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Stefano Gallo Migrazioni interne e istituzioni: il tornante degli anni Venti Mobilità territoriali «E poi che aveva venuto quella maledetta dettatura fascista, che ave- va proibito a tutte e lavoratore di amicrare nelle altre nazione, […] restaie senza lavoro e senza niente, e non aveva imparato niente con 5 anne di soldato, solo che mi aveva imparato a bestemiare. […] E così, penzaie di lasciare Chiaramonte, che l’aveva tanto desederato di venire a Chiaramonte, e ora era desposto ad antaramenne all’inferno allavorare, bastica faceva solde e amantarle ammia madre. E così, mi ne sono antato come un vero desperato a Catania per fare qualche soldo» [Rabito, 2007, p. 152]. Il bracciante siciliano Vincenzo Rabito, nato nel 1899 e autore di uno straordinario racconto di vita, ha sintetizzato con queste parole un evento epocale per la storia dell’Italia del Novecento: la chiusura degli sbocchi migratori e la fine di un imponente ciclo di partenze e rientri che aveva modificato in profondità la vita delle classi popolari italiane. Sappiamo che in realtà non fu il fascismo l’artefice di questo cambiamento. Una discontinuità di sostanza negli atteggiamenti statali verso le emigrazioni si ebbe solo nella seconda metà degli anni Venti, dopo che fallirono i tentativi promossi da Mussolini per riaprire gli spazi all’estero alla mobilità territoriale. Il regime si trovò costretto ad affrontare una situazione che era stata determinata soprattutto dalle scelte politiche dei Paesi di arrivo [Nobile, 1974; Sori, 1975; Cannistra- ro, Rosoli, 1979; Franzina, 1982; Ostuni, 2001]. Il brano tratto dal diario di Rabito è utile tuttavia per mettere in luce almeno tre aspetti fondamentali di quel passaggio: la centralità della dimensione politico-istituzionale, il legame tra gli spostamenti interni e quelli rivolti all’estero, i pesanti effetti che l’esaurimento del fenomeno della «grande emigrazione» ebbe sull’economia dell’Italia meridionale. L’adozione oltreoceano di leggi restrittive sugli arrivi fece crollare un Storia del lavoro.indd 157 15/04/15 17.22
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Apr 28, 2023

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Bruno Fanini
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Stefano Gallo

Migrazioni interne e istituzioni: il tornante degli anni Venti

Mobilità territoriali«E poi che aveva venuto quella maledetta dettatura fascista, che ave-

va proibito a tutte e lavoratore di amicrare nelle altre nazione, […] restaie senza lavoro e senza niente, e non aveva imparato niente con 5 anne di soldato, solo che mi aveva imparato a bestemiare. […] E così, penzaie di lasciare Chiaramonte, che l’aveva tanto desederato di venire a Chiaramonte, e ora era desposto ad antaramenne all’inferno allavorare, bastica faceva solde e amantarle ammia madre. E così, mi ne sono antato come un vero desperato a Catania per fare qualche soldo» [Rabito, 2007, p. 152]. Il bracciante siciliano Vincenzo Rabito, nato nel 1899 e autore di uno straordinario racconto di vita, ha sintetizzato con queste parole un evento epocale per la storia dell’Italia del Novecento: la chiusura degli sbocchi migratori e la fine di un imponente ciclo di partenze e rientri che aveva modificato in profondità la vita delle classi popolari italiane. Sappiamo che in realtà non fu il fascismo l’artefice di questo cambiamento. Una discontinuità di sostanza negli atteggiamenti statali verso le emigrazioni si ebbe solo nella seconda metà degli anni Venti, dopo che fallirono i tentativi promossi da Mussolini per riaprire gli spazi all’estero alla mobilità territoriale. Il regime si trovò costretto ad affrontare una situazione che era stata determinata soprattutto dalle scelte politiche dei Paesi di arrivo [Nobile, 1974; Sori, 1975; Cannistra-ro, Rosoli, 1979; Franzina, 1982; Ostuni, 2001].

Il brano tratto dal diario di Rabito è utile tuttavia per mettere in luce almeno tre aspetti fondamentali di quel passaggio: la centralità della dimensione politico-istituzionale, il legame tra gli spostamenti interni e quelli rivolti all’estero, i pesanti effetti che l’esaurimento del fenomeno della «grande emigrazione» ebbe sull’economia dell’Italia meridionale. L’adozione oltreoceano di leggi restrittive sugli arrivi fece crollare un

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sistema migratorio che nelle aree di partenza garantiva un certo equi-librio sociale ed economico, provocando un’ulteriore mobilità inter-na di persone pur non essendo mai andate all’estero, come Vincenzo Rabito, avevano comunque beneficiato di quell’equilibrio. Questa ori-ginale correlazione tra emigrazione e migrazioni interne dimostra, se ce ne fosse bisogno, l’estrema varietà della fenomenologia storica delle migrazioni, soprattutto una volta che si scelga di considerare insieme i diversi tipi di mobilità1. In questo saggio prenderemo in esame le proposte istituzionali elaborate dallo Stato italiano in risposta al grande cambiamento nei regimi migratori internazionali del primo dopoguer-ra: il risultato fu il definirsi di una nuova politica delle migrazioni inter-ne in cui tuttavia erano evidenti i debiti con elaborazioni che risalivano agli inizi del Novecento. Usare come punto di osservazione la situazio-ne dei primi anni Venti non rappresenta un artificio narrativo casuale, ma una scelta precisa: da questa prospettiva è possibile scorgere meglio i mutamenti nell’orizzonte sociale per cui furono avanzati tentativi di soluzione politica, in cui prendeva corpo un’interpretazione originale del nesso tra dimensione internazionale e interna.

La logica argomentativa espressa dallo scrittore-bracciante di Chia-ramonte è eloquente: il fascismo ha impedito le migrazioni all’estero, quindi non ho più un lavoro, quindi sono costretto ad andare ovunque per lavorare, persino a Catania, a meno di cento chilometri da casa. L’interrompersi di flussi liberi di popolazione oltreoceano mise in cri-si un’economia che si basava in larga parte sulle risorse portate dagli emigranti [De Clementi, 1999]; aumentò di conseguenza la necessità di cercare lavoro altrove. Si noti tra le righe il divario di giudizio tra due diverse forme di mobilità: una mobilità fortunata, rivolta oltre frontiera e fonte di guadagni, da intendersi come progetto per sé e il proprio gruppo parentale basato su solidi e sperimentati legami sociali, e una mobilità disperata, più a corto raggio e senza prospettive, un improvvi-sato tentativo di sopravvivenza2.

Rabito aveva 22 anni quando si spostò a Catania, poco dopo l’avven-to al potere di Mussolini. Nei tredici anni successivi cambiò numerosi mestieri, facendo spesso ritorno a casa nelle pause: fece il facchino in uno stabilimento di conserve di pomodori, fu responsabile di un appal-to per uno scavo insieme ai fratelli, lavorò come mietitore seguendo il calendario agricolo del grano nelle varie zone dell’entroterra (da Cate-nanuova, scrive, «quanto se feneva il tempo della mitetura, partiemmo

1 Si tratta di un caso che si aggiunge ai molti elencati in King, Skeldon, 2010.2 Sulla solidità dei «meccanismi sociali della mobilità geografica», cfr. Ramella, 2001.

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per Enna, perché era più mondagna»; Rabito, 2007, p. 166), venne in-gaggiato per raccogliere i pomodori in un’azienda agricola dove fu poi promosso come trattorista, suonò con i fratelli nelle feste di paese, fu assunto per quattro anni come operaio nella costruzione della ferrovia a Regalbuto. Nel frammento di vita di una singola persona è possibile così trovare un ventaglio esemplificativo delle varie tipologie di migra-zioni rurali interne3: tra officine, cantieri e campi coltivati, Rabito era stato protagonista di una mobilità da collocazione topografica, appro-fittando delle differenze climatiche tra aree diverse per prolungare la stagione della mietitura, di una mobilità di mestiere, sfruttando abilità specifiche come il saper suonare uno strumento o manovrare un tratto-re, e di una mobilità legata a investimenti produttivi, come quelli che fu-rono stanziati dal governo per completare il tratto ferroviario tra Motta Santa Anastasia e Regalbuto, per rilanciare un’industria agrumicola si-ciliana che dopo il boom dell’inizio degli anni Venti stava vivendo una fase di stanca [Lupo, 1990].

Nonostante la singolarità del suo percorso di vita, i problemi di Vin-cenzo Rabito erano condivisi da larga parte della società meridionale dell’epoca, che risentì profondamente del drastico calo delle partenze per l’estero dopo la Prima Guerra Mondiale. «Il blocco dell’emigrazio-ne», ha scritto Piero Bevilacqua, «di fronte all’elevato tasso di natalità che animava la crescita demografica delle regioni meridionali, creò un grave turbamento nel rapporto, già così poco favorevole, fra popola-zione e risorse» [Bevilacqua, 1998, p. 92]. Dalla fine dell’Ottocento in effetti la creazione di uno spazio transoceanico di passaggi e scambi era diventato un elemento cardinale nella vita di tante comunità rurali del Mezzogiorno, che poterono beneficiare di un periodo eccezionale a livello globale di scambi commerciali e di rimescolamenti di popola-zione [Gabaccia, 2003, pp. 191-199; Bonifazi, 2013, pp. 115-152]. Il blocco imposto prima con la guerra e poi con le politiche dei Paesi di immigrazione provocò uno shock di sistema che ebbe ripercussioni a livello sociale ed economico. Ciò poneva anche dei notevoli problemi a livello politico-istituzionale, questione che anima le pagine di questo saggio. Il periodo fascista rappresenta un caso di estremo interesse per la storia delle politiche migratorie, poiché fornisce un esempio notevole di come uno Stato non democratico può reagire alla chiusura interna-zionale della mobilità verso l’estero dei propri cittadini.

Per l’Italia della prima metà del Novecento, un’analisi sui rapporti tra

3 Si rimanda qui alle tipologie discusse in Gallo, 2012a, pp. 40-42.

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le istituzioni pubbliche e la mobilità interna si può sviluppare almeno su due filoni paralleli che, pur presentando una serie di punti di contatto e di complemento reciproco, possono a tutto diritto considerarsi sepa-rati, sia per la prospettiva da adottare nell’affrontarli sia per i differen-ti campi di azione delle politiche che generarono. Il primo riguarda la diffusione e l’evoluzione di misure per il controllo e la tracciabilità dei percorsi individuali di accesso ai centri urbani, a livello locale (sistema delle anagrafi comunali) e a livello centrale (il servizio di statistica). Non si tratta solo di un problema tecnico: con la crescita delle funzioni as-sistenziali delle città (in particolare l’istituto del domicilio di soccorso) e della loro gestione in rapporto all’organizzazione urbana, comprende la traduzione effettiva del diritto a definirsi cittadino e la questione più ampia delle condizioni sociali e istituzionali che determinano la sepa-razione a livello normativo della dimensione urbana da quella rurale, sia al fine del contenimento dell’erogazione dei servizi cittadini, sia per motivi di ordine superiore, inerenti alla politica dello Stato [Feldman, 2007; Gargiulo, 2014]. Al cuore della questione dunque sta l’esistenza all’interno del territorio nazionale di misure di diritto differenziale:

L’attività giurisdizionale […] sembra incidere profondamente sulla libertà individuale di residenza e di spostamento, mentre i diversi livelli di dotazione di strutture assistenziali tra città e campagna indicano l’uso di due misure politiche per rispondere alla domanda di sicurezza collettiva [Sori, 1982, p. 15].

Il secondo filone indaga invece i processi di progettazione e costru-zione in sede politico-amministrativa centrale di luoghi di analisi, coor-dinamento e decisione sui fenomeni migratori interni: in questo caso il campo di indagine si restringe ai percorsi istituzionali in cui si sia mani-festata una discussione esplicita sul governo della mobilità territoriale interna, alla formazione di una intelligenza intesa come processo con-creto di costruzione di istituzioni, politiche e saperi [Rosental, 2007].

Per quel che riguarda il primo filone, il punto di riferimento impre-scindibile rimane lo studio di Anna Treves dedicato al divario tra la politica e la realtà demografica in epoca fascista [Treves, 1976]. Con quel lavoro si dimostrava come le statistiche sugli spostamenti della re-sidenza anagrafica elaborate sotto il regime restituissero l’immagine di una società in cui si verificavano notevoli movimenti territoriali interni in direzione delle città, a dispetto della retorica ruralista e antiurbana del fascismo. Veniva così alla luce un paradosso eloquente del regi-me: l’esaltazione della cultura demografica aveva portato alla creazione dell’Istat e al conseguente potenziamento dei sistemi di rilevazione, im-

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pegno che portò a ottenere evidenze empiriche sulla realtà sociale che andavano in direzione opposta ai desiderata del regime. La complessità del sistema anagrafico, affidato alle amministrazioni comunali ma sotto supervisione centrale e sottoposto a revisione ad ogni censimento, era tale da dover considerare una quantità notevole di fattori per poter intervenire efficacemente, dal livello di istruzione dei funzionari alle volontà distorsive degli enti locali [Corsini, 1985; Randeraad, 1996]. A inizio Novecento si contavano 27 disposizioni legislative basate sull’am-montare certificato dei residenti comunali [Colajanni, 1909, p. 10], mentre all’inizio degli anni Trenta erano diventate quasi 100. Investire sul sistema anagrafico significava apportare dei miglioramenti all’orga-nizzazione complessiva del sistema; parallelamente, tuttavia, il governo incoraggiò interventi repressivi da parte dei prefetti per limitare il nu-mero degli immigrati nelle città medio-grandi usando proprio la leva delle anagrafi e arrivando a emanare la nota legge contro l’urbanesimo del 1939, che provocò una forte disfunzione negli obiettivi conoscitivi per cui erano organizzati i registri della popolazione: infatti le statisti-che basate sull’anagrafe non registravano coloro che immigravano in città contro le disposizioni di legge e non ottenevano la residenza. Non fu un caso, quindi, se nei primi anni repubblicani fu proprio l’Istat, cre-atura del regime, a combattere in maniera più costante la legislazione di marchio fascista che vincolava le registrazioni anagrafiche dei migranti interni [Gallo, 2014]. Il lettore interessato a questo filone dei rapporti tra istituzioni e mobilità territoriale può approfondire l’argomento at-traverso gli studi indicati in bibliografia.

