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MICHELE BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri
scrittori, da Dante a Manzoni, Firenze 1938 p. VIII Anche allora
grande incertezza d’idee e non felice applicazione di quelle che
s’avevano per migliori: c’era sì fra i giovani un grande interesse
e diciamo pure un grande entusiasmo, per questi studi [di
filologia], e maestri quali il Carducci, il Bartoli, il Monaci, il
Rajna, incoraggiavano il movimento con l’esempio e con buone
iniziative; era un correre di città in città e da biblioteca a
biblioteca, per dare alla luce scritti antichi con quello stesso
ardore con cui gli umanisti correvano a liberare i classici dagli
ergastoli dei barbari, e non mancò chi si spingesse fino in
Inghilterra per togliere dalla clausura degli ultimi Britanni il
fiorentissimo Sacchetti. Un Molteni e un Mazzatinti non erano di
meno dei più fervidi scopritori del Quattrocento. p. X Noi uscivamo
[dalla scuola del Rajna] con la giusta idea che ogni testo ha il
suo problema critico, ogni problema la sua soluzione e che quindi
le edizioni non si fanno su modello.
GIORGIO PASQUALI, Cattedre di Filologia Italiana, Romanza,
Medievale, in «Lo Spettatore Italiano» (settembre 1949) All’uscita
dall’Università uno scolaro sufficiente di latino e greco, purché
abbia avuto maestri non dico eminenti ma a modo, sa, anzi per
assuefazione sente che ha il dovere di interpretare ogni testo
antico parola per parola, studiandosi di rivivere il valore
stilistico di ogni locuzione, riesce anche di regola a leggere un
apparato critico e a rendersi conto, informandosi, qualora sia
necessario, nella prefazione critica, se la coincidenza di
determinati manoscritti in una determinata lezione garantisca la
scrittura dell’archetipo, sicchè ogni altra lezione non possa
essere se non o errore o congettura (recensio chiusa) o se e in che
limiti l’editore e il lettore abbiano diritto a scegliere tra le
varianti, regolandosi con i criteri del significato, dell’usus
scribendi, della lectio difficilior e pesando ciascuno di questi
contro tutti gli altri (recensio aperta); sa anche giudicare quanto
in un certo scritto valga una tradizione, se cioè e in che limiti
vi sia il diritto, cioè il dovere di congetturare. Diversamente un
laureato in lettere moderne non sa quasi mai rendersi ragione dei
particolari, non sa interpretare… L’italianista non si degna
nemmeno di chiedersi cosa sia un testo e come si costituisca…
L’insegnamento della filologia italiana nelle Università perlomeno
insegnerebbe agli scolari a non credere ai maestri ciecamente, ma
invece a discutere con loro liberamente, perché i filologi, sia
classici sia romanzi, non sono dogmatici e sono tolleranti:
filologo in Platone, quando la filologia non esisteva, significa
amator della discussione…
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3
FRANCESCO PASTONCHI, Il manoscritto originale della Divina
Commedia, in «Corriere della sera» del 27 novembre 1949 (terza
pagina) Chi avesse potuto, quel mattino, da una fessura, vedere nel
suo studio il professor Eusebio Calanzi, il più insigne studioso di
Dante e il più citato, le cui affermazioni facevano legge, l’uomo
che fin dalla giovinezza – se giovinezza fu la sua, trascorsa nel
chiuso della biblioteca – non si era concesso altri svaghi, altri
viaggi, altri entusiasmi, infine altro amore che non toccasse il
Divino poema, ricercandone e compulsandone le centinaia di codici
sparsi nel mondo per riuscire a darne una precisa classifica e
rintracciarne le ascendenze e le varie famiglie, e, pubblicato il
colossale volume di tutte le varianti comparate e discusse,
risalire così al più probabile testo originale, chi avesse potuto
osservarlo, presso un enorme cassone, donde traboccavano
confusamente antiche ingiallite carte, davanti alla tavola su cui
stava aperto un infolio, agitarsi, gesticolare, convulso e ora
chinarsi a voltare una pagina e un poco leggervi e quindi
rilevatosi alzar le braccia gettando sospiri e mettersi a
saltabeccare in giro allo studio con rotte esclamazioni, per
tornare all’infolio e di nuovo piegato su di esso sfogliarlo
affannosamente e mormorare: “non è possibile, non è possibile,
eppure sì, è certo…” e allora correre all’uscio e tentarlo ad
assicurarsi che fosse ben chiuso e ancora accostarsi alla tavola,
premersi tra le mani la testa canuta quasi in atto disperato e a un
tratto ergersi nella piccola persona e quasi ingrandire in aspetto
raggiante, ma subito poi ricadere prostrato: quegli non avrebbe
certo riconosciuto in lui così trasfigurato, l’ometto che s’era
soliti incontrare rasente muro, con sempre un libro sotto braccio,
la persona incurvata, la testa bassa, il passo schivante, come a
dissimularsi, estraneo a tutti, temente di venir trattenuto e
interrotto nelle sue elucubrazioni […] Insomma col procedere nella
consultazione Eusebio Calanzi vedeva profondarsi tutti i testi
architettati dagli studiosi e soprattutto il suo. La testa gli
ronzava, dovette smettere la lettura, confuso, annichilito. Stava
lì sospeso del come fare. Divulgare la scoperta distruggendo il suo
onore di studioso? Il sogghigno dei colleghi strisciò lungo gli
scaffali della biblioteca, danzò grottescamente sull’infolio della
Commedia e sulle sue povere sudate carte. Egli pensò, e con
insolita tenerezza, alla moglie e
soprattutto a quelle terribili figlie che questa volta non si
sarebbero divertite e non avrebbero riso. Rinascondere il
manoscitto lasciando che altri, lui morto, lo scoprissero? Ma dove
nasconderlo? E in qual modo sopportare un tanto seguito? E se
avesse dato la notizia della scoperta, accompagnandovi la
confessione del proprio fallimento, comune infine a quello di tanti
altri interpreti? Muoia Calanzi e tutti i filistei! Ritirarsi,
sparire dal mondo? Follia! Deliberò infine di soprassedere
differendo ogni decisione, e riprendere l’esame, esaurirlo,
preparare un’edizione definitiva. Gli parve di potersi acquietare
in questa promessa d’attesa fatta a se stesso. Illusione. Col
passare dei giorni crebbe l’angoscia e, tenendola in sé chiusa
tanto più lo rodeva. Dalle pareti dello studio i suoi libri lo
irridevano ironici. Le mura della casa lo opprimevano. Prese ad
errare per le strade senza meta, sempre più curvo, parlottando a
gran gesti. In famiglia si sforzava di parer calmo, ma, se non la
moglie, astratta, lo atterrivano le figliole nella loro sfidante
bellezza. Le notti insonni gli si riempivano d’incubi. Un mattino
tuttavia lo invase una strana allegrezza: balzò dal letto con passo
di danza. […] Lo costrinsero al letto, prima si ribellò, poi vi si
assopì vaneggiante. Si avvicinava l’inverno e già nelle alte stanze
di quel vecchio palazzo stagnava il freddo. Un giorno Eusebio
Calanzi levatosi d’impeto corse nell’attiguo studio e si mise a
vuotare gli scaffali e a scaraventare con rabbia i suoi cari libri
qua e là sul pavimento: vi finì anche il fatale manoscritto
scioltosi dalla custodia e sfasciato: un misero scartafaccio. La
moglie accorse a tanta rovina, invocò le figliole che l’aiutarono a
riportarlo in camera e metterlo a letto. Subitamente ammansito egli
vi si lasciò ricondurre piagnucolando come un bambino. Poi le
ragazze tornarono nello studio per riordinarlo alla meglio. “Qui si
gela. Se facessimo una fiammata…”, propose Lia. Ma la legna, già
preparata nel camino era umida e il fuoco stentava ad
appigliarvisi. “Ci vorrebbe un po’ di carta…”. “Prendiamo queste”,
disse Matelda, accennando allo scartafaccio. “Che cos’è?” –
“Aspetta che guardo…: un Dante! Uno dei tanti…” – “Maledetti! Sono
i maggiori colpevoli dello stato di papà” – “Allora dammi” – “È
vecchio e sdrucito, ma ha una carta spessa… brucierà bene”.
Cominciarono a strapparne i fogli e a gettarli via via nel camino,
alla fiamma
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4
TEOCRITO, Idilli, trad. a cura di M. Cavalli, Milano 1991.
I. Tirsi o la canzone
TIRSI Dolce, capraio, il mormorio del pino che canta alla
sorgente; è dolce il suono della tua zampogna. Avrai il secondo
premio, dopo Pan. Se a lui spetta il caprone, a te la capra; e se
la capra sarà premio a lui, a te poi la capretta. È buona la sua
carne, se ancora non è munta.
CAPRAIO Ma più dolce è il tuo canto, pastore, che non l’acqua
risonante che stilla dalla roccia. E se alle Muse spetterà la
pecora, tu avrai l’agnello cresciuto nel recinto; e se poi loro
vorranno l’agnellino, tu avrai la pecora.
TIRSI Vuoi, per le Ninfe, vuoi, capraio, sederti qui sul pendìo
fiorito di mirice e suonare la zampogna? Guarderò io le capre.
CAPRAIO Non si può, pastore, non si può suonare a mezzogiorno.
