Intra, Glauco Masetti,Gianni Basso, Oscar Valdambrini, Dino Piana, Emilio Soana, Giorgio Gaslini.7 E nonsi possono dimenticare i nomi dei critici, come Arrigo Polillo, Franco Fayenz, Daniele

129

Page 130: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Ionio, e dei mecenati, come l’industriale Tito Fontana, proprietario di uno studio diregistrazione al numero 7 di corso Venezia, sede di infinite sessions informali e di inci-sioni. Fin da prima della guerra, e non solo per l’ondivaga ostilità del regime nei con-fronti della musica afroamericana, la scena del jazz e quella della «musica leggera» era-no in continua osmosi: del resto per molto tempo il jazz era stato a tutti gli effetti po-pular music, e nel mondo delle orchestre e dei complessi da ballo si poteva parlare dimaggiore o minore prossimità dei direttori e dei musicisti al jazz, ma molto raramentedi estraneità o di ostilità. Almeno fino alla fine degli anni Sessanta, quando si affacciauna nuova generazione di musicisti formatisi nel rock’n roll e nel beat, le parti stru-mentali dei dischi di «musica leggera» (a Milano come altrove) erano registrate da mu-sicisti di estrazione jazzistica, molti dei quali provenienti dall’Orchestra di Ritmi Mo-derni della Rai. Dunque non c’è affatto da stupirsi se si ritrovano, negli stessi locali not-turni e negli stessi complessi dove negli anni Cinquanta e Sessanta si coltivava il jazz, inomi dei cantanti e degli strumentisti che animavano la nascente scena del rock’n roll,e poco più tardi dei cantautori: Ghigo Agosti, Adriano Celentano, Giorgio Gaber, En-zo Jannacci, Luigi Tenco, fino a Lucio Battisti.

Il rock’n roll

L’ondata del rock’n roll passa per l’Italia e per Milano, ma con un’intensità minore ri-spetto ad altri paesi europei. Compaiono anche qui seguaci e imitatori dei rocker sta-tunitensi, ma non si forma un grande pubblico di massa. Le condizioni sociali che han-no portato al successo del rock’n roll negli Usa (un ampio strato di adolescenti con di-sponibilità economiche e relativa indipendenza dai genitori) non ci sono né ci sarannoper lungo tempo, e al posto dei disc jockey spregiudicati delle radio statunitensi c’è laRai democristiana, con la sua Commissione di ascolto.8 I protagonisti del rock’n rollamericano, primo fra tutti Elvis Presley, non passano per l’Italia; arriva nel febbraio del1959 Paul Anka, per un concerto al Teatro Lirico, ma non è un rocker: fa parte di quel-la schiera di adolescenti «perbene» che le majors cercano di lanciare in alternativa alrock (fra di loro, certamente uno dei più ricchi di talento, e autore delle proprie can-zoni). Un allibito Mario Casalbore, critico del «Corriere lombardo», scrive tra l’altro:

… sono riuscito a sentirlo, ma intervallato, spezzato, frantumato dagli urli belluini, dai fischi,dai clamori, dal pestapiedi di una massa di scalmanati entusiasti che volevano a tutti i costiinserirsi come co-protagonisti in una serata nella quale avrebbero dovuto essere spettatori,sia pur plaudenti.9

È una testimonianza significativa della presenza a Milano, se non di un pubblico di

130

Page 131: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

massa paragonabile a quello che avranno i Beatles qualche anno dopo, di una avan-guardia rumorosa di qualche migliaio di giovani, che ha già adottato i comportamentipartecipativi dei teenager americani, appresi soprattutto grazie al film Senza tregua ilrock’n roll (Rock Around the Clock, di Fred F. Sears, 1956). Del resto lo stesso entu-siasmo e la stessa reazione scandalizzata della stampa (Giorgio Bocca sul «Corriere del-la Sera») avevano accolto il 18 maggio del 1957, al Palazzo del Ghiaccio di via Piranesi,il primo e unico festival del rock’n roll italiano, organizzato dal ballerino Bruno Dos-sena, con la partecipazione di Ghigo (che risultò primo), Adriano Celentano con iRock Boys (secondo), Clem Sacco (terzo), Giorgio Gaber, Tony Dallara e i RockyMountains, Betty Curtis, Tony Renis, Little Tony and his Brothers, Guidone.

I cantautori

Meno di nove mesi dopo quel festival al Palazzo del Ghiaccio, Domenico Modugno vin-ce il Festival di Sanremo, con una canzone della quale è coautore, infrangendo una lun-ga tradizione italiana nella divisione del lavoro tra autori e interpreti. Il disco di Nel bludipinto di blu raggiunge la vetta delle classifiche di vendita negli Usa nella versione ori-ginale in italiano (un’altra infrazione, ancora più macroscopica). Modugno non ha qua-si nulla a che vedere col rock’n roll, ma beneficia della ripresa galoppante delle venditedi dischi collimata con l’ondata del rock. Dopo decenni di subalternità (dalla crisi deglianni Trenta) la discografia solleva la testa, e non dev’essere casuale se i successi più af-fidabili per i discografici – a livello internazionale – sono quelli di cantanti che sono an-che autori delle proprie canzoni, quindi riconoscibili come realizzatori della «versioneoriginale». Per di più, il mancato ricambio generazionale nell’industria editoriale italia-na, dovuto in larga parte all’influsso del Festival di Sanremo e della Rai, crea disagio: gliinterpreti giovani non trovano autori capaci di scrivere canzoni che riflettano la lorosensibilità, mentre gli autori giovani vedono le loro canzoni snobbate dagli interpreti disuccesso. Ma gli autori ineseguiti potrebbero cantare le proprie canzoni, e gli interpre-ti che non trovano buone canzoni già scritte potrebbero comporle per se stessi: su que-sta intuizione (che trova modelli, rispettivamente, in Gino Paoli e Sergio Endrigo), na-scono i cantautori. A metterla in pratica sono discografici coraggiosi, come Nanni Ri-cordi e Franco Crepax (ai quali è affidata l’etichetta fondata da Casa Ricordi, la DischiRicordi), e più avanti Tony Casetta (Bluebell): è il contributo milanese, fondamentale,alla nascita di un fenomeno importante e duraturo della popular music italiana. Anchela parola «cantautore» nasce a Milano, a quanto pare: la conia Maria Monti, per pren-dere affettuosamente in giro l’amico Gino Paoli (autore nel 1960 de La gatta e de Il cie-lo in una stanza). Se ne appropriano due discografici romani, Ennio Melis e VincenzoMicocci, insieme al loro artista Gianni Meccia, dando inizio simbolicamente a una con-

131

Page 132: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

tesa decennale tra la discografia romana (incarnata praticamente dalla sola Rca Italiana,partecipata dalla multinazionale d’oltreoceano e con una quota consistente dal Vati-cano) e quella milanese. Milano lancia Bindi, Paoli, Tenco, Gaber, Jannacci, e interpre-ti come Mina, Celentano, la Vanoni: la potente Rca (forte anche della supremazia tec-nologica e di arrangiatori come Ennio Morricone e Luis Enriquez Bacalov) sottrarrà aMilano Endrigo, Paoli, Tenco, puntando al pubblico adolescenziale con la Rita Pavonee Gianni Morandi, e facendo cassetta con cantautori anomali come Meccia e Fidenco.Quando le canzoni di Fabrizio De André iniziano a uscire dalla prima circolazione sot-terranea, è la milanese Bluebell a farne uno dei cantautori più amati, nonostante (o pro-prio per) le censure della Commissione di ascolto.

I cantautori – e comunque gli autori-interpreti – rappresentavano una sfida alla con-servazione sanremese condotta all’interno del sistema industriale, testimoniata ancheda varie partecipazioni allo stesso Festival: Pino Donaggio, Umberto Bindi, GiorgioGaber, Tony Renis nel 1961, Renis nel 1962, Renis (vincitore) e Donaggio nel 1963,Modugno, Paoli, Donaggio, Little Tony, Gaber, Renis nel 1964, Bobby Solo (vincito-re), Donaggio, Ricky Gianco, Bruno Lauzi, Beppe Cardile, Peppino Gagliardi nel1965, Modugno (vincitore), Donaggio, Endrigo, Vianello, Celentano, Plinio Maggi,Paoli, Bobby Solo nel 1966, Endrigo, Gian Pieretti, Donaggio, Gaber, Tenco nel 1967(anno del suicidio di Luigi Tenco), Endrigo (vincitore), Renis, Donaggio nel 1968.10

Questo dovrebbe indurre a una certa cautela nell’accogliere la narrazione dominanteche identifica comunque nei cantautori l’opposizione all’establishment musicale del-l’epoca, e che vede nel gesto di Tenco il segno di una contrapposizione insanabile frale ragioni dell’impegno e quelle del commercio: per i cantautori il Festival di Sanremoera un’opportunità, e lo stesso Tenco (volontariamente, senza costrizioni) lo consideròtale. Di fatto, invece, i torinesi del Cantacronache non trovarono mai un interlocutorenella discografia, e la fondazione dei Dischi del Sole dimostra la diffidenza o almenol’indifferenza reciproca tra gli esponenti di un’opposizione musicale consapevole e lestrutture dell’industria.

Leydi, Bosio, il Nuovo Canzoniere Italiano, i Dischi del Sole

Il lavoro di Roberto Leydi (1928-2003), di Gianni Bosio (1923-1971) e del NuovoCanzoniere Italiano (nel quale confluiscono in parte le attività del Cantacronache) fadi Milano, nei primi anni Sessanta, il centro della ricerca sulla musica di tradizione ora-le (la «musica popolare») più attivo e noto in Italia, affiancandosi all’altro polo, quel-lo romano, dove già dal 1948 esiste un Centro nazionale studi di musica popolare, edove Diego Carpitella ha da poco beneficiato della presenza travolgente di AlanLomax.11 Lomax ha collaborato anche con Leydi, e si può dire che l’attività dei ricer-

132

Page 133: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

catori a Milano sia stimolata in uguale misura dal nuovo clima politico (col primo go-verno di centrosinistra, nel 1963) e dalla scoperta (senza dubbio dovuta anche all’en-tusiasmo di Lomax) della grande quantità di musiche tradizionali ancora vive, perfinoin un Nord che era stato ritenuto definitivamente modernizzato e perduto per la ri-cerca etnomusicologica. Leydi e Filippo Crivelli curano nel 1964 Bella ciao, lo spetta-colo che scatena uno scandalo al Festival dei Due Mondi di Spoleto, contribuendo al-la notorietà del Nuovo Canzoniere Italiano e al successo discografico dell’album conle canzoni dello spettacolo. Negli anni successivi, alla ricerca e alla riproposizione filo-logica del patrimonio popolare si affianca un lavoro di creazione di canzoni sociali, diprotesta e di riflessione, che viene accolto dal movimento politico-sociale della secon-da metà degli anni Sessanta sotto l’intestazione di «canzone politica» (gli autori prefe-rivano la dizione «nuova canzone»). All’epoca i Dischi del Sole sono l’unica etichettaa pubblicare canzoni politiche, con i suoi principali esponenti: il milanese Ivan DellaMea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Gualtiero Bertelli e tanti altri. Leydi si di-stacca dal Nci, convinto che la musica di tradizione orale abbia una propria alterità chela rende comunque oppositiva, indipendentemente dal contenuto, e dunque scetticorispetto all’uso direttamente politico del canto sociale che informa l’attività del Nci edei suoi collaboratori (tra i quali Dario Fo, regista dello spettacolo Ci ragiono e cantodel 1966). Nel 1968 è Leydi a organizzare il concerto milanese (al Teatro Lirico) diEwan MacColl con Peggy Seeger e il London Critics Group, che eserciterà un’influen-za rilevante sulla comunità del folk revival e della canzone politica. In seguito, Leydifonderà l’Ufficio Cultura del Mondo Popolare della Regione Lombardia. Alla sua mor-te, nel 2003, la collezione personale di registrazioni, strumenti musicali e oggetti dellacultura popolare troverà sistemazione all’Università di Bellinzona, in mancanza di in-teresse da parte degli enti locali milanesi e lombardi.12 Il Nci, con l’Istituto De Martino(fondato nel 1966), resterà a lungo un’importante istituzione della cultura milanese,grazie al lavoro di Gianni Bosio, Franco Coggiola (1939-1996), Cesare Bermani (1937),Ivan Della Mea, e con il contributo di Giovanni Pirelli (1918-1973). Nel 1994, per l’in-disponibilità degli enti locali a trovare una nuova sede a Milano dopo la fine della lo-cazione nella palazzina di via Melzo, sarà trasferito a Sesto Fiorentino.

Il beat e i «capelloni» (Mondo beat)

Il 24 giugno 1965 suonano al velodromo Vigorelli di Milano, a lungo attesi, i Beatles. Liaccolgono migliaia di spettatori entusiasti e urlanti: quasi nessuno, se non nelle primefile di fronte al palco, riesce ad ascoltare il concerto. Stanno già nascendo decine digruppi beat italiani, alcuni dei quali (destinati ad anni di successi) sono milanesi: i DikDik, i Camaleonti, i Giganti, i New Dada (questi ultimi fanno da «spalla» ai quattro di

133

Page 134: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Liverpool durante la tournée italiana). Ma è impressionante soprattutto la diffusionedella pratica musicale tra gli adolescenti: in ogni liceo si tengono feste dove si esibisco-no gruppi di dilettanti, con strumenti amplificati. I grandi e piccoli negozi di strumen-ti musicali del centro (le Messaggerie Musicali in Galleria del Corso, Monzino in viaLarga, Milanfisa in via Cesare da Sesto, a due passi dal Santa Tecla) sono frequentati dauna miriade di aspiranti clienti giovanissimi, che provano sugli strumenti i riff e gli as-soli dei gruppi inglesi più noti. La chitarra (classica o folk) diventa lo strumento d’or-dinanza del tempo libero giovanile: ragazzi e ragazze imparano (per lo più a orecchio)le canzoni dei Beatles e dei Rolling Stones, di Bob Dylan, di Paoli, Endrigo, Tenco e DeAndré. Nel giro di qualche anno entreranno nel repertorio le canzoni politiche e quel-le di Guccini e di Battisti. Tra le avanguardie giovanili penetrano non solo i gusti musi-cali, ma anche i comportamenti e gli atteggiamenti filosofico-politici che in altri paesihanno accompagnato e stanno accompagnando l’esplosione del beat: basta l’esempio dipochi viaggiatori avventurosi che hanno visitato la swinging London, Amsterdam o lamitica Svezia, se non la New York dei beatnicks, perché si formino nuclei di giovani in-tellettuali ribelli con i capelli lunghi. La stampa conservatrice (soprattutto «La Notte»)li chiama «capelloni» e li prende di mira con particolare livore, plaudendo alla poliziache li arresta, disperde le loro riunioni, chiude i loro ritrovi. Siamo alla vigilia del Ses-santotto, ma la sinistra non lo sa, e inizialmente guarda con sospetto queste frange mar-ginali e refrattarie all’iniziativa di partito. «Brutta giornata per capelloni e barbudos.Rastrellati diciannove zazzeruti accampati sotto la Loggia dei Mercanti», titola il«Corriere» del 13 ottobre 1966.13 Il principale polo di aggregazione dei beat milanesi èMondo Beat, fondato proprio due giorni dopo quella retata: prima un movimento, su-bito dopo anche un giornale, e poi, dal gennaio del 1967, un locale, in via Vicenza an-golo viale Montenero («La canzone più cantata a Mondo Beat era È la pioggia che vadei Rokes»).14 Le attività del movimento continuano a essere perseguite dagli organipreposti all’ordine pubblico, fino a provocare convergenze insospettate; il «Corriere»del 9 aprile 1967 si preoccupa: «Alleati filocinesi e capelloni in una nuova chiassata perle vie del centro». Mondo Beat cessa di esistere già a metà giugno del 1967, dopo la pe-nosa esperienza del campeggio in periferia che cerca di portare a Milano le abitudini deibeat del Nord Europa. «La Notte» annuncia che «A “Barbonia city” c’è la libertà di im-parare tutti i peggiori vizi» e il campeggio viene sgombrato. Melchiorre Gerbino, fon-datore del movimento, riprende i suoi vagabondaggi. Tra i suoi collaboratori, AndreaValcarenghi creerà Re Nudo, nuovo polo di attrazione per la componente libertaria eradicale del movimento giovanile milanese e italiano. I campeggi rivivranno, durante iFestival di Re Nudo, a partire dal 1971.

134

Page 135: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Canzone politica, jazz e movimento studentesco

I primi cortei del movimento studentesco sono molto sonori e ricchi di slogan ritmati,ma il repertorio di canti e inni è relativamente ristretto. Il linguaggio già ingessato del-la politica (fortemente condizionato dal maoismo, come temeva il «Corriere») si artico-la sopra la comune scansione incitativa in otto movimenti (bùm / bùm / bùm bùm bùm:«Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-tung!») o più fantasiosamente in scansioni addi-tive, anche in dieci, come «Viva, viva, la dittatura del proletariato!». Forse molto pochi,anche allora, avrebbero creduto a quegli slogan, se non ci fosse stato quel ritmo. Nel1971 il Movimento Studentesco15 milanese crea una «Squadra di propaganda artistica»,con il compito di diffondere gli inni di lotta, le canzoni partigiane, le canzoni politiche,attraverso concerti volanti nelle scuole, nelle fabbriche, nelle piazze. Nel giro di un paiod’anni le squadre diventano quattro, intestate ad altrettanti letterati comunisti (Gor’kij,Brecht, Majakovskij, Lu Hsün), i concerti sono centinaia e inizia una produzione di di-schi. Volente o nolente (nel fervore politico ortodosso le passioni rock vengono riserva-te a momenti privati), un’intera generazione impara a conoscere un vasto repertorio po-polare, che viene intonato a gran voce da migliaia di partecipanti nelle manifestazionidei primi anni Settanta: La brigata Garibaldi, Rosso a Levante e Ponente, Valsesia, Dallebelle città, Per i morti di Reggio Emilia, Compagno Franceschi.16 L’attività della «Com-missione artistica» del Ms si espande significativamente nel 1974, quando (il 24 aprile)viene organizzato un Concerto della Resistenza nell’aula magna dell’Università Statale,con la partecipazione di Giorgio Gaslini, Gianni Bedori, Bruno Tommaso e AndreaCentazzo. Sul modello della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden (1969) il re-pertorio è formato da inni e canti di lotta, ai quali si aggiungono classici del blues e bra-ni di Gaslini. Il concerto ha un successo enorme, e così anche l’album che ne viene trat-to, pubblicato dalle Edizioni di Cultura Popolare del Movimento Studentesco. Si isti-tuisce quasi ufficialmente la saldatura tra il movimento politico e quella politicizzazio-ne del jazz (impersonata da alcuni tra i musicisti afroamericani più radicali) che da tem-po si manifestava nei festival del jazz, in giro per l’Europa.

Gli scontri ai concerti rock e i Festival di Re Nudo

È curioso, ma la ripetizione della filogenesi degli studi musicali nell’ontogenesi del-l’organizzazione si ripete anche qui: nel Movimento Studentesco, che è il gruppo del-la sinistra extraparlamentare di gran lunga più attento al mondo della cultura (perlo-meno in senso tradizionale), così come negli altri gruppi dell’epoca (Avanguardia Ope-raia, Lotta Continua), a lungo non vi è alcun dibattito sulla popular music, cioè sullamusica che indubbiamente costituisce il primo oggetto dell’interesse personale dei mi-

135

Page 136: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

litanti e dei simpatizzanti. Si comincia prima a parlare di musica popolare (sub speciepolitica, naturalmente), poi si sancisce l’accettazione del jazz. Come ho scritto altrove,l’educazione politica (pubblica) dei giovani del Sessantotto passa per i testi di PaoloPietrangeli e Ivan Della Mea, quella sentimentale (privata) attraverso i testi di Mogolper Battisti. Quando alla fine si arriva a parlare di rock, il discorso si polarizza in duefiloni principali: un attacco teorico al disimpegno politico dei protagonisti (è l’epocadel progressive rock, un genere nel quale l’impegno non è escluso, ma è comunque col-legato o subordinato a un artigianato minuzioso) e un attacco pratico alle strutture or-ganizzative della popular music, ai «padroni della musica». Di fatto, questo secondo fi-lone precede il primo ed è molto più visibile. Dopo alcune premesse (incidenti con lapolizia durante i concerti di Joan Baez e dei Chicago all’Arena), il 5 luglio 1971 si sca-tenano scontri mai visti prima in un contesto simile per il concerto dei Led Zeppelinal Vigorelli (ospiti di una tappa del Cantagiro). La rivendicazione «La musica è nostra,prendiamocela», fatta propria dai gruppi informali del sottobosco della sinistra extra-parlamentare più prossimi all’illegalità, segnerà la vita musicale popular (anche e so-prattutto a Milano) per quasi un decennio a seguire. I maggiori impresari dell’epoca(David Zard, Franco Mamone) erano particolarmente presi di mira, e la loro affidabi-lità sui mercati internazionali messa a dura prova dalla guerriglia (del resto quasi nes-sun musicista, compresi quelli più politicizzati, fu risparmiato): questo ha fatto so-spettare che gli scontri facessero parte di una strategia per favorire forme di auto-or-ganizzazione promosse da partiti e gruppi della sinistra o dagli stessi musicisti. Fiabe:fosse stata capace di tanta strategia la sinistra sarebbe arrivata e rimasta al potere in-definitamente. Ma è senz’altro vero che da allora inizia un periodo nel quale il circui-to di concerti più affidabile per la popular music e per il jazz diventa quello delle festedella stampa di sinistra, da quelle tradizionali (oltre seimila all’anno) de «l’Unità», aquelle dell’«Avanti!», a quelle dei quotidiani dei vari gruppi extraparlamentari e dei re-lativi circoli culturali. È un concerto per la stampa extraparlamentare, ad esempio, ariaprire alla musica il Vigorelli, il 17 maggio 1975: suonano Eugenio Finardi, gli Stor-my Six, la Premiata Forneria Marconi. Un caso a parte è quello dei già citati Festivaldi Re Nudo. Si svolgono nel 1971 a Ballabio (sul palco c’è uno striscione con la scrit-ta «Un nuovo modo di fare musica»), nel 1972 all’Alpe del Viceré, nel 1973 a Zerbo,e nel 1974, 1975 e 1976 a Milano, al Parco Lambro. La loro storia riassume la traiet-toria del movimento giovanile di quegli anni, dall’autogestione pauperista delle primetre edizioni campagnole all’invasività sempre più fastidiosa del marketing nelle primedue edizioni milanesi (bandiere rosse «fasulle» fatte comparire, a cura delle etichette«alternative», e sventolare a favore delle nuove star del movimento), fino al disastro del1976, con il celebre saccheggio della rosticceria che (per una volta) anticipa come far-sa le violenze tragiche degli anni successivi.

136

Page 137: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

L’Orchestra, il Consorzio Comunicazione Sonora

Il 1974, anno della prima edizione milanese del Festival di Re Nudo, vede anche la na-scita di una nuova organizzazione autonoma di musicisti, la prima di tali dimensionidai tempi del Nuovo Canzoniere Italiano. È l’Orchestra, una cooperativa, nata sul mo-dello di simili aggregazioni artistiche in altri campi, sempre più diffuse (cooperativeteatrali, cinematografiche). L’idea di fondare una cooperativa, non un collettivo, uncircolo culturale, una cellula, è il sintomo di un «bisogno di impresa» che si manife-sterà massicciamente anni più tardi, durante il cosiddetto «riflusso». Ma l’intenzionedei fondatori – soprattutto componenti dei gruppi rock, folk, di canzone politica atti-vi da qualche anno nel circuito delle feste di partito e affini (Stormy Six, Gruppo FolkInternazionale, Yu Kung, Quarto Stato, Tecun Uman ecc.), più una larga rappresen-tanza del «nuovo jazz italiano» – è quella di affermare con decisione l’indipendenzadalle burocrazie dei piccoli e grandi partiti, mettendosi però al servizio della sinistraintera: un’idea che a posteriori appare decisamente ingenua, ma sia allora, sia in se-guito si manifestava ampiamente come utopia di interi strati sociali. Ne viene elettopresidente il sottoscritto, vicepresidente Moni Ovadia; nelle fila dell’Orchestra si tro-veranno molti musicisti e intellettuali che proseguiranno la loro attività a Milano e al-trove, nella musica, nella letteratura, nell’università: Umberto Fiori, Carlo De Martini,Tommaso Leddi, Pino Martini, Renato Rivolta, Alessandro Carrera, Piero Milesi, Ma-ria Colegni, Mario Arcari, Mario de Leo, Tony Rusconi, Guido Mazzon, Andrea Cen-tazzo e tanti altri, senza dimenticare soci di altri paesi, come Chris Cutler, Fred Frith,Heiner Goebbels.17 Nata essenzialmente come un’agenzia autogestita, con il compitodi migliorare le condizioni tecnico-artistiche ed economiche degli iscritti, per una se-rie favorevole di circostanze l’Orchestra diventa quasi subito anche un’etichetta disco-grafica (pubblicherà oltre cinquanta titoli), una delle principali scuole popolari di mu-sica del periodo, un centro di produzione e distribuzione di concerti in tutta Europa(con rapporti privilegiati in Germania e con l’organizzazione di Rock In Opposition),gestendo con altre cooperative il Teatro Arsenale, primo centro culturale polifunzio-nale di Milano, e collaborando con il Teatro dell’Elfo per varie produzioni (PinocchioBazaar musicato dagli Stormy Six, Le mille e una notte musicate dal Gruppo FolkInternazionale). Quando a Milano, dopo le elezioni amministrative del 1975, si formala prima «giunta rossa», l’Orchestra è una delle istituzioni invitate a far parte dellaConsulta dello spettacolo dell’Assessorato alla Cultura del Comune. La rottura a sini-stra della fine degli anni Settanta avrà l’Orchestra tra le proprie vittime: farà in tempoa organizzare un ciclo di concerti al Teatro dell’Elfo con programmi coraggiosi (com-presa una delle ultime apparizioni milanesi di Cathy Berberian e una serata monogra-fica dedicata a Brian Ferneyhough, con la presenza del compositore), a pubblicare unadelle prime ricerche approfondite sui consumi musicali, con Milano come una delle

137

Page 138: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

città campione,18 e soprattutto a offrire un modello mai ripetuto di organizzazione au-tonoma di musicisti appartenenti a tutti i generi principali della vita musicale occiden-tale. Tra il 1976 e il 1977, quando l’Orchestra è all’apice della sua presenza nella vitamusicale milanese, entra a far parte del Consorzio Comunicazione Sonora, una strut-tura di coordinamento tra varie etichette discografiche variamente indipendenti volu-ta con forza da Gianni Sassi, il pubblicitario e discografico fondatore della Cramps. IlConsorzio (che raccoglie anche le etichette Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, Divergodi Sergio Lodi e Zoo Records di Franco Mamone) appare molto più potente di quan-to non sia, rimandando sine die la soluzione del problema maggiore della discografiaindipendente, quello della distribuzione.

«Musica nel nostro tempo» vs. «Jazz nel nostro tempo»

Il 1976 è l’anno della prima stagione di «Musica nel nostro tempo». Alla luce di quel-lo che si è visto nei paragrafi che precedono, si comprende che la confluenza di entilocali, istituzioni musicali, musicisti, musicologi e operatori dell’industria promossa daNovella Sansoni (a sua volta nata come amministratrice pubblica con la vittoria deipartiti di sinistra alle elezioni del 1975) è la manifestazione di un clima generale che ri-guarda tutta la vita culturale italiana. In molti casi, i promotori di «Musica nel nostrotempo» sono già stati protagonisti di iniziative culturali trasversali, ad esempio Mu-sica/Realtà a Reggio Emilia. Ma ho anche altri ricordi: Claudio Abbado che visita la se-de del Movimento Studentesco per progettare un concerto (mai realizzato) nell’aulamagna di via Festa del Perdono19 o la Biennale di Venezia che nel quadro di giornatededicate a Hanns Eisler (con la supervisione di Luca Lombardi) invita per un concer-to al Conservatorio un gruppo rock (come farà di lì a un anno l’Autunno Musicale diComo, invitandone due).20 Insomma, «Musica nel nostro tempo» non arriva inattesané come un progetto di estrema avanguardia: il ruolo di primissimo piano dei musici-sti e delle istituzioni coinvolte fa sì che venga salutata come qualcosa di necessario, inlinea con lo spirito del tempo, finalmente realizzato. Proprio per questo, una vasta co-munità musicale, quella che con maggiore passione sostiene l’iniziativa collaborativa etrasversale fra musiche caratteristica di quel periodo, resta interdetta di fronte all’e-sclusione dal programma della prima stagione di musiche diverse da quella eurocolta,per lo più contemporanea. Quella musica «nel» nostro tempo sembra molto una mu-sica «del» nostro tempo, nell’accezione restrittiva dell’aggettivo «contemporaneo» dif-fusa nelle élite. Ne sono molto colpiti soprattutto i jazzisti, anche perché ritengono cheormai da molti anni il jazz (il free jazz, la «musica creativa e improvvisata») abbia rap-porti di contiguità con la musica colta contemporanea, ed è comunque già percepibi-le in sottofondo il concetto (poi sviluppato e affermatosi in tutto il mondo a partire da-

138

Page 139: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

gli Usa) che il jazz sia la musica colta della comunità afroamericana. A Milano, anchedopo l’investimento di attenzione verso il jazz da parte del Movimento Studentesco,l’idea che il jazz sia una musica seria, impegnata, contemporanea è data per scontatada un’ampia porzione del pubblico giovanile. Da questo contesto nasce la proposta,maturata all’interno della cooperativa l’Orchestra, di rimediare alla mancanza con unarassegna di «Jazz nel nostro tempo», da tenersi in coda alla stagione di «Musica nel no-stro tempo», nel giugno del 1977. Non vi sono contatti formali con la Provincia né coni consulenti della manifestazione principale, ma il Comune offre il suo patrocinio,l’Arci aderisce, i Pomeriggi Musicali assicurano il supporto amministrativo, e «Jazz nelnostro tempo» vede la luce; manifesti con una grafica aggressiva (ma con un tocco diarancione che richiama il colore-marchio di «Musica nel nostro tempo») annuncianoil programma: il quartetto di Alexander von Schlippenbach21 e l’OMCI22 il 2 giugno; iltrio Schiano-Tommaso-Mazzon e il quartetto di Anthony Braxton con Muhal RichardAbrams23 il 3 giugno, lo Steve Lacy Trio24 e il quartetto di Guido Mazzon25 il 4 giu-gno. Gli organizzatori di «Musica nel nostro tempo» abbozzano elegantemente; noncosì i critici e gli organizzatori abituali del jazz a Milano (spesso si tratta delle medesi-me persone: il conflitto di interessi a Milano ha una lunga storia), che accusano l’Or-chestra di essere una «mafia». Malgrado il successo di pubblico, non ci saranno altreedizioni di «Jazz nel nostro tempo».

Musiche senza compromessi, al tramonto

Prima di passare a esaminare la presenza delle «altre musiche» nelle stagioni di «Mu-sica nel nostro tempo» è necessario accennare (sia pur sommariamente) all’evoluzionedella scena milanese nella seconda metà degli anni Settanta. Lo farò riferendomi aquattro concerti esemplari, anche nella loro successione: quello degli Henry Cow conla Mike Westbrook Brass Band (The Orckestra) al Teatro Uomo il 16 settembre 1977;quello di John Cage al Lirico il 2 dicembre 1977, quello degli Henry Cow in piazza delDuomo il 25 luglio 1978, quello per Demetrio Stratos all’Arena, il 14 giugno 1979. GliHenry Cow erano stati uno dei pochi gruppi rock inglesi a filtrare nel nostro paese du-rante la fase critica del «riprendiamoci la musica». Politicamente coerenti, auto-orga-nizzati (viaggiavano in tournée su un autobus trasformato in una sorta di squat londi-nese), con una non comune presenza femminile nell’organico, sperimentali e rigorosinella ricerca musicale (a partire dal nome, con il riferimento a Henry Cowell), eranomolto amati nel «movimento» fin dal 1975, anno di un loro memorabile concerto a Ro-ma, in Campo de’ Fiori, insieme a Robert Wyatt, davanti a più di diecimila spettatori.Avevano tenuto concerti anche a Milano (il più recente al Lirico, il 21 febbraio 1977)e stretto rapporti con l’Orchestra e con gli Stormy Six: nel 1977 stava nascendo Rock

139

Page 140: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

In Opposition, la «lega» di gruppi europei che avrebbe percorso il continente nei treanni a seguire. Il concerto del 16 settembre avviene in un clima molto teso. Tre giorniprima, un concerto di Carlos Santana al Vigorelli è stato attaccato dagli «autonomi»con bombe molotov. Umberto Fiori e chi scrive, a nome dell’Orchestra, avevano pas-sato buona parte del pomeriggio ai microfoni di Radio Popolare, discutendo sulla po-litica dell’organizzazione musicale e suggerendo che il modo migliore per opporsi alletournée faraoniche e ai megaconcerti-ghetto fosse quello di sostenere i musicisti indi-pendenti, come quelli che il 16 sarebbero saliti sul palco del Teatro Uomo. Ma l’attac-co al Vigorelli era scattato ugualmente. Come ovvia conseguenza della politica dell’or-dine pubblico di allora, il giorno del concerto la zona del Teatro Uomo viene presidiatacome se gli estremisti più accaniti d’Italia dovessero trovarsi tutti lì. Ma alla fine nonc’è nessun attacco: il concerto (organizzato da Canale 96) verrà ricordato per anni co-me uno dei più intensi, ricchi di stimoli, belli. Le note di Over the Rainbow, nel bis delchitarrista Fred Frith, cercano di suggerire una pacificazione che non avverrà.

Qualche mese dopo, John Cage si presenta al Teatro Lirico per una performance in-titolata Empty Words: una lettura di testi di Henry D. Thoreau, smembrati nelle com-ponenti fonemiche. La sala è piena di un pubblico curioso di confrontarsi con una leg-genda della musica sperimentale, a lungo evocata negli anni recenti soprattutto in re-lazione all’attività degli Area e dell’etichetta Cramps: Cage è decodificato attraverso ilmarketing sapiente e manipolativo di Gianni Sassi, come se fosse il padre del rock ra-dicale. Quando si accorge di cosa si tratti veramente, gran parte dei presenti reagisceprima con imbarazzo, poi con segni di ostilità e provocazioni, interpretando la perfor-mance come un gioco e un invito alla partecipazione attiva, ben oltre le più roseeaspettative di Cage (al quale il pubblico beneducato e remissivo dell’avanguardia nonaveva quasi mai risposto così energicamente). Dopo due ore di urla, risa, sbeffeggia-menti, Cage si alza, va incontro al pubblico, e scatta un applauso interminabile. Li-beratorio, vorrebbe il senso comune. Ma da che cosa?

Nell’estate che segue gli Henry Cow sono nuovamente a Milano, ma per il loro ulti-mo concerto, in assoluto. A marzo si era tenuto a Londra il primo Festival di Rock InOpposition e lì era arrivata la notizia del rapimento di Aldo Moro da parte delle Bri-gate Rosse. Non solo in Italia l’attacco terroristico e le sue conseguenze politiche pro-vocano turbamento e incertezza: la decisione degli Henry Cow di sciogliersi coglie i lo-ro amici e sostenitori milanesi come un altro segno di quel malessere (in tutto il 1978l’Orchestra non produrrà un solo disco). In piazza del Duomo qualche centinaio dipersone assiste al concerto: è luglio ed è pieno giorno, ma solo un anno prima l’acco-glienza sarebbe stata ben altra.

Infine, poco meno di un anno dopo, viene convocato all’Arena un grande concertodestinato a raccogliere fondi per le cure di Demetrio Stratos, malato gravemente. Ilconcerto è previsto per il 14 giugno 1979, ma il giorno prima Stratos muore. Il con-

140

Page 141: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

certo appare come una sorta di vetrina delle musiche («altre»?) che circolano nel mo-vimento giovanile, con alti e bassi inevitabili, data la circostanza. Nelle aspettative de-gli organizzatori, evidentemente, dovrebbe emergere come una dimostrazione di po-tenza e di ricchezza culturale, di rilancio dopo l’anno terribile che è trascorso. È rima-sto, ovviamente «mitico». Ma la storia ci dice che quello è l’ultimo atto, se non proprioil funerale, del movimento musicale degli anni Settanta: da lì in poi parte la normaliz-zazione, la fine delle etichette indipendenti storiche, la riappropriazione da parte del-le agenzie internazionali del mercato della musica dal vivo. Per la musica senza com-promessi, come afferma in quel periodo Chris Cutler, it’s time to go institutional, è tem-po di entrare nelle istituzioni.

Le «altre musiche» in «Musica nel nostro tempo»

Torniamo indietro, sia pure di poco. Anche nella seconda stagione di «Musica nel no-stro tempo» (1977-1978) non ci sono tracce di «altre musiche». Quando compaiono,nella terza (1978-1979), si tratta di musica colta, rispettivamente della tradizione india-na settentrionale (Nikhil Banerjee, sitar, Anindo Chatterjee, tabla, Ratan Mukherjee,tanpura) e araba (Munir Bashir, ’ud). Lo schema della ripetizione ontogenetica dellafilogenesi degli studi musicali trova qui la sua attuazione più precisa: si inizia da unaprospettiva comparativista, con un programma affidato a Ivan Vandor, in collabora-zione con l’Istituto Internazionale di studi musicali comparati di Berlino (Vandor, inverità, stava spostando l’istituzione berlinese che dirigeva verso una prospettiva etno-musicologica), e si continua nella stagione successiva (la quarta) facendo seguire nelprogramma, dopo un altro incontro con la musica dell’India settentrionale (Vasant Raj,sarod, Shashi Nayak, tabla), una «Settimana di musica popolare italiana» di impiantodecisamente etnomusicologico, affidata a Roberto De Simone, Roberto Leydi, PietroSassu, Gastone Venturelli. Il registro non cambia nella quinta stagione (1980-1981),con i balletti Kodja: «Musica, canti e danze rituali del Congo e dell’Africa Centrale».Nella sesta e settima stagione (1981-1982 e 1982-1983) non ci sono «altre musiche», senon per la presenza di Andrea Centazzo (batterista e percussionista jazz, che abbiamogià incontrato al fianco di Gaslini e nelle iniziative dell’Orchestra) in un programmadedicato alla percussione di impianto decisamente «contemporaneo».

Dopo le musiche colte extraeuropee, la musica di tradizione orale italiana e africa-na, il jazz (o meglio, il jazzista), finalmente nell’ottava stagione (1983-1984) arriva la po-pular music, con il seminario-dibattito «Ricerca nella popular music e discografia indi-pendente: dai Cantacronache ai Residents», curato dal sottoscritto, con la partecipa-zione di Giorgio Adamo (etnomusicologo), Nick Hobbs (organizzatore di concertirock, performer), Shuhei Hosokawa (studioso di popular music), Scott Piering (giorna-

141

Page 142: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

lista rock), Michele L. Straniero (uno dei fondatori del Cantacronache, studioso di mu-sica popolare). È la premessa di un’accelerazione, sancita dall’inclusione di chi scrivenel comitato dei consulenti artistici di «Musica nel nostro tempo». Nella nona stagio-ne (1984-1985) due degli appuntamenti maggiori, nella Sala Verdi del Conservatorio,sono rispettivamente con Cecyl Taylor e la sua «Music from two Continents»26 e conl’opera-oratorio di Giovanna Marini per fanfara, voci e percussioni Il regalo dell’impe-ratore.27 Nella stessa stagione il quinto concerto, con il soprano Annette Meriweathere il pianista Richard Trythall, è dedicato in buona parte al Songbook di George Gersh-win, mentre il 16 e 17 aprile al cinema Paris viene presentata «Jazz Immagine, rasse-gna di filmati e cortometraggi storici sulla musica jazz» (in collaborazione con L’Orsamaggiore). La decima stagione (1985-1986) introduce alcune novità: per la prima vol-ta il programma generale contiene l’elenco dei consulenti artistici, e per la prima volta(dopo il fortunatissimo ciclo di lezioni sul linguaggio musicale della stagione 1978-1979) viene inclusa nel palinsesto una serie di incontri didattici sul jazz («Uomini eproblemi del jazz») curati da Luca Cerchiari, con la partecipazione di critici e musici-sti.28 La combinazione delle due innovazioni produce un cortocircuito curioso: doponove anni nei quali nessuno dei curatori di «Musica nel nostro tempo» era stato maicitato (il che aveva portato ad accuse subdole di controllo occulto dei programmi),29

nella locandina della decima stagione il nome di Luca Cerchiari compare nove volte.Quello degli altri consulenti, funzionari e curatori una sola. I concerti «altri» com-prendono quello di Franco D’Andrea, Mal Waldron e Martial Solal («Il pianismo jazznegli anni ’80: Italia, Europa, Stati Uniti»), e il primo concerto rock nella storia dellamanifestazione: «Un certo rock» (al Teatro Lirico), con David Thomas (ex Père Ubu)and the Wooden Birds.30 Nell’undicesima stagione (1986-1987) lo spazio appena aper-to per il rock viene occupato da UT, gruppo punk femminile newyorkese (cresciuto sul-la scena londinese),31 per un concerto organizzato l’8 marzo 1987 nella Sala Verdi conil titolo non molto fantasioso di «L’altra metà del rock». La proposta risulta di granlunga troppo ardita; le UT incarnano al massimo grado il senso di sfida e il dilettanti-smo esasperato e ostentato del punk originario: andrebbero ascoltate con orecchio esguardo antropologico (o con sfrenata solidarietà femminista), ma l’atmosfera gelidadella Sala Verdi (a luci piene) e le aspettative estetico-avanguardistiche del pubblico(mai tradite finora) sono completamente disattese. Ricordo che da allora i funzionaridella Provincia e dei Pomeriggi Musicali cominciarono a guardarmi storto. Il concer-to era stato preceduto (il 5 e il 6 marzo) da due serate dedicate ai classici di Rodgers,Porter e Kern, in una ricca versione con l’accompagnamento dell’orchestra della Rai:32

mai il contrasto avrebbe potuto essere più grande.Pochi giorni dopo, il 14 e 15 marzo 1987, si svolge la prima fase de «Il suono in cui

viviamo. Un programma di studio sull’uomo, la musica, l’ambiente» a cura di chi scri-ve. Il titolo di questo primo appuntamento è «Vero o falso? Estetica della musica “ri-

142

Page 143: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

prodotta”». Sono già annunciati i titoli per le due stagioni successive: «Suoni d’artifi-cio: strumenti nuovi e nuovi gesti» e «Paesaggi sonori del nostro tempo». In teoria,non sarebbe compito di questo saggio sulle «altre musiche» di parlare di questi incon-tri, aperti allo studio degli argomenti di cui sopra in relazione a tutte le musiche, in-clusa quella colta. Ma, come ho discusso all’inizio, è proprio questa apertura all’uni-verso intero delle musiche, promossa dagli studi antropologici e dai popular music stud-ies, a risultare (allora come oggi) almeno periferica agli interessi della musicologia sen-za aggettivi. Di fatto, la derivazione degli argomenti affrontati ne «Il suono in cui vi-viamo» risulta chiara dai sottotitoli e dai partecipanti: «La fabbrica del sound: popularmusic e studio di registrazione», con Chris Cutler (musicista e critico), Stefano Bona-gura (giornalista), Titti Denna (tecnico del suono), Paolo Prato (sociologo), OdersoRubini (produttore), e «Alta infedeltà: fenomenologia dell’ascolto privato», con PhilipTagg (musicologo), Janvier Granito (esperto di acustica), Luigi Pestalozza (storico del-la musica), Alessandro Carrera (critico). La seconda fase si svolge durante la stagione1987-1988, il 9 e 10 aprile: i sottotitoli delle due giornate sono «“Un tocco di classe”:gesti, comportamenti ed etichette musicali» e «Il gesto e la macchina: le nuove inter-facce uomo-strumento». La terza e ultima fase appartiene alla stagione 1988-1989, il 6e 7 maggio: «Vivere nel suono: composizione, architettura, urbanistica, ecologia», conNemesio Ala (sociologo), Bernard Delage (architetto, soundscape designer), AlessandroMelchiorre (compositore), Piero Milesi (compositore), Domenico Stanzial (esperto diacustica), e «Musica e ambiente: passato, presente e futuro», con Iain Chambers (stu-dioso di cultural studies), Goffredo Haus (informatico musicale), Paolo Prato (socio-logo) e il sottoscritto.

La presenza delle «altre musiche» nelle ultime stagioni di «Musica nel nostro tem-po» si articola nel concerto di Peter Hammill («Una voce del rock», nella Sala Verdi)l’8 novembre 1987 (dodicesima stagione), nel concerto a Lodi di Mike e Kate West-brook («Westbrook-Rossini. Jazz and Rock Variations»)33 e nel concerto dei La 1919(«Ars srA»)34 a Seregno (tredicesima stagione). Presenze eterodosse nella tredicesimastagione sono anche quelle della cantante Alice (che canta Satie, Ravel, Fauré) e delgruppo gospel James Family Singers.

Con la tredicesima stagione si conclude la «Musica nel nostro tempo» del progettooriginale. Le tre stagioni con lo stesso nome che seguono, nel tentativo (purtroppo fal-lito) di coinvolgere un pubblico più ampio, sembrano essere pervase più dalla preoc-cupazione di modificare gli equilibri interni nel mondo della musica colta contempo-ranea che di lanciare ponti al di fuori di quell’ambito. E quando ancora la «Musica nelnostro tempo» diretta da Marco Tutino è – sia pure stentatamente – in attività, laProvincia lancia «Suoni e visioni», una manifestazione in un certo senso speculare,concepita per un pubblico post-modernisticamente onnivoro, ma poco interessato al-la sperimentazione radicale di qualunque tipo. La Milano musicale, nel frattempo, è

143

Page 144: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

molto cambiata: dalla città-pilota della seconda metà degli anni Settanta (guardata conattenzione in tutta Europa per lo spazio che destinava alla musica contemporanea diogni genere) è diventata la città pigra e conservatrice degli anni Novanta e oltre, lar-gamente sopravanzata dalla Torino di «Settembre musica» (ironia: nata sul modello di«Musica nel nostro tempo»), dalla Bologna di «Angelica», da Roma, da Venezia, da cit-tà e cittadine molto più disposte a rischiare sul nuovo. Di qualunque genere.

1 R. Leydi, Dalle «fortune» del passato ai «fenomeni» del presente, «Laboratorio musica», Anno II, n.13, giugno 1980, Cooperativa Nuova Comunicazione, Roma, pp. 14-16: 16.2 Si veda la ricerca di N. Ala, F. Fabbri, U. Fiori, E. Ghezzi (La musica che si consuma, Unicopli,Milano 1985), condotta a Milano e a Reggio Emilia nel 1983.3 In un suo contributo a un volume a più mani sull’utilità e le funzioni della cultura (A cosa serve lacultura. Quattordici contributi, il Saggiatore, Milano 2008), il noto giornalista Robert Fisk si è scaglia-to contro le oscurità del linguaggio accademico, prendendosela proprio con l’uso dei termini etic eemic. Dedico la mia sommaria spiegazione del loro significato a Robert Fisk e ai lettori che non si oc-cupano di studi antropologici.4 Gli editori delle canzoni in gara a Sanremo possono essere trovati grazie al motore di ricerca dispo-nibile sul sito della Siae <http://operemusicali.siae.it/OpereMusicali/start.do?language=it>. Purtrop-po, però, l’«editore originale» indicato lì è quello attualmente titolare dei diritti, non quello che ini-zialmente provvide al deposito, e comunque non ne viene indicata la sede. L’elenco delle canzoni par-tecipanti al Festival si trova, fra gli altri, in M. Giannotti, L’enciclopedia di Sanremo, Gremese Editore,Roma 2007. 5 Il testo di Vecchio scarpone è di Calibi, pseudonimo di Mariano Rapetti, a suo tempo direttore delleedizioni Radio Record Ricordi (il ramo «leggero» del grande editore milanese) nonché padre del no-to autore di testi di canzoni Mogol (Giuliano Rapetti). Curiosamente, se si digita «Calibi» o «MarianoRapetti» nel motore di ricerca della Siae non si trova alcuna canzone; l’accesso ai numerosi titoli è im-mediato se si digita il numero di codice.6 Il Whisky à go-go, che si ritiene essere stata la prima discoteca, aprì a Parigi nel 1947; non è da con-fondere con l’omonimo locale di Los Angeles, aperto nel 1964, e divenuto un tempio del rock sta-tunitense.7 Vedi anche A. Mazzoletti, Il jazz in Italia. Dalle origini alle grandi orchestre, Edt, Torino 2004, e M.Emanuelli, Accadde a Milano: personaggi ed eventi milanesi, <http://www.storiaradiotv.it/FESTIVALDEL ROCK A MILANO.htm>.8 Per una trattazione della storia e del funzionamento della Commissione d’ascolto Rai si veda R.Bonato, La Commissione d’Ascolto della Rai. Musica e radiotelevisione in Italia dal fascismo alla finedel monopolio Rai (Laurea triennale, Torino, Facoltà di Lettere, 2007-2008), accessibile alla URL<http://www.francofabbri.net/pagine/Uni_Tesi.htm>.9 Mario Casalbore, da un articolo pubblicato sul «Corriere lombardo» del 5 febbraio 1959, parzial-mente riportato sulla copertina dell’album Paul Anka in Italia, Columbia 33-QSX-12041.10 L’elenco parte dal 1961, perché nel gennaio del 1960 il termine «cantautore» era ancora decisa-mente ignoto. Sono citati tutti gli autori-interpreti presenti al Festival, indipendentemente dal fattoche siano stati all’epoca (o in seguito) classificati come cantautori (si vedano soprattutto i casi di TonyRenis, Little Tony, Bobby Solo, Edoardo Vianello). Infine, non sono citati numerosi cantautori (chesarebbero oggi riconosciuti come tali) che mandarono le proprie canzoni al Festival senza partecipa-re come interpreti (accadde più volte a Umberto Bindi) o che parteciparono come interpreti ma can-tando canzoni non proprie (ad esempio Lucio Dalla).11 A. Lomax, L’anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia 1954-1955, il Saggiatore, Milano 2008.12 Sul lavoro di Roberto Leydi, si veda soprattutto il contributo di Febo Guizzi a questo stesso volume.13 Vedi M. Philopat, I viaggi di Mel, Shake, Milano 2004.14 Ibid., p. 240.

144

Page 145: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

1

Márta e György Kurtág interpretano Játékok, Sala Verdi del Conservatorio,Milano 1992. © Roberto Masotti

Page 146: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Karlheinz Stockhausen, prove di Donnerstag aus Licht (dietro di lui si intravvede Suzanne Stephens),Istituto dei Ciechi, Milano 1981. © Lelli e Masotti. Archivio fotografico del Teatro alla Scala

Page 147: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Stimmung di Karlheinz Stockhausen, coreografia di Maurice Béjart (Ballet du XXe Siècle, Le ThéâtreRoyal de la Monnaie, Opéra National de Belgique), Teatro alla Scala, Milano 1974. © Roberto Masotti

Antonio Ballista prova Mantra di Stockhausen, Teatro Lirico, Milano 1976.© Roberto Masotti

Page 148: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Franco Donatoni, Milano 1985. © Roberto Masotti

Le mani di Franco Donatoni, dalla serie Musiche, vedere come sentire, Milano 1985. © Lelli e Masotti

Page 149: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Aldo Clementi, Venezia 1982. © Roberto Masotti

Page 150: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

The House Company (Meredith Monk al centro, Andrea Goodman a sinistra, Mary Schultz a destra) in Quarry, CRT, Milano 1978. © Roberto Masotti

Page 151: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Miles Davis, Sala Verdi del Conservatorio, Milano 1971. © Roberto Masotti

Page 152: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Luigi Nono, Friburgo 1982. © Roberto Masotti

Page 153: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Mauricio Kagel, Luigi Nono e Roberto Fabbriciani, Biennale Musica, Venezia 1982.© Roberto Masotti

Luigi Nono, ex Cantieri Navali della Giudecca, Venezia 1982. © Roberto Masotti

Page 154: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Cavi della postazione mixer per le prove di Donnerstag aus Lichtdi Karlheinz Stockhausen, Milano 1981. © Lelli e Masotti

Page 155: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Infernal Machine, allestimento del Prometeo di Luigi Nono, Ansaldo, Milano 1985.© Lelli e Masotti

Alvise Vidolin durante le prove di Prometeo, Chiesa di San Lorenzo, Venezia 1984.© Lelli e Masotti

Page 156: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Claudio Abbado dirige i Berliner Philharmoniker, Torino 1994.© Silvia Lelli

Concerto dell’Orchestra del Teatro alla Scala diretta da Claudio Abbado,Palazzetto dello Sport, Milano 1978. © Silvia Lelli

Page 157: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Salvatore Sciarrino dirige Cailles en sarcophage, Biennale di Venezia, 1979.© Roberto Masotti

Page 158: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Sylvano Bussotti, Teatro alla Scala, Milano 1981.© Lelli e Masotti. Archivio fotografico del Teatro alla Scala

Page 159: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Giacomo Manzoni e Robert Wilson durante le prove di Doktor Faustus, Milano 1989.© Lelli e Masotti. Archivio fotografico del Teatro alla Scala

Niccolò Castiglioni, Milano 1984. © Roberto Masotti

Page 160: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Ares Tavolazzi, Cristina e Patrizio Fariselli al Festival del Proletariato giovanile,Parco Lambro, Milano 1975. © Roberto Masotti

Page 161: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Franco Fabbri (Stormy Six), Velodromo Vigorelli, Milano 1975. © Roberto Masotti

Page 162: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Stormy Six, Velodromo Vigorelli, Milano 1975. © Roberto Masotti

Page 163: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Karlheinz Stockhausen, prove di Mantra (nell’angolo in basso a destra Franco Battiato),Teatro Lirico, Milano 1976. © Roberto Masotti

Page 164: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Paolo Conte, Milano 1979. © Roberto Masotti

Page 165: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Paolo Conte, Bruno Lauzi, Enzo Jannacci, Teatro Pier Lombardo, Milano 1979.© Roberto Masotti

Michel Portal e Giorgio Gaslini all’Europa Jazz Festival, Imola 1978. © Roberto Masotti

Page 166: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Cathy Berberian nella sua abitazione, Milano 1982. © Silvia Lelli

Prove di La vera storia di Luciano Berio (da sinistra Luciano Berio, Ludovico Einaudi,Luca Francesconi al pianoforte), Teatro alla Scala, Milano 1982. © Lelli e Masotti

Page 167: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Luciano Berio, Teatro alla Scala, Milano 1991. © Lelli e Masotti

Page 168: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

John Cage, Empty Words, Teatro Lirico, Milano 1977. © Roberto Masotti

Page 169: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Merce Cunningham (al centro), festeggiato da Gino di Maggio (primo a sinistra),Luigi Serafini e John Cage, Milano 1980. © Roberto Masotti

Page 170: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Roberto Leydi, Milano 1975. © Silvia Lelli

Page 171: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Experimentum Mundi di Giorgio Battistelli, Teatro di Porta Romana, Milano 1981.© Silvia Lelli

Page 172: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Giorgio Battistelli, Castello di Rivoli, Torino 1985. © Roberto Masotti

Henry Pousseur allo Studio di Fonologia della Rai, Milano 1978. © Roberto Masotti

Page 173: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Fabio Vacchi dirige La lampada di Aladino, Sala Bossi del Conservatorio,Bologna 1972. © Roberto Masotti

Page 174: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Maurizio Pollini e Pierre Boulez, Milano 1989. © Silvia Lelli

Pierre Boulez dirige l’Ensemble Intercontemporain, Ansaldo, Milano 1990.© Roberto Masotti

Page 175: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Olivier Messiaen, Teatro alla Scala, Milano 1989. © Silvia Lelli

Page 176: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

David Byrne nel foyer del Teatro alla Scala, Milano 1981. © Roberto Masotti

Page 177: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

15 Le maiuscole indicano che ci si riferisce al movimento politico con quel nome, non al generico mo-vimento degli studenti.16 Oltre al sottoscritto, sono stati impegnati in quegli spettacoli scrittori e musicisti come UmbertoFiori, Tommaso Leddi, Carlo De Martini, Marco Tutino, Michele Mozzati.17 Notizie ulteriori si trovano in F. Fabbri, Orchestral Manoeuvres in the 1970s: l’Orchestra Co-opera-tive, 1974-1983, in «Popular Music», vol. 26/3, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp.409-427.18 N. Ala, F. Fabbri, U. Fiori, E. Ghezzi, La musica che si consuma, Unicopli, Milano 1985.19 F. Fabbri, Album Bianco, Vol. 2. Diari musicali 1965-2002, Arcana, Roma 2002, p. 74.20 Si tratta, nel primo caso, degli Stormy Six; nel secondo, degli Stormy Six e degli Henry Cow.21 Con Evan Parker, Peter Kowald, Paul Lovens.22 Renato Geremia, Mauro Periotto, Tony Rusconi.23 Con George Lewis, Dave Holland, Barry Altschul.24 Con Steve Lacy, Kent Carter, Andrea Centazzo.25 Con Renato Geremia, Roberto Bellatalla, Tony Rusconi.26 Con Brenda Bakar, voce, Jimmy Lyons, John Tchichai, Frank Wright, sax, Gunter Hampel, clari-netto, Karen Lyons, fagotto, William Parker, contrabbasso, Enrico Rava e Thomasz Stanko, tromba,Rahid Bakar e Andrés Martinez, percussioni.27 Con Giovanna Marini, direttore, Stefano Pogelli, maestro sostituto, Antonella Talamonti, maestroripetitore del coro, Eugenio Colombo, sax, e con il coro e l’orchestra della Scuola Popolare di Musicadi Testaccio.28 Luciano Federighi, Lino Patruno, Pino Candini, Giorgio Gaslini, Marcello Piras, Philippe Carles,Franco D’Andrea, Mal Waldron, Martial Solal. 29 La polemica era stata aperta durante un dibattito su «Organizzazione, produzione e consumo mu-sicale in Italia e nella Repubblica Federale di Germania» nel pomeriggio del 1° dicembre 1984 (sta-gione 1984-1985). Fu quello il primo attacco frontale alla politica di «Musica nel nostro tempo».30 David Thomas, voce e fisarmonica, Allen Ravenstine, EML synthesizers, Tony Maimone, basso e chi-tarra, Daved Hild, fisarmonica, organo e percussioni, George Cartwright, sax. Nel programma gene-rale della stagione erano annunciati, insieme a Thomas, Lindsay Cooper, sax sopranino e contralto, fa-gotto, oboe, tuba, pianoforte e organo, Chris Cutler, batteria e percussione, Tony Maimone, chitarrae pianoforte.31 Jacqui Ham, batteria, voce, chitarra, Sally Young, batteria, voce, chitarra basso, Nina Canal, batte-ria, voce chitarra.32 Roger Norrington, direttore, Gail Nelson, soprano, Paul Spencer Adkins, tenore, Sandra Browne,mezzosoprano, Ivan Thomas, basso.33 Con Lindsay Cooper, sax sopranino, Paul Nieman, trombone, Peter Whyman, sax alto, AndyGrappy, tuba, Peter Fairclough, percussioni.34 Piero Chianura, basso, basi, nastri, sintetizzatore, Luciano Margorani, chitarra, basso, sintetizzato-re, Fabio Martini, clarinetti, voce, Angelo Avogadri, chitarra, flauto, rumori.

145

Page 178: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Paolo PetazziVingt ans après: su «Musica nel nostro tempo»

Il 22 ottobre 1976 ebbe luogo il primo concerto di «Musica nel nostro tempo». LucasVis (che sostituiva l’indisposto Michael Gielen) diresse l’Orchestra Sinfonica e il Corodella Rai di Milano in un programma che comprendeva le Variationen op. 30 di AntonWebern, Les soleil des eaux di Pierre Boulez, e, di Arnold Schönberg, i rari Vier Liederop. 22 e i Fünf Orchesterstücke op. 16. La stagione, promossa dalla Provincia di Mi-lano, comprendeva 14 concerti: 6 sinfonici, che coinvolgevano tutte le orchestre mila-nesi, 8 solistici e da camera con interpreti come Maurizio Pollini, il Quartetto Italiano,la London Sinfonietta, Salvatore Accardo, il duo pianistico Aloys e Alfons Kontarsky,la clavicembalista Mariolina De Robertis. La Scala partecipava con un concerto diret-to da Claudio Abbado (una duplice esecuzione di Gruppen di Karlheinz Stockhausen,insieme a capolavori di raro ascolto di Monteverdi e Schönberg), l’Orchestra della Rai,oltre al concerto inaugurale, presentava una serata con musiche di Berg, Maderna eBussotti dirette da Giuseppe Sinopoli; i Pomeriggi Musicali proponevano tre concerti(affidati a Mario Gusella, Marcello Panni e Gianluigi Gelmetti). L’Orchestra dell’An-gelicum, invitata, aveva rifiutato; ma partecipò a partire dalla seconda stagione.

I biglietti per ognuno dei concerti costavano 1000 lire, l’intero abbonamento 8000:erano prezzi davvero «politici» (oggi sembrano inverosimili; ma sono passati più di 30anni), alla portata anche di un pubblico giovane. Tuttavia l’immediato successo di«Musica nel nostro tempo», che cercava un pubblico nuovo e lo aveva subito trovato,non dipendeva soltanto, né principalmente, dal fatto che venivano praticati prezzi vi-cini a quelli dei cinema: il punto decisivo andava cercato altrove. Per la prima volta aMilano si proponeva una stagione dedicata prevalentemente alla musica contempora-nea e ai grandi classici del Novecento (anche e soprattutto a quelli rari nella vita mu-sicale italiana, dai tre grandi viennesi a Charles Ives), senza escludere capolavori delpassato, scelti in modo non casuale. Un solo esempio: alcune pagine sconvolgenti del-l’ultimo Liszt erano accostate da Pollini a Webern, Boulez e alla prima esecuzione as-soluta di … sofferte onde serene… di Luigi Nono. Una stagione così concepita colma-va una lacuna, rispondeva ad una esigenza di apertura e di informazione profonda-mente sentita, era un fatto del tutto nuovo nella vita culturale milanese. Naturalmentea Milano la musica contemporanea non era assente, se ne era fatta e se ne faceva, a di-versi livelli, dall’ottimo al pessimo, in modo un po’ disperso e casuale. Negli anniSessanta la Piccola Scala aveva ospitato prime incandescenti, come quelle di Passaggio(1963) di Luciano Berio e di Atomtod (1965) di Giacomo Manzoni, e una decina d’an-

146

Page 179: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ni dopo aveva proposto cicli di concerti, con risposte imprevedibili del pubblico, tal-volta incomprensibilmente assente, talvolta folto (ad esempio per una serata Stock-hausen). Paolo Grassi, sovrintendente alla Scala, aveva preso l’impegno di commissio-nare un’opera nuova all’anno (la prima fu Al gran sole carico d’amore di Nono, che an-dò in scena il 12 aprile 1975) e proprio in seguito alle discontinue esperienze dellaPiccola Scala sentiva l’esigenza di una iniziativa per la diffusione della musica contem-poranea a Milano.

L’iniziativa fu presa dall’assessore alla Cultura della Provincia, Novella Sansoni, riu-nendo le istituzioni milanesi dotate di orchestra stabile in un progetto di collaborazio-ne per creare una serie di concerti aperta alle maggiori esperienze della musica con-temporanea e del Novecento storico, ma concepita come una vera e propria stagione,non come un festival. Fu chiamata «Musica nel nostro tempo» (nel, non del). I pro-grammi della Scala erano quasi sempre, e necessariamente, definiti in autonomia pres-soché totale e arricchivano il cartellone di proposte attraenti; ma il profilo complessi-vo delle stagioni nasceva da un comitato comprendente i direttori artistici delle istitu-zioni coinvolte e i consulenti della Provincia. Nell’arco dei tredici anni le istituzioni fu-rono rappresentate soprattutto da Cesare Mazzonis (Scala), Giorgio Vidusso (Orche-stra Rai), Gianpiero Taverna (Pomeriggi Musicali) e Riccardo Allorto (Angelicum). Adialogare con loro fu chiamato un gruppo di consulenti scelti dalla Provincia. NovellaSansoni volle evitare la nomina di un direttore artistico, per non subire i rischi e i con-dizionamenti legati alla creazione di una carica che poteva essere lottizzata. Per la pri-ma stagione furono consulenti della Provincia (in ordine alfabetico) Duilio Courir,Francesco Degrada, Franco Fabbri, Giacomo Manzoni, Maurizio Pollini, Piero Santi.Per il coordinamento, la realizzazione dei concerti da camera e gli altri aspetti orga-nizzativi Luciana Abbado Pestalozza tenne per tredici stagioni la segreteria, con unadedizione che ebbe un peso decisivo nella riuscita dell’iniziativa.