Il presente saggio intende portare un contributo al secondo filone di ricerca. Se infatti per il primo, che riguarda la mobilità interna residen-ziale, la prospettiva risulta inevitabilmente frammentata nel complesso mosaico degli enti locali italiani, può essere utile, ai fini di un ragiona-mento sui rapporti tra istituzioni e mobilità territoriale all’interno della penisola nel corso del Novecento, dedicarsi ad altri aspetti della storia delle amministrazioni centrali, più strettamente legati al complesso del-le politiche economiche e sociali elaborate dallo Stato. Come abbiamo accennato, la metà degli anni Venti fu un tornante fondamentale, in cui di fronte a sfide inedite da un punto di vista sociale (la fine dell’emigra-zione tradizionale in un contesto di consolidamento della dittatura) fu-rono mobilitate e rimesse in discussione risorse progettuali che risaliva-no all’inizio del secolo e ad ambienti politici ora allontanati dalle stanze del potere, la cui rielaborazione ad opera di nuovi soggetti fornì alcuni dei tratti più caratteristici e connotanti del fascismo-regime. Cercherò

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nei prossimi paragrafi di ricostruire la nascita nell’ambito dei governi fascisti di un organismo dedicato alla gestione delle migrazioni interne, nello specifico di quelle occasionali, stagionali o coloniche, percorso non privo di spiccati elementi di complessità cui sono già stati dedicati alcuni studi tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta del secolo scorso [Scarzanella, 1977 e 1978; Treves, 1988a].

Fascismo e mobilità: gli esordi

Una vera e propria politica fascista nei confronti dell’emigrazione si venne definendo solo a partire dal 1926. In effetti, nella sua prima fase di governo, Mussolini non elaborò una posizione originale nei confronti del problema migratorio, né tanto meno tentò di impedire gli espatri, anzi: le prime misure adottate andarono in una direzione antivincolista e favorirono il rilascio dei passaporti e una maggior liberalizzazione delle partenze [Ipsen, 1997, p. 72]. Il governo si limitò a sostenere le iniziati-ve dell’autorità ereditata dal periodo liberale, ovvero il Commissariato generale dell’emigrazione (Cge), organo del Ministero degli Affari Este-ri diretto da un abile uomo politico, Giuseppe De Michelis [Ostuni, 1990]. Alcuni studi hanno precisato l’importanza della linea assunta in quegli anni dal Cge e fatta propria dal governo, che vedeva nello sta-bilirsi di una disciplina internazionale condivisa e nella valorizzazione economica dei flussi la risposta alle difficoltà sorte nello scenario post-bellico [Cannistraro, Rosoli, 1979; Ostuni, 1979]. La creazione di isti-tuti finanziari che promuovessero la colonizzazione agricola all’estero utilizzando le rimesse degli emigranti (l’Istituto nazionale per la coloniz-zazione e le imprese di lavoro all’estero, Incile, e l’Istituto per il credito del lavoro italiano all’estero, Icle) non portò a risultati concreti4.

Le società dei tradizionali Paesi di arrivo infatti si stavano a poco a poco chiudendo nei confronti degli immigrati, contro i quali veni-vano innalzate nuove barriere legislative; in particolare il Congresso degli Stati Uniti emanò tra il 1921 e il 1924 delle misure che limitavano in maniera drastica gli arrivi di lavoratori di nazionalità poco gradi-te, come i cinesi o gli italiani. In Europa rimanevano come possibili destinazioni solo la Francia e, in misura minore, il Belgio, Paesi che avevano bisogno di colmare il vuoto demografico causato dalla guer-ra. La spinta restrizionista si era accentuata proprio mentre il gover-

4 L’Icle tuttavia sarebbe sopravvissuto alla caduta del fascismo per vivere poi nell’età della mi-grazione programmata promossa dallo Stato repubblicano il suo periodo di più intesa attività [cfr. Fauri, 2009].

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no si faceva promotore di un importante convegno internazionale con l’obiettivo di dare fiato ai flussi migratori [Arena, 1924], decretando il fallimento dei tentativi promossi dal Cge: l’attività di De Michelis perse così la credibilità e il sostegno politico di cui aveva goduto fino ad allora da parte di Mussolini. A nulla valsero anche i tentativi di pro-muovere direttamente il lavoro italiano in America Latina attraverso improbabili «fiere campionarie galleggianti», come quella guidata tra il febbraio e l’ottobre 1924 da Giovanni Giuriati, nominato per l’occasio-ne ambasciatore straordinario per portare una sorta di showcase in stile dannunziano-mussoliniano nei principali porti sudamericani [Incisa di Camerana, 2003, pp. 227-248; Sori, 2009]. Il nuovo contesto dava forza all’opzione di uno sbocco interno e coloniale come risposta migratoria alla mancanza di lavoro, che tuttavia era ancora tutto da realizzarsi: sin dalla fine dell’Ottocento erano state elaborate proposte più o meno fantasiose di colonizzazione interna e di conquista di territori da popo-lare, che si moltiplicarono in occasione della guerra di Libia. Si trattava di idee ardite, molto discusse e contestate, mosse più da motivazioni politiche che da considerazioni tecniche: gli unici esperimenti tentati erano falliti clamorosamente. Un’ulteriore soluzione si venne definen-do con gradualità, come vedremo, grazie a un originale incrocio tra le pulsioni nazionali della nuova classe dirigente fascista e le competenze della vecchia leva dei burocrati nittiani e socialriformisti.

La Grande Guerra aveva già provocato uno shock profondo sulla società italiana e innescato tensioni enormi su tutte le istituzioni che a diverso livello la costituivano: le famiglie, le comunità di vicinato, i diversi aggregati associativi, le imprese economiche, i partiti politici, gli enti pubblici. L’ondata di proteste che si sollevò nelle campagne italia-ne non aveva precedenti nella storia nazionale. Le agitazioni contadine esplosero in tutt’Italia tra 1919 e 1920, e pretendevano un lavoro per tutti nella terra vicina, non in quella oltre frontiera. Non furono solo i braccianti a protestare, anche se si trattò della categoria con il più alto tasso di conflittualità: del mezzo milione di persone che scioperarono nelle campagne nel corso del 1919, quasi 400.000 parteciparono alle lotte organizzate dai braccianti; nel 1920, anno clou del conflitto socia-le, gli scioperanti furono più di un milione; tra questi 620.000 aderiva-no alle proteste delle leghe bracciantili [Tomassini, 1992]. La battaglia per ottenere condizioni migliori ed elevare le possibilità di guadagno degli avventizi locali portò in molte zone alla conquista dell’imponibile di manodopera e del collocamento di classe.

Il ruolo di questo ciclo di conflitti nella concatenazione di eventi che

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portarono all’affermazione del fascismo è una questione su cui esiste un vasto dibattito [cfr. Vivarelli, 1991, pp. 647-907]5. Meno indaga-te invece le trasformazioni dei rapporti tra istituzioni diverse che ne conseguirono, di particolare interesse soprattutto in ambiente rurale e nel settore dei rapporti di lavoro6. Le leve dell’intervento statale co-struite per i bisogni di guerra si rivelarono totalmente inadeguate al clima arroventato del dopoguerra. Era stato previsto il riconoscimento e un parziale finanziamento per gli uffici di collocamento di iniziativa privata che agivano su scala circondariale, purché a gestione mista di lavoratori e datori di lavoro; lo Stato provò a portarli sotto il controllo pubblico tramite un organo nazionale di coordinamento presso il Mini-stero dell’Industria, senza grandi risultati.

La collaborazione delle rappresentanze delle due parti negli uffici misti per l’agricoltura restò […] molto problematica: data la forte sta-gionalità del lavoro, il collocamento assumeva qui una funzione cen-trale nel controllo dei salari, delle condizioni di impiego e dei livelli occupazionali. Le lotte bracciantili scatenarono acuti contrasti con il padronato, per nulla intenzionato a cedere a quell’abbinamento di col-locamento e imponibile che implicava l’intrusione del sindacato nella conduzione dell’azienda [Musso, 2004, pp. 194-195].

Quello che ci interessa sottolineare è che tali tensioni non si risolsero né scomparvero con l’avvento al potere del fascismo. Rappresentarono anzi uno dei banchi di prova più difficili per il nuovo regime, che si impegnò in una prima fase di vita a raschiare via dal panorama istitu-zionale pubblico molti luoghi di comando e concertazione relativi ai problemi del lavoro.

Nel biennio 1923-1924 fu promossa una serie di atti finalizzati alla revoca di parte delle misure adottate nel periodo bellico: l’espansio-ne qualitativa della sfera d’intervento pubblico avvenuta con la Pri-ma Guerra Mondiale era coincisa con un aumento quantitativo dei ministeri economici e tecnici, dei comitati centrali e delle istituzioni periferiche promosse dallo Stato. È noto l’impegno del primo fascismo nel ridurre il volume degli impegni di spesa pubblica [Cecini, 2011]. Da un punto di vista qualitativo lo snellimento promosso dal ministro

5 Per una discussione della trilogia dello storico senese, uscita tra il 1967 e il 2012: Bresciani, 2013. Sugli scontri politici del periodo si veda Fabbri, 2009, e la relativa discussione di Natoli, 2012.6 Un interessante caso di interazioni e sovrapposizioni tra l’Opera nazionale combattenti, le cooperative e le organizzazioni mafiose come risposta alla mobilitazione rurale nell’entroterra siciliano si trova in Di Bartolo, 2008. Cfr. anche Crainz, 1994, e Bianchi, 2006.

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del Tesoro Alberto De Stefani significò, nel settore che ci interessa, la scomparsa del Consiglio superiore del lavoro e del Ministero del Lavo-ro e della Previdenza sociale, la fusione del Ministero dell’Agricoltura e di quello dell’Industria, del Commercio e del Lavoro in un unico Ministero dell’Economia Nazionale, in cui furono spostati anche i ser-vizi del Lavoro7. Anche a livello periferico l’intervento fu significativo. In un primo momento si abolì ogni tipo di partecipazione mista negli istituti territoriali: dopo appena due mesi dalla marcia su Roma, infatti, il Consiglio dei ministri decise il commissariamento degli uffici di col-locamento statali, ovvero il passaggio delle competenze nel campo della mediazione delle assunzioni dalle giunte provinciali, alle quali parteci-pavano i rappresentanti dei lavoratori, ai magistrati che le presiedeva-no8. Una simile sorte toccò ai consigli di amministrazione delle casse professionali. Ma la fase del «primo distruggere», come è stata chiama-ta da Stefano Musso, non si limitò a questo: alla fine del 1923 l’istituto stesso dell’ufficio di collocamento, ormai sotto il controllo di un com-missario governativo, venne abolito e le possibilità di intervento dello Stato nel regolare il mercato del lavoro subirono un drastico arresto, che si sarebbe prolungato anche negli anni successivi [Musso, 2004].

L’eliminazione burocratica di questi strumenti di intervento pubbli-co era coincisa con il violento attacco nei confronti di quei soggetti che ne condividevano tradizioni e radici: la contrapposizione alle leghe ru-rali rosse, su cui si era fondato lo squadrismo fascista, portava a colpire la stessa intercessione pubblica nelle assunzioni, che pure aveva come obiettivo il sostituirsi al collocamento di classe, operaio e bracciantile. L’esito era quello sicuramente più gradito per le componenti conser-vatrici della classe padronale, soprattutto dell’agraria settentrionale. Si rinunciava all’istituzione di uno Stato collocatore: «Il collocamento restò pertanto privo di disciplina giuridica e, di conseguenza, fu annul-lato anche il divieto di esercizio della mediazione privata» [Ivi, p. 205]. Dal punto di vista della tutela dei lavoratori, oltre all’azzeramento delle leghe locali, si trattava anche di un passo indietro rispetto a un faticoso percorso, compiuto da settori dell’amministrazione sino dai primi anni del Novecento, di superamento delle forme tradizionali del caporalato e dell’ingaggio di piazza: si arrivò addirittura a prospettare l’opportu-nità di un sistema di collocamento privato ad opera delle compagnie

7 Rispettivamente con i decreti 27 aprile 1923, n. 915, e 5 luglio 1923, n. 1439. Il Ministero del lavoro era stato creato nel 1920, con decreto 3 giugno, n. 700. Sul Consiglio superiore del lavoro, si veda Vecchio, 1988.8 Decisione tradotta con il decreto 4 febbraio 1923, n. 249.