Io temo Pan: perché questa è l’ora in cui stanco della caccia si
riposa. È collerico, e l’aspra bile è sempre pronta per montargli
al naso. Ma tu, Tirsi, i dolori di Dafni sai cantare e nella musa
bucolica sei grande. Dunque sediamo sotto quest’olmo, davanti a
Prìapo e alle Ninfe delle fonti: ci son le querce e la panca dei
pastori. E se tu canti come quel giorno che hai fatto a gara con il
libico Cromi, io ti darò, da mungere tre volte, una capra, madre di
due capretti, che pure avendo i piccoli riempie di latte ben due
secchi. E una coppa di legno ti darò, odorosa di cera, nuova nuova
e profumata del cesello. Intorno al bordo l’edera si avvinghia,
screziata di elicriso; e a lei s’intreccia l’elice, superba del suo
frutto color di croco. Dentro, un’immagine di donna - forma divina
- ornata di peplo e di diadema; accanto a lei due uomini dai bei
riccioli fanno a gara per convincerla: ma i loro sforzi non toccano
il suo cuore. Lei li guarda - ora l’uno, ora l’altro - e ride: loro
hanno gli occhi gonfi di passione, ma è affanno inutile. C’è poi un
vecchio pescatore e una scabra roccia, sulla quale a fatica tira la
sua rete il vecchio, con enorme sforzo; pesca - lo vedi - con tutto
il suo vigore, e gli si gonfiano i muscoli del collo: bianchi i
suoi capelli, ma la sua forza è giovane. Più in là, accanto al
vecchio che il mare ha logorato, una vigna dai bei grappoli bruni:
la guarda un ragazzino, seduto sul muretto. Ma ecco due volpi; una
si aggira tra i filari e ruba i grappoli maturi; l’altra ha di mira
la sacca del ragazzo: «Io sono furba» dice, «gli faccio fuori il
pranzo, e me ne vado». Lui intreccia giunchi e gambi d’asfodelo, e
fa una rete per le cavallette: poco gli importa del pranzo e delle
viti, tanta è la gioia di quel che sta facendo. Tutto intorno alla
coppa si snoda il molle acanto. È uno
spettacolo - per noi pastori - questo prodigio che ti tocca il
cuore. Me l’ha venduta un barcaiolo di Calidne, al prezzo di una
capra e di un formaggio bianco. Le labbra ancora non mi ha mai
sfiorato: la serbo intatta. Con tutto il cuore te la donerò, se
vuoi intonare la canzone che io amo. Non ti prendo in giro. Avanti,
amico! Il tuo canto non tenerlo per l’Ade che tutto fa
scordare.
TIRSI Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Sono
Tirsi dell’Etna, e dolce è la mia voce. Dove eravate, Ninfe, dove,
mentre Dafni moriva? Forse nella bella valle del Penèo o sul Pindo?
Qui no, non eravate qui, né all’ampia corrente dell’Anàpo, né in
cima all’Etna, né all’onda sacra dell’Acis.
Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Lo piangeva il
lupo e lo sciacallo lo piangeva; Dafni moriva, e pianse nelle selve
anche il leone.
Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. E le mucche ai
suoi piedi, e i tori, e giovenche e vitelli lo piangevano.
Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Venne Ermes dai
monti e disse: «Dafni, chi ti consuma? Chi è che ami tanto?»
Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. E vennero i
mandriani e i pastori, e i caprai vennero. Tutti gli chiedono:
«Qual è il tuo dolore?» E venne Prìapo e disse: «Dafni infelice,
non tormentarti. Di fonte in fonte, di bosco in bosco corre la
fanciulla,
- intona, amata Musa, intona il canto del pastore – cercando te.
Ma tu sei timido e non sai proprio amare. Eri mandriano, e adesso
sembri semmai un capraio: che quando vede montare le sue capre, ha
le lacrime agli occhi per l’invidia di non essere caprone.
Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Così tu, quando
vedi giocare le fanciulle, hai gli occhi umidi, perché non danzi
insieme a loro». Ma Dafni non rispose, e il suo crudele amore, si
compì, si compì sino al termine fatale.
Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. E venne
Cipride; rideva, ma in segreto rideva, e in viso era molto adirata.
Disse: «Tu ti vantavi, Dafni, di piegare Eros: e non sei tu, ora,
dal terribile Eros piegato?»
Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Rispose
Dafni: «Cipride dura, Cipride odiosa, Cipride, nostra nemica! Credi
che il sole ormai per me sia tramontato? Anche nell’Ade, Dafni darà
tormento ad Eros!
Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Non dicono
forse che il mandriano ti ha... Vattene via, vai sull’Ida, da
Anchise; là ci sono le querce e il cìpero, e le api ronzano intorno
all’alveare:
Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Anche Adone è
bello, eppure
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guarda il gregge, cattura lepri e va a caccia di animali. Di
nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Vai da Diomede,
affrontalo, digli:
"Ho vinto Dafni, il bifolco; forza, combatti!".
Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Addio lupi,
sciacalli, e tu, orso, che vivi nelle grotte là sui monti, addio!
Il vostro Dafni mai più vedrà foreste né boscaglie, ormai - non
più. Addio, Aretùsa, addio bei fiumi che scorrete al Tibri.
Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Io sono
Dafni, quello che pascolava qui; Dafni, quello che abbeverava qui i
suoi tori.
Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Pan, dovunque
tu sia - sugli alti monti del Liceo, oppure sul gran Menalo - vieni
in Sicilia, lascia la rocca d’Elice e la scoscesa tomba dei
Licaònidi, che gli dei stessi ammirano.
Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. Vieni, signore,
prendi la mia zampogna legata con la cera, odorosa di miele, facile
al labbro: ormai, l’amore mi trascina all’Ade.
Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. Rovi, spineti,
fiorite di violette, e tu, narciso, risplendi sui ginepri; che
tutto sia al contrario: produca pere il pino - poi che Dafni muore
- e il cervo insegua il cane, e voi, gufi dei monti, sfidate
l’usignolo!»
Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. Dafni ha finito,
tace. Tenta Afrodite di sollevarlo: ma il filo delle Moire si è
spezzato e Dafni è già nel gorgo di Acheronte, lui che le Muse, lui
che le Ninfe amarono.
Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. E ora dammi la
coppa, dammi la capra: col latte munto liberò alle Muse. Salve,
mie Muse, salve mille volte: un canto ancor più dolce vi canterò
domani.
CAPRAIO Miele per la tua bocca, Tirsi, e i dolci fichi di Égilo:
tu canti meglio delle cicale! Prendi la coppa, amico; senti come
profuma: sembra lavata alla fonte delle Ore. Vieni, Cissèta, qui;
mungila pure, Tirsi. E voi caprette, basta con quei saltelli, che
non vi monti il capro.
ECLOGHE DI VIRGILIO SCHEMA
N. Cfr. Personaggi Contenuto I Melibeo, Titiro
Autobiografico
Encomiastico Dialogo
II Coridone
Erotico Monologo
III Th. IV Menalca, Dameta, Palemone
Gara di canto con giudice
Dialogo
IV Poeta
Encomiastico Monologo
V Th. I Menalca, Mopso Gara di canto Encomiastico (?)
Dialogo
VI Sileno
Didascalico Diegetica
VII Melibeo (Tirsi e Coridone)
Gara di canto Diegetica
VIII Th. II Damone, Alfesibeo
Erotico Dialogo
IX Licida, Meri
Autobiografico Dialogo
X Poeta (Gallo)
Erotico Diegetica
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VIRGILIO, Bucoliche, a cura di A. La Penna, trad. di L. Canali,
Milano 1978, Buc. I MELIBOEUS Tityre, tu patulae recubans sub
tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena; nos patriae
finis et dulcia linquimus arva. nos patriam fugimus; tu, Tityre,
lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas. 5
TITYRUS O Meliboee, deus nobis haec otia fecit. namque erit ille
mihi semper deus, illius aram saepe tener nostris ab ovilibus
imbuet agnus. ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum ludere
quae vellem calamo permisit agresti. 10 MELIBOEUS Non equidem
invideo, miror magis; undique totis usque adeo turbatur agris. en
ipse capellas protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco. hic
inter densas corylos modo namque gemellos, spem gregis, ah, silice
in nuda conixa reliquit. 15 saepe malum hoc nobis, si mens non
laeva fuisset, de caelo tactas memini praedicere quercus. sed tamen
iste deus qui sit da, Tityre, nobis. TITYRUS Urbem quam dicunt
Romam, Meliboee, putavi stultus ego huic nostrae similem, cui saepe
solemus 20 pastores ovium teneros depellere fetus. sic canibus
catulos similes, sic matribus haedos noram, sic parvis componere
magna solebam. verum haec tantum alias inter caput extulit urbes
quantum lenta solent inter viburna cupressi. 25
MELIBEO Titiro, riposando all’ombra d’un ampio faggio, studi su
un esile flauto una canzone silvestre; noi lasciamo le terre della
patria e i dolci campi, fuggiamo la patria: tu, o Titiro, placido
nell’ombra, fai risuonare le selve del nome della bella Amarilli.
TITIRO O Melibeo, un dio mi ha donato questa pace. Infatti lo
considererò sempre un dio, e spesso un tenero agnello dei nostri
ovili tingerà il suo altare. Egli, vedi, ha permesso alle mie
giovenche di errare, e a me di suonare sul flauto campestre le
predilette canzoni. MELIBEO Non t’invidio, certo, piuttosto mi
stupisco: dovunque nei campi è scompiglio. Ecco, io stesso affranto
mi spingo innanzi le capre; questa, o Titiro, la trascino a stento.