Il gruppo dei consulenti della Provincia conobbe qualche mutamento: fu subito la-sciato da Giacomo Manzoni, che aveva voluto che la sua musica fosse esclusa dalla pri-ma stagione, ma non intendeva creare un conflitto di interesse con la sua posizione dicompositore. Fu allora chiamato a far parte del comitato l’autore di questo scritto.Assai presto vi entrò anche Luigi Pestalozza e in seguito un docente dell’UniversitàCattolica, Sergio Martinotti. Ne fece parte anche Alessandro Melchiorre, che si dimi-se per concentrarsi sull’attività di compositore. Lasciò il comitato dopo pochi anni perscelta personale Francesco Degrada e nel 1985 anche Duilio Courir, attribuendo unpeso forse eccessivo agli attacchi di coloro che giudicavano incompatibile la sua posi-zione di consulente con quella di critico musicale del «Corriere della Sera». In veritàil ruolo dei consulenti (non retribuiti) era propositivo, essendo ovviamente il poterereale nelle mani dei direttori artistici; ma non sorprende che assumesse toni esaspera-ti la polemica di coloro che dal 1984 avevano scelto «Musica nel nostro tempo» come

147

Page 180: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

un bersaglio, perché se ne sentivano esclusi e vi riconoscevano un covo di fanatici af-filiati a quella che chiamavano impropriamente «avanguardia».

A venti anni dalla fine di «Musica nel nostro tempo» i successi e il declino dell’ini-ziativa appaiono inseparabili da un contesto più generale, politico e culturale: nell’Ita-lia e nella Milano della fine degli anni Ottanta si respirava certamente un’aria diversada quella della stagione di grandi aperture in cui l’iniziativa aveva preso forma. Limi-tandomi al campo specifico della vita musicale, devo sottolineare lo slancio che diedea «Musica nel nostro tempo» la rivelazione dell’esistenza di un pubblico nuovo, viva-ce e interessato a conoscere anche gli aspetti così detti «colti» della complessa realtàmusicale contemporanea. Ci si aspettava che in altre città prendessero vita iniziative si-mili e, soprattutto, appariva concreta la speranza (l’illusione, è facile dirlo a posterio-ri) che le istituzioni coinvolte evitassero di concentrare nella sola stagione di «Musicanel nostro tempo» gli spazi dedicati alla musica del XX secolo. Ci si attendeva che al-tri spazi si aprissero, qualcuno addirittura pensava che una più vasta diffusione dellamusica contemporanea rendesse ormai superflua la funzione dell’unico grande festivalinternazionale italiano in questo ambito, la Biennale Musica di Venezia.

Quasi tutte quelle speranze andarono deluse e «Musica nel nostro tempo» divennelo spazio preminente (non proprio l’unico) per la musica contemporanea a Milano. Idirettori artistici più scettici nei confronti delle novità usarono la collaborazione a«Musica nel nostro tempo» come alibi per non fare altro di nuovo, e anche in questoambito crearono difficoltà crescenti alla programmazione di autori dei nostri giorni.All’interno del comitato, soprattutto fra i consulenti, appariva chiaro che «Musica nelnostro tempo» non era in condizione di offrire l’ampiezza di informazione che tuttiavrebbero voluto. Lo spazio per gli autori delle nuove generazioni non poteva esseregrande. Faceva parte degli scopi dell’iniziativa privilegiare la conoscenza di opere di si-curo rilievo della seconda metà del secolo o del Novecento storico, con scelte rispon-denti alla logica di una stagione, non di un festival. C’era anche una intenzione peda-gogica nello sforzo di far conoscere capolavori che avevano già un posto nella storia, eche non si erano mai ascoltati a Milano. In verità non furono programmati solo i pro-tagonisti della generazione nata dopo il 1920, come Bruno Maderna, Luciano Berio,Pierre Boulez, Luigi Nono, Karlheinz Stockhausen, o György Ligeti e Iannis Xenakis,o un outsider come György Kurtág (allora ancora rarissimo in Italia). Avevano avutospazio anche alcuni protagonisti delle generazioni successive, da Salvatore Sciarrino aAdriano Guarnieri, Gérard Grisey, Hugues Dufourt, Brian Ferneyhough, George Ben-jamin (mi limito a qualche nome allora non consacrato come oggi). Poco importa chenon fossero scoperte di «Musica nel nostro tempo», che fossero già stati eseguiti inItalia (a Venezia o in altre sedi): la diffusione presso un pubblico più ampio di alcuneloro opere fa parte, credo, dei meriti indiscutibili nella storia di questa stagione mila-nese. Qualcosa di simile si può dire per alcuni pezzi di Ivan Fedele o di Luca Fran-

148

Page 181: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

cesconi, Fabio Nieder e altri. Non mancarono le novità, né i tentativi (talvolta malde-stri) di aprire in direzioni insolite, di ampliare l’informazione anche a scapito dei valo-ri consolidati. Per i protagonisti riconosciuti e per le novità gli spazi di «Musica nel no-stro tempo», soprattutto nelle ultime stagioni, erano in ogni caso insufficienti (si spie-ga così perché anche autori tra i più eseguiti, come Nono o Sciarrino, lamentassero gar-batamente quello che a loro pareva un numero esiguo di esecuzioni).

Insufficienti, ma non orientati in modo univoco, come spesso hanno polemicamen-te affermato coloro che si sentivano esclusi. L’eterogeneità stessa del comitato che col-laborava alla definizione delle stagioni era di per sé una garanzia di pluralismo. D’al-tronde nessuno dei direttori artistici e dei consulenti si sarebbe potuto riconoscere in-teramente nelle scelte di una stagione, né lo avrebbe preteso. Determinante era la vo-lontà di rispondere ad una esigenza di conoscenza e di apertura. Ho avuto l’impres-sione (se mi è lecito ricordare una sensazione personale dall’interno) che questa etero-geneità con il passare degli anni perdesse qualcosa dello slancio e della ricchezza ini-ziali: non per caso nelle discussioni su un rinnovamento di «Musica nel nostro tempo»era emersa anche l’ipotesi che la Provincia nominasse un direttore artistico. Nel rap-porto con le istituzioni coinvolte egli avrebbe avuto probabilmente una forza maggio-re del gruppo dei consulenti, la cui posizione era molto indebolita dall’interesse limi-tato per l’iniziativa degli assessori che presero il posto di colei che l’aveva voluta, No-vella Sansoni.

In ogni caso è un dato di fatto che non da orientamenti troppo univoci dipese il de-clino di «Musica nel nostro tempo». Uno sguardo al programma dell’ultima stagione,1988-89, quella che vide crollare il numero degli abbonati a circa 500 (da 1300 che era-no stati nei primi anni), rivela aperture in direzioni diverse e conferma che non era ve-nuta meno la ragion d’essere dell’iniziativa. Basterebbe ricordare il concerto dedicatoa due lavori dell’ultimo Nono con l’elettronica dal vivo, A Pierre, dell’azzurro silenzio,inquietum e Quando stanno morendo. Diario polacco n. 2, apprezzati in tutta Europa,ma mai eseguiti a Milano. E c’erano stati anche gli autori inglesi (Maxwell Davies,Finnissy, Dillon, Benjamin) proposti dal Koenig Ensemble, e complessi come il Quar-tetto Arditti e il Quintetto Arnold, e la collaborazione con l’Echo Ensemble (l’ensem-ble della Sezione Musica Contemporanea della Scuola Civica di musica, una delle po-che realtà nuove create a Milano negli anni di «Musica nel nostro tempo») con un pro-gramma che accostava Schönberg, Webern, Stockhausen e Francesconi. Nel maggio1989 la Scala riservò agli abbonati di «Musica nel nostro tempo» la prima del DoktorFaustus di Giacomo Manzoni, un evento memorabile perché questo capolavoro rap-presenta un vertice nell’opera del suo autore e nella storia del teatro musicale degli ul-timi decenni, e anche per la magnifica direzione di Gary Bertini e per la regia di BobWilson. In un paese civile qualunque teatro avrebbe ripreso e tenuto in repertorio conorgoglio uno spettacolo di tale rilievo; ma l’ignavia dei responsabili della Scala negli

149

Page 182: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

anni successivi fu capace soltanto di far marcire le scene di Wilson, rendendole inuti-lizzabili anche per altri teatri.

Non mi sembra interessante qui ricordare le vicende che portarono i consulenti del-la Provincia a trovarsi nella paradossale situazione di lavorare non per l’assessore allaCultura, ma contro di lui, quando questo incarico fu assunto da Massimo Guarischi.Posso rimandare a ciò che scrisse Luigi Pestalozza nel n. 29 di «Musica/Realtà» (ago-sto 1989). I trionfi del Doktor Faustus (cinque serate con la Scala sempre gremita) odell’ultimo Nono basterebbero a dimostrare che non era venuta meno la ragion d’es-sere di «Musica nel nostro tempo», e che era sempre viva l’esigenza cui l’iniziativa ave-va cercato di rispondere. Prima della crisi che portò Guarischi a congedare i suoi con-sulenti, e Luciana Abbado Pestalozza a dimettersi per solidarietà dalla segreteria di«Musica nel nostro tempo» (che divenne un’altra cosa, perse altre centinaia di abbo-nati, e fu lasciata morire) si era sentita (da parte di tutti) la necessità di una riflessionesui modi di un auspicabile rinnovamento. L’assessore che dopo pochi mesi dovette ce-dere il posto a Guarischi aveva avviato un ampio giro di consultazioni in vista di un ri-lancio della manifestazione. Era emersa l’idea che la proposta di cicli monografici po-tesse avere un forte impatto nel conquistare o riconquistare il pubblico: si era pensa-to, ad esempio, ad alcuni concerti dedicati a Pierre Boulez e alla esecuzione a Milanodi Répons (1981-84, all’epoca eseguito in Italia soltanto a Torino). Luciana AbbadoPestalozza era stata autorizzata a prendere contatto con Boulez per vedere in quali da-te il progetto si sarebbe potuto realizzare. Si deve esclusivamente alla sua tenacia e alsuo impegno se quel vago progetto divenne realtà con i concerti di «Boulez a Milano»nel giugno 1990. Da lei e dal gruppo che aveva promosso e sostenuto questa manife-stazione nacque il Festival Milano Musica. Si tratta di un capitolo nuovo con propricaratteri; ma è significativo che tra il suo pubblico si possano incontrare anche moltidei più tenaci abbonati di «Musica nel nostro tempo».

150

Page 183: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Luca CivelliTra indirizzi ed etichette: il jazz a Milano

Tracciare un profilo della musica jazz a Milano è impresa tanto ardua quanto stimo-lante. Lo è ancor di più se questo profilo deve essere appena visibile, poco più che unrapido abbozzo. Le difficoltà, quanto gli stimoli, derivano da una constatazione: Mila-no è stata la capitale italiana del jazz.

Per il presente articolo alcune scelte di campo sono state effettuate; coincidono, percosì dire, con gli «universali» del jazz a Milano. Uno di essi, il primo in ordine crono-logico è la rivista «Musica Jazz». Il corpus di testi proveniente dal poderoso archiviocostituisce l’ossatura bibliografica del presente contributo.

«Musica Jazz»: 1945-1948

Alcuni degli «universali» milanesi, furono a suo tempo messi in luce da Franco Fayenz,in un articolo che a dispetto degli anni rimane a tutt’oggi un valido contributo.1 Sno-dandosi tra date ed eventi chiave, il critico padovano individuava e riconosceva in«Musica Jazz» «l’espressione più autentica della “città del jazz”».2

L’assunzione di Milano a capitale italiana, paga un debito decisivo alla rivista.3 Afondarla fu Giancarlo Testoni, attorniato da un manipolo di jazzofili milanesi: ArrigoPolillo, «futuro critico numero uno»;4 Alessio Gurviz, Livio Cerri, Roberto Nicolosi,Giuseppe Barazzetta, Enzo Fresia, Roberto Leydi; ai quali si aggiunsero poco dopoAlberto Tapparo e Pino Maffei.5 Alle nascenti firme italiane, vennero accostate quellestraniere, opportunamente tradotte.6

Sulla lungimiranza pionieristica di quel gruppo iniziale,7 non vi sono dubbi: lancia-rono in un’Italia appena uscita dalla guerra, «un giornale austero e profondo»,8 in lar-go anticipo sui tempi.9

Il primo numero uscì con la data 15 agosto-1 settembre 1945, e il titolo recava lacongiunzione «e»: «Musica e Jazz». Era un modo per «tenere una punta di piede nel-lo spettacolo in genere», riporta Gian Mario Maletto.10 La «e» scomparve verso la fi-ne del 1946, in quello stesso dicembre che vide la nascita dello Hot Club Milano, gra-zie all’abilità organizzativa di Giuseppe Barazzetta.11

«La rivista era tutta incentrata su Milano»,12 dalla quale la neonata Fidj (Federazio-ne italiana del jazz),13 si proponeva di coordinare l’attività degli altri Hot Club italia-ni. Della Federazione, «Musica Jazz» era l’organo di stampa ufficiale, un centro di smi-

151

Page 184: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

stamento dati attraverso il quale gli altri club rimanevano in contatto tra loro. L’auspi-cato coordinamento ebbe fortune alterne.14

Nel maggio del ’47, i club si riunirono nel capoluogo lombardo. A questo primo in-contro seguì quello fiorentino, organizzato nella primavera dell’anno successivo. Il se-condo Convegno Nazionale dei Circoli del jazz, vide l’esordio ufficiale di tre giovanimilanesi che già si stavano affermando: il pianista Giorgio Gaslini, il batterista Gilber-to «Gil» Cuppini,15 e il sassofonista Eraldo Volontè.16

Divulgazione e promozione. Erano questi i poli entro i quali oscillava quel gruppodi padri fondatori. Storia, riflessione estetica e organologia, ma anche informazione edorganizzazione; il tutto attraverso le pagine di «Musica Jazz».

I dicotomici locali del jazz

Dopo il concerto di Louis Armstrong nel 1949, le cose cambiarono. Per Fayenz «è aquesto punto che la capitale lombarda si conquista il titolo di “città del jazz”».17

Satchmo arriva a Milano sul crinale che separa l’immediato dopoguerra dai Fifties. Glianni Cinquanta «furono gli anni del jazz italiano, dei grandi entusiasmi»,18 e se spo-stassimo la lente d’ingrandimento su Milano, scopriremmo che per il capoluogo lom-bardo «i Cinquanta sono il decennio del decollo».19

Con la comparsa della Roman New Orleans Jazz Band, nel 1949, nasce il movimen-to revival. La risposta milanese è rappresentata dalla Original Lambro Jazz Band e dal-la Milan College Jazz Society.20 Contemporaneamente, ai teatri (Manzoni, Nuovo,Odeon, Piccolo, Sant’Erasmo, Lirico, per citarne alcuni), si affiancano i primi localicome l’Arethusa, il Santa Tecla, e dalla metà del decennio la Taverna Messicana.21

Si manifesta una dicotomia che coinvolgerà proprio quei primi spazi dedicati al jazz:tradizione vs. modernità. L’Arethusa e poi il Tecla,22 diventeranno le cave dei tradizio-nalisti,23 la Taverna Messicana, di contro, quella dei modernisti. Ricorda Enrico Intra:

I jazzisti erano divisi in due fazioni. C’erano i modernisti e i tradizionalisti, e avevano due lo-cali, non jazz club come ora, erano night club. […] c’era l’Arethusa, dove imperava il tradi-zionale, cioè Mario Pezzotta [trombonista] con i suoi amici, e la Taverna Messicana, dovec’erano i modernisti, e tra i modernisti io, giovanissimo, suonavo con [Gianni] Basso e[Oscar] Valdambrini.24

Anche Fabio Turazzi, banjoista, tra i fondatori della Bovisa New Orleans Jazz Band,25

ricorda che «tra noi [tradizionalisti] e loro [modernisti], c’era pochissima comunica-zione».26 Eccezioni a parte, poca osmosi;27 anche il pubblico, schierandosi, si divise.28

Veniamo ai modernisti.29 Spiccano le figure di Enrico Intra, («un pianista che […]fa immediatamente discutere per la sua ricerca inquieta»)30 e quelle di due piemonte-

152

Page 185: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

si emigrati a Milano: Gianni Basso e Oscar Valdambrini,31 la cui affermazione avven-ne attorno alla metà degli anni Cinquanta, grazie ai lavori in quintetto e in sestetto.Furono i primi rappresentanti della modernità, tra i primi ad adottare gli stilemi bop.

Una restituzione del clima «messicano» della Taverna, ci viene offerta da Basso stesso:

L’indimenticabile Taverna Messicana è rimasta aperta pressappoco dal 1955 al 1961 o ’62. Sisuonava dalle dieci di sera alle cinque del mattino, fino all’esaurimento fisico. È lì che ci sia-mo sprovincializzati tutti quanti, lavorando finalmente in compagnia dei musicisti america-ni. […] Billie Holiday […], più volte Zoot Sims, Gerry Mulligan, Chet Baker, Mal Waldron,Helen Merrill. Per alcuni week-end è arrivato Friedrich Gulda […] fra gli spettatori c’è sta-to nientemeno che Leonard Bernstein, me lo ricordo benissimo.32

Tra i musicisti che vi suonarono costantemente, varrebbe la pena citare Giorgio Az-zolini, «il contrabbassista stabile, […] organico, del jazz moderno italiano»,33 i chitar-risti Franco Cerri e Bruno de Filippi (il primo diventerà partner affiatato di Intra), ilsassofonista Attilio Donadio, i pianisti Renato Sellani e Giampiero Boneschi, i batteri-sti Rodolfo Bonetto e, dalla seconda metà del decennio, Gianni Cazzola. Pressoché tut-ti ruotavano attorno alla coppia Basso-Valdambrini.

Anche il primo incontro tra il polistrumentista Giancarlo Barigozzi e GianfrancoIntra – due key figures del panorama milanese – avvenne alla Taverna.34

La Taverna rimase quasi del tutto impermeabile all’arrivo del rock. Paradossalmen-te, furono i luoghi dei «tradizionalisti», come l’Arethusa e soprattutto il Santa Tecla,ad accogliere gruppi come i Rocky Mountains di un giovane Giorgio Gaber.35

Ancora locali…

L’elenco dei night club che ci fornisce il New Grove Dictionary of Jazz, è la base di par-tenza per una breve ricognizione degli altri locali. La lista ne comprende sette. Tre so-no già stati menzionati – Arethusa, Santa Tecla e Taverna Messicana –, rimangono ilCapolinea, l’Intra’s al Corso, l’Intra’s Derby Club e il Jazz Power.36

Se il primo incontro di Barigozzi con Intra ebbe luogo alla Taverna Messicana, il se-condo avvenne nel 1959, durante una vacanza da quel viaggio ad Hong Kong che peril polistrumentista inaugurò un vero e proprio «periodo orientale».37 Questa volta ilmeeting point non fu la Taverna, ma l’Intra’s Derby Club aperto giusto quell’anno dal-lo stesso pianista.38

L’Intra’s Derby – poi Derby Club o semplicemente Derby – nacque come jazz club,per poi diventare un luogo di culto del cabaret milanese, fucina di talenti che hannoraggiunto notorietà e successo in televisione. Barigozzi ricorda di averci sentito suona-re Roland Kirk e Quincy Jones, e di aver conosciuto Flavio Ambrosetti, Daniel Hum-

153

Page 186: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

air, Niels H. Ørsted-Pedersen,39 George Grunz.40 Non solo storia del jazz. Il Derby èun «universale» della cultura milanese.

Ad Intra si deve anche l’apertura, nel 1964, dell’Intra’s al Corso, in corso VittorioEmanuele. Si ritrovarono, nella seconda metà degli anni Sessanta, buona parte dei mu-sicisti che poco prima frequentavano la Taverna Messicana: Azzolini, Basso, Gil Cup-pini… Fu un luogo di passaggio e di esibizione per gli stranieri, e di decisivi incontriper il jazz italiano, come quello avvenuto tra un «celebre» Franco d’Andrea, forte del-le esperienze romane, e un appena arrivato Claudio Fasoli.41

L’esperienza manageriale di Intra durò in tutto sette anni, dal 1959 al 1966. FrancoFayenz sostiene che è alla «grinta particolare», al «piglio più aggressivo», «a questo suoparticolare impegno», che si devono «i tentativi dei due locali […], nati sicuramentetroppo presto».42

Mancano due realtà per completare l’elenco del New Grove Dictionary of Jazz: il JazzPower e il Capolinea. Per ragioni diverse, siamo nuovamente di fronte a due «univer-sali» del jazz a Milano.

Il Jazz Power aprì nell’autunno del 1971 e occupava una posizione centralissima.Poco più di quattro colonne di testo, scritte da due recensori diversi, restituiscono l’am-piezza e la diversità di proposte che il locale era in grado di offrire. Quattro colonne cheriassumono due mesi di attività, dal marzo all’aprile del 1972. Ci dicono che FriedrichGulda si esibì da solo, dopo aver suonato alla Piccola Scala;43 che il clarinetto di TonyScott fu accompagnato da una sezione ritmica tutta italiana;44 che il quintetto di ArtBlakey «ha suonato con ancor più slancio di quanto non abbia fatto al Festival di Ber-gamo».45 Verrebbe da confonderla con la celebre The Band che accompagnava BobDylan in quegli stessi anni, quella che al Power fece la sua unica esibizione italiana, il 7aprile 1972. Al di là dell’omonimia, si tratta invece «di una formazione di all stars»,46

«di un’orchestra spettacolare, oltre che perfettamente funzionante: piena di swing e dimusicalità».47 Infine la descrizione dello spettacolo Interazione audiovisiva ’72 di Roma-no Santucci, pittore, scultore, musicista, «operatore estetico»,48 che sembra evocarecerte atmosfere coloristiche della psychedelic London.

Brevi esempi testuali che delineano l’orientamento del «primo locale jazzistico dav-vero internazionale».49 Il Jazz Power arrivò tardi,50 ma faceva ben sperare; qualifican-dosi come «l’unico nella nostra città nel proporre un programma continuativo di li-vello per quanto riguarda il jazz».51 Chiuse e riaprì nell’ottobre del 1972. La mancatariapertura nell’autunno del 1973, fece esclamare a Polillo: Morte a Milano.52 Il criticoannunciava la crisi, rimpiangendo i fasti del passato.

Con il Capolinea si apre l’epopea dei Navigli. Era un giovane batterista che ebbe co-raggio quel Giorgio Vanni che aprì il locale, in via Lodovico il Moro 119, due giorni do-po la strage di piazza Fontana, il 14 dicembre del 1969. La trentennale attività del clubha avuto nel ventennio ’69-’89 la sua stagione dorata; con la costituzione nel 1986

154

Page 187: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

dell’Associazione Jazz Capolinea.53 «Era un club in tutti i sensi» – ricorda Sergio Veschiche dell’Associazione fu uno dei promotori –, in cui si sono alternate almeno due gene-razioni di musicisti: quella dei Tommelleri, Rusca, Bonafede, e quella dei Pellegatti eTonolo. Solo cinque nomi che, quantitativamente, non rendono giustizia agli innumere-voli musicisti, soprattutto italiani, che vi hanno suonato. «Ho visto nascere il Capolinea»,che in pochi anni divenne «il punto di coagulo dei musicisti milanesi.»54 «C’erano set tut-te le sere, jam session continue. L’andirivieni di musicisti era costante.»55 «Per un musi-cista non era facile suonarci»,56 c’era un sorta di «paura del Capolinea…»57

La Taverna Messicana, non fu l’unica di Milano. La Ferrario in via Meravigli, era giàoperativa prima della guerra.58 Divenne uno dei posti più frequentati dal giovaneGaslini.

Greca era quella di Thanassis, in via Lodovico il Moro, che fino al 1979 – anno dichiusura del locale – ospitò la Bovisa.59

Anche Brera ebbe il suo posto. Fondato nel 1966, Il Club 2 ebbe, dalla fine degli an-ni Settanta, una sua resident band, quella di Paolo Tommelleri. Attorno al locale ruo-tava un’autentica scuola di drummers milanesi: Giampiero Prina, Stefano Bagnoli eChristian Meyer.

Ancora sui Navigli – via Ascanio Sforza – c’è Le Scimmie, aperto nel 1981 da Gior-gio Israel, che nel jazz e nella più variegata proposta musicale ha sempre avuto il suopunto di forza, senza tralasciare le altre forme di spettacolo.

Era più apertamente internazionale, invece, la proposta del Tangram di GianniCoco, e basterebbe recuperare le recensioni di molti concerti per rendersene conto.«Ci ho visto Lee Konitz e Steve Lacy» mi ha ricordato Fasoli.60

Sorgeva sull’Alzaia del Naviglio Pavese il Grillo Parlante, più attento alla scenaitaliana.

Pur dichiarando la crisi, Fayenz ammetteva che «quando cala la sera, la Milano del-la metà degli anni Ottanta risuona di jazz in una ventina di piccoli locali molto fre-quentati, e i solisti che offrono la loro musica sono quasi tutti giovani e validi. Forse sitratta soltanto di un ricorso storico, e basta saper aspettare».61

La Dire e lo Studio 7 con Claudio Fasoli

Ai tanti indirizzi, anche parziali, che abbiamo ricordato, se ne deve aggiungere un al-tro che stavolta non manca di completezza: corso Venezia 7. Lungo una delle maggio-ri e architettonicamente più eleganti arterie cittadine, aveva sede lo Studio 7, che du-rante gli anni Settanta sarebbe diventato il quartier generale della Dire. A fondare stu-dio ed etichetta discografica fu Tito Fontana, un industriale con la passione per la mu-sica e soprattutto per il jazz.62 Lo Studio nacque nel 1958, e da semplice luogo d’in-

155

Page 188: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

contro divenne uno dei più richiesti a Milano.63 Attorno ad esso si formò lentamenteun’ampia cerchia di frequentatori, un «clan», come lo definì Bruno Schiozzi.64

Tra gli aderenti al clan, ho letto il nome di Claudio Fasoli, gli ho quindi chiesto sedi quel gruppo facesse realmente parte:

Che fosse un clan o meno, questo non lo so. Certamente c’era un gruppo di persone rico-noscibile e affiatato. Quando arrivai a Milano, volevo suonare il più possibile e conoscevopochissimi posti dove poter andare. Venni a sapere dello Studio 7 e mi presentarono TitoFontana. Le jam sessions del martedì diventarono un appuntamento fisso. Ci andavo perchéero certo che avrei potuto suonare e incontrare altri musicisti.65

Gli «amici del martedì» erano guidati da Fontana e Alberto Rota in qualità di residentmusicians. Con loro un nutrito e variegato gruppo di musicisti che in quello stesso stu-dio avrebbero registrato: Renato Sellani, Guido Manusardi, Giorgio Azzolini, Gian-carlo Pillot, Tullio De Piscopo, gli Ambrosetti…66 Gaber, Jannacci, Lauzi figuravanonel pubblico tra gli abituali frequentatori.67

Le attività sempre più collaterali indussero Fontana a cambiare: lo Studio venne ri-strutturato. «Furono integrati altri locali al primo piano, che nel frattempo era già sta-to annesso all’iniziale pianterreno. La sala fu allargata e venne acquistata una nuovaconsolle. L’acustica ne guadagnò.»68 Nientemeno che Duke Ellington, che allo Studio7 fece una registrazione di prova, giudicò positivamente la risposta sonora della sala.69

La nascita della Dire segue di circa una dozzina d’anni quella dello Studio. «È statala prima in Italia a produrre quasi esclusivamente, […], dischi di jazz»;70 «[nata], peroffrire il modo di manifestarsi a quelle espressioni artistiche giudicate comunementenon “commerciali”».71 C’è un prima e un dopo nella storia dell’etichetta. Ai promet-tenti inizi seguì un periodo di pausa, che coincise grossomodo con gli anni centrali deldecennio. Tra il ’77 e il ’78, l’etichetta riprese la produzione. Questa volta Fontana siavvalse della collaborazione di un Fasoli «post-Perigeo», ufficiosamente coinvolto investe di «produttore e public relations [officer]»:72

Fontana mi chiese di collaborare alla produzione e alla promozione dei dischi, forse anchein virtù dell’esperienza accumulata con i Perigeo. Di fatto le scelte produttive erano in ma-no a lui. Non capitava che ci si sedesse assieme e si programmassero 8-9 produzioni, neces-sariamente da realizzare. Tito era un entusiasta e produceva quello che gli piaceva. Diciamoche il mio era un ruolo da consulente interno.73

È sempre stata questa la filosofia dell’etichetta. «La “Dire” non ha fini speculativi enon si basa neppure su programmi ben definiti, prefiggendosi in realtà, di registrare divolta in volta un messaggio giudicato artisticamente valido.»74

Esemplificativa del modus operandi dell’etichetta, è la descrizione fornita da Fasoli,

156

Page 189: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

relativa alla gestazione del suo duetto con Franco D’Andrea,75 una delle registrazioniche contribuirono al rilancio dell’etichetta:76

Anche nel caso del mio disco con Franco, funzionò così. Lo contattai (ricordo ancora la te-lefonata!) proponendogli il disco. Lo accettò, e io suggerii l’idea a Tito; a cui piacque, deci-dendo di produrlo. Nulla era stato precedentemente programmato.77

«La Dire era ben gestita e organizzata. Non dimentichiamoci che si avvaleva della col-laborazione di uno tra i migliori grafici mondiali: Giulio Confalonieri.»78 «Era un pro-getto che con la giusta distribuzione avrebbe potuto affermarsi a livello internazionalee invece restò, forse perché prematuro, un fenomeno locale.»79

Dalla Statale alla Red Records. Quattro chiacchiere con Sergio Veschi

L’articolo di Fayenz fornisce nuovamente due elementi che, benché sembrino non ave-re niente da spartire, possiedono invece un comune denominatore…

Nel raccontare gli anni Settanta, il critico sottolinea che «vi sono manifestazioni chemeritano di essere ricordate, come i Concerti del nuovo jazz italiano presso l’AulaMagna dell’Università Statale [e] il Concerto della Resistenza di Giorgio Gaslini».80

Poco oltre aggiunge che «fra le etichette milanesi, quattro case discografiche si occu-pano solo di jazz: sono la Red Records, la Dire di Tito Fontana, la Black Saint e la SoulNote di Giovanni Bonandrini».81 Dietro ai concerti, e alla prima delle quattro etichet-te, la Red Records, si cela una stessa persona: Sergio Veschi.

Marchigiano di nascita, Veschi si trasferisce con la famiglia a Milano a metà degli an-ni Cinquanta. La passione per il jazz si esprime collezionando dischi («Bebop e HardBop; quello stesso mainstream che poi caratterizzerà la Red e pagherà sempre»),82 e so-prattutto andando ai concerti:

Durante gli anni Sessanta, me ne sono persi pochi. A Milano li ho visti quasi tutti. RicordoCharlie Mingus con Dolphy, Coltrane con il quartetto [tuttora oggi ricordata come un’espe-rienza devastante!], Roach, Rollins, Don Cherry, Monk…83

Aveva un impiego all’Olivetti quando entrò all’Università Statale come studente lavo-ratore, presso il dipartimento di Scienze Politiche.

Per quel che successe, si potrebbe pensare che il passaggio da semplice fruitore adorganizzatore di concerti sia stato adeguatamente meditato, un ruolo a cui sempre ave-va aspirato. In realtà non fu così.

Ero un membro della direzione politica del movimento e conosciuto per questo ruolo. La

157

Page 190: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

mia passione per il jazz, almeno in Università, si esprimeva soprattutto attraverso i dischi cheogni tanto portavo sottobraccio. Era intuibile che fossi un appassionato, ma non era mia in-tenzione organizzare qualcosa.84

Evidentemente, l’«intuibile» interesse di Veschi nei confronti del jazz poteva significa-re e valere qualcosa di più:

L’organizzazione dei concerti all’Università Statale nacque da una proposta, che insistente-mente reiterata divenne un’imposizione. In realtà era qualcosa che non sentivo di dover fa-re, né tantomeno mi proposi di farla. Fu Salvatore Toscano, uno dei dirigenti più importan-ti e più attenti alle tematiche e alle attività culturali, a chiedermi di organizzare dei concertiper i programmi del movimento.85

Un volta coinvolto, risultò difficile uscirne.86 L’organizzazione fu in mano a Veschi percirca tre anni, dal 1973 al ’76. «A seguito della morte di Toscano, smisi di fare politica.»87

Il Concerto della Resistenza88 fu il primo di una serie che coinvolse jazzmen ameri-cani ed europei. Giorgio Gaslini fu tra i più attivi partecipanti e sostenitori dell’attivi-tà del Movimento. «Fu intelligente» ricorda Veschi, «e capì subito la situazione in cuisi trovò.»89

Il dopo-Gaslini fu rappresentato da Mal Waldron,90 dall’Organic Music Theatre diDon Cherry,91 dal Max Roach Quartet,92 da gruppi italiani come la Liguori Orche-stra,93 La serie Nuove Tendenze alla Statale, tenutasi nel novembre del ’75, permise aun giovane pianista lombardo di mettersi in luce; quel Piero Bassini che «impressionòtutti quanti, in particolare Fayenz e Polillo».94

Incuriosito, gli ho domandato come contattasse i musicisti: «non ci volle molto perorganizzare il tutto: presi la guida telefonica e chiamai Arrigo Polillo, spiegandogli lasituazione».95

Organizzare concerti non impedisce di andarci. Nel 1973, a un’edizione di UmbriaJazz, Veschi incontra Alberto Alberti, bolognese, direttore artistico della rassegna um-bra ed ex-dirigente Rca. Nasce un’idea, che prenderà forma pochi anni dopo e avrà ilnome di Red Records.96 È il 1976. «Sam Rivers sta venendo a Milano. Sarebbe il casodi registrarlo.»97 Fu il primo suggerimento di Alberti, e la prima «messa in opera» diSergio Veschi…

Tra Santi Neri e note dell’anima. Giovanni Bonandrini

Posso dire che la conversazione con Giovanni Bonandrini non ha aggiunto nulla dinuovo alla già conosciuta storia di Black Saint e Soul Note,98 e non vorrei che s’inten-desse che sia stata poco proficua e insoddisfacente… Tutt’altro. Come mi è capitato

158

Page 191: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

con Veschi, ho avuto l’opportunità di conoscere, attraverso aneddoti, racconti e ricor-di, la vicenda di uno degli assoluti protagonisti della scena del jazz; «un abilissimo uo-mo d’affari»99 e un produttore infaticabile. Assieme alla Red Records, Black Saint eSoul Note rappresentano il fiore all’occhiello delle etichette italiane; una conclamataimportanza che va ben al di là dei confini nazionali.

La Black Saint navigava in cattive acque quando, nel 1977, venne rilevata dall’Hi-fiRecord Center, società costituita pochi anni prima, da Bonandrini e altri soci.100 A queltempo la produzione artistica era in mano al futuro critico Giacomo Pellicciotti, «conil quale collaborai anche dopo il mio subentro».101

Per due ragioni, il 1979 fu un anno cruciale. L’Hi-fi si scinde in Ird e Irec.102 Sa-ranno le due società che, da lì in avanti, gestiranno la distribuzione italiana ed esteradella maggior parte delle etichette indipendenti mondiali.103 Sfruttando gli stessi ca-nali utilizzati per Black Saint e Soul Note,104 «Giovanni Bonandrini ci ha aiutato adavere visibilità internazionale».105 «Non c’era rivalità tra me e gli altri produttori, da-to che li distribuivo quasi tutti. Ero amico di molti e con tanti altri c’era un rapportomolto professionale.»106

Ma il 1979 è anche l’anno di nascita della Soul Note, un’intuizione di Bonandrini,sorellastra della Black Saint.107

La Black Saint stava all’avanguardia – «era la musica che andava in quegli anni»108 –,come la Soul Note stava «alla rinascita dell’hard bop»,109 ai «musicisti non inseribili inuna precisa categoria»,110 e da lì a qualche anno, agli italiani, a partire da Gaslini PlaysMonk,111 nel 1981.

A fare da trait d’union fra le due «sorellastre» fu quel Billy Harper che di ambeduerappresentò l’esordio.112

Chiedersi se a distanza di tempo – e avendo superato la prova del tempo! – questadicotomia interna – Black Saint/avanguardia vs. Soul Note/hard bop – possa essere al-leggerita, sembrerebbe opportuno:

In realtà c’era avanguardia anche nella Soul Note! Superati i primi tempi e una volta che eb-bi completamente in mano la situazione, ero io che decidevo e suggerivo ai musicisti perquale delle etichette avevo intenzione di produrli. Ne parlavo spesso con loro […]. Ciò nontoglie che per alcuni di loro era molto importante far parte di un catalogo piuttosto che diun altro; ad esempio per David Murray e per il World Saxophone Quartet.113

L’ottima reputazione di Black Saint e Soul Note è riconosciuta, ed è stata riconosciuta, alivello internazionale. Per sei anni – dal 1984 al 1989 – le due etichette sono state in ci-ma alle classifiche del «Down Beat» Critics Poll. Non poteva non meritare stessa fortu-na Giovanni Bonandrini, giudicato miglior producer nel 1984 e ’85, e dall’87 all’89.

In quegli stessi anni, ci fu l’acquisizione della Phonocomp, una tra le prime fabbri-che indipendenti italiane, addetta allo stampaggio e alla produzione di Cd, musicas-

159

Page 192: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

sette e vinili. La vera abilità di Bonandrini, è stata quella di saper coniugare fiuto arti-stico e mentalità imprenditoriale. «Dal produttore al consumatore», sembra essere sta-ta, per qualche anno, la sua filosofia, capace di allineare e di collegare tra loro produ-zione di qualità, distribuzione e stampaggio; a riprova che arte e imprenditoria, nonsenza sacrifici e validi compromessi, possono andare d’accordo.

Made in Milano. Suggerimenti discografici

Ad ognuno degli intervistati ho chiesto di ricordare una serie di registrazioni fatte aMilano. La città come luogo di registrazione è stata l’unica condizione posta e l’unicoparametro di selezione. Ne consegue che la presente discografia, è ampiamente lonta-na dal poter essere considerata esaustiva; e non occorre sottolineare che per alcune eti-chette esistano registrazioni più rappresentative effettuate in altre città.

Parimenti, occorre sottolineare che alcuni dei consigli coincidono con autentici bestseller, nonché dischi eccellenti.

«Alla Dire furono registrati alcuni ottimi dischi.» Claudio Fasoli mi ha raccontatouna serie di sedute effettuate allo Studio 7 per conto dell’etichetta di casa. Tre cogno-mi per un titolo: il trio Beck-Mathweson-Humair,114 meglio conosciuto come l’Euro-pean Rhythm Machine, sezione ritmica del quartetto di Phil Woods.115 Il trio fu regi-strato a seguito di un concerto del sassofonista tenutosi al Jazz Power.116 Due compo-sizioni, a nome di Gordon Beck la prima, e del trio la seconda; ambedue articolate inpiù movimenti. Un interplay denso, tanto quanto le idee suggerite.

Seguono, il già citato Jazz Duo,117 di Fasoli & D’Andrea, che vinse il Premio dellaCritica Discografica nel 1979. Quattro composizioni a testa, tra modalità e uno sguar-do al futuro. Infine Franco Ambrosetti & Don Sebesky,118 frutto della collaborazionetra Tito Fontana e Franco Ambrosetti.119 Varrebbe la pena recuperare il disco per ren-dersi almeno conto della quantità e qualità dei musicisti coinvolti nella seduta…

Abbiamo lasciato la Red Records a The Quest di Sam Rivers. Con 360° Aeutopia, siebbe la svolta. «Il disco americano»120 del compianto sassofonista Massimo Urbani,rappresentò un autentico giro di boa per le future scelte dell’etichetta e per la carrieradel musicista. «È solo dopo quel disco che capimmo veramente cosa avremmo fatto,quale sarebbe stata la linea da seguire.»121 «È un disco a cui tengo molto, perché regi-strato con musicisti americani di cui ho grande stima»,122 dirà Urbani. «Non voglioconsiderare 360° Aeutopia un punto d’arrivo, ma solo un buon punto di partenza percontinuare a fare delle cose in quel senso.»123 Da 360° in poi, le cose in casa Red Re-cords, non sono state più le stesse…

Quello tra Bobby Watson e l’Open Form Trio è uno degli incontri più prestigiosi av-venuti a Milano. Appointment in Milano124 è il secondo disco del quartetto «italiano»

160

Page 193: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

del sassofonista – Piero Bassini al piano, Giampiero Prina alla batteria e Attilio Zanchial contrabbasso – che sottolinea come «in Italia ho trovato le prime persone che mihanno dato grande fiducia, credendo in me».125 Appointment «è uno dei nostri bestseller. Più di ventimila copie vendute. Un disco che venderà sempre».126

«Ci sono istanti, nel jazz, in cui la scintilla scocca. Uno di questi momenti favorevoli hapremiato l’idea di chi ha fatto incontrare, in una strada di Milano»,127 il sax tenore diSteve Grossman – newyorkese come Watson –, e il sapiente piano di Cedar Walton, co-adiuvati dal basso di David Williams e dalla batteria di Billy Higgins. Love is the Thing128

è «un intero album di ballads, nella più tipica tradizione del jazz moderno».129

Priviamoci di Grossman, e da quartetto scendiamo a trio, con i tre volumi registra-ti da Walton & Co, l’ultimo dei quali ripreso proprio a Milano.130 Originals, standard,proprie composizioni;131 il valore della tradizione, sempre rivisitata.

Torniamo all’Open Form Trio e al suo pianista, «un oscuro quanto dotato musici-sta»,132 quel Piero Bassini i cui dischi per la Red Records continuano a vendere benis-simo: Nostalgia e Intensity,133 sono tra questi.134

I lavori di Franco D’Andrea per la Red Records sono probabilmente i più impor-tanti e significativi della sua produzione. Sono confluiti in un elegante cofanetto, cin-que registrazioni, tre delle quali premiate, a loro tempo, dal referendum di «MusicaJazz».135

«Ricordo con molto piacere, ma con altrettanta malinconia e amarezza, tutte le re-gistrazioni fatte: non me ne sono persa una. Mi capitava spesso di andare negli StatiUniti, soprattutto in estate, per seguirle direttamente.»136 I suggerimenti di Bonandrinisono stati velati, nascosti tra le righe. «Le ricordo tutte con affetto… A Milano, quel-la di Roach con Braxton,137 e poi le molte di David Murray… Regeneration138 di Ros-well Rudd…»139

Barigozzi Studio

Su Giancarlo Barigozzi si è scritto poco, ed è forse un bene. La sua fama è soprattut-to legata alla qualità delle sue registrazioni, e per un tecnico del suono vale più di qual-siasi parola fissata sulla carta. Due fasi segnano la sua carriera. Alla prima si è qua e làgià fatto riferimento,140 la seconda iniziò nel 1976, con la creazione in via Nöe 2, delBarigozzi Studio.141 Se si eccettuano le registrazioni della Dire, tutte effettuate alloStudio 7,142 la fama delle altre etichette dipende dalle giornate passate da produttori emusicisti in via Nöe.

Le etichette milanesi sono degli «universali» del jazz perché si sono garantite rico-noscibilità internazionale, puntando sempre sulla qualità. Una progettualità totale cheinvestiva tutte le fasi di realizzazione dell’oggetto-disco.

161

Page 194: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

«Se i nostri dischi sono riconoscibili dagli audiofili» dice Sergio Veschi, «lo devo so-prattutto a Giancarlo Barigozzi.»143 Ricorda il producer:

Giancarlo Barigozzi è stato il Rudy Van Gelder italiano.144 Aveva una predisposizione natu-rale nel catturare il suono. I suoi interventi erano sempre attenti ed equilibrati ed era abilis-simo nel valorizzare le ance, soprattutto i sassofoni, data anche la sua esperienza come sas-sofonista. Preservava sempre l’insieme e le interferenze in fase di produzione erano semprecalibrate e limitate: capiva i musicisti ed era in grado di farsi capire. La mia predilezione peril ritmo e per la batteria fu motivo di scontro soprattutto all’inizio: si litigava e ci si arrab-biava. Trovato il compromesso, il nostro rapporto professionale e collaborativo ingranò eprese definitivamente il volo. Lo studio in via Nöe divenne la sede principale delle registra-zioni Red Records a Milano.

Anche la scoperta di Jerry Bergonzi, uno tra i più grandi sax tenori in circolazione, pas-sò attraverso i consigli di Barigozzi: «Capì subito la statura artistica e strumentale diBergonzi e mi incoraggiò moltissimo a fare tutto il possibile per promuoverlo».145

«Furono le prime registrazioni Red a spingerci a lavorare con Barigozzi. Ne parlaianche con Gaslini che me lo consigliò fortemente.»146 Anche per Bonandrini il rap-porto con il tecnico e il suo studio fu un elemento importantissimo per le sue produ-zioni milanesi.

Era un gran musicista che capiva i musicisti. Anche nel caso dei tagli, sapeva sempre comeintervenire, grazie all’esperienza acquisita negli anni. Inoltre e cosa ben più importante, erauna persona squisita… C’è poi da fare una considerazione legata all’economicità che per unproduttore è un aspetto importante. Il rapporto qualità prezzo era ottimo. Costava moltomeno registrare da Barigozzi che non da Ricordi.147

«Da sassofonista, posso dire che Barigozzi era un ottimo sassofonista; un agile poli-strumentista. Suonava molto bene anche il flauto.»148 Sono queste le impressioni diFasoli, che in via Nöe ha registrato più volte.149 «Ne parlavo spesso anche con Bonan-drini: Barigozzi era sinonimo di garanzia.»150

Dopo dati e date, indirizzi, volontarie, ma soprattutto, involontarie mancanze, var-rebbe la pena recuperare, più di qualsiasi contributo bibliografico, qualche registra-zione. «I dischi sono per il jazz quello che il conservatorio è per la musica classica: unascuola, una tesoreria, un archivio, e un centro di gestione risorse.»151

1 Nell’affermare la validità del contributo, sono consapevole che dal 1984 a oggi molto è stato scrittoe molte cose sono cambiate. Suggerisco per questo la lettura di Intramood, a cura di M. Franco,Sinfonica Jazz, Brugherio 2007. Il libro, una miscellanea di scritti in onore di Enrico Intra, ha il pre-gio di riassumere, attraverso interventi diversi tra loro – si va dal saggio, al ricordo personale –, il per-corso di un musicista che ha inscindibilmente legato la sua vicenda artistica a quella del capoluogolombardo.

162

Page 195: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

2 F. Fayenz, Milano, la città del jazz, in G. Taborelli, A. Crespi Morbio (a cura di), Le capitali della mu-sica, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 1984, p. 180.3 L’importanza e la funzione storica del magazine sono state più volte evidenziate. Le vicende che por-tarono alla nascita della rivista sono appassionatamente raccontate da Arrigo Polillo nel primo capi-tolo di Stasera jazz (Mondadori, Milano 1978). Una versione del testo, è disponibile in <http://cen-trostudi.sienajazz.it/libroSJ.asp> [ogni qualvolta comparirà la dicitura Polillo 1978, ci si riferirà allaversione online, e alla relativa numerazione delle pagine]. Per i cinquant’anni di «Musica Jazz», furo-no pubblicati dodici interventi che riassumevano la storia della rivista (vedi «Musica Jazz», L/8-9, ago-sto-settembre 1994-LI/8-9, agosto-settembre 1995). Concentrandosi sul primo quinquennio di vita,Marcello Piras ha offerto una serie di considerazioni filologicamente provate, restituendoci deglisquarci interessanti sul dibattito in seno alla rivista stessa (M. Piras, Il radicamento del jazz in Italia, inG. Salvetti, B.M. Antolini (a cura di), Italia millenovecentocinquanta, Guerini e Associati, Milano1999, pp. 301-9). Gian Carlo Roncaglia ha sempre posto particolare attenzione ai primi atti fondatividi «Musica Jazz», contestualizzandone la nascita (vedi G.C. Roncaglia, Una storia del jazz, 4 voll.,Marsilio, Venezia 1979-1982, vol. IV, L’Europa e l’Italia dai pionieri a oggi, pp. 309-315; Id., Italia JazzOggi, De Rubeis, Anzio 1995, pp. 135-143 [cap. VIII: «Gli studi sul jazz in Italia»]; Id., Il jazz e il suomondo, Einaudi, Torino 2006, pp. 457-460). La posizione in prima linea ha esposto «Musica Jazz» averi e propri attacchi frontali. Qualcuno, non senza argomentare e motivare le proprie ragioni, è arri-vato ad identificare il jazz italiano con la rivista stessa (vedi l’intervento di Franco Pecori in E. Cogno,Jazz Inchiesta Italia, Cappelli, Bologna 1971, pp. 146-165), senza però tralasciare di dire, in una con-siderazione tra parentesi, che «le opinioni contrarie vengono democraticamente ospitate…» (p. 164).4 G.M. Maletto, Quella testata con la «e» nel mezzo, «Musica Jazz», L/8-9, agosto-settembre 1994, p. 14.5 Vedi M. Piras, Il radicamento del jazz in Italia, cit., p. 304 e G.C. Roncaglia, Il jazz e il suo mondo,cit., p. 459, che include i collaboratori arrivati nei primi anni Cinquanta.6 Cfr. G.M. Maletto, Quella testata con la «e»…, cit., che sottolinea come la ricerca delle collabora-zioni estere facesse parte dell’«impegno culturale della rivista» (p. 13).7 L’espressione «lungimiranza pionieristica», è mutuata da G.C. Roncaglia, Italia Jazz Oggi, cit., p. 137.8 M. Piras, Il radicamento del jazz in Italia, cit., p. 305.9 Ibid., pp. 304-5. 10 G.M. Maletto, Quella testata con la «e»…, cit., p. 13.11 G.C. Roncaglia, Una storia del jazz, IV, cit., p. 109.12 M. Piras, Il radicamento del jazz in Italia, cit., p. 305.13 Il Centro Studi sul Jazz si trasformò, in seguito a un referendum, in Federazione Italiana del Jazz(Polillo 1978, p. 1).14 Vedi G.C. Roncaglia, Italia Jazz Oggi, cit., pp. 74-8 e M. Piras, Il radicamento del jazz in Italia, cit.,pp. 304-5.15 Gilberto Cuppini suonò al Primo Festival del Jazz di Parigi, con il gruppo dello svizzero Osterwalde con il trio del nostro rappresentante ufficiale, Armando Trovajoli, con Gorni Kramer al contrab-basso. Vedi Polillo 1978, p. 1.16 A. Polillo, Jazz Italiano: i fatti i personaggi, «Musica Jazz», XXXIX/10, ottobre 1983, p. XLVII. Cfr.Polillo 1978, p. 1.17 F. Fayenz, Milano, la città del jazz, cit., p. 183.18 A. Polillo, Jazz Italiano: i fatti i personaggi, cit., p. LI. Cfr. Polillo 1978, p. 10.19 F. Fayenz, Milano, la città del jazz, cit., p. 182.20 Milano, nel corso degli anni, avrà il maggior numero di formazioni orientate al recupero della tradi-zione. Si ricordino i Magentonians, la Milano Jazz Gang, guidata dal veterano banjo player Jack Russo;la Foggy City Dixieland Band e l’Ambrosia Blues Band. Sul finire degli anni Cinquanta, nasce la BovisaNew Orleans Jazz Band, di Luciano Invernizzi e Fabio Turazzi. Attivista del movimento fu l’itineranteLino Patruno, che dalla Riverside Jazz Band tornò alla Milan College Jazz Society, passando attraversol’esperienza con i Gufi. Vedi A. Polillo, Jazz Italiano: i fatti i personaggi, cit., pp. L-LII e B. Schiozzi, J.Russo, Il revival del jazz tradizionale, «Musica Jazz», XXXVIII/2, febbraio 1982, p. L.21 L’Arethusa, aperto nel 1951, si trovava all’angolo di piazza Diaz e via Giardino, mentre il SantaTecla, nell’omonima via. La Taverna Messicana era invece in via San Giovanni sul Muro.22 Tecla è un’abbreviazione ai tempi utilizzata. Sul Santa Tecla, vedi il box curato da Arrigo Polillo

163

Page 196: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

(Le folli notti del «Santa Tecla»), in B. Schiozzi, J. Russo, Il revival del jazz tradizionale, cit., pp.XLVIII-XLIX.23 Cave, «sul modello di quelle esistenzialiste parigine» mi ha precisato Turazzi, è un termine che èstato spesso utilizzato per definire quei primi locali milanesi.24 E. Intra in Intramood, cit., Dvd allegato, min. 5’11’’.25 Oltre che da Turazzi, il nucleo fondatore della Bovisa era costituito da Giorgio Blondet, SergioDella Pergola e Luciano Invernizzi, rispettivamente tromba, pianoforte e trombone.26 Conversazione con Fabio Turazzi. 27 Mario Pezzotta suonò in contesti traditional, divagando anche nel moderno, incidendo e suonandocon la coppia Basso-Valdambrini, soprattutto prima dell’arrivo di Dino Piana. Le stesse considera-zioni valgono per il sassofonista e clarinettista Glauco Masetti.28 A. Polillo, Jazz Italiano: i fatti i personaggi, cit., p. L: «I seguaci delle prime bande tradizionali nonandavano affatto d’accordo coi fautori del jazz moderno, e cioè il bebop, da poco lanciato in Americada Charlie Parker e Dizzy Gillespie».29 Vedi S. Biamonte, M. Piras, Italian Jazz Graffiti, «Musica Jazz», XLIV/8-9, agosto-settembre 1988,pp. XXXVII-XLVIII, e S. Biamonte, M. Piras, Italian Jazz Graffiti 2. 1956-1962, «Musica Jazz»,XLV/8-9, agosto-settembre 1989, pp. XXXV-L.30 F. Fayenz, Milano, la città del jazz, cit., p. 182.31 Gianni Basso, sax tenore, soprano e clarinetto, è astigiano, mentre Valdambrini, trombettista, torinese.32 Gianni Basso cit. in F. Fayenz, Milano, la città del jazz, cit., p. 182. 33 A. Zoli, Storia del Jazz moderno Italiano. I musicisti, Azi Edizioni, Roma 1983, p. 138.34 Testimonianza di Giancarlo Barigozzi riportata in Intramood, cit., p. 53.35 Cfr. L. Ceri, G. Gaber, Gaber. 40 anni di carriera, «Chitarre», n. 153, novembre 1998, p. 14 [con-sultata la versione disponibile in < http://www.giorgiogaber.org/stampa/>].36 «Nightclubs and other venues: Italy», in Barry Kernfeld (a cura di), The New Grove Dictionary ofJazz, Second edition, Macmillan, London 2002, pp. 28-29.37 Dopo aver lasciato l’Italia attorno alla metà degli anni Cinquanta, Barigozzi vi fece ritorno defini-tivo nel 1965. Vedi Intramood, cit., p. 53.38 Sull’attività di Intra non strettamente legata ai soli locali, vedi il box: L’operatore culturale, il didat-ta, in M. Franco, Enrico Intra, «Musica Jazz», LV/7, luglio 1999, p. XLV.39 Il contrabbassista danese era conosciuto con l’acronimo del nome, NHØP.40 Intramood, cit., p. 54.41 Il sassofonista veneziano Claudio Fasoli arrivò a Milano nel 1966 per lavorare in un’azienda far-maceutica. La laurea in Farmacia fu conseguita all’Università di Padova (conversazione con ClaudioFasoli). Il primo incontro tra Fasoli e D’Andrea avvenne a Bologna.42 F. Fayenz, voce di sottofondo, nel Dvd allegato a Intramood, cit.43 M. Castagnedi, Gulda e Scott al Jazz Power, «Musica Jazz», XXVIII/5, maggio 1972, pp. 21-22. PerFriedrich Gulda cambiavano i luoghi ma non le abitudini.44 Il quartetto di Scott comprendeva Romano Mussolini al piano, Marco Ratti al contrabbasso e TullioDe Piscopo alla batteria.45 M. Castagnedi, op. cit., p. 22.46 A. Polillo, È nata «The Band», «Musica Jazz», XXVIII/5, maggio 1972, p. 22.47 The Band era costituita da diciotto elementi. Tredici sono elencati nella recensione al concerto:George Gruntz, Daniel Humair, Flavio e Franco Ambrosetti, sono i fondatori. Seguono Phil Woods,Dexter Gordon, Sahib Shihab, Benny Bailey, Herb Geller, Woody Shaw, Virgil Jones, Eddie Daniels,Dusko Gojkovic, NHØP, Ake Persson.48 Ad accompagnare Santucci il trombettista Luciano Biasutti e l’enfant prodige Giampiero Prina, me-no che quindicenne. M. Castagnedi, «Interazione audiovisiva» al Jazz Power, «Musica Jazz»,XXVIII/5, maggio 1972, p. 22.49 Polillo 1978, p. 1.50 M. Castagnedi, Inizio al Jazz Power, «Musica Jazz», XXVIII/12, dicembre 1972, p. 27.51 Ibidem.52 A. Polillo, Morte a Milano, «Musica Jazz», XXIX/11, novembre 1973, pp. 23-24, e V. Rizzardi, AMilano, «Musica Jazz», XXX/4, aprile 1974, p. 25.

164

Page 197: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

53 Suggerisco, per il valore delle testimonianze e il bell’apparato fotografico, la consultazione di Capo-linea 1969-1989: vent’anni di jazz, Associazione Jazz Capolinea, Milano 1989.54 Conversazione con Claudio Fasoli.55 Ibidem.56 Conversazione con Sergio Veschi.57 Conversazione con Claudio Fasoli.58 Vedi Polillo 1978, p. 1.59 La serata-Bovisa era il mercoledì. Tra il ’67 e il ’68, la stessa Band gestì un proprio jazz club, in unadelle «balere» cittadine più popolari, la Speranza, in corso di porta Romana. «Era un luogo di ritro-vo per i musicisti del gruppo e per quelli di passaggio» (conversazione con Fabio Turazzi).60 Conversazione con Claudio Fasoli.61 F. Fayenz, Milano, la città del jazz, cit., p. 184.62 B. Schiozzi, Il clan dei fontaniani, «Musica Jazz», XXVIII/1, gennaio 1972, pp. 28-30.63 Ibid., p. 29.64 Ibidem.65 Conversazione con Claudio Fasoli.66 Mi riferisco a Franco e Flavio Ambrosetti. Sui frequentatori dello studio e su alcune registrazionivedi B. Schiozzi, Il clan dei fontaniani, cit., pp. 28-29 e G. Gazzoli, L. Cerchiari, Un’occhiata in casa«Dire» e «Black Saint», «Musica Jazz», XXXIV/5, maggio 1978, pp. 15-16 [consultata la prima par-te, curata da G. Gazzoli].67 La passione di Fontana per la canzone, è dimostrata da Cara, registrazione effettuata per conto dellaAriston, i cui «temi [sono] interpretati con molta eleganza da Bruno Lauzi». La registrazione risale alperiodo antecedente la ristrutturazione dello studio. Vedi B. Schiozzi, Il clan dei fontaniani, cit., p. 30.68 Conversazione con Claudio Fasoli. Le stesse informazioni sono fornite in B. Schiozzi, Il clan dei fon-taniani, cit., pp. 29-30.69 Ibid., p. 30. Anche Fasoli mi ha citato l’episodio.70 G. Gazzoli, L. Cerchiari, Un’occhiata in casa «Dire» e «Black Saint», cit., p. 15.71 Tito Fontana, cit. in B. Schiozzi, Il clan dei fontaniani, cit., p. 29.72 Sull’attività di Fasoli alla Dire, vedi G. Gazzoli, L. Cerchiari, Un’occhiata in casa «Dire» e «BlackSaint», cit., p. 15.73 Conversazione con Claudio Fasoli.74 Tito Fontana, cit. in B. Schiozzi, Il clan dei fontaniani, cit., p. 29. Il corsivo all’interno della cita-zione è mio.75 C. Fasoli, F. D’Andrea, Jazz Duo, DIRE FO 349, Milano, luglio 1979.76 G. Gazzoli, L. Cerchiari, Un’occhiata in casa «Dire» e «Black Saint», cit., p. 16.77 Conversazione con Claudio Fasoli.78 Conversazione con Claudio Fasoli. Cfr. B. Schiozzi, Il clan dei fontaniani, cit., p. 29.79 M. Franco, Black Saint Story, «Musica Jazz», LVI/12, dicembre 2000, p. XXXVII.80 F. Fayenz, Milano, la città del jazz, cit., p. 184. I «numerosi recital», specifica proseguendo, sonoquelli «di Sam Rivers, McCoy Tyner, Art Ensemble of Chicago», che si tenevano al cineteatro Ciak diLeo Wachter.81 Ibidem.82 Conversazione con Sergio Veschi. Red sta per Red Records.83 Ibidem. Tra le trasferte fuori Milano, ci furono quella a Sanremo per il concerto di OrnetteColeman, durante gli anni Sessanta, e quella a Ravenna, una ventina di anni più tardi, per sentire ArtPepper («Tornai a Milano in piena notte, e dopo poche ore andai a lavorare»).84 Conversazione con Sergio Veschi.85 Ibidem.86 Sebbene possa apparire in contraddizione con quanto riportato finora, varrebbe la pena rileggereun breve articolo di Veschi apparso su «Musica Jazz», che riassumeva quanto fatto dall’organizzazio-ne fino al 1975. Il resoconto dell’esperienza del Movimento Studentesco offriva l’opportunità di in-trodurre una serie di considerazioni sul rapporto tra jazz e politica. Vedi S. Veschi, L’esperienza col jazzdel movimento studentesco, «Musica Jazz», XXXI/11, novembre 1975, pp. 20-21.87 Conversazione con Sergio Veschi. Salvatore Toscano morì il 24 marzo 1976.

165

Page 198: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

88 Il Concerto della Resistenza fu registrato il 24 aprile 1974 «davanti a quasi tremila persone» (vediG.M. Maletto, Giorgio Gaslini: Fabbrica Occupata. Concerto della Resistenza, «Musica Jazz», XXX/10,ottobre 1974, p. 33). G. Gaslini Quartet, Concerto della Resistenza. Università Statale, EdizioniMovimento Studentesco MS LP 002 S.89 Conversazione con Sergio Veschi.90 15 ottobre 1975. Vedi A. Polillo, Concerti: Milano, «Musica Jazz», XXXI/12, dicembre 1975, p. 38.91 20-21 gennaio 1976. Vedi G. Dalla Bona, Concerti: Milano, «Musica Jazz», XXXII/3, marzo 1976,p. 38.92 15-16 marzo 1976. Vedi G. Dalla Bona, Concerti: Milano, «Musica Jazz», XXXII/5, maggio 1976,p. 42.93 13 maggio 1976. Vedi Giuseppe Dalla Bona, Concerti: Milano, «Musica Jazz», XXXII/7, luglio1976, p. 44. Cfr. inoltre, V. Rizzardi, G. Mazzon, Parla Mazzon. Ascoltiamo quelli della nuova ondata,«Musica Jazz», XXX/11, novembre 1974, p. 24.94 Conversazione con Sergio Veschi.95 Ibidem.96 Sulla Red Records vedi L. Cerchiari, Altre due indipendenti. Ictus e Red Records, «Musica Jazz»,XXXIV/8-9, agosto-settembre 1978, p. 11; C.M. Bailey, Red Records: The Blue Note of Europe, in<http://www.allaboutjazz.com/articles/>, maggio 1999; M. Franco, 25th Red Records Story, «MusicaJazz», LVII/11, novembre 2001, pp. XXXVII-XLIX.97 Ibidem. Dalla seduta fuoriuscì The Quest (Sam Rivers Trio, The Quest, Red Records VPA 106, Mi-lano 1976). 98 Su Black Saint e Soul Note, vedi G. Gazzoli, L. Cerchiari, Un’occhiata in casa «Dire» e «BlackSaint», cit., p. 16, e la replica di G. Pellicciotti nel luglio di quello stesso anno (Sulla «Black Saint», p.48). Vedi anche F. Fini, Soul Note: a Label Discography, Fini Editions, Imola 1997; M. Franco, BlackSaint Story, cit., pp. XXXV-XLIX e relativi suggerimenti bibliografici (p. XLIX); G.M. Maletto, SoulNote Story, «Musica Jazz», LX/11, novembre 2004, pp. XXXVIII-XLVIII.99 Conversazione con Sergio Veschi.100 Conversazione con Giovanni Bonandrini.101 Ibidem.102 Ird è l’acronimo di International Record Distribution, mentre Irec di International Record ExportCompany. Conversazione con Giovanni Bonandrini.103 M. Franco, Black Saint Story, cit., pp. XXXVIII-XXXIX.104 C.M. Bailey, Red Records: The Blue Note of Europe, cit.105 Sergio Veschi, cit. in M. Franco, 25th Red Records Story, cit., p. XLVII.106 Conversazione con Giovanni Bonandrini.107 Sorellastra e non sorella, perché la Black Saint fu fondata da Giacomo Battistella e da un altro so-cio nel 1975. All’etichetta seguì l’apertura dell’omonimo negozio in via Vincenzo Monti 41. Conver-sazione con Giovanni Bonandrini.108 Conversazione con Sergio Veschi.109 G. Bonandrini, cit. in M. Franco, Black Saint Story, cit., p. XXXIX.110 Ibidem.111 G. Gaslini, Gaslini Plays Monk, Soul Note 121020, Milano, maggio 1981.112 Il primo disco per la Black Saint fu l’omonimo Black Saint (Billy Harper, Black Saint, Black Saint120001, Parigi, luglio 1975). Il primo della Soul Note vide Harper alla guida di un quintetto: BillyHarper Quintet, In Europe, Soul Note 121001, Milano, gennaio 1979.113 Conversazione con Giovanni Bonandrini. David Murray e il World Saxophone Quartet appar-tengono alla scuderia Black Saint.114 Gordon Beck, Ron Mathweson, Daniel Humair, Beck-Mathweson-Humair, DIRE 9 FO 341, Mila-no, gennaio 1972. Il disco è stato ristampato e pubblicato dall’americana Art of Life Records nel 2005,con il seguente numero di catalogo: AL1017-2. Il primo nucleo della Machine era costituito da Geor-ge Gruntz al piano, Henri Texier al basso e da Daniel Humair alla batteria.115 Phil Woods ha registrato più volte per etichette italiane. Segnalo Integrity, per conto della RedRecords, che vinse il Top Jazz di «Musica Jazz» nel 1985 [Phil Woods Quintet, Tom Harrel, Integrity.The New Phil Woods Quintet Live, Red Records 177, 2 Cd, aprile 1984].