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che avrebbero gestito le assicurazioni sulla disoccupazione. Si consideri tuttavia che la vicenda che abbiamo tratteggiato non rappresentò un mero arretramento dello Stato rispetto alla sfera del lavoro, tutt’altro: la dismissione di un ramo di attività pubblica che non stava andando in una direzione gradita fu un segno chiaro di una nuova e risoluta azione statale. Nella contrattazione, ad esempio, il nuovo governo marcò una presenza attiva imponendo dal centro il Nuovo patto colonico toscano, che aprì allo smantellamento delle conquiste mezzadrili del 1919-20 [Pucci, 1992], oppure modificò gli accordi sull’imponibile di mano-dopera stipulati tra leghe e agrari, in direzione di una riduzione delle quote occupazionali tale da svuotarle di senso.

Nella prima fase del fascismo al potere si era dunque realizzata una clamorosa sconfitta per tutti quei riformatori sociali che avevano con-cepito altre forme di intervento pubblico nella gestione dei rapporti di lavoro: alcuni di questi continuavano a lavorare all’interno stesso di quegli edifici in cui ne veniva decisa la soppressione. La presenza nei ministeri (soprattutto in quelli economici, ma non solo) e nelle commis-sioni centrali di un nutrito gruppo di figure estremamente competen-ti, che possiamo collocare nelle aree dei nittiani e dei socialriformisti, rappresenta un elemento cruciale per la comprensione delle successive dinamiche di governo del fascismo-regime [Melis, 2008]. In particolare fu un duro colpo per gli eredi di Giovanni Montemartini, tecnico pro-veniente dalla Società umanitaria di Milano e protagonista nei primi anni del Novecento della creazione dell’Ufficio del lavoro in seno al Ministero dell’Agricoltura, organo che riuscì a organizzare sotto forma di statistiche un’enorme quantità di dati, tra cui alcune preziose pub-blicazioni sulla mobilità interna periodica, con un interesse concreto rivolto all’applicazione di possibili riforme [Aa.Vv., 1984].

Il Ministero dei Lavori PubbliciIl quadro tuttavia presentava anche elementi dissonanti rispetto al

disegno generale. Presso il Ministero dei Lavori Pubblici, ad esempio, l’esistenza di una tradizione recente di esperienze amministrative in-centrate su criteri di efficienza e decentramento permise di cavalcare l’onda riformatrice dei primi anni del fascismo per dare un’interpreta-zione sostanzialmente opposta a quella voluta da de’ Stefani, pur adot-tandone alcune parole d’ordine. La collaborazione tra il reggente del dicastero, il popolare Gabriello Carnazza, e un tecnocrate di origine socialista come Carlo Petrocchi (burocrate con «spirito antiburocra-tico», come avrebbe ricordato nelle sue memorie, «entrato al servizio

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dello Stato con l’Avanti in tasca»; Petrocchi, 1944, pp. 8-9; cfr. Melis, 2006), con una solida esperienza nel settore delle bonifiche, permise di mettere in pratica dal dicembre 1922 un riordinamento complessivo dei rapporti tra centro e periferia, privilegiando una regionalizzazione nel governo delle opere pubbliche che snelliva e accelerava l’iter delle richieste. Si trattò di una riforma innovativa, in consonanza con le «ten-denze interventiste e meridionalistiche di alcuni settori della burocrazia e della grande industria» [Barone, 1983, p. 14]. Andava incontro anche a un’altra esigenza del nuovo regime, che provò a giocarsi la carta di «una vistosa politica delle opere pubbliche [con] il compito di conqui-stare il consenso delle province meridionali, strappandole così all’in-fluenza elettorale dei gruppi dirigenti liberaldemocratici» [Melis, 1988, p. 113]. Questo complesso viluppo di elementi che stava all’origine del tentativo di riforma Carnazza-Petrocchi vedeva intrecciarsi insieme cri-teri di efficienza e una più equa ripartizione geografica delle spese con la ricerca di consenso politico da parte del nuovo potere.

La riforma ebbe una fortuna breve e non resse alla consultazione elettorale dell’aprile del 1924, che confermò l’affidabilità per il fasci-smo degli agrari meridionali: tra l’agosto e il settembre del 1924, fu infatti smantellata dal nuovo ministro Gino Sarrocchi attraverso dei provvedimenti che non si limitarono a ripristinare l’ordine antecedente al 1922, ma abolirono anche alcune innovazioni introdotte durante la Grande Guerra; venne sancita così nell’immediato una sostanziale con-tinuità nell’organizzazione burocratica, con le sue rassicuranti ricadute per quel che riguarda i tradizionali assetti di potere e soprattutto i lega-mi diretti tra le clientele elettorali liberali e la spesa pubblica.

Superata la fase in cui «non [fu] la programmazione economica ad essere dominante bensì quella finanziaria, […] informata ad una severa logica di risparmio» [Desideri, 1981, p. 53], il Ministero dei Lavori Pubblici si fece nuovamente protagonista di una serie di ini-ziative volte a favorire processi di sviluppo economico nel Meridione, in coincidenza con la nomina alla reggenza del dicastero di Giovanni Giuriati, nel gennaio del 1925. Giuriati era tornato da poche settima-ne dalla missione diplomatica in America Latina di cui abbiamo fatto cenno in precedenza: era dunque coinvolto in prima linea nei tentativi del regime di riaprire le strade per l’emigrazione italiana all’estero. Ora però il clima politico era cambiato: con l’instaurazione della ditta-tura anche le politiche rivolte ai disoccupati e al Meridione dovevano prendere un’altra direzione. Secondo i ricordi del gerarca, fu lo stesso Mussolini ad affidargli l’incarico di dirigere l’azione ministeriale per

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recuperare i consensi nel Mezzogiorno. Queste le parole che gli avreb-be rivolto il Duce: «Ti sarei grato se volessi assumere il portafoglio dei Lavori Pubblici: è il dicastero più importante in questo momento, dal punto di vista politico. In questo momento l’Italia minaccia di spez-zarsi in due, perché, nell’Italia meridionale, la sfiducia nel regime fa-scista può considerarsi completa. Questa dolorosa situazione non può essere sanata che da una grande politica di lavori pubblici» [Giuriati, 1981, pp. 197-198].

Avvocato dalla formazione prettamente politica, «esponente esem-plare della nuova classe dirigente selezionata durante la guerra», Giu-riati rappresentò un momento di rilancio dell’amministrazione dei la-vori pubblici dopo gli anni di Sarrocchi, restituendo le competenze e le facoltà di manovra abolite: forte di una «concezione efficientista e quasi militare dell’amministrazione» [Staderini, 1983, p. 180; su Giuriati, cfr. Salotti, 1990], impresse al suo dicastero un dinamismo e un attivismo certamente gradito alle élite burocratiche rimaste deluse dalla marcia indietro fatta dal regime dopo la reggenza Carnazza [Sepe, 1998]. In particolare ne continuò le aspirazioni meridionaliste, imprimendo un corso peculiare a tali politiche: dopo il ritorno alla ripartizione territo-riale del bilancio abolita da Sarrocchi, Giuriati promosse la costituzio-ne dei Provveditorati alle opere pubbliche per il Meridione, ideati da Petrocchi, e la legge sulla creazione di villaggi agricoli nel Sud, «centri di redistribuzione della popolazione all’interno delle singole regioni meridionali» [Treves, 1988a, p. 135] 9. Questa produzione normati-va venne coronata alla fine del 1925, quando il Ministero di Giuriati ottenne l’attribuzione esclusiva delle opere pubbliche di competenza anche di altri dicasteri riguardanti il Mezzogiorno10. Anna Treves ha notato come nei mesi tra il 1925 e il 1926 l’interesse nei confronti della questione meridionale da parte della grande stampa e dei vari gruppi di pressione avesse raggiunto dei livelli molto elevati, incoraggiato in questo dalla stessa propaganda fascista che aveva scelto il Sud Italia come campo privilegiato di investimento di immagine: «Il regime, in quella fase, mostrò l’intento di apparire agli occhi dell’opinione pub-blica come il salvatore del Mezzogiorno» [Treves, 1988a, p. 131; cfr. Lupo, 2005, p. 185].

Alla vigilia del periodo «in cui il fascismo orientò verso i lavori pub-blici la maggiore percentuale di spesa complessiva» [Cecini, 2011, p. 348], periodo inaugurato nel luglio 1926, si riaprivano delle possibilità

9 Grazie ai decreti 7 luglio 1925, n. 1173, e 28 novembre 1925, n. 2874.10 Legge 24 dicembre 1925, n. 2299 [cfr. De Rosa, 1979, pp. 163-164].

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per chi aveva riposto nel dicastero di piazza San Silvestro le aspettative di rilancio nella sfera socio-economica di un intervento riformatore da parte dello Stato. Rimaneva da determinare la forma che tale intervento avrebbe assunto.

Il Comitato permanente per le migrazioni interne

Alla fine del febbraio 1926 Giuriati presentò al Consiglio dei ministri un disegno di legge per la costituzione di un Comitato permanente per le migrazioni interne (Cpmi). Venivano riprese in questo documento delle proposte relative allo spostamento di popolazione dal Nord al Sud Italia per raggiungere una «perequazione demografica», motivate ora dall’affievolirsi dei flussi migratori in uscita e dalla conseguente cre-scita di un popolo di disoccupati nelle campagne e nelle città italiane. Un attento osservatore come Angiolo Cabrini, all’epoca corrisponden-te italiano per l’Ufficio internazionale del lavoro, notò come il progetta-to «spostamento di lavoratori da una provincia all’altra per l’esecuzione di grandi opere pubbliche» fosse finalizzato a «dirigere verso il Mez-zogiorno dei gruppi di lavoratori agricoltori e conduttori che adesso emigrano nella Francia meridionale»11. Si riproponeva così, e a dimo-strarlo sarebbe bastato il recupero del termine colonizzazione interna, uno schema di intervento che faceva perno su investimenti da farsi nel Mezzogiorno per trasferirvi disoccupati settentrionali. Stava qui uno dei punti nevralgici dell’intera operazione: il rischio che una spinta me-ridionalista si traducesse in uno schema operativo piegato alle richieste del mercato del lavoro settentrionale12. L’ambiguità di base stava nella questione della centralità degli spostamenti Nord-Sud all’interno del progetto, se si trattasse della componente di base o se fosse invece un elemento accessorio: su questo asse irrisolto si sarebbe verificata una torsione decisiva per la successiva vita del Comitato.

Dopo l’approvazione del Consiglio dei ministri, il testo venne rivisto e perfezionato e uno schema di decreto fu quindi inviato a Mussolini per un giudizio finale. È probabile che alla stesura finale del provvedi-mento abbiano partecipato sia Petrocchi, grand commis del dicastero di

11 Rapporto 12 marzo 1926, in Archives du Bureau International du Travail (ABit), C, f. 34-1926a. La traduzione dal francese è mia.12 Non credo che al centro della questione ci fosse un’effettiva valutazione da parte di Giuriati che il Sud non avesse lavoratori a sufficienza per i lavori previsti, come indicato in Treves, 1988a (pp. 134-143), quanto una diversa domanda dei portatori di interessi settentrionali rispetto a quelli meridionali. La colonizzazione interna era un’espressione storica della richiesta di lavoro da parte dei rappresentanti dei lavoratori del Nord: Gallo 2012b.

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Giuriati, che De Michelis, il quale come dimostra la documentazione archivistica inoltrò il testo alla presidenza del Consiglio13: si trattava di due figure di spicco delle amministrazioni centrali, con interessi e storie diverse, che si erano succedute alla guida dell’Ufficio nazionale del collocamento pochi anni prima [Petrocchi, 1926; Potito, 2005]. La collaborazione tra i due sarebbe suffragata anche dalla composizione della segreteria del Comitato, in cui erano presenti elementi di spicco dell’amministrazione dei lavori pubblici e di quella del Cge, con funzio-nari che avevano preso parte all’esperienza del Ministero del Lavoro14, e dal fatto che il Cpmi usasse per le proprie attività gli uffici romani del Cge [Ipsen, 1997, p. 80]. Appare importante sottolineare il coin-volgimento più allargato, già in questa prima fase, rispetto al personale del Ministero dei Lavori Pubblici: sicuramente non fu solo Petrocchi il promotore dell’intera operazione, frutto invece di un’intesa che coin-volse diversi rami dell’amministrazione rimasti orfani dei servizi che prima svolgevano nei settori del lavoro e dell’emigrazione. Le migra-zioni interne furono il nuovo campo di impegno pubblico che li acco-munò, facendo prospettare margini di manovra altrimenti chiusi: per colpa dell’esaurimento dei tentativi fatti in un contesto internazionale mutato nel caso dell’emigrazione, a causa di una condanna politica di connivenza con pratiche di conflitto espunte dall’orizzonte di governo nel caso del lavoro.

Venne coinvolto anche il ramo dell’amministrazione che si occupa-va delle politiche agricole, allora al centro di un importante processo di ridefinizione. Un ruolo di giudizio e ratificazione delle scelte spettò alla Commissione tecnica dell’agricoltura e al Comitato permanente del grano, organi della Presidenza del Consiglio, entrambi presieduti da Mario Ferraguti [Staderini, 1978]: a metà novembre 1925 la commis-sione discusse il problema dell’emigrazione interna e della colonizza-zione, approvando una mozione in cui si proponeva:

[…] l’istituzione di un servizio che, servendosi dell’organizzazione e dell’esperienza del Commissariato generale dell’emigrazione e della collaborazione degli organismi sinda-cali già funzionanti, favorisca e disciplini l’emigrazione interna regolandola ai nuovi bi-

13 Archivio centrale dello Stato (Acs), Presidenza del Consiglio dei ministri (Pcm) 1934-1936, b. 1762, f. 2.8, n. 1256.14 La segreteria del Cpmi era diretta da Aldo Rossi Merighi (Ministero dei lavori pubblici) e formata da Giommaria Cau (Ministero dell’economia nazionale), Cesare Giampelino Corsetti (Genio Civile), Renato Marincola (Ministero dell’economia nazionale) e Amedeo Fago (Cge): decreto del Ministero dei lavori pubblici, 7 maggio 1926, in «Bollettino ufficiale del Ministero dei Lavori Pubblici», a. 27, n. 19, 1º luglio 1926. Su Cau, cfr. Zanfarino, 2006.