Lì tra i folti noccioli, poc’anzi, sgravata di una coppia di
capretti, speranza del gregge, li ha lasciati sulla nuda pietra. Ma
spesso questa sventura, se non fossimo stati stolti, ricordo ce la
predissero le querce colpite dal fulmine celeste. Tuttavia, o
Titiro, dimmi qual sia questo dio. TITIRO V’è una città che
chiamano Roma. Io stolto, o Melibeo, la credetti simile alla
nostra, dove noi pastori spesso usiamo avviare la tenera prole del
gregge: così conoscevo i cuccioli simili ai cani, i capretti alle
madri: così solevo paragonare il piccolo al grande. Ma questa città
sollevò tanto il capo tra le altre, quanto sogliono i cipressi tra
i molli viburni
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MELIBOEUS Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi? TITYRUS
Libertas, quae sera tamen respexit inertem, candidior postquam
tondenti barba cadebat, respexit tamen et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit. 30 namque - fatebor
enim - dum me Galatea tenebat, nec spes libertatis erat nec cura
peculi. quamvis multa meis exiret victima saeptis pinguis et
ingratae premeretur caseus urbi, non umquam gravis aere domum mihi
dextra redibat 35 MELIBOEUS Mirabar quid maesta deos, Amarylli,
vocares, cui pendere sua patereris in arbore poma. Tityrus hinc
aberat. ipsae te, Tityre, pinus, ipsi te fontes, ipsa haec arbusta
vocabant. TITYRUS Quid facerem? neque servitio me exire licebat 40
nec tam praesentis alibi cognoscere divos. hic illum vidi iuvenem,
Meliboee, quot annis bis senos cui nostra dies altaria fumant, hic
mihi responsum primus dedit ille petenti: “pascite ut ante boves,
pueri, submittite tauros”. 45 MELIBOEUS Fortunate senex, ergo tua
rura manebunt et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus
limosoque palus obducat pascua iunco. non insueta gravis temptabunt
pabula fetas nec mala vicini pecoris contagia laedent. 50 fortunate
senex, hic inter flumina nota et fontis sacros frigus captabis
opacum;
MELIBEO E quale grande ragione ti spinse a vedere Roma? TITIRO
La libertà, che benché tardi mi degnò d’uno sguardo, dopo che a me
inerte, nel radermi, la barba cadeva imbianchita: mi guardò
tuttavia e venne dopo lungo tempo, da quando mi tiene Amarilli, e
mi lasciò Galatea. Infatti, lo confesso, finché mi tenne Galatea,
non avevo speranza di libertà né cura del guadagno: sebbene dai
miei recinti uscissero molte vittime e premessi grasso formaggio
per l’avara città, non tornavo mai a casa con danaro che mi
gravasse la mano. MELIBEO E io mi stupivo, o Amarilli, perché
invocavi mesta Gli Dei e per chi lasciavi pendere all’albero i
frutti. Titiro era lontano da qui! Persino i pini, o Titiro,
persino le fonti e gli arbusti invocavano te. TITIRO Che fare? No
potevo uscire di servitù né trovare con la mente altrove Dei
abbastanza propizi. Là, o Melibeo, ho visto quel giovane per il
quale Annualmente fumano dodici volte i nostri altari. Là egli
prevenendomi mi diede il responso alla mia domanda: “Pascete come
prima i buoi; allevate i torelli”. MELIBEO Fortunato vecchio!
Dunque i campi resteranno tuoi, e grandi abbastanza per te, sebbene
nude pietre e palude invadano tutti i pascoli con fangosi giunchi.
Ma pascoli inconsueti non nuoceranno alle pecore gravide, non ti
arrecherà danno il contagio d’un armento vicino. Fortunato vecchio,
qui tra noti fiumi e sacre fonti godrai una frescura ombrosa;
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hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes Hyblaeis apibus
florem depasta salicti saepe levi somnum suadebit inire susurro 55
hinc alta sub rupe canet frondator ad auras, nec tamen interea
raucae, tua cura, palumbes nec gemere aeria cessabit turtur ab
ulmo. TITYRUS Ante leves ergo pascentur in aethere cervi et freta
destituent nudos in litore pisces, 60 ante pererratis amborum
finibus exsul aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim, quam
nostro illius labatur pectore vultus. MELIBOEUS At nos hinc alii
sitientis ibimus Afros, pars Scythiam et rapidum cretae veniemus
Oaxen 65 et penitus toto divisos orbe Britannos. en umquam patrios
longo post tempore finis pauperis et tuguri congestum caespite
culmen, post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas? impius
haec tam culta novalia miles habebit, 70 barbarus has segetes. en
quo discordia civis produxit miseros; his nos consevimus agros!
insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vites. ite meae, felix
quondam pecus, ite capellae. non ego vos posthac viridi proiectus
in antro 75 dumosa pendere procul de rupe videbo; carmina nulla
canam; non me pascente, capellae, florentem cytisum et salices
carpetis amaras. TITYRUS Hic tamen hanc mecum poteras requiescere
noctem fronde super viridi. sunt nobis mitia poma, 80 castaneae
molles et pressi copia lactis, et iam summa procul villarum culmina
fumant maioresque cadunt altis de montibus umbrae.
da un lato la siepe sul vicino confine di sempre, delibata dalle
api iblee nel fiore del salice, spesso con lieve sussurro ti
concilierà il sonno; dall’altro ai piedi di un’alta rupe canterà
all’aria il potatore; ma frattanto le roche colombe, tua cura, e la
tortora non cesseranno di gemere dall’alto dell’olmo. TITIRO Dunque
pascoleranno in cielo leggeri i cervi e le acque lasceranno in
secco sulla riva i pesci, e avendo errato a lungo l’uno nei
territori dell’altro, l’esule Parto berrà nell’Arari, il Germano
nel Tigri, prima che l’immagine di lui svanisca dal mio cuore.
MELIBEO Noi invece di qui andremo tra gli Africani assetati, parte
verremo alla Scizia e parte all’Oassi turbinoso d’argilla, e agli
estremi Britanni esclusi da tutto il mondo. Giammai fra lungo tempo
rivedendo la terra dei padri, e il tetto del povero tugurio elevato
con zolle d’erba – era il mio regno – potrò ammirare le spighe? Un
empio soldato possiederà maggesi così coltivati? Un barbaro queste
messi? Ecco dove la discordia ha trascinato gli sventurati
cittadini; per costoro seminavamo i campi. Innesta i peri, o
Melibeo, disponi in filari le viti. Andate, o mie capre, gregge un
tempo beato: d’ora in avanti non vi vedrò più, sdraiato in una
verde grotta, pendere su un’erta spinosa: non canterò più canzoni;
non sarò il pastore, o capre, quando brucherete il citiso in fiore
e gli amari salici. TITIRO Tuttavia stanotte potevi riposare qui
con me su un giaciglio di verdi frasche; abbiamo frutti maturi,
tenere castagne e latte rappreso in abbondanza. E già lontano
fumano i tetti dei casolari E più lunghe dall’alto dei monti
discendono le ombre.
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SERVII GRAMMATICI Qui feruntur in Vergilii Bucolica et Georgica
commentarii, recensuit G. Thilo, Hildesheim 1961 Bucolica, ut
ferunt, dicta sunt a custodibus boum, id est ajpo; tw``n boukovlwn:
praecipua enim sunt animalia apud rusticos boves, huius autem
carminis origo varia est. Nam alii dicunt eo tempore, quo Xerses,
Persarum rex, invasit Graeciam, cum omnes intra muros laterent nec
possent more solito Dianae sacra persolvi, pervenisse ad montes
Laconas rusticos et in eius honorem hymnos dixisse: unde natum
carmen bucolicum aetas posterior elimavit. Alii dicunt Orestem, cum
Dianae Facelitidis simulacrum raptus ex Scythia adveheret et ad
Siciliam esset tempestate delatus, completo anno Dianae festum
celebrasse hymnis, collectis nautis suis et aliquibus pastoribus
convocatis, et exinde permansisse apud rusticos consuetudinem. Alii
non Dianae, sed Apollini Nomio consecratum carmen hoc volunt, quo
tempore Admeti regis pavit armenta. Alii rusticis numinibus a
pastoribus dicatum hoc asserunt carmen, ut Pani, faunis, nymphis ac
satyris. Et hic est huius carminis titulus. Qualitas autem haec
est, scilicet humilis character. Tres enim sunt characteres,
humilis, medius, grandiloquus: quos omnes in hoc invenimus poeta.
Nam in Aeneide grandiloquum habet, et in georgicis medium, in
bucolicis umile pro qualitate negotiorum et personarum: nam
personae hic rusticae sunt, simplicitate gaudentes, a quibus nihil
altum debet requiri. […] Intentio poetae haec est, ut imitetur
Theocritum Syracusanum, meliorem Moscho et ceteris qui bucolica
scripserunt, - unde est “prima Syracosio dignata est ludere versu
nostra” – et aliquibus locis per allegoriam agat gratias Augusto
vel aliis nobilibus, quorum favore amissum agrum recepit. In qua re
tantum dissentit a Theocrito: ille enim ubique simplex est, hic
necessitate complusus aliquibus locis miscet figuras, quas perite
plerumque etiam ex Theocriti versibus facit, quos ab illo dictos
constat esse simpliciter. Hoc autem fit poetica urbanitate: sic
Iuvenalis “Actoris Aurunci spolium”; nam Vergilii versum de hasta
dictum figurate ad speculum transtulit.