166

Page 199: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

116 A. Polillo, Beck-Mathweson-Humair, «Musica Jazz», XXVII/11, novembre 1972, p. 36.117 C. Fasoli, F. D’Andrea, Jazz Duo, DIRE FO 349, Milano, luglio 1979. Una raccolta di composi-zioni di Fasoli è stata pubblicata dalla Irec (Claudio Fasoli, 20 Jazz Compositions, Irec, Milano 1985).118 Franco Ambrosetti, Don Sebesky, Franco Ambrosetti & Don Sebesky, DIRE FO 355, Milano, ot-tobre 1979.119 A. Polillo, Ambrosetti-Sebesky, «Musica Jazz», XXXVI/12, dicembre 1980, p. 38.120 Rispondendo a Carlo Verri, Urbani dice: «Sono molto contento che tu mi dica che del disco ame-ricano, come mi piace definirlo anche se è stato registrato a casa nostra, si parla molto». C. Verri, M.Urbani, Intervista con Massimo Urbani, «Musica Jazz», XLV/3 marzo 1981, p. 21.121 Conversazione con Sergio Veschi.122 I «musicisti americani», con Urbani – sax contralto – sono Cameron Brown al contrabbasso,William Ron Burton al piano e Beaver Harris alla batteria.123 C. Verri, M. Urbani, Intervista con Massimo Urbani, cit., p. 22.124 Bobby Watson & Open Form Trio, Appointment in Milano, Red Records 184, Milano, febbraio1985. Sui successi del disco, vedi M. Franco, 25th Red Records Story, cit., p. XLIV e C.M. Bailey, RedRecords: The Blue Note of Europe, cit.125 M. Franco, B. Watson, «In Italia ho trovato le prime persone che mi hanno dato fiducia», «MusicaJazz», XLI/4, aprile 1985, p. 10.126 Conversazione con Sergio Veschi.127 G.M. Maletto, Steve Grossman – Cedar Walton, «Musica Jazz», XLII/5, maggio 1986, p. 73.128 Steve Grossman, Cedar Walton Trio, Love is the Thing, Red Records 189, Milano, maggio 1985.Un ascolto suggerito anche da Mark Levine nel suo Piano Jazz Book (M. Levine, Piano Jazz Book, SherMusic Co, Petaluma, California-Usa 1989, p. 289).129 G.M. Maletto, Steve Grossman – Cedar Walton, cit., p. 74.130 Cedar Walton, David Williams, Billy Higgins, The Trio, voll. 1 e 2, rispettivamente Red Records,192 e 193, Bologna, marzo 1985; vol. 3, Red Records 194, Milano, marzo 1986.131 G. Ballaris, C. Walton, Cedar Walton: «Il vero rivoluzionario del piano è stato Bud Powell»,«Musica Jazz», XLI/6, giugno 1985, p. 12.132 Conversazione con Sergio Veschi.133 Piero Bassini Trio, Nostalgia, Red Records 226, Milano, ottobre 1988. Piero Bassini Trio, Intensity,Red Records 266, Milano, febbraio 1995. Alcune composizioni di Bassini sono state pubblicate dallaCrepuscole Edizioni Musicali, nata dalla Red Records («per ragioni tecniche» mi ha specificato SergioVeschi). Piero Bassini, 25 Compositions, Crepuscole Edizioni Musicali, Milano 1982.134 M. Franco, 25th Red Records Story, cit, p. XLI.135 Il cofanetto, uscito nel 1998, comprende lavori in solo, trio e quartetto, registrati tra il marzo 1980e il maggio 1983. Si parte con Dialogues with Superego, (Miglior disco dell’anno «Musica Jazz») una re-gistrazione che fece dire a D’Andrea «di avere la sensazione di essere in procinto di fare qualcosa diimportante, cosa che capita raramente nella vita» (C. Verri, F. D’Andrea, Franco D’Andrea ha trovatoquello che cercava, «Musica Jazz», XXXVI/6, giugno 1980, p. 8). Con Dialogues è confluito nello stes-so Cd, Es, registrato nel giugno del 1980. Il numero di catalogo è Red Records 156. Seguono: FrancoD’Andrea Quartet, Made in Italy, Red Records 200, Milano, maggio 1982 (Top Jazz «Musica Jazz»);Franco D’Andrea Quartet, No Idea of Time, Red Records 202, Milano, maggio 1983 (Top Jazz «MusicaJazz»); Franco D’Andrea Trio, My One and Only Love, Red Records 201, Milano, maggio 1983. Comeper Bassini, di D’Andrea la Crepuscole Edizioni Musicali ha pubblicato una raccolta di composizioni:Franco D’Andrea, 26 Compositions, Crepuscole Edizioni Musicali, Milano 1982.136 Conversazione con Giovanni Bonandrini.137 Max Roach, Anthony Braxton, Birth and Rebirth, Soul Note 120024, Milano, settembre 1978. 138 Roswell Rudd, Steve Lacy, Misha Mengelberg, Kent Carter, Han Bennink, Regeneration, SoulNote 121054, Milano, luglio 1982. 139 Conversazione con Giovanni Bonandrini. Per ulteriori e validi suggerimenti, vedi l’intervista aFlavio Bonandrini, figlio di Giovanni, che ha guidato il gruppo negli ultimi anni, prima che venisseacquistato dalla romana Cam. Giuseppe Segala, 25 anni della Soul Note in <http://italia.allabout-jazz.com/italy/articles/>, novembre 2004.140 Per i dettagli sulle registrazioni del Barigozzi sassofonista-compositore, vedi A. Zoli, Storia del jazz

167

Page 200: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

moderno italiano, cit., pp. 202-203. Tra le tante collaborazioni, c’è da segnalare quella stabile con EnricoIntra, protrattasi anche dopo l’apertura dello studio (vedi A. Zoli. op. cit., pp. 202-203 e la Discografiaessenziale in Intramood, cit., pp. 101-165, in cui a seconda della registrazione, Barigozzi è impegnato co-me musicista o come tecnico del suono). Una testimonianza cartacea del Barigozzi-compositore, è laraccolta di brani per pianoforte Little Brown (G. Barigozzi, Little Brown, Irec, Milano 1985).141 Attuale Mu Rec Studio.142 Birth and Rebirth, Soul Note 024, fu registrato allo Studio 7, così come Intensity, Red Records 266.143 Conversazione con Sergio Veschi. «Alberto Alberti e Giancarlo Barigozzi sono le due persone dal-le quali ho imparato di più.»144 Rudy Van Gelder è un leggendario tecnico del suono che ha lavorato per CTI, Impulse, Prestige,Savoy, Verve, ma che ha soprattutto legato il suo nome alle produzioni Blue Note degli anni Sessanta.145 Conversazione con Sergio Veschi. Ci si riferisce alla produzione-promozione di Jerry on Red (RedRecords 224, Milano, maggio 1988). «È stato il suo primo disco come leader e quando lo facemmo ri-cordo che il distributore non voleva distribuirlo perché nessuno sapeva chi era.»146 Conversazione con Giovanni Bonandrini 147 Ibidem.148 Conversazione con Claudio Fasoli.149 Almeno due dischi da ricordare: Claudio Fasoli Quartet, Lido, Soul Note 121071, Milano, feb-braio 1983, primo disco di Fasoli per la Soul Note («Fu una proposta che ricevetti direttamente daBonandrini», conversazione con Claudio Fasoli) e Welcome, Soul Note 121171, Milano, marzo 1986,con partner scelti dallo stesso sassofonista: Kenny Wheeler alla tromba; Jean-François Jenny-Clark alcontrabbasso e Daniel Humair alla batteria. 150 Conversazione con Claudio Fasoli.151 E. Eisenberg, L’angelo con il fonografo. Musica, dischi e cultura da Aristotele a Zappa, Instar Libri,Torino 1997, p. 207.

168

Page 201: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Lidia BramaniLe radici ottocentesche dell’editoria musicale a Milano

Nell’antologia Milano e i suoi dintorni, uscita in occasione dell’Esposizione Nazionaledel 1881 con l’intento di presentare la città ai visitatori, è raccolta una serie di scritti diautorevoli collaboratori della rivista «La Vita Nuova», un periodico letterario aperto aiproblemi sociali e all’analisi della contemporaneità, tra le cui firme si riconoscono no-mi di spicco nel panorama culturale dell’epoca, come Cesare Correnti ed Emilio DeMarchi.1 Il prologo è esplicito nel chiarire l’ambizione di questa particolarissima «gui-da», impreziosita da illustrazioni di Tranquillo Cremona e Luigi Conconi, nonché daicapilettera di Luca Beltrami:

Il libro nostro è allegro: v’è qualche sospiro, qualche rimpianto, ma non vi sono lacrime, nésconforti… Il libro nostro è una Guida, nel senso morale della parola. C’è la storia e il pre-sagio, l’arte e la scienza, la ricchezza e la miseria, la virtù ed il vizio, il bello e il brutto, c’èinfine la nostra Milano; ma non quella di pietra, di mattoni e di calce, bensì la Milano cherespira, che s’affanna, che gode, che ama, che spera, che soffre, che lavora.2

Se dobbiamo credere al curatore del capitolo dedicato all’arte dei suoni nella metropo-li lombarda, la Milano ottocentesca, almeno negli anni Ottanta, appare assai più attrat-ta dagli aspetti affaristici e salottieri che dalla sostanza culturale del mondo concertisti-co e compositivo. E non è certo a un inesperto che si deve l’analisi complessivamentesevera della realtà musicale milanese, ma alla prestigiosa firma di Vincenzo Colombo,stimatissimo, tra l’altro, da Eugenio Torelli Viollier, fondatore del «Corriere della Sera»,il quale lo considerava «uno dei pochi giornalisti che parlava di musica conoscendonela tecnica». Il suo giudizio sulle abitudini musicali di Milano è piuttosto duro:

Generalmente credesi che Milano sia una città musicale; ma chi lo dice afferma una di quel-le verità che valgono meno delle bugie. In Milano si fa della buona e specialmente della cat-tiva musica, molti vivacchiano dell’una e dell’altra, per le signore diventa una delle tante ne-cessità portate dalla moda, non pochi trovano in essa un comodo passatempo e il tema dichiacchiere slombate, i giovinetti la subiscono con rassegnazione, le ragazze hanno tal fedenelle secrete virtù di quest’arte da anteporla ai loro più diletti studi, ai babbi sembra con unpo’ di Czerny e di Ascher di impinguar la dote alle fanciulle… e via dicendo; che se si do-vesse considerare ogni faccia del prisma musicale nei rapporti colla società e colla famigliasaremmo all’indice del libro, senza la speranza di vedere questo periodo finito.Milano dunque è centro musicale per affari, per abitudine, per mestiere, per moda, per fa-talità, per universale credenza; ma i milanesi per doti naturali, per gusto e soprattutto perpassione non si distinguono da nessun’altra gente, se ne eccettui forse gli Ottentotti o gli

169

Page 202: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Esquimesi. Il milanese si crede in buona fede portato all’arte dei suoni per non so quale gra-zia divina, e sconfesserebbe volentieri sant’Ambrogio per santa Cecilia. Tutto e tutti coope-rano a lasciarlo nel suo dolce inganno. Il teatro alla Scala, il Conservatorio, i Concerti po-polari, la Società del Quartetto, le Società corali, la Società Orchestrale, una quantità ster-minata di maestri e di dilettanti, fabbriche e depositi d’istrumenti ad ogni pie’ sospinto,un’invasione perenne di cantanti nella Galleria, la calata delle inglesi e l’approdo di tanteamericane, le numerose agenzie teatrali, la prima potenza editoriale del mondo colla rispet-tabile sua rivale… ce n’è da mettere in pensieri anche chi scrive queste righe, il quale nonvorrebbe per tutto l’oro del mondo arrischiare un giudizio troppo avventato intorno ad unaprerogativa, che, dopo quella della moralità, tende a far di Milano la prima città d’Italia. Pure quando vedo i teatri d’opera vuoti, i concerti popolari intristire in mezzo ad una deso-lantissima indifferenza, la folla accorrere solo là dove l’entrata è gratis e rifuggire dinanzi albiglietto pagante, quando vedo così poca serietà nello studio della musica e l’orrore da tut-to quello che sappia di ragionevole progresso o di ritorno all’antico, quando vedo tanta pre-dilezione per le cantilene che solleticano l’orecchio […] devo pur venire a questa conclu-sione: che coloro i quali chiamano Milano città musicale, nel vero senso della parola, la ca-lunniano, pur non volendolo, e che nel suolo lombardo pullulano commercianti, affaristi,commessi, avvocati, negozianti di seta… ma per gli artisti e gli amatori d’arte non possiamoproprio vantarci d’avere, come pei bachi, la semente nostrale.3

A dispetto del pizzico di perfidia che traspare dalle parole del nostro autore a propo-sito di un pragmatismo meneghino ben poco propenso ad affinare la propria consape-volezza estetica, bisogna dire che le sue osservazioni riescono a sintetizzare quel mistodi genuina curiosità e inguaribile carenza di vera educazione musicale – male italianoquanto lombardo – di generosa intraprendenza e superficialità modaiola, che dall’Ot-tocento ai nostri giorni ha condizionato, nel bene e nel male, lo sviluppo del gusto nelcampo della musica colta. Con il senno di poi, potremmo individuare proprio in quel-la brulicante operosità, da lui tratteggiata in modo bonariamente caustico, alcuni ele-menti di forza del futuro musicale milanese. E come tali in effetti li riconosce, semprenel 1881, Giovanni Verga, al quale piace la vitalità milanese, ritenendola «il più bel fio-re» di una pianura lombarda, che a lui, siciliano, comprensibilmente pare, dal puntodi vista naturalistico, piuttosto piatta:

Tutto ciò infine prova che Milano è la città più città d’Italia. Tutte le sue bellezze, tutte le sueattrattive sono nella vita gaia ed operosa, nel risultato della sua attività industre. Il più belfiore di quella campagna ricca ma monotona è Milano; un prodotto in cui l’uomo ha fattopiù della natura.4

È infatti nell’efficienza industriale ed organizzativa ottocentesca, descritta in uno scorciodegli anni Ottanta da Colombo e Verga e proiettata nelle iniziative editoriali e nello svi-luppo delle società concertistiche, che si possono riconoscere i germi più fruttuosi dellacreatività musicale, come si svilupperà a Milano, non solo durante il Novecento, ma par-rebbe anche nel nostro secolo, ormai sul punto di celebrare il suo primo decennio di vita.

170

Page 203: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

In effetti, l’editoria musicale italiana (che, ai suoi albori, non si configurava ancoracome categoria professionalmente definita, essendo sufficiente, per svolgerla, la pa-tente di stampatore o di libraio) trovò in Milano, fin dagli inizi dell’Ottocento, con isuoi Teatri Reali, il Conservatorio fondato nel 1808 e le numerose istituzioni pubbli-che e private, il maggior centro di produzione. E in quanto tale è stata ampiamente in-dagata, negli ultimi vent’anni, dalla ricerca musicologica, che si è concentrata sugli spe-cifici rapporti con il teatro musicale,5 approfondendo i legami tra gli editori e i com-positori,6 senza trascurare il ruolo del pubblico, attivo non solo come spettatore, maanche in veste di acquirente degli spartiti e delle riduzioni commerciali delle opere.7

Tra gli antesignani nel trasformare un commercio sostanzialmente gestito da musi-cisti e copisti in un’impresa vera e propria in senso moderno (sia sul piano tecnologi-co, sia per quanto riguarda lo sviluppo del mercato) spiccano gli Artaria. Originari diBlevio (Como) ed emigrati a Vienna, dapprima specializzati nella vendita di stampe ededizioni d’arte, avevano costituito, per iniziativa dei fratelli Cesare (1706-1785), Do-menico (1715-1784) e Giovanni Casimiro (1725-1797), una ditta che, sotto la direzio-ne dei cugini Carlo (1747-1808) e Francesco I (1744-1808), aveva esteso la propria at-tività al campo musicale. Domenico III (1775-1842), figlio di Francesco, fu per un cer-to periodo editore di Beethoven. Gli Artaria avevano pubblicato anche importantiopere di Mozart. La dedica ad Haydn dei sei Quartetti KV387, 421, 428, 458, 464, 465è riportata nell’edizione Artaria & Co, allora diretta dal massone Giovanni CasimiroArtaria, il cui figlio Pasquale aderiva alla loggia Zur gekrönten Hoffnung, alla quale ap-partenevano anche Wolfgang e il padre Leopold. Scritta in italiano, la dedica (datata 1settembre 1785) trasuda ammirazione e amicizia, ma anche una complicità fraterna dichiaro stampo massonico. Il 20 aprile 1785 Mozart terminò la cantata Die Maurer-freude (La gioia muratoria) KV471, per tenore, coro maschile e orchestra, composta inonore di Ignaz von Born, mineralogista e Gran Maestro della Zur wahren Eintracht,che Giuseppe II aveva nominato Cavaliere dell’Impero per i suoi studi scientifici.Venne interpretata, quattro giorni dopo, dal tenore e membro di quella stessa loggiaJohann Valentin Adamberger (il Belmonte del Ratto dal serraglio), presso la Zur ge-krönten Hoffnung e successivamente in altre logge, a dimostrazione dei continui scam-bi che intercorrevano fra le varie officine. Il 17 agosto Artaria la stampò devolvendo ilricavato ai poveri. Gli Artaria pubblicarono anche opere dello stesso Haydn, di Gluck,Rossini, Schubert. Dal 1932 la ditta tornò a occuparsi solo del commercio di oggetti estampe d’arte. Filiazione della casa madre viennese può considerarsi l’Artaria & Fon-taine di Mannheim, costituita nel 1793 dai figli di Giovanni Casimiro, Domenico II eGiovanni Maria, in società con Matthias Fontaine e attiva fino al 1853 come stampa-trice di libri d’arte e fino al 1867 come libreria. Ferdinando Artaria (1781-1843), ni-pote di Giovanni Casimiro, avviò il ramo italiano della ditta, aprendo nel 1805, a Mila-no, un negozio di libri e ottenendo notorietà soprattutto grazie ad alcune famose gui-

171

Page 204: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

de geografico-culturali. Una raccolta di incisioni di Louis Cherbuin e Jakob Falkeisen,edita nel 1840 da Ferdinando Artaria e figlio (Vedute di Milano, di Monza, della Certosadi Pavia, dei laghi di Como e Maggiore) e destinata ai turisti italiani e stranieri deside-rosi di scoprire i gioielli della Lombardia, era stata ricavata non da disegni, ma da da-gherrotipi, attraverso quindi un procedimento fotografico di recentissima scoperta.L’invenzione di Louis-Jacques Daguerre, di cui aveva dato notizia lo stesso Carlo Cat-taneo sul «Politecnico», era stata presentata l’anno precedente dallo scienziato Fran-çois Arago, presso l’Académie des Sciences e l’Académie des Beaux-Arts, a Parigi. An-nessa al negozio di Ferdinando Artaria, sotto il Coperto dei Figini, vi era una copiste-ria di musica che stampò opere di autori anche molto importanti come Bellini, Doni-zetti, Mercadante, prima di essere ceduta, con tutte le sue lastre musicali e il suo cata-logo di autori, nel 1837, a Giovanni Ricordi.

Una delle prime tirature regolari di spartiti risale al 1804, per iniziativa del «Corrieredelle Dame», settimanale femminile diretto da Carolina Lattanzi: una volta al mese ve-niva allegato al giornale un pezzo per voce e pianoforte (o chitarra). Intorno al 1807comparvero le pubblicazioni di Giacomo Antonio Monzino (1772-1854), con il qualel’attività di liuteria, intrapresa intorno alla metà del Settecento dal padre AntonioMonzino (1730-1800), si estese, oltre al commercio di corde, accessori e strumenti an-tichi, anche all’editoria musicale. Maestro di violino e chitarra, nonché compositore luistesso, Giacomo Antonio ebbe contatti con valenti musicisti dell’epoca, tra i quali Nic-colò Paganini. Nel 1808, Giovanni Ricordi, associandosi con il libraio incisore torine-se Felice Festa (1774-1828), fondò quella che nel giro di pochi anni diventò un vero eproprio colosso dell’editoria musicale.8 Forte dell’esperienza di copista iniziata nel1803 per alcuni teatri milanesi, lungimirante nel comprendere le necessità di un mer-cato nuovo, dal 1813 editore ufficiale del Conservatorio e dal 1815 copista dei TeatriRegi, Giovanni Ricordi creò le condizioni perché l’azienda di cui aveva gettato le fon-damenta dominasse il mercato in Italia, con le sole eccezioni, fra gli anni Trenta e glianni Ottanta, della ditta Lucca, nonché, negli anni Novanta, della Casa Musicale Son-zogno. La storia di Casa Ricordi è quella di un’impresa attenta alle novità del mondodell’opera, capace di un costante aggiornamento tecnologico, forte di una solida retedi contatti, sia nei diversi stati italiani che in quelli esteri. Sotto la gestione di Tito I, fi-glio di Giovanni, Casa Ricordi divenne un importante punto di riferimento per l’af-fermazione della tutela del diritto d’autore, mentre con Giulio, figlio di Tito I e nipo-te di Giovanni, si trasformò in una solida attività industriale capace di legare a séGiuseppe Verdi prima e Giacomo Puccini poi.9

Giovanni, Tito I e Giulio instaurarono, con Rossini, Bellini, Donizetti e soprattuttoVerdi, rapporti personali e commerciali che esulavano dalle tradizionali relazioni traautori ed editori. Se la casa editrice ci guadagnava, è pur vero che contemporanea-mente si assumeva il compito di incrementare e sostenere gli interessi, artistici ed eco-

172

Page 205: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

nomici, dei compositori. Inoltre, i vantaggi derivanti dalla commercializzazione e dalnoleggio delle musiche comportavano un lavoro volto a preservare i materiali da ap-prossimativi rimaneggiamenti.10 Un motivo fondamentale del successo di Ricordi fu illegame instaurato con il Teatro alla Scala, dove dal 1814 (lo stesso anno in cui vennepubblicato il primo catalogo della casa editrice11 come ultima pagina di copertina deiTre divertimenti a violino e viola op. 6 di Alessandro Rolla) Giovanni svolse le man-sioni di copista e suggeritore.12 Nel tempo il rapporto divenne così stretto, che era ad-dirittura l’editore a scegliere le opere da mettere in cartellone nel prestigioso teatro mi-lanese, condizionando in modo evidente l’operato dell’impresario, figura professiona-le che stava peraltro perdendo sempre più la propria identità.13 Ampliandosi, il mer-cato divenne internazionale, tanto che le ordinazioni venivano riportate anche in altrelingue, come il francese, l’inglese, il tedesco e lo spagnolo. A partire dal 1820, Ricordidiffuse in Italia la tecnica litografica, un metodo di stampa chimica su pietra. Per quan-to concerne le opere di Verdi, Casa Ricordi forniva anche le cosiddette Disposizionisceniche, vere e proprie indicazioni di regia, che, insieme all’applicazione del dirittod’autore, portarono a un vero e proprio controllo delle principali stagioni operisticheitaliane. Nel 1884, a chiusura di un’epoca di grande espansione della casa editrice,14

che aveva aperto succursali non soltanto a Milano15 e in Italia,16 ma anche all’estero,17

venne inaugurato il nuovo stabilimento in corso di Porta Vittoria 21, tecnologicamen-te all’avanguardia, interamente dotato di illuminazione elettrica e fornito di una sezio-ne di cromolitografia. Ricordi raggruppò parte della produzione in importanti collane:la «Biblioteca di musica popolare», l’«Arte antica e moderna», la «Biblioteca del pia-nista» e la «Biblioteca musicale tascabile». Significativo anche l’impegno rivolto all’e-dizione di due periodici, la «Rivista minima» e la «Gazzetta musicale di Milano». Fon-data nel 1865 da Antonio Ghislanzoni, la «Rivista minima» si legò agli ambienti dellaScapigliatura e del Verismo attraverso la collaborazione di Salvatore Farina e ArrigoBoito. La «Gazzetta musicale di Milano», poi, nata nel 1842 e sopravvissuta, seppurein modo intermittente, fino al 1902, svolse un ruolo sostanziale nella diffusione delledottrine storiche e musicologiche, allontanandosi completamente dal tono mondanodi testate come «il Pirata», «Il bazar», «La moda», «La fama», «Il caffè di Petronio» o«Il censore universale dei teatri».

Ma vediamo quali spazi lasciò Casa Ricordi alle aziende concorrenti. È del 1813 l’an-nuncio che pubblicizza, sul «Corriere Milanese»,18 la vendita di alcune opere da par-te di Carlo Bordoni e Luigi Scotti, «editori e stampatori di musica in Milano, nellacontr. degli Armorari al n. 3119». Luigi Scotti, nato a Milano nel 1783, fu violinistapresso i Reali Teatri di Milano e insegnante di musica. Nel 1802 risulta in servizio alTeatro alla Scala come «copista»,19 qualifica con la quale lo ritroviamo, nel 1825, pres-so le officine Ricordi. Se nel 1813 fu sicuramente già produttivo come stampatore au-tonomo,20 intorno agli anni Venti possedeva un proprio fondo. Oltre a Carlo Bordoni,

173

Page 206: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

collaborò con altri editori, come Francesco Lucca, Ferdinando Artaria, Antonio Carul-li, Giovanni Meiners, Antonio Monzino e Giuseppe Cattaneo. Scotti era legato a quel-la stessa cerchia di aristocratici amanti della musica, dilettanti e non, di cui pubbliche-rà molte opere. La sua attività editoriale si interruppe probabilmente nel 1845, ma nonquella di professore e di violinista.

Proprio a questo proposito, ci preme riportare altre immagini del mondo musicalemilanese, che completano – svelandone un’altra angolazione – la severa visione di Vin-cenzo Colombo. A fornircela è l’accreditato scrittore e giornalista Raffaello Barbiera(1851-1934), tra l’altro biografo di Carlo Porta e di altri personaggi milanesi celebri.Attento e perspicace nel ricostruire contatti, amicizie e incontri, così Barbiera delineala Milano musicale all’epoca del salotto della contessa Clara Maffei, formatosi nel 1834(e frequentato da personaggi come Liszt, Thalberg e Rossini, nonché, in anni succes-sivi, dallo stesso Verdi), non tanto e non solo riferendosi al circolo di ospiti illustri,quanto agli ambienti più specificatamente musicali, come quelli delle famiglie Bel-giojoso, Litta, Castelbarco, Brivio, Cicogna:

Nelle famiglie si canta, si suona. La società milanese, a quest’epoca, è una società filarmoni-ca per eccellenza. Molti nobili coltivano la musica al punto da ingelosire gli artisti di mestiere[…]. La contessa Francesca Nava, nata marchesa d’Adda, autrice di varii pezzi per piano edi due salmi a quattro voci con accompagnamento di organo, emerge quale pianista. CirillaCambiasi-Branca è chiamata «il Liszt delle pianiste lombarde». È la primogenita di quelPaolo Branca nella cui casa convengono tutte le muse […]. E il conte Castelbarco, autore disei duetti per violini, di dodici quartetti e di dodici quintetti, di un trio per violino, viola evioloncello, di una sinfonia e delle Sette parole della Creazione per grande orchestra e canto?Tutta musica dimenticata; ma allora occupava i gentiluomini, la società milanese, la societàitaliana.21

In un piccolo pamphlet intitolato Glorie e tempeste del Liszt a Milano,22 Barbiera rac-conta altri aneddoti di quell’entourage. Dopo avere rappresentato la casa di CirillaBranca (cognata di Felice Romani, il «sommo vate») come un «tempio dell’arte musi-cale» – dove era passato anche l’«amabilissimo» Rossini, impartendo lezioni a lei e al-le sorelle e dirigendo un concerto – e avere notato come tale «regina del pianoforte»avesse una rivale nella contessa Francesca Nava, «piccola e bruttissima», prosegueesaltando la fama delle «melodie italiane» coltivate in una Milano anche per questo fa-mosa nel mondo, benché denigrata da Liszt:

In casa Medici di Marignano (ne parlò anche Jules Lecomte nel Musée des familles del 1840);in casa dei Conti di Somaglia, dei Conti Castelbarco, dei Belgiojoso, dei Marchesi d’Aracyel,le melodie italiane, dominatrici allora nel mondo, deliziavano, commovevano; specialmentese cantate da Giuditta Pasta, da Marietta Brambilla, dalla Boccabadati o da una signorinaCrespi, il cui nome volò a Parigi sulle pagine del detto Lecomte, che inneggiava a Milano

174

Page 207: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

con un entusiasmo inaudito, forse e senza forse per erigere un contraltare a tutto il male chene aveva scritto il Liszt nella «Revue musicale» di Parigi.23

Ed è in questa Milano che opera Luigi Scotti, morto nel 1860. Figura tipica del suotempo, ciò da cui si discosta rispetto agli altri editori (che generalmente erano, comelui, anche musicisti) è il tipo di produzione, incentrata soprattutto – cosa inconsuetaper quel tempo – su opere strumentali, prevalentemente da camera, in genere compo-ste da autori milanesi o lombardi, benché i destinatari – sia interpreti che dedicatarii –esulassero non di rado dalla sfera locale. Oltre a Carlo Evasio Soliva, Bonifacio Asioli,Alessandro Rolla, Benedetto Negri, Cesare Castelbarco Visconti dei conti di Gallarate,Giuseppe Arnaldi, Amadeo Gaetano, Felice Frasi, il conte Giovanni Fedrigotti, l’aba-te Giuseppe Prina e accanto a riduzioni da lui stesso realizzate per violino e pianofor-te di brani di vari autori (tra cui un Notturno di Hummel), Scotti pubblicò le opere didue aristocratiche compositrici: Francesca Nava d’Adda (nominata da Barbiera), spo-sata in prime nozze con l’architetto Luigi Cagnola, ed Eugenia Appiani, figlia di Giu-seppina nata Strigelli, nuora del grande pittore neoclassico Andrea Appiani e amica diDonizetti e Verdi. Il che, insieme all’edizione di lavori composti per occasioni monda-ne milanesi, conferma come committenti, fruitori, autori ed esecutori facessero partedello stesso ambiente. Scotti, inoltre, fece ricorso, come Ricordi, a forme promoziona-li e pubblicò, nel 1828, un catalogo allegato alle Variazioni per pianoforte di CirillaBranca (altra nobile musicista citata da Barbiera), distribuite gratuitamente.

Sempre a Milano, verso il ’20, Luigi Bertuzzi, già copista, si cimentò anche nell’atti-vità editoriale. Dal 1805 aveva aperto una sede per il commercio degli strumenti, pro-prio in contrada Santa Margherita, vicino a Ricordi. Particolarmente curata risultava laveste grafica delle sue edizioni, che, intorno al 1840, raggiungevano circa i duemila ti-toli. Nel 1847 Bertuzzi tentò una fusione con la più forte casa editrice di FrancescoLucca, che ne acquistò di lì a poco l’intero fondo. Sempre in quegli anni, GiuseppeAntonio Carulli, ex dipendente del Conservatorio di musica di Milano, dove era statoper anni custode, sostenuto dal figlio Luigi, incisore, cominciò il cammino editoriale,anche lui appoggiandosi, secondo la prassi dell’epoca, ad altre ditte, tra le quali Fer-dinando Artaria e il piccolo stampatore Secondo Colombo, il cui marchio, con sede incontrada di Santa Radegonda, aveva a sua volta collaborato, dal ’29 al ’32, con Giu-seppe Antonio Canti. Alla morte di Giuseppe Antonio Carulli, nel 1830, la ditta con-tinuò il suo lavoro, benché per soli due anni prima della cessione a Ricordi, sotto laguida del figlio, il clarinettista Benedetto Carulli.

Francesco Lucca è, come si diceva, l’unico editore che, pubblicando musica operi-stica, fu in grado, per un certo periodo, di mettere in crisi il potere schiacciante diRicordi. Nato a Cremona nel 1802, fu secondo clarinetto nell’Orchestra del Teatro al-la Scala e verso il 1822 entrò come operaio nell’allora già famosa casa editrice Ricordi,

175

Page 208: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

per imparare l’arte di incidere musica. Nel 1825 aprì un proprio stabilimento a Milano,al quale si dedicò fino alla morte, avvenuta nel 1872. Uomo energico e determinato,perfezionò i processi di stampa e fu ammirato per l’eleganza delle sue edizioni. Nel ’46assorbì la ditta Bertuzzi di Milano e, tra il ’71 e il ’75, quella fondata da Luigi Berletti(1803-1882), editore e libraio di Udine che aveva allargato la sua attività, dal 1854, an-che al settore musicale, aprendo in seguito, con il figlio, anche lui Luigi, una succur-sale a Firenze nel 1865. Francesco Lucca, amico dei più grandi compositori, da fervi-do patriota guadagnò la stima di Garibaldi, Cavour, Mazzini e di altri protagonisti delRisorgimento. Per qualche anno pubblicò il periodico «L’Italia Musicale». Gestì la suaattività insieme alla moglie Giovannina, nata Strazza (1810-1894), sorella dello sculto-re Giovanni e amica di Vincenzo Bellini, la quale contribuì, tra l’altro, alla diffusionedelle opere di Richard Wagner, di cui (oltre a quelle di Thalberg, Chopin, Jules Schul-hoff e Carl Czerny) deteneva la proprietà per l’Italia, acquistata nel 1868 a Locarnodallo stesso musicista tedesco in occasione di un suo soggiorno estivo nella località delVerbano.24 Assunta la direzione dello Stabilimento Musicale Francesco Lucca allamorte del marito, Giovannina Lucca si impossessò, tra il ’75 e l’86, dei fondi Ducci(Firenze), Vismara e Canti (Milano). Il 30 maggio 1888 anche questo importante edi-tore passò nelle mani di Casa Ricordi. Nel catalogo del fondo Lucca si contavano ca-polavori di Auber (La muta di Portici e Fra’ Diavolo), Catalani (Edmea), Gounod(Faust), Halévy (L’Ebrea), Mercadante (Il Bravo), Meyerbeer (Gli Ugonotti), Ponchielli(La Gioconda), Verdi (Attila e I Masnadieri), Wagner (tra cui La cena degli Apostoli,Tristano e Isotta e Rienzi nella traduzione italiana di Arrigo Boito) e di molti altri com-positori noti anche in campo strumentale. Oltre al peso che in generale la casa editri-ce Lucca ebbe sulla storia musicale italiana, anche il suo rapporto con Verdi rappre-senta una parentesi di per sé significativa.25

Se Ricordi, che ha dimostrato di essere in grado di soddisfare le esigenze del pub-blico milanese e di tutta Italia, punta soprattutto sulla musica operistica, gli altri edi-tori, ad eccezione di Lucca, tendono a specializzarsi in settori alternativi. Tutte questeattività editoriali, peraltro, finiscono nel corso del secolo. La ditta Carulli è la prima achiudere nel 1833, Lucca l’ultima, nell’88, entrambe acquisite da Ricordi. Monzino èscomparsa come edizioni musicali solo negli anni Cinquanta del XX secolo, anche segià a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento svolgeva prevalentemente funzioni di di-stribuzione e vendita di spartiti. Nel 2002 il marchio Monzino ha assorbito la Carisch,che, nata nel 1887 per il commercio di strumenti e spartiti, aveva esteso la propria at-tività all’editoria dal 1894 e, protagonista del grande lancio discografico italiano deglianni Sessanta nel campo della musica leggera, mantiene tutt’oggi un catalogo di musi-ca classica, pubblicando qualche novità. Fu invece la Casa Musicale Sonzogno, natanel 1874 per volontà di Edoardo Sonzogno come settore musicale della casa editriceomonima fondata nel 1804 dal nonno Giovanni Battista,26 a stringere importanti rap-

176

Page 209: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

porti con i grandi operisti italiani. Proprio sull’esempio di Ricordi, Sonzogno riuscì ne-gli anni Novanta del XIX secolo a legarsi ai musicisti della Giovane Scuola, sottraen-do quindi al più rinomato concorrente i maggiori compositori sulla scena milanese. Ese Ricordi aprì una succursale a Lipsia nel 1901 e una a New York nel 1911, mentrecontrollava il Metropolitan attraverso la gestione di Giulio Gatti Casazza e di ArturoToscanini, Sonzogno, presente a Vienna fin dal 1892, condizionò intere stagioni alTheater an der Wien e usò la sua influenza in molti teatri stranieri, raggiungendo an-che lidi lontani come Cuba e Calcutta. Interessato a un repertorio che non richiedessealti costi e il cui taglio popolare comprendesse, oltre alle opere di Bizet, Massenet, Ma-scagni, Leoncavallo, Cilea e Giordano, anche le operette di Offenbach e di Charles Le-cocq, Sonzogno aveva ristrutturato il vecchio teatro piermariniano della Canobbiana,trasformandolo, nel 1894, nel Teatro Lirico, destinato a divenire una delle sale più im-portanti di Milano.27

È dunque proprio l’intero arco dell’Ottocento a vedere la nascita e lo sviluppo diquel rapporto tra editoria e circuiti organizzativi, che ha trovato in Milano uno deimaggiori centri di orientamento del gusto musicale nazionale e internazionale fino ainostri giorni.

E se il XIX secolo ha assistito, in Italia, al dominio assoluto della musica teatrale (an-che nel repertorio pianistico tramite la parafrasi delle opere), il fenomeno poi vistosa-mente cresciuto nel Novecento, vale a dire la diminuzione sensibile della produzione,con le imprese teatrali tese a non rischiare eccessivamente con nuovi allestimenti, pre-ferendo programmare riprese del passato, cominciò già dopo l’Unità nazionale.28 Laprima reazione si ebbe da parte dei compositori della Giovane Scuola, che facevanocapo all’editore concorrente di Ricordi, Sonzogno. Ma la necessità di un rinnovamen-to iniziò a farsi sempre più pressante all’interno della cultura musicale italiana, con unamaggiore attenzione all’attualità, piuttosto che a una tradizione ormai storicizzata.29

Anche Casa Ricordi cercò di colmare le lacune che aveva accumulato nei confronti del-la musica contemporanea, dando spazio al genere strumentale e recuperando il terre-no perduto, soprattutto nel periodo fascista.30

Nel periodo 1950-2000 si assiste a un incremento della tradizione sinfonica, feno-meno che nel resto d’Europa si era già sviluppato durante il Romanticismo. Se il re-pertorio destinato al pianoforte (cui gradualmente si affiancano altri strumenti) va an-cora per la maggiore, concentrandosi sull’aspetto didattico (coltivato dalle grandi isti-tuzioni professionali e artistiche come i Conservatori, ma anche da piccole scuole lo-cali e in ambito casalingo), perde sempre più importanza il brano caratteristico, com-posto da musicisti minori e destinato a una dimensione salottiera. Ciò va ovviamentedi pari passo con l’affermarsi della musica leggera, che si rivolge a un pubblico di am-piezza mai conosciuta prima, sia per quanto riguarda l’ascolto, sia per quanto riguar-da l’esecuzione (al pianoforte, alla chitarra, ma anche con piccoli complessi). Ed è an-

177

Page 210: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

cora tutta da indagare la recente politica dell’editoria musicale milanese, nella sferaclassica. Oltre ai pochi ma pur presenti titoli d’oggi promossi da editori come Curci oRugginenti e insieme al settore di musica contemporanea della Sonzogno – inaugura-to da Enzo Ostali nel 1961 – sia i prestigiosi autori pubblicati dalla Suvini Zerboni,fondata nel 1907 come emanazione dell’omonima società teatrale, sia l’illustre e ampiocatalogo di compositori del Novecento e del Duemila di Ricordi (oggi Universal Ri-cordi, mentre l’archivio, come Ricordi & Company, appartiene alla Bertelsmann) con-tinuano, di fatto, ad alimentare la musica nuova in Italia e all’estero. L’editoria musi-cale milanese dunque, forte della gloriosa tradizione ottocentesca che l’ha connotata(nella quale erano confluiti fondi anche più antichi) e della popolarità conquistata inquel secolo a livello mondiale, non ha smesso, dal capoluogo lombardo, di vivacizzareil repertorio odierno in Italia e all’estero. Certamente il suo rapporto con i composito-ri, gli interpreti e il mercato, condizionato dal dilagare di forme musicali legate a un’in-dustria del gusto dominata dalle multinazionali e costretto ad adeguarsi per moltiaspetti a una prassi influenzata da fattori economici spesso assai distanti dalla vita edalla realtà degli stessi autori, è profondamente cambiato. La rivoluzione tecnologica,modificando sostanzialmente sia le tecniche di stampa, riproduzione e diffusione del-le musiche sia lo spettacolo dal vivo, con un evidente accrescimento del grado di in-terdisciplinarità linguistica e creativa, ha portato al formarsi di una platea più vasta ediversificata rispetto al passato.31 Se il pubblico della musica contemporanea è infattiancora d’élite, è pur vero che, essendo sempre più socialmente differenziato – grazieovviamente anche alla comunicazione via Internet –, si sta ponendo come filtro di ete-rogenee e complesse stratificazioni interculturali ed estetiche, con le quali l’editoria,anche quella milanese, con il suo straordinario retroterra storico, dovrà fare i conti.

1 AA.VV., Milano e i suoi dintorni, Civelli, Milano 1881.2 A. Bàzzero, L. Beltrami, V. Colombo, L. Corio, E. De Marchi, F. Fontana, A. Galateo, D. Papa, P.Porro, Milano visione, a cura di F. Napoli, Alfredo Guida Editore, Napoli 1997, p. 171 (si veda, nel-la nota precedente, il testo originale).3 Ibid., pp. 157-59.4 G. Verga, I dintorni di Milano, in Milano 1881 negli scritti di Luigi Capuana, Giovanni Verga, Neera,Raffaello Barbiera, [s.n.] Milano 1976, p. 32; si tratta dell’estrapolazione di quattro saggi tra quellicompresi nel cospicuo volume, di cinquecentoquaranta pagine, Milano 1881, Editore GiuseppeOttino, Milano 1881. 5 Le ricerche su quella che è stata chiamata la «storia materiale» dell’opera italiana, presero avvio daR. Verti, Dieci anni di studi sulle fonti per la storia materiale dell’opera italiana nell’Ottocento, «Rivistaitaliana di musicologia», 1985, XX, pp. 124-163. Tra le opere più recenti e più complete citiamo soloB.M. Antolini, Dizionario degli editori musicali italiani (1750-1930), Ets-Società Italiana di Musi-cologia, Pisa 2001. La forma del dizionario si pone in un’ottica di continuità rispetto allo storico la-voro di Claudio Sartori, il cui precedente Dizionario aveva rappresentato – e tutt’ora rappresenta – uninsostituibile punto di riferimento. 6 Cfr., tra l’altro, l’epistolario Verdi-Ricordi: P. Petrobelli, M. Di Gregorio Casati, C.M. Mossa (a cu-ra di), Carteggio Verdi-Ricordi, 1880-1881, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma 1988; F. Cella,

178

Page 211: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

M. Ricordi, M. Di Gregorio Casati, (a cura di), Carteggio Verdi-Ricordi, 1882-1885, Istituto Nazionaledi Studi Verdiani, Parma 1994.7 John Rosselli è stato tra i primi a interessarsi alla storia sociale e culturale dell’opera oltre che allasua analisi estetica. Ricordiamo J. Rosselli, L’impresario d’opera. Arte e affari nel teatro musicale del-l’Ottocento, Edt, Torino 1985; Id., Il cantante d’opera. Storia di una professione (1600-1990), Il Muli-no, Bologna 1993.8 Per una bibliografia completa su Casa Ricordi si rimanda a B.M. Antolini, «Ricordi», in B.M.Antolini (a cura di), Dizionario degli editori musicali italiani…, cit., pp. 286-313.9 Per quanto riguarda il rapporto di Puccini con Ricordi, si veda, tra l’altro, V. Bernardoni (a cura di),Puccini, Il Mulino, Bologna 1996.10 Abbastanza usuale era la prassi di acquistare uno spartito di un’opera e di orchestrarne ex novo laparte del pianoforte per risparmiare i costi di noleggio delle parti orchestrali per nuove rappresenta-zioni. Da questo punto di vista è molto indicativa una lettera di Giovanni Ricordi conservata pressola Biblioteca Nazionale Braidense indirizzata a tutti i corrispondenti di Casa Ricordi e nella quale sispecifica che gli unici materiali orchestrali per il noleggio delle opere di Vincenzo Bellini autorizzatierano quelli pubblicati dall’editore Ricordi e vistati dall’autore stesso. Biblioteca Nazionale Braidense,Autografi, busta VIII, foglio 13.11 Catalogo della musica stampata nella nuova calcografia di Giovanni Ricordi in A. Rolla, Tre diverti-menti a violino e viola op. 6, Ricordi, Milano s.d. [1814]. 12 Il testo di questo contratto si trova nell’Archivio di Stato di Milano. Studi Parte Moderna. Busta n.313.13 J. Rosselli, L’impresario d’opera…, cit.14 Per una bibliografia completa sullo Stabilimento Musicale Lucca si rimanda a M.E. Camera,«Lucca», in B.M. Antolini (a cura di), Dizionario degli editori musicali italiani…, cit., pp. 203-214.15 Galleria Vittorio Emanuele, 29/31 e via Santa Margherita, 9.16 Roma, via del Corso, 392; Napoli, via Roma, 229; Palermo, corso Vittorio Emanuele, 332.17 Parigi, boulevard Haussmann, 46; Londra, Regent Street, W 265.18 8 marzo. 19 Si vedano i libretti dei Misteri eleusini di Giovanni Simone Mayr e del Podestà di Chioggia diFerdinando Orlandi.20 Si veda l’annuncio pubblicitario pubblicato sul «Corriere Milanese» dell’8 marzo.21 R. Barbiera, Il salotto della Contessa Maffei, Garzanti, Milano 1925, p. 69.22 R. Barbiera, Glorie e tempeste del Liszt a Milano, [s.n.] Milano s.d. [1923?]. 23 Liszt era stato accolto nel salotto della contessa Maffei con la contessa Marie d’Agoult (nataFlavigny e nota come scrittrice con lo pseudonimo di Daniel Stern). 24 Cfr. «Gazzetta Ticinese» del 1938.25 Dell’ampia bibliografia citiamo soltanto L. Jensen, Giuseppe Verdi & Giovanni Ricordi. With noteson Francesco Lucca. From Oberto to La Traviata, Garland Publishing, New York & London 1989.26 Per una bibliografia completa sulla Casa Musicale Sonzogno si rimanda a M. Capra, «Sonzogno»,in B.M. Antolini (a cura di), Dizionario degli editori musicali italiani…, cit., pp. 329-344.27 Si veda B.M. Antolini, Teatri d’opera a Milano: 1881-1897, in Id. (a cura di), Milano musicale. 1861-1897 («Quaderni del corso di musicologia del Conservatorio «G. Verdi» di Milano»/5), Lim, Lucca1999, pp. 21-42. Si veda anche G. Salvetti, «Musica», in Guida all’Italia contemporanea 1861-1997,Garzanti, Milano 1998, vol. IV, pp. 591-614.28 L. Bianconi, G. Pestelli (a cura di), Storia dell’opera italiana: il sistema produttivo e le sue compe-tenze, Edt, Torino 1987.29 F. Nicolodi, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, Sansoni, Firenze 1982.30 M. Mainardi, Musica, fascismo, editoria. Casa Ricordi tra rinnovamento e tradizione, in L. Finocchi,A. Gigli Marchetti, Editori e lettori. La produzione libraria in Italia nella prima metà del Novecento,Franco Angeli, Milano 2000, pp. 99-116.31 Si veda W. Santagata (a cura di), Libro bianco sulla creatività. Per un modello italiano di sviluppo,Università Bocconi Editore, Milano 2009, p. 401.

179

Page 212: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Davide VergaUn ampliamento dell’idea di presente

Musica antica a Milano attraverso ricordi, esperienze, testimonianze

L’attitudine estetica verso le opere musicali del passato conduce a un ampliamentodell’idea di presente. […] Se oggi arrivo a gustare, ad amare Perotinus il Grandecome se fosse un mio contemporaneo questo non è dovuto alla mia cultura estetica,al mio presente ma al fatto che lo stesso presente si è modificato, ampliato, che ilcarattere stesso della nostra cultura estetica mira all’attualizzazione sistematica delpassato in maniera che il nostro nunc tende ad abbracciare i secoli, il nostro hic spazipiù estesi.

Boris de Schloezer (1938)1

Milano corre, produce, impegnata a tenere fede al proprio appellativo di capitale eco-nomica; Milano, quasi per patrimonio genetico, vive protesa nel futuro, accendendosiquando può costruire, rinnovare, conquistare per prima i traguardi del nuovo. EMilano pensa al profitto, senza vergognarsene; con l’onestà morale di chi vede il lavo-ro come un dovere e un diritto, ma, ancor di più, come un ingrediente nobilissimo del-la dignità dell’uomo. Sbaglia chi legge nel passo veloce che cadenza i marciapiedi unacorsa sorda agli afflati dell’arte: nel principio di autoaffermazione, l’arte riesce a insi-nuarsi meglio che in altri luoghi; e nella «città che sale», tra profluvi di grigi, più chealtrove il cielo «è così bello quand’è bello». All’interno della produzione culturale –esattamente come nell’agire quotidiano – il pulsare dell’oggi e lo sguardo al domanihanno scoperto nella coscienza del passato un’inedita e imprescindibile forza. Milanoper prima, in Italia, ha maturato l’esigenza di volgersi alla musica antica; per prima siè adoperata per elaborare un approccio che ad essa sapesse accostarsi, in linea con ipiù aggiornati fermenti europei, con lucidità e rigore, con la consapevolezza di avere ache fare con risorse preziose, irrinunciabili; e, sempre, con un movimento che, mai im-posto o suggerito dall’alto, si è generato umanamente dall’interno, passando attraver-so le singole esperienze individuali, e dunque brillando per passione, audacia, caldadeterminazione. Il risultato è oggi un generale riconoscimento tributato alla perizia deinumerosi artisti che da Milano hanno preso le mosse nel formare il proprio profilo diesecutori di musica del passato: tra gli altri, in ordine sparso, Giovanni Antonini e ilsuo sfolgorante Giardino Armonico, Ottavio Dantone, la recente Atalanta Fugiens diVanni Moretto, l’Accademia Litta, Franco Pavan, Vittorio Ghielmi; e, ancora, gli in-numerevoli musicisti che, da tutto il mondo, si sono recati in una Milano a lungo rico-nosciuta quale centro prestigioso per lo studio della musica antica, attingendone gratisapere ed esperienze.

180

Page 213: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

In queste pagine si vuole risalire ai pionieri: interpreti, musicologi, ma anche orga-nizzatori e promotori; l’intento, afferrando il bandolo della matassa e riavvolgendoneil filo, è raccontare i presupposti estetici e intellettuali, gli ideali, le strategie, gli onerie gli onori che accompagnarono il sorgere a Milano dell’interesse per le cosiddette in-terpretazioni «storicamente informate», e che, nel tempo, attecchendo e fecondando,fecero sì che la musica del passato (sul fronte esecutivo, come su quello didattico) di-venisse uno dei gioielli più luminosi dell’offerta musicale milanese. Qui ci si volgerà in-dietro soltanto di alcuni decenni, ma, a testimonianza di un peculiare humus musicalemilanese creatosi nel tempo, si degustino a mo’ di entrée le riflessioni accalorate di unilluminato redattore del «Corriere della Sera» che, già alla fine dell’Ottocento, recen-sendo una temeraria messinscena scaligera dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, si facevapromotore di un recupero consapevole della musica delle epoche passate, e ne auspi-cava la realizzazione senza temere gli inevitabili disorientamenti iniziali del pubblico:

Siamo fra coloro che amerebbero vedere il pubblico nostro educato al più squisito ed eclet-tico gusto artistico, lo vorremmo sensibile a tutte le manifestazioni del genio, capace di ap-prezzarle sotto svariate forme; ci sembra degno di lui che s’interessi allo sviluppo dell’operain musica e che la sua cultura si vada affinando sì da considerar come un godimento anchela rappresentazione di un’opera di grande interesse storico e di non lieve valore intrinseco,come del resto avviene in altri paesi, e segnatamente in Germania. Colà le opere di Gluck,Mozart […] sono nel repertorio, e non v’ha una generazione intiera che non le conosca; inmodo che non può accadere che un pubblico si meravigli di non trovare in Orfeo l’instru-mentale di Wagner e se ne adonti come di un’offesa al suo gusto, al livello delle sue esigen-ze artistiche ed alla maestà del suo teatro: non può accadere che non si conosca più il mododi rendere e interpretare lo stile dei classici antichi; che un cantante trasporti, snaturi, ab-bellisca con fioriture, corone, puntature una parte che se non gli si adatta può rifiutare. […]Che un pubblico abituato quasi esclusivamente all’Aida, a Don Carlo, al Profeta, agli Ugonot-ti o ad opere nuove d’indirizzo, di forma, d’instrumentale moderno che copre così pietosa-mente il suo disattento cicaleccio, che quel pubblico messo ad un tratto di fronte ad Orfeo,non si raccapezzi più, francamente si capisce. Ma bisogna pure incominciare.2

Ebbene, si incomincia

È nel secondo dopoguerra che si gettano le basi per una stagione futura aperta alla mu-sica antica rivissuta su basi filologiche e storicizzanti: a partire dagli anni Cinquanta siinizia a proporre al pubblico milanese opere musicali provenienti dal passato. Cominciacosì un processo di avvicinamento a tale repertorio che fornisce, nel contempo, un ba-gaglio di esperienze culturali ed estetiche necessarie affinché, alcuni decenni dopo, qual-cuno possa maturare l’esigenza di accostarsi a quello stesso repertorio in altro modo.

Milano, nel 1909, aveva fatto da sfondo alla prima ripresa in epoca moderna dell’Or-

181

Page 214: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

feo di Monteverdi nella trascrizione di Giacomo Orefice; e, a ragione, Fiamma Nico-lodi sottolinea in proposito come

per l’artista e per l’intellettuale primo-novecentesco che deve fare i conti con la crisi storica– sociale, politica, culturale – attraversata dal paese, che è anche, non dimentichiamolo, cri-si di identità, di perdita di valori, di certezze, la ricerca di un interlocutore «puro», più«umano», non sconvolto dalle contraddizioni interne della società borghese, riproponeadesso per altre vie – etiche – il tentativo di esorcizzare quel diffuso senso di inquietudinevissuto in prima persona come malattia e decadenza.3

Analogamente, si inserisce all’interno di una reazione culturale e spirituale al disorien-tamento prodotto dal secondo conflitto mondiale, nell’anelito a una ricostruzione de-siderosa di attingere energie da fonti percepite come limpide e cristalline, incontami-nate, il moltiplicarsi di iniziative musicali che del recupero della musica del passatofanno il proprio centro di attività. Il 25 gennaio del 1942 esordisce nel suo primo con-certo l’Orchestra dell’Angelicum: compagine meritevole, nella sua gloriosa parabola divita penosamente conclusasi nel 1992, per aver divulgato il verbo strumentale sette-centesco portando a conoscenza del pubblico di Milano, insieme ai nomi di Bach, Vi-valdi, Telemann, anche le primizie del Settecento lombardo. Nel 1947 monsignor Giu-seppe Biella fonda la Polifonica Ambrosiana, che per anni, nei concerti presso l’Isti-tuto dei Ciechi e le sale della Pinacoteca di Brera, avrebbe promosso la riscoperta diautori milanesi come Franchino Gaffurio e Michel’Angelo Grancini, oltre a rilanciaregli oratori di Giacomo Carissimi e, soprattutto, la musica di Claudio Monteverdi (l’in-terpretazione del Vespro della Beata Vergine valse nel 1965 alla Polifonica Ambrosianail Premio della Critica discografica italiana). In Duomo risuona la musica di GirolamoFrescobaldi, sgranata con sapienza da Renato Fait, organista della cattedrale dal 1946(dal 1951 titolare unico), nonché futuro insegnante di contrappunto presso ilConservatorio di Milano. Nel 1955, con Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa,viene inaugurata la Piccola Scala, la cui programmazione proprio sul recupero delleopere del Sei-Settecento si sarebbe concentrata, spesso – come pure all’Angelicum –saldandone l’intento vitalistico e sperimentatore a proposte di musiche di autori con-temporanei; lo sguardo incuriosito e affamato di passato sovente palpita unito all’at-tenzione verso il presente, quasi a volerne affiancare in sinergia i rispettivi potenziali.Entrambi, escludendo una fruizione di routine, accendono riflessioni, inducono ilpubblico a scandagliare il proprio habitus estetico e intellettuale; entrambi richiedonoun ascolto attento, critico e consapevole. Recensendo una ripresa monteverdiana del-la Piccola Scala, nel 1972 Lorenzo Arruga scriveva:

Ci rassegniamo subito ad annoiarci in nome della cultura, o a sentirci non adatti a queste ri-evocazioni, e non combattiamo facilmente per impossessarci di quanto ci viene offerto. E in-

182

Page 215: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

vece occorre proprio impegno, attenzione, calma, come accade proprio in certe altre crea-zioni del nostro tempo, che per essere nuove sono altrettanto diverse dalle solite e altrettan-to difficilmente assimilabili.4

Nel 1965, intanto, Francesco Degrada diveniva assistente presso l’Università degliStudi di Milano, dove, a partire dal 1973, avrebbe ricoperto il ruolo di professore in-caricato (ordinario dal 1980) di Storia della musica. Con lui la riscoperta milanese del-la musica del passato poteva ora disporre anche di un riferimento di prim’ordine sulversante degli studi musicologici; nel contempo, del resto, dalla sua cattedra universi-taria Degrada si assumeva con entusiasmo l’impegno di coltivare attraverso la didatti-ca un approccio consapevole alla musica del passato. Già nei primi saggi degli anniSessanta, dedicati in particolar modo a Giovanni Battista Pergolesi e al Settecento,Francesco Degrada muoveva verso un superamento dell’idealismo crociano a favore diuna centralità del dato testuale, recuperato nel suo contesto storico, sociale e cultura-le, attingendo alle risorse ora della filologia, ora dell’analisi stilistica, ora della ricercadocumentaria: la necessità di risalire al senso profondo dell’opera musicale, nella con-vinzione che il suo recupero fosse condizione imprescindibile per ridare vita all’operastessa, poneva a Degrada l’imperativo metodologico di guardare alla musica del pas-sato dall’interno, sciogliendone i problemi interpretativi attraverso la frequentazionedegli abiti mentali, antropologici che ad essa erano sottesi. E ciò senza mai giungere aun’attività di studio svincolata dalla musica viva: Degrada, negli anni Sessanta e Settan-ta, seduto al cembalo o alla testa del Complesso Barocco di Milano da lui fondato nel1967 (ricordo, tra le altre, l’incisione per la Arcophon di alcune arie e cantate di Ales-sandro Stradella), si cimentò in prima persona nell’interpretazione del repertorio ba-rocco; e, benché ancora svolta su strumenti moderni, la ricerca che sottostava alle pro-poste concertistiche da lui promosse segnava fortemente l’esecuzione, indirizzandolaverso un approccio puro e consapevole nei confronti della musica del passato, a parti-re da un contatto diretto con le fonti tutt’altro che usuale nell’Italia di allora. Sovranain lui s’imponeva la volontà di rendere l’atto esecutivo come qualcosa di storicamentefondato, ma insieme di estremamente vitale nei confronti del pubblico; e ciò sia nelpredisporre edizioni critiche (era membro dei comitati delle edizioni critiche di Vivaldie Pergolesi) in cui vigile rimaneva il pensiero alla destinazione concertistica del brano,sia in un confronto continuo, sovente alimentato da sinceri rapporti di amicizia, conartisti ed esecutori (fra tutti Laura Alvini, sua amica d’infanzia). Degrada era spesso afianco di Angelo Ephrikian, pure in prima linea nella riproposta di pagine sei-sette-centesche a capo de I Solisti di Milano (numerose le incisioni realizzate per la Arco-phon); opera di Degrada erano in più d’un caso le revisioni delle partiture del XVIIIsecolo eseguite dall’Orchestra dell’Angelicum. Inevitabile che, fino al momento dellasua morte improvvisa, Francesco Degrada dovesse rimanere un referente imprescindi-

183

Page 216: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

bile per chiunque, anzitutto a Milano, si dedicasse allo studio e all’interpretazione dipagine del passato.

Negli anni Settanta – anni duri, in cui a Milano si ha paura ad uscire la sera, in cuidietro l’angolo è normale imbattersi in reparti di polizia in tenuta antisommossa, in cuinon trascorre giornata senza che risuonino sirene spiegate a rendere inquieto l’animodella città e dei suoi abitanti – si ha, quasi ad esorcizzare l’ansia, «l’esplosione della mu-sica». Scriveva Lorenzo Arruga sul «Giorno»:

Naturalmente, a Milano sta esplodendo la musica. Perché «naturalmente» non è facile direin due parole: un poco l’educazione musicale nelle scuole (le ultime generazioni si sono di-sinibite nei confronti del concerto); un poco forse anche la crisi della parola, la voglia di ve-rificare le idee con altre realtà sensibili, la preparazione al suono goduto nello spazio attra-verso il nuovo modo d’ascoltare dischi; e quella grande volontà di partecipazione che muo-ve oggi la gente verso tutto ciò che si sente vero ed espresso con professionismo e schiettez-za. È un fatto che nessuno trova strano la fortuna nuova e crescente dei concerti milanesi. Ènell’aria.5

In un simile vivacissimo panorama, i nomi di Bach, Vivaldi, Monteverdi, Sammartini,Boccherini, Carissimi gradualmente divengono, per i milanesi frequentatori dei con-certi, dei nomi familiari; e, gradualmente, attraverso le proposte più illuminate (allequali non di rado soggiace il contributo di chi, proprio come Degrada, la questionedella musica del passato la affrontava soprattutto sul piano della ricerca), prendevacorpo la sensazione che quei nomi non indicassero soltanto delle composizioni, mapiuttosto uno stile, una peculiare modalità di esecuzione, presupposti estetici diversida quelli che si era soliti riconoscere nel pervasivo repertorio romantico e tardo-ro-mantico. Si inizia a discutere anche a Milano di strumenti «originali» e prassi storica;si ascoltano incisioni di gruppi come il Concentus Musicus Wien e l’Early Music Con-sort di Londra. Nel dicembre del 1972 (il primo anno della sovrintendenza scaligeradi Paolo Grassi), viene invitato ad aprire la stagione della Piccola Scala NikolausHarnoncourt; il suo Ritorno d’Ulisse in patria sarebbe assurto ad epitome dell’interes-se milanese per la musica antica e avrebbe segnato, contemporaneamente, un giro diboa: da lì in poi sarebbe stato sempre più difficile sottrarsi alla questione di «come»eseguire la musica del passato. Benché Harnoncourt avesse fatto ricorso per il suoMonteverdi milanese a elementi dell’orchestra scaligera, recando con sé dal ConcentusMusicus (con cui aveva presentato Il Ritorno a Vienna l’anno precedente) soltantocembalo, organo e liuto, a tutti era chiaro che si assisteva a qualcosa di molto diversodalla versione approntata da Luigi Dallapiccola nel 1942 per il Maggio MusicaleFiorentino, e che pure alla Scala era stata in passato proposta: «La versione presenta-ta […] da Harnoncourt – scriveva “La Stampa” – segue criteri di fedeltà filologica edi ricostruzione storiografica, mentre Dallapiccola – per sua esplicita dichiarazione –

184

Page 217: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

aveva “mirato soprattutto a rendere praticamente eseguibile un capolavoro”».6 Loren-zo Arruga, sulle colonne del «Giorno», esaltava la trascrizione di «Nikolaus Harnon-court, che ha ricreato in modo straordinario la verità monteverdiana» chiamando «glistrumenti, tra cui spiccano l’arpa e l’organo in suggestive violenze di registri, a pren-der parte alla vicenda musicale con tutto il gusto artigianale e l’estro artistico possibi-le, e insieme con sorvegliato stile seicentesco».7 Non tutti – ovvio – la pensavano allostesso modo; e se «l’Unità» sottolineava «oltre che una assoluta attendibilità filologica,un gusto, un equilibrio, una finezza eccezionali»,8 sulle pagine di «Avvenire», Benia-mino Dal Fabbro liquidava l’approccio di Harnoncourt come un gratuito, arbitrario,posticcio trionfo di manierismo:

Se un revisore, come quest’ultimo, che ha anche diretto l’esecuzione con una vivacità parialmeno alla approssimazione, osa inserire, come intermezzo strumentale, una intera toccataper tastiera di Frescobaldi, si può pensare che sia capace di tutto, quanto a manipolazione,interpolazioni, ecc. Invero, il suo organico strumentale, con abuso d’organo, liuto, chitarro-ne e arpa, ripeteva il sound, come si dice oggi nel gergo abominevole della discografia, deicomplessi pseudo-arcaici denominati indifferentemente «barocchi».9

Le recensioni positive rimanevano comunque di gran lunga più numerose: evidente-mente i tempi erano ormai maturi. Approdati ai primi anni Settanta, sul terreno cultu-rale-musicale milanese – dissodato e fertilizzato attraverso una ventina d’anni di propo-ste ed esperienze, innaffiato dall’operato musicologico e didattico del giovane Degrada– era giunto il momento di gettare semi tali da promettere fiori e alberi, non più solo ger-mogli: dalle quinte, in punta di piedi ma con lo sguardo che nulla teme dei sognatori,con le maniche costantemente rimboccate nell’ardore appassionato della ricerca e dellascoperta continue, vengono alla ribalta i protagonisti della gloriosa stagione della musi-ca antica a Milano, i primi combattivi paladini di una prassi esecutiva storica.