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sogni, sempre crescenti, determinati dall’intensificazione dell’agricoltura e previsti per contribuire a risolvere il problema della colonizzazione interna e per compiere l’opera di redenzione del Mezzogiorno, vigorosamente cominciata dal Governo fascista15.

Il 3 marzo 1926 De Michelis inviava a Vittorio Peglion, collaboratore e successore di Serpieri al sottosegretariato per l’Agricoltura del Mini-stero dell’Economia Nazionale, un appunto in cui venivano riportate le decisioni prese dal Comitato permanente del grano, «colle quali era concorde S.E. Giuriati»16. Indizi questi che lasciano trapelare l’imma-gine di un Cpmi non legato embrionalmente all’amministrazione dei lavori pubblici, ma anzi dall’articolata collocazione istituzionale. In ef-fetti tale iniziativa sorgeva in un terreno comune a tutti i soggetti impe-gnati in quel torno di tempo a ridefinire i caratteri dell’impegno statale nei settori dell’agricoltura e del lavoro, con un’attenzione specifica al Mezzogiorno: con ogni probabilità l’atto di nascita del Cpmi va collo-cato nel cuore del processo di elaborazione di una politica sociale inter-ventista da parte delle varie componenti istituzionali del regime, in una fase in cui era estremamente utilizzato lo strumento delle commissioni di studio incaricate di elaborare importanti documenti programmatici di riforma [Gagliardi, 2010, pp. 29-34].

Con il regio decreto 4 marzo 1926, n. 440, venne formalizzata la costituzione del Cpmi, per il quale era previsto il concorso di elementi di spicco delle élite della burocrazia e delle organizzazioni. Ne faceva-no parte di diritto, infatti, i responsabili delle più importanti branche delle amministrazioni che si occupavano di problemi del lavoro, ma non solo: il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Commissariato generale dell’emigrazione, le Direzioni generali per le opere idrauliche e le bonifiche, quelle dell’agricoltura, del lavoro, del credito, dell’am-ministrazione civile, della sanità pubblica, la Cassa depositi e presti-ti, le Ferrovie dello Stato, la Marina mercantile, l’Opera nazionale dei combattenti, la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, e infine l’I-spettorato generale per le ferrovie, le tramvie e le automobili. Anche il mondo economico era ben rappresentato, con i dirigenti della Confe-derazione delle corporazioni fasciste, della Confederazione generale fa-scista dell’industria, della Federazione italiana dei sindacati agricoltori fascisti e della Federazione italiana delle bonifiche.

Fu così che quando il neocostituito Cpmi venne convocato la prima

15 Angiolo Cabrini, rapporto 20 novembre 1925, in ABit, C, f. 34-1925b. La traduzione dal francese è mia.16 Appunto 3 marzo 1926, in Acs, Pcm 1934-1936, b. 1762, f. 1.1.23, n. 3299, sf. 2-B.

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volta, all’inizio di maggio, si trovò riunito insieme uno spaccato notevo-le della dirigenza economica e amministrativa del Paese. Stefano Benni e Edmondo Rossoni, Camillo Valle e Gino Cacciari, Alessandro Brizi e Celso Coletti, Ignazio Giordani e Paolo Medolaghi, Carlo Petrocchi e Giuseppe De Michelis, solo per citare i nomi più noti: la volontà di una stretta collaborazione, sotto il cappello della politica, tra gli inte-ressi economici e le competenze amministrative non poteva essere più esplicita.

In quest’occasione Giuriati inaugurò il Comitato spiegando il senso di tale iniziativa; il suo discorso si apriva con un’ammissione degli in-successi di programmi analoghi tentati in passato:

Gli esperimenti di colonizzazione che si sono fatti fino ad ora in Italia non hanno, in genere, sortito buon esito e non parrà strano che illustri sociologi e non meno illustri cultori di scienze agrarie abbiano sostenuto la inanità degli sforzi fatti e progettati per questo scopo.

I fallimenti erano dovuti a una mancata comprensione delle diversità delle situazioni locali nelle varie regioni e al non aver legato la trasfor-mazione fondiaria con le «grandi opere pubbliche risanatrici», ma so-prattutto due erano gli errori compiuti:

[…] aver creduto alla possibilità della colonizzazione interna mentre si lasciavano aperte tutte le vie alla emigrazione esterna e una vasta, pertinace, menzognera propaganda ne magnificava le illimitate possibilità [e] aver progettato le trasmigrazioni nel clima storico della socialdecaperazione [sic] parlamentare, il meno adatto per un disciplinato movi-mento di masse e per una complessa ed energica opera di risanamento economico.17

Stava tutta qui dunque la novità della proposta del Ministero dei Lavori Pubblici, il fatto di collocarsi all’interno di un progetto com-plessivo di bonifica integrale e di riforma del latifondo, grazie ai decreti scritti da Serpieri e al nuovo clima venutosi a formare con il fascismo, campione di ordine e patriottismo: ma dal punto di vista demografico-migratorio si riprendevano in sostanza le stesse argomentazioni utiliz-zate dalla seconda metà del secolo precedente.

Si legga ad esempio questo passaggio del discorso di Giuriati: «Il lavoratore italiano bramoso di cercar fortuna lungi dal campanile natio dovrà muovere da prima verso quelle regioni italiane che, pur essendo fertili quanto le terre transoceaniche, sono state fino ad ora trascurate o

17 Acs, Pcm, Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione (Cmc), b. 47 G, f. «1000.1 Leggi-Decreti-Stampa», sf. «1000.1.C Leggi-Decreti-Stampa. Istituzione e costituzione del Commissariato. Legge 4.3.1926».

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abbandonate, indi verso le nostre Colonie dove molti deserti artificiali possono e devono essere trasformati in floride campagne»18.

I gruppi di studioUna volta formalizzata la segreteria del Comitato, presieduta da

Aldo Rossi Merighi, nelle prime due riunioni, il 7 e il 28 maggio 1926, vennero creati dei gruppi che avrebbero lavorato in maniera indipen-dente, sotto il coordinamento di Michele Bianchi, ex sindacalista ri-voluzionario e quadrumviro della marcia su Roma salito da poco alla carica di sottosegretario al Ministero dei Lavori Pubblici [D’Agosti-ni, 2006]: cinque «sottocomitati» incaricati di discutere di problemi diversi ed elaborare relazioni tecniche dettagliate su vari aspetti, dal mercato del lavoro al credito agrario, dalla colonizzazione interna alla costruzione di nuovi centri rurali, fino allo sfruttamento delle risorse naturali meridionali per industrializzare il Sud. Il ventaglio di argo-menti era ampio, indice che si intendeva affrontare il tema delle mi-grazioni interne per discutere uno sviluppo complessivo del Paese, attraverso l’unione della manodopera e del know how settentrionali con i capitali statali e privati, riprendendo una tradizione di proposte classiche, almeno per il mondo socialista e riformatore del primo de-cennio del Novecento. In una fase di protagonismo del ruolo pubbli-co per il rilancio dell’economia meridionale i maggiori esponenti delle organizzazioni economiche dell’Italia fascista, uniti con alcuni tra i migliori tecnici ministeriali, vennero convocati sotto la supervisione di Giuriati per discutere un piano di rilancio del Mezzogiorno che comportasse un utilizzo della mobilità territoriale interna in direzione Nord-Sud.

L’organicità del Cpmi rispetto all’intervento nel Mezzogiorno era evi-dente: il decreto che lo costituiva faceva esplicito riferimento alla legge 2299/1925, sul ruolo del Ministero dei Lavori Pubblici nel Sud Italia; inoltre il Cpmi veniva ad assumere una «funzione integrativa di quella dei Provveditorati alle Opere, doveva con essi essere in stretto contatto per seguirne l’attività, la quale principalmente poteva determinare quei bisogni da cui i flussi migratori sarebbero stati alimentati»19. Questo rap-porto privilegiato con i Provveditorati avrebbe dato luogo, almeno sulla carta, a organismi simili a degli speciali uffici del lavoro su base regio-

18 Acs, Pcm, Cmc, b. 47 G, f. «1000.1 Leggi-Decreti-Stampa», sf. «1000.1.C Leggi-Decreti-Stampa. Istituzione e costituzione del Commissariato. Legge 4.3.1926».19 «Relazione sull’attività del Comitato per le migrazioni interne», 31 dicembre 1929, in Acs, Pcm 1928-1930, b. 1280, f. 8.1, n. 8974 [10915].

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nale o interregionale, come veniva annotato dai funzionari di piazza San Silvestro in margine all’elaborato sulla legge di costituzione del Cpmi:

È da ritenere che la collaborazione di Istituti e di Uffici, che non dipendono dal Ministe-ro dei Lavori Pubblici non potrà essere così intensa e rapida come sarebbe desiderabile. Il compito da assolvere è già per se stesso molto grave, perché in gran parte dipende dalla definizione di questioni che rimangono insolute da decenni (bonificazioni, frazio-namento del latifondo, decentramento delle popolazioni agricole agglomerate, pubblica sicurezza, credito agrario). Soprattutto occorre decidere dopo un’attenta disamina delle condizioni locali, in base a dati che debbono essere seriamente e pazientemente rac-colti [tramite il Genio Civile e i Provveditorati], organi già sufficientemente attrezzati e che con poche integrazioni potrebbero in modo adeguato corrispondere agli scopi. L’integrazione potrebbe avvenire formando osservatori d’indagine delle condizioni del lavoro (per l’impiego temporaneo di braccianti e specializzati nell’esecuzione delle opere pubbliche, qualora l’offerta di braccia locali difettasse), di investigazione per la determi-nazione di zone capaci di assorbire stabilmente agricoltori (alimentando o sorreggendo iniziative di privati o di società industriali-agrarie). Osservatori potrebbero essere costi-tuiti presso i Provveditorati a Caserta per la Campania, l’Abruzzo e il Molise; a Bari per la Puglia, la Basilicata e la Calabria; a Palermo per la Sicilia; a Cagliari per la Sardegna20.

Si sarebbe così creato, all’interno delle competenze esclusive del di-castero retto da Giuriati, un sistema di monitoraggio del mercato del lavoro meridionale, o meglio di una parte di esso: la limitazione al per-sonale avventizio da impiegare nelle opere pubbliche e agli agricoltori da inserire in attività «industriali-agrarie» ne faceva una sorta di rete di uffici di collocamento rivolta alle fasce precarie più povere e numerose del mondo rurale e urbano meridionale. La tutela statale di un determi-nato settore della mobilità territoriale avrebbe potuto così far rientrare dalla finestra gli istituti di collocamento, cacciati fuori dalla porta appe-na qualche anno prima.

Importante notare come l’elaborazione di questa proposta avvenisse nell’«anno degli attentati» [De Felice, 1968, p. 200], a metà di quel «biennio di demolizione del pluralismo politico» [Lupo, 2005, p. 195] che aveva fatto seguito alla svolta del 3 gennaio 1925. Soprattutto, si inseriva tra i provvedimenti che decretavano da un lato più ampi poteri al potere esecutivo e la fascistizzazione del pubblico impiego (leggi 24 dicembre 1925, nn. 2263 e 2300) e dall’altro rendevano impraticabile l’esistenza di sindacati non fascisti (legge 3 aprile 1926, n. 563) [Aqua-rone, 2003, pp. 121-141; De Felice, 1968, pp. 139-221]. Lo Stato fasci-

20 «Considerazioni generali sull’istituzione del Comitato permanente per le migrazioni interne», in Acs, Pcm, Cmc, b. 67 G, f. «Schema di Costituzione del C.M.C. e ampliamento organico», sf. «Schemi di Costituzione del Commissariato per le Migrazioni», ssf. «Precedente legislazione». Corsivi miei.

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sta riusciva a muovere le leve istituzionali per elaborare una forma di intervento sociale dell’economia (o almeno tentava di farlo) solo dopo la messa al bando di ogni opposizione politica che potesse rappresen-tare il mondo dei lavoratori. Di più, la colonizzazione interna balza-va in prima pagina nell’agenda governativa contemporaneamente alla sconfitta di quello stesso ambiente culturale e politico in cui era nata: prima ancora che venisse sciolta la Confederazione generale del lavoro (gennaio 1927), tra il 1925 e il 1926 il fascismo decretò la fine dell’e-sperienza delle tradizionali strutture socialiste che avevano immaginato progetti di disciplina della mobilità territoriale rurale per contrastare la disoccupazione, ovvero la Società umanitaria, la Lega nazionale delle cooperative e la Federazione nazionale dei lavoratori della terra. Già da tempo gli squadristi ne avevano bruciato le sedi; ora, in parallelo con la loro chiusura, il regime ne raccoglieva le proposte e le inseriva all’inter-no di un insieme di misure dirette a raccogliere il consenso e l’appoggio dei ceti rurali [Serpieri, 1925]: per fare questo si avvalse anche delle eredità che queste esperienze avevano lasciato nella macchina statale e nei funzionari ad esse più vicini.