[Trad. Corfiati] “Bucolica” – si dice – deriva dai guardiani dei
buoi, ossia dai boukovloi. Presso i contadini infatti i buoi sono
animali di particolare importanza, ma l’origine di questa poesia è
incerta. Alcuni infatti dicono che in quel tempo in cui Serse, re
dei Persiani, invase la Grecia, dal momento che tutti si
nascondevano all’interno delle mura delle città né potevano secondo
il costume usuale officiare i sacrifici alle dea Diana, i contadini
Spartani si recarono sui monti e recitarono inni in suo onore, e
l’età successeiva non fece che rifinire ad arte questa poesia nata
in questo modo. Altri dicono che Oreste, mentre stava trasportando,
dopo averlo sottratto dalla Scizia, il simulacro di Diana
Facelitide, fu sbattuto da una tempesta sulle coste delle Sicilia,
e alla fine dell’anno celebrò una festa per Diana con canti, dopo
aver riunito insieme i suoi marinai e alcuni pastori, e da allora è
rimasta presso i contadini questa consuetudine. Altri ancora non a
Diana, ma ad Apollo Nomio vogliono sia consacrato questo carme, nel
tempo in cui pascolò le greggi di re Ameto. Altri ritengono che
questa poesia fu dedicata dai pastori ai numi delle campagne, come
Pan, i fauni, le ninfe e i satiri. E questa è la denominazione di
questa poesia. La caratteristica poi è questa, ovvero uno stile
umile. Tre infatti sono gli stili: umile, medio e alto, e tutti
questi li troviamo in questo poeta. Infatti nell’Eneide fu alto, e
nelle Georgiche medio, nelle Bucoliche umile in base alla qualità
delle funzioni e dei protagonisti: infatti i protagonisti sono qui
contadini, che godono delle cose semplici, e dai quali non bisogna
aspettarsi niente di alto. Scopo del poeta è questo: di imitare
Teocrito Siracusano, meglio di Mosco e degli altri che scrissero
bucoliche, e perciò “prima Syracosio dignata est ludere versu
nostra” (Buc. VI 1) – e in alcuni luoghi servendosi di allegoria
ringraziare Augusto e altri nobili uomini, grazie al cui favore
recuperò i campi perduti. E in questo si discosta molto da
Teocrito: quello infatti è sempre semplice, schietto, lui spinto da
necessità inserisce in alcuni luoghi immagini, che con maestria per
lo più anche dai versi di Teocrito recupera, che è chiaro che da
quello sono detti in maniera schietta. Ma questo è fatto per una
forma di eleganza poetica: come in Giovenale III 100 “Actoris
Aurunci spolium”, dove utilizza il verso di Virgilio sull’asta
riferendolo in maniera figurata ad uno specchio.
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10
Et causa scribendorum bucolicorum haec est: cum post occisum
III. Iduum Maiarum die in senatum Caesarem Augustus eius filius
contra percussores patris et Antonium civilia bella movisset,
victoria potitus Cremonensium agros, qui contra eum senserant,
militibus suis dedit. Qui cum non sufficerent, etiam Mantuanorum
iussit distribui, non propter culpam, sed propter vicinitatem, unde
est “Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae”. Perdito ergo agro
Vergilius Romam venit et potentium favore meruit, ut agrum suum
solus reciperet. Ad quem accipiendum profectus, ab Arrio
centurione, qui eum tenebat, paene est interemptus, nisi se
praecipitasset in Mincium: unde est allegoricos “ipse aries etiam
nunc vellera siccat”. Postea ab Augusto missis tribus viris et ipsi
integer ager est redditus et Mantuanis pro parte. Hinc est, quod in
prima ecloga legimus eum recepisse agrum, postea eum querelantem
invenimus, ut “audieras, et fama fuit; sed carmina tantum nostra
valent Lycida, tela inter Martia, quantum Chaonias dicunt aquila
veniente columbas”. Nec numerus hic dubius est nec ordo librorum,
quippe cum incertum tamen est, quo ordine scriptae sint. Plerique
duas certas volunt ipsius testimonio, ultimam, ut “extremum hunc”
et primam ut in georgicis “Tityre, te patulae cecini sub tegmine
fagi”; alii primam illam volunt “prima Syracosio dignata est ludere
versu”. Sane sciendum, VII eclogas esse meras rusticas, quas
Theocritus X habet. Hic in tribus a bucolico carmine, sed cum
excusatione discessit, ut in genetliaco Salonini et in Sileni
theologia, vel ut ex insertis altioribus rebus posset placere, vel
quia tot varietates implere non poterat. […] ECLOGA PRIMA 1. Tityre
tu patulae r. sub t. fagi inducitur pastor quidam iacens sub arbore
securus et otiosus dare operam cantilenae, alter vero quomodo cum
gregibus ex suis pellitur finibus: qui cum Tityrum respexisse
iacentem, ita locutus est. Et hoc loco Tityri sub persona Vergilium
debemus accipere; non tamen ubique, sed tantum ubi exigit ratio.
Quod autem eum sub fago dicit iacere, allegoria est onestissima,
quasi sub arbore glandifera, quae fuit victus causa: antea enim
homines glandibus vescebantur, unde etiam fagus dicta est ajpo;
tou`` fagei``n. […]
E il motivo per cui scrisse bucolica è questo: quando dopo la
morte in senato di Cesare il 13 Maggio Augusto suo figlio contro
gli uccisori del padre e contro Antonio ebbe condotto la guerra
civile, guadagnata la vittoria diede ai suoi soldati i campi dei
Cremonesi, che avevano parteggiato contro di lui. Ma poiché questi
non erano sufficienti, ordinò che fossero distribuiti anche quelli
dei Mantovani, non perché responsabili di qualcosa, ma a causa
della vicinanza, e perciò “Mantua vae miserae nimium vicina
Cremonae” (Buc. IX 28). Virgilio dunque dopo aver perduto la
campagna se ne venne a Roma e si ingraziò il favore dei potenti, in
modo da recuperare da solo il suo campo. Partito per prenderne
possesso, da un centurione Arrio, che lo teneva, fu quasi ucciso,
se non si fosse buttato nel Mincio; e perciò “ipse aries etiam nunc
vellera siccat” (Buc. III 95). In seguito dopo che Augusto ebbe
mandato tre uomini e a lui fu restituito per intero il campo e ai
Mantovani una parte. Da ciò deriva ciò che leggiamo nella prima
ecloga, che lui recuperò il campo, e in seguito lo troviamo che si
lamenta, quando dice “audieras, et fama fuit; sed carmina tantum
nostra valent Lycida, tela inter Martia, quantum Chaonias dicunt
aquila veniente columbas” (Buc. IX 11). E non ci sono dubbi né sul
numero né sull’ordine dei carmi, benché tuttavia sia incerto in che
ordine siano state scritte. I più vogliono che due sono certe per
la testimonianza dell’autore, l’ultima, che fa “extremum hunc”
(Buc. X 1) e la prima, perché nelle Georgiche (IV 566) dice
“Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi”; alcuni vogliono che
la prima sia quella che comincia “prima Syracosio dignata est
ludere versu” (VI). Certo bisogna sapere che sette ecloghe sono
propriamente rurali, mentre Teocrito ne ha dieci. Questo in tre si
discosta dal carme bucolico, ma con una ragione, come nel
genetliaco di Salonino e nella teologia di Sileno, sia perché
potesse creare diletto inserendo argomenti più alti, sia perché non
poteva altrimenti soddisfare la varietas. ECLOGA PRIMA v. 1. Tityre
tu patulae… introduce un pastore che sta seduto al riparo sotto un
albero e in ozio è impegnato in un canto, un altro poi che in
qualche modo con il suo gregge viene cacciato dalle sue terre, il
quale dopo aver visto Titiro che se ne sta seduto, gli parla in
questo modo. E in questo luogo sotto le vesti di Titiro dobbiamo
vedere Virgilio, non tuttavia sempre, ma soltanto lì dove ve ne è
ragione. Il fatto poi che dice di stare seduto sotto un faggio, è
una bellissima allegoria, perché vuol quasi dire che si trova sotto
un albero che produce ghiande, e questo in ragione degli alimenti;
in passato infatti gli uomini si nutrivano di ghiande, e perciò
anche il faggio è detto da fagei``n.
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11
5. Resonare doces Amaryllida s. id est carmen tuum de amica
Amaryllide compositum doces silvas sonare. Et melius est, ut
simpliciter intellegamus: male enim quidam allegoriam volunt, tu
carmen de urbe Roma componis celebrandum omnibus gentibus. Plus
enim stupet Meliboeus, si ille ita securus est, ut tantum de suis
amoribus cantet.
5. Resonare doces Amaryllida s. cioè “insegni alle selve a
risuonare il tuo carme composto sull’amante Amarillide”. E sarebbe
meglio, per interpretare in maniera semplice: infatti alcuni fanno
male a volere l’allegoria. “Tu componi un carme sulla città di Roma
da far recitare a tutti i popoli”. Più si sarebbe stupito Melibeo
infatti, se quello fosse stato così tranquillo, da cantare soltanto
dei suoi amori.