«Guardare al passato con gli occhi al presente»Laura Alvini e il Salone Pier Lombardo

Al termine dei suoi concerti, Laura Alvini lasciava il palco come di soppiatto, restìa eimbarazzata; quasi un contrappasso alla visceralità, ora sensuale e dolcissima, ora in-fuocata e sfrenata, che ne animava le mani sul cembalo o il fortepiano. Un’onestà neldonarsi – la sua – inesorabile, incapace di compromessi: porsi a completo servizio del-l’autore, plasmarsi con rigore al fine di divenire strumento il più possibile funzionale aridare corpo e vita alla voce del compositore. Un compito faticoso, immane per chi,come lei, fondava il fare musica su un inesausto travaglio critico, su un asintotico infi-nito scavo dialettico, e insieme ne conservava, quale adamantino nucleo generatore, la

185

Page 218: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

centralità dell’esigenza espressiva: «L’espressione – Laura Alvini chiosava riprendendoil Rameau del Code de musique pratique – è la sola materia del musicista. L’espressionedel pensiero, del sentimento, delle passioni deve essere il vero scopo della musica».

Dopo essersi diplomata al Conservatorio di Milano in pianoforte e in clavicembalo,Laura Alvini si era poi perfezionata a Mosca e a Parigi; l’acquisizione di una prospet-tiva europea non poco aveva contribuito al rafforzarsi in lei, nella riscoperta e nella dif-fusione del repertorio del passato, di una sorta di eticità suprema: una tensione versola verità, che solo nello studio e nella conoscenza avrebbe potuto trovare senso e le-gittimarsi. Laura Alvini era, non a caso, donna coltissima. Si leggeva nel 1975 sulla ri-vista «Le Arti», diretta da Garibaldo Marussi:

È strano che gli adorniani di casa nostra continuino a manifestare una specie di repulsioneistintiva di fronte a queste proposte [di interpretazioni «filologiche» di musica antica] e sene difendano come da un pericolo di regressione conservatrice, giacché proprio le teorie diAdorno sul contenuto di verità sociale di ogni musica implicitamente comportano che taliverità siano tanto meglio analizzabili quanto più obiettiva ne sia la conoscenza. E tale cono-scenza non sarà possibile finché non si sia diffusa anche in Italia, come già in alcuni paesi eu-ropei e nel Nordamerica, una nuova figura di esecutore: l’esecutore colto. Da noi il criteriofinora prevalso della rigida divisione dei compiti ha fatto sì che da un lato il filologo, palli-do di biblioteca, si dedicasse imperterrito alla lettura di manoscritti e alla stesura di saggi persé e per i colleghi, in un dotto giro vizioso, mentre dall’altro l’esecutore, incalzato da una cre-scente richiesta di prestazioni atletiche più che musicali, rimanesse nell’ignoranza, impegna-to com’era a tenere le dita in costante movimento.10

«Personalmente – rispondeva a suo modo Laura Alvini – non ho mai affrontato nessuntesto musicale separando la fase della ricerca filologica da quella del suonare vero e pro-prio, […] consapevole che entrambe le attività subiscono continui mutamenti, più o me-no sotterranei ma continui, attraverso l’azione reciproca che esse svolgono l’una nei con-fronti dell’altra.»11 Trattati antichi, pagine di storia, iconografia, organologia, paleogra-fia: Laura Alvini se ne cibava voracemente, e identificava il proprio dovere di interpretenel riuscire a convogliare nel momento esecutivo la summa di quei faticosi banchetti. Maa «chi ancora insiste nel ritenere non creativo il lavoro di ricerca filologica che l’inter-prete tende sempre più a porre alla base della propria attività e a vedere in ciò il rischiodi un’inevitabile ricostruzione archeologica – quando non attuale e non individualmen-te filtrata – della musica antica» la Alvini senza mezzi termini mostrava e argomentava,con la sicurezza di chi ogni gesto l’ha meditato, il proprio disappunto:

Se siamo d’accordo nel definire l’interpretazione quel processo mediante il quale l’interpre-te rivive il pensiero che sottostà alla musica cui si avvicina, dobbiamo convenire che tale pro-cesso si basa necessariamente su una serie di accertamenti d’ordine empirico che costitui-scono la materia prima dell’interpretazione pur non rappresentandone l’essenza. […]Avendo chiaro il fine che si è proposto, l’interprete dovrà fare l’inevitabile scelta tra fatti de-

186

Page 219: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

terminanti e fatti secondari, potrà avventurarsi nella miriade di fonti a sua disposizione, sce-gliere lo strumento adatto a ricostruire la realtà sonora corrispondente al testo in questione,potrà cioè utilizzare creativamente, in base a una propria visione delle cose, le conoscenzeche le cosiddette scienze ausiliarie (musicologia, paleografia, organologia ecc.) gli offrono.Nessuna meraviglia perciò che essendo i segni musicali del periodo barocco estremamenteschematici e caratterizzati da un margine altissimo di indeterminatezza, al punto che la con-venzione diviene più importante del segno stesso, l’interprete che sceglie questo pezzo dioceano sia invogliato ad appropriarsi delle conoscenze che gli permetteranno di utilizzarecorrettamente e coerentemente il grande margine di libertà che l’autore gli ha volontaria-mente e coscientemente lasciato. Ciò che complica un poco le cose, evidentemente, è che ilfine che l’interprete si pone non è né semplice né delimitato e soprattutto che esso evolvecontinuamente, poiché un buon interprete si pone delle domande sul passato in connessio-ne a problemi e a contesti sempre nuovi.

Fu Laura Alvini, capace di sostanziare di tali presupposti teorici e ideali il proprio ruo-lo di interprete, la prima a proporre a Milano la musica del passato in una veste criti-ca e storicamente consapevole. Fondamentale, perché ciò potesse concretizzarsi in unfecondo e duraturo rapporto con il pubblico, fu un incontro. Era il 1973.

Con la messinscena dell’Ambleto di Giovanni Testori si inaugurava il 16 gennaio del1973 l’attività della Cooperativa diretta da Franco Parenti al Salone Pier Lombardo: sicalava nella realtà il sogno di un teatro civile, inserito nel tessuto urbano, a mezza viatra il centro e la periferia, casa di idee, di interscambio,

espressione della volontà di creare e gestire, in forma autonoma e collettiva, un nuovo tea-tro […] che consenta alla compagnia un incontro rinnovabile e prolungato nel tempo colpubblico e con la cittadinanza, ed uno spazio di lavoro indipendente e permanente, apertoalla ricerca ed alla varietà delle proposte.12

Secondo titolo della stagione del Pier Lombardo era il George Dandin di Molière.Franco Parenti desiderava inserire nello spettacolo degli intermezzi musicali che age-volassero la ricostruzione emotiva e intellettuale della Francia del Re Sole. Gli parla-rono di Laura Alvini: si conobbero e «fu un colpo di fulmine, perché – ricorda AndréeRuth Shammah – la serietà e l’approccio alla musica di Laura, ciò che lei incarnava (unamore per la musica alieno dai condizionamenti del sistema) la rendevano eticamenteassai vicina a Franco Parenti». Il Salone Pier Lombardo – che, dunque, per vocazionerifuggiva dall’idea di un teatro ripiegato sulla sola prosa, aprendosi a dibattiti, mostre,rassegne cinematografiche – divenne così, attraverso Laura Alvini, il primo spazio mi-lanese dedicato alla musica del passato proposta secondo una prassi esecutiva storica.Il 9 ottobre del 1973, con un concerto in cui la stessa Alvini si cimentava insieme aPierre-Yves Artaud nelle Sonate per flauto di Bach, prendeva il via il primo ciclo del-l’attività musicale del Pier Lombardo.

187

Page 220: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

È con tutto l’entusiasmo procuratoci dalla risposta affermativa del pubblico dei nostri spet-tacoli teatrali al questionario Per un’attività musicale al Pier Lombardo – si legge sulla locan-dina di presentazione – che iniziamo una serie di manifestazioni. In esse, ovviamente, faremoanzitutto della musica, ma cercando di ricrearle intorno di volta in volta l’ambiente e il tem-po ai quali essa appartiene – fattori troppo importanti ai fini della sua formazione per non es-serlo anche a quelli del suo ascolto. Noi pensiamo che ne risulti qualcosa di più vivo, più ap-passionante e utile del concerto tradizionalmente inteso. Cominceremo presentando tre con-certi, uno al mese, in ottobre, novembre e dicembre. Ogni concerto sarà dedicato a un soloautore e l’intero ciclo a un solo periodo storico. Non per pedanteria, ma per serietà metodo-logica. Infatti, per quanto nata all’insegna della semplicità, la nostra iniziativa dovrà sollevaredei problemi e degli interrogativi che non potrebbero essere affrontati in altri termini.

L’esigenza di un’arte strettamente – anche politicamente – inserita nella società (esi-genza che della Cooperativa di Franco Parenti rappresentava il nucleo generatore) tro-vava una sorta di contraltare nell’approccio di Laura Alvini verso la musica del passa-to, esplorata mediante un processo di accerchiamento su più livelli, teso a illuminarneil senso recondito attraverso lo studio del contesto storico, sociale, intellettuale, filoso-fico, stilistico. A ciò si aggiungeva un condiviso e tenace impegno nel tentativo di di-segnare un nuovo rapporto con il pubblico, quasi a prolungare l’idea di un’arte chevuole essere, nella società, momento di scambio e confronto:

Lo scopo della nostra attività rimane quello di creare uno spazio in cui interpreti e pubblicopossano cercare insieme un nuovo rapporto con la musica. Ciò richiede che intorno al con-certo vero e proprio si crei una zona di incontro nella quale tutti i temi che possono riguar-dare sia le musiche eseguite, sia i problemi di interpretazione e di ascolto che esse pongono,vengano affrontati in un contatto diretto e umano ma insieme critico e non superficiale.13

Da subito, ad accompagnare i concerti del Pier Lombardo, comparvero dei corposi fa-scicoli ciclostilati in proprio. Scriveva il critico musicale della «Notte»:

Mai, non dirò a memoria d’uomo, ma senz’altro a memoria mia, mi è capitato tra le mani unprogramma così completo, esauriente, denso di notizie, riferimenti, spunti storici, ovvia-mente, politico-sociali. Anzi, il plico, che è piuttosto una dispensa, è così meticolosamentecurato, da far sorgere il dubbio che sia il concerto stesso a fornirne il pretesto, più che nonil contrario. Tale programma, in caso qualcuno del pubblico non lo comprasse (perché co-sta solo 300 lire) viene ad ogni buon conto letto con foga, all’inizio di serata, dallo stesso Pa-renti, direttore del Pier Lombardo.14

Eliminando ogni forma di rapporto gerarchico nei confronti del pubblico, Laura Alviniin tali programmi – da lei stessa redatti – non spiegava ex cathedra, bensì, senza alcunamediazione, condivideva stralci di trattati dell’epoca, pagine di filosofi e letterati, densipassi della Storia sociale dell’arte di Arnold Hauser, illuminazioni poetiche, lettere e me-moriali settecenteschi, semplicemente accostati, così che da sé si andasse ad intrecciare

188

Page 221: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

un reticolo di stimoli e informazioni. Il pubblico veniva indirizzato, insomma, verso unafruizione critica e creativa, chiamato a partecipare insieme all’esecutore al processo in-terpretativo. I fascicoli che accompagnavano i tre concerti del primo ciclo (dopo quellobachiano, una serata dedicata a Rameau e un’altra a Scarlatti) si aprivano non a caso conuna premessa in cui si esplicitava la convinzione di come, soprattutto nella proposta del-la musica del passato, fosse eticamente doveroso estendere l’approccio critico e creati-vo al polo del pubblico – perciò investito, con amorevole fiducia, di inedite responsabi-lità –, rivisitando e rivitalizzando il triangolo autore-esecutore-fruitore:

Quando un giovane interprete si trova a dover preparare un concerto di musica del passatonon può non nutrire qualche sospetto sulla validità attuale del concerto concepito tradizio-nalmente, perché dei tre elementi che lo compongono, la musica scritta e l’interpretazionesembrano appartenere alla sfera della creatività, mentre il terzo, l’ascolto, ha tutta l’aria diessere l’elemento passivo. Ecco perché l’interprete, almeno nel nostro caso, sente sempre piùforte l’esigenza di coinvolgere il pubblico nel processo stesso di documentazione e di anali-si per mezzo del quale egli cerca di capire lo spirito di certe musiche e, interpretandole, dicomunicarlo. Fornendogli il maggior numero possibile di notizie sulle circostanze storico-ambientali in cui una musica è stata scritta, l’esecutore si augura che chi ascolta possa farsiun’idea più precisa delle ragioni di certe scelte stilistiche, mentre spera di distoglierlo, al-meno in parte, da alcune componenti irrazionali ed emotive che sono tipiche del rapportocon la figura dell’interprete.

Arruga, non nascondendo un divertito e interlocutorio senso di sorpresa, sul «Gior-no» recensiva:

Tutto Bach minuto per minuto: questo sembrava la presentazione letta da Franco Parenti[…] al Salone Pier Lombardo prima del concerto che apriva un ciclo in quella sede. E nonsoltanto si accaniva su tutta la vita di Bach: c’erano anche la Bibbia, il Re di Prussia, i prin-cipali avvenimenti dell’epoca, a perdifiato per una mezz’ora, come un suntino letto all’ulti-mo momento di furia prima di fare un esame.

Ma nel contempo riconosceva come il tutto si svolgesse

in un ambiente e in un clima dove il discorso di ricerca comune e di simpatia è veramentenato. […] Questo pubblico nuovo del Pier Lombardo – chiudeva – non fa pensare né allesofisticate atmosfere da concerti per privilegiati, né alla retorica del concerto per decentra-ti: piuttosto alla testimonianza di una vita normale che la musica sta prendendo nella nostracittà, dove venga proposta con coraggio, con qualità; dove si faccia comprendere cioè chenon è un mito staccato dalla vita, ma una presenza importante.15

Fin dai primi appuntamenti i concerti del Pier Lombardo sono affollati di pubblico:giovani, soprattutto (qualcuno avrebbe pure simpaticamente parlato di «setta pier-lombardesca»);16 e gli aggettivi che più spesso nelle recensioni si accompagnano alla

189

Page 222: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

descrizione di tale pubblico sono «attento», «curioso», «simpatico», «autentico»,pronto a una fruizione «disinibita».

Stagione dopo stagione, la proposta concertistica si accresce: sette sono i concerti trail 1974 e il 1975, muovendo dalle trascrizioni bachiane di Vivaldi per giungere, attra-verso Händel e i Bach minori, sino a Haydn, Mozart e Beethoven. Il ciclo del 1976, in-titolato Conoscenza e oblio. L’interpretazione della musica francese dal Re Sole alla Ri-voluzione, si distende su sei concerti, inaugurati da uno Scott Ross rimasto, per chi eb-be modo allora di sentirlo suonare, indimenticabile:

Capelli biondi quasi a metà schiena. Tipo da complesso pop. Suona strumento nero, forse indotazione del teatro, nero con bordo d’oro, vagamente funebre, da tingere subito di nasco-sto, ma dal suono stupendo […]. Giovane, famoso, segnalatissimo. […] Posso sbagliarmi:ma credo che sia molto geniale; forse un grande. Rivive in lui la voglia di cavare dallo stru-mento ogni avventura del suono, che è già un modo di sentire modernamente l’epoca. Lostile è per lui una gioia d’anima: accettare il linguaggio come modo d’intrattenere, di trasci-nare, di reinventare. Respira musica. Gli autori sembrano tutti nostri amici. Il cembalo cisembra lo strumento familiare dei nostri vagheggiamenti.17

Nei primi tre mesi del 1977 si succedono otto appuntamenti (che sovente vedono co-involti i Pomeriggi Musicali); e la rosa degli esecutori sempre più si allarga, ospitandonomi assurti oggi a «classici» della prassi esecutiva storica: in ordine sparso, AlanCurtis, Chiara Banchini, Jordi Savall e Ton Koopman in coppia, Emilia Fadini; nonchéi fratelli Kuijken al gran completo, con i quali «questa musica veneranda per età risul-tava di una modernità tale da richiamare quasi le costruzioni jazzistiche, lunghe assen-ze e repentini ritorni a cellule ritmico-melodiche».18 Sempre più, ad ogni concerto, siprecisa la sensazione di come si potessero imparare «tante cose del mondo antico e delmondo di oggi, della antica e nuova arte di intrattenere gli ascoltatori, coinvolgendoliin una esperienza creativa comune».19

Suprema sacerdotessa del «rito pierlombardesco» – organizzatrice e curatrice, ol-tre che interprete – rimaneva comunque Laura Alvini. Franco Parenti, a chi gli si ri-volgeva per proporre dei concerti, rispondeva: «Ma io non faccio la musica, io facciola Alvini!»; e con ciò ristabiliva la necessità di una garanzia etica della proposta mu-sicale che solo in Laura Alvini era certo di trovare. E Laura Alvini, con la sua serietà,il suo rigore, le sue esigenze («dolcissime ma inesorabili» le definisce Andrée RuthShammah), era per il Pier Lombardo un orgoglio e insieme un impegno: si esibiva neilunedì in cui il teatro era di riposo, fra le scene della pièce in cartellone, con i suoi stru-menti preziosissimi e fragilissimi che, affascinati, Gianni Valle ed altri collaboratoridel Pier Lombardo prelevavano dallo studio di via Palestrina, combattendo con i gra-dini insidiosi di una «scala micidiale». Ad ogni sua esibizione facevano seguito re-censioni che ne esaltavano, ammirate, l’eccezionale talento musicale e la perfetta com-

190

Page 223: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

binazione di intelligenza critica e coinvolgente espressività.Che fossero concerti in cui era lei a suonare, o altrettanto capaci colleghi, «il Pier

Lombardo non programma cose da pigri mentali. Nulla si dice e nulla si fa in quella sa-la che, per quanto noto, permette il rilassamento di uno spettacolo scontato».20 Dai fa-scicoli distribuiti in sala, del resto, la Alvini continuava a fare capolino, sempre più in-frammezzando documenti e fonti con pensieri e citazioni – isolati come apparizioni im-provvise nel bianco puro dei fogli – punteggiando e alimentando il rapporto vivo colpubblico: «Sull’interpretazione. // Il fiore caduto / non tornerà sul ramo. [E, a piè di pa-gina:] Un fiore caduto / che tornava sul ramo? / Era una farfalla»; o ancora: «Il signifi-cato non è nelle cose, ma in mezzo, nell’iridescenza, nell’azione reciproca, nell’intercon-nessione, alle intersezioni, ai crocevia». E, puntuale, in quasi tutti i programmi, nel den-so del plico si insinuava un foglio – quasi traccia della notte insonne di un poeta lì capi-tato per caso – in cui, con grafia corsiva via via diversa, ricorre per cinque volte: «L’uo-mo, libero o no, è un essere che si modifica». Degrada, ricordando Laura Alvini, amavasottolineare come ella svolgesse «la sua missione con grande lucidità, consapevole che sitrattava di un percorso privo di certezze, di una tensione verso una verità da metterecontinuamente in discussione»:21 precorrendo i tempi, già negli anni Settanta la Alviniaveva aggirato nell’approccio alla musica del passato lo scoglio dei dogmatismi:

Ritrovare le musiche originali, studiare i numerosi trattati dell’epoca che rivelano tutto ciòche, se pur non scritto, era parte integrante del testo, restaurare e utilizzare gli strumenti an-tichi, sono tutte cose che non tendono affatto a una ricostruzione «esatta e definitiva» del-l’opera musicale del passato. Al contrario, apportando conoscenze, indicazioni e sollecita-zioni sino a ieri sconosciute, esse tendono a rendere l’atto interpretativo sempre più ricco,problematico e appassionante e quindi più che mai creativo.

Con costante onestà intellettuale Laura Alvini, ogni volta in cui giungeva a quello che– a prezzo di lunghi studi e ricerche – le pareva ridefinirsi entro i contorni della veri-tà, era, nello stesso momento, disposta a riconoscere che quel traguardo poteva esseretransitorio, modificabile; ed era pronta, di nuovo, a mettersi in gioco:

So l’importanza determinante che la conoscenza (o addirittura il possesso di strumenti mu-sicali antichi) ha avuto sul mio modo di fare musica, e so soprattutto che poiché nessuno stafermo a guardare dall’alto come sono andate le cose nel passato, ma lo fa invece arrancandofaticosamente nel presente, la nostra visione e i nostri interessi mutano continuamente e sot-to spinte esterne e collettive molto più complesse e profonde della nostra singola esperien-za. Parafrasando Namier potremmo quindi dire che gli interpreti immaginano il passato e ri-cordano il futuro. Infatti, se occuparsi del passato per puro amore del passato può essere unsintomo di non sani rimpianti, guardare al passato con gli occhi al presente, possibilmentevolti al futuro, mi sembra un buon modo di vivere la musica, qualunque sia il ruolo che noioccupiamo nei suoi confronti.

191

Page 224: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

L’attività musicale del Pier Lombardo sarebbe proseguita – modificando in parte laformula ma non i presupposti – sino al 1980. Gradualmente il pubblico acquistava fa-migliarità con l’esperienza estetica delle diversità di stile, della ricaduta interpretativaed espressiva dei timbri degli strumenti «antichi»: le pagine dei programmi di sala incui Laura Alvini si diffondeva sulla descrizione organologica degli strumenti barocchi,unitamente alla loro diretta conoscenza acustica offerta nel momento dell’esecuzione(«In fine di concerto Savall ha descritto le caratteristiche del suo strumento e ha of-ferto una dimostrazione delle sue qualità tecniche ed espressive con una esecuzionefuori programma»),22 innaffiavano il germogliare nel pubblico di una nuova consape-volezza d’ascolto. Il 21 gennaio del 1976, a commento di una serata pierlombardescain cui violino barocco, viola da gamba, cembalo e fagotto barocco avevano dato vocea brani di Marais e Couperin, «il Giornale» scriveva:

Certo il nostro orecchio, avvezzo a timbri più scintillanti e a una più agile dinamica, al pri-mo impatto con quel mondo lontano ci trasmette sensazioni inconsuete. Poi le voci calde eroche testimoni di scelte estetiche arcaiche conquistano appieno […]. Nella nostra epocatormentata, ma per certi versi miracolosa, il gusto della musica antica sta già diventando ungusto di massa. Ne è stata nuova testimonianza il folto pubblico affascinato da un program-ma che fino a poco fa avrebbe interessato solo una ristretta élite intellettuale.23

La Sezione di musica antica della Scuola Civica di MilanoLaura Alvini e Roberto Gini

Roberto Gini studiava violoncello al Conservatorio di Milano, nella classe di AttilioRanzato; ancora oggi si rivede davanti le mani di un maestro amatissimo che, conun’intelligenza interpretativa e didattica ai tempi non comune, lo avvicinava alle Suitesdi Bach agganciando la tecnica (fraseggio, vibrato, suono) ai significanti-significatiespressi nella pagina scritta. E allora lo stile sgorgava da un’esperienza condivisa discoperta: «Non te lo insegno: guarda, e poi lo trovi da solo». Bigiando le lezioni di sol-feggio, Roberto Gini, ragazzino, ora va ad ubriacarsi – mascotte dei violoncellisti del-l’Orchestra della Rai – trangugiando vorace le prove in Sala Verdi; ora, in sala coro,sente Giulio Bertola che fa intonare agli allievi pagine di Monteverdi, e ne rimane let-teralmente stordito. Un innamoramento, di quelli che segnano la vita:

Nella musica del Cinque-Seicento emerge una realtà espressiva che non c’è stata in nessu-n’altra epoca. C’è un’indagine scrupolosa della psicologia dell’uomo. Lì c’era il sangue vero,come nel Caravaggio: un rosso che dà quasi fastidio per la sua verità.

Intanto, ogni giorno, attende alla radio due trasmissioni, Le stagioni della musica: il

192

Page 225: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Rinascimento e Musica Antiqua; Monteverdi e Frescobaldi evocano mondi lontanissi-mi: difficile, ma ogni volta folgorante, riuscire a udirne delle realizzazioni sonore.Complici le bibliotecarie del Conservatorio, trascorre chino le ore sugli opera omnia;fa bottino di fotocopie e a casa ne ripercorre gli intrecci al pianoforte o sul violoncel-lo. Grazie a una contessa dalle movenze garbate e benefattrici, si compra la sua primaviola da gamba, e da solo vi scopre la fisicità sonora del suo inesorabile innamora-mento. Inizia a frequentare i concerti del Pier Lombardo: gli viene presentato Savallche suona il duo con Koopman; da lì Basilea, poi la collaborazione con l’EnsembleHespèrion e una carriera luminosa che non ha certo bisogno di essere qui ripercorsa.E al Pier Lombardo si imbatte in un nuovo modo di vivere il rapporto col pubblico:ogni forma di accademismo, di passività vi è tenacemente bandita; tornando a casa do-po i concerti, oltre che dal desiderio bruciante di fare, lui pure, quella musica, si ritro-va rapito da una brama di leggere, di conoscere. Comprende che il percorso di inter-prete non può limitarsi all’apprendimento della tecnica strumentale. Lì, al Pier Lom-bardo, conosce Laura Alvini: ne nasce un’unione fortissima, artistica ma anzitutto af-fettiva. Confessa Gini:

Laura è stata una delle persone più care di tutta la mia vita. Ancora oggi non c’è nota che ionon associ a lei e agli insegnamenti che da lei ho ricevuto. Eravamo una cosa sola, «un’asso-ciazione a delinquere»; quando cercammo un violinista per formare un trio, tutti scappava-no: eravamo come un fiume in piena!

Alla fine degli anni Settanta Laura Alvini insegna clavicembalo al Conservatorio diVerona. Sergio Marzorati, direttore della Scuola Civica di Milano, si appassiona all’ipo-tesi di attivare dei corsi rivolti alla prassi esecutiva storica: apre in Civica una cattedradi cembalo per la Alvini. È il 1979. Laura Alvini vuole Gini al proprio fianco e, anchegrazie ai contatti che questi si era formato a Basilea, in breve tempo all’interno dellaScuola Civica prende corpo una vera e propria Sezione di musica antica affidata a inse-gnanti di straordinaria levatura. Oltre ad Ezequiel Recondo, tra i primi vanno citati al-meno Chiara Banchini, Paolo e Alberto Grazzi, Enrico Gatti, Paul Beier. Sottaciuto – efortemente voluto da Laura Alvini insieme a Gini – prende corpo un ambizioso pro-getto didattico: inserire lo studio dello strumento antico in un percorso in grado di for-nire alla pratica strumentale un bagaglio di conoscenze che vada a sostanziare l’atto in-terpretativo di un’intima famigliarità con il mondo – estetico, culturale, filosofico, an-tropologico – posto alle radici delle pagine musicali. Da qui il coinvolgimento di DiegoFratelli, incomparabile luminare di teoria musicale cinquecentesca; da qui l’approfon-dimento della danza e della gestualità barocca attraverso l’apporto di Deda CristinaColonna e Francesca Gualandri; da qui il confronto con la retorica antica, con la storiadel teatro e della letteratura; da qui laboratori, come quello di Gini sulla musica italia-

193

Page 226: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

na del XVII secolo. E ciò affinché l’allievo, lungi dall’essere chiamato ad assimilare pas-sivamente regole (destinate, in tal caso, a tradursi in convenzioni sterili e false), sia sti-molato – investendo in prima persona il proprio spirito critico – a cogliere i «perché»,a maturare un’idea esatta e consapevole di stile. Sosteneva Laura Alvini:

Un’arte stilisticamente neutrale non esiste, così come non esiste un modo linguistico di espri-mersi che non porti né le caratteristiche di una certa epoca storica né quelle di un gruppoetnografico. Così come l’idea dell’opera d’arte si costituisce passo per passo assieme all’o-pera stessa, anche lo stile si attua gradualmente e si sviluppa come risultato della dialetticadelle opere in via di formazione e di quelle già esistenti, e la cui influenza si fa già sentire. Ecosì come il vero senso e la vera riuscita dell’opera d’arte rimangono fino all’ultimo atto del-la realizzazione pratica una questione aperta e lo scopo di una lotta incerta, è quasi impos-sibile dire dove porti uno stile prima che esso non abbia finito il suo corso e non abbia pro-nunciata la sua ultima parola.

Attingendo a una tale sorgente didattica e metodologica, la Sezione di musica anticadella Scuola Civica in pochi anni diviene uno dei principali e più prestigiosi poli for-mativi a livello internazionale per lo studio del repertorio del passato: allievi da tuttoil mondo giungono a frotte a Milano per intraprendere o perfezionare il proprio cam-mino verso la musica antica.

Intanto, intorno al nucleo della Civica, si moltiplicano proposte concertistiche con-dotte secondo una prassi esecutiva storica. Ricorda in proposito Roberto Gini:

Non c’era ancora a Milano abbastanza attività remunerata per poter giustificare la presenzadi un’orchestra, e del resto, almeno all’inizio, non vi era un numero sufficiente di strumen-tisti d’arco; ma, di volta in volta, si sperimentavano formazioni e sodalizi: lì fecero le loro pri-me esperienze, ad esempio, Cinzia Barbagelata o Carlo De Martini, lì si consolidarono comeinterpreti del repertorio antico esecutori oggi acclamati.

Il 1985 è l’anno di fondazione dell’Ensemble Concerto diretto da Roberto Gini: le sueesecuzioni e incisioni monteverdiane sono rimaste memorabili.

«Insegnando si impara»Emilia Fadini

«È almeno singolare che a Milano, nell’anno del Signore 1957, tanti intelligenti giova-netti si adoprino per ristabilire la pratica di uno strumento come il clavicembalo.Singolare e confortante»:24 così Memo Zambrini recensiva il 6 giugno del 1957 il con-certo finale di un «vivace gruppo di giovani clavicembalisti allievi di Gioietta PaoliPadova», docente di clavicembalo presso il Conservatorio di Milano dal 1954. A

194

Page 227: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Gioietta Paoli sarebbero succedute in quel ruolo Egidia Sartori Giordani e poi MarinaMauriello, sino a Emilia Fadini, titolare della cattedra dal 1974. E con Emilia Fadini –attraverso la sua straordinaria figura di didatta, ricercatrice e interprete – il Conser-vatorio di Milano sarebbe divenuto fucina e vivaio di numerosi valentissimi cembalistidi oggi: dalla sua scuola provengono molti dei più luminosi rappresentanti della musi-ca antica a livello italiano ed europeo.

Formatasi come pianista, Emilia Fadini studiava composizione con Renato Fait, esovente era al suo fianco quando questi suonava l’organo in Duomo. Lì, nelle penom-bre maestose della cattedrale milanese, scopre Frescobaldi e la musica del Seicento: nescaturisce un innamoramento che diviene scelta di vita. Emilia Fadini, già allora luci-damente consapevole di come – sono parole sue – «la veste sonora incida sul conte-nuto», decide di studiare il clavicembalo anzitutto per poter suonare Frescobaldi. «IlSeicento – precisa, interrogata sui motivi del suo innamoramento – inaugura un modopiù esplicito, quasi realistico, di esprimere gli affetti: ora vissuti come espressione deitormenti, ora dei compiacimenti; ad un tempo teatrali e oggettivi. Un linguaggio esplo-sivo che contagia tutte le arti ad esaltazione delle emozioni.» E, insieme, a esercitare suEmilia Fadini una fascino irresistibile è il senso di libertà che sgorga da pagine in cui

il modo di scrivere non è sempre facile da inquadrare nei procedimenti tonali: un’ambigui-tà che diviene ricchezza, giacché muoversi tra collegamenti accordali del tutto sganciati danorme scolastiche di correttezza diviene una sfida per l’interprete impegnato ad afferrare lastruttura del discorso. Analogamente, la presunta incompletezza della notazione sottende inrealtà il presupposto che il musicista fosse fornito di una serie di informazioni che gli con-sentivano di vedere anche al di là di ciò che è scritto.

Emilia Fadini si addentra così nello studio del repertorio antico; il che significa anzi-tutto ascoltare, leggere, ricercare, risalire a un contatto diretto con le fonti. Gradual-mente le si manifesta quale imprescindibile passaggio obbligato la questione dell’ap-porto di creatività che la musica del passato richiede all’interprete, molto investendosulla sua capacità improvvisativa; ma, nel contempo, ella si convince pure di quantopossa essere rischioso e fuorviante parlare di libertà:

la libertà non esiste; esiste la conoscenza: raccogliere informazioni allargando il più possibi-le il campo della propria indagine (serve tutto: dalla storia civile a quella economica e reli-giosa), e attraverso un gioco di collegamenti e interconnessioni giungere ad una proposta in-terpretativa plausibile.

Non è semplice riuscire a trasferire tali convinzioni in un progetto didattico dovendoscontrarsi con le strettoie burocratiche e amministrative di un Conservatorio; e tutta-via, da subito, Emilia Fadini si rimbocca alacremente le maniche: con uno sguardo che

195

Page 228: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

rifiuta le angustie dell’isolamento facendo invece dello scambio di idee e di esperienzela propria parola d’ordine, promuove seminari e master class, invitando, anche dall’e-stero, musicisti di notevole prestigio (nel solo 1976 tennero dei seminari in Conser-vatorio sia Kenneth Gilbert che Hannelore Müller). Soprattutto i primi anni di inse-gnamento si svolgono come uno scoprire continuo, a fianco degli allievi; e, nella con-sapevolezza della necessità di accerchiare il fatto musicale per poterne cogliere il nu-cleo di verità, coinvolgendo gli studenti del Conservatorio prendono il via delle attivi-tà laboratoriali, vuoi sul tema della retorica («Dove non importa il vero, bensì il vero-simile – chiosa la Fadini – importa convincere, trasmettere e coinvolgere. E ciò ha ri-svolti umanistici, letterari, politici, religiosi e, ovviamente, musicali»); vuoi sulla tecni-ca degli strumenti a pizzico, confrontando liuto e clavicembalo. Membro del Consigliodi Direzione del Conservatorio, nel 1978 contribuisce – sorta di impavido e agguerri-to Don Chisciotte – all’attivazione di un corso straordinario di viola da gamba affida-to a Jordi Savall; e, nel medesimo anno, si svolge un seminario sulla prassi esecutivadella musica barocca, coordinato da Adriano Cavicchi, in cui si alternano lezioni diviolino barocco (con Luigi Rovighi), di liuto e di flauto dolce.

Emilia Fadini, inoltre, aveva appoggiato la delegazione studentesca che nel gennaiodel 1977 chiedeva di

estendere l’accesso serale gratuito [al Conservatorio] a tutti coloro che, pur non essendoiscritti, sarebbero interessati ad avvicinarsi alla musica e ai suoi problemi; questo per evita-re che il Conservatorio continui a produrre e a proporre musica solo per se stesso o per unpubblico di élite, finendo inevitabilmente con l’isolarsi dal circostante contesto storico-cul-turale;25

È proprio all’interno di tali coraggiose attività serali aperte a tutti (di cui è coordina-trice volontaria) – portate avanti attraverso una difficile lotta contro ostruzionismi sor-di e ripetuti – che ella nell’aprile del 1980 tiene il seminario Espressività della musicabarocca.

Oggi, quando mescola ai ricordi le impressioni sul presente, una medesima energiacombattiva le anima la voce:

È sempre più difficile trovare dei giovani che si appassionino alla ricerca per scoprire nuo-ve vie all’interpretazione. I giovani vogliono subito suonare, far concerti, limitandosi ad usu-fruire di quello che hanno captato. Si suona tanto, ma si approfondisce poco.

Ciononostante Emilia Fadini non abbandona l’insegnamento: «Quante nuove ideepossono venire dagli allievi, suggerendo delle cose a cui magari il maestro non ha pen-sato!». Interrogata sulla sua rinomata fama di interprete, inaspettatamente ritorna adiscutere di didattica; ma non è un modo di schermirsi:

196

Page 229: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

È che insegnando si impara. Nel momento in cui si trasmettono le proprie convinzioni, oc-corre dimostrarle, giustificarle, argomentarle, documentarle, bisogna dimostrare che si haragione. E ciò rende inevitabile una continua e doverosa pratica personale di approfondi-mento. Ciò detto, è dalla convergenza dell’attività di ricerca (documentazione, informazio-ne, conoscenza) e dall’attività di insegnamento, di scambio con l’allievo, che nasce l’esecu-zione, l’interpretazione.

«Occorre aprire, allargare, creare e cogliere relazioni»: in ogni sua parola si avverte, in-tatta, la curiosità e l’antidogmatismo dei pionieri, l’idea di una conoscenza fondata sulconfronto; e ricorda come a Laura Alvini, soffrendo le angustie di una cattedra di cla-vicembalo isolata nelle prosopopee di un Conservatorio in fondo ancora ciecamentearroccato nella tradizione ottocentesca, dicesse: «Beata te, che hai potuto creare inCivica una Sezione di musica antica; io, in Conservatorio, ho le mani legate». Passataalla Scuola Musicale di Milano, Emilia Fadini poté a sua volta formare una specificasezione dedicata allo studio del repertorio del passato e della prassi esecutiva storica:molti i seminari, in cui persone di grande valore si succedevano a discutere di inter-pretazione, organologia, danza, vocalità, teoria musicale rinascimentale (anche qui conDiego Fratelli). Ancora oggi, del resto, nulla in lei è mutato: affaticata dopo tre giornifitti di lezioni, distende morbida la voce sulle parole «ricerca», «conoscenza», «appro-fondimento», «stile». Gli occhi sono accesi come due fiamme.

«Musica e poesia a San Maurizio»Sandro Boccardi

Comincia stasera in San Maurizio al Monastero Maggiore (corso Magenta 15) una serie diconcerti di musica antica eseguita su strumenti antichi o ricostruiti su modelli d’epoca. Unnuovo spazio musicale si aggiunge così alle sedi tradizionali della musica milanese. Il primoconcerto della serie, che si concluderà il 3 dicembre, sarà sostenuto da Hannelore Müller,viola da gamba, e Emilia Fadini, cembalo; comprenderà musiche di Frescobaldi, Ruffo,Couperin, Marais.26

Era il 13 ottobre del 1976: sul «Corriere della Sera» così veniva dato l’annuncio dell’i-naugurazione di quella che, nel tempo, sarebbe divenuta la più importante e presti-giosa rassegna di musica antica a Milano, e non solo. Sotto la pioggia autunnale, unafila di ombrelli si accalcava lungo il marciapiede di corso Magenta; la chiesa trabocca-va di un pubblico «coinvolto intellettualmente e profondamente ammirato. […] Pec-cato che possa contenere solo trecento persone circa. Il pubblico è accorso numerosoe purtroppo molte persone non hanno potuto entrare»:27 «Musica e poesia a SanMaurizio» iniziava la sua storia.

Sandro Boccardi, ideatore e poi, per oltre trent’anni, direttore della rassegna, ama

197

Page 230: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ripetere che non è stato lui a scegliere San Maurizio: è il luogo ad aver condizionato lesue scelte. Funzionario del Comune di Milano, Boccardi un giorno si ritrova ad ac-compagnare un collega del Settore Cultura in un sopralluogo in quella chiesa dimen-ticata. Nelle intenzioni del Comune il coro di San Maurizio avrebbe forse potuto ospi-tare delle mostre. «Lascio immaginare – ricorda Boccardi – la sorpresa di trovarmi difronte ad una chiesa che era ed è essa stessa una mostra vivente dell’arte del tardoRinascimento lombardo e del primo Barocco. Assurdo farne uno spazio in cui esposi-zioni ne coprissero le bellezze.» Boccardi, da amante della musica (studiava pianofor-te), percorre rapito l’iconografia degli affreschi: «Angeli con piccole arpe medievali,liuti, viole da gamba, flauti senza chiavi, ribeche», ad incorniciare un’aula in cui nelCinque-Seicento monache di clausura avevano cantato e suonato. Sgorga così, dallostesso contatto estetico ed emotivo con il luogo, l’idea di renderlo spazio per la musi-ca, per una musica in grado di realizzare una compiuta sonorizzazione dello spirito chein quell’intimo e incantato anfratto d’arte e di storia pareva aleggiare: per la musica an-tica. Attraverso scambi di idee con Ermanno Arslam, direttore dell’attiguo Museo Ar-cheologico, il progetto inizia a profilarsi nei suoi contorni, scandagliato ed elaboratocon passione in seno a una commissione informale che, in «incontri quasi carbonari»,accoglieva suggerimenti e stimoli dal mondo letterario e musicale, da Maria Corti aRenato Fait. Conquistato l’appoggio del Comune – che investe Sandro Boccardi dellafigura di direttore responsabile –, ecco i cicli di musica e poesia tradursi in realtà «Lapoesia moderna accanto alla musica antica», rievoca Boccardi «due linee parallele: leletture poetiche in orario pomeridiano, i concerti alla sera, con cadenza settimanale.»Era una novità, allora, udire i poeti leggere le proprie composizioni: Vittorio Sereni,Giorgio Caproni, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Andrea Zanzotto, ognuno intro-dotto da relatori del calibro di Maria Corti, di Cesare Segre, di Gianfranco Contini.Anche se, dopo due anni, gli incontri di poesia furono abbandonati, «la poesia – pre-cisa Boccardi – restava e resta nel titolo della rassegna sanmauriziana: poesia in sensolato, come momento dell’avverarsi del messaggio artistico (del poiein), così naturale eaccessibile nel contesto magico, architettonico e pittorico, spaziale e acustico di SanMaurizio». Che in quel luogo si facesse e vivesse poesia dovette essere chiaro fin da su-bito, già al concerto inaugurale:

È un luogo splendido, insigne monumento cinquecentesco ricco di affreschi di scuola leo-nardesca (Luini, Boltraffio, Lomazzo): l’acustica è perfetta […]. Il programma […] è risul-tato eccellente per la presenza di due artiste di elevate qualità, Hannelore Müller (viola dagamba) e Emilia Fadini (cembalo), che dai loro preziosi strumenti hanno tratto suoni di si-cura bellezza.28

A risuonare, percorso dalle mani di Emilia Fadini, era un prezioso cembalo Taskin del

198

Page 231: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

1780, proveniente dalle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco, gentilmente prestatoper l’occasione: per circa vent’anni sarebbe rimasto a San Maurizio, anch’esso da pro-tagonista; e Boccardi ricorda «l’apprensione amorevole di Clelia Alberici, direttricedelle Civiche Raccolte del Castello, che raccomandava di mettere al Taskin, durantel’inverno, una copertina di lana».

Il concerto affidato a Emilia Fadini e Hannelore Müller dell’ottobre del 1976 inau-gura il susseguirsi di appuntamenti, stagione dopo stagione, con esecutori divenuti og-gi i più acclamati interpreti della musica del passato: già limitandosi ai primi dieci an-ni di attività di San Maurizio, si incontrano i nomi (qui in ordine sparso e tutti d’unfiato, così da rendere la vertigine di simili abbacinanti proposte concertistiche) di RenéJacob, Sigiswald, Barthold e Wieland Kuijken, Kenneth Gilbert, Alan Curtis, Ensem-ble Sequentia, Musica Antiqua Köln, Jordi Savall e il suo Hespèrion, Ton Koopman,Gustav Leonhardt, Hilliard Ensemble, Nikolaus Harnoncourt, Christophe Rousset,Gabriel Garrido, James Bowman, Christopher Hogwood, Frans Brüggen, AnnerBijlsma. E, parallelamente, oltre a portare in Italia fin dagli anni Settanta le avanguar-die della musica antica, San Maurizio contribuisce a dare spazio e a far emergere lenuove forze italiane impegnate nella prassi esecutiva storica, «con il loro timbro parti-colare e la loro fantasia istintiva, e con un bagaglio di studi fatti seriamente all’estero.Partiti in ritardo, ma – è Boccardi a parlare – già protagonisti di primo piano, quandonon riposassero sui primi allori»: tra gli altri, Chiara Banchini, Roberto Gini, LorenzoGhielmi, il Giardino Musicale (che negli anni sarebbe divenuto «armonico»). Il suc-cesso della rassegna prosegue nel tempo, attraversando la Milano da bere degli anniOttanta – in cui San Maurizio talora diviene anche un’occasione à la page, con le foto-modelle sedute per terra a gustarsi i concerti –, sino al monumentale progetto dell’e-secuzione integrale delle Cantate di Bach, avviato e concluso in dieci anni a partire dal1994, che, per quanto gestito dalla Società del Quartetto e dal Comune di Milano, delseminato di San Maurizio è stato in qualche modo una luminosa emanazione.

Molti gli appuntamenti sanmauriziani rimasti memorabili, dalla Messe de Notre-Dame di Guillaume de Machaut proposta dall’Ensemble Musica Antiqua nel 1978, fi-no al concerto dell’Ensemble Sequentia di Colonia dedicato a Dante e i trovatori, congli strumentisti che si muovono nello spazio, tra il pubblico, o ancora, nel 1979, al con-certo dell’Hespèrion XX di Savall che vede i musicisti dislocati in parte sui matronei,in parte dietro gli stalli lignei, in parte sulla pedana, con effetti stereofonici di grandesuggestione, a ribadire, nel suggestivo incantesimo acustico, l’assoluta simbiosi dellamusica con un luogo capace di incarnarsi in pura vibrazione sonora. E vivo nei ricor-di di Boccardi è il momento dell’inaugurazione nel 1982 del cinquecentesco organoAntegnati fresco di restauro:29

È un momento di alta suggestione quando Gustav Leonhardt, prima di dare inizio al con-

199

Page 232: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

certo, apre le ante dello strumento. Il gesto è immediatamente compreso nel suo significatosimbolico e scoppia l’applauso del pubblico. Al recital di Leonhardt, seguono nei giorni im-mediatamente successivi quelli di Luigi Ferdinando Tagliavini e di Michael Radulescu.30

Sandro Boccardi oggi sorride ricordando i primi anni di San Maurizio, quando la pos-sibilità di organizzare una nuova stagione era ogni volta un’incognita, quando gli amiciche giungevano al concerto e lo vedevano vendere i biglietti si fermavano ad aiutarlo.Di incommensurabili esperienze umane e artistiche di cui è stato il motore narra conun’umiltà disarmante, ma lo sguardo (a ragione) tradisce la gioia orgogliosa del propriooperato. Ora, soprattutto, si concentra sull’altro suo amore, la poesia; e confida comenel leggere e porgere i propri testi poetici ripensi al musicista che si sposta nell’aula diSan Maurizio, sperimentando verso quale punto e con quale intensità sia più opportu-no indirizzare la voce. Nei versi di Boccardi ritorna, rarefatto, il binomio musica e poe-sia, a mo’ di suggello di un credo fattosi realtà, e generosamente donato a Milano:

Il gesto il suono il logosono scintille rapide nel cielopiccole tracce dell’effimero.Eppure eppure Icaro ripunta l’ala precariadove il verbo s’incarna e il tempo s’ineterna.31

Il bianco e dolce cigno32

La Fondazione Marco Fodella

Ciò che senza dubbio ha contraddistinto coloro che per primi hanno promosso aMilano la musica del passato è stato un approccio profondamente individuale, matu-rato ed elaborato con appassionata tenacia sulla propria pelle, nutrito di ideali («Senzaaccorgersene – ricorda Roberto Gini di Emilia Fadini – durante le sue lezioni si arri-vava magari a discutere di Marx»), emotivamente e visceralmente alimentato di slanciumani: fare musica antica diveniva scelta di vita, o meglio scelta di un modo di viveree di realizzare l’arte in stretta connessione con la società, condividendo un percorso discoperta, di ripensamento critico del rapporto col passato. Ricostruire le parabole deiprimi protagonisti induce l’addentrarsi nelle loro vite, nella loro personalità, nelle loropulsioni etiche ed estetiche; sovente è un disvelamento di amicizie, di relazioni affetti-ve. La Fondazione Marco Fodella, attiva a Milano dal 1995, cela nella propria nascita,nella peculiare forma in cui si esprime nella realtà, un’affinità profonda con quanto finqui si è narrato; e in qualche modo ne riassume il ricorrente manifestarsi di esperien-ze musicali sgorgate dalla parte più intima dell’uomo, intrecciando interprete, autore,pubblico in un gesto d’amore.

200

Page 233: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

A Marta, piccolo paese della madre di Marco Fodella, il 14 maggio è il giorno dellafesta della Madonna del Monte: per tradizione all’alba riecheggia cupo il battere deltamburo. Marco ha due anni: piange, inquieto e spaventato; il padre Gianni lo prendecon sé e lo porta lontano dal paese. Marco è un bambino sensibilissimo, soprattutto difronte a tutto ciò che è suono. E tale sensibilità, se talora diventa chiusura quando levibrazioni sonore udite non trovano corrispondenza nel suo animo, può invece essereil seme dell’innamoramento più travolgente. Più e più volte Marco ragazzino telefonaalla Rai per conoscere il nome dell’autore della sigla dell’Almanacco del giorno dopoche, ogni giorno, in televisione, lo rapisce (è la Chanson Balladée, forse di Machaut); atredici anni, in visita al Museo Vasa di Stoccolma dove, all’inizio del percorso esposi-tivo, si proietta un documentario il cui commento musicale sgrana pagine liutistichedel primo barocco, Marco dice ai famigliari: «Andate pure avanti: io rimango qui aguardare [ovvero “ascoltare”] un’altra volta il filmato».

Marco suona la chitarra, nucleo della convivialità del gruppo di scout di cui fa par-te; ad un certo punto, scopre il liuto, e forse, per la prima volta, scopre compiutamen-te se stesso e si riconosce innamorato: «Caro liuto, dolce come un’arpa, ricco come unclavicembalo, discreto come la pioggia nella grondaia e sensibile come una foglia»; co-sì scrive sul suo diario: non vi è dubbio che siano le parole di un innamorato. Marconon ha ancora un liuto; su consiglio di Paul Beier,33 che sarebbe poi divenuto il suomaestro, trascorre oltre un mese d’estate presso il celebre liutaio Stephen Barber;quando fa ritorno a casa, celato nel cuore custodisce orgoglioso un segreto di bottegarivelatogli dall’illustre artigiano e, fra le mani, il suo primo liuto, che lui stesso avevacontribuito a costruire. Da lì gli esordi di un percorso che in breve tempo l’avrebbeportato a essere uno dei più promettenti liutisti in Italia e non solo: stupisce la sua na-turalezza nell’approccio allo strumento, quasi trasformato in un’appendice del propriocorpo, e la capacità di farne creatura sonora, viva, ricamando su di esso virtuosismi ecompianti con uguale talento. Suona a Milano, collaborando con i gruppi di musicaantica della città, e, benché giovanissimo, diviene presto colonna portante di forma-zioni disseminate in vari luoghi d’Italia: La Spezia, Trento, Palermo, Napoli; è MarcoFodella il liutista della Cappella della Pietà de’ Turchini. La grazia del suo fare musicasi riverbera nel suo essere nel mondo: come sospeso, quasi disciolto dalle zavorre del-la quotidianità, per intero vagante nelle azzurrità della musica; con la testa per aria –direbbe qualcuno – e ben se ne ricorda il suo liuto, dimenticato sul treno e poi fortu-natamente recuperato, nonché la sua amata chitarra, pure dimenticata e, ahimè, inve-ce, mai più ritrovata. Eppure, anche attraverso la musica, Fodella dovunque divienegeneratore di relazioni umane sincere e affettuose: ama donarsi agli altri, ama condivi-dere; e, non a caso, «predilige soprattutto i brani in duo» ricorda il padre Gianni, ri-andando a quando gli suonava La Spagna di Francesco da Milano sovrapponendosi al-la seconda parte da lui preregistrata su un nastro.

201

Page 234: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Fodella è morto nel 1994. L’anno dopo, dal dolore straziante dei suoi genitori ger-mogliava la Fondazione Marco Fodella «per cercare di fare (certo in modo inadegua-to, imperfetto e limitato) – confida Gianni Fodella – alcune delle cose che Marco fa-ceva». Da ormai quattordici anni, ogni autunno si offre a Milano, perlopiù nella sug-gestiva cornice della Sacrestia Monumentale di San Marco, una breve ma sfolgoranterassegna di concerti: interpreti di straordinaria levatura, alternando volutamente nomiaffermati a giovani promettenti. Il liuto è protagonista: grazie alla Fondazione si sonouditi, tra gli altri, Paul Beier, Anthony Bailes, Paul O’Dette, Franco Pavan, NigelNorth, Gabriele Palomba, Hopkinson Smith, Robert Barto;34 e protagonista è in pri-mo luogo «il repertorio rinascimentale che – sostiene Gianni Fodella – nel tempo hamostrato come esso riesca più di altri repertori ad avvicinare i giovani alla cosiddettamusica colta». Ma numerose sono pure le incursioni fra gli autori del Sei-Settecento,affidate a guide impareggiabili quali Roberta Invernizzi, Fabio Bonizzoni, OttavioDantone, la Cappella della Pietà de’ Turchini, Enrico Gatti, Gaetano Nasillo (che haproposto l’integrale delle Suites per violoncello di Bach), nonché Laura Alvini, più vol-te ospite della Fondazione Marco Fodella, riproponendo tra l’altro nel 2002, insiemea Florence Malgoire, Serge Saitta e Roberto Gini, quelle Pièces de clavecin en concertsdi Rameau che già l’avevano vista protagonista nel 1974 al Salone Pier Lombardo.

A fronte delle odierne rassegne di musica antica che tendono a sciorinare program-mi incentrati sui medesimi autori e sui medesimi brani (a caccia di effetti di facile pre-sa), i concerti della Fondazione Marco Fodella sono animati da un’audacia e da un’au-tentica fame di riscoperta affini a quelle che contraddistinguevano le proposte del PierLombardo o dei primi cicli di San Maurizio: basti Voluptas dolendi. I gesti del Cara-vaggio, spettacolo che il 30 ottobre del 2002 ha visto coinvolte Deda Cristina Colonnae Mara Galassi nella suggestiva rievocazione dei quadri del Merisi in una sinergia didanza e musiche per arpa cinque-seicentesche.

Era come trovarsi dentro un quadro del Caravaggio e il quadro prendeva vita; dentro la mu-sica, e ogni nota era un’immagine. […] Affilata e sensuale, la Colonna, in panneggi rossofuoco, volteggia, plasma, declama. Suoni, passi e figure riverberano la triplice polisemia: unasemplice progressione di arpeggi nella Toccata X di Frescobaldi «diventa» lo sciacquio del-la mano di Narciso che carezza le acque fatali; un breve spunto di polifonia, l’intrico delleserpi di Medusa.35

Da questo spettacolo memorabile la Fondazione Marco Fodella ha ricavato un film(con l’adattamento cinematografico di Francesco Vitali), che sarà ufficialmente pre-sentato nel settembre 2009 per poi girare in tutto il mondo: un altro segno, inequivo-cabile, di come la Fondazione realizzi la propria vocazione culturale su più fronti. Del1997 è l’organizzazione di un simposio internazionale di studi su Francesco da Milano;il ciclo di concerti del 2001 (tra cui Il liuto al tempo di Leonardo affidato a Massimo

202

Page 235: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Lonardi) si inanellava a fianco della mostra Aldo Manuzio e il suo corsivo, allestita pres-so l’Accademia Ambrosiana, nella sala attigua a quella che ospita il celebre Musico.

Di fronte a una tale ricchezza di proposte, allo spessore adamantino del loro valore,scorrendo la preziosità unica persino della veste tipografica di manifesti e programmi(non ultimo quello, in 333 esemplari numerati composti a mano su carta di Sicilia, rea-lizzato da Alberto Tallone per il concerto del 2008 dedicato al quinto centenario dellanascita di Andrea Palladio), viene da supporre la presenza, alle spalle della Fonda-zione, di una solida e reticolata struttura organizzativa professionale; ebbene, non è co-sì. Dopo il terribile lutto, intorno a Gianni Fodella e sua moglie Wanda si è raccoltoda sé, quasi germinando da un comune amoroso ricordo, un gruppo premuroso di excompagni di scuola, di persone che avevano incontrato, stimato, amato Fodella: sonoanzitutto loro a fornire aiuto e sostegno al funzionamento della Fondazione. Ad essi siaggiungono poi numerosi professionisti che, forse, non hanno mai conosciuto di per-sona Fodella, ma che, a contatto con un’iniziativa a tal punto traboccante di arte eumanità, ne sono rimasti rapiti, decidendo di volervi partecipare da protagonisti e of-frendo con entusiasmo il meglio di sé: così il grafico Spartaco Iacobuzio, così, appun-to, l’editore Alberto Tallone.

Esattamente come accadeva alle origini della musica antica milanese, quando LauraAlvini tra le scene del Pier Lombardo si donava al pubblico condividendo appassio-nata la propria scelta di vita, il proprio palpito etico e ideale, allo stesso modo la Fon-dazione Marco Fodella, che oggi a Milano certo rappresenta uno dei vertici nella pro-posta del repertorio antico, si rivela – aliena da qualsivoglia logica commerciale – slan-cio radicato nell’uomo: il logo della Fondazione riproduce il primo liuto di Fodella, dalui fotografato nella sua stanza; i concerti si tengono a San Marco, perché quella era lasua parrocchia di riferimento; la rassegna si tiene in autunno, perché è a novembre cheFodella è mancato; la Fondazione vive dell’impegno di chi unisce le proprie energieper stemperare un dolore comune.

E, ancora, le borse di studio che la Fondazione ogni anno bandisce (cinquantatré nesono state elargite finora), consentono a giovani musicisti di seguire per un anno i cor-si di musica antica della Scuola Civica esentati dalle tasse di iscrizione e garantisconoloro un alloggio gratuito: non si stabilisce a priori quante conferirne (al primo concor-so ne furono date sei), perché secondo Gianni Fodella:

Non può esserci un unico vincitore: l’agonismo fa male. In un campo artistico non ha sensodare un primo premio: tutti coloro che, nelle loro diversità e peculiarità, ne sono degni, de-vono avere un premio. Anche a Marco sarebbe piaciuto così.

Tra i numerosi talenti che si sono aggiudicati una borsa di studio, brilla la clavicemba-lista Amaya Fernández Pozuelo: lei è stata la protagonista di un concerto in ricordo di

203

Page 236: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Laura Alvini che nel 2005 la Fondazione Marco Fodella, in collaborazione con laFondazione Giorgio Cini, ha promosso presso le Sale Apollinee del Teatro La Fenice.Il programma di quel concerto, El canto llano del caballero, è diventato un Cd; nellenote che lo accompagnano, Amaya Fernández scrive: «Dedico questo concerto a Lau-ra Alvini, mia prima insegnante di clavicembalo, che tanto contribuì alla nascita e allosviluppo della musica antica a Milano».

In libreriaLoredana Pecorini

Mi trovo presso la libreria Pecorini, in Foro Buonaparte. È in corso la presentazionedi un libro; si ascoltano, dal vivo, mottetti di Tomás Luis de Victoria. Nella sala c’è unclavicembalo. Loredana Pecorini (Lalla per tutti), proprietaria della libreria, parla diLaura Alvini, del «suo spirito buono che sempre è presente». Mi chiede di portare isuoi saluti a Emilia Fadini, accenna alle poesie di Sandro Boccardi. Una parete è oc-cupata da libri di musica antica, facsimili soprattutto: Spes (Studio per Edizioni Scel-te), Fuzeau, Forni. La libreria Pecorini è divenuta negli anni un imprescindibile pun-to di riferimento, a Milano, in Italia (e non solo), per chiunque si occupi di musica delpassato. Lalla Pecorini, bibliofila appassionata e squisita quanto ferratissima, è inna-morata da sempre della musica «che – afferma – dovrebbe essere l’elemento base perl’essere umano».

Quando ancora in quegli spazi c’era solo un magazzino, si occupava di rifornire lelibrerie musicali; nel tempo si accorge che le grandi librerie non sono più interessate avendere certi libri: non c’è guadagno. Decide di farlo lei. Musicisti, maestri e allievi, di-ventano di casa. Laura Alvini, che per la Spes molte edizioni ha curato, è spesso lì; dalei Lalla Pecorini comprende «quanto sia importante la parte filologica e colta dellamusica». E Lalla Pecorini segue, dalla prospettiva di chi ai musicisti fornisce il mate-riale della propria arte, la parabola della Sezione di musica antica della Scuola Civica:ne vive gli splendori e assiste al suo declino; «Laura Alvini – commenta amareggiata –ci aveva speso l’anima, realizzando qualcosa di unico; vederla sgretolarsi per la stupi-dità delle persone l’ha distrutta.»

Da Pecorini si organizzano corsi di storia della musica, si suonano e cantano paginedel Medioevo, Rinascimento, Barocco. Furono i professori di musica che passavano dilì a proporre l’idea di usufruire di quello spazio incantato (dalle pareti occhieggianoarguti libri preziosi e bellissimi) per offrire agli allievi la possibilità di prendere confi-denza con le esibizioni in pubblico; oggi non è raro udirvi interpreti acclamati. Il cla-vicembalo – giunto in libreria tramite un curioso personaggio, bibliofilo e innamoratodella musica del passato – è sempre in sala, che si suoni o meno. Arte, libri e musica

204

Page 237: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

dialogano senza posa; basta mettersi in ascolto. «Ho combattuto per tenere la musicain libreria – rivela Lalla Pecorini – perché sentivo che il contatto con i musicisti mi fa-ceva bene. E ciò perché li trovavo al di fuori da qualsiasi grettezza. Nutro una grandeammirazione per i loro sacrifici e i loro sforzi: studiare musica antica richiede un im-pegno di studio e ricerca elevatissimo.» Si accalora, quasi indignandosi, nell’enumera-re i troppi talenti italiani che lavorano all’estero perché non adeguatamente ricono-sciuti e premiati nella propria patria: «Non si può pretendere che uno che ha studiatotutta una vita venga pagato due lire: è doveroso avere rispetto per chi spende la pro-pria esistenza per l’arte. Ci si sta giocando una generazione di musicisti».

Non è mai stata molto brava negli affari, irresistibilmente posseduta dal piacere dicondividere: quando trova un libro bello, non è capace di trattenerlo; lo trasmette (ma,del resto, non dovrebbe essere proprio questo la cultura?). Senza lamentarsi, anzi condurezza, Lalla Pecorini riconosce che da qui deriva il fatto che oggi anche la libreriafatichi a tirare avanti. E tuttavia, confessando teneramente un’invidia profonda neiconfronti di chi fa musica, aggiunge: «Sapere di aver potuto contribuire, anche soloper una parte piccolissima, alla loro arte, mi rende felice ed orgogliosa; mi dà la forzadi proseguire». Piega la testa di lato, mi guarda. Sul volto si distende un sorriso.

Ringrazio, davvero di cuore, Sandro Boccardi, Emilia Fadini, Cesare Fertonani, GianniFodella, Roberto Gini, Loredana Pecorini, che mi hanno fatto dono del loro tempo con-dividendo generosamente con me ricordi, riflessioni ed emozioni.

Ringrazio inoltre il Teatro Franco Parenti (in particolare Giulia Lazzeri); le testimo-nianze di Andrée Ruth Shammah e di Gianni Valle sono state raccolte durante «Provareper non credere (1973-1975). Laura Alvini e la scoperta della musica antica a Milano»,serata di parole e musica che il Teatro ha organizzato e ospitato il 21 febbraio 2009.

1 B. de Schloezer, La musique ancienne et le goût moderne, in AA.VV., Atti del terzo Congresso Inter-nazionale di Musica (Firenze, 30 aprile-4 maggio 1938), Le Monnier, Firenze 1940, pp. 13-14; trad. it. diF. Nicolodi (in Id., Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, Sansoni, Firenze 1982, p. 157).2 «Corriere della Sera», 28 gennaio 1891.3 F. Nicolodi, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, cit., p. 96.4 «Il Giorno», 29 dicembre 1972.5 «Il Giorno», 13 novembre 1974.6 «La Stampa», 29 dicembre 1972.7 «Il Giorno», 29 dicembre 1972.8 «l’Unità», 29 dicembre 1972.9 «Avvenire», 29 dicembre 1972.10 «Le Arti», febbraio 1975.11 Questa, come pure le altre citazioni di Laura Alvini presenti nelle prossime pagine, risalgono aglianni 1973-1976; tutte sono desunte dai programmi di sala da lei redatti per i concerti del Salone PierLombardo. Ringrazio Roberto Gini, che tali programmi conserva amorevolmente, il quale mi ha con-cesso la gioia di poterli leggere ed esplorare.