Mercato del lavoroLa consegna dei lavori dei sottocomitati avvenne circa 10 mesi dopo

la prima riunione, nel marzo del 1927, tempo più che sufficiente per il compito richiesto e indice probabile di una traiettoria non lineare del progetto complessivo. Nel frattempo infatti erano intervenuti dei pas-saggi rilevanti nel quadro di riferimento dell’organizzazione ammini-strativa del lavoro, in un periodo connotato dall’emergere di forti linee di tensione all’interno delle varie anime del fascismo: nel luglio era sta-to emanato il decreto costitutivo del Ministero delle Corporazioni, ad agosto Mussolini a Pesaro lanciò la «battaglia della lira», determinando così un processo di stretta monetaria che aumentò la compressione dei salari, nei mesi finali del 1926 si aprì il dibattito sull’elaborazione della Carta del lavoro [Cordova, 2005]. Dobbiamo comunque limitarci per ora a un’analisi degli elaborati finali dei sottocomitati, per altro di ele-vato livello, in mancanza del materiale documentario che permetta di ricostruire in maniera più approfondita la vicenda.

Il primo sottocomitato, dedicato ai problemi del mercato del la-voro21, era composto dai maggiori dirigenti dei sindacati (Rossoni) e

21 Riporto di seguito la dicitura esatta degli argomenti: «mercato nazionale del lavoro», «col-locamento temporaneo di mano d’opera», «contratti di lavoro», «mercedi», «migrazioni inter-

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degli agrari (Cacciari), e da importanti vertici amministrativi dei dica-steri degli Esteri, dei Lavori Pubblici e dell’Economia Nazionale (De Michelis, Cozza e Giordani: quest’ultimo era anche il relatore). Ri-spetto ai compiti ultimi per cui era stato creato il Cpmi, questo gruppo mostrava una notevole consapevolezza sia dei termini reali della questione sia di come impostare una concreta linea di azione. In con-fronto all’esposizione semplicistica di cui si era reso responsabile in primo luogo lo stesso Giuriati presso il Consiglio dei ministri, nel do-cumento di presentazione del progetto di legge che presentava l’azio-ne del Cpmi22, la relazione presentata da Giordani tendeva a chiarire come dovessero venire presi in considerazione parametri di giudizio più sofisticati:

Più che al rapporto assoluto dello squilibrio demografico fra le provincie a maggiore densità di popolazione e quelle meno abitate del Mezzogiorno, si de[ve] aver riguardo al rapporto relativo che la popolazione lavoratrice di ciascuna provincia presenta rispet-to alle possibilità attuali ed anche potenziali di un impiego conveniente sul posto o in provincie finitime23.

Un invito all’adozione di categorie di ragionamento più sensate e ra-zionali, quindi, che fossero aderenti ai bisogni reali del mercato del la-voro piuttosto che veicolate da retoriche vetuste, magari ancora affasci-nanti ma prive di un qualsiasi riscontro, come ormai era stato assodato da tempo [Treves, 1988b]. La relazione ruotava sul perno della cono-scenza effettiva dei fenomeni come presupposto all’azione e proponeva una precisa sistemazione istituzionale degli organi preposti a compiere le indagini occorrenti. Intanto, per organizzare degli spostamenti di po-polazione sull’asse Nord-Sud era necessaria un’organizzazione diffusa su scala nazionale e non limitata al Meridione:

[…] non si [può] assolutamente prescindere dalla conoscenza delle condizioni del mer-cato del lavoro non solo nei riguardi delle provincie del Mezzogiorno scarsamente popo-late, ma anche nei riflessi di quelle privilegiate dal punto di vista demografico [Relazione 1º sottocomitato, p. 2].

ne ed emigrazione», «rapporti etnici». Nella relazione finale quest’ultimo argomento veniva espunto.22 «Istituzioni di un Comitato permanente per le migrazioni interne», 20 febbraio 1926, in Acs, Pcm 1934-1936, b. 1762, f. 1.1.23, n. 3299, sf. 2-B.23 «Ministero dei lavori pubblici, Comitato permanente per le migrazioni interne, 1º Sottoco-mitato. Relazione» [d’ora in poi: Relazione 1º sottocomitato; similmente le relazioni degli altri sottocomitati], pp. 2-3, in Acs, Pcm 1928-1930, b. 1280, f. 8.1, n. 8974 [10915]. Corsivi miei.

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Le rilevazioni dovevano avvenire su base provinciale e divise accura-tamente per categoria lavorativa: veniva posta come condizione neces-saria il funzionamento di uffici capaci di effettuare «indagini statistiche atte a seguire periodicamente la variazione delle condizioni del mercato del lavoro» [Ivi, p. 5], con attenzione particolare all’andamento e ai caratteri della disoccupazione. L’analisi del sottocomitato si era con-centrata allora a verificare se le statistiche della disoccupazione fossero idonee al compito prefissato: si toccava qui un nodo molto delicato, centro di polemiche anche negli anni a venire24. Infatti, in mancanza degli uffici di collocamento, aboliti alla fine del 1923, i dati sui disoc-cupati venivano ricavati dall’incrocio di due fonti, la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali e le autorità comunali, la cui affidabilità sol-levava forti dubbi. Che il vero bersaglio della relazione fosse diventato il sistema di rilevazione del mercato del lavoro lo si deduce dallo studio allegato, più lungo della relazione stessa, intitolato La statistica della disoccupazione.

La relazione osservava come una rilevazione che faceva affidamen-to sul numero degli assicurati disoccupati e delle domande di sussidio presentate agli istituti di previdenza sociale fosse totalmente inadeguata per fornire una base conoscitiva che permettesse un buon funziona-mento del Cpmi. C’era infatti una intera fetta della società che risultava completamente in ombra rispetto al cono di luce proiettato da queste statistiche:

Diverse […] sono le categorie dei lavoratori escluse dall’obbligo dell’assicurazione per poter fondare sui dati stessi un giudizio sicuro sull’estensione della disoccupazione e fra esse ve ne sono pure alcune, come quelle dei lavoratori agricoli e degli occasionali, che presentano un grande interesse nei riguardi dei compiti affidati al Comitato delle Migrazioni Interne25.

Alla fine dei conti, la legislazione sui sussidi per mancanza di lavoro era talmente parziale e poco applicata da impedire una sia pur conget-turale sovrapposizione tra assicurati e disoccupati:

I dati in questione perciò possono essere solo interessanti per conoscere, quando siano integrati da altri elementi, la gestione e l’andamento dell’assicurazione contro la disoc-cupazione, ma non presentano almeno per il momento, alcuna utilità agli effetti di una valutazione delle condizioni del mercato di lavoro26.

24 Salvemini, 1948; Rossi, 1926; Galletti, 1926. Per il periodo precedente, cfr. Alberti, 2013.25 La statistica della disoccupazione, p. 7, allegato n. 1 a Relazione 1º sottocomitato. Corsivo mio.26 Ivi, p. 8.

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Ancora peggiore il giudizio espresso sui dati forniti dalle autori-tà municipali, da funzionari che ogni mese inviavano a Roma i mo-duli compilati senza possedere neanche un minimo di preparazione e svolgendo questo compito tra mille altri impegni: «I Comuni sono gli organi meno indicati per poter fornire dei dati esatti sulla effettiva disoccupazione»27.

Per organizzare gli spostamenti era necessario conoscere la realtà, ma gli istituti competenti non potevano assolvere questo compito. Come ri-solvere il problema? Non riformando il sistema vigente, che presentava una quantità di difetti tali da far disperare, ma creandone uno nuovo, che potesse essere impostato su criteri più razionali. La Direzione generale del lavoro, allora collocata presso il Ministero dell’Economia Nazionale e retta dallo stesso Giordani, era indicata come l’ufficio più competente per occuparsi della questione, in concorso con l’Istat che avrebbe dovuto fissare i metodi di raccolta opportuni per intercettare e valutare in parti-colare la manodopera agricola e quella avventizia. Una forma di collabo-razione tra i due enti era già all’opera, a quanto diceva la relazione, e le innegabili difficoltà nella raccolta dei dati sarebbero state superate «mer-cé la valida collaborazione dei potenti organismi che si stanno creando con l’inquadramento sindacale»28. Oltre alla raccolta sistematica, erano da prevedere anche delle inchieste periodiche, sui salari, sugli orari, sul costo della vita, sulle migrazioni interne. Queste ultime in particolare erano da indagare, «per stabilire quali siano i movimenti consuetudinari e quale importanza essi presentino per poterli eventualmente regolare e per vedere di incanalare verso le regioni del Mezzogiorno e delle Isole quelli che presentino una sovraofferta di mano d’opera»29.

Ciò che veniva chiesto dal primo sottocomitato era un riassetto com-plessivo del sistema di indagine del mondo del lavoro che richiamava in maniera esplicita le esperienze del passato:

Il sottocomitato ha creduto […] di invitare la Direzione del lavoro a voler riprendere in modo sistematico le inchieste che venivano già fatte sul fenomeno [delle migrazioni interne] prima della guerra dall’Ufficio del Lavoro e ha ottenuto l’affidamento che esse saranno presto messe allo studio30.

27 Ivi, p. 9.28 Relazione 1º sottocomitato, p. 7. Anche nella discussione alla Camera per la costituzione dell’Istat, il 25 marzo 1926, si citavano i progetti di promozione delle migrazioni interne: «Il problema generale della conquista della ricchezza esige calcoli statistici […] del possibile sfruttamento della sovrappopolazione, della disciplina delle migrazioni interne, della profilassi dell’emigrazione» (Ipsen, 1997, p. 107).29 Ivi, p. 8.30 Ibidem.

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Si prospettava insomma un ritorno a Montemartini, da effettuarsi in maniera rigorosa e arricchito dalla collaborazione dei più recenti stru-menti istituzionali, come l’Istat, o di quelli che si stavano per formare, come i sindacati fascisti. Per quanto riguarda le emigrazioni all’este-ro, invece, le informazioni disponibili erano più che sufficienti, grazie alla «perfetta organizzazione» del Cge31. Non dobbiamo dimenticare il contesto in cui si inserivano le tesi avanzate in questa prima relazione: i servizi ministeriali del lavoro erano stati protagonisti di una tortuo-sa vicenda che li aveva portati dalla promozione a dicastero nel 1920, per poi confluire dopo lo scioglimento del 1923 all’interno del maxi-Ministero dell’Economia Nazionale, dove si trovavano allora sotto la Direzione generale del lavoro, della previdenza e del credito. In quel periodo si era aperto un margine di manovra all’interno del complessi-vo riassetto istituzionale che il fascismo stava operando in questo setto-re, con la recente creazione del Ministero delle Corporazioni, creatura del regime voluta da Bottai [Gagliardi, 2010]. Il documento redatto da Giordani ci mostra un progetto che vedeva capofila il responsabile bu-rocratico dei servizi del lavoro, in un momento chiave per la loro sorte nella macchina statale; è inoltre indicativo rispetto alle alleanze e alle intese maturate da parte di alcuni settori tecnici e riformatori all’inter-no e al di fuori dell’amministrazione, nel tentativo di promuovere una sorta di continuità nella mutazione, per conservare e valorizzare anche nel nuovo esperimento corporativo alcune eredità positive dello Stato liberale, come l’Ufficio del lavoro e il Cge.

Colonizzazione internaIn una prospettiva simile si mosse anche il terzo sottocomitato, incari-

cato di relazionare sulla «colonizzazione interna nel Mezzogiorno e nelle Isole», l’argomento più strettamente vicino alle ragioni che stavano alla base del Cpmi. I membri erano tutti funzionari di primo livello, nonché responsabili per vari motivi nel settore delle bonifiche agrarie; Brizi, il relatore, era da più di tre anni alla testa della Direzione generale dell’a-gricoltura presso il Ministero dell’Economia Nazionale, di cui aveva ret-to il gabinetto fino ai primi di novembre del 1926. Abbiamo sottolineato la distanza che il primo sottocomitato aveva espresso nei confronti di improvvisate politiche di trasferimento di contadini da una parte all’al-tra dell’Italia: nella relazione del terzo gruppo tale distanza diventava un abisso, tanto da sfiorare la negazione stessa del senso del Cpmi. Anna

31 Ivi, p. 9.

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Treves, concentrandosi su questo documento, ha sottolineato la natura bizzarra di «un organismo che dedica ogni suo impegno non a mettere in rilievo ma a negare la propria stessa utilità e funzione» [Treves, 1988a, p. 150], per via dell’esposizione insistita delle pesanti difficoltà relative ai progetti di trasferimento di popolazione dal Nord e dal Centro Italia al Meridione. Gli elementi di critica che emergevano venivano sempre ricondotti a un utilizzo dei dati reali, frutto di osservazione diretta, così come era stato raccomandato dalla relazione di Giordani. Gli estensori infatti dichiaravano di essersi largamente avvalsi dell’ausilio dei Provve-ditorati alle opere pubbliche per una ricognizione circa i passati esperi-menti di colonizzazione. Era l’esperienza stessa, così come balzava agli occhi dalle indicazioni dei Provveditorati, a consigliare cautela:

Il Sottocomitato ha voluto partire dall’esame complessivo degli esperimenti di migra-zioni interne compiute per la colonizzazione. I fatti, senza dubbio, in questa materia presentano importanza predominante in confronto della enunciazione di princip[i] [Re-lazione 3º sottocomitato, p. 2].