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12
VIRGILIO, Bucoliche, a cura di A. La Penna, trad. di Luca
Canali, Rizzoli, Milano 1978, Buc. X Extremum hunc, Arethusa, mihi
concede laborem: pauca meo Gallo, sed quae legat ipsa Lycoris,
carmina sunt dicenda: neget quis carmina Gallo? Sic tibi, cum
fluctus subterlabere Sicanos, Doris amara suam non intermisceat
undam; 5 incipe; sollicitos Galli dicamus amores, dum tenera
attondent simae uirgulta capellae. Non canimus surdis: respondent
omnia siluae. Quae nemora aut qui uos saltus habuere, puellae
Naides, indigno cum Gallus amore peribat? 10 Nam neque Parnasi
uobis iuga, nam neque Pindi ulla moram fecere, neque Aonie
Aganippe. Illum etiam lauri, etiam fleuere myricae; pinifer illum
etiam sola sub rupe iacentem Maenalus et gelidi fleuerunt saxa
Lycaei. 15 Stant et oues circum (nostri nec paenitet illas, nec te
paeniteat pecoris, diuine poeta: et formosus ouis ad flumina pauit
Adonis); uenit et upilio; tardi uenere subulci; uuidus hiberna
uenit de glande Menalcas. 20 Omnes "Vnde amor iste" rogant "tibi?"
Venit Apollo: "Galle, quid insanis?" inquit; "tua cura Lycoris
perque niues alium perque horrida castra secuta est." Venit et
agresti capitis Siluanus honore, florentis ferulas et grandia lilia
quassans. 25 Pan deus Arcadiae uenit, quem uidimus ipsi sanguineis
ebuli bacis minioque rubentem: "Ecquis erit modus?" inquit "Amor
non talia curat, nec lacrimis crudelis Amor nec gramina riuis nec
cytiso saturantur apes nec fronde capellae." 30 Tristis at ille:
"Tamen cantabitis, Arcades, inquit,
Permettimi, Aretusa, quest’ultima fatica; m’urge di dire pochi
versi per il mio Gallo, ma li legga Licori stessa; chi negherebbe
versi a Gallo? Così quando scorrerai sotto i flutti di Sicilia,
possa la salmastra Dori non mischiare le tue acque alle sue.
Incomincia: canteremo gli ansiosi amori di Gallo mentre le capre
camuse brucano i teneri virgulti. Non cantiamo per sordi: le selve
riecheggiano tutto. Quali boschi o balze vi tenevano fanciulle
Naiadi, mentre Gallo moriva per eccesso d’amore? Infatti non vi
fecero indugio i gioghi del Parnaso e neanche quelli del Pindo, né
l’aonia Aganippe. Lo piansero perfino gli allori, perfino le
tamerici, lo piansero il Menalo folto di pini e le rupi del gelido
Liceo, mentre giaceva ai piedi d’una roccia solitaria. Gli erano
intorno le pecore (esse non sdegnano noi, e tu non sdegnare il
gregge, o divino poeta: anche il bellissimo Adone pasce le pecore
al fiume); e venne il pecoraio, vennero i lenti porcai, venne
Menalca bagnato dal cogliere ghiande d’inverno; e tutti: «Di dove
un simile amore ti venne?», chiedono. E venne Apollo: «O Gallo,
perché ti stravolgi? Licori, il tuo amore, ha seguito un altro fra
le navi e gli orridi accampamenti». E venne Silvano ornato il capo
di fiori campestri, scuotendo canne fiorite e grandi gigli. Venne
anche Pan, dio dell’Arcadia, che vedemmo rosseggiante di sanguigne
bacche di sambuco e di minio. «Quale sarà la misura?» disse «Amore
non cura simili cose. Amore crudele non si sazia di lagrime, né
l’erba di rivi, le api del citiso, le capre di fronde». Ma egli
angosciato diceva: «Almeno voi, o Arcadi, canterete il mio dolore
alle vostre montagne,
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13
montibus haec uestris, soli cantare periti Arcades. O mihi tum
quam molliter ossa quiescant, uestra meos olim si fistula dicat
amores! Atque utinam ex uobis unus uestrisque fuissem 35 aut custos
gregis aut maturae uinitor uuae! Certe siue mihi Phyllis siue esset
Amyntas, seu quicumque furor (quid tum, si fuscus Amyntas? et
nigrae uiolae sunt et uaccinia nigra), mecum inter salices lenta
sub uite iaceret: 40 serta mihi Phyllis legeret, cantaret Amyntas.
"Hic gelidi fontes, hic mollia prata, Lycori; hic nemus; hic ipso
tecum consumerer aeuo. Nunc insanus amor duri me Martis in armis
tela inter media atque aduersos detinet hostis. 45 Tu procul a
patria (nec sit mihi credere tantum) Alpinas, a, dura, niues et
frigora Rheni me sine sola uides. A, te ne frigora laedant! a, tibi
ne teneras glacies secet aspera plantas! Ibo et Chalcidico quae
sunt mihi condita uersu 50 carmina pastoris Siculi modulabor auena.
Certum est in siluis inter spelaea ferarum malle pati tenerisque
meos incidere Amores arboribus: crescent illae, crescetis, Amores.
Interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis, 55 aut acris uenabor
apros; non me ulla uetabunt frigora Parthenios canibus circumdare
saltus. Iam mihi per rupes uideor lucosque sonantis ire; libet
Partho torquere Cydonia cornu spicula; tamquam haec sit nostri
medicina furoris, 60 aut deus ille malis hominum mitescere discat!
Iam neque Hamadryades rursus nec carmina nobis ipsa placent; ipsae
rursus concedite, siluae. Non illum nostri possunt mutare labores,
nec si frigoribus mediis Hebrumque bibamus, 65 Sithoniasque niues
hiemis subeamus aquosae, nec si, cum moriens alta liber aret in
ulmo, Aethiopum uersemus ouis sub sidere Cancri. voi soli esperti
nel canto. Con quanta dolcezza mi riposerebbero le ossa se le
vostre siringhe un giorno canteranno i miei amori. Oh fossi stato
uno di voi, un guardiano
del vostro gregge, un vendemmiatore d’uva matura! Certo se
avessi una passione per Filli o per Aminta, o per chiunque altro
(che importa se Aminta è bruno? Anche le viole sono scure e foschi
i giacinti) giacerebbero con me tra i salici all’ombra d’una vite
flessuosa, Filli coglierebbe serti per me, Aminta canterebbe. Qui
fresche sorgenti e molli prati, o Licori, e il bosco; qui mi
consumerei con te nel trascorrere del tempo. Ora un amore
dissennato ti trattiene fra le armi del duro Marte, fra i dardi, di
fronte al nemico: tu lontana dalla patria (ah potessi non
crederlo!), sola, senza di me, vedi le nevi delle Alpi e i ghiacci
del Reno. Ah che il gelo non ti offenda, e tagliente qual è non
ferisca le tue tenere piante! Andrò, e quei canti che ho composto
in verso calcidico li voglio modulare sul flauto del siciliano
pastore. E’ certo: meglio soffrire nelle selve, fra le spelonche
delle fiere, e incidere i miei amori nella tenera corteccia degli
alberi. Questi cresceranno, e anche voi amori crescerete. Frattanto
misto alle Ninfe errerò per il Menalo, e caccerò i feroci
cinghiali; i freddi non mi impediranno di circondare di cani le
erte balze del Partenio. Già mi sembra di andare fra le rupi e i
boschi sonanti, e godo nello scagliare frecce cidonie con l’arco di
Partia. Come se questo medicasse la nostra follia, o quel Dio si
lasciasse addolcire dalle sventure degli uomini! Già non mi
allietano più le Amadriadi, e neanche le stesse canzoni; del resto
allontanatevi anche voi, o boschi. I nostri affanni non potranno
mutare il Dio, neanche se nel colmo del freddo bevessi le acque
dell’Ebro o affrontassi le nevi e le piogge dell’inverno sitonio, o
quando morendo si secca la corteccia sugli alti olmi pascolassi le
pecore degli Etiopi sotto la costellazione del Cancro.
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Omnia uincit Amor: et nos cedamus Amori." Haec sat erit, diuae,
uestrum cecinisse poetam, 70 dum sedet et gracili fiscellam texit
hibisco, Pierides: uos haec facietis maxima Gallo, Gallo, cuius
amor tantum mihi crescit in horas, quantum uere nouo uiridis se
subicit alnus. Surgamus: solet esse grauis cantantibus umbra, 75
iuniperi grauis umbra; nocent et frugibus umbrae. Ite domum
saturae, uenit Hesperus, ite, capellae.
Tutto vince l’Amore, e noi cediamo all’Amore». O Dee Pieridi vi
basti che il vostro poeta mentre siede e intreccia un cestello di
gracile ibisco abbia cantato questo, che voi renderete bellissimo
per Gallo, l’amore del quale tanto mi cresce nel tempo, quanto al
rinnovarsi della primavera s’innalza il verde ontano. Alziamoci.
L’ombra di solito nuoce a coloro che cantano, nociva è l’ombra del
ginepro. L’ombra nuoce alle messi. Tornate sazie alle stalle,
capre, Espero sorge.
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CALPURNIO SICULO, Ecloga III (da Ecloghe, a cura di M. A.