205

Page 238: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

12 Stralcio del Manifesto programmatico della Cooperativa Teatro Franco Parenti, firmato, tra gli al-tri, da Valeria D’Obici, Gian Maurizio Fercioni, Dante Isella, Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah,Giovanni Testori.13 L. Alvini, F. Parenti, «l’Unità», 9 novembre 1974.14 «La Notte», 10 ottobre 1973.15 «Il Giorno», 10 ottobre 1973.16 «il Giornale», 19 gennaio 1977.17 L. Arruga, «Il Giorno», 14 gennaio 1976.18 «il Giornale», 23 marzo 1977.19 L. Arruga, «Il Giorno», 6 gennaio 1977.20 «il Giornale», 23 marzo 1977.21 F. Degrada, Verso la verità [in memoria di Laura Alvini], «Amadeus», febbraio 2005.22 «Corriere della Sera», 23 febbraio 1977.23 «il Giornale», 21 gennaio 1976.24 «Ricordiana», III, 6 giugno 1957, p. 355.25 P. Carlomagno, Essere studenti al Conservatorio di Milano, in G. Salvetti (a cura di), Milano e il suoConservatorio. 1808-2002, Skira, Milano 2003, pp. 281-345: 311.26 «Corriere della Sera», 13 ottobre 1976.27 «Corriere della Sera», 15 ottobre 1976.28 «Corriere della Sera», 15 ottobre 1976.29 Molte furono le iniziative svolte negli anni precedenti per giungere a questo risultato, tra cui, nel1978, un concerto straordinario di Laura Alvini.30 Parlando degli organi di «Musica e poesia a San Maurizio» va pure ricordato il grande organo ba-chiano, costruito da Jurgen Ahrend per San Simpliciano e inaugurato nel 1991, della cui realizzazio-ne la stagione di San Maurizio fu il principale promotore.31 Questi versi sono tratti da Sulla Bellezza, componimento ancora inedito di Sandro Boccardi. A luiva il mio sentito ringraziamento per avermi concesso di stralciarli e pubblicarli.32 Celebre madrigale di Jacques Arcadelt, Il bianco e dolce cigno intitolava il concerto che Il ConvittoArmonico e Syntagma Musicum (due formazioni di La Spezia con cui Marco Fodella aveva collabo-rato) tennero congiuntamente il 19 ottobre del 1996 per la Fondazione Marco Fodella.33 Paul Beier era, dal 1981, docente di liuto presso la Sezione di musica antica della Scuola Civica.34 La Fondazione Marco Fodella nel 2002 ha ricevuto dall’Associazione nazionale Critici Musicali ilPremio Filippo Siebaneck «per l’opera di promozione della conoscenza e dello studio del repertorioliutistico sostenuta con borse di studio per giovani strumentisti, nonché attraverso una ricercata e spe-cifica programmazione concertistica». 35 Gian Mario Benzing, «Corriere della Sera», 1 novembre 2002.

206

Page 239: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Marco MoiraghiLa canzone e il teatro musicale di Gino Negri

nella vita artistica milanese degli anni Cinquanta e Sessanta

A voltel’inutilità di comunicareèappagante.Gino Negri, Poesiaprosaica

Sanremo, 6 febbraio 1961. È la sera della proclamazione dei vincitori di un’edizioneparticolarmente vivace e movimentata – l’undicesima – del Festival della Canzone Ita-liana, la cui finale si è svolta nove giorni prima, il 28 gennaio. Il pubblico premia il tra-dizionalismo, il ben collaudato sentimentalismo canoro, l’invenzione melodica ampia,spiegata, commovente: vincono Betty Curtis e Luciano Tajoli, interpreti della canzoneAl di là, con testo di Giulio Rapetti (in arte Mogol) e musica di Carlo Donida. Curtis,Tajoli, Mogol, Donida: un quartetto di artisti di formazione squisitamente milanese. Laventicinquenne Betty Curtis è alla sua terza partecipazione consecutiva al Festival san-remese; voce calda ed esuberante, ha iniziato a esibirsi a metà degli anni Cinquanta co-me cantante jazz, in alcuni dei migliori locali di intrattenimento della Milano del do-poguerra. Una formazione analoga ha il più maturo collega Luciano Tajoli (nato nel1920), attore e cantante le cui prime precoci esperienze risalgono addirittura alla finedegli anni Venti, quando – ancora bambino – si esibiva insieme al padre in alcune oste-rie di Milano. Voce «facile», naturale, di una penetrante limpidezza, negli anni Qua-ranta-Cinquanta Tajoli era diventato uno dei più amati interpreti del genere melodicosentimentale.

La sera del 28 gennaio 1961 i due cantanti che, come vuole il regolamento del Fe-stival, si alternano, offrendo una doppia, diversa interpretazione della medesima can-zone, avevano avuto gioco facile con la vocalità neoromantica di Al di là, la cui melo-dia cresce con gradualità, si gonfia, si esalta, per poi placarsi, distendersi, rasserenarsi,chiudersi in un cerchio di intatta purezza. Per loro, per le loro duttili e morbide voci,il compositore Carlo Donida e il giovane paroliere Mogol hanno confezionato un pic-colo gioiello di luoghi comuni poetico-musicali. Donida non è nuovo a simili imprese;di solida formazione classica, diplomato in pianoforte e composizione al Conservatoriodi Milano, valente strumentista nelle esibizioni del gruppo I Dandies nei locali di ri-trovo milanesi, arrangiatore e autore di canzoni per le nuove edizioni di musica legge-ra Radio Record Ricordi (dirette da Mariano Rapetti, padre di Mogol), Donida vantagià un lungo trascorso con il Festival della Canzone Italiana fin dal debutto alla prima

207

Page 240: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

edizione, nel 1951, con Sotto il mandorlo, interpretata dal duo Fasano. Grande suc-cesso di Donida a Sanremo – sempre nelle vesti di autore – era stata Vecchio scarpone,nel 1953, divenuta presto popolarissima, mentre l’anno successivo il musicista milane-se aveva sfiorato la vittoria con Canzone da due soldi, classificatasi al secondo posto.

La collaborazione fra Mogol e Donida era cominciata circa un anno prima di Al dilà, nel 1959-60, con esiti di immediata fortuna: una delle loro prime canzoni, Bricioledi baci, era splendidamente interpretata da una Mina ventenne come terzo brano del-l’album Il cielo in una stanza, uno dei primi (e fortunatissimi) 33 giri della «tigre diCremona». Anche Mina – a quel tempo in piena ascesa, al centro dell’attenzione me-diatica, chiacchierata e contesa da giornali, rotocalchi, televisione – partecipa a San-remo 1961. Un Festival che è per lei un duro colpo: presentatasi con due diverse can-zoni, Io amo tu ami e l’intrigante Le mille bolle blu, entrambe con ottime possibilità divittoria, nella finale si classifica soltanto in quarta e quinta posizione, per di più dietroalla rivale Milva. Il gesto della mano sulla bocca in Le mille bolle blu è ritenuto trop-po audace e provocatorio, uno sberleffo che la cultura benpensante del tempo non rie-sce a digerire; Mina ne esce profondamente amareggiata e delusa, e da quel momentodecide di non prendere più parte ad alcuna competizione canora.

Del resto nel Festival del 1961 il facile e cullante melodismo di Al di là di Mogol-Donida riesce a superare, nel conservatorismo del voto popolare, ben altre provoca-zioni, ben altri sberleffi: si pensi ai 24 mila baci di Adriano Celentano, giunto al se-condo posto in classifica, esempio celebre del rampante ed irresistibile rock and rollitaliano. Celentano scandalizza il pubblico voltandogli le spalle durante la sua esibi-zione, ma soprattutto destabilizza la pacata atmosfera della canzone melodica tradi-zionale con l’irrequietezza, l’irruenza e l’irriverenza del suo stile canoro. Malgrado lavittoria di Al di là, Tajoli e, ancor più, Claudio Villa, Giorgio Consolini e Achille To-gliani appartengono ormai al passato, irrimediabilmente: il futuro è di Celentano, de-gli «urlatori».

È strano: se si eccettua la pur notevole presenza di una valida coppia di giovani can-tautori della scuola genovese (Gino Paoli e Umberto Bindi) e quella di un’altrettantovalida coppia di giovani cantautori della scuola romana (Edoardo Vianello e JimmyFontana) – tutti e quattro non ancora trentenni – l’undicesima edizione del Festival del-la Canzone Italiana sembra quasi un festival della musica leggera milanese, dei suoi di-versi stili ed indirizzi. Oltre al fatto che l’orchestra che accompagna i cantanti è direttadal compositore e paroliere milanese Bruno Canfora e, alternativamente, dal noto jaz-zista e arrangiatore milanese Gianfranco Intra, e senza contare che ai primi cinque po-sti della classifica finale si concentra un variegato manipolo di artisti di area milanese,in veste di autori, arrangiatori o interpreti (Curtis, Tajoli, Mogol, Donida, Celentano,Milva, Mina, ed anche Carlo Alberto Rossi, Vito Pallavicini), è importante ricordare chenelle retrovie del concorso, fra gli esclusi dalla finale, oltre alla cantante milanese Cocky

208

Page 241: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Mazzetti c’è un poco più che ventenne Giorgio Gaber, che canta Benzina e cerini, conil suo tipico stile vocale degli esordi, al contempo ironico e garbato. E come se non ba-stasse, fra gli autori di questa canzone c’è anche Enzo Jannacci, che con Gaber, in que-gli anni, sta dando vita a un sodalizio artistico destinato a diventare emblematico dellaMilano musicale degli anni del «miracolo economico», imponendosi come una dellecoppie più originali di tutto il panorama della canzone italiana.

Ma c’è di più: all’edizione 1961 del Festival di Sanremo partecipa anche un altro ori-ginale artista di Milano, conosciuto nell’ambiente dello spettacolo per le sue trovate in-solite, per le sue scelte anticonformiste, segnate da una marcata eccentricità stilistica:è il quarantaduenne Gino Negri, autore del testo e della musica di Una goccia di cielo,affidata alle voci di Nadia Liani e Jolanda Rossin. Una goccia di cielo è forse la menonota, la più dimenticata fra tutte le canzoni di quell’edizione del Festival; ed anche secon tutta probabilità non si tratta di una delle più illuminate invenzioni dell’autore (mail testo poetico di argomento amoroso, in ogni caso, è di una sostanza lirica ben più pe-netrante rispetto alla genericità di Al di là di Mogol), non è infondato affermare che ilvelo dell’oblio è caduto con troppa fretta su questo eccentrico musicista.

Per capire chi fosse a quel tempo Gino Negri si potrebbe anche partire dal casualeriscontro della canzone presentata a Sanremo nel 1961. Una goccia di cielo non era cheuna delle centinaia di canzoni composte da Negri nel corso del 1960, un anno davve-ro particolare nella sua carriera. Per vincere una scommessa, Negri si era impegnato ascrivere 365 diverse canzoni, una per ogni giorno dell’anno; impegno che poi era riu-scito a portare a compimento, intensificando in modo cospicuo quella parte della pro-pria produzione di genere più dichiaratamente «leggero». Forse per rendere ancor piùavvincente la sfida con se stesso, il musicista aveva fatto in modo di mantenere quasidel tutto fissi alcuni parametri compositivi, come si può constatare da un esame dellepartiture manoscritte rimaste (per lo più inedite, conservate nell’archivio privato delmusicista). Si nota la ricorrenza di alcuni motivi di fondo, capaci di informare la so-stanza tematica di queste canzoni in maniera fortemente unitaria. Ciò che più salta al-l’occhio è il mantenimento, da un pezzo all’altro, dello stesso ritmo «misto», che pre-vede una costante alternanza metrica fra 4/4 e 3/4, oltretutto con rigida ricorrenza delcontrattempo nella battuta quaternaria. In tal modo le mille sfaccettature espressive,agogiche, dinamiche, poetiche di queste canzoni sono per così dire legate e tenute in-sieme da un medesimo piede ritmico zoppicante («bulgaro» si potrebbe quasi dire, al-la Bartók), costituito dalle sette semiminime di ogni coppia di battute.

Una goccia di cielo, che in una prima stesura – risalente al 15 aprile 1960 – era inti-tolata Pioggia d’amore,1 non sfugge neppure per un istante a tale sistemazione ritmica.Ambientata tonalmente in un do minore «abbastanza agitato» (come indicato nell’au-tografo), questa canzone mostra evidenti segnali di un pensiero compositivo consape-vole e maturo che, pur facendo del divertimento e del gioco le proprie esteriori ragio-

209

Page 242: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ni d’essere, non ha nulla di banalmente dilettantistico. Lo si coglie chiaramente dal-l’essenzialità con cui viene sfruttato, nel corso di tutto il pezzo, il principio melodicodell’appoggiatura (o del ritardo armonico, che dell’appoggiatura può considerarsi unavariante). Il ricco vocabolario armonico di cui la canzone è informata discende inte-gralmente dal sapiente sfruttamento dell’appoggiatura, di fondamentale importanza aifini della creazione di un’atmosfera espressiva costantemente tesa, turbata, irrequieta.È l’inquietudine amorosa, la mai paga tensione amorosa: perché qui è di amore che siparla; e se ne parla, musicalmente e poeticamente, con semplice e fine sensibilità (lastessa sensibilità che si può scoprire in svariate altre canzoni di Negri in quell’epoca,come, ad esempio, nell’ironica e sensuale Innamorato di tutte, scritta il 21 aprile 1960,a pochi giorni di distanza da Pioggia d’amore).

Questi rapidi cenni analitici sembrano sostanzialmente concordare con quanto han-no sottolineato – pur nelle notevoli diversità delle posizioni critiche – i pochi studiosiche si sono finora occupati di Gino Negri, da Massimo Mila a Franco Abbiati, da Fe-dele D’Amico a Luigi Pestalozza, da Roberto Cognazzo a Roberto Zanetti. Musicistadi accurata formazione classica (diplomato negli anni Quaranta al Conservatorio diMilano, sotto la guida di validi maestri come Enzo Calace per il pianoforte, RenzoBossi e Giulio Cesare Paribeni per la composizione) e uomo di spettacolo a tutto ton-do, in virtù anche della sua vasta e varia esperienza di pianista accompagnatore, di di-rettore d’orchestra, di arrangiatore, e persino di attore e cabarettista, Negri era davve-ro dotato, come affermò Roberto Cognazzo, «di acuto senso scenico e di autentica sen-sibilità per la parola cantata». La sua peculiare cifra stilistica poteva davvero essere in-dividuata in una «poesia schiva ed umbratile che, pur estrinsecandosi sovente attra-verso modi canzonettistici, riesce persuasiva e commovente»;2 parole, queste ultime,che ci sembrano perfettamente calzanti anche nei confronti di una minuzia come lacanzone presentata a Sanremo nel 1961. Ma qui, se si parla di «poesia schiva ed um-bratile» e di «autentica sensibilità per la parola cantata», si parla naturalmente anchedi tutta la sua produzione specificamente teatrale, che nel corso degli anni Cinquantaaveva raggiunto dimensioni ed esiti davvero ragguardevoli.

Le «opere impossibili» di cui parlò Massimo Mila3 – riferendosi, con tale definizio-ne, a una sostanziale impossibilità di classificazione, a un’indecifrabilità di fondo – so-no quelle che Negri compose in quel fecondo periodo che fu per lui il lustro 1954-59.Data la varietà e la mole di questa produzione, vale la pena di proporre un elenco cro-nologico (le date si riferiscono al periodo di composizione):

– 1954: Vieni qui Carla, atto unico per soprano, baritono e orchestra, su libretto del-l’autore tratto dal romanzo Gli indifferenti di Alberto Moravia (prima rappresentazio-ne: Milano, Piccolo Teatro, 28 febbraio 1956);

– 1956: Finirò per svegliarmi, pantomima per tenore e pianoforte, su testo dell’auto-re (prima rappresentazione: Gargnano, Villa Feltrinelli, 16 settembre 1956);

210

Page 243: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

– 1958: Il tè delle tre, opera da camera per soli, mimo e orchestra jazz (prima rap-presentazione: Como, Villa Olmo, 12 settembre 1958);

– 1958 (luglio): Giorno di nozze, atto unico per voce femminile, pianoforte, celesta,violino, chitarra e organo elettronico, su libretto dell’autore (prima rappresentazione:Milano, Teatro Gerolamo, 12 aprile 1959);

– 1958: Massimo, opera da camera in un atto per tenore, baritono, cinque mimi ecomplesso strumentale jazzistico (prima rappresentazione: Milano, Teatro Gerolamo,12 aprile 1959);

– 1958: L’armonium è utile, opera in un atto per soli, tre mimi, danzatori, organo so-lo e orchestra, su libretto dell’autore (non rappresentata);

– 1958-59: Il circo Max, opera in un atto per soprano leggero (o tenore leggero), ba-ritono, attrice, dieci mimi e orchestra (prima rappresentazione: Venezia, Teatro LaFenice, 23 settembre 1959; nella locandina della prima rappresentazione l’opera è an-nunciata con il curioso sottotitolo «Profanazione musicale in un atto»);4

– 1959: Il testimone indesiderato, opera radiofonica in un atto per baritono e orche-stra, su libretto dell’autore e Giuseppe Brusa (trasmessa il 2 gennaio 1960).

Nove diverse opere nel giro di poco più di cinque anni sono indubbiamente un se-gnale di forte vitalità creativa; e lo è anche il fatto che si tratta di opere di diverso ca-rattere e tono, ben distinte l’una dall’altra, dotate ognuna di una propria forte im-pronta individuale, già a partire dalla caratterizzazione timbrica (ne sono spia gli inso-liti organici vocali e strumentali, che insieme alle scelte armoniche, tonali e di scrittu-ra rimandano ad alcuni grandi modelli di riferimento: l’Opera da tre soldi di Kurt Weillsoprattutto, ma anche l’Histoire du soldat di Stravinskij, l’Hin und Zurück di Hinde-mith, le Opéra-minutes di Darius Milhaud).

Si dia un’occhiata alle sale di Milano che ospitarono prime rappresentazioni di ope-re di Negri negli anni Cinquanta: per il compositore questi non sono davvero, in nes-sun modo, luoghi casuali, a partire dal Piccolo Teatro che ospitò la prima rappresen-tazione di Vieni qui Carla. Com’è noto, il Piccolo Teatro, fondato da Paolo Grassi eGiorgio Strehler nel 1947, fu uno dei palcoscenici italiani più coraggiosamente votatialla causa della sperimentazione e dell’innovazione, soprattutto nel decennio che vadalla fondazione fino alla fine degli anni Cinquanta. Nell’originale, intensissima, qua-si febbrile programmazione del Piccolo in quegli anni, sperimentale fu anche il mododi intendere l’apporto della componente musicale nel complesso dell’azione scenica; ei musicisti che contribuirono più fortemente a rafforzare questa linea sperimentale fu-rono senza dubbio Fiorenzo Carpi e Gino Negri, che sotto molti punti di vista posso-no essere considerati «gemelli».

Nati a pochi mesi di distanza (Carpi nell’ottobre 1918, Negri nel maggio 1919), en-trambi diplomati negli anni Quaranta al Conservatorio «G. Verdi» di Milano, pianistie compositori, di rigorosa formazione colta ma con un’irresistibile attrazione per lo

211

Page 244: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

sconfinamento nei generi più leggeri, dotati di una forte propensione per gli aspettiteatrali del far musica, abili orchestratori ed astuti manipolatori di generi, tendenze,forme e linguaggi disparati, ma sempre al di fuori della banalità del mero pastiche, sem-pre con un lucido senso della chiarezza stilistica, Carpi e Negri erano davvero le figu-re ideali per una continuativa e fruttuosa collaborazione con Strehler negli anni dellancio di un innovativo progetto teatrale.5

Nelle precedenti annotazioni su Pioggia d’amore di Negri, prima versione della can-zone Una goccia di cielo presentata al Festival di Sanremo del 1961, erano stati messiin luce alcuni efficaci aspetti nel trattamento dell’armonia. Proprio su questo punto –sulla scienza armonica, su quel complesso di criteri e principi che regolano l’utilizzodelle scale musicali e la formazione degli aggregati accordali – può non essere privo diimportanza rilevare una curiosa coincidenza che riguarda Fiorenzo Carpi e GinoNegri. Fra i maestri di Carpi figurava Roberto Lupi (1908-1971), docente, composito-re e teorico milanese di un certo prestigio, autore fra l’altro di un fortunato e origina-le trattato intitolato Armonia di gravitazione, pubblicato dall’editore De Santis, aRoma, nel 1946.6 Per tutta la sua fertile carriera di compositore, Carpi fu profonda-mente influenzato dall’insegnamento di questo maestro; e il caso volle – ma natural-mente non si trattò di mera casualità – che proprio alla teoria armonica di Lupi si in-teressasse fortemente anche Gino Negri, che per lunghi anni non smise di approfon-dire la sua conoscenza dell’Armonia di gravitazione. Di tale interesse si può trovaretraccia, fra l’altro, in un taccuino di appunti inediti di Negri (databili intorno al 1980),in apertura del quale si legge:

Il III millennio sarà – musicalmente – imperniato su nuovi linguaggi e sistemi. Avrà impor-tanza fondamentale il linguaggio sistematico della «Armonia di gravitazione»: giardino ar-monico coltivato da Roberto Lupi e – dopo la scomparsa di Lupi nel 1971 – riproposto og-gi da me. Vedo l’armonia gravitazionale adeguarsi splendidamente ai continui sviluppi logi-ci e tecnologici del II Rinascimento […]. La gravitazione armonica di Roberto Lupi abitanella città planetaria. Abbraccia le basi di tutti i linguaggi finora parlati in musica: dalla co-siddetta regola dell’ottava esaltata dai Bach, dai Mozart, dai Beethoven e da una schiera digrandi autori del II millennio, agli ultimi linguaggi solipsistici (scarsamente accettati) di que-sta fine millennio. L’armonia di gravitazione parte da basi solidissime e si proietta nel futu-ro senza tagliare i ponti con il passato: crea, anzi, nuovi ponti. È linguaggio collettivo cheesalta le individualità. Si contrappone alle false individualità, può legarsi indifferentementea nuovi e vecchi mezzi […]. L’armonia di gravitazione può avere anche aspetti auditivamentegradevoli (al contrario di tanta babelistica musica di vera e finta avanguardia, dove la sgra-devolezza è d’obbligo).7

Questo passo rappresenta senza dubbio una delle più esplicite e curiose dichiarazionidi estetica musicale che di Gino Negri siano rimaste, per quanto sotto forma di intro-duzione ad un fantomatico spettacolo teatrale intitolato ironicamente Il guardone, poi

212

Page 245: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

mai realizzato; spettacolo per il quale il musicista, nel frontespizio manoscritto conte-nuto nel taccuino, così si presenta: «Dovunque (anche al buio) / Gino Negri / compo-sitore, strumentatore, direttore d’orchestra e di mixaggio, autore del testo, voce reci-tante e di cabaret, regista, allestitore / può presentare / Il guardone».

A proposito del connubio Carpi-Negri e delle teorie armoniche di Lupi, è utile ri-leggere un passo di Luigi Pestalozza, che nella sua lunga attività di critico musicale hamostrato una costante attenzione verso l’attività di questi compositori milanesi, solita-mente trascurati o tutt’al più considerati minori:

L’interesse di Gino Negri per l’armonia gravitazionale di Roberto Lupi, mentre gli consentedi uscire dall’ordine tonale senza porsi la questione dodecafonica, si manifesta nell’Antologiadi Spoon River del 1949 per soli, coro e orchestra su testi di Lee Masters,8 il lavoro che lo af-ferma e che coincide con la sua partecipazione alla nascita a Milano del Piccolo Teatro diGiorgio Strehler, dove insieme al coetaneo Fiorenzo Carpi diventa compositore di scena: maper dare alla musica di scena il ruolo teatrale, protagonistico che Strehler volle innovativa-mente attribuirle. Si propone così nella musica italiana che si rifonda, con Carpi e con Negriche tuttavia non smette di comporre fuori dal Piccolo Teatro, un genere assente o trascura-to in Italia, che tuttavia Negri interpreta secondo una sua personale intelligenza teatrale chegli fa sviluppare parallelamente altri generi scenici non abitualmente considerati, come ilCabaret di costume e politico di cui avvia negli anni Cinquanta a Milano una fortunata sta-gione (cantando, con lui stesso al pianoforte, testi propri di grande, dirompente divertimen-to), o come l’Opera da camera di cui fornisce validi esempi (Vieni qui Carla, Il tè delle tre, Ilcirco Max, Pubblicità ninfa gentile), anche perché l’insolito genere del resto reinventato, gliconsente di reintrodurre nel teatro musicale non solo italiano la comicità, anzi una corrosi-va, puntuale comicità, che attraverso i testi, come la musica, di grande verve, colpisce la re-torica e lo squallore della vita d’ogni giorno nell’età del benessere neocapitalista.9

Un altro versante comune della poliedrica attività di Carpi e di Negri era quello della mu-sica per il cinema, soprattutto negli anni Sessanta-Settanta, ossia nel periodo centrale del-la loro carriera. Entrambi si applicarono in collaborazioni cinematografiche di impegnonon certo superficiale, con registi quali Louis Malle, Luigi Comencini e Vittorio Caprioli(Carpi) o quali Leopoldo Trieste, Ermanno Olmi e Gianfranco Bettetini (Negri). E c’e-ra persino, in aggiunta, una comune attività televisiva per la Rai, per trasmissioni comeCanzonissima, oppure nel settore dei jingles pubblicitari. In quegli anni la televisione ita-liana sembrava andare a caccia di autori di estrazione colta, tanto che anche il dottoRoberto Lupi ne fu coinvolto, sia pur tangenzialmente. Per oltre trent’anni infatti, ovve-ro fra il 1954 e il 1986, era una musica di Lupi a servire da sottofondo musicale per la si-gla di chiusura dei programmi Rai: si trattava di un estratto dalle Armonie del pianetaSaturno per orchestra.10 Suono, immagine, animazione: un intreccio che riguardò sem-pre, e in modo assai profondo, l’attività di Carpi e di Negri (quest’ultimo, per alcuni an-ni, si dedicò intensamente anche alla professione di pubblicitario).

Una curiosità: nel contesto culturale della famiglia di Negri l’interesse per la grafica,

213

Page 246: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

la pittura, l’illustrazione, era sempre stato molto alto, soprattutto in connessione conl’attività letteraria. Il padre di Gino, il noto poeta Antonio Negri, uno dei maggioriesponenti della scuola dialettale milanese del primo Novecento, si era distinto per raf-finate pubblicazioni nelle quali la scrittura poetica era impreziosita dai disegni di notiillustratori.11 Se ne ricorderà lo stesso musicista, più tardi, quando pubblicherà a suavolta una breve raccolta poetica dal titolo Poesiaprosaica, corredata da bellissime xilo-grafie.12 Il nome della casa editrice della raccolta Poesiaprosaica – Voyeur Editore – erauna scherzosa invenzione dello stesso Negri. Si è già menzionato il progetto di spetta-colo teatrale intitolato Il guardone; in quel curioso taccuino di appunti Gino Negri, conla sua peculiare ironia, confessava comicamente: «Ebbene sì, io sono un guardone», af-fermazione grottesca il cui senso stava nelle parole di una precedente frase: «Il fascinodell’immediatezza visiva, il video, l’occhio re dei sensi hanno fatto fortemente brecciain me. Una breccia inquietante».

Per Gino Negri anche le copertine e i frontespizi delle partiture erano da trattare conattenzione artistica; ne seppe qualcosa il più giovane collega compositore SylvanoBussotti, che fu anche disegnatore per i frontespizi di alcune partiture di Negri. Bussotti,a sua volta allievo di Lupi e interessato all’«armonia di gravitazione», per sua stessa am-missione trarrà più tardi ispirazione dall’eccentrica idea di teatro musicale di Negri.Come ricorda Luca Scarlini, a partire dagli anni Cinquanta l’itinerario di Negri è

quello dell’invenzione di un moderno teatro da camera, spesso ironico, ma venato di ama-rezza e di sarcasmo, dove sceglie come tema […] il costume contemporaneo e le sue follie.Sylvano Bussotti, che spesso collaborò con Negri firmando le copertine dei suoi spartiti edi-ti da Suvini Zerboni, ha indicato recentemente come questi lavori fossero stati rilevanti perl’ideazione del suo personalissimo Bob (il Bussotti Opera Ballet). Il suo itinerario fu quindisimile (ma con minori riconoscimenti) a quello che Gian Carlo Menotti aveva tentato aBroadway con il fortunatissimo The Telephone, lavoro ritenuto non rappresentabile nelleconsuete convenzioni operistiche.13

Se si guarda ancora all’elenco di prime rappresentazioni di opere di Gino Negri alla fi-ne degli anni Cinquanta, si nota che a Milano, oltre al Piccolo Teatro, fu il TeatroGerolamo a ospitare due «prime» (precisamente quelle di Giorno di nozze e Massimo,nell’aprile 1959). Anche per quanto riguarda il Gerolamo, non si trattò certo di un luo-go casuale: era una sala già molto familiare al compositore, grazie ai suoi trascorsi nelmondo dell’intrattenimento musicale, della canzone, del nascente cabaret italiano.Fino al 1957 il Gerolamo era stato principalmente un teatro per spettacoli di mario-nette; dal 1957, con una nuova gestione, vi aveva preso piede un più ampio ventagliodi generi teatrali, compresi alcuni aspetti dell’avanguardia e della sperimentazione nelcampo operistico (come testimoniano appunto i due atti unici di Negri nel 1959). Nelgiro di pochi anni, in quella splendida sala – dichiarata da poco, nel 1956, monumen-

214

Page 247: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

to nazionale: un elegante ambiente che riproduce in piccolo quello della Scala – ini-ziano dunque a riunirsi alcuni fra i migliori compositori, cantanti, cantautori e caba-rettisti italiani. Un ambiente ideale per Gino Negri, che alla mai sopita passione per lagrande tradizione operistica e per l’operetta ottocentesca – fra i suoi più grandi amorimusicali c’erano senza dubbio, come ebbe modo di dichiarare più volte, Mozart,Rossini, Verdi, nonché le più leggere pagine teatrali di Offenbach e Johann Strauss14

– univa la passione per la canzone teatrale alla Kurt Weill, per il jazz, per la canzoned’autore, per la canzonetta e anche per la farsa e la barzelletta musicale.

Il Gerolamo era in quegli anni connesso, sotto certi aspetti, con altri due locali dal-le caratteristiche completamente diverse, ma che con esso condividevano il gusto pergli spettacoli spregiudicati e innovativi, capaci di mescolare con intelligente disinvol-tura la musica di intrattenimento, il cabaret, la recitazione, la musica jazz, il recital pia-nistico, la canzone d’autore: erano il Derby Club del «Bongio», ossia di Gianni Bon-giovanni (locale che per un breve periodo fu denominato anche Intra’s Derby Club,dal nome del pianista Enrico Intra e il Cab ’64 fondato dall’intraprendente pittore, di-segnatore, scenografo e costumista Tinin Mantegazza. L’irresistibile ascesa di questi lo-cali cominciò in modo fulmineo all’inizio degli anni Sessanta, per durare poi ben oltrequel decennio. È dunque negli ambienti del Teatro Gerolamo, del Derby Club e delCab ’64 che Gino Negri conosce e frequenta attori e comici di prorompente carica in-novativa come Cochi e Renato, Dario Fo, Paolo Poli, Walter Valdi, e cantautori comeEnzo Jannacci, Giorgio Gaber, Bruno Lauzi, come Nanni Svampa e i suoi «Gufi»(quartetto di cantanti, strumentisti e cabarettisti dall’inventiva molto vivace, propu-gnatori fra l’altro di una nuova forma di canzone-cabaret in dialetto milanese; oltre aSvampa il gruppo era formato da Lino Patruno, Gianni Magni e Roberto Brivio).

In questa autentica fucina di innovazione espressiva, di dilagante verve teatrale, nelpieno slancio del superamento delle forme tradizionali e ormai stantie dello spettaco-lo della recitazione «classica» e del canto melodico-sentimentale del primo Novecento,Gino Negri ha modo di corroborare e mettere a frutto la sua ricchissima vena creativadi musicista-attore, di musicista-cabarettista, di musicista-prestigiatore, quasi sempreriunendo in sé con peculiare naturalezza le facoltà dell’inventore (compositore e paro-liere di grande fantasia poetica) e quelle dell’interprete (sedendo al pianoforte e al con-tempo cantando o recitando).

A differenza dei cantautori «puri» e di formazione «leggera» come Adriano Celen-tano, Gino Paoli o Giorgio Gaber, per Negri l’esperienza del Festival della CanzoneItaliana a Sanremo, nel 1961, era stata niente più che un avvincente e simpatico diver-sivo, rispetto alla sua prevalente e crescente attività di compositore-performer, di inter-prete sui generis e non classificabile – in quegli anni che seguirono la prima fase (1954-59) di grande produttività operistica.15 Fra l’altro, l’autore di Una goccia di cielo nonsi era nemmeno potuto gustare le fasi della competizione canora, visto che a fine gen-

215

Page 248: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

naio, in perfetta coincidenza con le serate sanremesi, Negri aveva dovuto dirigere l’or-chestra del Piccolo Teatro di Milano per l’allestimento dello spettacolo di BrechtSchweyk nella seconda guerra mondiale, con bellissime musiche – ora malinconiche, orascanzonate, ora soavi – di Hanns Eisler.16

Intanto però le 365 canzoni uscite dalla febbrile fucina compositiva dell’anno 1960venivano già revisionate, sistemate, in parte modificate; di lì a poco, nel volgere di qual-che mese, Negri ne farà la base per uno dei suoi migliori spettacoli, Costretto dagli even-ti, un intrigante collage di canzoni presentato dall’autore al Teatro Gerolamo nel 1963(con grande successo). Molte canzoni prevedevano in quel caso una lunga parte di solarecitazione, che fungeva sia da luogo di decantazione di ciò che era stato fatto ascolta-re nel canto, sia da raccordo narrativo fra un pezzo e l’altro; in tal modo la recitazionesi fondeva con sobrietà (e spesso con sottile ironia) all’esecuzione più strettamente mu-sicale; la canzone si faceva teatro, quasi anticipando – ma in modi diversissimi – alcuniesiti scenici ed alcune invenzioni lirico-rappresentative del futuro «teatro canzone» diGiorgio Gaber (oltretutto con un comune gusto per la disincantata disamina delle mo-de culturali, dei vizi della politica, delle nevrosi della società contemporanea).

Già prima della morte di Gino Negri (1991), negli anni Ottanta, il suo canto-recita-zione al pianoforte e la sua peculiare «canzone-teatro» hanno cominciato a sprofon-dare nell’oblio, ma ingiustamente: dal suo esempio presero le mosse tanti altri uominidi spettacolo che, pur divenendo molto più celebri di lui, non ne hanno saputo mini-mamente eguagliare il penetrante, arguto e disarmante acume espressivo.

1 È a questa stesura originaria che qui ci si riferisce, nelle brevi annotazioni analitiche che seguono.2 R. Cognazzo, «Gino Negri», in A. Basso (a cura di), Dizionario Enciclopedico Universale della Musicae dei Musicisti, Le Biografie, vol. 5, Utet, Torino 1988, p. 342.3 M. Mila, «Le opere impossibili di Gino Negri», in Id., Cronache musicali 1955-1959, Einaudi, Torino1959, pp. 189-196.4 La stessa dicitura compare anche nella stesura manoscritta del libretto del Circo Max, conservata nel-l’archivio del compositore.5 La collaborazione di Carpi con il Piccolo Teatro fu di ampiezza e intensità ragguardevoli, di fattonon interrompendosi mai per decenni e per un’impressionante serie di spettacoli diversi. Più ristret-ta nel tempo e molto più modesta quantitativamente, ma non per questo meno significativa, fu la col-laborazione di Negri, che ebbe il suo momento di massima concentrazione negli anni 1951-1957, conle musiche di scena per dieci spettacoli.6 Se ne vedano dettagliate informazioni nel recente contributo teorico di T. Affortunato, La «via na-turale delle relazioni armoniche»: l’Armonia di gravitazione di Roberto Lupi (1946), in «Rivista di Ana-lisi e Teoria Musicale», anno XII, n. 1, 2006, pp. 7-22.7 G. Negri, Armonia del terzo millennio. Intermezzo. Canzoni, taccuino manoscritto di appunti inedi-ti, 1980 circa. Nella parte finale della citazione si è voluto conservare l’interessante cancellatura origi-nale su «vera e finta avanguardia».8 La data fornita da Pestalozza va corretta: l’Antologia di Spoon River, uno dei più importanti lavorigiovanili di Negri, è stato in realtà composto nell’ottobre 1945 ed ha avuto la sua prima esecuzione aTorino, nel febbraio 1947.9 L. Pestalozza, Morricone: una storia musicale italiana presente, in S. Miceli (a cura di), Norme con iro-

216

Page 249: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

nie. Scritti per i settant’anni di Ennio Morricone, Suvini Zerboni, Milano 1998, pp. 175-176.10 Questa sigla utilizzava un disegno di Erberto Carboni (1899-1984), eclettica figura di illustratore,architetto, pubblicitario e pittore, anch’egli di area milanese. Il celebre disegno della complessa strut-tura geometrica conica, che allude alla forma di un’onda elettromagnetica, in scorrimento sullo sfon-do di un cielo nuvoloso, unito all’enigmatica ed astratta musica del Saturno di Lupi, fu per almenodue generazioni di italiani un «marchio» capace di incidersi profondamente nella memoria collettiva.11 Per dettagliate notizie su Antonio Negri si veda C. Beretta, Letteratura dialettale milanese. Itinerarioantologico-critico dalle origini ai nostri giorni, Hoepli, Milano 2003, pp. 729-744.12 G. Negri, Poesiaprosaica. Con 11 xilografie di Félix Vallotton, Voyeur Editore, s.d.13 L. Scarlini, Gino Negri. Uno, nessuno e centomila, in «Amadeus», anno XXI, n. 3, vol. 232, marzo2009, pp. 51-52.14 Si veda ad esempio G. Negri, La discoteca ideale, fascicolo allegato a «Panorama», n. 626, 1978, inparticolare alle pp. 9-25. Cfr. anche G. Negri, «Musica sinfonica e da camera», «Musica lirica», «Mu-sica contemporanea», in G. Negri, V. Franchini, G. Pellicciotti, E. Gentile, Discoguida. Per una disco-teca di musica sinfonica, operistica, jazz, cantautori, pop, country, folk, fascicolo allegato a «Amica», n.6, 28 gennaio 1980, in particolare alle pp. 19-24 (a p. 19, a proposito della musica lirica, si legge: «Amoquesto genere alla follia, l’opera è il mio primo amore musicale»).15 Una seconda fase di intensa creazione nel campo dell’opera teatrale «colta» sarà quella degli anni1967-1975, l’epoca di opere come Giovanni Sebastiano (1967), Pubblicità ninfa gentile (1969), Diariodell’assassinata (1975).16 Lo spettacolo verrà anche portato in tournée a Roma, in aprile, e a Torino, in maggio.

217

Page 250: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Febo GuizziRoberto Leydi etnomusicologo e organizzatore di cultura

Nel 1980 Roberto Leydi scrisse, a proposito di «fortune del passato» e «fenomeni delpresente»:

un’acquisizione corretta, continuata, profonda di […] «altre» realtà musicali costituisce unarricchimento determinante per la nostra stessa coscienza musicale e culturale, non solo intermini «quantitativi», ma anche in termini di radicale modificazione del nostro modo di«sentire» la musica, tutta la musica, di porci innanzi la musica, tutta la musica. Compresa la«nostra».1

Questa frase potrebbe essere assunta quale esergo di un’etnomusicologia impegnata aporre al centro la sensibilità per le diversità musicali quale fondamento della com-prensione di ogni musica: posizione che agli inizi degli anni Ottanta Leydi aveva affi-nato anche attraverso una sistematica «intrusione» delle musiche «altre» entro le for-tezze istituzionali dell’apparato concertistico dominante.

Le fortune del passato erano quelle della musica popolare ed etnica in Italia nel cor-so degli ultimi trent’anni di allora e delle ricerche e degli interventi che ne avevano sve-lato e contemporaneamente modificato la realtà sommersa – la cui cronaca era ancorada fare – e da cui scaturivano di conseguenza in quegli anni i fenomeni nuovi, fonti dipreoccupazione e di soddisfazione; quest’ultima era sentita da

chi […] ha operato, anche attraverso canali e strumenti con qualche margine di ambiguità,per «usare» il folk revival come mezzo di provocazione, nella direzione di un’acquisizionepiena, attraverso i detentori legittimi della musica di tradizione orale, dei valori culturali,musicali e politici delle musiche popolari, etniche, delle grandi civiltà dell’Oriente. Un ulte-riore motivo di soddisfazione [poteva] venire dalla constatazione che molti dei musicisti ecantori popolari italiani che via via sono venuti apparendo nei concerti «urbani» di musicapopolare hanno trovato nuova presenza nei loro specifici contesti.2

Parliamo dunque di Roberto Leydi, di questo Leydi di quasi trent’anni fa. Parliamonein particolare nella prospettiva di un protagonista della costruzione di una «nuova» di-sciplina scientifica, l’etnomusicologia, che si compiaceva di aver usato il folk revival co-me mezzo di provocazione, e si preoccupava di valutare i cambiamenti nel gusto, di co-glierne le ambiguità, di allarmarsi per l’insorgere di forme «culturalmente fragili o in-consistenti (pensiamo alla cretineria del “celtismo”)»:3 un accademico e ricercatoreimpegnato in un

218

Page 251: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

lavoro svolto tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta, giocando su di-versi livelli (da quello del revival a quello dell’incentivazione della ricerca, da quello della ri-proposta dei musicisti popolari in ambiti «culturali» a quello dell’intervento degli enti loca-li, da quello della stimolazione politica a quello dell’azione «modernizzante»).4

Parlare di questo Leydi porta in primo piano un curioso odierno paradosso, connessoalla sua attività, che la fama che circonda la sua figura e la sempre crescente attenzio-ne con cui se ne rievoca ininterrottamente – dalla sua scomparsa nel 2003 – la centra-lità, lungi dall’evitare che si perpetuasse, hanno addirittura contribuito ad amplificare:si tratta di un nodo irrisolto che ha a che fare con l’attuale circolazione della musicavariamente e spesso ingiustificatamente definita come «etnica», «popolare», «world»ecc., che attiene ai luoghi e ai modi della sua offerta al grande pubblico, che evoca lescelte e i legami – oggi di fatto quasi del tutto occultati – determinanti per i percorsiche hanno condotto alla più vasta diffusione di queste musiche, a partire dalle primeforme di «contatto» pionieristico e poi scientifico con cui la cultura «alta» dell’Oc-cidente le ha «scoperte». Ed eccolo il paradosso: da un lato gran parte degli utenti del-le varie offerte musicali ignora (o conosce in modo vago e distorto) il contributo de-terminante che la disciplina specialistica che studia la diversità musicale – essendoquindi in grado di darne conto di fronte a tutti i pubblici possibili – ha fornito nel pro-muovere un orientamento, anche divulgativo, favorevole alle musiche «etno-folk-world»;5 d’altro lato ormai non solo le musiche già definite «altre» sono fruite princi-palmente in modo deterritorializzato6 e decontestualizzato attraverso la forma istitu-zionale del concerto,7 ma sempre più si è persa – a favore dell’egemonia esercitata datale offerta istituzionale – la nozione stessa di una specificità e di un legame profondodi queste musiche con i rispettivi contesti; il che tuttavia – paradosso nel paradosso –non evita che si ricorra a quella singolare maniera di reinventarsi contesti, funzioni, maanche forme e contenuti, fornita in chiave prevalentemente spettacolare o rivendicati-va di identità (l’una non esclude l’altra) che i vari soggetti coinvolti nell’organizzazio-ne dei concerti – musicisti, impresari, spettatori, sedicenti specialisti – contribuisconoad elaborare per ricondurre comunque l’esperienza dell’ascolto di queste musiche auna necessità, più o meno malintesa, di valorizzarle – commercialmente, soprattutto –per il loro legame con le culture e le compagini sociali di cui sarebbero espressione, as-sumendo così di fatto una veste da «etnomusicologi di ritorno» del tutto superficiale eabusiva. Tutta questa seconda parte del paradosso ha evidentemente a che fare con lalabilità con cui il senso comune sa o crede di rapportarsi agli orientamenti forniti da-gli esperti istituzionali, gli etnomusicologi «veri».8 Il paradosso, già forte nel contrastotra i due termini che lo compongono, si rafforza ulteriormente se si risale a una situa-zione in fondo non così lontana nel tempo e, soprattutto, ad alcuni processi che han-no attraversato in modo determinante la vicenda dell’allargamento dell’orizzonte com-

219

Page 252: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

prensivo delle «musiche al plurale», che ha caratterizzato la storia stessa di una parterilevante dell’etnomusicologia nel secondo dopoguerra e dell’intreccio che si è stabili-to, a volte con profondo turbamento e spesso con notevole strascico di discussioni avari livelli, tra la «scoperta» dell’alterità musicale e la progressiva indagine su di essada un lato, e anche, dall’altro, la proposta di assaggio di alcune manifestazioni di que-sti repertori9 sotto forma e per mezzo della loro spettacolarizzazione in concerto.

Torniamo dunque al Leydi che nel 1980 tracciava percorsi evolutivi e impostava bi-lanci trentennali: nella sua valutazione autocritica, ma ottimista comunque, c’era la pie-na consapevolezza di come l’intreccio tra conoscenza e heisenberghiana ricaduta del-l’osservazione sulla realtà osservata avesse prodotto un preciso bagaglio di ulteriori co-noscenze problematiche e di corrispondenti responsabilità politiche. C’è una chiave dicomprensione, proveniente dall’interno, di un complesso percorso di organizzazionedella scena musicale, motivato da precise scelte di politica culturale attenta alla musi-ca nella società e ai suoi squilibri, e di contemporanea necessità della conoscenza del-la realtà, storica e morfologica, sociale e culturale, delle musiche messe contempora-neamente in gioco dall’interno e dall’esterno delle loro attuali dimensioni – che oggiqualcuno amerebbe chiamare «interculturali». Tutto questo avveniva nella Milano tragli anni Cinquanta e gli incipienti anni Ottanta, ma ha riscontri e conseguenze non su-perficiali né effimeri nel nostro odierno hic et nunc.

Per l’appunto, Leydi, Milano e l’etnomusicologia: innanzitutto, quanti ancora oggi so-no consapevoli del ruolo effettivo avuto dalla figura di questo studioso nella fondazio-ne stessa in Italia della disciplina scientifica denominata «etnomusicologia»? Quanti diconseguenza hanno presente che l’attività di Leydi a Milano (intesa non solo come suacittà di residenza, ma come luogo in cui si sono addensate molteplici condizioni – ne-cessarie ma non sufficienti – della complessità sociale e culturale che ne hanno fatto uncentro propulsivo della cultura in Italia) è stata determinante per sperimentare per-corsi empirici e per attivare riflessioni strategiche in relazione al problema del modo incui «abbiamo incontrato e creduto di conoscere le musiche delle tradizioni popolari edetniche»?10 E quanto approfondita può essere la conoscenza analitica delle opzioni de-terminanti per un’impostazione del lavoro scientifico, che ha derivato proprio dall’e-sperienza tutta interna alla realtà complessa ed evolutiva rappresentata dalla società edalla cultura della parte più dinamica del paese un carattere originale e spregiudicatodel metodo di lavoro, delle iniziative di intervento a tutto campo, del Leydi etnomusi-cologo e organizzatore di cultura?

Leydi ha pubblicato incessantemente, in quegli anni e anche dopo, libri e dischi, hacurato collane editoriali e discografiche, ha ideato e organizzato mostre, ha tenuto cor-si (alla Scuola Civica di Musica, ad esempio), ha condotto trasmissioni televisive, hapromosso la fondazione dell’Ufficio per la Cultura del mondo popolare della Regione

220

Page 253: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Lombardia, ha diretto la Scuola di Arte drammatica, ha promosso raccolte e archivi,ha insediato a Milano la delegazione Nord della Società Italiana di Etnomusicologia,ha fatto e diretto ricerche, ha organizzato seminari, cicli di conferenze, meeting inter-nazionali, ha programmato concerti e rassegne di musica popolare. Malgrado l’inse-gnamento universitario a Bologna e non poche altre presenze istituzionali, editoriali escientifiche in altre città, ha irradiato da Milano verso l’esterno e ha insediato in cittàuna quantità formidabile di iniziative e di realtà organizzative su cui poggiavano e viag-giavano altrettante idee fondative della ricerca e delle riflessioni etnomusicologiche,che sono risultate decisive nella genesi globale della disciplina in Italia, con apporti ori-ginali la cui lungimiranza e il cui valore duraturo sono ancor più evidenti oggi, di fron-te alla riplasmazione sconvolgente del mondo e della società e avendo alle spalle ormaiun lungo periodo che consente bilanci approfonditi.

Uno dei punti focali di tanto attivismo è stato quello del rapporto (e qui torniamoall’inizio del nostro discorso), da Leydi incessantemente sperimentato e costruito, conle istituzioni musicali e teatrali dei «grandi» circuiti dello spettacolo, dei festival, deglienti stabili più prestigiosi. All’interno di queste strutture, la preoccupazione di Leydiè stata duplice: innanzitutto aprire e mantenere aperti spazi che accogliessero la musi-ca popolare anche dentro i programmi, i cartelloni dedicati alla «grande» musica, intal modo intendendo rivendicare e mostrare la grandezza non meno degna di musiche«altre» ma ricchissime di implicazioni estetiche e storiche e intrise di senso nient’af-fatto triviale. Poi, con un intento non solo divulgativo, ma di sincera natura pedagogi-ca, formare un pubblico capace di apprezzare queste nuove proposte musicali, assicu-rando anche fuori dalla sala del concerto e oltre il tempo rituale della sua sperimenta-zione, ai suonatori e ai cantori popolari una disponibilità all’ascolto della loro culturae una possibilità di rifunzionalizzare il loro ruolo e i modi della sua espressione.Rifunzionalizzare non voleva dire sostituire tout court nuove modalità e occasioni diesecuzione «urbane» a quelle tradizionali: lo scopo era quello di rinvigorire quel ruo-lo tradizionale, anche attraverso l’attualizzazione entro inediti circuiti di relazione conun pubblico nuovo, di offrire dunque, o restituire, alimento in termini di prestigio, difiducia in se stessi, di interesse ravvivato di rimbalzo dall’esterno ai musicisti popolari,già da sempre consapevoli della propria condizione elitaria di depositari di competen-ze e di funzioni «delegate» alla loro abilità artistica da una committenza sociale dellacomunità di appartenenza originaria. Questi musicisti, tuttavia, subivano la moderniz-zazione e gli sconvolgimenti economico-sociali dell’Italia tra gli anni Cinquanta e iSettanta, con la restrizione degli spazi in cui quel ruolo era solito esercitarsi, l’indebo-limento della funzione rappresentativa di comunità sottoposte a forti trasformazioni inambito territoriale e sociale e il mutamento del gusto che sempre più metteva a rischiola vitalità di visioni del mondo rappresentate come arcaiche e inadeguate. Il pubblicourbano era a sua volta chiamato ad elaborare una più ampia e complessa considera-

221

Page 254: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

zione del «bello» musicale, che potesse includere la comprensione di valori complessi,in cui cioè si potessero sommare all’esperienza estetica la conoscenza di linguaggi e dinuovi sistemi di comunicazione.

L’autore di queste righe è stato testimone di tali aspetti dell’opera di Roberto Leydi, inuna collaborazione che si sviluppò in quegli anni. Per questo non sembrerà, si spera,egocentrico riportare qui un articoletto commissionato da Leydi affinché fosse pub-blicato a corredo di quel numero speciale dedicato alla musica popolare di «Labo-ratorio musica» da cui si sono già prelevate le citazioni di pugno dello stesso Leydi.Recensendo sotto il titolo di Settimana di musica popolare la manifestazione che con lastessa denominazione era stata inserita nel cartellone generale di «Musica nel nostrotempo», infatti scrivevo:

Quella che è ormai una delle manifestazioni concertistiche più importanti d’Italia, se non al-tro per il numero di concerti organizzati nel corso della stagione, per l’importanza degli in-terpreti e per la capillarità con cui occupa gli spazi più qualificati della Milano musicale, va-le a dire «Musica nel nostro tempo», ha recentemente offerto al suo pubblico un’inedita«settimana di musica popolare italiana». Inedita, perché se è vero che già si era avuta un’apertura alla cosiddetta musica etnica, conconcerti dedicati ad alcune culture extraeuropee, è vero anche che si era trattato di puntatenella musica colta, o «classica», dell’India o dell’Iraq, ma non di accostamenti alla vera e pro-pria musica popolare. Per parte del pubblico si è trattato della prima occasione di ascolto diautentici interpreti di alcune tra le più importanti aree culturali italiane; per alcuni musicistiè stata la prima opportunità di esibirsi in spazi di tanto autorevole tradizione concertisticaquale è la Sala Grande del Conservatorio. Ma di per sé questi pur notevoli eventi non ba-stano a rendere il senso di novità di questa «settimana», dal momento che, per fortuna, cer-ti argini sembrano essersi ormai infranti quasi dappertutto, e non è più un fatto abnormeascoltare in un teatro d’opera o in una sala da concerto i suoni della musica «altra». Ciò cheè parso una felice novità è l’evidenza con la quale, grazie anche agli sforzi pedagogici dei pre-sentatori Leydi, Sassu e Venturelli, il pubblico ha potuto constatare la complessità e la raffi-natezza di tanta musica popolare del nostro paese. La maestria strumentale di MelchiadeBenni e di Luigi Lai, la ricchezza del repertorio di Ernesto Sala, la sapienza virtuosistica deicantori sardi, la vivacità ed il rigore stilistico del vatoccu marchigiano, hanno evidenziato dauna parte l’esistenza di rapporti consapevoli con la tradizione culta di epoche anche remo-te, e dall’altra hanno resa manifesta la difficoltà a penetrare nelle strutture più intime di co-sì ricca creatività musicale. Quindi, al di là dell’impostazione, antologica ed esemplificativa della «settimana» (che pe-raltro manifestava alcune vistose lacune soprattutto per quanto riguarda l’Italia meridiona-le), ciò che pare aver funzionato è stata non tanto la mera capacità divulgativa di questa ras-segna, quanto il coinvolgimento problematico che essa ha operato su una parte, almeno, delpubblico: quella parte, per intenderci, che lungi dalla pretesa di «conoscere» finalmente unmondo sino a ieri ignorato, è uscita dai concerti «sapendo di non sapere» quasi nulla di que-sto stesso universo musicale. Oggi in sostanza, il moltiplicarsi di iniziative spettacolari attor-no alla musica popolare, e la scarsa serietà di molte, troppe, di esse, fa sì che non sia tanto

222

Page 255: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

importante l’accrescersi della circolazione di tale musica, quanto la formazione in un pub-blico sempre più vasto della coscienza critica della sua specificità culturale e, ad un tempo,della sua universalità.

Artefice (anche) di questa operazione fu Roberto Leydi, che così realizzò una signifi-cativa intersezione con Luciana Pestalozza. L’iniziativa era conseguenza diretta dellacentralità che già dall’inizio degli anni Sessanta Leydi aveva saputo conquistarsi sullascena musicale milanese e nazionale: sin dai suoi esordi, infatti, egli era stato protago-nista nella promozione di una vivace cultura jazzistica e jazzofila, non meno che nellasperimentazione di un’originale attenzione a quello che più tardi sarebbe stato defini-to «paesaggio sonoro», nella sua dimensione urbana direttamente ascoltata e rilevataper mezzo di microfono e magnetofono e considerata con attenzione allo spessore sog-gettivo, cioè umano, dei suoni. Queste pratiche erano debitrici della ricerca che si sta-va sviluppando con la partecipazione di Leydi presso lo Studio di Fonologia della Raisulla composizione basata sull’interazione di suoni sintetizzati e di sorgenti foniche«concrete» prelevate dalla realtà, portata avanti – tra gli altri – da Luciano Berio, Bru-no Maderna, Marino Zuccheri; nel contempo questa stessa esperienza di avanguardiasi rispecchiava, grazie alla partecipazione di Leydi e alle sue iniziali registrazioni sono-re dell’universo concreto della città, in una speciale propensione all’impegno socialedell’ascolto e della manipolazione creativa dei suoni.11

A partire da queste premesse, la figura di Leydi seppe crescere, in una progressione tut-t’altro che accademica, sino a porsi quale originale contributore, dapprima, e poi comevero e proprio co-fondatore, di una disciplina – l’etnomusicologia – che intanto e altrove,nel Centro-Sud, era stata avviata in Italia da Diego Carpitella, sulla scia di Giorgio Na-taletti e con gli apporti di Alan Lomax e di Ernesto De Martino. Grazie a Leydi, dunque,Milano divenne un centro determinante in Italia per la fondazione e lo sviluppo della nuo-va disciplina musicologica, della cui genesi ancora oggi non sono del tutto note al di fuo-ri della cerchia degli specialisti le principali dinamiche, spesso ricondotte in modo unila-terale ed esclusivo alle iniziative sopra ricordate, radicate altrove e perlopiù rivolte allarealtà centro-meridionale. Se è certamente vero, infatti, che le prime basi per l’avvio diun’etnomusicologia italiana furono costruite nel corso degli anni Cinquanta soprattuttoper merito di Diego Carpitella a Roma e nel Sud, attorno all’Accademia di Santa Ceciliae alla Rai (sull’onda peraltro non solo delle imprese di Alan Lomax e di Ernesto De Mar-tino, ma anche degli spazi aperti dalla casa editrice Einaudi, della sua celebre «collana vio-la» retta anche con una forte dialettica interpersonale da Cesare Pavese e dallo stesso DeMartino)12 è altrettanto vero che a Milano un fermento analogo ma dotato di una pecu-liare identità, sviluppatosi attorno alle Edizioni Avanti! e alla irrequieta e variegata com-ponente socialista di cui esse erano espressione, stava negli stessi anni elaborando unaparallela e originale attenzione sistematica per il mondo dei suoni dell’«altra Italia».

223

Page 256: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

In questo processo fu determinante Roberto Leydi, dapprima in posizione di co-protagonista con Gianni Bosio nella fondazione del Nuovo Canzoniere Italiano, deiDischi del Sole e delle Edizioni del Gallo (già Edizioni Avanti!) e dunque di promo-tore non solo della ricerca sulle espressioni musicali del canto popolare, ma anche del-la loro riproposta in chiave di folk music revival; egli poi imboccò una strada autono-ma, che lo staccò dai suoi compagni di strada portandolo a riconsiderare sul piano teo-rico le ragioni della ricerca e le motivazioni e i modi stessi dell’interesse per la musicadelle classi subalterne. Questa sua visione alternativa si propose in chiave di radicaleapprofondimento delle ragioni teoriche e delle prospettive militanti, legate alla situa-zione sociale e politica del tempo, per cui da un iniziale impegno prevalentemente «in-terventistico» – in cui la filologia, la documentazione e la stessa ricerca sul campo era-no condizionate da uno sforzo complessivamente votato alla proposta di comunica-zione di un’alterità delineata per le urgenze, spesso per l’immediatezza, del presente –egli passò alla visione sistematica e «alta» di una vera e propria disciplina scientifica,svincolata dalle contingenze del momento ma non per questo sottratta all’etica di unosguardo ravvicinato e partecipe. È interessante per noi oggi, credo, e per la storia, co-gliere quanto questo processo evolutivo sia stato vissuto da Leydi, per le stesse pre-messe da cui egli partiva e per l’impronta pragmatica da lui impressa alle proprie ela-borazioni, con una particolare capacità «inclusiva»: il suo lavoro, cioè, non andava al-la ricerca di esasperate distillazioni di un’autenticità relegata nel passato al punto da ri-schiare di perdere presenza storica, né si preoccupava di limitare la portata dialogicadel lavoro dell’etnomusicologo entro rigide transenne tassonomiche; e il perimetro del-l’oggetto da lui indagato non era tracciato ad excludendum entro confini formali, ar-roccati entro una sorta di antagonismo estetico e strutturale radicalmente oppositivonei confronti della musica «euroculta occidentale» (per dirla alla Carpitella). Questopercorso, nello stesso tempo, proprio per la rilevanza comunque sempre accordata daLeydi al dato dell’alterità della cultura popolare e della musica in essa inclusa, non de-viò mai dall’impegno a considerare la centralità dei modi della comunicazione e non sisottrasse all’azzardo di proporne la forza comunicativa «altra» entro quei circuiti e luo-ghi deputati dell’ascolto più raffinato e consapevole della società borghese contempo-ranea, che pure faticosamente si stavano aprendo alle esperienze della crisi dei lin-guaggi, della concettualizzazione, della creazione e della fruizione musicali, della sem-pre maggiore impellenza delle strategie comunicative. La democratizzazione di questiluoghi costituiva per Leydi un discorso provocatoriamente critico su quello stessoascolto selettivo, un modo irrinunciabile di promuovere, ben al di là della ricerca e del-la pubblicazione, anche in disco, dei suoi risultati, la conoscenza di un vero e propriopatrimonio misconosciuto e monumentale nello stesso tempo; ma era anche contem-poraneamente uno strumento di sperimentazione non dogmatica né neutrale del ruo-lo dello studioso in rapporto con la realtà umana coinvolta nello studio, dunque uno

224

Page 257: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

strumento di affinamento del progetto epistemologico e di rifiuto di ogni forma di ar-roccamento accademico nella pratica disciplinare, e infine anche un pronunciamentomilitante e manifestato nei fatti, attraverso le proposte concrete di ascolto, sulle dina-miche dell’offerta musicale, sulla comunicazione in musica, sugli universi sonori ri-condotti criticamente alle loro fondamenta sociali.

Tornando dunque al valore di apertura rappresentato dall’inclusione nei program-mi di «Musica nel nostro tempo» di concerti di musica popolare italiana, è oltremodosignificativo che tale apertura si fosse realizzata grazie al determinante incontro tra leesperienze di Luciana Pestalozza e quelle di Roberto Leydi (nonché, ovviamente, di al-tri importanti protagonisti della Milano musicale del tempo, tra cui piace ricordare quiFrancesco Degrada). Fu Leydi infatti a fornire l’apporto principale per individuare leproposte da inserire nei programmi dei concerti, nonché ideare i temi e le questioni dasottoporre all’attenzione del pubblico nell’ambito della presentazione delle propostemusicali stesse: era infatti prevista a loro corredo, sin dalla cornice interpretativa for-nita dal presentatore-etnomusicologo, un’adeguata riflessione sul rispettivo retroterra,sul senso culturale, su mondi culturali e sociali «altri» che la fruizione diretta dei con-certi avrebbe aperto, senza tuttavia fornire di per sé – almeno così si riteneva – un qua-dro esauriente di informazione e di comprensione delle specifiche qualità coinvolte. Insostanza un modello, per l’appunto «pedagogico», che non rinunziava ad esplicitare leragioni della proposta eterodossa dallo stesso palco su cui avveniva la performance eche non intendeva lasciare «solo» il pubblico di fronte a cose inaudite e per niente fa-cili da afferrare nella loro complessità. Questa relativa accentuazione del momento di-dascalico stava a indicare l’intento di portare l’etnomusicologia di fronte al pubblicoper giocare una partita che non si voleva limitare al fatto impresariale-organizzativo, néad una divulgazione da «enciclopedia della [altra] musica», ma si riconnetteva ad unapiù ampia strategia di impegno nei confronti della società e di riscatto di «debiti» cul-turali nei confronti di ceti sociali, oltre che di individui in carne e ossa, detentori di ungrande sapere artistico, musicale, comunicativo.

In quegli anni Leydi aveva già al suo attivo un ricco elenco di realizzazioni concerti-stiche nell’ambito della scena musicale nazionale – ma prevalentemente basate a Milano– che per un paio di decenni avevano rappresentato il principale esito divulgativo, an-che su commissione delle organizzazioni politiche e sindacali della sinistra, delle ricer-che su cui si era fondato lo sviluppo di un’originale etnomusicologia praticata nella real-tà settentrionale. Ed è da questa esperienza che erano maturate le motivazioni della pro-posta della musica popolare italiana nell’ambito di «Musica nel nostro tempo».