E proprio dai fatti provenivano le note dolenti, veri e propri inviti alla prudenza:

Osservatori semplicisti hanno ragionato talvolta che, se è vero che vi sono plaghe nel Nord d’Italia ove la densità dei rurali è eccessiva, sì che la vita economica ne è resa aspra e anche artificiosa, e se è vero che nel Sud vi sono delle buone terre pronte alla colonizzazione, il trasferimento dei primi nelle seconde non doveva tardare. Ma i fatti, spiacevolmente, non hanno largamente avverata questa previsione [Ivi, p. 3].

Più volte, riportando le opinioni dei Provveditorati, la relazione am-moniva sulle difficoltà di un trasferimento da regioni diverse, mentre per le zone da sempre considerate più adatte a un’intensificazione delle colture, come la Basilicata e la Sardegna, si sottolineava l’opportunità di utilizzare piuttosto la manodopera locale, «intelligente, onesta e resisten-te», disponibile a recarsi nei campi dai vicini «centri a densa popolazio-ne», molto diffusi nel Mezzogiorno, «serbatoi da cui possono derivare, e in vari casi sono effettivamente derivate, […] famiglie coloniche che si trasferiscono nelle campagne» [Ivi, p. 14]. Inoltre, se «in tesi gene-rale, il proprietario meridionale considera più sicura la colonizzazione mediante famiglie locali», anche «i contadini di plaghe a densa popola-zione preferiscono rimanere attaccati alla loro terra e alle loro abitudini abbastanza evolute, anche a costo di vivere affannosamente» [Ivi, p. 13].

Le conclusioni da trarre portavano a preferire interventi statali di tipo leggero: l’amministrazione pubblica doveva evitare una condu-

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zione diretta degli esperimenti di colonizzazione, ma cercare di pro-muovere ogni iniziativa privata che si muovesse in tal senso, attraverso un ventaglio di aiuti tecnici e logistici, che non assumessero tuttavia la forma di premi in denaro. Assistenza nella scelta delle famiglie e nella conduzione del fondo, sconti sui trasporti, facilitazioni nell’accesso al credito, fornitura di servizi pubblici: così lo Stato avrebbe consentito ai singoli imprenditori dotati di mezzi e abilità di superare gli ostacoli iniziali nell’avviamento di aziende razionali ed economicamente attive. Solo nei casi in cui non potessero avvenire iniziative private, la coloniz-zazione poteva venire condotta da «un ente, che, a giudizio del Sotto-comitato, è particolarmente adatto a sperimentare»: l’Opera nazionale per i combattenti. Una volta che in una data località «gli ex combattenti del luogo abbiano già veduti saturare i loro bisogni di terra e di lavoro» [Ivi, p. 23], l’Onc avrebbe avuto i margini per avviare immigrazioni dal Centro e dal Settentrione in aziende di colonizzazione, sempre sotto forma di esperimento. Queste imprese avrebbero potuto essere delle conduzioni individuali, ma era chiara la preferenza per unità maggiori, medie o grandi aziende, «portat[e] a sistemi più o meno industriali di agricoltura» [Ivi, p. 25]. Si riaffacciava qui la nota concezione nittiana e beneduciana dell’Onc, avvallata in questo caso dallo stesso Coletti, ma destinata proprio in quei mesi a subire una netta sconfitta [Barone, 1986, pp. 55-56].

Un ultimo argomento su cui si pronunciava la relazione riguardava una proposta di legge presentata nel giugno del 1926 da Edoardo Pan-tano sulla colonizzazione interna, che riprendeva i progetti avanzati dal senatore nel corso di un’intera vita parlamentare:

[…] la discussione del Sottocomitato ha anche, per puro debito di studio, sfiorato l’ar-gomento (non di sua pertinenza poiché un progetto è sottoposto all’autorevole discus-sione del Senato del Regno) se una speciale legge sulla colonizzazione costituisca oggi una necessità per lo scopo di cui qui si tratta [Relazione 3º sottocomitato, p. 18].

Dietro la schermatura di un parere tecnico dato quasi per dovere di completezza si celava in realtà una netta presa di posizione in una batta-glia di primo piano: quella che vedeva fronteggiarsi da una parte Arrigo Serpieri, con il suo progetto di intervento complessivo sul latifondo, e dall’altra gli ambienti agrari fortemente contrari, in particolare quello raccolto intorno al Comitato promotore dei consorzi di bonifica dell’I-talia meridionale di Ferdinando Rocco, che invece vedevano di buon occhio una soluzione vicina a quella avanzata da Pantano, fondamen-talmente innocua per la grande proprietà [Stampacchia, 1983; Checco,

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1984; Stampacchia, 2000]. La preferenza del sottogruppo di Petrocchi andava nettamente per Serpieri:

[…] il Sottocomitato, soltanto come sua convinzione unicamente tecnica, esprime il pensiero che una larga, pronta e vivace applicazione della legge sulle trasformazioni fondiarie avrebbe effetto non solo evidentemente più utile per la produzione, ma anche – nei riguardi specifici della colonizzazione – più sicuro di una consimile eventuale legge speciale.

Istituti specifici adibiti alla colonizzazione e al trasferimento di po-polazione non potevano che innestarsi come rami secondari («fatti minori o non necessari», diceva la relazione) in quello che era e rima-neva, in quest’ottica, il tronco principale (i «fatti maggiori»), il vero intervento trasformatore e riformatore, ovvero la legge Serpieri. Stanno qui le radici di quel paradosso esposto da Anna Treves quasi trenta anni fa: il terzo sottocomitato si espresse contro un’esistenza autono-ma di un progetto di colonizzazione, come prospettato dal progetto Pantano, scollegato da un complessivo piano d’attacco nei confronti del latifondo e delle terre da bonificare. L’impegno dello Stato doveva concentrarsi per garantire l’efficacia della legge Serpieri, al confronto della quale l’intento di Giuriati di equilibrare le pressioni demografiche italiane passava in secondo piano:

È necessario che il Governo assicuri con previdente larghezza i mezzi finanziari occor-renti alla imminente applicazione della legge sulle trasformazioni fondiarie di pubblico interesse, dalla quale applicazione deriveranno, segnatamente nel Mezzogiorno e nelle Isole, ambienti agrari effettivamente ed organicamente pronti ad una efficace colonizza-zione, anche con famiglie coloniche provenienti dal Nord e dal centro d’Italia [Relazione 3º sottocomitato, p. 28, corsivo mio].

Senza un programma composto da bonifiche idrauliche, risanamen-to igienico, potenziamento delle condizioni di viabilità, sicurezza e be-nessere del Sud, non era neanche pensabile un piano di trasferimento di popolazione da altre regioni; una volta concretizzato un programma del genere tali spostamenti diventavano possibili, anche se non neces-sariamente auspicabili: queste le conclusioni a cui giungeva la relazione esposta da Brizi.

AntiurbanesimoSulla legge Serpieri insisteva anche il quarto sottocomitato, forse

quello dal profilo minore, che si era dedicato allo studio dei problemi relativi ai centri rurali e alle case coloniche partendo da motivazioni di

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carattere antiurbano; se infatti lo scopo del Cpmi era definire «l’azione dello Stato per diminuire gli squilibri della distribuzione demografica», diventava fondamentale in prima analisi impedire lo spopolamento:

Non si tratta soltanto di avviare correnti umane sovrabbondanti verso plaghe deserte o scarsamente abitate e in corso di trasformazione fondiaria; occorre altresì arrestare il flusso migratorio verso i grandi centri e verso l’estero anche in regioni, nelle quali la mano d’opera agricola già scarseggia, eliminando per quanto possibile le cause del moto irresistibile verso l’inurbamento [Relazione 4º sottocomitato, pp. 2-3].

Decisivo diventava quindi l’obiettivo di un miglioramento nelle con-dizioni di vita dei rurali, prima fra tutte la casa; dopo aver fatto una lun-ga rassegna dei precedenti legislativi relativi alle costruzioni di edifici colonici o borghi rurali, la relazione arrivava alla legge 753/1924, della quale si esaltavano i sussidi previsti per le nuove abitazioni, all’interno dei comprensori in cui sarebbe stata applicata:

[…] con tale aiuto la costruzione dei villaggi, delle borgate e delle case coloniche, in base ai piani di trasformazione fondiaria – che in genere dovranno comprendere zone assai vaste – riceve un impulso vigoroso e allettante e per conseguenza alla trasformazione agraria che accompagna e segue assai davvicino la sistemazione idraulica è permesso ricavare il maggior frutto del vistoso capitale impiegato [Ivi, p. 13].

Questo circolo virtuoso sarebbe stato favorito dalle recenti disposi-zioni emanate da Giuriati32, con le quali si era prevista un’integrazione tra l’alloggiamento degli operai adibiti alle grandi opere pubbliche e le abitazioni dei contadini dediti alla colonizzazione: «In un primo tempo le costruzioni sarebbero erette per alloggiare le maestranze adibite ai lavori ed in seguito, con idonei e rapidi adattamenti, i fabbricati sa-rebbero resi abitabili per uso dei coloni» [Relazione 4º sottocomitato, pp. 17-18]. Al di là dell’impostazione semplicistica di un’idea dai tratti marziali, che veniva con ogni probabilità direttamente dall’ufficio del ministro, il tratto importante di questo punto, così come della citata circolare del novembre 1925, era quello di prevedere una cura parti-colare alle condizioni di vita della manodopera chiamata a lavorare in un progetto complessivo di risanamento del Mezzogiorno. La relazione proseguiva con un’analisi molto particolareggiata delle forme di costru-zioni idonee per i vari tipi di appoderamento successivi ai lavori pub-

32 Circolare 19 novembre 1925, Progetto per la costruzione dei fabbricati per alloggiamento di operai occupati nella esecuzione di opere pubbliche e da destinarsi in seguito per abitazioni di agricoltori, in «Bollettino ufficiale del Ministero dei Lavori Pubblici», a. 26, n. 34, 1º dicembre 1925, pp. 3131-3134.

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blici, dagli appezzamenti piccoli e medi (dai 4 ai 15 ettari) fino a quelli grandi (100 ettari). Così come aveva fatto il terzo sottocomitato, anche il quarto esprimeva una preferenza per un tipo di azienda di grandi dimensioni, definita «l’appoderamento ideale allorquando, come av-viene in genere nell’Italia Meridionale e Centrale, eseguita la bonifica idraulica, si voglia intraprendere la bonifica agraria» [Appendice n. 1 a Relazione 4º sottocomitato, p. 4].

Gli altri due sottocomitati si erano dedicati alla «industrializzazio-ne delle regioni del Mezzogiorno e delle Isole con particolare riguar-do alle risorse naturali» e al «credito agrario e fondiario-agrario in rapporto alle intraprese di colonizzazione interna». Nelle relazioni si proponevano studi dettagliati per un utilizzo produttivo delle acque (elettricità) e dei minerali (miniere) del Mezzogiorno, e valutazioni sull’insufficienza del volume finanziario disponibile. Per poter indu-strializzare il Sud si reputava condizione imprescindibile la costru-zione di un moderno sistema di infrastrutture viarie e creditizie: per queste ultime veniva consigliato un coordinamento regionale ad opera del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli per dare fiducia agli investi-tori stranieri e attrarre capitali dall’estero [Relazione 5º sottocomitato; Relazione 2º sottocomitato]. Anche i due gruppi di lavoro più pretta-mente tecnici, dunque, adottavano lo stesso indirizzo programmatico degli altri tre.

Dai progetti alla realtà: migrazioni interne e bonifica integraleDalla lettura delle relazioni dei sottocomitati emerge un profilo co-

mune abbastanza definito, se pur con importanti distinguo, che vale la pena riportare e soprattutto mettere in relazione con il dibattito politi-co che si stava svolgendo in quegli anni.

Alla base dell’iniziativa del ministero di piazza San Silvestro stava una forte spinta meridionalista e la convinzione che spostare persone dal Nord al Sud Italia all’interno di programmi articolati di lavori pub-blici potesse aiutare a risolvere la crisi occupazionale del Settentrione e a risollevare l’economia meridionale, attraverso la costruzione di infra-strutture, la bonifica, la messa in produzione delle terre nuove: un’agri-coltura di tipo moderno richiedeva un alleggerimento della pressione demografica nella Valle padana e uno stabilizzarsi della popolazione nelle terre da sfruttare maggiormente nel Meridione. Si trattava del-la rielaborazione di un vecchio progetto che aveva affascinato in età giolittiana i socialisti e i conservatori, le cooperative e alcuni agrari, soprattutto nel momento di massima crescita della spesa pubblica ver-

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so il Mezzogiorno, ma che, una volta sfumato il progetto di ancorare la disciplina della mobilità con un piano complessivo di investimenti statali nel Sud, aveva cominciato a perdere presa e brillantezza [Gallo, 2012b]. Almeno da una quindicina di anni il discorso demografico-migratorio era andato progressivamente scollandosi dalle proposte di colonizzazione interna, almeno nelle parole degli esperti e dei politici più avvertiti. Ora però, in una fase di chiusura delle frontiere, la pre-occupazione maggiore divenne quella di lanciare una politica nuova che potesse rappresentare una risposta concreta alla netta diminuzione degli sbocchi all’estero per la disoccupazione.