Vinchesi, Milano 2002) IOLLAS Numquid in hac, Lycida, vidisti forte
iuvencam valle meam? solet ista tuis occurrere tauris, et iam paene
duas, dum quaeritur, eximit horas; nec tamen apparet, duris ego
perdita ruscis iam dudum nullis dubitavi crura rubetis 5 scindere,
nec quicquam post tantum sanguinis egi. LYCIDAS Non satis attendi:
nec enim vacat. uror, Iolla, uror, et inmodice: Lycidan ingrata
reliquit Phyllis amatque novum post tot mea munera Mopsum. IOLLAS
Mobilior ventis o femina! sic tua Phyllis: 10 quae sibi, nam
memini, si quando solus abesses, mella etiam sine te iurabat amara
videri. LYCIDAS Altius ista querar, si forte vacabis, Iolla. has
pete nunc salices et laevas flecte sub ulmos. nam cum prata calent,
illic requiescere noster 15 taurus amat gelidaque iacet spatiosus
in umbra et matutinas revocat palearibus herbas. IOLLAS Non
equidem, Lycida, quamvis contemptus abibo. Tityre, quas dixit,
salices pete solus et illinc, si tamen invenies, deprensam verbere
multo 20 huc age; sed fractum referas hastile memento.
IOLLA Non hai per caso visto in questa vallata la mia giovenca,
o Licida? Ha l’abitudine costei di farsi incontro ai tuoi tori, e
già mi ha fatto perdere quasi due ore a cercarla, ma di lei non si
scorge traccia. Quanto a me, già da un pezzo mi sono rovinato le
gambe fra i duri pungitopo lacerandomele, senza alcun riguardo, ad
ogni rovo; ma dopo tanto sangue versato non sono venuto a capo di
niente. LICIDA Non vi ho affatto badato, non ho tempo per questo.
Un fuoco, un fuoco smisurato mi divora, Iolla! Fillide, l’ingrata,
ha lasciato Licida ed ama, dopo tanti doni che le ho fatto, un
nuovo innamorato, Mopso. IOLLA O donna, più mutevole del vento!
Così dunque la tua Fillide, lei che, lo ricordo bene, ogni volta
che tu partivi da solo giurava che senza di te anche il miele le
pareva amaro. LICIDA Mi sfogherò più a fondo, Iolla, se un giorno
avrai tempo di ascoltarmi. Ora piuttosto va’ verso questi salici e
piega a sinistra, sotto gli olmi. Quando i prati sono caldi è là
che il mio toro preferisce riposare; se ne sta disteso, vasto
com’è, sotto l’ombra fresca e rumina nella giogaia l’erba del
mattino. IOLLA No certo, non me ne andrò, Licida, anche se tu non
mi tieni in alcun conto. Va’ tu, Titiro, da solo, verso i salici
che lui ha detto e, se la troverai, portala via di là a suon di
nerbate e conducila qui; e ricordati, voglio che mi riporti il
bastone rotto.
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nunc age dic, Lycida, quae vos tam magna tulere iurgia? quis
vestro deus intervenit amori? LYCIDAS Phyllide contentus sola (tu
testis, Iolla) Callirhoen sprevi, quamvis cum dote rogaret: 25 en
sibi cum Mopso calamos intexere cera incipit et puero comitata sub
ilice cantat. haec ego cum vidi, fateor, sic intimus arsi, ut nihil
ulterius tulerim. nam protinus ambas diduxi tunicas et pectora nuda
cecidi. 30 Alcippen irata petit dixitque: ‘relicto, improbe, te,
Lycida, Mopsum tua Phyllis amabit’. nunc penes Alcippen manet ac ne
forte negetur, a! vereor; nec tam nobis ego Phyllida reddi exopto
quam cum Mopso iurgetur anhelo. 35 IOLLAS A te coeperunt tua
iurgia; tu prior illi victas tende manus; decet indulgere puellae,
vel cum prima nocet. si quid mandare iuvabit, sedulus iratae
contingam nuntius aures. LYCIDAS Iam dudum meditor, quo Phyllida
carmine placem. 40 forsitan audito poterit mitescere cantu; et
solet illa meas ad sidera ferre Camenas. IOLLAS Dic age; nam cerasi
tua cortice verba notabo et decisa feram rutilanti carmina
libro.
Ed ora su, Licida, dimmi, che litigio cosi grave vi ha travolto?
Quale dio si è interposto nel vostro amore? LICIDA Pago della sola
Fillide - tu ne sei testimone, Iolla -, respinsi Calliroe, benché
mi richiedesse con una dote. Ed ecco che assieme a Mopso quella si
mette a unire le canne con la cera e in compagnia del ragazzo canta
sotto il leccio. Quando io vidi ciò, tanto profondamente ne
bruciai, lo confesso, da non tollerare più oltre. Immediatamente,
feci a pezzi le sue due tuniche e le percossi il petto nudo. In
preda all’ira lei se ne è andata da Alcippe, dicendo: «Malvagio
Licida, la tua Fillide ti lascia e amerà Mopso». Ed ora se ne sta
da Alcippe e temo, ahimè, che forse otterrò un rifiuto. Ma non
tanto desidero che mi sia resa Fillide, quanto che lei venga a
litigio con quel Mopso tutto ansante d’ amore. IOLLA Da te è
partito il litigio, sii tu il primo a protenderle le mani vinte. E’
bello mostrare indulgenza nei confronti di una ragazza, anche
quando è lei la prima a fare un torto. Se ti farà piacere affidarmi
qualche incarico, raggiungerò, zelante messaggero, le orecchie
della fanciulla adirata. LICIDA E’ da un pezzo che vado provando
una canzone con cui rabbonire Fillide. Forse sentendo la musica
potrà raddolcirsi: è solita portare alle stelle la mia Musa. IOLLA
Suvvia, canta; annoterò le tue parole sulla scorza del ciliegio e
dopo averla ritagliata porterò a lei la tua canzone su quel libro
rosseggiante.
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LYCIDAS ‘Has tibi, Phylli, preces iam pallidus, hos tibi cantus
45 dat Lycidas, quos nocte miser modulatur acerba, dum flet et
excluso disperdit lumina somno. non sic destricta macrescit turdus
oliva, non lepus, extremas legulus cum sustulit uvas, ut Lycidas
domina sine Phyllide tabidus erro. 50 te sine, vae misero, mihi
lilia nigra videntur nec sapiunt fontes et acescunt vina bibenti.
at si tu venias, et candida lilia fient et sapient fontes et dulcia
vina bibentur. ille ego sum Lycidas, quo te cantante solebas 55
dicere felicem, cui dulcia saepe dedisti oscula nec medios
dubitasti rumpere cantus atque inter calamos errantia labra
petisti. a dolor! et post haec placuit tibi torrida Mopsi vox et
carmen iners et acerbae stridor avenae? 60 quem sequeris? quem,
Phylli, fugis? formosior illo dicor, et hoc ipsum mihi tu iurare
solebas. sum quoque divitior: certaverit ille tot haedos pascere
quot nostri numerantur vespere tauri. quid tibi, quae nosti,
referam? scis, optima Phylli, 65 quam numerosa meis siccetur bucula
mulctris et quam multa suos suspendat ad ubera natos. sed mihi nec
gracili sine te fiscella salicto texitur et nullo tremuere coagula
lacte. qui sibi tunc felix, tunc fortunatus habetur, vilia cum
subigit manualibus hordea saxis. 85
LICIDA «Questa preghiera, o Fillide, questa canzone a te la
offre, ormai pallido, Licida; la suona, infelice, nel corso aspro
della notte, mentre piange e rovina, insonne, i suoi occhi. Non
così si strugge il tordo quando l’oliva viene spiccata dal ramo,
non la lepre dopo che il raccoglitore ha portato via le ultime uve,
come consunto vado errando, io, Licida, senza Fillide, signora del
mio cuore. Senza di te, ohimè misero, i gigli mi paiono neri, le
sorgenti non hanno più sapore, e il vino, quando lo bevo, si fa
aceto. Ma se tu ritorni, candidi diverranno i gigli, e le sorgenti
ritroveranno il sapore e il vino sarà dolce a bersi. Io sono quel
Licida, le cui canzoni, eri solita dirlo, ti rendevano felice, quel
Licida a cui spesso hai dato dolci baci e che non esitavi a
interrompere nel mezzo del canto e a cercarne le labbra, erranti di
canna in canna. Oh dolore! E dopo ciò ti è potuta piacere la voce
secca di Mopso, il suo canto senza nerbo e gli stridii di un flauto
acerbo? Che uomo vai seguendo? Che uomo fuggi, Fillide? Si dice che
io sono più bello di lui e questo tu stessa me lo hai giurato molte
volte. Sono anche più ricco: scenda a gara con me, provi a
pascolare tanti capretti quanti sono i tori che conto la sera. Che
dirti che già non conosci? Tu sai, adorabile Fillide, quante sono
le vacche che vengono munte per i miei secchi e quante quelle che
tengono i loro piccoli appesi alle poppe. Ma senza di te non
intreccio più cesti con il salice sottile e non più tremola il
latte cagliato. Ché se tu temi ancora, Fillide, le mie brutali
percosse, ecco ti porgo le mie mani: ti consento, sì ti consento di
legarle dietro la schiena con ritorto vimine o con la flessuosa
vitalba, così come Titiro legò una notte le mani malfattrici di
Mopso e appese il ladro in mezzo all’ovile. Eccole, non esitare:
l’una e l’altra mano hanno meritato la punizione. Eppure con queste
mani, con queste medesime mani più volte nel tuo grembo ho deposto
colombe, più volte anche un leprotto spaurito, sottratto con
l’inganno alla madre; da me tu hai avuto, all’inizio della
stagione, gigli e rose, e non appena l’ape cominciava a suggere i
fiori; tu eri cinta di ghirlande. Ma forse con te vanta regali
d’oro quel bugiardo, che dicono raccolga, sul finir della notte, i
lupini amari come la morte e sostituisca il pane con legumi cotti:
lui che si ritiene felice, che si ritiene fortunato quando mette
sotto la mola a mano del vile orzo.