Più che descrivere i termini in cui questa si concretizzò entro i programmi delle ras-segne, mi pare interessante risalire dalla collaborazione tra Roberto Leydi e LucianaPestalozza alle esperienze che l’avevano preceduta e dunque alle premesse da cui lascelta di inserire la musica popolare nei programmi di «Musica nel nostro tempo» era

225

Page 258: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

scaturita. Come detto, vi era stato un retroterra che aveva già da tempo posto il pro-blema del rapporto tra la musica popolare e i suoi contesti originari da una parte e, dal-l’altra, quello dei luoghi e dei circuiti deputati alla fruizione della musica di più indi-scusso impegno e qualità del sistema culturale italiano in generale: teatri, sale da con-certo, festival, rassegne di musica «classica» e contemporanea. A sua volta, questa ten-sione che mirava a riempire diversamente e in modo alternativo i tradizionali «conte-nitori» dell’offerta musicale pubblica, poneva il problema ancora più profondo e ori-ginario delle relazioni tra la cultura delle classi «strumentali e subalterne» – per usarel’espressione gramsciana allora correntemente in uso – e la cultura dominante. L’attua-lità del problema stava proprio nel fatto storico dell’attuazione in Italia della riscoper-ta militante ma anche scientificamente fondata, avviata nel dopoguerra, della compo-nente musicale di quella cultura; e non va dimenticato quanto faticoso fosse il lavorodi promozione culturale di questo patrimonio alla luce delle sue peculiari caratteristi-che: basti pensare alle polemiche che contrapposero in modo radicale due personaggiquali Diego Carpitella e Massimo Mila,13 nonché alla diffidenza che non cessava diemergere qua e là all’interno della linea culturale ufficiale del Partito comunista neiconfronti di molti orientamenti del Nuovo Canzoniere Italiano e più in generale del la-voro di pubblicazione e di elaborazione spettacolare che si conduceva allora nell’Italiasettentrionale.14 Dopo secoli di separazione e di esclusione una cerchia di intellettualimirava a ricomporre con slancio autocritico in un unico alveo delle espressioni cultu-rali riferibili alle diverse componenti della società. Questo almeno era l’intento di quel-la parte del mondo intellettuale che, non identificandosi con gli assetti politici domi-nanti, intendeva schierarsi a favore della costruzione di un’alternativa politica demo-cratica e ugualitaria strategicamente perseguita.

L’obiettivo primario di acquisire ai grandi circuiti della cultura questo patrimoniosecondo Leydi doveva realizzarsi tramite due principali strumenti diretti:15 da un latola divulgazione dei risultati della ricerca, anzi, quando possibile, della ricerca in quan-to tale, nel senso che essa veniva riproposta e sviluppata in diretta collaborazione congli studiosi e i protagonisti stessi della competenza musicale popolare, chiamati a pren-dere parte a laboratori di studio che consentivano di ascoltare dalle loro vive voci gliesempi della maestria impersonata dai musicisti e il loro stesso modo immediato di co-municarne il senso elaborato all’interno della cultura di appartenenza; dall’altro l’of-ferta concertistica resa presente e attuale attraverso gli spazi e le forme della più rigo-rosa ostensione della musica.

Possiamo apprendere direttamente da Roberto Leydi quanto il primo di questi stru-menti, il laboratorio di studio, fosse per lui un modello decisivo, a partire da quello dalui organizzato per anni all’interno di un’altra rassegna musicale di respiro internazio-nale, l’Autunno Musicale di Como, garantendo la presenza dei suoni dell’alterità ac-canto ai programmi di musiche «euroculte»:

226

Page 259: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Per il Nord, e più in generale e per molti aspetti della musica popolare, un momento im-portante sono state anche le varie edizioni dell’Autunno Musicale di Como negli anniSettanta.Il Laboratorio di Musica Popolare che si ripeteva ogni anno […] è stato un momento cheha avuto conseguenze in varie direzioni. Intanto è stato per noi, per chi lavorava, per i ri-cercatori, gli studiosi, un’occasione d’incontro, queste giornate a Como, in un ambienteestremamente favorevole, in un contesto molto vivace e anche molto confortante, per in-contrarsi e parlarsi, per presentare dei materiali e per ascoltare dei musicisti tradizionali edei cantori tradizionali. Non si è mai più ripetuta in modo così organico questa integrazio-ne fra il mondo dei ricercatori e degli studiosi, la presentazione di materiali registrati e di-scussioni, e anche diciamo, l’esibizione, usiamo ’sta parola anche se impropria, di musicistie cantori popolari, tutto in uno stesso contesto, anche abbastanza omogeneo. Che appunto,toglieva all’esibizione il carattere di esibizione, e alla parte di studio la pedanteria così delconvegno o dell’incontro di studio. E lì a Como, nei vari anni, sono stati invitati via via i suo-natori e i cantori che la ricerca in Lombardia e nell’Italia settentrionale veniva incontrando,e appunto ci fu Melchiade, ci furono la famiglia Bregoli, una famiglia di minatori della ValTrompia, ci furono le sorelle Bettinelli, e le ex mondine di Roncoferraro che furono portate[…] a Como in questi incontri… e servì moltissimo per la ricerca in Lombardia proprio per-ché era anche contemporanea e contestuale con lo svilupparsi dell’Ufficio per la Cultura delmondo popolare della Regione Lombardia, guidato da Bruno Pianta, che è stato certamen-te un’istituzione, è un’istituzione fondamentale, non solo per la Lombardia, non solo perl’Italia, e però anche la presentazione di musicisti, problemi musicali tradizionali, anche dialtri paesi. E così ci fu un anno che fu dedicato alla Gran Bretagna con la presenza di EwanMcColl e Peggy Seeger che […] tenevano un seminario, […] un workshop e anche poi il lo-ro concerto, un anno dedicato alla Grecia con musicisti cretesi, violinisti, cantori di rizitiko,[…] da Creta, […] lo splendido coro bizantino di Angelopulos di Atene. L’anno dedicatoinvece alla Croazia con la presenza di suonatori croati e istriani, con concerto in piazza maanche seminario, incontro, osservazioni di strumenti. Un anno dedicato alle zampogne e lìfu forse l’anno in cui la parte concerto ebbe, ha avuto il più grande sviluppo, perché furonoriuniti in quel concerto i migliori suonatori della Calabria, della Campania, della Macedonia,dell’Irlanda, della Bretagna, del Sud della Francia e via […]. Ecco quelli furono momenti di grande importanza […] per le nostre riflessioni, le nostre co-noscenze e per la creazione di un tessuto di ricerca fra ricercatori diversi, che forse dopo nonsi è più ripetuto. Va detto che in quegli anni queste iniziative erano sostitutive di quelle istituzionali che oggiesistono, non esistendo allora insegnamenti universitari, un luogo istituzionale dove un giova-ne che è interessato a queste cose ha diritto di venire […]. In mancanza di questi punti di ri-ferimento […] quelle iniziative assolvevano a uno scopo di questo genere. Devo dire che quel-le iniziative avevano in più però un calore, un calore morale anche, molto più forte che nonquello che si può realizzare anche con tutta la buona volontà dentro l’università italiana.16

Quanto ai concerti, il punto di svolta era stato per Leydi, ancora prima, un passaggiofondamentale e travagliato. Il punto di partenza fu l’esperienza dell’allestimento diBella ciao, ideato per il Festival dei Due Mondi di Spoleto del 1964 e poi portato in va-rie piazze anche grazie alla grande popolarità acquisita a seguito dei disordini avvenu-ti al primo spettacolo al Teatro Caio Melisso il 21 giugno di quell’anno; il punto di ar-

227

Page 260: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

rivo fu invece l’ideazione di una proposta in larga misura alternativa e vissuta comun-que come svolta, costituita dallo spettacolo Sentite buona gente allestito a Milano nelfebbraio del 1967 al Teatro Lirico nella stagione del Piccolo Teatro.

Bella ciao aveva rappresentato l’apice dell’esperienza fatta da Leydi nella prima fasedel movimento del folk revival proposto dal Nuovo Canzoniere Italiano. I protagoni-sti erano in gran parte17 di estrazione borghese e di formazione «colta», impegnati nelrecupero e nella riproposta di canti appresi attraverso le fonti scritte o le registrazionisul campo effettuate dalla ricerca. Si trattava dunque di soggetti che impersonavanol’«altro da sé», a cui intendevano restituire, come recitava l’epigrafe dello spettacolodettata da Franco Fortini (e riportata sulla copertina del disco 33 rpm che contenevai canti dello spettacolo), la voce che la storia dei potenti aveva tolto la possibilità di farudire. Bella Ciao tuttavia intendeva riscattare la cultura subalterna rispettandone la di-stanza ed evitando di scimmiottare l’alterità in modo diverso dalla rigorosa interpreta-zione scenica dei soli suoni e testi delle canzoni eseguite: nulla doveva interferire conquesto livello concentrato di significazione; gli elementi scenici, i gesti, gli abiti, tuttodoveva essere ridotto alla più neutra cifra di mero supporto della rappresentazionedrammatica costituita dai canti, dalla loro successione, dall’intreccio che essi creavanosemplicemente sviluppandosi lungo il percorso che intendeva toccare i momenti fon-damentali della vita del popolo, con i giochi di alternanza, di sostituzione, di raddop-pio, di ripieno delle voci, sino al tutti finale che chiudeva il crescendo in chiave di for-te affermazione «contestativa».18 Questa cifra che oggi potrebbe essere impropria-mente definita «minimalista», voluta da Leydi e dal regista Filippo Crivelli, segnava illimite oltre il quale secondo loro non era lecito andare, nella costruzione dello spetta-colo, senza costringere i canti e la loro forza a perdere efficacia in quanto espressionedella contemporaneità, della vita reale di allora, e non come forme rievocate da un al-trove sociale e temporale disperso nell’ambiguità simbolica. È lo stesso Leydi a riferi-re lucidamente di questo impegno dirimente, parlando di Bella ciao in opposizione al-lo spettacolo organizzato dal Nuovo Canzoniere Italiano nel 1966 e affidato alla regiadi Dario Fo, Ci ragiono e canto. L’opposizione qui richiamata non è da intendersi soloin termini di mera dialettica formale, poiché le divergenze a proposito dell’impianto diquesto ulteriore spettacolo/concerto – che avrebbe dovuto sviluppare il discorso e ilsuccesso di Bella ciao – costituirono proprio sui temi sopra indicati il punto di rotturatra il Nci e Leydi, con la conseguente uscita di quest’ultimo dall’organizzazione; segnoeloquente del fatto che per Leydi l’allestimento di spettacoli e concerti non costituivauna mera applicazione del lavoro di ricerca accumulato e travasato in un modo o nel-l’altro su di un palcoscenico: questi aspetti invece erano fondamentali affinché non sisminuisse il rigore e la consapevolezza comunicativa del fatto stesso di proporre a pub-blici urbani la fruizione di quelle musiche. Questa la rievocazione di Leydi di tali no-di problematici:

228

Page 261: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Determinante fu lo spettacolo di Dario Fo: Ci ragiono e canto perché… A un certo punto iomi ero posto un problema […]; avevamo affrontato il problema della voce. Bella ciao, peresempio, è uno spettacolo di estrema pulizia visiva perché Filippo Crivelli ebbe questa ideache la gente, i cantori, erano tutti vestiti con i loro vestiti. Non c’era costume. […] I canto-ri erano tutti vestiti con i loro vestiti. Cioè erano persone di oggi, quelli che erano anche perstrada, uscivano per strada vestiti in quel modo. In più la scena era completamente neutra:c’era un impianto all’italiana, quindi fondale e quinte, di iuta marrone. Poche luci, chi can-tava veniva avanti. Piccolissimi movimenti […] e funzionava molto bene. […] Le canzoniebbero un impatto provocatorio sul pubblico […] di uno spettacolo estremamente pulito,proprio austero, volutamente austero, proprio per lasciare che le canzoni parlassero e chevenissero da persone non truccate, non travestite […] Noi lì abbiamo rinunciato al movi-mento, in Bella ciao, proprio rinunciato al movimento, perché non sapevamo che movimen-to creare. Qualunque movimento sarebbe stato un movimento da concerto, da… non po-polare, voglio dire.[…] A Spoleto era Sandra che avrebbe dovuto cantare Gorizia; poi Sandra aveva mal di go-la: le abbiamo tolto due o tre canzoni fra cui Gorizia […], e la fece Michele Straniero. Oraio sostengo che se Michele avesse cantato Gorizia vestito da fante della prima guerra mon-diale, con l’elmetto e la mantellina, e la faccia bianca da morto, non sarebbe successo quasiniente. Perché trasferiva in un passato, trasferiva in un personaggio di teatro, in teatro si pos-sono dire delle cose. Ma Michele Straniero, con la sua giacchetta, un po’ grosso, che canta-va sul palcoscenico, era provocatorio. Perché era uguale a quelli seduti in platea, era uno del-la platea salito a dire delle cose che la platea, una parte della platea, non era disposta a sen-tire. Ecco. E quindi i costumi da contadinella che Dario fece… lo spettacolo era anche bel-lo ma era del tutto… e io lì mi dissociai dallo spettacolo, dissi «io non collaboro a questospettacolo».19

Significativo oltremodo, e ancora oggi non compreso da molti, è il dato secondo cui,per Leydi, ad aver scatenato il rifiuto di una parte del pubblico e poi la repressione po-liziesca non era stato solo il pesante carico contestativo di una canzone, anche se cosìintensa e spietata quale era Gorizia, ancora più nella versione adottata quella sera daStraniero: il vero profondo disagio e il conseguente rigetto violento da parte di quellacomponente reazionaria della platea era da ricercare innanzitutto nell’aver giocato sul-la comunicazione di una «presenza» del dato concreto, attuale, «normale» dell’alteri-tà cantata, non deviata minimamente verso l’allusivo scenico per mezzo di invenzioniteatrali. Un fatto comunicativo che rifletteva, ri-mediandola, sulla modalità della co-municazione popolare originaria; quindi, ovviamente, scelte sapienti di un grande pro-fessionista come Crivelli, votate ad una invenzione teatrale molto densa e non menocostruita di qualsiasi altra: ma l’invenzione e la costruzione agivano per via sottrattiva,lasciando a nudo il senso profondo che attraverso il montaggio delle singole perfor-mance dei cantanti non solo «informava» il pubblico, ma veicolava verso gli spettato-ri, volenti o nolenti, il senso primario che Leydi – il vero autore profondo dello spet-tacolo – aveva nel frattempo distillato all’interno della musica popolare raccolta dagliarchivi della memoria e dalla ricerca sul campo.

229

Page 262: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Queste valutazioni assunsero dunque un peso fondamentale per Leydi, non solo per-ché furono uno dei motivi di distacco dai suoi compagni di lavoro, con i quali peraltrole divergenze erano ormai molteplici (quelle fondamentali comunque ruotavano tutteattorno a questi nodi), ma anche perché esse segnavano una profonda evoluzione, chelo stava portando sempre più lontano dalla preminenza accordata ai contenuti ideolo-gici e dalla superficialità da cui il momento della riproposta, del revival, dell’agire «co-me se», stava mostrando di non sapersi affrancare. La superficialità era quella che ac-cordava ai reali detentori della competenza – e quindi dell’alterità – musicale popolareil ruolo di «informatori» o di «portatori», in ogni caso quello di ausiliari della ricerca,che a sua volta doveva incaricarsi di trasferire le «informazioni» o i «portati» da essi ri-cavati sul terreno dell’esecuzione, affidata a specialisti il cui principale tratto distintivoera quello della militanza. Affidare a questi interpreti con disinvoltura – o «creativa-mente», come era nel caso di Fo – il compito di rispecchiare e di riproporre anche i ge-sti, gli abiti (peraltro come è ovvio fortemente stilizzati), i comportamenti, costituiva agiudizio di Leydi un’involuzione che denunciava la mancanza di una seria riflessione suicompiti del revival, sui suoi limiti, sulla forza propulsiva che esso poteva esprimere e cheforse aveva già esaurito – entro l’esperienza di Bella ciao ormai conclusa – nella sua ten-sione all’essenzialità e alla centralità dell’elemento comunicativo, veicolo a sua volta nonseparabile dai contenuti formali, estetici, con cui la musica riproposta aveva il dovere dimisurarsi: magari per prendere atto di una crisi che riguardava drammaticamente il pro-blema della ri-proponibilità dell’alterità in quanto tale.

Curioso è il fatto che su questo punto diverga dal giudizio di Leydi quello espressoda Diego Carpitella, peraltro non direttamente partecipe alle attività e al dibattito in-terno tutto «nordico» e prevalentemente milanese che si svolgeva all’interno del Ncisui temi del revival, degli spettacoli e concerti e delle responsabilità che ne derivava-no. Intervenendo qualche anno dopo (ma a ridosso, temporalmente, del momento incui Leydi scriveva le cose riportate all’inizio di queste pagine, nel 1979), Carpitella cri-ticava l’assenza in Bella ciao di un’adeguata attenzione alla cinesica e prossemica, da luiritenute elementi inseparabili dall’orizzonte dell’oralità che caratterizza l’appartenen-za alla tradizione, e ne trovava invece un efficace ricorso nell’ideazione di gesti, movi-menti di scena e nuclei di drammatizzazione da parte di Dario Fo per Ci ragiono e can-to. Carpitella accreditò a Fo il merito di aver colto la rilevanza del gesto, della sua ma-trice culturalmente determinata, della sua forza espressiva e di aver contemporanea-mente compreso l’impossibilità di trasferire sul palcoscenico il gesto di lavoro o di«gioco» (come nel canto da osteria) se non in modo falso e ambiguo: era invece ne-cessaria «una ricostruzione, […] una reinvenzione che ridoni loro quella carica e quel-l’espressività che la semplice trasposizione non può strutturalmente riuscire ad ottene-re data la presenza della nuova dimensione prospettica e il diverso punto di vista in cuiè costretto lo spettatore».20 Il senno di poi, ma forse anche il senno di allora, credo

230

Page 263: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

possano suggerire una critica non di poco conto a questo scritto e al rilancio cheCarpitella ne faceva dieci anni dopo, riassumibile nel dubbio che sia fondata la con-trapposizione – se non solo sul piano «difensivo» – tra «trasferimento sul palcosceni-co» e «ricostruzione/reinvenzione», in generale e ancor più in particolare con riferi-mento al gesto, senza del quale l’idea stessa di teatro andrebbe a perdersi nelle nebbiedell’indeterminazione: quale «semplice trasposizione» non sarebbe inevitabilmente at-to scenico creativo impegnato (ci riesca bene o male è altro discorso) nel tentativo direcuperare la carica e l’espressività originaria? Come può una reinvenzione riscattareproprio il problema di base – se esso è fondato, beninteso – che riguarda la «falsità» el’«ambiguità» del trasferimento di un frammento di vita nello spazio e nella prospetti-va artificiale del palcoscenico?

Scrive invece Carpitella:

Ma l’edizione critica di Dario Fo voleva dimostrare che la contraddizione di questi spetta-coli «revivalistici», non era tanto in una manichea separazione tra revivalisti e ruspanti,quanto in un uso della «teatralità», decisivo per chi volesse fare cultura e politica sul palco-scenico. In effetti la «cinesica teatrale» di Ci ragiono e canto era travolgente, e «contestua-lizzava» con il movimento, la gestualità, il timbro della voce, l’ostentazione degli effetti, losberleffo dissacrante, ai confini della autoironia (nel senso soprattutto della goffaggine pre-sunta rustica).21

L’assunto di Carpitella era dunque chiaro: siamo in teatro, conta la «teatralità», pococonta se gli interpreti sono «revivalisti» o «ruspanti», risolve tutto la costruzione tea-trale e nello specifico la «cinesica teatrale» capace di fornire contestualizzazione. Anzi,i «ruspanti» sul palcoscenico non sono più tali, hanno subito un’inevitabile riqualifi-cazione come «attori», e stanno dalla stessa parte dei revivalisti, magari addirittura conminore efficacia nel contestualizzare per l’impaccio di una matrice non goffamente ru-stica, ma certamente non necessariamente padrona della «cinesica teatrale». Evidente-mente siamo lontani dal rovello che Leydi provava, con l’apporto di Filippo Crivelli,circa la possibilità di arrivare al pubblico suggerendo che, sì, la musica è di grande qua-lità e l’occasione spettacolare deve saperla trasferire con il massimo di efficacia, e inol-tre, sì, è altrettanto vero che il mondo che sta dietro a quei canti merita di essere con-siderato e scoperto con partecipazione e simpatia in tutta la sua complessità culturale;e però, se tutto ciò è vero, quel mondo tuttavia resta fuori dal teatro, e sul palcosceni-co perciò se ne deve fornire un’immagine essenziale, che tenga aperta l’inquietudinedell’alterità, ancorché la regia conduca ad emozioni travolgenti, senza cadere nella ten-tazione della sua rappresentazione – dissacrante, autoironica, ostentata che sia – «incornice». Dal lato di Fo, e Carpitella lo rileva appieno, c’era il suo teatro; dal lato diLeydi-Crivelli c’era un’opzione brechtiana, non annegata nel compiacimento della fin-zione giocata con «i costumi da contadinella che Dario fece» per un pubblico da con-

231

Page 264: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

quistare a bandiere spiegate, ma mantenuta nella dimensione da «oratorio profano» incui la «staticità convenzionale» (per Carpitella, a cui si devono le due definizioni, in-tesa come opposto della «cinesica teatrale») cercava di lasciare alla musica il peso del-la comunicazione, compresa anche la dichiarazione implicita del limite, in quella sede,di sostituire un soggetto alludente a un soggetto alluso; ma con il fine primario di af-fermare che ciò che si stava comunicando rappresentava una parte del mondo esclusadai canali della cultura dominante, nella quale essa faceva irruzione rivendicando l’ap-partenenza al mondo di tutti, della società che si intendeva cambiare proprio nelle sueragioni di dominio, di esclusione, di separatezza assolutista in campo culturale. Duemessaggi ben diversi tra loro: ma tuttavia entrambi, nei termini suddetti, legati alla di-mensione interna alle opzioni della drammaturgia, dell’arte teatrale: staticità o cinesi-ca, sberleffo o oratorio, sovraccarico o sottrazione, sono tutte possibilità legittime nel-la concezione di un’operazione drammaturgica. E infatti il problema stava al di fuori:stava proprio in quella diversa concezione del revival e dei suoi compiti «ideali», dellimite entro cui poteva esercitare la sua funzione propositiva e pedagogica, oltre il qua-le occorreva fermarsi per comprendere che cosa era nel frattempo emerso, grazie allospiegamento della ricerca ma anche in conseguenza di quella stessa funzione di rottu-ra che il revival aveva saputo attivare. Dopo Bella ciao, infatti, per Leydi non aveva sen-so replicare quell’idea, ancor meno se la si peggiorava attraverso una stilizzazione cor-riva: era giunto il momento, per le grandi produzioni, di passare alla forma concerto,non senza aver recuperato lo strumento della spettacolarizzazione a vantaggio dell’esi-bizione sul palcoscenico dei rappresentanti delle tradizioni popolari che abitavano an-cora e spesso con grande autorevolezza nella realtà di un’«altra Italia» delle tradizioni,a cui il movimento urbano progressivo aveva fornito una sponda e un riconoscimentonon strumentali né effimeri, aprendo anche contemporaneamente spazi fisici e luoghiculturali dell’attenzione nel cuore delle città ipermoderne.

Nacque così in Leydi l’idea di allestire una sorta di Bella ciao della tradizione viven-te, uno spettacolo più antologico e costruito a mosaico di quanto non fosse stato il pro-totipo revivalistico per il semplice fatto che si trattava di portare sul palcoscenico di-verse realtà rappresentative di aree, forme, linguaggi e funzioni tutte molto diverse traloro e non di cucire un percorso ideale attraverso i luoghi della vita sociale e affettivadel popolo ripresa e messa in scena dagli stessi interpreti lungo un cammino unitario,come per l’appunto era stato fatto con Bella ciao.

Fu così che nel cartellone della stagione 1966-67 del Piccolo Teatro di Milano figu-rò uno spettacolo/concerto straordinario per originalità della proposta, per qualità deicontenuti e per le novità che introduceva, non solo entro le convenzioni e le speri-mentazioni teatrali, ma anche nell’ambito della nascente etnomusicologia italiana: sitrattava di «Sentite buona gente. Incontri con il mondo popolare – prima rappresenta-zione di canti balli e spettacoli popolari italiani».

232

Page 265: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Fu questa la prima iniziativa basata sulla presentazione al pubblico di una delle piùprestigiose istituzioni culturali d’Europa (quale era all’epoca il Piccolo Teatro di PaoloGrassi e Giorgio Strehler) di una rassegna di musica popolare rigorosamente costrui-ta invitando alcuni tra i suoi migliori rappresentanti – di cui in quel tempo vi era ade-guata conoscenza a seguito delle ricerche da poco sistematicamente avviate sul campo– delle autentiche tradizioni di varie zone d’Italia. Dunque non interpreti del folk re-vival, ma cantori, strumentisti e danzatori interni ai flussi della comunicazione orale.Per il successo che lo spettacolo incontrò, per le sue stesse caratteristiche di svolta, sitrattò di un avvenimento fondamentale nella storia della conoscenza e della divulga-zione di questa parte così rilevante del patrimonio culturale del nostro paese: in con-fronto a Bella ciao, la cui diffusione – soprattutto grazie all’incredibile successo com-merciale e culturale del disco 33rpm che riprendeva i contenuti dello spettacolo – fucertamente determinante per creare o consolidare un costume culturale, sino a fonda-re cliché e stereotipi penetrati nel profondo delle coscienze. Non v’è dubbio che Sen-tite buona gente abbia rappresentato un modo più maturo e complesso di affrontarenon solo la questione della conoscenza di importanti repertori, ma anche e soprattut-to quella della loro collocazione all’interno della riflessione tout court sulla cultura, lacomunicazione, i linguaggi, le classi e le discontinuità sociali e culturali. Fu in altri ter-mini la prima proposta di riflessione «in pubblico» sull’alterità culturale in musica sen-za altre mediazioni (anche se ovviamente non è poca cosa) se non quella fornita dal me-dium teatrale e dalla «dislocazione» contestuale, e un altrettanto precoce tentativo didare una risposta pratica ai grandi interrogativi problematici che lo «scandalo» del-l’alterità pone comunque.

Fu anche la prima e tra le più fruttuose collaborazioni tra i due padri fondatori del-la moderna etnomusicologia italiana, Leydi e Carpitella, condotta in diretto confrontocon l’intellighenzia italiana dell’epoca, grazie a un veicolo prestigioso qual era ilPiccolo Teatro di Milano: il che ha una sua importanza indiscutibile anche a prescin-dere dalle non lievi divergenze tra i due studiosi, ivi compresa quella specifica di cui siè tentato di dare conto qui sopra, e anche se a quella collaborazione è poi seguito perun periodo piuttosto lungo un ulteriore distacco nella valutazione di prospettive, me-todi e implicazioni dell’etnomusicologia e dei suoi compiti non solo accademici.

Lo spettacolo di allora vide come protagonisti i seguenti rappresentanti di diversetradizioni culturali: gli Spadonari di Venaus (Piemonte); la Compagnia Sacco di Ceria-na (Liguria di Ponente); le sorelle Bettinelli (Lombardia); i violinisti e i ballerini di SanGiorgio di Resia (Friuli); i cantori e strumentisti di Carpino (Puglia-Gargano); i musi-coterapeuti del tarantismo di Nardò (Puglia-Salento); i Tenores di Orgosolo (Sar-degna-Barbagia); i suonatori di Maracalagonis (Sardegna-Campidano).

Anche a questo proposito è molto interessante recuperare la testimonianza direttadi Roberto Leydi:

233

Page 266: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Beh, uno dei problemi che la ricerca [aveva suscitato], […] era stato quello se era possibile,se era lecito, se era giusto operare delle rifunzionalizzazioni di questa musica. Cioè questamusica stava perdendo, e in alcuni casi aveva già perduto, le sue funzioni tradizionali. Nontanto i suonatori che ancora suonavano per il ballo, anche se ormai con piccolo, minor spa-zio per i balli tradizionali e più spazio per il liscio, gli stessi suonatori… ma soprattutto peril repertorio che avevamo così… di lavoro, legato a dei lavori della campagna che ormai nonesistevano più o al repertorio domestico, quello delle ballate, che era proprio di famiglia, dicasa, di stalla o di camera, ecco. Questo si stava… si spegneva. Era lecito operare per portare queste musiche fuori dal loro contesto che era quello del cor-tile della cascina dove si faceva la spannocchiatura o quello del ballo di paese in montagna…portarle di fronte a un pubblico di città, in teatro, diciamo, su un palcoscenico?Beh, ci abbiamo pensato un po’ tutti, abbastanza. E poi quello che ha deciso che era possi-bile, e forse anche giusto farlo, è stato proprio il rapporto con gli stessi suonatori e i canto-ri, che abbiamo sentito che erano persone pienamente, non solo disponibili in senso televi-sivo, banale, il piacere di figurare, il piacere di andare in un teatro di Milano o di città a far-si vedere… tutt’altro, era invece l’incontro con la ricerca, con noi [che] aveva rafforzato, ose non rafforzato, sviluppato, aveva portato a livello di consapevolezza la coscienza di esse-re portatori di cultura e di un patrimonio di valore. Non vendibile ma che era giusto che po-tesse anche essere conosciuto da altri. […]E allora davanti a questa consapevolezza è caduto il sospetto di fare un’operazione da zoo, diportare cioè dei selvaggi, degli indigeni davanti a un pubblico del tutto lontano da quel mondo. Ed è così nato anche quello che è stato, io credo, il primo grande concerto, forse il primoconcerto, il primo spettacolo perché non era solo un concerto, in palcoscenico, tutto consuonatori e cantori tradizionali. Bene: fu Sentite buona gente che fu promosso dal PiccoloTeatro di Milano; [fu] Paolo Grassi che l’ha voluto, fu fatto al Lirico, per quindici giorni,quindici sere consecutive in cui vi erano i suonatori delle terapie del tarantismo, vi erano isuonatori con chitarra di Carpino, vi erano i suonatori di danze delle spade di Venaus inPiemonte, vi erano le sorelle Bettinelli portatrici di un gran repertorio di canzoni della ca-scina e della risaia padana, vi erano i Tenores di Orgosolo col ballo, vi erano i suonatori e iballerini della Val di Resia, antico-sloveni del Friuli, vi erano i cantori di Ceriana nell’Appen-nino ligure, ecco, in palcoscenico, portati in palcoscenico, senza una regia, semplicemente,con una minima disposizione delle sedie in maniera che ognuno poteva fare quello che vo-leva: e fu per loro una grande festa. E fu anche un grande successo tant’è vero che fu pro-lungato di quattro o cinque giorni per il grande successo che ha suscitato.E anche lì, ho dovuto constatare allora che il successo era autentico, non era esotico. Oggi,certe volte, davanti a molti concerti che oggi si fanno, indiani, africani, […] o insomma quel-lo che è, vedo che il tipo di adesione o di partecipazione è veramente […] molto più super-ficiale. Lì c’era[no] veramente momenti di intensa commozione. Quando Peppino Marotto, con i Tenores di Orgosolo, veniva alla ribalta, e Peppino Marottoè questo straordinario personaggio di Orgosolo, questo straordinario pastore di Orgosolo,che diceva che aveva fatto cinque anni di carcere e sei anni di confino per fatti di banditi-smo – teniamo conto che Peppino non aveva fatto fatti di banditismo, era un organizzatoredel Partito comunista di Orgosolo che si era adoperato contro il banditismo ma è stato ov-viamente, anche per ragioni politiche, coinvolto – bene, correva un fremito nella sala, chenon era la paura del brigante perché il povero Peppino sul palcoscenico non poteva fare ilbrigante, era l’intensità della vita che veniva in palcoscenico, non era un attore che diceva iosono stato al confino, era un uomo ed era lì a cantare con gli altri.

234

Page 267: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

[…] Quando i musici del tarantismo suonavano, e lì si trattava di dare senso a questa musi-ca perché in sé era una tarantella, molto bella, vivace, ma una tarantella, e allora sul fondo,un grande schermo, proiettavamo il filmato di una vera seduta di tarantismo in cui c’eranogli stessi suonatori che erano in palcoscenico, li si vedeva anche sullo schermo che suonava-no. La musica la producevano loro, ma era assolutamente identica, andavano benissimo[…]. Abbiamo sempre cercato di creare questa misura e questo ha funzionato. […] La ri-cerca poi ha portato a risultati molto positivi […]: un violinista come Melchiade Benni, chenon suonava da quindici o sedici anni, si è rimesso a suonare e ha suonato tutti i giorni del-l’anno, quasi, nei suoi paesi, non solo in qualche teatro o in qualche concerto… nei suoi pae-si tutte le settimane; le sorelle Bettinelli, che al loro paese vicino a Crema erano [chiamate]«le turche», in senso un po’ dispregiativo, ed erano considerate delle stravaganti che canta-vano sempre, a seguito dello spettacolo il sindaco del paese che le aveva sempre guardate co-me delle «matoche», un po’ stravaganti, le ha invitate nella sala del Consiglio comunale, da-vanti a tutto il Consiglio comunale schierato. Sono cose se si vuole un po’ ingenue, […] ma-gari anche un po’ ridicole in certi momenti, però era il segno… e difatti le Bettinelli da allo-ra hanno continuato a cantare.22

Come è evidente, gli aspetti decisivi qui rievocati e ri-valorizzati sono quelli dell’im-patto dell’alterità «in carne e ossa» con il pubblico urbano di una raffinata istituzioneteatrale, e l’effetto di recupero di dignità e di prestigio, il riscatto prodromo di una ve-ra e propria reviviscenza, in rapporto con le stesse condizioni locali di partenza: segnoche la «rifunzionalizzazione» e la rimediazione agirono su terreni già resi precaria-mente praticabili, in continuità con il passato, dall’incipiente crisi della tradizione edelle sue catene ininterrotte o presunte tali. Perciò, di nuovo, Roberto Leydi stava in-tervenendo con decisione nella realtà di cui si occupava come studioso e come intel-lettuale attento alle dinamiche culturali, e lungi dal ritrarsi in posizioni disfattiste o«neutraliste» in rapporto con le trasformazioni in atto, riteneva giusto e produttivo,nell’interesse composito delle persone coinvolte, delle loro comunità di appartenenza,della ricerca stessa, della cultura diffusa attraverso i canali della più avveduta circola-zione culturale, impegnarsi ad indirizzare i flussi delle innovazioni verso esiti da lui ri-tenuti progressivi, e non solo in senso risarcitorio: in tal modo si acquisiva alla collet-tività una parte della cultura del paese che rivendicava riconoscimenti, attenzioni e,perché no se ciò poteva servire alla sua salute, ricontestualizzazioni e rifunzionalizza-zioni. Restava aperto il problema, o il rischio, dello «svilimento», dello «svuotamento»,della «mercificazione», della perdita del valore culturale delle pratiche messe in attoma anche degli attori stessi, tolti dalla loro dimensione naturale ed esibiti nel ruolo delbuon selvaggio per solleticare curiosità e partecipazione affettiva del pubblico bor-ghese; nonché il rischio che pratiche culturali nate in funzione di apparati rituali, fe-stivi, simbolici, al di fuori del loro contesto perdessero anche di significato.

Queste preoccupazioni – che all’epoca, in particolare per alcune delle questioni so-pra elencate, erano molto più radicali di quanto oggi si possa immaginare – furono ben

235

Page 268: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

presenti agli organizzatori Leydi e Carpitella, i quali concordarono un testo diffuso nelprogramma di sala che dava una precisa risposta almeno ad alcune delle domande re-lative ai soggetti coinvolti: la formula risolutiva, che corrispondeva a una precisa e acu-ta messa a fuoco di un aspetto della realtà dei soggetti protagonisti dell’elaborazioneculturale entro le società tradizionali precedentemente non percepito in tutta la sua ri-levanza (e ancora sottovalutato da non pochi «osservatori» appannati), si basava sulconcetto di «scholae cantorum» della tradizione orale:

Potevamo «mettere sulla scena» l’informatore cosiddetto (e maldetto) «spontaneo», cioè ilcontadino, il pastore, il marinaio, il montanaro, la mondina, magari l’operaio di fabbrica, per-sino scelti a caso, con il loro piccolo o grande patrimonio di canzoni, apprese in vari momen-ti o ricordate dall’infanzia. In una parola potevamo trasferire sul palcoscenico del Teatro Liricoi soggetti consueti dell’indagine etnologica, appunto gli informatori, quei «portatori di folklo-re» che riforniscono le raccolte dei ricercatori, con esecuzioni spesso incomplete, approssima-tive, talvolta senza forza comunicativa ma comunque interessanti ai fini dello studio. È a que-sto punto, però, che si rilevano due piani storicamente differenziati: quello dell’informatore acosiddetto livello etnografico e quello dell’informatore che potremmo definire, impropria-mente ma approssimativamente, «cosciente». Mentre il primo può servire come soggetto distudio, il secondo è protagonista attivo della tradizione, non «consumatore» ma «creatore»(nel senso che questo termine ha nel discorso sul «mondo popolare»), conservatore, diffusore,propagatore di cultura. Inoltre l’informatore «spontaneo» non ha, perché non può e non de-ve avere, dati obiettivi di «spettacolarità», presenti invece, per una funzione, nel «portatore co-sciente» e non soltanto rispetto al pubblico urbano e non popolare, ma nell’ambito stesso delsuo mondo, della sua cultura, della sua classe. Lo spettacolo intende dunque presentare al pub-blico rappresentanti di questa fascia di informatori consapevoli e attivi, che potrebbero anchedefinirsi come le «scholae cantorum» della tradizione. È una fascia difficile da individuare eseguire con coerenza e la cui definizione è possibile nella misura in cui ci sono chiari i punti diriferimento offerti, da un lato dall’informatore «spontaneo», dall’altro dai prodotti dell’elabo-razione «folkloristica», cioè idealistico-ricreativa. Differenti sono i caratteri che contraddistin-guono queste «scholae cantorum» della tradizione musicale e coreutica dei contadini, dei pa-stori, dei marinai. Anzitutto uno dei caratteri tipici è che i componenti di queste «scholae» so-no ampiamente riconosciuti dalla stessa comunità alla quale appartengono come i più bravi ecome coloro «che sanno cantare» e «sanno suonare». Questo riconoscimento è di per sé ele-mento spettacolare, in quanto il loro suonare, cantare o danzare è spettacolo (o è stato). Altroelemento tipico è che nell’ambito dei componenti di queste «scholae» di musica tradizionale,si ha una differenza e selezione delle attitudini musicali, attraverso lo strumento musicale. Cioèchi suona lo strumento ha già delle attitudini particolari rispetto alla diffusa e cosiddetta spon-tanea «vocalità». È possibile, ad esempio, in questi gruppi, operare la sostituzione delle voci(fino ad un certo punto), ma è quasi impossibile sostituire il «suonatore». Ciò significa unaaderenza incisiva nella tradizione. Bisogna quindi considerare che i riconoscimenti suddettifanno sì che il repertorio di questa fascia, che potremmo definire semiprofessionale, lasci fuo-ri alcuni modi espressivi tradizionali; la ninna-nanna, il lamento funebre, alcuni canti di lavo-ro, ecc.: cosa questa comprensibile in quanto non tutto il repertorio musicale tradizionale è«spettacolare».23

236

Page 269: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

In confronto con gli strumentisti, in modo leggermente diverso si poneva il problemaper gli specialisti del canto, tra i quali tuttavia era comunque possibile distinguerequelli appartenenti essi stessi alle «scholae»; in ogni caso l’individuazione di questapratica elitaria, professionale, abituata per sua funzione alla spettacolarità non elideva,anzi, accentuava l’attenzione alla qualità del linguaggio, grammatica e sintassi dellacompetenza musicale, non solo in termini di virtuosismo specialistico ma anche in rap-presentanza di una complessiva elaborazione e riproduzione collettiva di forme «altre»dell’elaborazione musicale:

È altrettanto chiaro che mentre la fascia dell’informatore cosiddetto spontaneo è più resi-stente a tramontare, quella delle «scholae» corre più rischi, perché una volta che ha conclu-so la sua vita «quello» zampognaro, «quel» launeddaro, o «quel» violinista, o «quel» flauti-sta, ecc., un certo tipo di tradizione rischia di finire definitivamente. In altri termini si verifi-ca una situazione drammatica dal punto di vista della cultura tradizionale, e musicale in par-ticolare: la «schola» è uno strumento di conservazione, grazie alla bravura dei cantori e deglistrumentisti; ma nello stesso tempo, poiché la «schola» è la più soggetta alle mutazioni socia-li e culturali (oltre che a quelle biologiche), una volta che i suoi componenti finiscono e noncreano dei nuovi giovani suonatori-cantori, si ha la fine di un certo tipo di repertorio.24

Gran parte di questo testo, lo si capisce dallo stile, da espressioni inconfondibili, da uncerto piglio a volte spigoloso, è di pugno di Carpitella: anche se ovviamente i due fir-matari lo elaborarono insieme, qua e là appaiono passaggi di mediazione tra posizioniche restavano non del tutto allineate e in qualche caso è possibile arguire che Leydi ab-bia dato spazio al collega romano per assicurarsi la sua solidarietà scientifica, anche ascapito di notazioni che egli non avrebbe condiviso nel dettaglio. Ma ciò che mi pareinteressante è la comune adesione alle finalità strategiche dello spettacolo, alle quali sifa più volte riferimento in piena consapevolezza della problematicità obiettiva di alcu-ni aspetti non secondari; tra queste finalità emerge l’intenzione di «evidenziare» il ruo-lo e le peculiarità delle «scholae»:

Che ne sarà quando avrà finito la sua vita la tamburellista di Nardò, il violinista di Nardò, illauneddaro di Maracalagonis, Villaputzu o Cabras? E considerando fenomeni di emigrazio-ne, o gli effetti dei mass-media, è sempre più improbabile che queste «scholae» formino deinuovi quadri. Ecco perché questo spettacolo, che vuol essere il primo di una serie, tende aevidenziare una fascia che dal punto di vista musicale è forse quella di maggior rilievo, mala cui esistenza, in una società moderna, è la più rischiosa. Considerando i caratteri tipici diquesta fascia e la loro intrinseca spettacolarità, viene anche a cadere il vecchio adagio sullalegittimità di portare «fuori dal contesto» alcune espressioni musicali tradizionali. Infattiquella spettacolarità insita nell’ambito del sistema cosiddetto popolare, è una spettacolarità«universale», cioè valida anche al livello di altre classi sociali e diverse strutture economiche.Cioè è una spettacolarità «alla pari».25

237

Page 270: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

E ancora, con acuta connessione tra valorizzazione dell’«irriproducibilità tecnica» deimodi esecutivi e capacità dello spettacolo di metterne in evidenza la centralità all’in-terno della più generale trasposizione sulla scena dell’alterità culturale di tutti i pro-tagonisti:

In questa fascia si evidenzia anche un’alterità tipica delle espressioni tradizionali dei conta-dini, dei pastori, dei montanari, ecc. Il timbro dei cantori di Carpino e di Orgosolo è irri-producibile al di fuori di quel sistema comunitario: un «fare il verso» rischia di diventare ri-dicolo oppure monotono. Cioè sono modi di cantare effettivamente etnici. Il modo di suo-nare le launeddas comporta una tecnica di emissione del fiato, che è frutto di una lungascuola. La tecnica terapeutica del gruppo di Nardò è in possesso di uno «swing», la cui ri-producibilità è pressoché impossibile. […]Lo spettacolo non vuole quindi essere un brutale lancio «sulla scena», senza alcun punto divista critico: questa premessa anzi dimostra un punto di vista unitario ed un criterio. Ma nel-lo stesso tempo vuole far sì che lo spettacolo sia «normale», sia pure nella eccezionale con-suetudine in cui si esprime. Cioè non vuole avere nessun tono di beneficenza popolare, nédi gravame ideologico: vuole dire che esistono, anche in Italia, modi diversi di fare musica,non scritta, ma non per questo meno valida. In che rapporto sta tutto questo con un certorevival folklorico attualmente operante in Italia? Non certo nello sfoderamento di «docu-menti filologici», i quali possono essere «utili» ma non per questo validi spettacolarmente(poiché in tal senso ne nascerebbe l’esoterismo del «tutto va bene», basta che sia popolare);il rapporto vuol essere quello di un modo di far musica che nessun ricalcatore-folklorico puòintegralmente rifare. Semmai può rappresentare, questo spettacolo, uno stimolo critico aconsiderare queste forme di espressione musicale, e forse anche a farne un punto di riferi-mento per invenzioni in prima persona. Egualmente il testo verbale dei canti riflette fino adun certo punto una determinata realtà, passata o presente, del mondo contadino, pastorale,ecc. Lo riflette di più, spesso, l’espressione musicale inimitabile. 26

Quindi una spinta a prendere atto da vicino e dall’interno per poter eventualmenteprelevare da questo contatto la base di operazioni creative esterne al mondo popolare.Per Leydi, però, anche e forse soprattutto un’occasione di verifica della positiva in-fluenza che la ricerca, la conseguente promozione di occasioni di riconoscimento col-lettivo ha determinato. Tornando al suo diretto commento ne possiamo prendere attoin modo immediato:

Ce ne sono moltissimi di casi in Italia, e non solo al Nord naturalmente, in cui la ricerca, ri-proponendo dei suonatori tradizionali che ormai stavano perdendo ogni funzione, ridando-gli una funzione questa volta di tipo culturale e non più soltanto sociale in termini della co-munità, ma culturale rispetto alla cultura nazionale, beh non li abbiamo strapp[ati]; forse uncaso o due è avvenuto in cui questa operazione ha prodotto dei mutamenti, delle alterazio-ni eccetera, ma nella stragrande maggioranza dei casi questi suonatori hanno continuato asuonare meglio di come suonavano prima perché questa è la cosa più importante. Cioè daquando, per esempio, certi gruppi di cantori, anche di canto liturgico o para liturgico, comein Sicilia o come in Sardegna, sono anche chiamati a cantare fuori, cantano meglio. Non c’è

238

Page 271: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

dubbio che oggi cantino meglio. Le registrazioni che abbiamo di certi gruppi di cantori de-gli anni Cinquanta/Sessanta erano già in fase di disfacimento, forse avevano una robustezzacomunicativa, forse, più forte, però si sentiva che ormai si stava spegnendo. Adesso cantanobenissimo e quindi la ricerca è servita anche a questo. Con il coraggio che io ho avuto, nonsolo io, anche altri, di operare queste rifunzionalizzazioni parziali, non totali, non farli di-ventare dei divi dei folk festival, ma di dare a loro la gran soddisfazione di essere portatoridi cultura, davanti a un pubblico che ignorava tutto questo e che dentro di sé, prima di quel-l’incontro, aveva anche, nel migliore dei casi, un po’ di simpatia per questi bravi vecchietti,questi bravi popolani, così spontanei, così simpatici, ma che certo non potevano essere guar-dati come persone degne, pienamente degne, per la loro musica, di star sul palcoscenico del-la Scala.27

Quindi una sensibilità mai venuta meno per la dignità «civile» delle operazioni pro-motrici di intrecci tra spazi istituzionali e capacità artistico-musicali degli specialisti delmondo popolare, contro l’estremismo di chi paventava la perdita di identità degli «al-tri»; contro il timore che lo stesso Carpitella, più tardi (nello scritto già citato del 1979)tornava ad esprimere anche in rapporto con Sentite buona gente, che lo «spazio tea-trale» in quanto tale costituisse una costrizione, imposta dalla sua irriducibile naturaborghese; contro, infine il radicalismo apocalittico che rifuggiva dal «consumismo» oche vedeva ovunque vi fosse una presenza istituzionale la minaccia dell’«integrazione»dell’antagonismo culturale: da qui la perseveranza in una pratica che è divenuta sem-pre più fermamente una vera e propria linea culturale e scientifica, all’interno dellaquale si è affinato sempre di più l’orizzonte teorico in cui la diversità musicale è statapensata, messa a confronto, esaminata in modo anti-dogmatico, stimolata ad uscire da-gli schemi conformistici, per restituirne in modo sempre più profondo la complessitàirrinunciabile. A questo proposito vorrei chiudere questo contributo riportando un’al-tra frase da me scritta su richiesta di Leydi nel 1980, a commento di ciò che bolliva inpentola a «Musica nel nostro tempo»; frase che, ricordo con orgoglio, gli piacque mol-to quando la lesse e la commentò; in questa frase riferivo del fatto che in una rassegnain cui si mescolavano cose della tradizione popolare e cose del repertorio «culto»,

[…] i musicisti popolari presenti alla rassegna […], hanno finito per assumere un ruolo diguida, non solo per la loro indubbia maestria e per la insostituibile presenza umana che han-no portato sul palcoscenico, quanto soprattutto per il privilegio di essere depositari di unavera e propria scienza musicale viva ed operante, rispetto al fare musica travagliato dagliscrupoli della filologia e dai problemi dell’interpretazione in cui si dibattono inevitabilmen-te i musicisti «culti». Si è così assistito al fenomeno singolare e significativo per cui i ruoli re-ciproci dei due ambiti culturali e sociali contrapposti si sono rovesciati, e quella che passaper essere la musica subalterna è apparsa in realtà l’inveramento delle tensioni presenti nel-la musica scritta.28

239

Page 272: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

1 R. Leydi, Dalle «fortune» del passato ai «fenomeni» del presente, in «Laboratorio musica», anno II,numero 13, giugno 1980, pp. 14-16:16. 2 Ibid., p. 14.3 Ibidem.4 Ibid., p. 15.5 Ciò vale malgrado la storia della disciplina – essa stessa peraltro largamente ignorata anche dagli in-tellettuali che non siano del ramo – conosca ormai più di un secolo nel suo percorso moderno, e in-dipendentemente dal fatto che l’etnomusicologia stessa abbia saputo esercitare nei confronti della cul-tura del nostro paese, in alcuni periodi della sua storia anche recente, un influsso non trascurabile ecomunque molto più rilevante di quello che si può ammettere che sia oggi meritevole di guadagnarsi.Curiosamente il grande sviluppo che ha caratterizzato negli ultimi quindici anni circa la circolazionedi informazioni e di proposte di ascolto relative alle musiche «altre», ha sì richiesto un più intenso ri-corso alle istruzioni per l’uso, ma la qualità e la stessa identità personale-scientifica degli «addetti ailavori» chiamati a questa funzione ha largamente assunto un carattere approssimativo e infingitorio,comunque dilettantesco, tale da far impallidire al confronto la discutibile e interessata tendenziositàcon cui le istruzioni per l’uso dei farmaci ha guadagnato loro l’eloquente definizione di «bugiardini».Sulla storia del percorso che l’etnomusicologia si è faticosamente aperta nel tempo all’interno dellementalità e dei sistemi culturali dominanti, si veda il prezioso contributo del protagonista di questoscritto, e cioè di R. Leydi, L’altra musica, Lim-Ricordi, Lucca-Milano 20082.6 Questo termine ha diverse accezioni, ivi compresa la più densa e metalinguistica elaborata in chia-ve filosofica da Gilles Deleuze in alcuni scritti ormai affidati alla storia del pensiero occidentale; nonse ne rievoca qui la presenza in modo esplicito per un vezzo, ma perché tra le tante implicazioni eser-citate nel pensiero deleuziano ve ne sono un paio che non sono per nulla estranee al pur banale e nonmetaforico significato che si attribuisce, ancorché fugacemente, al concetto in questo scritto.7 Sempre meno o del tutto assente, peraltro, nelle sale da concerto e nei teatri convenzionalmente de-dicati alla cosiddetta musica «classica»; la forma concerto prevalente varia dai grandi raduni festiva-lieri alle rassegne agganciate a convention politico-sindacali o a momenti festivi comunitari, tradizio-nali o neo-tradizionali che siano, sino alle esibizioni nei residui folk-club di alcune grandi città. Unaforma specifica di crescente fortuna è quella che gioca sul gigantismo delle sue componenti fonda-mentali, e ne è emblema insuperato (anzi, vero e proprio inventore della formula) il ciclo della «Nottedella taranta» salentino, soprattutto nel suo evento finale, il «concertone» di Melpignano, che si gio-va e si vanta della più grande orchestra «popolare» (in realtà costituita da un ammasso ipertrofico distrumenti un tempo definibili «popolari» o intesi come tali in base a molteplici e tutte discutibili fi-liazioni o analogie «socio-organologiche»). A sentir dire, sembra che sia la spettacolarizzazione dimassa a generare il gigantismo dell’orchestra, del palco ecc., e quindi a condizionare il tutto sotto ilsegno della ridondanza. È senz’altro anche questo, ma non è solo né soprattutto questo. È l’idea difondo che parte dal gigantismo e lo porta ad inserirsi nell’unico luogo ove può essere realizzato, e cioènello spazio del contenitore smisurato, del «concertone» milionario. L’idea è quella di fare l’orchestra,avendone finalmente i mezzi; di fare con l’orchestra grande finalmente una grande musica: sembra ilfamoso, vetusto, spot del pennello (ci vuole, per realizzare un grande concerto un’orchestra grande ouna grande orchestra? – e per fare una «grande» musica, ci vuole un grande concerto con una gran-de orchestra o basta un concerto-grande/alias «concertone», inevitabilmente fatto da un’orchestragrande?). Classica invenzione impresariale: ma poi ti arrivano i soliti non-connaisseurs istituzionali, igiornalisti, i «critici» tutti invariabilmente incardinati, nel migliore dei casi, in quella sezione distac-cata della competenza popular-musically-established nota come «folk»: i quali ogni anno, invariabil-mente, arrivano a dire, quasi increduli, che la cosa somiglia sempre più a un raduno di massa, inten-dendo con ciò a un concerto «vero». Ovvero a un concerto di musica pop. Con il che si svela il fon-damentale indirizzo politico culturale che fa da traino a queste operazioni, incentrato su due dogmiprincipali: il primo, che si sta compiendo un’opera di emancipazione, poiché si tira fuori la musica po-polare dal suo ghetto, dismettendone i tratti che nel ghetto la terrebbero rinchiusa; il secondo, che illimite da cui ci si riscatta non è solo esteriore, ma riguarda, malgré soi, il nucleo sottrattivo, margina-lizzante di questa musica, insediato nella misura della sua marginalità «introiettata». Il gigantismo cioècomporta l’uscita dalle ristrettezze di linguaggio, di forme, di capacità spettacolare, di qualità esteti-ca: diamole i mezzi, e la musica popolare perderà pure quella stravagante complessità tanto cara a po-

240

Page 273: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

chi esoterici etnomusicologi «puristi», potendo in cambio acquisire la vera complessità garante delsuccesso, che sarebbe quella della moltiplicazione delle risorse, delle sorgenti sonore, dei ruoli esecu-tivi, a partire da quello dell’arrangiatore e del maestro direttore-concertatore d’orchestra.8 Ulteriore gioco di specchi e distorsione paradossale: dopo anni in cui una parte delle scienze uma-ne, etnomusicologia compresa, si è spesa in battaglie a favore di una «autenticità» che l’altra parte delcampo scientifico si affannava a decostruire, il tutto riferito agli «oggetti» della ricerca, ci si ritrova difronte a questa contrapposizione squilibrata (perché le due parti in causa agiscono su terreni diversie una delle due non riconosce l’altra) tra «vero/autentico» e «falso/arbitrario» riferita ai soggetti del-la ricerca, o meglio – visto che poi questo termine allude a un fare che spesso è solo un’ulteriore fin-zione o un’opzione nemmeno considerata – ai titolari del discorso sulle musiche. Questa contrappo-sizione conosce in Italia un’ulteriore interessante variante, costituita dal confronto, spesso aspro e ri-gidissimo, tra ricercatori locali, animati da un forte volontarismo dilettantesco, ed etnomusicologi«istituzionali», per definizione provenienti il più delle volte da un «altrove» e da un «fuori» che tut-tavia i locali non percepiscono nella loro vera dimensione relativa, che è di matrice epistemologica enon meramente territoriale.9 Si noti che già l’uso di questo termine, legittimo ma senza dubbio riduttivo, denota una particolare«unilateralizzazione» del complesso intreccio tra suoni, cultura, esperienze soggettive e costruzioni col-lettive che l’etnomusicologia per suo proprio statuto ha individuato e tentato di ricostruire nel corsodella sua pratica nel tempo: «repertorio» allude al dato estratto come esito, isolato e categorizzato diquegli stessi intrecci, che risente inevitabilmente del concetto di opus attorno a cui (e cioè attorno allasua costruzione in chiave di neutralità e autonomia dei prodotti della creatività in musica) si è costrui-ta una parte molto rilevante sia dell’apparato concettuale e ideologico della musicologia cosiddetta«storica», sia della vulgata che ne è seguita presso il ceto dei fruitori della cosiddetta «musica classica».Sulle aporie e i problemi del concetto di repertorio applicato alle musiche delle tradizioni non scrittesi veda F. Guizzi, Gli strumenti della musica popolare in Italia, Lim, Lucca 2002, pp. XLII-XLIX.10 Sottotitolo a mo’ di epigrafe dell’Altra musica, cit.11 Su questi aspetti, si veda una ricostruzione più dettagliata delle tappe del lavoro di ricerca diRoberto Leydi dai primi passi nel dopoguerra sino all’inizio degli anni Settanta (in F. Guizzi, RobertoLeydi e il canto popolare in Lombardia, in Canto popolare. La tradizione, la ricerca, gli usi – Atti del con-vegno. Como, 12 marzo 2005, Provincia di Como, Como 2006, pp. 23-40. Sullo Studio di Fonologiadella Rai si veda di V. Rizzardi, A.I. De Benedictis (a cura di), Nuova musica alla radio. Esperienze al-lo Studio di Fonologia della Rai di Milano, 1954-1959, Cidim-Eri, Roma 2000, in cui è contenuto, nelCd allegato, «Ritratto di città» di Berio e Maderna su testo di Roberto Leydi; e, di N. Scaldaferri,Musica nel laboratorio elettroacustico. Lo Studio di Fonologia di Milano e la ricerca musicale negli anniCinquanta, Lim, Lucca 1996.12 Per iniziativa e a cura di Diego Carpitella vi fu pubblicata un’opera fondamentale per la nascita el’orientamento futuro degli studi, gli scritti di Bartók sulla musica popolare: B. Bartók, Scritti sulla mu-sica popolare, Einaudi, Torino 1955.13 Si veda il paragrafo «Il musicologo e la “Montanara”», in R. Leydi, L’altra musica, cit., pp. 164 esgg., con le relative indicazioni sulle fonti.14 Si vedano le indicazioni a tal proposito rinvenibili in molti passi del libro di C. Bermani, Una sto-ria cantata, Istituto Ernesto de Martino-Jaca Book, Milano 1997.15 In realtà due modi specifici di ri-mediazione, si potrebbe dire oggi sulla scia di Bolter e Grusin: es-si erano comunque diversi dai dischi, dai libri, dagli articoli delle riviste, non tanto per una destina-zione più ristretta, poiché la loro fruizione era concepita in gran parte solo per gli addetti ai lavori,quanto per qualità mediatica della comunicazione. Si veda di J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation.Understanding New Media, The Mit Press, Cambridge (MA) 1999; ed. it. Remediation. Competizionee integrazione tra media vecchi e nuovi, a cura di A. Marinelli, Guerini e Associati, Milano 2002.16 Trascrizione di un estratto dall’intervista a Roberto Leydi registrata in video a Orta San Giulio(Vb), il 4 gennaio 1996. Riprese: Renato Minotti (camera 1), Antonio Cominati (camera 2). Condu-zione e audio: Aurelio Citelli. Consulenza: Febo Guizzi. Salvo correzioni sporadiche, si è lasciato ilparlato vivo, con la sua freschezza e le sue impennate discorsive.17 Con l’eccezione di Giovanna Daffini e del Trio di Piadena, che erano tuttavia considerati come rap-presentanti di una sorta di «terza via» tra i revivalisti e i «ruspanti», come li avrebbe poi chiamati con

241

Page 274: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

sarcasmo Diego Carpitella, la Daffini in virtù del suo impegno nell’ambito del «liscio», il Trio a cau-sa della forte spinta politico-sindacale che ne aveva determinato la formazione e quindi per la conse-guente spiccata propensione a prodursi in termini «volontaristici» e militanti. Non va dimenticato chela committenza prestigiosa a livello non solo nazionale da parte del Festival di Spoleto aveva impe-gnato gli autori in uno sforzo non privo di dubbi di traduzione delle esperienze già precedentementeacquisite, di spettacoli-concerto di piccole dimensioni e previsti per il circuito militante, in una formadi ben altro impianto e con esigenze «da palcoscenico» di natura tutt’altro che esclusivamente quan-titativa: ne sono testimonianza le diverse prese di posizione, prima e dopo lo spettacolo, che solleva-vano all’interno del dibattito del Nuovo Canzoniere Italiano questioni all’epoca molto sentite, relati-ve tra l’altro al «consumismo» e alla matrice borghese dell’offerta teatrale «ufficiale».18 Questo termine era incluso nell’epigrafe scritta da Fortini, a proposito della quale Cesare Bermaniha osservato che si tratta della prima accezione del termine comparsa sulla scena culturale in Italia pri-ma che divenisse una delle parole chiave del ’68 (C. Bermani, Una storia cantata, cit., p. 68).19 Vedi nota n. 16.20 Dario Fo, dalla retrocopertina del disco Ci ragiono e canto, LP DS 119/21 (I dischi Del Sole), cita-to da D. Carpitella, La musica e l’etnomusica, in «La Biennale di Venezia. Annuario 1978. Eventi del1976-77» a cura dell’Archivio storico delle arti contemporanee, 1979, pp. 1215-1225:1220.21 D. Carpitella, ibidem.22 Vedi nota n. 16.23 D. Carpitella, R. Leydi, «Le ragioni dello spettacolo», in Sentite buona gente. Incontri con il mondopopolare a cura di Roberto Leydi, programma di sala del Piccolo Teatro, Milano s.d. ma 1967. 24 Ibidem.25 Ibidem.26 Ibidem.27 Vedi nota n. 16.28 F. Guizzi, Bordone al trotter, in «Laboratorio musica», anno II, numero 13, giugno 1980, p. 18.

242

Page 275: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Bianca De MarioPassaggi in storie vere di nessuno. I viaggi di Luciano Berio alla Scala

Che il canto faccia un lungo viaggioChe passi i mari blu, i deserti gialliLe montagne di ghiaccio e le città Dove nessuno ha voglia di cantare.Che il canto faccia un lungo viaggioE scacci tutto quel che non è cantoLa voce che mi vuole far cantareUna canzone che non è la mia.

Italo Calvino, La vera storia.1

Un lungo viaggio quello di Luciano Berio. Ed il suo canto ha superato mari e desertiprima di toccare il teatro musicale, l’opera e di sfidare, per tre volte, il palcoscenico deltempio scaligero. Opera. Una parola che suona quasi come un ossimoro, accanto al suonome. E forse anche per questo la ballata che Calvino scrisse per la sua Vera storia, siadatta perfettamente ai «passaggi» di Berio alla Scala. La sua musica, proprio come lavoce di quel Cantastorie, dovrà cantare una canzone che non è la sua.

Ecco perché una sfida. Cosa significa «opera» dopo Wagner e Debussy, dopo Stra-vinskij, Schönberg e Webern? Perché il teatro, se per la scuola di Darmstadt, da cuiBerio proveniva, il più alto ideale espressivo era rappresentato da una musica stru-mentale astratta, di estremo rigore formale?2 Forse perché tutti i compositori avverto-no prima o poi la necessità di cimentarsi con quella meravigliosa, quanto rischiosa, sca-tola magica che è il teatro musicale, quel mondo che riassume in sé tutto: parola, im-magine, gesto, musica, canto. O forse semplicemente perché esso rappresentava perBerio il naturale sbocco cui avevano portato le sue Sequenze, così evidentemente «sce-niche» per il loro esecutore, la coreografia di Visage, l’interesse quasi maniacale peruna nuova suadente vocalità,3 o ancora – guarda caso – la sua Mimusique n. 2.

Il suo canto fa dunque un lungo viaggio, rifiutando quello che per lui non è canto.Scacciando quel che resta dell’opera e trasformando il teatro tradizionale in «opereaperte» o «azioni musicali». Happening privi di etichette, riti teatrali da non ascriversiad alcun genere ed in cui, se è vero che alla creazione del «testo» in senso performati-vo concorrono diversi livelli narrativi, dalla poesia alla danza, dalla voce alla scena, nonbisogna dimenticare che tale testo è sottomesso agli imperativi della forma musicale.4

Una musica che parla, quella di Berio. Una musica pregnante di significati, teatraleancor prima di farsi teatro e, forse, proprio questa sua plurisemanticità è stata, in al-cuni casi, la sua stessa trappola. Soprattutto negli anni Sessanta, gli anni della passio-ne civile e dei violenti conflitti ideologici. È in questo momento che Berio comincia la

243

Page 276: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

sua avventura operistica e la comincia alla Scala. Una scelta sicuramente audace, maforse persino un po’ azzardata per quella Milano così provinciale, conservatrice, aman-te fedele, insomma, del melodramma tradizionale.

È in questo clima che il maggiore teatro d’opera d’Italia apre le porte a LucianoBerio ed al suo primo lavoro per le scene.

I. La partenza. Un passaggio sofferto

6 maggio 1963. Alla Piccola Scala va in scena Passaggio.