Giuriati ebbe la responsabilità politica di promuovere una rispo-sta in questa inedita situazione, con l’ausilio di alcuni grand commis dell’amministrazione. Tuttavia i sottocomitati così formati, soprattutto il primo e il terzo in cui erano presenti Petrocchi, Brizi, Giordani e De Michelis (ma anche Rossoni e Cacciari), seguirono solo in parte le in-dicazioni ricevute: forzarono il dettato ministeriale per inserirlo all’in-terno di un contenitore diverso; o meglio, ne assecondarono le mire, avanzando tuttavia una quantità tale di modifiche che, se accettate in toto, avrebbero imposto all’intervento previsto un segno di natura di-versa. I consigli avanzati in maniera più decisa andavano in altre dire-zioni: organizzare un sistema nazionale di uffici pubblici per la raccolta di dati e indagini sul mondo del lavoro; considerare in primo luogo i lavoratori vicini alle terre suscettibili di trasformazione e intensifica-zione delle colture e non quelli distanti centinaia di chilometri; punta-re sul miglioramento della vita delle popolazioni rurali del Meridione per evitare lo spopolamento; incentivare il piano di trasformazione integrale del latifondo concepito da Serpieri, con un intervento pub-blico al tempo stesso meno oneroso e più incisivo, anche in alternativa rispetto a nuovi istituti specifici di colonizzazione. Tutti punti che sin-golarmente potevano trovare l’accordo dello stesso ministro, ma che insieme cozzavano in primo luogo con la dicitura stessa dell’organismo e con la ratio che ne aveva suscitato la nascita.

A Giuriati va riconosciuto il merito di aver raccolto un gruppo di persone di alto profilo che si impegnarono in un notevole sforzo di riflessione, a partire da una profonda conoscenza della realtà sociale e del funzionamento della macchina amministrativa. Ma la qualità delle risposte, di natura sociale ed economica, rivelarono uno scarto con la domanda posta, concentrata invece sugli aspetti demografici e ideolo-gici. Dietro una comune impostazione autoritaria e meridionalista, si affacciava in realtà dalle pagine degli studi prodotti un’idea differente

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dell’azione pubblica, che molto aveva in comune con recenti riflessio-ni tecniche riformatrici. In particolare veniva dimostrata un’adesione notevole da parte del mondo burocratico ed economico italiano al pro-getto di Serpieri, non limitata alla cerchia dei tecnici agrari. Sappiamo infatti che questo si inseriva consapevolmente all’interno di un disegno in cui gli investimenti settentrionali nel Meridione da parte dei grandi gruppi di credito si allacciavano con piani di sviluppo delle imprese idroelettriche [Isenburg, 1981]. Da qui l’invito espresso dal quinto sot-tocomitato a veicolare il capitale pubblico su interventi che dessero va-lore all’agricoltura meridionale, per renderla in questo modo attraente nei confronti dei crediti privati, italiani ed esteri.

Il problema è che nel momento in cui vennero presentate le relazioni (marzo 1927) il progetto Serpieri era già stato bloccato nei suoi tratti originali, anche se non definitivamente sconfitto. I membri più consa-pevoli delle sottocommissioni operarono quindi una scelta tecnica, che denotava un intento squisitamente politico: spingere in direzione di un determinato tipo di intervento pubblico, rafforzandolo con una serie di motivazioni ben più ampie, che traevano origine dalle sollecitazioni e dagli interessi stessi del ministero. Solo a queste condizioni avrebbe avuto senso un programma di trasferimento di popolazione dal Nord al Sud dell’Italia.

La risposta che venne dal governo registrò in parte questa posizione, ma lo faceva travisando a sua volta le autorevoli opinioni per inserirle in maniera intenzionale e disinvolta all’interno di una nuova linea politica, che avrebbe caratterizzato il regime negli anni a venire. Il 15 marzo 1927 Michele Bianchi presentò a Giuriati una relazione sui lavori dei sottocomitati, che fu subito inviata, non senza qualche apprensione, a Mussolini33. Un foglio interno al ministero riassumeva in poche righe il senso del riassunto di Bianchi:

La relazione conclude:

1) Non è facile avviare le correnti migratorie di lavoratori, nel Mezzogiorno d’Italia, an-ziché negli Stati Esteri. Occorreranno, prima, studi statistici e ingenti spese per elevare il tenore di vita del lavoratore nel Mezzogiorno.2) Per la colonizzazione interna, occorre dare capitali agli istituti di credito agrario. Si spera poterne avere all’estero […].3) La colonizzazione interna nel Mezzogiorno può, entro modesti limiti, aversi, ma non conviene che lo Stato la promuova artificiosamente, con sua sensibile spesa.4) Occorrono molti capitali e lavori per la costruzione di centri a case rurali, migliorare

33 Acs, Pcm, Cmc, b. 47 G, f. «1000.1 Leggi-Decreti-Stampa», sf. «1000.1.C Leggi-Decreti-Stampa. Istituzione e costituzione del Commissariato. Legge 4.3.1926».

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le condizioni igieniche degli attuali, etc: seguitare nel dare premi di costruzione per le nuove case. Per tal modo si combatte l’esodo rurale34.

Di tutt’altro tono invece le parole che giunsero in risposta da Palazzo Venezia: «Mi sono affrettato a leggere la relazione riassuntiva dei lavori effettuati dal Comitato permanente per le migrazioni interne», scrisse Mussolini, «e l’ho trovata veramente notevole e esauriente. Il problema è stato affrontato in tutti i suoi aspetti economici, finanziari, demografi-ci e morali. Ora si tratta di passare alla fase legislativa»35.

La complessità dei risultati dei lavori del Comitato era data dal loro appoggiarsi su considerazioni di tipo tecnico: la replica di Mussolini possedeva invece la semplicità e la forza delle formule retoriche. Parti-colarmente importante in questo caso perché si trattava del canovaccio su cui avrebbe scritto, in collaborazione con il direttore dell’Istat Cor-rado Gini, il discorso dell’Ascensione, ovvero il manifesto della politica ruralista pronunciato alla Camera un paio di mesi più tardi, il 26 mag-gio 1927. Secondo Anna Treves, fu proprio nella risposta a Giuriati che Mussolini espresse per la prima volta la fortunata formula: «Bisogna ruralizzare l’Italia, anche se occorrono miliardi e mezzo secolo» [Tre-ves, 1988a, pp. 158-159]. Il capo del governo utilizzò l’occasione data dalla consegna delle relazioni del Cpmi per lanciare un’operazione di propaganda in piena regola, confermata dal risalto che la stampa dette alla lettera, mentre al contrario la relazione Bianchi rimase un docu-mento estremamente riservato.

L’accento del capo del governo sulla necessità di «finanziare la co-lossale impresa»36 faceva riferimento a quello che rimaneva il corno più importante del discorso: la legge Serpieri. La vicenda del Cpmi presenta significativi punti in comune con il travagliato iter compiuto negli stessi mesi dal progetto di bonifica integrale, di cui come abbiamo visto la gestione della mobilità territoriale avrebbe formato una sorta di corollario [Staderini, 1978; Checco, 1984]37. Nel maggio 1924 era stato emanato un decreto che completava il testo unico del dicembre precedente e coronava l’opera di Serpieri al sottosegretariato per l’A-gricoltura, in carica dall’autunno 1923. Per «facilitare la trasformazione fondiaria dei comprensori che presentino, ai fini dell’incremento della

34 Acs, Pcm 1934-1936, b. 1762, f. 2.8, n. 1256, appunto manoscritto, s.d.35 Lettera di Mussolini a Giuriati, 24 marzo 1927, in Acs, Pcm, Cmc, b. 67 G, f. «Schema di Co-stituzione del C.M.C. e ampliamento organico», sf. «Schemi di Costituzione del Commissariato per le Migrazioni», ssf. «Precedente legislazione».36 Lettera di Mussolini a Giuriati, 24 marzo 1927, cit.37 Per una recente rassegna: Bernardi, 2014.

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produzione, un rilevante interesse pubblico»38, il governo poteva ob-bligare i proprietari dei fondi interessati a opere di miglioramento o in alternativa imporne la vendita a beneficio di consorzi e imprese priva-te che avrebbero assicurato l’esecuzione dei lavori. Da allora le forze sociali colpite da tale provvedimento, «rivolto inequivocabilmente a smantellare il latifondo meridionale» attraverso l’ingresso nella pro-prietà terriera di grandi società private, si organizzarono e iniziarono una dura battaglia per tamponarne gli effetti e trasformare la politica della bonifica integrale.

Interessante notare come le maggiori critiche della proprietà meri-dionale venissero rivolte proprio contro la Direzione generale delle ac-que del Ministero dei Lavori Pubblici, diretta da Petrocchi, colpevole di «aver favorito, con un’angusta visione politica, un indirizzo discri-minatorio nei confronti dei veri interessi dell’agricoltura meridionale» [Checco, 1984, p. 31]. Serpieri aveva probabilmente peccato di inge-nuità, non calcolando la forza degli agrari meridionali: nel luglio venne destituito dalla sua carica ministeriale e da allora, nonostante il suo im-mutato prestigio all’interno dell’amministrazione (al suo posto era stato messo Peglion), la trasformazione fondiaria prese una piega diversa. Nel novembre 1925 un decreto concedeva la priorità nella concessione delle opere di bonifica ai consorzi dei proprietari invece che a privati e imprese esterne39: era il primo passo verso un sostanziale imposses-samento della legislazione sulla trasformazione fondiaria da parte dei proprietari terrieri meridionali, che riuscirono così non solo a debellare l’ingresso di potenti forze economiche nei loro territori, ma anche a deviare a loro vantaggio il flusso di investimenti pubblici stanziati per la trasformazione fondiaria. Come ha scritto Giuseppe Barone, «alla fine del 1927 la via capitalistica alla bonifica integrale [era] irrimediabil-mente perduta» [Barone, 1986, p. 139]. Quando nel 1928 venne varata la «legge Mussolini», in cui era previsto un ingente finanziamento per i lavori pubblici nel Sud Italia, i giochi si erano già risolti a vantaggio dei poteri tradizionali40.

Alla stessa maniera si era smarrita quella che possiamo chiamare una via capitalistica alla politica delle migrazioni interne, ovvero quanto sug-gerito dalle sottocommissioni: un intervento statale diretto a tutelare

38 Decreto 18 maggio 1924, n. 753.39 Decreto 29 novembre 1925, n. 2464.40 Legge 24 dicembre 1928, n. 3134, che «recepì la quasi totalità delle richieste avanzate dalla proprietà terriera meridionale» [Checco, 1984, p. 39]. Si potrebbe parlare a proposito di mo-dernizzazione passiva: cfr. Felice, 2013.

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quella mobilità territoriale che sarebbe stata provocata dalla grande trasformazione economica conseguente all’ingresso delle società finan-ziarie nella proprietà terriera meridionale. In mancanza di ciò, anche il Cpmi ridusse le sue ambizioni operative e adattò il suo funzionamento alla nuova situazione, che vide il netto predominio di motivi politici rispetto a quelli economici. Come vedremo la disciplina delle migrazio-ni interne si ridusse infatti più a un intervento di alleggerimento della pressione esercitata dai disoccupati (con una conseguente esaltazione dei ruoli della figura politica del mediatore, canale preferenziale per ottenere un impiego attraverso i lavori pubblici), che a un piano com-plessivo di aggiustamento dell’offerta di lavoro rispetto alle nuove con-dizioni della domanda.

Ignorando tutti questi dissidi interni, la macchina della propaganda di regime si era intanto messa in moto per esaltare il nuovo orientamen-to governativo. In un opuscolo distribuito nel 1928 e intitolato Perché non si deve migrare, si poteva leggere: «Se i confini dell’Italia sono trop-po limitati per la sua crescente popolazione, si allarghino con quei nuo-vi lembi del suolo patrio, che sono le colonie» [Cit. in Nobile, 1974, p. 1329]. In un volume dato alle stampe lo stesso anno, nella collana «Le leggi fasciste» curata dal presidente della Corte di Cassazione Silvio Longhi, Filippo Virgilii scriveva:

L’Italia, che era tormentata dalle correnti disordinate e fluttuanti dell’emigrazione, si è avviata rapidamente a una sistemazione regolare: non vieta l’emigrazione, ma ha fissato norme precise per disciplinarla razionalmente. Ha iniziato ondate feconde di migrazioni interne, che dovrebbero compensare i dislivelli demografici delle diverse regioni d’Italia e dare impulso vitale alla produzione agricola e industriale della Nazione; sta affrontan-do, con mirabile ardimento e con visione di conforto, il problema della colonizzazione, che dovrebbe sostituirsi a quello dell’emigrazione [Virgilii, 1928, p. 5].