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quod si turpis amor precibus, quod abominor, istis obstiterit,
laqueum miseri nectemus ab illa ilice, quae nostros primum violavit
amores. hi tamen ante mala figentur in arbore versus: "credere,
pastores, levibus nolite puellis; 90 Phyllida Mopsus habet, Lycidan
habet ultima rerum"‘.- Nunc age, si quicquam miseris succurris,
Iolla, perfer et exora modulato Phyllida cantu. ipse procul stabo
vel acuta carice tectus 95 vel propius latitans vicina saepe sub
horti. IOLLAS Ibimus: et veniet, nisi me praesagia fallunt. nam
bonus a dextro fecit mihi Tityrus omen, qui venit inventa non
irritus ecce iuvenca.
Ma se un amore indegno si opporrà - dio non voglia - a queste
mie preghiere, legherò, sventurato, la corda a quel leccio che per
primo ha violato il nostro amore. E tuttavia prima sulla pianta
maledetta saranno incisi questi versi: "Non fidatevi, pastori,
delle fanciulle incostanti. Mopso possiede Fillide, Licida lo
possiede la fine di tutto"». Orsù dunque, Iolla, se vuoi procurare
un qualche soccorso agli sventurati, porta questa canzone a Fillide
e supplicala con melodioso canto. Io me ne starò discosto al riparo
del carice tagliente o, nascosto da presso, sotto la siepe del
giardino vicino. IOLLA Andrò, e verrà, se non mi ingannano i
presagi: ché Titiro, venendo da destra mi fornisce un auspicio
favorevole; eccolo che torna, compiuta la missione, con la giovenca
ritrovata.
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DANTE ALIGHIERI, Le egloghe, testo, traduzione e note a cura di
Giorgio Brugnoli e Riccardo Scarcia, Ricciardi, Milano-Napoli 1980
DANTES ALAGHERII JOHANNI DE VIRGILIO Vidimus in nigris albo
patiente lituris Pyerio demulsa sinu modulamina nobis. Forte
recensentes pastas de more capellas tunc ego sub quercu meus et
Melibeus eramus. Ille quidem, cupiebat enim consciscere cantum,
«Tityre, quid Mopsus? quid vult? edissere» dixit. Ridebam, Mopse;
magis et magis ille premebat. Victus amore sui, posito vix denique
risu, «Stulte, quid insanis?» inquam: «tua cura capelle te potius
poscunt, quanquam mala cenula turbet. Pascua sunt ignota tibi que
Menalus alto vertice declivi celator solis inumbrat, herbarum vario
florumque inpicta colore. Circuit hec humilis et tectus fronde
saligna perpetuis undis a summo margine ripas rorans alveolus, qui,
quas mons desuper edit, sponte viam, qua mitis eat, se fecit
aquarum. Mopsus in his, dum lenta boves per gramina ludunt,
contemplatur ovans hominum superumque labores: inde per inflatos
calamos interna recludit gaudia sic ut dulce melos armenta
sequantur, placatique ruant campis de monte leones, et refluant
unde, frondes et Menala nutent». «Tityre, » tunc «si Mopsus» ait «
decantat in herbis ignotis, ignota tamen sua carmina possum, te
monstrante, meis vagulis prodiscere capris». Hic ego quid poteram,
cum sic instaret anhelus? «Montibus Aoniis Mopsus, Melibee, quot
annis, dum satagunt alii causarum iura doceri, se dedit at sacri
nemoris perpalluit umbra. Vatificis prolutus aquis, et lacte canoro
viscera plena ferens et plenus ad usque palatum,
DANTE ALIGHIERI A GIOVANNI DEL VIRGILIO Vedemmo nei neri solchi
che il candido campo sopporta musica soave stillata per noi dal
seno delle Pieridi. Chiamando le capre pasciute pur come d’uso alla
conta, io e il mio Melibeo ci accoglievamo allora sotto una
quercia. Ed egli, che ardeva meco conoscere questo canto «Titiro,»
disse «che vuole Mopso? Che dunque? Racconta». Io ne ridevo, o
Mopso; ma quello più e più incalzava. Mi vinse l’affetto di lui e
cessato alfine il sorriso, «Sciocco, che t’arrovelli?» gli dissi
«le capre a te affidate pretendon la tua cura, benché il magro
pasto or ne turbi. I pascoli ti sono ignoti che il Menalo con
l’alta sua cima copre d’ombre allor che li cela al sole cadente,
trapunti del vario colore dell’erbe e dei fiori. Ad essi scorre
d’attorno, cupo e coperto di fronde di salcio, con onde perpetue
facendo dall’orlo ricolmo molli le rive, un picciol canale, che
alveo si rese da sé di quante acque il monte sgorga di sopra, così
che tranquillo ne scenda. Ivi, Mopso, nel mentre posano i buoi
ruminando nel prato, lieto contempla gli affanni degli uomini e dei
sovrani: quindi soffiando sulla siringa schiude l’interna
esultanza, sì che all’armonico umore tengano dietro gli armenti e
mansueti irrompano pei campi dal monte i leoni, e rifluiscano
addietro le onde e crollino la cima le fronde del Menalo».
«Titiro», allora ei mi disse «se Mopso riecheggia il suo canto tra
ignote verzure, pur ignoti potrei tali versi, se me ne additi i
sensi, far udire alle erranti mie capre». Che far potevo, quando sì
ansioso mi domandava ? «Mopso ai monti Aonii, o Melibeo, tanti
anni, quanti altri assai si consumano per la dottrina del foro e
del giure, tutto si diè e pallido si fece all’ombra del sacro
bosco. Intinto dell’acque onde soli si fanno i poeti e recando le
viscere piene del latte dolcissimo e pieno finanche la gola,
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me vocat ad frondes versa Peneyde cretas». «Quid facies?»
Melibeus ait: «tu tempora lauro semper inornata per pascua pastor
habebis ? » «O Melibee, decus vatum, quoque nomen in auras fluxit,
et insomnem vix Mopsum Musa peregit», retuleram, cum sic dedit
indignatio vocem: «Quantos balatus colles et prata sonabunt, si
viridante coma fidibus peana ciebo! Sed timeam saltus et rura
ignara deorum. Nonne triumphales melius pexare capillos et patrio,
redeam si quando, abscondere canos fronde sub inserta solitum
flavescere Sarno?» Ille: «Quis hoc dubitet? propter quod respice
tempus Tityre, quam velox; nam iam senuere capelle quas concepturis
dedimus nos matribus hircos». Tunc ego: «Cum mundi circumflua
corpora cantu astricoleque meo, velut infera regna, patebunt,
devincire caput hedera lauroque iuvabit: concedat Mopsus». «Mopsus»
tunc ille «quid?» inquit. «Comica nonne vides ipsum reprehendere
verba, tum quia femineo resonant ut trita labello, tum quia
Castalias pudet acceptare sorores?» ipse ego respondi, versus
iterumque relegi, Mopse, tuos. Tunc ille humeros contraxit et «Ergo
quid faciemus» ait «Mopsum revocare volentes?» «Est mecum quam
noscis ovis gratissima» dixi «ubera vix que ferre potest, tam
lactis abundans; rupe sub ingenti carptas modo ruminat herbas;
nulli iuncta gregi nullis assuetaque caulis, sponte venire solet,
nunquam vi, poscere mulctram. Hanc ego prestolor manibus mulgere
paratis, hac inplebo decem missurus vascula Mopso. Tu tamen
interdum capros meditere petelcos et duris crustis discas infigere
dentes». Talia sub quercu Melibeus et ipse canebam, parva
tabernacla nobis dum farra coquebant.
m’invita alle fronde che nacquero dalla conversa Peneide». «E
che farai?» Melibeo mi disse: «tu sempre pastore trarrai tra i
paschi le tempie non orne di lauro?». «O Melibeo, l’onor dei poeti,
e il nome pur anche nell’aura svanì e a stento si volse la Musa
alle veglie di Mopso», già avevo risposto, quando sì mi si fece sul
labbro lo sdegno: «Quanti belati replicheranno i colli ed i prati,
se con verde chioma susciterò sulle corde un peana! Ma ch’io tema
le balze e le campagne che non conoscon gli dei. Non sarà meglio
acconciare i capelli al trionfo e, se mai io ritorni, nasconderli
bianchi sotto un serto di fronde allor che soleano farmisi biondi
in su le sponde del Sarno paterno?». Ed egli: «Chi mai ne potrà
dubitare? Però guarda, Titiro, il tempo come sen fugge; che già le
capre invecchiarono, alle cui madri i becchi offerimmo che ne
ingravidassero! ». Ed io: «Quando i corpi che al mondo ruotano
attorno e chi nelle stelle ha dimora si sveleranno al mio canto,
come i regni d’inferno, grata cosa sarà di ricingermi il capo di
edera e lauro: Mopso vi assenta». «Mopso», mi disse «perché?». «
Non vedi com’ei ne rimproveri le parole volgari, e perché le
ripetono logore labbri di femminette e perché le sorelle Castalie
d’averne offerta han vergogna?». Così gli risposi e i versi tuoi,
Mopso, di nuovo rilessi. Ma quegli restrinse le spalle e «Dunque
che cosa faremo» disse «se a Mopso vogliamo dar voce?». Risposi:
«Tu sai quella pecora, che ho prediletta, che reca le mamme a
fatica, cotanto abbonda di latte; al pie’ d’una rupe grande l’erbe
or ora brucate si rumina, né a gregge alcuno congiunta né a recinto
alcuno assuefatta, da sé, giammai con la forza, suole venire a
richiedere la sua mungitura. E a mungerla adesso mi accingo, con
pronte mani, con essa dieci cupelle empirò per farne viatico a
Mopso. Tu bada frattanto a distogliere i capri dal dare di cozzo e
sulle dure croste apprendi a infiggere i denti». Così sotto una
quercia io e Melibeo parlavamo, mentre cuoceva per noi la capanna
un pugno di farro.