– buio completo: sipario lento, possibilmente inavvertito: nulla in scena: buio dappertutto. IlCoro B inizierà a sipario alzato.

Coro Bma adesso; (ma come resistendo

widerstehendma in silenzio

stillstillence (adesso); e poi; ssst!

c’est-à-direadesso: zitti!dass heißt:

come conservando (that is: saving, of course,saving:

cioè,prestando):

(achtung) ma(achtung) ordine (cioè)

(voilà: chacun à sa place)(natürlich)

silenzio (ssst)si capisce:si capisce:(to your places)5

Buio in sala e vuota la scena. È un coro a cantare, a recitare la sua parodo, proprio co-me nel teatro della Grecia antica. Classicismo ma anche echi liturgici coesistono in un«passaggio» a sette tappe che è una via crucis profana, moderna.

Profana, perché non vi è una vera fede in quest’opera, se non quella per l’arte.Moderna, perché la protagonista è un’anonima «Lei», che compare alla Seconda Sta-zione abbagliata da un riflettore orizzontale, unico personaggio del dramma. Sola.

Eroine abbandonate, donne che vivono e muoiono per poi tornare a vivere. Ecco co-

244

Page 277: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

sa vede il pubblico della Piccola Scala in quel marzo ’63: due tragedie profane o forsesemplicemente due cammini umani, due «passaggi». Perché la grande innovazione diquel teatro che faceva da contraltare al più celebre palcoscenico lirico milanese, eraproprio quella di proporre un’opera antica ed una contemporanea, di accostare ilSeicento al Novecento. Fu così che quella sera la Dido di Purcell si trovò a conviverecon Lei.

Lo spettatore vibra ancora per la commozione delle ultime parole di una Didone di-sperata: «Remember me, but ah!, forget my Fate». Il sipario si è da poco chiuso sul la-mento funebre di quel coro che invoca i cupidini affinché spargano rose sulla tombadella regina cartaginese. Ed ecco che quello stesso sipario si riapre, su un altro coro,che tutto fa, fuorché piangere la propria eroina.

E di classico in realtà questo coro ha solo vaghe reminescenze: da una parvenza diantichità classica che sembra essere un cinico saluto a Didone, il coro passa a un’in-quietante rievocazione della storia cristiana, a quella folla in delirio che sceglie Barabbaal posto di Gesù Cristo.

Così Lei si trova sulla scena, sola, abbandonata. Come Didone, come Cristo?6 E dachi? Da Enea, da Dio? Forse semplicemente dalla pietà umana. Forse da quel Coro B,che, ostile ed impietoso la coprirà di insulti, calunnie, la metterà all’asta, la violerà du-rante l’attraversamento delle stazioni. Arresto, interrogatorio, tortura e rilascio si sus-seguono in una babele di lingue e versi spezzati, di suoni rotti e voci sentenziose. Edo-ardo Sanguineti, autore del libretto, non darà risposte a tali domande e questa espia-zione spazio-temporale si trasforma in «una caotica ricerca interiore» o ancora un’at-tesa, in senso tragicamente beckettiano.7 Godot non arriverà nemmeno per Lei.

Un coro greco, come quello di Didone, esiste tuttavia anche per Lei: è il Coro A, chenell’ombra e nelle pause fa da contrappunto allo spietato B. È questo coro a sostener-la all’inizio e poi a piangere con lei per la sua croce. Ma è anche il simbolo di quellasocietà che non può fare altro che piegarsi alla legge del denaro – «perché tu solo ilsanto, tu solo l’altissimo»8 – e subire la pesantezza di questo giogo.

Proprio la bipartizione corale, a sua volta articolata in sottogruppi, rappresenta lagrande innovazione dello spettacolo: il Coro A, cantante empatico, è collocato nellabuca orchestrale insieme a un nutrito gruppo strumentale; e il Coro B, parlante, divi-so in cinque sezioni sparse in platea o tra i palchi, confuso con il pubblico.

La mutata concezione del canto, secondo Berio, emerge proprio in questa divisionee con essa diviene chiara la modernità oltre che la profanità dell’opera. Il Coro A, spec-chio (deformante?) di Lei, può cantare, può vivere accanto alla musica e, dall’alto diquesta posizione privilegiata, commentare, partecipare delle sofferenze di Lei, anchese ciò significa spesso «discendere» fisicamente – non a caso siamo nella «buca orche-strale» – contaminarsi con la realtà della protagonista, divenire parte, pur consolato-ria, di quel gioco crudele. Il Coro B non ha canto. È parlante, non può comunicare at-

245

Page 278: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

traverso la musica. E per di più è confuso tra il pubblico, vive nella quarta parete, giu-dicando, sputando sentenze e ponendosi domande. È un coro che impersona il ruolodelle maschere del teatro, del pubblico e del regista, dell’uomo moderno e dell’anticoinquisitore. È il coro a smascherare Lei, colpevole o innocente che sia, a far emergerela sua ingenuità fanciullesca ed allo stesso tempo il suo macabro passaggio umano.

tra le cose l’avete gettata:nella prigione torturata:una stanza per sperare:altra stanza per tremare:questo è il nostro passaggio.9

Il sentore di straniamento portato avanti per tutto lo spettacolo dal coro, tocca il cul-mine in chiusura, quando sarà proprio Lei a cacciare lo spettatore, svelando la finzio-ne: «Andate via, via tutti!».10

Ed in tutto ciò, che parte prende la musica di Berio, vera regista della drammatur-gia dell’opera? Se lo chiede anche Eugenio Gara, all’indomani di una delle riprese:

Ma la musica, infine? Quella è la grande assente. Ennesima dimostrazione che quando i mo-tivi ideologici prendono il sopravvento, è fatale che i motivi musicali si tirino in disparte.Siamo giunti alla malinconica abdicazione, all’anestesia lirica, ai paesaggi spettrali dove tut-to è grido e niente riesce a prendere forma di canto.11

Il canto di Berio non è il canto dei critici. Insuccesso di critica uguale successo di pub-blico? Non è certo questo il caso. Fischi, indignazione ed insulti: Lei non è Didone,Berio non è Purcell. Passaggio non è un’opera. E in effetti non lo è, nemmeno Berio lovoleva: è una «messa in scena», definizione quanto mai calzante e non solo in sensoteatrale quanto piuttosto in senso liturgico, come abbiamo visto. Ma questo non bastaal pubblico scaligero che, a dire il vero, era lì soltanto per la Dido & Aeneas, per ascol-tare una vera opera lirica, in senso milanese, forse.

Se le critiche furono per certi versi spietate, la reazione era stata non solo aspettatadal compositore stesso, ma persino prevista da Umberto Eco, che nella sua Introduzio-ne allo spettacolo scriveva:

Alla fine di quest’opera lo spettatore potrà estasiarsi per il gesto di liberazione, per l’invitoapparente al caos oppure per l’orgiastica prepotente presenza del disordine giocata sullosmarrimento delle platee sbigottite […]. Infine uscire dal teatro più inquieti e pensosi, con-sapevoli che sulla scena è stato rappresentato il nostro smarrimento […]. Uscire col vagosentore di un compito rimasto inconcluso.12

Inquietudine, certo. Ma forse rabbia ed indignazione sono i sentimenti che assalgono

246

Page 279: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

nel 1963 lo spettatore e i critici milanesi. Se alcuni di loro, come Franco Abbiati, Gia-como Manzoni, Luigi Pestalozza lodano, pur mestamente, Passaggio, in particolar mo-do l’escamotage dei due cori e l’eccellenza di Giuliana Tavolaccini, Lei, la maggior par-te esprime invece giudizi negativi, da Del Fabbro a Frattini per arrivare a uno spieta-to quanto apocalittico Massimo Mila:

Che vergogna, che smacco, che l’uomo, signore della creazione, chiamato ad attuare in sé ildivino, debba ogni giorno, quando ci sono tante cose belle da fare, chiudersi per un po’ nel-lo sgabuzzino a soddisfare i bisogni corporali!13

Per Berio è la musica il vero regista dell’azione, ma essa sembra perdersi in questo nuo-vo teatro. E il giudizio che appare forse come il più calzante è quello di Montale, nonsolo scrittore e critico ma anche e soprattutto spettatore: «Passaggio non vuole essereun’arte, bensì un’arte autre (in francese fa più effetto) che pratica massaggi epidermi-ci ma lascia a mani vuote».14

Cinismo a parte, forse lo spettatore milanese nel 1963 si sente così dopo il Passaggiodi Berio alla Scala, a mani vuote. Se all’estero, a Parigi nella fattispecie, l’opera avrà undiscreto successo nel 1985 e nel 1999, alla non breve distanza di ventidue e trentatréanni dopo la prima, per avere un risultato positivo in Italia bisognerà attendere il 2001.E non sarà comunque la Scala ad accogliere con entusiasmo l’opera, ma il Teatro CarloFelice di Genova.

Dovranno passare diciannove anni perché Berio rimetta piede alla Scala. Con unamaggiore esperienza in ambito teatrale, una forse più matura concezione del pubblicomilanese ed un mutato contesto, quello degli anni Ottanta. Fiore all’occhiello, la col-laborazione con un poeta della prosa o un prosatore poetico: Italo Calvino.

II. Il viaggio: una, nessuna, centomila storie

9 marzo 1982, Teatro alla Scala. La vera storia.

Signor Camaleonte ci racconti la sua vera storia.15

Tanto si può capire dalle più importanti testate giornalistiche su quella prima del 9marzo 1982. Forse tutto.

Una grande novità alla Scala: «La vera storia». La fantasia di Berio reinventa il melodramma.Attesissimo questa sera il debutto di Milva, impegnata nel difficile ruolo di protagonista del-l’inedita opera.16

247

Page 280: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Aspettative e previsioni, novità drammaturgiche e scelte registiche, interpretazione erecezione.

Bene accolta la «prima» di Berio alla Scala. «La vera storia» racconta di noi e non finisce mai.Una parabola di festa e violenza, descritta nel libretto di Italo Calvino.17

Ma cos’è La vera storia? Non si tratta di un’opera, ancora una volta, né tanto meno diuna messa in scena. Non ha nome, né genere, il nuovo lavoro teatrale di Berio per laScala. La vera storia. Due atti di Italo Calvino. Musica di Luciano Berio. Questo recita illibretto. E alla luce della lezione pirandelliana possiamo immaginare di cosa si tratti.

«Una piazza vuota nel sole accecante di mezzogiorno»,18 un edificio bianco si sta-glia solenne sul fondo. Delle persone che corrono in proscenio e poi una folla. Un cor-teo e una festa. La prima di quattro, che si susseguono nel corso delle quindici corni-ci in cui l’opera è ripartita.

Una festa come discontinuità del tempo, in cui la trasgressione prende il posto della norma,il dispendio dei beni e delle energie prende il posto della lotta economica, fino al sacrificio,all’immolazione di vittime, alla distruzione […].19

Un rituale antropologico, dai contorni violenti e sacrificali, che sfocia nella cattura enell’esecuzione di un uomo, il Condannato. Ed ecco il motore dell’azione, la Con-danna, che innesca l’infinita serie di lotte intestine, di faide che costruiscono la storia.O forse una storia.

Si parte dal Ratto, il rapimento del figlio del Comandante della città. Novella Azu-cena sarà Ada, la «potrebbe essere» figlia del Condannato. Sembra così che La verastoria cominci il proprio cammino da Verdi e dal suo Trovatore, «il melodramma piùmelodramma di ogni altro», forse ispiratore di una musica che risponda alla pura tea-tralità, all’esigenza di una storia profondamente umana, dietro la maschera di una fia-ba musicale.

Come in ogni fiaba che si rispetti vi è un Cantastorie, che entra in scena accompa-gnato da due suonatori di chitarra. Solo che in questo caso è il «Berio regista» a nar-rare la sua fiaba e il moderno trovatore non è altro che un commentatore, un simboli-co coro che fa la sua morale. Così moderno che indossa abiti femminili, blue-jeans perla precisione, ed il suo canto si distacca totalmente dai canoni della lirica. La voce èquella di Milva, la «pantera di Goro», che dopo la lezione di Strehler e Brecht, debut-ta alla Scala, riscuotendo un successo unanime. Dai commenti del foyer pare persinodi capire che sia l’unica a far risaltare le parole del meraviglioso testo di Calvino.20

Dopo il Ratto arriva il momento della Vendetta: Ivo vuole vendicare il padre, mor-to di dolore per la scomparsa del figlio rapito. Passa il Tempo, scorrono le lacrime di

248

Page 281: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Leonora, amante contesa tra due fratelli-nemici; scende la Notte, portando con sé ilDuello, la Preghiera e il Grido. Ed eccola la ballata. Dopo le urla viene il canto diMilva «a fare un lungo viaggio ed a scacciare ciò che non è canto». Ma la Cantastoriee i suoi musicisti a ogni comparsa vengono bruscamente allontanati dai gendarmi. Leautorità vorrebbero metterli a tacere: il loro canto di denuncia, di riflessione, di con-solazione, rappresenta un attentato al potere.

Scende la seraSi leva il ventoDirada il fumoDeserta è la piazzaLa pietra ha già bevuto il sangueSangue su sangueDall’una all’altra festaLa storia si ripeteÈ finita la festa.21

Soavi e taglienti al tempo stesso le parole di Calvino. E chi meglio di lui avrebbe po-tuto incarnare verbalmente la musica di Berio? Sembra che i due «classici contempo-ranei» fossero davvero destinati a incontrarsi e far interagire le loro personalità.22 Aldi là delle evidenti corrispondenze biografiche e degli influssi di portata generaziona-le, la loro affinità elettiva sembra andare ben oltre ciò che essi stessi fossero disposti adammettere. Molte sono le analogie, non ultima la concezione di un’arte nuova e com-plessa ma che giunga al pubblico nella sua immediatezza.

Si susseguono così il Sacrificio, la Quarta Festa e il Ricordo, un finale a solo per Ada,che si leva lentamente in una confusione di stato d’animo.

Forse di là dei secoliil male si cancellama per ora ricordaloin ogni particelladi sudore e di lacrimedi sangue e di pietà.Forse di là dei secoli un bene si preparache basterà a rifondercidella pena più amarama non farà riviverequello che tu non hai più.23

Tra la speranza ed il rimpianto si chiude la Vera storia. O almeno sembra chiudersi.Solo il libretto si conclude infatti su questo Ricordo. Termina ma non si esaurisce: le

249

Page 282: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

stesse parole, elaborate in maniera completamente diversa e intessute in un’altra com-binazione, ritorneranno infatti nel secondo atto, o meglio, nella seconda storia.

È a questa parte che Berio affida la novità del suo progetto, da un punto di vista nonsolo tecnico, quanto piuttosto semantico. Tutto torna nella sua storia, personaggi, po-se, gesti, coreografie ma in modo diverso.

Nella Parte II, viene dunque proposta una trasfigurazione […]. La Parte I è un’opera […],la Parte II no. Parte I e Parte II espongono in maniera diversa la stessa cosa, come se duecantastorie proponessero una diversa versione dello stesso fatto dando una diversa funzionea una stessa struttura narrativa.24

Una «vera storia» pirandelliana, allora, una realtà sempre diversa da quello che appa-re a prima vista, dietro la quale c’è sempre una storia ancor più «vera». Sarà dunquecompito dello spettatore capire quale sia la «vera storia» tra queste due, oppure riela-borarne una nuova versione, una terza parte.

A distanza di vent’anni Berio lancia così una nuova sfida al pubblico che aveva de-precato Passaggio. E questa volta la vittoria sarà sua: il successo caloroso, gli applausiall’autore e agli interpreti coprono qualche isolato grido di disapprovazione. Vittoriosele scelte registiche di Maurizio Scaparro, che spaziano dalla dinamicità coreografica al-la staticità scenica di pose quasi cinematografiche. Uno spettacolo denso non solo dicontenuti ma anche e soprattutto di ipersollecitazioni sensoriali. Quanto alla musica,la partitura è ritenuta come una «fra le più inventive della compositività del musicistaligure»25 e sebbene l’inserimento delle ballate non sia stato apprezzato da alcuni criti-ci, proprio queste, con il loro mood blues, jazz e folk e la loro vocalità moderna, sem-brano riportare il tutto a una dimensione più accessibile all’odierno ascoltatore, più vi-cina alla realtà musicale di quegli anni.

Un grosso passo avanti insomma, non solo per l’autore ma anche per la Scala deglianni Ottanta. Tra gli applausi e i sorrisi, in quella «terza vera storia» resta solo qualcheperplessità, qualche «sintomo» che, sebbene i tempi siano cambiati, ci debba ancoraessere un ulteriore step. L’idea che il discorso resti interrotto:

[…] ma in tutto il senso di un evento rinviato: forse ad un’occasione dove teatralmente tut-to funzioni meglio come idee e immagini, forse semplicemente ad un appuntamento nellamemoria […].26

E quest’occasione arriverà, rinviata anch’essa, partorita con fatica dopo paure, parali-si e scioperi, ma sarà un «appuntamento nella memoria», in cui tutto funzionerà.Quattordici anni dopo. Con Outis.

250

Page 283: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

III. L’arrivo. Chi fermerà Nessuno?

La prima rappresentazione era prevista per il 2 ottobre 1996, con repliche il 4 e il 6.Ma la recita salta per uno sciopero. Amaro gioco del caso: Nessuno va in scena allaScala quel mercoledì sera. Outis vuol dire questo in greco, Nessuno, ed è il nome cheUlisse si dà per ingannare Polifemo. Proprio come l’eroe omerico, Berio dovrà navi-gare ancora qualche giorno in quell’angoscioso mare di diritti calpestati,27 sindacati,incartamenti burocratici e politicanti in lotta, prima di approdare all’Itaca scaligera.

«La massima prova di intimidazione culturale avutasi nella musica italiana», senten-zia Paolo Isotta. Ed Emilio Tadini spiega:

[…] se da un lato le rivendicazioni sindacali sono giuste, d’altra parte facendo saltare la pri-ma mondiale di un compositore che è un classico della musica contemporanea si è persa unagrande occasione.28

Increduli i musicologi e i critici stranieri giunti da ogni parte del mondo per l’avveni-mento, che doveva rappresentare l’avvio del Festival dedicato a Berio e organizzato daMilano Musica. La festa d’apertura si trasforma in una commemorazione, una cenacon tutti gli intellettuali che nel pomeriggio avevano fatto una raccolta di firme per «loscandalo Outis»: da Talia Berio a Umberto Eco, da Valerio Adami a Giacomo Man-zoni, da Luigi Pestalozza al premio Nobel Franco Modigliani.

Amareggiati persino i dipendenti del teatro, per i quali l’unica strategia per ottene-re la ratifica di un contratto integrativo attesa da diversi mesi, era quella di non alzareil sipario. Niente di nuovo sotto il sole.

E quando l’opera può finalmente andare in scena, il 5 ottobre, dopo un’estenuantelotta, Berio si dice offeso. Non tanto dall’azione sindacale, quanto dal solito sistemaanti-culturale cui gli artisti devono far fronte. Solo qualche ora basterà a mutare l’of-fesa in commozione per il successo ottenuto da questo «Nessuno».

Questo era, è Outis, figlio di Cleo. Era o forse è ancora marito di Emily. Ebbe due figli: unoSteve, da Emily, e l’altro Isaac, da Samantha. Fu ucciso per errore da Isaac che, senza cono-scerlo, o proprio perché non lo conosceva, lo andava cercando per mare e per terra. Ma an-che Steve cerca Outis, partito da casa quando lui era bambino.29

Ecco chi è Outis. Un Suggeritore ce lo spiega, con parole che ritorneranno in varie for-me nel corso dei cinque Cicli dell’«azione musicale» pensata da Berio e Dario DelCorno.

Un’altra «vera storia» insomma, con cinque situazioni tutte uguali e diverse al tem-po stesso, un nuovo passaggio, quello di Ulisse e del suo eterno ritorno. La leggendanarra come egli ebbe Telemaco da Penelope e Telegono da Circe e come questi, cer-

251

Page 284: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

cando il padre e non riconoscendolo, lo uccise. Ogni ciclo ricomincia con questa uc-cisione: Outis in abiti da pescatore, colpito a morte; poi in versione borghese, ammaz-zato dal colpo di una rivoltella; strangolato a torso nudo; pugnalato nella sua divisa damilitare; e infine marinaio, caduto da una nave. Ma sempre al rinnovarsi di ogni ciclosopravvive il suo Doppio, che vivrà immortale sino all’epilogo, al recital brechtiano chechiude l’azione.

Quale azione? Forse solo l’immagine edipica iniziale è azione, tutto il resto è un«teatro senza narrazione».30 Ancora una volta Berio ci propone una concezione del-l’opera al di fuori di ogni schema formale classicamente inteso, un meta-teatro musi-cale che offre un archetipo e delle figure tradizionali da reinterpretare in chiave attua-le. La giustapposizione di immagini e suggestioni, nonché citazioni delle precedenticomposizioni, permette così di costruire un teatro onirico da crearsi non solo in scenama soprattutto nella mente dello spettatore.

Un lamento funebre in greco-salentino. Una nuova Ada, meno tragica e più malin-conica della precedente. Una crudele asta umana in cui si vendono mogli e bambini.Un uomo gonfiabile che cresce a dismisura sino ad inghiottire un innocente. Outis chevaga nel mare della memoria e abbandona Emily, simbolo dell’amore coniugale. Unabanca che diviene un bordello e poi di seguito immagini di mercificazione ed orrorealternate a quel che di buono resta nel mondo: dal supermercato al campo di concen-tramento, dall’immagine materna di una donna che stira alle lettighe dei soldati-bam-bini in guerra. Un conflitto istigato da un visionario regista cui i bambini preferirannole filastrocche e le risate di un gruppo di clown.

Le scene si susseguono vorticose su una partitura delicatissima in cui si mischianodescrizione, suggestioni oniriche, atmosfere inquietanti e cariche di tensione e un lie-ve quanto continuo senso di nostalgia. Persino quella banda di clown nasconde dietroal sorriso beffardo del trombone una malinconia quasi soul nell’uso del violino e dellafisarmonica. Maestro di teatralità, Berio è in grado, attraverso la musica, di dilatare latensione sino a farla esplodere nel putiferio delle scene corali a tratti infernali, per poitornare a farla decrescere nei cambi di scena, dove il buio e il movimento rotatorio del-la pedana – anello che ritorna di continuo – sono sostenuti dal filo impercettibile di unbasso continuo e di una voce, ora maschile, ora femminile.

Si chiude così l’ultimo ciclo, in un naufragio, nella quiete dopo la tempesta, eco delsuo Re in ascolto, in cui il Prospero shakespeariano giocava ad essere regista.31 Unquartetto. Alla maniera di Berio, ovviamente: accompagnati da un pianoforte, Outis edEmily cantano il loro romantico recital nel tentativo di conoscersi e riafferrarsi mentrei loro Doppi si perdono nella notte.

Difficile capire questa non-storia, questo meta-teatro in cui tutto si fonde e ogni sin-golo elemento è correlato a una fittissima rete di significati che parte da Omero per ar-rivare a Joyce. A quanto pare però il pubblico scaligero è cambiato e persino la criti-

252

Page 285: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

ca. Apprezzata non solo la musica del maestro ma anche la regia di David Robertson.Elogio agli interpreti, da Tatiana Poluektova ad Alan Opie e applaudita persino la fe-lice scelta di usare nel ruolo dei Vocalists gli Swingle Singers.

Battimani calorosissimi, ma l’apprezzamento forse più sincero proviene da un di-ciassettenne, capelli lunghi e orecchino, fan dei Metallica, che confessa: «Non avevomai sentito una musica così moderna».32

Dopo oltre trent’anni di fatiche, incomprensioni, malumori e tensioni, all’apice del-la sua carriera Berio è dunque arrivato alla Scala, ma soprattutto è arrivato al suo pub-blico. Un pubblico vasto ed eterogeneo, che ha saputo entrare nel difficile ruolo di ri-creatore dell’evento scenico, ri-compositore di una nuova concezione d’opera.

Conclusioni

Oltre dieci anni sono passati da Outis. Cosa resta al nuovo millennio delle opere scali-gere di Berio? Una discreta quantità di materiale.33 Nonostante ciò, se oggi uno stu-dente o un appassionato volesse vedere una di queste tre opere, dovrebbe attendere pa-zientemente che fosse messa in scena in qualche teatro d’Italia o, peggio ancora, delmondo.

Una lacuna editoriale? Un problema di mercato o di diritti? Probabilmente sì, manon è questo il punto della questione. Esistono delle registrazioni, ma in versione au-dio, non video. Un particolare che porta a spostare lo sguardo da cause esterne a que-stioni interne.

La risposta più semplice è forse la più logica: la musica di Berio è teatrale in sé e nonha bisogno d’altro. Le sue opere strumentali sono «spaziali», dinamiche, figurative, of-frono cioè la possibilità all’ascoltatore di costruirsi l’immagine di un proprio teatroonirico. È la musica stessa a dettare questa costruzione.

Un’arma a doppio taglio: questa qualità intrinseca è divenuta forse un limite per ilcompositore nel momento in cui decise di cimentarsi con il teatro. Grande ambizionedi ogni compositore, nel caso di Berio il teatro diviene la concretizzazione di una mu-sica in sé già estremamente pregna di senso, «visiva», immediata certo, ma forse trop-po densa di significati per un pubblico che resta sempre e comunque legato al melo-dramma ottocentesco e che stenta ad orientarsi nell’immagine che egli offre.

Ecco i motivi per cui con tanta fatica Berio si è avvicinato alla scena milanese. Unoscoglio che è stato infine superato ma che oggi ci induce ad aprire nuovi orizzonti.Perché non tentare delle rappresentazioni della sua musica strumentale? Come sareb-be possibile ripensare oggi le opere di Berio? Cos’è rimasto agli odierni compositorid’opera della sua lezione? E soprattutto com’è cambiata oggi la recezione del pubbli-co scaligero dopo il suo passaggio?

253

Page 286: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Potrebbe essere il momento giusto per cercare delle risposte a queste domande.Sarebbe forse tempo di provare a guardare oltre e capire cosa sta accadendo. È forsetempo che sia tempo.34

1 Quinta Ballata, vedi La vera storia, due atti di Italo Calvino, musica di Luciano Berio, programmadi sala, Edizioni del Teatro alla Scala, Milano 1982, p. 20.2 Sulla Scuola di Darmstadt e il suo rapporto con il teatro musicale, vedi anche C. Abbiati, La rece-zione giornalistica di un’«opera aperta»: Passaggio di Luciano Berio, tesi di laurea triennale in Scienzedei Beni Culturali, relatore Emilio Sala, Università degli Studi di Milano, a.a. 2004-2005, pp. 7-11.3 Gli esperimenti di Berio sulla vocalità sono noti a tutti. La sua passione traspare, come è naturaleche sia, anche in ambito operistico e numerosi sono i punti delle sue opere che ricordano il suo pas-sato nel Labirinto della voce di Cathy Berberian. A questo proposito vedi anche N. Scaldaferri, La voixde Cathy Berberian, in P. Michel, G. Borio (a cura di) Musiques vocales en Italie depuis 1945. Esthé-tique, relations texte-musique, techniques de composition, Actes du Colloque (29-30 novembre 2002),Millénaire, Université Marc Bloch, Strasbourg 2002.4 Su «opera aperta» ed «alea», cfr. J. Rivest, «Alea, happening, improvvisazione, opera aperta», inEnciclopedia della musica, 5 voll., diretta da Jean-Jacques Nattiez, Einaudi, Torino 2001; ristampa(consultata) in 10 voll., Il Sole 24 Ore, Milano 2006, III: Le avanguardie musicali del Novecento, pp.312-321.5 Dal libretto di Passaggio, cfr. il libretto del testo contenuto in L. Berio, Passaggio, Visage, con EliseRoss, Coro dell’Accademia Filarmonica Romana diretto da Gianni Lazzari, Orchestra da CameraNuova Consonanza diretta da Marcello Panni, 1 Cd, registrazione dal vivo dalla Rai presso il TeatroOlimpico (Roma, 2-3 dicembre 1971), Ricordi, Milano 1991, Crmcd 1017, p. 24.6 Il personaggio di Lei contiene in sé, a detta degli stessi Sanguineti e Berio, alcune reminescenze diRosa Luxemburg e Milena Jesenská-Polak, la scrittrice amata da Kafka. Per ulteriori interpretazioni,cfr. C. Abbiati, op.cit., p. 33 e sgg.7 Ibidem.8 Dal libretto di Passaggio, cit., p. 34. 9 Ibid., p. 40.10 Ibid., p. 41.11 Cfr. E. Gara, Un po’difficile accettare un Passaggio tra Didone ed Enea, «L’Europeo», 19 maggio1963, in C. Abbiati, op.cit., pp. 58-59.12 Cfr. U. Eco, Introduzione a «Passaggio», programma di sala della Piccola Scala, 1963 in AA.VV.,Berio, a cura di E. Restagno, Edt, Torino 1995, p. 73.13 Per la recezione giornalistica di Passaggio e la completa rassegna stampa, vedi sempre C. Abbiati,op. cit.; per la citazione di Mila, ibid., p. 65.14 Cfr. E. Montale, Didone inglese senza enfasi, in Id., Prime alla Scala, a cura di G. Lavezzi, Mon-dadori, Milano 1981, p. 89.15 Cfr. A. Foletto, Signor Camaleonte ci racconti la sua vera storia, «la Repubblica», 8 marzo 1982.16 Cfr. C.M. Cella, La fantasia di Berio reinventa il melodramma, «Il Giorno», 9 marzo 1982.17 Cfr. D. Courir, «La vera storia» racconta di noi e non finisce mai, «Corriere della Sera», 11 marzo1982.18 Per le citazioni dal libretto di Calvino, si veda il programma di sala, in La vera storia, cit., p. 14.19 Ibid., p. 30.20 La notizia è stata desunta da F. Damerini, Con Berio e Calvino alla Scala Milva ha debuttato in«jeans», «Corriere della Sera», 10 marzo 1982.21 Cfr. il libretto di Calvino, cit., p. 21.22 L’espressione viene utilizzata in C. Fertonani, Luciano Berio e Italo Calvino, «Venezia Musica e din-torni», V/24, settembre-ottobre 2008, pp. 40-41. Il saggio esplica la fitta rete di corrispondenze esi-stente tra i due autori, molto interessante ai fini di capire come si giunga alla loro collaborazione.23 Cfr. il libretto di Calvino, cit., p. 22.

254

Page 287: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

24 Cfr. L. Berio, Opera e no, in La vera storia, due atti di Italo Calvino, musica di Luciano Berio, pro-gramma di sala, cit., p. 27.25 Cfr. D. Courir, cit.26 Cfr. L. Arruga, Un Sessantotto di grigiastro colore, «Il Giorno», 11 marzo 1982.27 Cfr. P. Isotta, Lieve, ironico, nostalgico Berio, «Corriere della Sera», 6 ottobre 1996.28 In M. Del Corona, Ore 13: alla Scala si decide per Berio, «Corriere della Sera», 4 ottobre 1996.29 Il libretto consultato è quello contenuto nel programma di sala, ovvero L. Berio, D. Del Corno,Outis, azione musicale in due parti, Edizioni del Teatro alla Scala, Milano 1996. Per la citazione, si ve-da p. 11. 30 Per la definizione si veda D. Osmond-Smith, Teatro senza narrazione, nel programma di sala diOutis, cit., pp. 43-45.31 Ispirato al dramma shakespeariano e al testo di Calvino, Un re in ascolto fu composto nel 1982 eandò in scena a Strasburgo due anni più tardi. Per ulteriori dettagli, cfr. D. Osmond-Smith, Berio,Oxford University Press, Oxford-New York 1991.32 Notizia riportata da G. Manin, Nudi in palcoscenico e tanti applausi. Una prima da ricordare, «Cor-riere della Sera», 6 ottobre 1996, e M. Campari, Scala emozionata. Applausi per Berio, «la Repubblica»,6 ottobre 1996.33 Il presente studio si è basato in particolar modo sulle fonti audiovisive e sui programmi di sala, gen-tilmente messi a disposizione dall’Archivio musicale e dall’Ufficio Edizioni della Scala.34 È il coro di Outis, sul finale del Primo Ciclo, con riferimenti a Hölderlin e Paul Celan: «L’ora del-la terra è visibile dal cielo / Sgusciamo il tempo delle noci – / È tempo che sia tempo. / È tempo». Cfr.il libretto nel programma di sala di Outis, cit., p. 13.

255

Page 288: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Carlo LanfossiStockhausen a Milano

«Faceva solo rumore.»(Un loggionista del Teatro alla Scala,alla notizia della morte di Stockhausen)1

Quando Karlheinz Stockhausen muore il 5 dicembre 2007, al Teatro alla Scala di Mi-lano sta per andare in scena il Tristan und Isolde di Richard Wagner, diretto da DanielBarenboim e con la regia di Patrice Chéreau. La Scala è ora un teatro che punta su pro-getti e cicli a lungo termine, annuncia nuove commissioni di opere e guarda all’ap-puntamento di Expo 2015 con interesse: è l’occasione per ripensare il proprio passatoe proiettarsi verso il futuro con la consapevolezza di chi ha guidato per decenni la vi-ta culturale della propria città; tra i titoli proposti da Stéphane Lissner, ce n’è uno cheper il sovrintendente francese è al tempo stesso simbolo della storia recente della Scalae «una sfida mai tentata prima».2 Si tratta dell’esecuzione integrale delle sette giorna-te che compongono il ciclo Licht di Stockhausen.

Definire i rapporti fra un compositore poliedrico come Stockhausen e una città co-me Milano, che negli ultimi quattro decenni è cambiata sotto ogni profilo (culturale,sociale, politico), è difficile tanto quanto estrapolare dalla memoria di chi ha parteci-pato a quelle stagioni le informazioni corrette su date, esecuzioni, concerti, apparizio-ni. Chi scrive è nato nei primi anni Ottanta, dunque per motivi anagrafici ha potutoascoltare e vedere Stockhausen dal vivo solo in tempi recenti; fare affidamento su chiha vissuto quegli anni in prima persona si è rivelato spesso fallimentare: del resto, è co-sa risaputa a chi fa storiografia l’essere per assurdo più semplice recuperare informa-zioni su avvenimenti accaduti quattro secoli fa piuttosto che su eventi di pochi decen-ni or sono. La vita culturale dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi ci sembra ancoratroppo parte del nostro mondo, un universo contemporaneo che – come tale – nonavrebbe bisogno di essere storicamente archiviato perché ancora vivo, perennementehic et nunc. Avere oggi vent’anni significa poter ascoltare la voce di Stockhausen e isuoi echi a Milano cercando di basare la propria ricerca esclusivamente sulle fonti esulle cronache dell’epoca. Non è stato certamente possibile recuperare tutta la mole diinformazioni riguardante l’attività di Stockhausen a Milano, né questo breve contribu-to aspira ad essere esaustivo sull’argomento: quello che interessa qui è dare uno sguar-do d’insieme, diviso per comodità in quattro sezioni cronologiche, per comprendere leragioni del controverso rapporto fra il capoluogo lombardo e quello strano uomo ve-nuto da Sirio.

256

Page 289: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Gli anni Cinquanta-Sessanta e lo Studio di Fonologia

«Stocki.» Così, col consueto gusto del dialetto veneto per la storpiatura dei nomi,Bruno Maderna chiama amichevolmente Stockhausen in una lettera a Luciano Beriodel 1956:

Prima di partire da Milano, domenica scorsa, ho risentito le nostre musiche elettroniche eGesang der Jünglinge di Stocki – Sono piuttosto belle – Indicano in maniera lampante noi tre.3

Il tono con cui Maderna si riferisce a «noi tre» per indicare i rapporti fra lui stesso,Berio e Stockhausen è particolarmente affettuoso, e mostra quanto vicini (perlomenonelle intenzioni) fossero i tre compositori nella comune militanza per la nuova musica.

Ad ogni modo, il 1956 è un anno particolarmente significativo: l’8 maggio, negli stu-di Rai di corso Sempione a Milano, alle ore 16.30 si svolge l’«Audizione di composi-zioni di musica concreta ed elettronica» alla presenza della stampa.4 È l’atto che san-cisce la definitiva inaugurazione dello Studio di Fonologia, uno dei fiori all’occhiellodella ricerca sul suono dell’avanguardia musicale per Milano e l’Italia tutta. Nell’elencodei brani eseguiti in quell’occasione figurano autori come Pierre Schaeffer, OlivierMessiaen, Berio, Maderna, ma anche Stockhausen, di cui viene eseguito Studio II, unbrano composto circa due anni prima.5 Dunque il compositore aveva già avuto gran-de influenza sui fondatori dello Studio di Fonologia, se un suo brano veniva presenta-to come rappresentativo delle esperienze di musica elettronica di quegli anni, e seMaderna lo citava apertamente come amico.

Stockhausen era sicuramente passato dalle parti di corso Sempione, perlomeno nelnovembre 1956,6 anche se non lavorò mai direttamente per lo Studio di Fonologia.7

Non ne avrebbe avuto bisogno: il suo Studio für Elektronische Musik a Colonia, fon-dato nel marzo del 1953, era all’avanguardia soprattutto per ciò che più interessava aStockhausen, cioè la spazialità del suono e le possibilità legate alle nuove scoperte sul-la musica elettronica. Non è un caso che uno dei motivi di maggior avvicinamento –ma, col senno di poi, anche di allontanamento – di Stockhausen al gruppo milanese le-gato allo Studio di Fonologia, fosse proprio l’occasione di utilizzare i macchinari deglistudi Rai.

Andiamo con ordine: uno scambio epistolare tra Milano, Zurigo e Colonia, datatoattorno agli ultimi mesi del 1956, vede Berio e altre persone legate allo Studio darsi dafare per organizzare l’arrivo a Milano di alcune personalità di rilievo (Stockhausen,Henri Pousseur, Luigi Nono e Pierre Boulez), dotandoli di una borsa di studio per per-mettere loro di lavorare direttamente nelle stanze Rai ai fini della creazione di nuovecomposizioni da presentare nel maggio 1957 alla Gesellschaft für Neue Musik di Zu-rigo, un concerto-evento interamente organizzato dallo Studio di Fonologia.8 A Stock-

257

Page 290: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

hausen, in particolare, per il concerto verrebbero richieste due composizioni: una nuo-va da prodursi negli studi di Milano, l’altra già elaborata. Sopraggiungono difficoltàeconomiche e il primo ad essere escluso dalla rosa dei nomi da ospitare a Milano è pro-prio Stockhausen: si cerca di rimediare chiedendogli di eseguire soltanto il recenteGesang der Jünglinge, ma l’autore rifiuta, poiché i macchinari milanesi non consenti-rebbero di eseguire la versione spazializzata a 5 piste.

I rapporti personali fra Stockhausen, Berio e Maderna non si interruppero qua, mala presenza di Stockhausen a Milano si fece per un certo periodo più rada. All’iniziodegli anni Sessanta è ormai il più celebre e discusso fautore della musica elettronicache si conosca in Europa. A Milano, però, lo conoscono ancora pochi: le sue musichesono eseguite sporadicamente e dovranno attendere gli anni Settanta per entrare a farparte dell’immaginario sonoro della musica contemporanea in area meneghina, men-tre «Stocki» tornerà di persona solo alla metà degli anni Settanta.

Gli anni Settanta: il grande pubblico scopre Stockhausen

Nel 1968 si festeggiano già i primi quarant’anni di Stockhausen, e certo il composito-re tedesco non può più definirsi un esordiente. L’ingresso alla Scala, meta ambita co-munque la si voglia vedere, avviene proprio il 13 marzo 1968: alla Piccola Scala è inprogramma Kreuzspiel (prima esecuzione a Milano) assieme a musiche di altri autoricontemporanei come Boulez e John Cage; Mario Gusella dirige un gruppo di stru-mentisti scaligeri. I giornali riportano un successo di pubblico quasi scontato, «e nonpoteva essere altrimenti»:9 in Italia, e a Milano in particolare, è la stagione dell’impe-gno; le sale si riempiono per i concerti di musica contemporanea, il pubblico è entu-siasta, ma è difficile – agli occhi di un osservatore odierno – discernere la reale ade-sione estetica dalle influenze dell’ideologia dominante tra gli intellettuali dell’epoca.

Dopo un primo passaggio di Antonio Ballista alla Scala con il Klavierstück IX (13gennaio 1971), Stockhausen torna sulle scene milanesi in prima persona nel marzo del1973. Alla guida della London Sinfonietta, propone un compendio dei suoi migliori la-vori (Kreuzspiel, Zeitmasse, Stop, Kontrapunkte, Adieu, Ylem) trascinando «un pubbli-co incontenibile quale a Milano non si era mai visto per la musica moderna […] ad ap-plaudire freneticamente».10 È la sua consacrazione definitiva davanti all’esigente pla-tea milanese; l’idillio non sarà dei più durevoli, ma intanto Stockhausen registra un al-tro successo alla Scala il 9 marzo 1974. Con una doppia recita alle 19 e alle 22, MauriceBéjart propone una versione coreografica di Stimmung con l’autore alla regia del suo-no. Anche in questo caso, però, il successo sa di pre-annunciato: «Il pubblico (salvoqualche dissidente che fischia) applaude a lungo e clamorosamente gli artisti e se stes-so che ha partecipato».11 I critici mostrano di apprezzare pressoché incondizionata-

258

Page 291: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

mente i lavori di Stockhausen, ma il divismo del personaggio e le reazioni del pubbli-co suscitano perplessità.

Con il 1976 la recezione della musica di Stockhausen a Milano arriva a un bivio: daun lato, l’autore è ora accolto da fasce sempre maggiori di pubblico e da musicisti di pri-mo piano; dall’altro, la mancata possibilità di inserimento in una determinata categoriapolitica lo pone in sospetto agli occhi della critica marxista. Stockhausen al servizio del-l’imperialismo è il titolo di una raccolta di articoli pubblicati a Milano proprio nel 1976dalle Edizioni di Cultura Popolare.12 Riferendosi a Refrain (1959), l’autore, il composi-tore inglese Cornelius Cardew, denuncia un «cambiamento nell’opera di Stockhausen.Da allora il suo lavoro ha assunto molto chiaramente un carattere mistico».13 L’accusadi aver abbandonato l’avanguardia a favore «del più grande sistema di oppressione esfruttamento dell’uomo che il mondo abbia mai conosciuto: l’imperialismo»,14 pur contoni meno apocalittici, assieme al rimprovero per la deriva «mistica» della sua musica,sarà un Leitmotiv della critica musicale italiana, specie quella milanese.

Ad ogni modo, il 1976 è decisamente l’anno di Stockhausen. Dopo una prima voltadi Maurizio Pollini con il Klavierstück X (Teatro alla Scala, 19 gennaio 1976, il primodi una lunga serie ancora oggi portata avanti con tenacia e costanza), il 15 marzo ilTeatro Lirico registra la presenza di 2000 spettatori per l’esecuzione di Mantra con ilduo pianistico Canino-Ballista e l’autore alla regia del suono.15 Ma è con la storica pri-ma italiana di Gruppen per tre orchestre, il 3, 5, 6 e 8 novembre (mentre il mondo sa-lutava l’elezione di Jimmy Carter come trentanovesimo presidente degli Stati Uniti)che Stockhausen diviene autore di riferimento per il teatro milanese e per il suo diret-tore musicale, Claudio Abbado:16 i 160 musicisti, disposti a semicerchio divisi in tregruppi, sono diretti da Abbado stesso, Edoardo Müller e Gabriele Bellini. È un enor-me successo:17 la replica dell’8 novembre sarà riservata alla neonata rassegna «Musicanel nostro tempo», siglando così un’intesa fra la Scala e la nuova manifestazione di mu-sica contemporanea che durerà fino agli inizi degli anni Novanta.

Gli anni Ottanta: il ciclo Licht

Gli anni della «Milano da bere» sono per Stockhausen un decennio particolarmentevivace sul fronte delle nuove proposte per il teatro musicale: la nascita del progetto diuna eptalogia dedicata ai diversi giorni della settimana, concepito già a partire dal1977,18 si concretizza infatti nel 1981. Che Stockhausen avesse accettato di eseguire leprime assolute del suo ciclo Licht in una città italiana è cosa degna di attenzione: a po-steriori il compositore se ne ricorderà con giudizio ambivalente,19 ma certo le primetre opere allestite a Milano (Donnerstag, Montag, Samstag) contribuirono a creare unaserie di eventi collaterali (conferenze, interviste, lezioni, proiezioni) che conferirono a

259

Page 292: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Stockhausen l’aura mitica che ancora oggi ne circonda la figura, a metà tra il Vate el’Artigiano del suono.

Il 15 marzo del 1981 il ridotto dei palchi del Teatro alla Scala si fa protagonista diun Saluto che è parte integrante della prima giornata Donnerstag aus Licht:20 ma lapresentazione delle tre «formule» principali dell’opera21 in contemporanea dietro lequinte non è benaugurante; la Scala, infatti, non è riuscita a mettere d’accordo alcuniartisti del coro su 4 minuti e 8 secondi di musica. Alla direzione del teatro (rappre-sentata dal sovrintendente Carlo Maria Badini e dal direttore artistico Cesare Mazzo-nis) vengono rivendicati come solistici questi brani, dunque passibili di una indennitàstimata in 150.000 lire. Viene formato un giurì, presieduto dallo stesso Stockhausen,che esprime un giudizio negativo. Gli artisti del coro non ci stanno e dichiarano scio-pero: l’unica possibilità è andare in scena senza il terzo atto da cui sono tratti i pas-saggi incriminati.

È la triste storia dell’esordio di Licht alla Scala: Stockhausen, durante una confe-renza stampa del 14 marzo, esclama: «È una farsa, devono dire “aaahhh” e pretendo-no il trattamento da solisti».22 La prima di Giovedì da Luce (regia di Luca Ronconi,scenografia di Gae Aulenti, direzione musicale di Peter Eötvös) avviene dunque fra leturbolenze dei rapporti di forza interni al teatro: all’apertura del sipario, uno speakerufficiale definisce «sindacalismo vetero corporativo» l’atteggiamento degli scioperan-ti.23 Gli abbonati di «Musica nel nostro tempo», cui è riservata la prima rappresenta-zione, sono costretti a tornare a casa senza l’atto intitolato «Ritorno di Michael». Male cose sono destinate a risolversi: il 27 marzo, con una infiammata riunione a metà del-la quarta replica, il teatro decide di richiedere il giudizio del Tar in merito alla verten-za, mentre per la registrazione radiofonica viene riconosciuto agli aventi diritto la mag-giorazione del 300% della retribuzione giornaliera.24

Si fissa per il 3 aprile la data della prima rappresentazione completa: l’attesa è enor-me, le disillusioni dietro l’angolo. L’opera dura cinque ore compresi gli intervalli, e iltanto agognato terzo atto non suscita le stesse emozioni del resto del testo:25 neancheil «Congedo» eseguito dalle finestre di Palazzo Marino sopisce gli animi degli ascolta-tori, i quali replicano alle trombe dei suonatori a colpi di clacson.26 La critica è piut-tosto compatta nel definire Donnerstag un interessante complesso di musiche moltoben riuscite, ma un fallimento dal punto di vista teatrale: obiezione, questa, che sarà lapiù ricorrente anche per le altre due opere allestite a Milano.27

La seconda opera del ciclo portata in scena a Milano è Samstag aus Licht: dal mon-do di Michael si passa al regno di Lucifer, in un unico atto diviso in quattro scene del-la durata totale di tre ore e tre quarti in cui la natura drammatica dell’azione è sostan-zialmente «rituale e simbolica».28 Ritorna la famiglia Stockhausen al completo, comegià era avvenuto con Donnerstag: il figlio Markus alla tromba per Michael, la figliaMajella al pianoforte e Kathinka Pasveer (legata sentimentalmente a Stockhausen) al

260

Page 293: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

flauto per rappresentare una misteriosa «gatta nera». C’è poco in comune con la pre-cedente opera, se si eccettua la struttura musicale costruita per «formule»: anche la se-de scelta per l’evento è decisamente fuori dal comune. Il Palazzetto dello Sport, unagrande arena coperta in zona San Siro, sembrerebbe una decisione presa in seguito al-le richieste di Stockhausen di uno spazio nuovo «adatto all’ascolto delle opere moder-ne».29 In realtà, alla base ci sarebbero state ragioni di sicurezza, anche se inizialmentel’autore progettava di spostare il pubblico, per l’ultima scena, dal teatro alla vicinachiesa di San Fedele.30

Il 25 maggio 1984, gli abbonati di «Musica nel nostro tempo» si ritrovano a optarefra due possibilità di accomodamento: 1200 di loro potranno sedersi su cuscini dispo-sti a forma di Lucifero nel mezzo della platea, mentre altri 800 avranno visione fron-tale sulle gradinate.31 Lo staff Ronconi-Aulenti rimane, ma il loro ruolo è sempre me-no decisivo: dice il regista stesso che la sua è una «esecuzione di quanto Stockhausenaveva già chiarissimo in mente».32 Ad ogni modo, qui più che in altri testi teatrali, ilcompositore ha voluto dare sfogo alla particolare vena grottesco-ironica del suo mododi intendere la drammaturgia: così, nella terza scena, il finale prevede che l’attore PieroMazzarella interpreti il sovrintendente Badini mentre cerca di placare una rivolta de-gli orchestrali; è chiaramente una rievocazione delle vicende legate allo sciopero perDonnerstag, ma la comicità un po’ greve della scena non piace ai critici, che la boccia-no come «una rumorosa e infantile parodia dell’avvenimento»33 e «uno sketch greveed avvilente».34 Anche il finale dell’opera, quando un coro di monaci rompe una do-po l’altra 36 noci di cocco, non viene capito,35 ma coinvolge il giovane pubblico che locelebra come un happening di fine serata.36 In generale, l’accoglienza del pubblico ècompatta nel decretarne il successo; non altrettanto entusiasta è la critica militante, checontinua a rimproverare a Stockhausen sostanzialmente tre cose: 1) la sua musica è dif-ficile, matematica, dunque molto poco teatrale; 2) è una personalità troppo accentra-trice; 3) è autoritario, dispotico e, di riflesso, di destra.37 L’ultima affermazione è par-ticolarmente significativa: lo stesso Stockhausen, difatti, ravvisa una certa diffidenzaideologica nei suoi confronti (già presente fin dalla metà degli anni Settanta, vedi su-pra) nella Milano socialista di quegli anni, prendendosela con «questi intellettuali chepensano che qualunque [cosa] venga eseguita in chiesa non sia di loro interesse»;38

quattro anni dopo – in occasione del ritorno a Milano per l’allestimento della terzaopera, Montag aus Licht – il ricordo della messinscena di Samstag non è dei più felici:

Il Palazzo dello Sport era un luogo molto grande che ha permesso di avere un teatro attor-no al pubblico; ma l’acustica di questa sala non era adatta ad eventi musicali, ed io ho sof-ferto molto durante quelle settimane. L’atmosfera era troppo fredda, non c’era aria […].Alcuni studenti hanno pure rubato dalle sale dove si cambiavano gli artisti, per non parlaredella quantità di microfoni e apparecchi spariti. Era veramente un luogo diabolico.39

261

Page 294: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Il luogo era così «diabolico» che pochi mesi dopo (17 gennaio 1985) crollò sotto il pe-so della più grande nevicata registrata a Milano nel XX secolo.

Nel maggio 1988 si giunge alla terza opera del ciclo Licht: preceduta da un affolla-to incontro con l’autore organizzato dagli Amici del Loggione al teatro Litta,40 la pri-ma di Montag si tiene nei luoghi più consoni del Piermarini. È il 7 maggio quando –dopo aver accolto il pubblico nel foyer «in una speciale situazione atmosferica di nu-vole, pioggia e gelo»41 – il sipario si apre su un nuovo spettacolo a firma del registaMichael Bogdanov, con Stockhausen stesso alla regia del suono e il fido Peter Eötvöscome direttore «invisibile» (a dirigere un’orchestra «moderna», con largo utilizzo dinastro magnetico a 8 piste):42 la scena è dominata da Eva, madre del mondo, rappre-sentata da una enorme statua a gambe spalancate, dalla quale, durante i tre atti di cuil’opera è composta, sbucano «coristi-automi […] da vagine di quindici metri per cin-que».43 Nonostante la grandiosità delle scene, anche in questo caso Stockhausen fastorcere il naso ai critici:

Stockhausen ha tutte le maggiori qualità che un compositore può avere ma non ha il mini-mo senso del teatro.44

Sarebbe fin troppo facile infierire sulla concezione teatrale di Montag […] appare perlome-no sconcertante la sicurezza con cui Stockhausen si atteggia a interprete di verità supreme.45

Stockhausen […] si è ridotto ad epigono di Fausto Papetti […]. Il testo e l’azione di questoMontag volgari, noiosi e sconclusionati, sono la parodia d’una creazione del mondo con mu-sichetta d’accompagnamento.46

Gli argomenti sono i soliti, con una più accentuata demarcazione ideologica che, co-munque, mette d’accordo critici di destra e sinistra. Al contrario di Samstag, però, inquesto caso anche il pubblico non è convinto: lo stesso auditorio preparato degli ab-bonati di «Musica nel nostro tempo» (cui è riservata la prima rappresentazione) con-testa l’autore all’uscita sul palcoscenico per gli applausi. E le cose non vanno meglioper le recite successive,47 il cui culmine è raggiunto con la replica destinata al turno A:

La platea non è al completo: molti, già provati da una stagione difficile, hanno preferito ma-rinare. Un applauso modesto, alimentato soprattutto dai giovani studenti di musica su nelloggione, conclude il primo atto. In sala, un signore s’alza rimpiangendo a gran voce il Car-melo Bene dei tempi d’oro («Lui, almeno, sul pubblico sputava per davvero»). Un altro, daun palco, grida ai compagni di serata: «Ma vi rendete conto di come spendono i nostri sol-di?». Fischi, nemmeno uno. Solo, tanta gente che già alla fine del primo atto, e ancor più do-po il secondo, abbandona la posizione: lasciando, alla fine, per quasi metà platea e palchivuoti […]. Al terzo atto, in sala, c’è chi dorme. I flauti acidi di Stockhausen li svegliano bru-scamente, lo capisci da come alzano la testa di scatto. Poi, saranno quelli che applaudonopiù forte.48

262

Page 295: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Così, tra gli applausi di un pubblico che fa mostra visibile di non interessarsi a ciò chevede ed ascolta, comincia l’allontanamento di Stockhausen da Milano. La città stacambiando: con la fine delle giunte socialiste e la crisi di «Tangentopoli», è l’ora del«disimpegno». Non sarà un caso se, pressoché negli stessi anni, «Musica nel nostrotempo» esaurisce la sua parabola e la nuova sovrintendenza del Teatro alla Scala pro-voca la conclusione precoce del progetto Licht (che verrà portato avanti in altre cittàtedesche durante gli anni Novanta) e la rottura dei rapporti col suo autore.49

Gli ultimi anni: musica in Duomo

Con la fine dei rapporti con il Teatro alla Scala e la conseguente interruzione del cicloLicht a Milano (che del resto Stockhausen presagiva già ai tempi di Montag,50 immagi-nando di poterlo spostare a Palermo),51 le esecuzioni di Stockhausen e la sua presenzaa Milano si affievoliscono progressivamente. Così, durante gli anni Novanta, i program-mi delle stagioni tradizionali sembrano dimenticarsi del compositore tedesco, mentre lasua musica viene affidata a nascenti festival di musica contemporanea come quello diMilano Musica (nato dalle ceneri di «Musica nel nostro tempo») e di Novurgia.

L’occasione per il ritorno di Stockhausen a Milano si presentò molto più tardi, nel2004, in chiesa, là dove secondo l’autore gli intellettuali milanesi non avrebbero trova-to niente di interessante (vedi supra). Il curioso contrappasso con cui l’autore si lasciòalle spalle le polemiche e accettò di tornare con una esecuzione di Gesang der Jünglingesi ebbe nel Duomo di Milano il 1° aprile, in occasione della rassegna «Pause» orga-nizzata da don Luigi Garbini: incaricato diocesano per i concerti nelle chiese e diret-tore del Laboratorio di Musica Contemporanea al Servizio della Liturgia, Garbini èl’artefice di una vera politica culturale – seppur circoscritta alla poetica del «sacro» –per la musica contemporanea a Milano. La sera del 1° aprile (dopo che Stockhausenaveva tenuto una masterclass presso la Sala Puccini del Conservatorio), l’esecuzione diGesang era accompagnata da alcuni brani di Montag aus Licht (curiosa nemesi nei con-fronti della Scala) e una installazione di video-art, Emergence di Bill Viola. A presen-tare la serata, il cardinale Dionigi Tettamanzi: fuori, una lunga coda di persone in at-tesa di entrare. Stockhausen fa ancora presa sull’immaginario collettivo, anche se igrandi quotidiani dedicano pochissimo spazio al ritorno del «grande sperimentato-re»52 e l’autore è sempre meno propenso a rilasciare interviste.53

L’anno successivo Stockhausen torna di nuovo a Milano, fedele alla rassegna «Pau-se» che lo ospita quasi come composer-in-residence: il 5 maggio 2005, l’evento unicoospita – oltre a Stockhausen – l’iraniana Shirin Neshat e il danzatore Bill T. Jones. Peril compositore è l’occasione per cominciare un nuovo ciclo:54 si tratta di Klang, le 24ore del giorno, divise ora per ora; poiché il 5 maggio di quell’anno era il giorno del-

263

Page 296: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

l’Ascensione, il titolo scelto da Stockhausen per inaugurare il nuovo progetto è Him-melfahrt. Erste Stunde (Ascensione. Ora prima, appunto). La composizione prevedeun organista (per l’occasione, Alessandro La Ciacera) e due cantanti (il soprano Bar-bara Zanichelli e il tenore «in falsetto» Paolo Borgonovo) invisibili al pubblico graziea un grande telo che chiude la navata centrale; l’autore siede alla consolle di regia delsuono, cercando di addomesticare un’acustica che prevede circa 18 secondi di river-bero. L’ingresso libero e la curiosità di molti permettono al Duomo di riempirsi di cir-ca 2500 persone, come testimonia l’attonito inviato di «Le Monde» dalle colonne diuno dei pochi quotidiani che ha dedicato intere pagine all’evento.55

Nel 2006 Stockhausen torna per l’ultima volta a Milano, ormai settantasettenne.Sempre per «Pause», sempre in Duomo, il 7 giugno è la volta di Zweite Stunde(Freude), un brano per due arpe: l’autore dichiara di aver pensato che «potessero an-che cantare, mentre strappano, accarezzano, colpiscono, pizzicano, strofinano le cor-de dell’arpa. Due voci pure, che esultano sul testo, musicato da me, del Veni CreatorSpiritus: 24 righe, 8 sillabe per ogni riga, una base perfetta e in armonia col mio pro-getto Klang».56 Così, tra piccole «emozioni pulviscolari»57 di uno dei brani più inti-mistici e raccolti della produzione di Stockhausen, l’autore salutò il pubblico milane-se senza sapere che di lì a poco, nel dicembre 2007, il suo ritorno fra le anime di Siriosarebbe coinciso con la morte di Isolde in scena alla Scala, «in un bagliore di stelle».58

1 Notizia battuta dalle agenzie di stampa alle 13.37 dell’8 dicembre 2007.2 G. Manin, Poker alla Scala, «Corriere della Sera», 29 maggio 2008.3 Bruno Maderna a Luciano Berio, Verona, 4 luglio 1956; Paul Sacher Stiftung di Basilea, fondoLuciano Berio, microfilm 072; cit. in V. Rizzardi, A.I. De Benedictis (a cura di), Nuova musica alla ra-dio. Esperienze allo Studio di Fonologia della Rai di Milano 1954-1959, Rai-Eri, Torino 2000 (Docu-menti sonori e studi, 1), p. 277.4 Cfr. N. Scaldaferri, Musica nel laboratorio elettroacustico. Lo Studio di Fonologia di Milano e la ri-cerca musicale negli anni Cinquanta, «Quaderni di Musica/Realtà», 41, 1997, p. 70.5 Il documento è riportato in N. Scaldaferri, Musica nel laboratorio elettroacustico…, cit., p. 70n.6 Nel novembre 1956 Berio riferisce ad Henri Pousseur che Stockhausen aveva visitato lo Studio «perqualche giorno e può già dirti qualcosa in proposito» (lettera a Henri Pousseur, 26 novembre 1956,conservata presso la Paul Sacher Stiftung, fondo Luciano Berio; documento segnalatomi da AngelaIda De Benedictis, a cui sono grato per avermi messo a disposizione materiale tuttora inedito).7 Lo riferisce il tecnico Marino Zuccheri in un’intervista rilasciata ad Angela Ida De Benedictis: «Sì,Stockhausen; ma non perché abbia fatto qualcosa in Studio! Con lui ho collaborato quando veniva inItalia: per i concerti di musica elettronica lo Studio metteva solitamente a disposizione gli apparecchie così io andavo a mettere a punto gli impianti tecnici» (Nuova musica alla radio, cit., p. 189).8 Tutte le vicende legate al concerto di Zurigo sono descritte in N. Scaldaferri, Musica nel laboratorioelettroacustico…, cit., pp. 75-77.9 È il commento dell’anonimo autore di Concerti a Milano, «Corriere della Sera», 14 marzo 1968.10 D. Courir, Alla Piccola Scala Stockhausen, «Corriere della Sera», 15 marzo 1973.11 L. Arruga, Avanguardia di gran classe, «Il Giorno», 10 marzo 1974.12 C. Cardew, Stockhausen al servizio dell’imperialismo ed altri articoli, a cura di U. Mosca e S. Mel-chiorre, Edizioni di Cultura Popolare, Milano 1976. Il testo è la traduzione in italiano di Stockhausenserves Imperialism, Latimer New Dimensions Limited, London 1974.