Fascismo e mobilità: la nascita di una politica migratoriaL’attività del Cpmi in questo primo periodo si può suddividere in

due rami: uno statistico-conoscitivo, l’altro di sperimentazione con-creta. Al primo possiamo ricondurre una serie di studi di cui il Co-mitato promosse la pubblicazione: una collana dedicata ai problemi del lavoro, della colonizzazione e dell’utilizzo delle risorse naturali del Meridione, a cura di tecnici competenti come Eugenio Azimonti, Erne-sto Campese e altri [Campese, 1928; Seghetti, 1928; Taddeucci, 1929; Molè, 1929; Azimonti, 1929; Bordiga, 1930]. Oltre a questa opera di promozione culturale, il Cpmi assunse, in collaborazione con la Dire-zione generale del lavoro del Ministero dei Lavori Pubblici, un compito

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di indagine diretta nei confronti della mobilità territoriale periodica, così come era stato indicato dal primo sottocomitato. Si tratta di una attività importante che seguiva le orme tracciate dall’Ufficio del lavoro di Montemartini, anche se rivendicava uno scarto per quel che riguarda la motivazione politica sottostante, come sottolineato dall’introduzione alla prima raccolta di dati:

La rilevazione attuale per il metodo si riannoda in buona parte alle due citate inchie-ste antecedenti [quella del 1905 e quella del 1910-1911], pur essendo state introdotte notevoli variazioni nella elaborazione ed esposizione dei dati, variazioni dipendenti so-pratutto da una certa differenza nella finalità dell’indagine, che per gli anni 1905, 1910, 1911 era sopratutto dominata dalla preoccupazione di creare organismi intermediari che potessero sostituirsi all’opera degli incettatori di mano d’opera, e che invece si riannoda attualmente ad altri scopi di ben più vasta portata, sì da formare una parte soltanto di un quadro generale che permetta lo studio di possibili sbocchi interni alla mano d’opera alla quale sieno precluse le vie della emigrazione esterna con una accorta valutazione delle situazioni locali41.

Intanto, infatti, si erano andati definendo i tratti della politica assunta dal regime fascista nei confronti dell’emigrazione e uno studio sulle cor-renti stagionali poteva essere inserito all’interno di un approccio com-plessivo alla questione migratoria, in cui l’opzione interna era diventata una priorità rispetto a quella esterna. Il passaggio si era consumato im-mediatamente dopo la consegna della Relazione Bianchi, tra l’aprile e l’agosto 1927, arco di tempo in cui si collocano tre eventi chiave come la soppressione del Cge, il discorso dell’Ascensione e l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del primo provvedimento antiurbanesi-mo [Treves, 1976; Ipsen, 1997]. Nonostante il cambiamento di contesto il Cpmi raccoglieva comunque il testimone del vecchio Ufficio del lavoro e ne continuava l’attività, almeno nel campo specifico della conoscenza delle migrazioni interne. Subito dalla seconda metà del 1927 vennero iniziate le rilevazioni, e dal 1928 i metodi statistici si fecero definitivi: la raccolta e pubblicazione dei dati continuò fino allo scoppio della Secon-da Guerra Mondiale, producendo una serie completa di volumi annuali.

Insieme allo studio, vennero prese anche delle timide iniziative per avviare migrazioni interne da una parte all’altra d’Italia, senza però l’organizzazione e la metodicità sufficienti per l’assolvimento di un compito tanto delicato, per cui era impensabile l’improvvisazione. Così veniva raccontata questa esperienza in un promemoria ad uso interno redatto dal Ministero dei Lavori Pubblici:

41 Ministero dei lavori pubblici – Comitato permanente per le migrazioni interne, 1928, p. 4 (corsivo mio).

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Verso la fine del 1927 e i primi mesi del 1928 numerosi Comuni dell’altipiano di Asiago, la Federazione delle Cooperative della provincia di Ravenna, il Segretario Federale del Pnf di Venezia, le organizzazioni operaie di Roma richiesero insistentemente lavoro al Comitato, perché la disoccupazione locale fosse alleviata, e così pure da diverse parti del Regno famiglie coloniche si dichiararono pronte a lasciare i propri luoghi di origine per andare a lavorare in altre zone.E il Comitato, con circolari dirette all’Alto Commissario di Napoli e a tutti i Provvedito-rati alle Opere Pubbliche per il Mezzogiorno e le Isole cercò di conoscere quali possibi-lità d’impiego vi fossero in quelle regioni: la larga disponibilità di mano d’opera locale, rese però molto difficile, in quel momento, lo spostamento di masse operaie.

Concrete indagini furono fatte presso tutte le grandi Società che eseguivano lavori in concessione da parte dello Stato e presso i privati proprietari per collocamento di lavo-ratori e di famiglie coloniche, ma i risultati, pur essendo stati soddisfacenti, non possono ritenersi considerevoli, giacché mentre è stato possibile di collocare alcune squadre, sia pure attraverso lunghe e laboriose trattative, molto maggiori difficoltà si sono incontrate per il collocamento di famiglie coloniche.

Né, forse, poteva essere diversamente: giacché mentre per l’impiego di masse operaie l’opera del Comitato poteva trovare aiuto nell’attività degli uffici dipendenti dal Mini-stero dei LL.PP., lo stesso non poteva dirsi per quanto riguarda le famiglie isolate, per le quali poteva svolgersi unicamente un’azione di propaganda e di persuasione verso i proprietari42.

L’impressione per questo primo anno di attività è che il Cpmi non se-guisse una definita linea programmatica né un piano d’azione determi-nato. L’attività statistica era iniziata già durante la fase di studio delle re-lazioni dei sottocomitati, mentre quella operativa dei trasferimenti ebbe luogo solo in un secondo tempo, dietro le sollecitazioni che provenivano da più parti d’Italia. Non si nota uno scarto decisivo tra questo livello di intervento e quello altamente sperimentale (e con dotazioni minori) che era stato condotto dall’ufficio agrario di Samoggia sotto l’ombrello della Società umanitaria, appena venti anni prima [Gallo 2012b]. Evidente-mente la forte pubblicità data dalla propaganda del regime all’esistenza del Comitato aveva acceso le speranze soprattutto in quelle località che erano più interessate a proposte del genere, per la forte presenza di di-soccupati o per una antica consuetudine con esperienze analoghe, come il Veneto o la Romagna. Il Cpmi rispose a richieste giunte da fuori, che a volte potevano anche accompagnarsi a tentativi diretti di realizzazione da parte delle autorità locali, come i trasferimenti in Sardegna di fami-glie polesane promossi dal prefetto di Rovigo43.

42 «Relazione sull’attività del Comitato per le migrazioni interne», 31 dicembre 1929, in Acs, Pcm 1928-1930, b. 1280, f. 8.1, n. 8974 [10915] (corsivo mio).43 Angiolo Cabrini, rapporto 26 ottobre 1927, in ABit, C, f. 34-1927a.

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I risultati, per stessa ammissione ministeriale, furono scarsi e lega-ti esclusivamente al settore della manodopera impiegata per le grandi opere pubbliche: ma anche su questo fronte, in mancanza di indicazioni normative precise, gli effetti non potevano essere soddisfacenti. Insom-ma l’azione del Comitato era, come ammettevano gli stessi funzionari, «per sua natura scarsamente dinamica»44. Le cose iniziarono a cambia-re, ma solo in parte, alla fine del 1928, quando vennero introdotte delle prime migliorie al funzionamento del Cpmi che lo portarono a dotarsi di strumenti più incisivi per la gestione delle migrazioni interne colo-niche. Il Comitato, organo di studio ancora legato alla tradizione tec-nocratica e riformista con forti riferimenti al periodo liberale, entrava così in un’altra fase, i cui sviluppi ne avrebbero determinato una totale trasformazione. Tra il 1928 e il 1929 il Cpmi funzionò come modesto ufficio di collocamento per qualche pugno di famiglie coloniche e ma-novali, da dirigere verso imprese finanziate con soldi pubblici. L’azione del Comitato in quel periodo si diresse dunque in due direzioni: di-mostrare la fattibilità e l’utilità di un servizio per le migrazioni interne; presentarsi come l’unico ente pubblico idoneo a gestire tali iniziative. Il salto di qualità avvenne all’inizio degli anni Trenta, a partire dal pas-saggio istituzionale dal Ministero dei lavori pubblici alla presidenza del Consiglio, deciso nel luglio del 1930. «Gli anni Trenta», ha scritto Carl Ipsen, «furono, per il regime fascista in generale e per la politica demografica in particolare, più un periodo di realizzazione – o di non realizzazione – che di organizzazione» [Ipsen, 1997, p. 125].

Con l’avvicinamento alle stanze del Duce, il Comitato cambiò nome e divenne il Commissariato per le migrazioni interne (Cmi); commissa-rio fu nominato Luigi Razza, responsabile dei sindacati dei lavoratori agricoli. Nel giro di poco tempo le funzioni del Cmi divennero più am-pie e precise, le sue possibilità di spesa notevolmente aumentate: il suo compito divenne quello di autorizzare e controllare gli spostamenti dei gruppi di lavoratori all’interno della penisola, in particolare nelle aree dove erano concentrati i grandi cantieri pubblici e sovvenzionati, e delle famiglie coloniche nelle terre bonificate. Il Cmi aveva la gestione diretta del lavoro creato dallo Stato, aspetto fondamentale ai fini del consenso: non a caso venne presentato come «il comando generale dell’esercito dei lavoratori» [Ivi, p. 142]. L’aumento della spesa per il lavori pubblici e la grande pubblicità data ai più importanti, in particolare alla bonifica dell’Agro pontino, impose uno speciale regime di polizia del lavoro per

44 «Relazione sull’attività del Comitato per le migrazioni interne», 31 dicembre 1929, in Acs, Pcm 1928-1930, b. 1280, f. 8.1, n. 8974 [10915].

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evitare l’affollarsi dei disoccupati nelle aree dove c’era lavoro. Inoltre era stato costruito un complesso sistema per il reclutamento dei operai, che metteva le autorità locali e gli organi territoriali di regime, partito e sindacato, nelle condizioni di poter esercitare pressioni per trovare lavoro alle persone che lo chiedevano. Nuovi uffici di collocamento ini-ziarono a funzionare proprio dal 1930, con una competenza contesa tra il Ministero delle Corporazioni, il Pnf e i sindacati45. Il Commissariato di Razza coordinava questo settore dell’attività statale: per un appro-fondimento sulla vita del Cmi, che assunse poi la denominazione di Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna, si rimanda altrove [Gallo, 2015].

Appare evidente, da quanto appena detto, un cambiamento cruciale nell’attività dell’ente preposto a gestire le migrazioni interne occasio-nali o coloniche: era scomparso qualsiasi riferimento nei confronti del Meridione. La pianificazione di un intervento straordinario nel Mezzo-giorno rappresentava il motivo per cui era stato creato il Cpmi; la storia successiva del Commissariato pare immemore di quell’atto di nascita e dell’articolata discussione che aveva preparato i primi passi del Co-mitato. «La tanto vantata impresa meridionalista», ha scritto a propo-sito Anna Treves, «sparì dalla scena, tacitamente, senza che neppure si levassero voci significative a notificarlo, a lamentarlo o anche solo a rilevarlo» [Treves, 1988a, p. 157].

La rinascita economica del Meridione non era tra gli obiettivi del fascismo e in effetti gli studi sul divario economico tra le regioni italiane sono concordi nell’affermare che proprio nel corso del Ventennio il di-stacco tra Nord e Sud registrò il suo aumento più vistoso [Felice, 2007]. La chiusura degli sbocchi migratori all’estero non venne compensata da interventi di rilancio agrario o industriale, né da una efficace politica di migrazioni interne: le promesse che avevano portato all’elaborazione del Cpmi non si realizzarono. Per le classi popolari meridionali (non solo, ma soprattutto per loro) non rimaneva altro che stringere la cin-ghia e continuare a cercare di sbarcare il lunario con un susseguirsi di «migrazioni randagie» [Scarzanella, 1977, p. 178].

Esattamente come fece Vincenzo Rabito per 13 anni. Alla fine del lungo periodo erratico attraverso la Sicilia orientale di cui abbiamo parlato in apertura di questo saggio, composto di tante esperienze pro-fessionali diverse, la conclusione che ne traeva non era certo positiva: «Io penzava che aveva 35 anne e non aveva neanche un soldo messo da

45 Musso, 2004; Gagliardi, 2010. Per alcune situazioni locali si veda Altamura, 2009; Parisini, 2011.

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parte […] e quinte penzava che la bellissima vita di ciovenotto sta per fenirese e non aveva conciuso niente» [Rabito, 2007, p. 185]. In assenza di un sistema previdenziale pubblico, non era conveniente ritrovarsi senza una riserva finanziaria per affrontare le stagioni della vita in cui la forza fisica giovanile sarebbe venuta progressivamente meno, e quindi minore sarebbe stato il rendimento lavorativo e maggiore la possibilità di ammalarsi: la mobilità rurale delle campagne italiane richiedeva una piena disponibilità agli impieghi di fatica e obbligava all’adattamento a vitto e alloggi di fortuna.

Fu l’inizio della fase bellica del fascismo a offrire un’opportunità re-ale a Rabito. Con la conquista dell’Etiopia, infatti, aumentò «l’utilizzo dei lavori pubblici in funzione antirecessiva […], se vogliamo consi-derare che parte delle cosiddette spese di colonizzazione […] furono destinate alla realizzazione di infrastrutture, soprattutto strade, nei ter-ritori appena conquistati» [Cecini, 2011, p. 347]. E fu proprio in Africa orientale che il bracciante ragusano riuscì, dopo mille peripezie e quasi tre anni di duro lavoro, a mettere da parte qualche soldo. Rabito fece ritorno a casa solo nel 1939. Vale la pena riportare la descrizione delle sensazioni provate nel tragitto tra Catania e Caltagirone:

Ho preso una carrozza, perché ora non era povero come tante volte che io aveva stato allavorare, che era sempre immienzo alla miseria, in tiempo che si lavorava solo per manciare […]. Così, mi senteva uno posedente, così cammenava con la carrozza. […] E così, nel libretto ci aveva 16.000 lire, che pareva io quase uno norde amirecano [Rabito, 2007, p. 219. Corsivo mio].

Il cerchio era chiuso, l’America ritrovata.

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