264

Page 297: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

13 Ibid., p. 49.14 Ibid., p. 48.15 «Circa 2000 spettatori, giovani per la massima parte, hanno ascoltato in assoluto silenzio settantaminuti di musica per applaudire alla fine con grande entusiasmo gli impareggiabili Canino e Ballistainsieme con l’autore» (D. Courir, Magico Stockhausen, «Corriere della Sera», 17 marzo 1976).16 Cfr. A.I. De Benedictis, V.C. Ottomano, Claudio Abbado alla Scala, Rizzoli, Milano 2008, pp. 39-40.17 «L’attenzione ed il successo da parte del pubblico scaligero sono stati grandi e forse questo risulta-to, socialmente, non è meno rivoluzionario del linguaggio di Stockhausen» (D. Courir, Stockhausenvince alla Scala, «Corriere della Sera», 5 novembre 1976).18 Cfr. R. Toop, Licht, in Grove Music Online. Oxford Music Online, <www.oxfordmusiconline.com>(agg. 22 ottobre 2008).19 «Non esistono altrettanti giovani tedeschi in gamba, ragazzi e ragazze, quanti ce ne sono in Italia.Solo che da voi sono amari e frustrati… È una sorta di circolo vizioso. Quel che manca in Italia è uncervello, in funzione di guida pensante della cultura. I presupposti ci sono […]. L’altro guaio riscon-trato sia a Milano che a Torino riguarda il personale. Il clima trasandato durante le prove; la mancan-za di puntualità, il comportamento da perdigiorno, con tutte quelle sigarette fumate durante il lavo-ro. Una indolenza esasperante.» Sono le parole di Stockhausen raccolte in una lunga intervista conMya Tannenbaum. Cfr. K. Stockhausen, Intervista sul genio musicale, a cura di M. Tannenbaum,Laterza, Bari 1985, pp. 101-102.20 Il Donnerstags-Gruss era già stato eseguito nel 1978, come del resto molte altre parti delle opere checompongono il ciclo Licht: Stockhausen, infatti, arrivava alla prima esecuzione assoluta delle opere informa integrale con alle spalle una lunga serie di concerti a mo’ di prova delle sezioni separate. Cfr. R.Toop, «Karlheinz Stockhausen», in Grove Music Online. Oxford Music Online, <www.oxfordmusi-conline.com> (agg. 22 ottobre 2008).21 L’intero ciclo Licht è costruito secondo un complesso meccanismo per cui una «formula», un or-ganismo musicale definito in tutti i suoi parametri, è associata ad ognuno dei tre protagonisti (Mi-chael, Eva, Lucifer) e poi riunita in una «superformula» che le comprende tutte e tre. Cfr. L. Ferrari,Donnerstag, giorno di Michael, in Donnerstag aus Licht, programma di sala del Teatro alla Scala, sta-gione 1980-1981, Edizioni del Teatro alla Scala, Milano 1981, pp. 173-184.22 Stasera Stockhausen ma senza terzo atto, «il Giornale», 15 marzo 1981.23 Cfr. A. Foletto, Cercasi altro coro, più disponibile, «la Repubblica», 17 marzo 1981.24 Cfr. F. Damerini, Il 3 aprile Stockhausen completo, «Corriere della Sera», 28 marzo 1981.25 «Il terzo atto è apparso, malgrado il significato riassuntivo e universale delle pretese, il meno inte-ressante» (A. Foletto, Forse è troppo lunga e faticosa la strada che porta alla Gran Luce, «la Repub-blica», 5-6 aprile 1981).26 Cfr. L. Arruga, I clacson contro Stockhausen, «Il Giorno», 5 aprile 1981.27 Illuminante la domanda posta da Mya Tannenbaum al compositore stesso, riguardo Donnerstag:«Perché tiene tanto agli spettacoli d’opera, dal momento che il suo teatro è meno prorompente, me-no interessante della sua musica?» (K. Stockhausen, Intervista sul genio musicale, cit., p. 127).28 J. Kohl, Stockhausen at La Scala: Semper idem sed non eodem modo, «Perspectives of New Music»,22/1-2, 1984, p. 489. Trad. mia.29 P. Calcagno, «Sabato da Luce» di Stockhausen al Palasport, «Corriere della Sera», 24 maggio 1984.30 J. Kohl, Stockhausen at La Scala, cit., p. 483.31 M. Zurletti, Qui giace Lucifero, «la Repubblica», 27-28 maggio 1984.32 M.F., Stockhausen e la faccia di Lucifero, «la Stampa», 24 maggio 1984.33 R. Tedeschi, Un sabato da Lucifero, «l’Unità», 27 maggio 1984.34 L. Arruga, Questo immenso, strepitoso e quasi inutile Stockhausen, «Il Giorno», 27 maggio 1984.35 «I monaci, per il congedo, rompono una dopo l’altra 36 noci di cocco, cosa la cui importanza ap-pare solo ai monaci o a Stockhausen, ed alle noci di cocco» (L. Arruga, Questo immenso…, cit.).36 «[Quando] il pubblico comincia ad andarsene […] cerca soprattutto di impossessarsi di almeno unframmento delle tante noci di cocco sventrate» (M. Zurletti, Qui giace Lucifero, cit.).37 Le tre accuse sono elencate da J. Kohl, Stockhausen at La Scala, cit., p. 499.38 J. Kohl, Stockhausen on Opera, «Perspectives of New Music», 23/2, 1985, p. 25. Trad. mia.39 Intervista radiofonica rilasciata nel maggio 1988 a Claudio Ricordi per Radio Popolare. Sono gra-

265

Page 298: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

to a Ricordi per avermi permesso di trascrivere queste parole.40 Era il 2 maggio. Cfr. M. Pasi, «Ecco la mia Eva, madre del mondo», «Corriere della Sera», 4 maggio1988.41 Ibidem.42 Montag aus Licht, programma di sala del Teatro alla Scala, stagione 1987-1988, Edizioni del Teatroalla Scala, Milano 1988, p. 27.43 D. Daolmi, Un incontro irrealizzabile, dal programma di sala per Jackie O di Michael Daugherty,Fondazione Teatro Rossini, Lugo 2008.44 M. Zurletti, Sette giorni avvolti nel buio di «Luce», «la Repubblica», 10 maggio 1988.45 P. Petazzi, Eva fecondata dalla musica, «l’Unità», 9 maggio 1988.46 M. Papini, Stockhausen, lunedì nero, «il Giornale», 9 maggio 1988.47 «Ieri, per i due spettacoli domenicali, c’era quasi il deserto» (G. Mazzola, L’attesa prima di Stock-hausen non ha entusiasmato la Scala, «la Notte», 9 maggio 1988).48 M. Corradi, In quel vecchio palco un melomane soffre, «la Repubblica», 14 maggio 1988.49 Cfr. R. Maconie, Other Planets. The Music of Karlheinz Stockhausen, Scarecrow Press Inc., Lanham2005, p. 477. Dopo Carlo Maria Badini, Carlo Fontana è il nuovo sovrintendente del Teatro alla Scaladal 3 ottobre 1990, nomina avvenuta su richiesta del sindaco socialista Paolo Pillitteri e ratificata dalministro Tognoli, ex-sindaco di Milano (cfr. A. Cannavò, «Lascio con orgoglio l’amata Scala, ora chie-do aiuto a tutti gli artisti», «Corriere della Sera», 5 ottobre 1990). Stockhausen, più tardi, dirà che laScala si era ritirata «per mancanza di soldi» (L. Bentivoglio, Karlheinz Stockhausen: e luce fu, «laRepubblica», 23 giugno 1993) e che «l’arrivo di Fontana, che immagino detesti la mia musica, inter-ruppe la collaborazione, malgrado il folto pubblico che avevo a Milano» (L. Bentivoglio, Stockhausen:sono il padre della techno, «la Repubblica», 14 maggio 2003). Pochi giorni dopo, la sovrintendenzascaligera ribadì la questione economica, non senza sottolineare come si trattasse di «produzioni daicosti elevatissimi, circa 2 miliardi di vecchie lire ciascuna, rispetto alle previsioni di ricavi insignifi-canti» (lettera a «la Repubblica», 16 maggio 2003).50 «Non è certo che la Scala voglia continuare la produzione, se cambierà la direzione artistica» (M.Pasi, «Ecco la mia Eva, madre del mondo», cit.).51 Cfr. L. Pestalozza, Stockhausen e l’Italia: una questione d’idee, «Musica/Realtà», 19, 1998, p. 190.52 A. Foletto, Il Duomo apre le porte al grande sperimentatore, «la Repubblica-Milano», 1 aprile 2004.Va segnalato che lo stesso quotidiano deciderà di non recensire il concerto, mentre il «Corriere dellaSera» farà uscire il giorno dopo una segnalazione di 2000 battute (cfr. P. Panza, Tettamanzi e Stock-hausen, in Duomo l’emozione della musica elettronica, «Corriere della Sera», 2 aprile 2004).53 Cfr. E. Tomaselli, Stockhausen oggi, uno splendido isolamento, «Amadeus», 177, agosto 2004, p. 33.54 Il progetto era già nella mente di Stockhausen almeno dal 1988, anno in cui – durante un’intervi-sta a Claudio Ricordi per Radio Popolare – afferma: «Dopo Licht, che rappresenta i sette giorni del-la settimana, vorrei lavorare sulle 24 ore della giornata, poi l’ora, poi il minuto». 55 Cfr. gli articoli di P. Gervasoni apparsi su «Le Monde» dell’8 maggio 2005 (ed. online, <http://www.stockhausen.org/klang_milan.html>, agg. 30 gennaio 2009).56 P. Zonca, Stockhausen in Duomo: «il mio inno alla gioia», «la Repubblica-Milano», 7 giugno 2006.57 Angelo Foletto, Stockhausen emozioni pulviscolari, «la Repubblica-Milano», 9 giugno 2006.58 «Sternumstrahlet», verso tratto da Richard Wagner, Tristan und Isolde, trad. italiana a cura di F.Serpa, in Id., Tristan und Isolde, programma di sala del Teatro alla Scala, stagione 2007-2008, p. 67.

266

Page 299: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Nicola Scaldaferri Lo Studio di Fonologia musicale della Rai nella Milano del dopoguerra

La vicenda dello Studio di Fonologia musicale della Rai di Milano rappresenta unatappa fondamentale per gli sviluppi della musica elettroacustica. Si tratta di un’espe-rienza che ha visto il suo momento aureo nella seconda metà degli anni Cinquanta delsecolo scorso, segnati dalla presenza di Luciano Berio che ne è stato fondatore (assie-me a Bruno Maderna) e direttore fino al 1959. L’attività dello Studio, pur essendo poiproseguita ancora per parecchi anni ed avendo avuto tra i suoi protagonisti una figuracome quella di Luigi Nono, è stata accompagnata da un calo di interesse dell’istituzio-ne presso la quale era ospitata, fino alla definitiva chiusura avvenuta nel 1983.

Nel 2008, come è noto, le apparecchiature tecniche ancora conservate1 sono statetrasferite al Castello Sforzesco per essere collocate presso il museo degli strumenti mu-sicali. Il materiale documentario relativo alla produzione musicale vede oggi un cre-scendo di interesse da parte degli studiosi che in modo sempre più puntuale vannoscoprendo e rivelando i tratti di un’esperienza creativa dal valore straordinario.2

Nella prefazione alla terza edizione di Opera aperta, Umberto Eco, parlando di O-maggio a Joyce, fa una rievocazione esemplare dell’ambiente dello Studio di Fonologianella seconda metà degli anni Cinquanta, dove in un clima tra bricolage, curiosità in-tellettuali, incontri interdisciplinari spesso imprevedibili, vengono scritte pagine fon-damentali della storia della musica del Novecento:

Tra il 1958 e il 1959 io lavoravo alla Rai di Milano. Due piani sopra il mio ufficio c’era loStudio di Fonologia musicale, allora diretto da Luciano Berio. Ci passavano Maderna, Bou-lez, Pousseur, Stockhausen, era tutto un sibilare di frequenze, un rumore di onde quadre edi suoni bianchi. In quei tempi io stavo lavorando su Joyce e si passava la sera a casa di Berio,mangiavamo la cucina armena di Cathy Berberian e si leggeva Joyce. E di lì è nato un espe-rimento sonoro il cui titolo originale era Omaggio a Joyce, una sorta di trasmissione radiofo-nica di quaranta minuti in cui si iniziava leggendo il capitolo 11 dello Ulysses (quello dettodelle Sirene, un’orgia di onomatopee e allitterazioni), in tre lingue, in inglese, nella versionefrancese e in quella italiana; ma poi, siccome Joyce stesso aveva detto che la struttura del ca-pitolo era a fuga per canonem, Berio iniziava a sovrapporre i testi a modo di fuga, prima l’in-glese sull’inglese, poi l’inglese sul francese e così via, una specie di Fra Martino Campanaropolilingue e rabelaisiano, con grandi effetti orchestrali (ma era sempre e solo voce umana) einfine Berio lavorava sul testo inglese solo (lo diceva Cathy Berberian) filtrando certi fone-mi, sino a che ne venne fuori una composizione musicale vera e propria, quella che circolain disco sotto lo stesso titolo, Omaggio a Joyce, ma non ha più nulla a che vedere con la tra-smissione, che invece era critico-didascalica e commentava le operazioni passo passo.3

267

Page 300: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Oltre al ruolo di figure tenaci e determinate come Berio, Maderna e Nono, che con laloro capacità creativa – soprattutto l’ultimo – hanno portato a una continuità operati-va che ha anche compensato le deficienze tecniche degli ultimi anni, decisivo risulta es-sere anche il ruolo del tecnico Marino Zuccheri; la sua parabola professionale coinci-de di fatto con l’intera attività dello Studio, e il 28 febbraio 1983, data del suo pensio-namento, è stato l’ultimo giorno di apertura di una struttura ormai lontana dai fasti deisuoi anni migliori e in sostanziale disuso a causa dell’obsolescenza tecnologica.4

Come è stato sempre sostenuto da Roberto Leydi, uno dei collaboratori della primaora e attento osservatore di tutte le successive vicende, la nascita dello Studio diFonologia e lo sviluppo dei suoi anni di maggior attività vanno osservati all’interno delclima della Milano del dopoguerra.5

Si tratta di una città che, nel contesto di un grande risveglio culturale, si va trasfor-mando in una delle capitali europee della musica. Possono significativamente riassume-re questo clima eventi emblematici come il Congresso di musica dodecafonica promos-so da Riccardo Malipiero e Wladimir Vogel nel 1949, il Wozzeck diretto da Mitropoulosalla Scala nel 1952 e che annovera tra gli spettatori anche la coppia di coniugi LucianoBerio e Cathy Berberian. Sorge nel 1950 a Milano la prima rivista italiana di musica con-temporanea del dopoguerra, «Diapason», diretta da Herbert Fleischer in collaborazio-ne con Luigi Pestalozza e Piero Santi; vi sono le iniziative del Piccolo Teatro, della Casadella Cultura e del Circolo Pirelli, che ospiterà nel 1954 la celebre performance italianadi John Cage e David Tudor. Di centrale importanza inoltre l’attività della casa editriceSuvini Zerboni, soprattutto a partire dal 1948, quando Ladislao Sugar ne diventa pro-prietario e ne fa un importante punto di riferimento per i giovani musicisti, tra l’altropubblicando anche la rivista «Incontri Musicali-Quaderni internazionali di musica con-temporanea» fondata da Berio e uscita tra il 1956 e il 1960. Sono anche gli anni in cuiin Conservatorio domina la figura di Giorgio Federico Ghedini, mentre si affaccianogiovani compositori quali Niccolò Castiglioni e Giacomo Manzoni.

Importante punto di riferimento è la sede della radio di corso Sempione, che in que-gli anni annovera tra i suoi dirigenti figure di spicco del mondo musicale: da GiulioRazzi ad Alberto Mantelli, da Mario Labroca a Nando Ballo a Luigi Rognoni. Tra lealtre persone che lavorano e collaborano con la radio milanese ci sono i giovani PieroSanti, Roberto Leydi e Luciano Berio, che comincia la sua attività all’interno dell’isti-tuzione come collaboratore alle sonorizzazioni e assistente al doppiaggio.

Il ruolo della radio è importante anche per l’istituzione nel 1948 del «Prix Italia» checostituirà uno stimolo per la produzione radiofonica; l’esperienza dei radiodrammi harappresentato infatti un campo di sperimentazione di fondamentale importanza.6

I primi contatti dei compositori italiani con il mondo della composizione elettroa-custica avvengono durante le loro esperienze internazionali. Maderna è il primo a ci-mentarsi con i nuovi mezzi, sulla scia delle esperienze dei Ferienkurse di Darmstadt

268

Page 301: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

dove si parla di musica elettronica dal 1950, anno della partecipazione di Edgard Va-rèse. Nel 1952 Maderna compone, proprio in vista dei Ferienkurse, Musica su due di-mensioni per flauto, nastro magnetico e piatto.7 Il nastro viene realizzato a Bonn conla collaborazione di Werner Meyer-Eppler. Quasi contemporaneamente Berio si trovanegli Usa, dove viene a conoscenza dei lavori di tape music; sarà anche presente al con-certo del 28 ottobre 1952 a New York al Museum of Modern Art dove ascolterà mu-siche su nastro di Vladimir Ussachevsky e Otto Luening, restando particolarmente col-pito non tanto dalla qualità della musica quanto dalle possibilità offerte dalle nuovetecnologie.

Berio e Maderna si conosceranno nel 1953, anno in cui Berio figura già tra i colla-boratori della radio di Milano; un importante ruolo nell’agevolare i rapporti del gio-vane Berio con Rognoni e Razzi viene svolto da Luigi Dallapiccola.8

Prendendo spunto da varie esperienze che si stanno accumulando all’orizzonte, tracui quelle dei due studi già attivi in Europa, quello di Parigi e del Wdr di Colonia, edello studio di Gravesano inaugurato nella primavera del 1954,9 e tenendo presente leconcrete esigenze di sonorizzazione della pratica quotidiana radiofonica, prende cor-po negli ultimi mesi del 1954 un progetto per la costituzione di un Centro Sperimen-tale di Ricerche Radiofoniche. Il progetto, presentato nel novembre al direttore gene-rale della Rai Filiberto Guala, riguarda la costituzione, presso la sede compartimenta-le della radio di Milano, di un Centro come primo nucleo di un costituendo Centro ita-liano di Studi Radiofonici. Il modello cui si fa esplicito riferimento nel progetto è ilCentre d’Etudes Radiophoniques fondato da Wladimir Porché, direttore della Rtf, inFrancia nel 1948. Tra gli obiettivi che il Centro si propone vi sono: la produzione dimusica concreta ed elettronica, la produzione di commenti sonori per la normale atti-vità radiofonica; la creazione di una registroteca e una biblioteca specializzata e la rea-lizzazione di un grande documentario radiofonico in più puntate sulla storia della ra-dio da presentare al «Prix Italia». Il progetto iniziale prevede il seguente organico: di-rezione artistica, Luigi Rognoni; direzione tecnica, Gian Piero Galligioni; segretario,Piero Santi; servizio ricerche e produzione, Luciano Berio e Roberto Leydi; tecnicospecializzato, Alberto Cattafesta. Il progetto contempla inoltre la possibilità di avva-lersi di tecnici e consulenti sussidiari a seconda delle necessità.10

Contemporaneamente, Berio e Maderna, quale esempio dimostrativo delle poten-zialità dei nuovi mezzi, mettono mano alla realizzazione di un documentario radiofo-nico dedicato a Milano: Ritratto di città, studio per una rappresentazione radiofonica,su testo di Roberto Leydi. L’opera verrà presentata al «Prix Italia» come brano speri-mentale fuori concorso. Scopo principale di questo lavoro è quello di illustrare ai ver-tici della Rai le possibilità dell’impiego radiofonico dei mezzi tecnologici. Ritratto dicittà è un racconto radiofonico che descrive Milano dal risveglio alle luci dell’alba finoal tramonto. Al testo di Leydi, letto dagli attori Nando Gazzolo e Ottavio Fanfani, si

269

Page 302: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

aggiunge un commento sonoro di Berio e Maderna che impiega suoni concreti, elet-tronici, pianoforte preparato, frammenti di registrazioni discografiche e la voce diCathy Berberian.

Ha opportunamente sottolineato Angela Ida De Benedictis:

Questa «rappresentazione radiofonica», da sempre intesa come l’Opus 1 dello Studio di Fo-nologia, è da interpretare piuttosto come un «esercizio» o un primo cimento sperimentaleche non come un «preludio tematico» in cui scorgere chiari prodromi delle qualità poeticheo estetiche della successiva produzione elettroacustica messa a punto presso la Rai di Milanoda Berio e Maderna. Non bisogna infatti dimenticare che Ritratto di città è un’opera d’oc-casione, nata dalla collaborazione tra i due compositori e l’estensore del testo, RobertoLeydi, la cui ideazione è coincisa nei fatti con una elaborazione immediata, cominciata e con-clusasi nel dicembre del 1954. Per di più, è un’opera che deve la propria caratteristica eco-nomia dei materiali – concreti ed elettronici – all’esiguità degli strumenti tecnici allora a di-sposizione dei due compositori (tra questi, un oscillatore utilizzato dai tecnici come stru-mento di misura che, secondo alcune testimonianze, fu fatto arrivare da Torino su richiestadi Alfredo Lietti). La coesistenza delle dimensioni concreta ed elettronica (due entità fino adallora separate negli altri Studi) potrebbe erroneamente portare a scorgere in Ritratto di cit-tà i prodromi di quella che, nella storiografia relativa allo Studio di Fonologia di Milano, siè «cristallizzata» come la caratteristica distintiva della produzione elettroacustica italiana: lasintesi tra le esperienze concrete francesi e quelle elettroniche tedesche. Questa visione è sta-ta messa in discussione alcuni anni fa dallo stesso Berio che, nel corso di un’intervista, ha di-chiarato: «Il lavoro allo Studio di Fonologia, almeno quando c’ero io, non era la sintesi didue entità esistenti. Preferisco descriverlo come un dialogo fra dimensioni diverse piuttostoche come la sintesi di due entità specifiche».11

Nel marzo del 1955 viene redatta una bozza di regolamento interno del Centro, che vaprendendo sempre più consistenza.12 In essa sono stabilite competenze e ruoli del per-sonale da impegnare nel Centro ed è ribadita la possibilità di collaborazione da partedi elementi esterni alla Rai che abbiano specifici interessi nel campo della radiofonia odella musica elettroacustica. La nuova bozza inoltre, forse per far fronte ad eventualidifficoltà economiche, propone due successive fasi di installazione della dotazione tec-nologica. Per la prima fase sono richiesti soprattutto strumenti per la registrazione emanipolazione del suono: magnetofoni, incisore su disco, due giradischi e un phono-gène.13 Per la seconda fase, di completamento, sono richiesti gli apparecchi di genera-zione del suono: l’onde martenot, il generatore di frequenze, un generatore di armoni-che, magnetofoni per la riverberazione e per l’eco.

Nel giugno dello stesso anno viene ufficialmente istituito lo studio, ribattezzatoStudio di Fonologia musicale. La direzione artistica è affidata a Berio, la progettazio-ne delle apparecchiature ad Alfredo Lietti.14 Il tecnico Marino Zuccheri, che lavorapresso la Rai già dal 1942, viene distaccato dalle sue ordinarie mansioni e messo al ser-vizio dello Studio a tempo pieno.

270

Page 303: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

La scelta del nome è certamente un indice dell’apertura interdisciplinare che si vo-leva dare alle attività. I fondatori erano dell’opinione che lo Studio non dovesse limi-tarsi solo al dato compositivo e alla creazione di musica funzionale per la radio, ma do-vesse anche svolgere un’attività sperimentale in più direzioni. L’ingegnere GinoCastelnuovo, direttore centrale tecnico della radio, illustra chiaramente questi propo-siti in un articolo pubblicato su un numero della rivista «Elettronica». Lo Studio, se-condo Castelnuovo, dovrà sperimentare nuovi campi d’indagine

sfruttando l’esperienza già fatta all’estero e cercando di arrivare anche a risultati originali insettori affini. È da prevedere infatti che per mezzo di una accurata analisi fonologica delleespressioni vocali e musicali dei vari popoli si possono trarre interessanti conclusioni […].Altre ricerche, da effettuare con il concorso dei fisiologi, possono indirizzarsi verso lo stu-dio degli effetti di mascheramento di un suono da parte di un altro, delle manifestazioni dimemoria circa determinate forme temporali o ritmiche […]. Tutte queste attività a sfondomusicale, etnologico, fisiologico ecc. hanno in comune i mezzi materiali con cui possono es-sere esplicate […]. Lo Studio di Fonologia musicale si trova ancora in fase di attrezzatura,data la sua recente data di nascita. Tuttavia esso è già fornito di tutti i più importanti appa-rati che consentono di attuare più o meno rapidamente tutte le operazioni richieste per le la-vorazioni sopra indicate.15

Berio, nel sottolineare il carattere interdisciplinare dell’attività dello Studio, pone alcentro del programma le ricerche sulla voce, con una forte attenzione per il canto po-polare:

Un’attività di ricerca tuttora in preparazione, riguardante la memoria e la qualità di uno sti-molo sonoro… i rapporti tra audizione e fonazione, con speciale interesse alla voce cantata.Ciò si collega in parte con altri oggetti di ricerca riguardanti la musica popolare lo studiodella quale, in questi ultimi tempi, ha subito un radicale rinnovamento sia nei concetti chenei metodi.16

Una direzione di questo genere veniva suggerita certamente da Cathy Berberian, checon la sua straordinaria voce e il suo repertorio «etnico» darà un impulso importanteper la sperimentazione vocale e finirà per rappresentare, secondo la stessa definizionedi Berio, il secondo Studio di Fonologia,17 ma anche dalla presenza di una figura in-tellettualmente aperta a ogni forma di curiosità musicale come quella di RobertoLeydi, alla cui lunga e variegata attività vanno ascritti molti meriti, tra cui quello di avercontribuito alla fondazione in Italia di un’etnomusicologia scientifica. Sugli orienta-menti interdisciplinari dello Studio peraltro risultano assai significativi i contatti conAlan Lomax, in vista di una collaborazione, purtroppo non avvenuta per ragioni eco-nomiche, per le analisi delle musiche di tradizione orale.18

L’8 maggio del 1956 si svolge presso la sede di corso Sempione la prima presenta-

271

Page 304: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

zione pubblica dello Studio di Fonologia: l’Audizione di composizioni di musica con-creta e di musica elettronica. Alla presenza della stampa vengono presentate le attrez-zature il cui funzionamento è illustrato da Lietti; Berio tiene una conferenza nella qua-le sono indicate le finalità dello Studio. La manifestazione vede il suo momento più im-portante nell’ascolto di brani musicali. Accanto a brani di Schaeffer, Henry, Stock-hausen e Ussachevsky, compaiono le nuove realizzazioni dello Studio: musica funzio-nale, e soprattutto Sequenze e strutture di Maderna e Mutazioni di Berio.

Mutazioni e Notturno di Maderna, che verrà concluso di lì a poco, saranno le primedue opere ad avere una ribalta internazionale, nonché una diffusione mediante unmezzo discografico. Verranno infatti presentate lo stesso anno ai Ferienkurse di Darm-stadt, accanto ad altri lavori tra cui Gesang der Jünglinge di Stockhausen, KlangfigurenII di Gottfried Koenig. Berio fornisce una cronaca delle giornate di Darmstadt; al ri-torno in Italia invia, in data 25 luglio, una Relazione sul Festival di Darmstadt ai fun-zionari Razzi, Castelnuovo e Bevilacqua. Nella relazione (che riassume anche i conte-nuti dell’intervento di Maderna) si mette in luce la validità della neonata struttura mi-lanese, ribadendo la necessità che venga messa a disposizione anche di musicisti stra-nieri qualificati nel campo della composizione elettronica.

Nel settembre del 1956 un numero della rivista edita dalla Rai «Elettronica» è inte-ramente dedicato allo Studio di Fonologia di Milano. Il numero contiene uno scrittointroduttivo di Gino Castelnuovo (Lo Studio di Fonologia musicale di Radio Milano)che illustra il contesto e la nascita dello Studio e le sue finalità di fondo; un saggio diBerio (Prospettive nella musica); un saggio di Lietti (Gli impianti tecnici dello Studio diFonologia musicale di Radio Milano); la traduzione di un articolo di Meyer-Eppler(Fondamenti acustico-matematici della composizione elettrica dei suoni) e un saggio diMantelli (Problemi di regia radiofonica). Alla rivista è allegato un disco con otto esem-pi musicali che accompagnano l’articolo di Berio, e soprattutto le due prime composi-zioni ufficiali dello Studio di Fonologia, Mutazioni e Notturno.

Nel suo saggio Berio raccoglie in un discorso organico le riflessioni occasionali deimesi precedenti: illustra le possibilità musicali che si aprono con i nuovi ritrovati tec-nologici, parla del superamento della distinzione tra musica concreta ed elettronica,pone con chiarezza le questioni della notazione della musica elettronica e del cambia-mento di ruolo dell’interprete. Significativamente la copertina della rivista riporta unapagina della partitura tecnica di Mutazioni comparata con un tentativo di scrittura supentagramma tradizionale; all’interno c’è anche una pagina della partitura tecnica diNotturno.19

Una grande apertura internazionale, secondo gli auspici espressi da Berio nella suarelazione su Darmstadt, caratterizza lo Studio fin dagli esordi: nel 1956 viene ospitatoil primo compositore straniero, André Boucourechliev, che realizzerà il primo dei suoilavori milanesi, Etude. Inoltre parte il ciclo di concerti «Incontri Musicali», nella sala

272

Page 305: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

piccola del Conservatorio di Milano; oltre a costituire un punto di contatto con la mu-sica europea (quasi un corrispettivo italiano di «Domaine Musical» e «Musik derZeit»), questi concerti rappresentarono un importante canale di diffusione della musi-ca elettronica. Nel dicembre dello stesso anno esce il primo numero della rivista«Incontri Musicali-Quaderni internazionali di musica contemporanea», che costituiràper quattro anni l’organo ufficiale dell’ambiente musicale milanese, e che assieme ai«Gravesaner Blätter» e «Die Reihe» sarà la più importante rivista musicale degli anniCinquanta.

All’inizio del 1957 la struttura milanese, all’apice della tecnologia, è pronta per larealizzazione dei lavori più importanti: Syntaxis di Maderna, Perspectives di Berio,Scambi di Pousseur, e soprattutto i grandi lavori realizzati nel corso del 1958: Continuoe Musica su due dimensioni di Maderna, Thema-Omaggio a Joyce di Berio, Fontana Mixdi Cage.20

Fino agli inizi del 1959 l’attività dello Studio si svolge con continuità seguendo unpercorso lineare caratterizzato da alcune costanti: la centralità delle figure di Berio eMaderna, i continui contatti con lo studio di Colonia e con Darmstadt, una grandeazione di diffusione della musica elettronica tramite concerti e trasmissioni radiofoni-che. Nel 1959 si possono cogliere i primi sintomi di un’inversione di tendenza, che co-incidono con le dimissioni di Berio dalla carica di direttore. Berio continuerà ancora afrequentare lo Studio per realizzare le sue composizioni, mentre l’incarico di direttoreverrà affidato a Renzo Dall’Oglio. Berio realizzerà a Milano anche Momenti e soprat-tutto Visage, musica elettronica con la voce di Cathy Berberian, pensata esplicitamen-te per una destinazione radiofonica, che chiude di fatto la sua produzione presso loStudio di Fonologia. Intanto si avvia alla conclusione anche l’attività della rivista«Incontri Musicali» e l’omonima stagione concertistica.

Il 1960 sembra essere l’anno dell’avvicendamento ai vertici artistici dello Studio diFonologia; mentre Berio parte per gli Stati Uniti per andare ad insegnare al BerkshireMusic Center (Tanglewood), fa il suo primo ingresso Luigi Nono, che sarà il protago-nista della seconda stagione dello Studio. Il suo debutto nello studio di Milano avvie-ne con Omaggio a Emilio Vedova; la composizione inaugura una stagione assai fecon-da che si concluderà forzatamente nel 1977 con … sofferte onde serene…, per piano-forte e nastro magnetico. In seguito, Nono si recherà a lavorare a Friburgo, non es-sendo lo Studio milanese più in grado di stare al passo con le innovazioni tecnologi-che. Infatti, se nei primi anni lo Studio di Fonologia era uno dei più attrezzati labora-tori di musica elettronica del quadro internazionale, agli inizi degli anni Sessanta la si-tuazione va mutando in modo sostanziale; le nuove tecnologie presuppongono conti-nui aggiornamenti che i dirigenti della Rai faticano a comprendere e assecondare.

La partenza di Berio coincide con la fine di un periodo della storia della musica delNovecento. Con gli anni Sessanta, si inaugurano importanti cambiamenti del clima mu-

273

Page 306: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

sicale. La geografia della nuova musica va nel frattempo assumendo contorni diversi, eal triangolo Parigi-Colonia-Milano, che aveva rappresentato il nucleo principale dellesperimentazioni degli anni Cinquanta, si sostituiscono nuove traiettorie di interesse.

L’elettronica esce dalla fase pionieristica per imporsi come una realtà vitale e multi-forme della nuova musica. I compositori si interessano meno alla musica elettronicapura e orientano il proprio lavoro verso la mescolanza di mezzi elettroacustici e stru-menti tradizionali o verso la sola manipolazione di suoni tradizionali registrati. Ma so-prattutto, le tecniche di manipolazione, trasformazione e proliferazione «scoperte» ne-gli studi elettroacustici finiscono per contagiare altri settori musicali diventando cate-gorie portanti dell’esperienza compositiva tout court.21

Di lì a pochi anni, l’avvento dei mezzi digitali imporrà altre tecniche e altre procedu-re operative consegnando di fatto alla storia l’esperienza della musica elettroacustica.22

1 Le apparecchiature tecniche dello Studio, dagli anni Cinquanta in poi, hanno conosciuto varie vi-cende, tra cui un totale rinnovamento nel 1968 e uno smantellamento nel 1986, quando ormai non erapiù in attività da tempo, in occasione dell’esposizione «Nuova Atlantide» presso la Biennale diVenezia. Cfr. A. Lietti, Gli impianti tecnici dello Studio di Fonologia musicale di Radio Milano, «Elet-tronica», III, 1956, pp. 116-122; Il rinnovato Studio di Fonologia musicale, 1968, Milano, Rai-Radio-televisione Italiana; R. Doati, A. Vidolin (a cura di), Nuova Atlantide: il continente della musica elet-tronica 1900-1986, La Biennale di Venezia, 1986.2 Un ruolo importante per la conservazione dei materiali dello Studio è stato svolto da MaddalenaNovati che ne ha di fatto impedito la dispersione. Vedi M. Novati (a cura di), Lo Studio di Fonologia.Un diario musicale 1954-1983, Ricordi, Milano 2009, in particolare il saggio di A.I. De Benedictis, Ilrisultato di un incontro fra la musica e le possibilità dei nuovi mezzi, in M. Novati (a cura di), Lo Studiodi Fonologia: un diario musicale 1954-1983, cit. Vedi inoltre V. Rizzardi, A.I. De Benedictis (a cura di),Nuova musica alla radio. Esperienze allo Studio di Fonologia della Rai di Milano, 1954-1959, Cidim-Rai, Roma 2000; N. Scaldaferri, Musica nel laboratorio elettroacustico. Lo Studio di Fonologia di Milanoe la ricerca musicale negli anni Cinquanta, Lim, Lucca 1997.3 U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 19953, p. V. Opera aperta nel corso delle varie edizioni haattraversato importanti cambiamenti, illustrati da Eco in dettaglio nella prefazione all’edizione del1995. Il dato più significativo riguarda il saggio Dalla «Summa» al «Finnegans Wake». Le poetiche diJoyce, pp. 215-361, pubblicato come volume autonomo in Id., Le poetiche di Joyce, Bompiani, Milano1966, ed omesso nelle successive edizioni di Opera aperta, a partire dalla seconda del 1967. Omaggioa Joyce è pubblicato nel Cd allegato a Nuova musica alla radio, cit.; su questo lavoro, che costituisceun momento di capitale importanza nella storia dello Studio, e sulla collaborazione tra Berio ed Eco,vedi nello stesso volume, N. Scaldaferri, «Bronze by gold», by Berio by Eco. Viaggio attraverso il cantodelle sirene, pp. 100-157.4 Vedi A.I. De Benedictis, … all’epoca delle valvole… Incontro con Marino Zuccheri, in Nuova musicaalla radio, cit., pp. 177-213.5 Vedi Luciano Berio, Umberto Eco, Roberto Leydi rievocano lo Studio di Fonologia a quarant’anni dal-la fondazione, in Nuova musica alla radio, cit., pp. 217-233.6 Vedi A.I. De Benedictis, Radiodramma e arte radiofonica. Storia e funzioni della musica per radio inItalia, Edt, Torino 2004.7 Maderna impiega questo titolo per indicare due diverse composizioni: la prima, per flauto, piatto enastro magnetico, risale al 1952 ed è rimasta a lungo inedita. La seconda, per flauto e nastro, realiz-zata nel 1958 a Milano è pubblicata da Suvini Zerboni. Sulle complesse vicende della prima compo-sizione vedi: B. Maderna, Musica su due dimensioni (1952), per flauto, piatto e nastro magnetico, edi-zione critica a cura di N. Scaldaferri, Suvini Zerboni, Milano 2001; N. Scaldaferri, V. Rizzardi, Musica

274

Page 307: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

su due dimensioni (1952): histoire, vicissitudes et importance d’une œuvre (presque) absente, in L.Feneyron, G. Ferrari, G. Mathon (a cura di), Bruno Maderna, vol. II, Basalthe, Paris 2009.8 Vedi la lettera di Dallapiccola a Berio del 6 novembre 1953 pubblicata in Nuova musica alla radio,cit., p. 277.9 In quell’occasione si svolse un convegno internazionale su musica ed elettroacustica al quale parte-ciparono anche Berio e Santi, che ne fornisce un resoconto in un articolo sul primo numero del«Diapason» dell’anno successivo; vedi P. Santi, Un Convegno Internazionale di Musica ed Elettroacu-stica, «Diapason», I, 1955, pp. 43-47.10 Il progetto completo, con l’attribuzione di ruoli e competenze, è stato pubblicato da P. Santi in Lanascita dello Studio di Fonologia musicale di Milano, «Musica/Realtà», XIV, 1984, pp. 167-188.11 A.I. De Benedictis, Il risultato di un incontro fra la musica e le possibilità dei nuovi mezzi, cit.12 Vedi P. Santi, La nascita dello Studio di Fonologia musicale di Milano, cit., p. 172.13 L’apparecchio, costruito da Jacques Poullin, permetteva la variazione della velocità e la trasposi-zione su 24 altezze di anelli di nastro.14 Sulle apparecchiature tecniche dello studio e le possibilità di impiego musicale cfr. A. Lietti, Gli im-pianti tecnici dello Studio di Fonologia musicale di Radio Milano, cit.15 G. Castelnuovo, Lo studio di Fonologia musicale di Radio Milano, «Elettronica», III, 1956, pp. 106-107.16 L. Berio, Prospettive nella Musica, «Elettronica», III, 1956, pp. 108-115: 108.17 Sulla figura di Cathy Berberian e la sua importanza per le composizioni vocali del dopoguerra ve-di N. Scaldaferri, «La voix de Cathy Berberian», in Actes du Colloque International: Musiques vocalesen Italie depuis 1945. Esthétique, relations texte-musique, techniques de composition, a cura di G.Borio, P. Michel, Strasbourg 2005, pp. 179-194; sul ruolo nell’elaborazione di un lavoro come FolkSongs vedi N. Scaldaferri, «Folk Songs» de Luciano Berio: éléments de recherche sur la genèse de l’œu-vre, «Analyse Musicale», XL, 2001, pp. 42-54.18 Vedi in particolare la lettera inviata da Lomax a Berio l’11 novembre 1955, conservata negli Archividello Studio di Fonologia, e la conseguente risposta di Castelnuovo, gentilmente segnalate da AngelaIda De Benedictis. Lomax compirà in Italia nel 1954-55, con Diego Carpitella, un’importante cam-pagna di rilevamenti etnomusicologici lungo tutta la penisola, da cui, come è noto, prenderanno av-vio le idee poi confluite nella teoria del Cantometrix, di cui un primo tentativo teorico è costituito dalsaggio: A. Lomax, Nuova ipotesi sul canto folkloristico italiano nel quadro della musica popolare mon-diale, in «Nuovi Argomenti», 1956, nn. 17-19, pp. 106-136. Su questo vedi anche A. Lomax, FolkSong Style and Culture, Transaction Publisher, New Brunswick and London 1968, pp. VII-IX. In que-gli anni Lomax è in stretto contatto con Roberto Leydi, che ammette, in più occasioni, i suoi debitiintellettuali nei confronti dello studioso americano, sia dal punto di vista del metodo che per la «sco-perta» stessa del mito americano; i due peraltro si incontrano di persona sia in Italia che a Londra; cfr.Conversazione con Sandra Mantovani, a cura di G. Bertolotti, in R. Meazza, N. Scaldaferri (a cura di),Patrimoni sonori della Lombardia, Le ricerche dell’Archivio di Etnografia e Storia Sociale, Squilibri,Roma 2008, pp. 13-30: 24. Nel 1958 Lomax pubblicherà presso la Columbia, assieme a Carpitella, laprima grande antologia sulla musica tradizionale italiana. Sul «viaggio musicale» di Lomax in Italiavedi il recente A. Lomax, L’anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia 1954-1955, il Saggiatore,Milano 2008. 19 Su Notturno vedi N. Scaldaferri, «Dall’evento sonoro al processo compositivo: analisi di Notturnodi Bruno Maderna», in Musica nel laboratorio elettroacustico, cit., pp. 89-130. 20 Una rievocazione della collaborazione con Cage viene fornita da Zuccheri in ... all’epoca delle val-vole..., cit., pp. 193-199.21 Cfr. in particolare N. Scaldaferri, Montage und Syncronisation: Ein neues musicalisches Denken inder Musik von Luciano Berio und Bruno Maderna, in E. Ungeheuer (Hg.), Elektroakustische Musik.Handbuch der Musik im 20. Jahrundert, Band 5, Laaber-Verlag, Laaber 2002, pp. 66-82; A.I. DeBenedictis, Riflessi del suono elettronico, in Id. (a cura di), Luciano Berio. Nuove prospettive, Atti delconvegno, Olschki-Accademia Chigiana, Firenze-Siena (in preparazione).22 Su questo aspetto vedi P. Decroupet, Archeologia di una fenice. La musica elettronica/elettroacusti-ca: una categoria storica?, in Nuova musica alla radio, cit., pp. 2-25.

275

Page 308: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Enzo RestagnoIl Concorso pianistico «Umberto Micheli»

Qualche anno fa chiesi a Pierre Boulez con una certa soggezione se il suo Incises, unodei più bei pezzi per pianoforte che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni, aves-se qualcosa a che fare con Gaspard de la nuit di Ravel. «Ma, naturalmente» mi dissecon un sorriso che fece dileguare ogni imbarazzo, «Viene tutto fuori dalle prime notedi Scarbo.»

Incises lo conoscevo fin dal 1994 perché era il morceau de concours scritto da Boulezper la prima edizione di un concorso pianistico fondato a Milano proprio in quell’an-no. Fu un inizio strepitoso: in un batter d’occhio nacque un’iniziativa che per origina-lità e impegno rendeva un po’ old fashion le istituzioni consimili; sembrava infatti met-tere in discussione la concezione dei numerosi concorsi votati alla scoperta di nuovivirtuosi; prima però di valutarne la portata dirompente vediamone l’origine.

Difficile immaginarne una più intima: l’idea nacque da un gruppo di amici invitati in-torno a un tavolo da un ospitalissimo personaggio come Francesco Micheli. Il concor-so avrebbe portato il nome di Umberto Micheli, padre di Francesco, e sarebbe stato latestimonianza di un affetto filiale al quale si aggiungeva una concezione dell’arte e del-la pratica musicale maturata attraverso lunghe esperienze e riflessioni. Umberto Michelifu per gran parte della sua vita professore al Conservatorio di Milano e fu uno di que-gli insegnanti dei quali si continua a parlare con affetto e stima anche quando sonoscomparsi da un pezzo. Una cosa del genere è diventata rarissima ai nostri tempi e cene rendiamo conto ancora meglio se pensiamo che già un secolo fa Robert Musil ricor-dava con nostalgia l’epoca in cui, quando uno moriva, ci voleva un certo tempo perchéil vuoto da lui lasciato venisse colmato. Oggi, osservava un secolo fa con sconforto l’au-tore de L’uomo senza qualità, la società serra immediatamente i suoi ranghi e quel vuo-to non dura quasi nulla. Quando mi imbattei la prima volta in questa considerazione midomandai se l’accelerazione dei processi sociali, dei quali il lamento dello scrittore au-striaco aveva svelato la crudele teleologia interna, non dovrebbe sprofondarci in un pes-simismo sconfinato. In effetti non può essere altro che così e tuttavia il nostro sconfor-to può essere parzialmente mitigato da certi fenomeni della vita musicale ai quali ap-partengono sicuramente i sentimenti che fecero nascere il nostro concorso.

Per l’attaccamento tenace ai suoi valori la musica rappresenta in buona misura ilcuore antico di una società profondamente mutata e anche per questo dovrebbe meri-tare la nostra gratitudine. Avete mai notato come in un mondo in cui il sentimento diappartenenza ad una corporazione si è fatto sempre più labile la coscienza dell’essere

276

Page 309: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

musicista resti una delle più solide? Posso assicurare per lunga esperienza personaleche buona parte degli studenti dei nostri conservatori sono figli o parenti di musicisti.Sanno benissimo che andranno incontro a remunerazioni scarse, eppure resistono contenacia ad altri allettamenti più mondani. Non ho l’ingenuità di attribuire a questi gio-vani idealità troppo elevate, ma bisogna pure riconoscere che a motivare i loro sforzi,a indurli addirittura ad autoescludersi da altri processi formativi più allettanti o, quan-to meno, più consoni agli scenari della vita contemporanea, è proprio il senso di ap-partenenza e di fedeltà a una tradizione familiare che nella società contemporanea nonesiste praticamente più, salvo nei casi in cui la continuità della professione coincidecon la certezza di una redditività elevata e garantita. Questa resistenza a molteplici sol-lecitazioni in nome di una fedeltà a un mestiere al quale ci si sente quasi eticamentechiamati è la migliore garanzia per la sopravvivenza di una tradizione interpretativa.Provate ad ascoltare le migliori orchestre del mondo impegnate in un certo repertorio:in Debussy o in Ravel le compagini più blasonate non sono ancora riuscite a eguaglia-re la sortita di una flûte française e a casa nostra un onesto oboista che suoni una ou-verture di Rossini è ancora in grado di dare una lezione di verve musicale al primo leg-gio della più grande orchestra del mondo.

Vuol dire che l’idioma sopravvive? Sinceramente lo speriamo, ma dopo aver consi-derato gli aspetti positivi racchiusi nella tradizione che la nostra vita musicale custodi-sce con ammirevole tenacia, è necessario gettare uno sguardo sulla zona d’ombra diquesto complesso fenomeno.

La maggior parte dei musicisti è come se vivesse nel regno della nostalgia e questosentimento di appartenenza a una dimensione che non coincide più con la storia pre-sente è condiviso da una larga parte del pubblico. Il perfezionamento delle tecnicheesecutive compiuto da ogni strumento ha portato a risultati impressionanti e si puòtranquillamente affermare che un giovane strumentista cresciuto a una buona scuolasia oggi in grado di affrontare con successo le performance riservate una volta soltan-to a professionisti esperti. Il paradosso di questa crescita qualitativa dell’abilità ma-nuale consiste nel fatto che essa si applica quasi esclusivamente a quel repertorio chegià risultava accessibile, sia pure con qualche fatica in più, molti anni fa. Non ci vuolmolto a comprendere che questo incremento incessante dell’abilità manuale, rivolta aun repertorio quasi immobile, porta a un inaridimento e a una omologazione inevita-bili, con interpreti formalmente irreprensibili ma sempre meno capaci di interpretarein maniera personale. A questo punto inizia quel fenomeno di cristallizzazione dellamusica le cui conseguenze preoccupanti vengono recepite da tutti coloro che ancoranon sono preda del fenomeno di assuefazione che caratterizza la maggior parte dellavita musicale odierna.

Uscire da questa contraddizione non è semplice, ma possiamo essere certi che la so-luzione passa solo attraverso la conoscenza e lo studio della produzione musicale con-

277

Page 310: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

temporanea. Dico «attraverso» poiché la musica del nostro tempo, se venisse sempli-cemente aggiunta a quella del passato, non sarebbe in grado di risolvere nulla; conquell’«attraverso» intendo dire che il musicista di oggi dovrebbe vivere fino in fondol’esperienza della problematicità della musica del nostro tempo, quella problematicitàche ha cominciato a manifestarsi con tanta acutezza già un secolo fa.

Con estrema lucidità il problema fu posto e chiarito nel 1919 da T.S. Eliot in un sag-gio intitolato Tradizione e talento individuale.1 In queste pagine, che a tutt’oggi sem-brano essere state comprese da un numero drammaticamente esiguo di persone, Eliotsi riferisce alla poesia, ma le sue osservazioni hanno un’applicabilità universale poichéil concetto-chiave, su cui tutta la teoria regge, è quello della tradizione intesa come unsistema dinamico ed aperto il cui equilibrio chiede di essere continuamente ridefinito:

[…] quel che avviene quando si crea una nuova opera d’arte, avviene contemporaneamentea tutte le altre opere d’arte precedenti. I monumenti esistenti compongono un ordine idea-le che si modifica quando vi sia introdotta una nuova (veramente nuova) opera d’arte.L’ordine esistente è in sé concluso prima che arrivi l’opera nuova; ma dopo che l’opera nuo-va è comparsa, se l’ordine deve continuare a sussistere, tutto deve essere modificato, maga-ri di pochissimo. Contemporaneamente tutti i rapporti, le proporzioni, i valori di ogni ope-ra d’arte trovano un nuovo equilibrio e questa è la coerenza tra l’antico e il nuovo. Chiunqueapprovi questa concezione di un ordine, di una forma che è propria della letteratura euro-pea, della letteratura inglese, non troverà assurda l’idea che il passato sia modificato dal pre-sente, come non lo è che il presente trovi la propria guida nel passato. Il poeta che sia con-sapevole di questo, sarà anche consapevole delle grandi difficoltà e responsabilità che lo at-tendono.2

Per avviare i giovani musicisti verso queste consapevolezze e responsabilità c’erano nelcomitato scientifico del «Concorso Micheli» due personalità assolutamente uniche,quella di Luciano Berio e quella di Maurizio Pollini. Dei significati molteplici che si in-trecciano nel fatto di suonare uno strumento – virtuosismo, spettacolarità, rischio, ri-flessione, fantasia, snobismo, volontà di potenza ecc. – Berio aveva saputo fare un ter-reno fertilissimo, componendo una dopo l’altra le sue Sequenze per vari strumenti so-listi: erano brani virtuosistici che chiamavano l’interprete a una performance comples-sa, ma che soprattutto gli chiedevano di sollevare quei veli della storia del suo stru-mento che nei secoli erano andati via via costituendone la ragion d’essere musicale.

Pollini, dal canto suo, ha mostrato meglio di qualsiasi altro interprete come dall’ac-costamento di zone apparentemente lontane del repertorio possano scaturire nuoveprospettive di lettura e di interpretazione. Della sua arte pianistica potrei dire che misembra la più grandiosa dimostrazione in campo musicale di quel fondamentale prin-cipio affermato tanti anni fa da Eliot: il presente è in grado di modificare e di arricchirela nostra conoscenza dell’arte del passato. Gli accostamenti inusuali dei brani, i gran-di progetti in cui vengono abilmente mescolati i generi, gli stili e le epoche e la tenacia

278

Page 311: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

con cui tali progetti vengono instancabilmente riproposti esprimono con la massimadeterminazione il proprio distacco da qualsiasi concezione ipostatizzata del repertorioe del fare musica.

Bisognava cercare di tradurre in pratica queste convinzioni e lo si fece nel più tan-gibile dei modi partendo dalla composizione dei programmi. Ogni edizione del«Concorso Micheli» concentrava la sua attenzione su un preciso aspetto della realtàmusicale: stili, estetica, forme. I brani che segnavano il difficile cammino della compe-tizione furono estratti dalle teche accademiche, disposti secondo prospettive cronolo-giche e stilistiche inusuali e presentati all’attenzione dei candidati in una luce diversa,criticamente molto più consapevole. Significativamente la prima edizione annunciavaun arco temporale che andava da Beethoven a Boulez. Fin dalla prova preliminare icandidati si resero conto di essere entrati in una dimensione culturale diversa: gli au-tori con i quali venivano invitati a fornire la prima prova erano soltanto Schönberg eBeethoven. Non si poteva evitare di prendere coscienza del complesso legame storicoche pone su una stessa linea di sviluppo i due compositori! Il cammino proseguiva insalita attraversando le opere di Alban Berg e di Anton Webern e quindi si raggiunge-va la contemporaneità con i componimenti pianistici di Carter, Ligeti, Nono, Berio,Boulez, Donatoni e Stockhausen. Il problema che queste opere ponevano ai candida-ti non era tanto quello della difficoltà digitale; in qualche caso anzi la relativa sempli-cità della scrittura, poniamo i Sechs kleine Klavierstücke op. 19 di Schönberg, le Varia-tionen op. 27 di Webern o i Six Encores di Berio, veniva a costituire una vera e propriasfida intellettuale e l’interprete non poteva evitare la famosa questione: la vraie musi-que est ailleurs.

Naturalmente il candidato poteva anche vedersela con Debussy, Ravel, Bartók e Stra-vinskij ma in nessun modo avrebbe potuto evitare l’incontro con gli autori contempora-nei ed altrettanto inevitabile era la prova di musica da camera in cui il candidato avreb-be dovuto affrontare un trio di Beethoven avendo come compagni Salvatore Accardo eRocco Filippini! Dopo aver superato tutte queste prove, l’eletto avrebbe dovuto fornireuna prova ulteriore di intelligenza e bravura affrontando il morceau de concours appron-tato da Boulez, proprio quell’Incises dal quale è partita questa rievocazione.

A differenza degli altri concorsi, anche quelli più prestigiosi, il «Micheli» non avevaun programma fisso, ma veniva riformulato ogni volta seguendo un diverso punto divista. La seconda edizione, parafrasando un titolo del marchese de Sade, scelse cometema «Le tentazioni della virtuosità» e la terza si impegnò nel tessere in tutti i modimusicalmente possibili «L’elogio della fantasia». Desumo questi temi dai titoli dei vo-lumi che accompagnarono ciascuna delle tre edizioni; il «Concorso Micheli» aveval’ambizione di lasciare un segno anche nel campo degli studi musicologici e così il pro-gramma di ogni edizione si trasformava in una raccolta di saggi che venivano a costi-tuire nell’insieme un volume di considerevoli dimensioni.3

279

Page 312: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Davanti a un modo così diverso di affrontare l’interpretazione musicale, i giovanipianisti non si tirarono indietro e si presentarono numerosi di fronte a una giuria la cuistessa composizione garantiva un tipo di giudizio non esclusivamente legato alla ma-nualità. A valutare i concorrenti, oltre ai pianisti furono chiamati dei compositori,Elliott Carter, George Benjamin, Gilbert Amy, Luciano Berio, Luis de Pablo, dei mu-sicologi e degli strumentisti ad arco. I risultati furono eccellenti e tra i premiati figura-rono almeno tre personalità che hanno intrapreso con successo un’importante carrie-ra: Gianluca Cascioli, Aleksandar Madzar, Nicholas Angelich e Andrea Bacchetti.

L’ultima edizione del «Concorso Micheli» si è tenuta a Milano nel 2001; negli annisuccessivi è parso talvolta che il concorso potesse riprendere ma poi è venuta configu-randosi una strategia diversa che mira a superare l’apparato meramente concorsuale.Forse non è neppure più tempo di concorsi; più delle selezioni conta la creazione diampi spazi musicali nei quali ai musicisti delle ultime generazioni vengano offerte del-le reali chances per impegnare il loro talento in progetti all’altezza delle prospettive cul-turali che le passate stagioni del concorso hanno dischiuso. Anticipazioni e riflessi diquesta nuova strategia si possono già cogliere nelle prime edizioni del Festival MiToma è fuori discussione che il «Concorso Micheli» ha rappresentato nello scenario nontroppo vivace né troppo innovativo della vita musicale italiana degli ultimi anni unaproposta capace di sollevare un’ampia onda di pensiero e di questo non possiamo cheessergli grati.

1 T.S. Eliot, «Tradition and the Individual Talent», in Id., The Sacred Wood, Essays on Poetry andCriticism, Methuen & Co., London 1920; trad. it. di V. Di Giuro in T.S. Eliot, Opere 1904-1939, a cu-ra di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1992.2 T.S. Eliot, Opere 1904-1939, cit., p. 394. 3 I tre volumi pubblicati dall’editore Longanesi nel 1994, nel 1997 e nel 2001 portano i titoli: I. DaBeethoven a Boulez. Il pianoforte in ventidue saggi; II. Le tentazioni della virtuosità; III. Ovunque lon-tano dal mondo. Elogio della fantasia. E costituiscono con le loro complessive quasi mille pagine unodei contributi storico-critici più importanti per la conoscenza della letteratura pianistica.

280

Page 313: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Ringraziamenti

Questo libro è il frutto non solo del lavoro degli autori che hanno partecipato alla stesu-ra dei testi, ma anche del sostegno generoso di molte altre persone, che hanno contri-buito in varie forme alla riuscita del progetto. Non potendo menzionare i meriti di cia-scuno in maniera specifica, abbracciamo tutti in un generale ringraziamento:

Gabriele Bonomo (Suvini Zerboni)Laura BosioRalph FasseyMimma GuastoniLuisella MolinaTalia Pecker BerioAndrea PestalozzaNuria Schoenberg NonoClaudia Vincis (Fondazione Archivio Luigi Nono)

Un grazie speciale va infine all’intera redazione, per aver svolto con dedizione e intelli-genza un lavoro molto articolato e di natura forse insolita per un libro delle edizioniArchinto.

281

Page 314: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

282

Page 315: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Nella stessa collana:

Rainer Maria Rilke – Lettere a un’amica venezianaGoethe – Lettere alla Signora von Stein Ennio Flaiano – Lettere a Lilli e altri segniRenato Guttuso – CartolineHoratio Nelson – TrafalgarEnrico IV re di Francia – Lettere d’amore e di guerraGio Ponti – Cento lettereAriadna Efron, Boris Pasternak – Le tue lettere hanno occhiCharles Dickens – Lettere dall’ItaliaGiuseppe Novello – Cartoline-lamettaGustave Flaubert, Ivan Turgenev – Il Normanno e il MoscovitaHenry James, Robert Louis Stevenson – Amici rivaliCarlo Emilio Gadda – Lettere alla sorellaAleksandr Puskin – I versi non sono uominiGabriele d’Annunzio – Lettere a JouvenceAntonio Fogazzaro – Lettere a un fuoruscitoElisabetta I d’Inghilterra – Lettere ai fidi e agli infidiRainer Maria Rilke – Lettere a MerlineJean Cocteau – Lettere a Jean MaraisS. Anderson, G. Stein – Venticinque arance per venticinque centsRaymond Chandler – Marlowe e ioRichard Wagner – Lettere a Mathilde WesendonkTullio Pericoli – Tanti salutiVirgilio Savona – Scrivimi!Charles Baudelaire – La conquista della solitudineSalvador Dalí – Lettere a FedericoAntonia Pozzi – L’età delle parole è finitaHenry James – Lettere da Palazzo BarbaroJean Genet – Lettere all’editoreAndré Gide, Georges Simenon – Caro Maestro, Caro SimenonM. Teresa d’Austria, M. Antonietta di Francia – Il mestiere di reginaJames Joyce – Lettere a Sylvia BeachVladimir Nabokov, Elena Sikorskaja – Nostalgia

283

Page 316: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Pietro Bembo, Lucrezia Borgia – La grande fiammaCaro Signor Shaw – a cura di Vivian ElliotAntonin Artaud – Lettere a Génica AthanasiouRainer Maria Rilke – La coppa di silenzioGiovanni Pirelli – Un mondo che crollaEdward Lear – Paesaggi mediterraneiEdith Wharton – Lettere a Morton FullertonCharles Joseph de Ligne – Lettere alla marchesa di CoignyVictor Ségalen – Lettere di CinaFrancisco de Goya – Perché non scrivi, selvaggio?Denis Diderot – Siamo tutti libertiniGiosue Carducci – Amarti è odiartiKurt Tucholsky – Non posso scrivere senza mentireLydia Lopokova, John Maynard Keynes – Lydia & MaynardNatalia Berla – Il gelo dentroLawrence Durrell, Henry Miller – I fuorilegge della parolaJean Cocteau – Lettera agli americaniJane Bowles – Una casa a TangeriCaterina da Siena – Vestitevi di sangueArthur Rimbaud – Lettere della vita letterariaC. Colombo, A. Vespucci – Cieli nuovi e terra nuovaMercè Rodoreda – Un vestito nero con paillettesLouis-Ferdinand Céline – Lettere dall’esilioEzra Pound – Lettere da ParigiArthur Schnitzler, Olga Waissnix – La passione e la rinunciaPercy Bysshe Shelley – Morire in ItaliaA. Schönberg, T. Mann – A proposito del Doctor FaustusAndré Gide – Consigli a un giovane scrittoreStephen Spender – Caro ChristopherAugust Strindberg – Tuo GustenHenry James – Lettere a Miss AllenLouis-Ferdinand Céline – Lettere a ElizabethFedrico García Lorca – Lettere da New YorkWilliam Faulkner – Pensando a casaFrançois de Sade – Fantasie dal fondo di una cellaY. Salamov, B. Pasternak – Parole salvate dalle fiammeWystan Hugh Auden – Lettere dall’IslandaMary Wortley Montagu – Tra le donne turcheGlenn Gould – Lettere

284

Page 317: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Marcel Proust – Mio piccolo caroLettere al redattore capo. Dalle carte di Giovanni Ansaldo Jack Pollock – Caro M. Stendhal – Lettere d’amoreEdgar Allan Poe – So solo che vi amoVita e Harold. Lettere di Vita Sackville-West e Harold Nicolson 1910-1962Eugenio Montale, Sandro Penna – Lettere e minuteVirginia Woolf – Quattro lettere nascosteMarga Berck – L’amore di un’estateCartesio – Ti scrivo dunque sonoEttore Rotelli – La forma della giovinezza, Lorenzo Viani e il DucePaul Morand – Lettere di un viaggiatoreCosima Wagner, Friedrich Nietzsche – Un’amicizia, forseCaterina II – Lettere ad amici e nemiciRainer Maria Rilke – Lettere a YvonneFederico García Lorca – Un cuore colmo di poesiaVasilij Kandinskij, Franz Marc – Prima del Cavaliere azzurroProsper Mérimée – Lettere licenziose a StendhalJules Roy – Un amore sconfittoGünter Grass, Kenzaburo Oe – Ieri, 50 anni faRaymond Queneau – Centomila miliardi di baciUmberto Saba – Lettere a Sandro PennaA Giacomo Casanova, Lettere d’amoreOfélia Queiroz – Mio caro NininhoNicola e Alessandra di Russia – La passione di una vitaAlexandre Dumas – Lettere sulla cucinaParole d’amore. Raccolta di lettere d’amoreMarina Cvetaeva – Lettere ad Ariadna BergCarlo Emilio Gadda – Carissimo GianfrancoLudwig Wittgenstein – Vostro fratello LudwigC. Papalia, M. Minasi – La macchina rossaCarlo Nardese – Lettere a un pipistrelloM. Castellini, O. Rondanini – Dall’altro lato del camminoSalvatore Quasimodo – CarteggiCamillo Boito – Pensieri di un architettoThomas e Heinrich Mann – La montagna del disincantoGuillaume Apollinaire – Lou, mia reginaGeorge Sand, Alfred de Musset – Lettere d’amoreAbbé Pierre, Albert Schweitzer – Lui è il mio prossimo

285

Page 318: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Rudolf Arnheim, Fedele d’Amico – Eppure, forse, domaniGiorgio Strehler – Lettere sul teatroAntonin Artaud – Vivere è superare se stessiEzra Pound, Giambattista Vicari – Il fare apertoGabriele d’Annunzio – Infiniti auguri alla nomadeSalvatore Quasimodo – Senza di te, la morteEugenio Montale – Giorni di libeccioAlberto e Giovanni Pirelli – Legami e conflittiMichail Bulgakov – I manoscritti non brucianoErich Maria Remarque, Marlene Dietrich – Dimmi che mi amiLuciano Berio, Fedele d’Amico – Nemici come primaFrancis Scott Fitzgerald – Lettere a ScottiePaolina Leopardi – Io voglio il biancospinoGiorgio Manganelli, Giovanna Sandri – Costruire ricordi Édouard Manet – Lettere da Bellevue Theodor W. Adorno, Thomas Mann – Il metodo del montaggioEugenio Montale – Caro Maestro e AmicoDelio Tessa – Vecchia EuropaLodovico Barbiano di Belgiojoso – Frammenti di una vitaDjuna Barnes – Camminare nel buio Alena Wagnerová – Milena JesenskáMoreno Gentili – Sguardo nomadeMarina Picasso – Mio nonno PicassoAntonia S. Byatt – Ritratti in letteraturaClaude Debussy – I bemolli sono bluRudyard Kipling – Oh adorati figliLuigi Malerba – Le lettere di OttaviaLev L’vovic Tolstoj – La verità su mio padreAnton Cechov – Sulla letteraturaHenry James – Cara donna IsabellaAnna Achmatova – Distrugga, per favore, le mie lettereRossana Bossaglia – La nave di UlisseCristina Gastel Chiarelli – Niente zucchero nel calamajoAlice Calaprice – Caro Professor EinsteinPaul Klee – Lettere dall’ItaliaEzra Pound – Carte italiane 1930-1944Paul Celan – Cerca di ascoltare anche chi taceD.A.F. de Sade – Un grande amoreTigy Simenon – Ricordi

286

Page 319: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Edith Wharton – Una crociera nel MediterraneoAmelia B. Edwards – Mille miglia sul NiloVittorio Orsenigo – Lettere a Giuseppe PontiggiaLettere di due amanti. Abelardo ed Eloisa?Giovanni Gandini – Un milione di copieAnna Maria Ortese – Alla luce del SudAnna Banti – Lettere ad Alberto ArbasinoPierre Boulez, John Cage – Corrispondenza e documentiSalvador Dalí – Lettere a Picasso (1927-1970)Antoine e Consuelo de Saint Exupéry. Un amore leggendarioCristina Gastel Chiarelli – Musica e memoria nell’arte di Luchino ViscontiTruman Capote – Delizie e crudeltàB. Croce, M. Curtopassi – Dialogo su DioElizabeth B. Barrett, Robert Browning – D’amore e di poesiaFrançois Rabelais – Lettere pantagruelicheAllen e Louis Ginsberg – Affari di famigliaViolet Trefusis – Anime gitane Ruggero Pierantoni – Uno scherzo fulmineo. Cinquecento anni di fulminiAnne Atik – Com’era. Un ricordo di Samuel BeckettFrançois Maspero – L’ombra di una fotografa, Gerda Taro e la sua guerra di SpagnaGeorges Simenon – Fotografie di viaggioAlberto Manguel – La biblioteca di notteKarl Kraus – La muraglia cineseMilli Martinelli – Storia di un’idiotaLydie Fischer Sarazin-Levassor – Uno scacco matrimonialeRobert Louis Stevenson – Non sono un miscredenteJack London – L’avventuriero dei mariClarice Lispector – La vita che non si fermaP.-A. Caron de Beaumarchais, A. Houret de La Morinaie – La macchina dei sensiDaniel Pennac – Scrivere Cesare Pavese, Felice Balbo, Natalia Ginzburg – Lettere a LudovicaRichard Strauss, Stefan Zweig – Vuole essere il mio Shakespeare?Gian Luigi e Julia Banfi – Amore e speranzaCristina Campo – Se tu fossi quiTullio Pericoli – Tanti salutiRobert Wilson – Love, Bob

287

Page 320: Milano, laboratorio musicale del Novecento. Studi in onore di Luciana Pestalozza, a cura di O. Bossini, Archinto 2009

Finito di stamparenel mese di luglio 2009

da INGRAFIndustria Grafica - Milano

288