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Da Jean-Louis Charlet, L’Architecture du Bucolicum carmen de
Pétrarque, in «Res Publica Litterarum», XXVII, 2004, pp. 30-41
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PETRARCA Fam. X 3 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E.
Bianchi) Io voglio, o fratello a me più caro della luce, por fine
al mio lungo silenzio, che a torto tu crederesti indizio di un
animo oblioso; più difficilmente io dimenticherei me stesso che te.
Finora, ho avuto scrupolo di turbare la quiete del tuo noviziato;
sapevo che tu rifuggivi dallo strepito e amavi il silenzio, e che
invece io, una volta incominciato a parlarti, non facilmente avrei
cessato; tanto ti voglio bene, tanto ammiro la tua vita. Perciò,
tra due estremi sceglievo non quello che a me era più gradito, ma
quello che a tè era più caro; ma ora, per dire il vero, mi induco a
scriverti non per far piacere a te, ma a me. Che bisogno hai tu
delle mie chiacchiere, che entrato nella via che mena al cielo, di
continuo ti ricrei degli angelici colloqui? veramente felice e
fortunato nella tua scelta, tu che nel fior dell’età potesti
abbandonare il mondo proprio quanto più ti lusingava e passare
sicuro con le orecchie chiuse attraverso il canto delle Sirene.
Scrivendoti, io procuro dunque il mio vantaggio, sperando che alla
fiamma tua sacra il mio misero cuore reso torpido e gelido da lunga
inerzia si riscaldi; e perciò le mie parole, se non utili, non ti
saranno almeno importune. Poiché tu non sei più un coscritto, come
un tempo, ma ormai un soldato di Cristo agguerrito da lunga
milizia; e grazie ne siano rese a Colui che ti degnò di tanto onore
e, come è solito, accolse sotto le sue bandiere un nobile disertore
togliendolo dalle schiere dei nemici. Dapprima, mi peritavo a
rivolgerti inopportuni consigli; ora sicuro io ti parlo. A chi
comincia tutto fa paura, molte cose che da fanciulli tememmo ora ci
fanno ridere; ogni rumore spaventa il soldato novellino, chi è
abituato alla guerra a nessuno strepito si commuove; il navigante
novello si spaventa al primo sussurro di vento, il vecchio
nocchiero, che tante volte ricondusse in porto la nave sconquassata
e disarmata, dall’alto della poppa guarda tranquillo il mare irato.
Io spero dunque in Colui che dal seno della madre ti incamminò per
questo sentiero faticoso, sì, ma glorioso, perché attraverso a
varie difficoltà tu giungessi in patria; nessuna cosa ormai ti
svierà, non le disgrazie, né i dolori, né le malattie, né la
vecchiezza, né la paura, né la fame, né la povertà, «né la morte o
gli affanni, ombre terribili» e neppure «il guardiano dell’Orco,
che nell’antro sanguinoso sulle ossa rose giace», né tutto quello
che a spaventare il cuore degli uomini inventò l’ingegno dei poeti.
Né di maggior coraggio contro ogni cosa paurosa può aver fatto dono
al suo Ercole quel Giove che lo generò per adulterio, che non a te
il Figlio della Vergine, eterno padre di tutti, che vede e conforta
i giusti voleri di quelli che sperano in lui. Così stando le cose,
tu puoi ormai senza timore ascoltare le parole dei tuoi e, se un
po’ di tempo libero ti apparirà tra le tue sante
occupazioni, potrai anche brevemente rispondere. E lascia che io
mi valga teco dell’autorità di scrittori profani, citati da
Ambrogio e dal nostro Agostino e da Girolamo, e che anche
l’apostolo Paolo non disdegnò di nominare; e non voler chiuder la
porta della tua cella a ciò che è degno che io dica e non indegno
che tu ascolti» […] Ma io debbo ora, o mio Dio, entrare in
controversia con te, se tu me lo permetti. Perché mai, dimmi,
mentre io e mio fratello eravamo presi nel medesimo laccio su tutti
e due si abbatte la tua mano, ma non ambedue fummo insieme
liberati? egli se ne volò via, e io non più tenuto ad alcun laccio
ma ancora ricoperto dal vischio delle male abitudini, non riesco a
spiegare le ali, e dove ero legato, ivi sebbene sciolto rimango.
Qual è la cagione per la quale, ugualmente rotti i nostri lacci,
non ci toccò insieme «l’aiuto nel nome del Signore?». Perché questa
davidica cantilena così armoniosamente cominciata terminò con voci
così discordi? La volontà di Dio non è mai senza causa, poiché
tutti dipendono da lei, che è fonte di tutte le cause. Mio fratello
cantò in tono con l’animo rivolto al ciclo, io invece pensando a
cose terrene e curvo verso terra; e forse non vidi la destra
liberatrice, forse sperai nelle mie proprie forze; questa o altra è
la cagione perché, rotto il laccio, io non sono libero. Abbi
compassione di me, o Signore, perché sia degno di una maggior
compassione; che senza la grazia della tua misericordia in nessun
modo l’umana miseria può ottenere misericordia. PETRARCA Fam. X 4
(da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) Al medesimo,
sullo stile dei Padri della Chiesa e sulle relazioni tra la
teologia e la poesia, con una breve esposizione della prima egloga
del suo Carme Bucolico, a lui inviata. Se ben conosco la pietà
dell’animo tuo, tu avrai provato orrore nel ricevere il carme unito
a questa lettera, così discordante con la tua professione e
contrario i tuoi propositi. Ma non far giudizi temerari; che v’è
infatti di più stolto che giudicare di ciò che non si conosce? […]
Or sono tre estati, mentre ero in Francia, il caldo mi indusse a
recarmi alle sorgenti della Sorga, che un tempo, tu lo sai, noi
scegliemmo come nostra dimora; ma a te per dono divino si preparava
una sede più sicura e più tranquilla, a me neppur di quello fu dato
di godere, trascinandomi la fortuna tant’alto che è troppo. Là
dunque io mi trovavo, in questa disposizione d’animo: che
frastornato
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da tante brighe, non osavo intraprendere nulla di grande, e
tuttavia non sapevo stare in ozio, abituato come sono fin
dall’infanzia a fare qualche cosa, se non sempre buona. Scelsi
allora una via di mezzo: di rimandare ad altro tempo le cose più
gravi, e comporre qualcosa che mi distraesse in quel soggiorno.
L’aspetto stesso del luogo e i boschi solitari, dove spesso pieno
di gravi pensieri io penetravo all’alba e donde soltanto
l’avvicinarsi della notte mi richiamava, mi spinsero a cantare
qualcosa di silvestre. Cominciato dunque a scrivere un carme
bucolico diviso in dodici egloghe, che da un pezzo avevo in mente,
è incredibile a dire in quanto pochi giorni lo terminai; tanto quel
luogo eccitava l’animo mio. E poiché nessun soggetto avevo in mente
che più mi stesse a cuore, scrissi la prima egloga su noi due, la
quale facilmente m’indussi a mandarti, non so se per tuo diletto o
per impedimento del tuo diletto. Ma poiché è questo un
componimento, che se non è spiegato da chi lo scrisse, non si può
capire, perché tu non ti stanchi inutilmente, ti spiegherò
brevemente, prima che cosa io dico, poi quel che intendo dire. Sono
introdotti due pastori; poiché pastorale è lo stile, e perciò messo
in bocca a pastori. I nomi dei pastori sono Silvio e Monico.
Silvio, vedendo Monico solo e felice, in una quiete degna di
invidia sedere sotto un antro, gli parla quasi ammirando la sua
fortuna e deplorando la propria, perché egli, lasciati il gregge e
i campi, abbia trovato il riposo, lui stesso invece vada ancora
aggirandosi con gran disagio tra aspri colli; e tanto più si duole
che così grande sia la differenza della loro fortuna, in quanto,
come dice, una sola fu la madre di ambedue, perché si capisca che i
due pastori son fratelli. Monico in risposta ritorce tutta la colpa
della fraterna disdetta su lui stesso, dicendogli che da nessuna
forza costretto, egli erra di sua volontà per monti e per selve; e
Silvio gli risponde che cagione del suo errare è l’amore, ma
soltanto l’amor delle Muse e non d’altro. E perché questo sia
chiaro, comincia a narrare una favola piuttosto lunga, di due
pastori, che dolcemente cantavano, l’uno dei quali egli si ricorda
di aver udito nella sua puerizia, l’altro più tardi, e che preso
dal loro diletto ogni altra cosa ha trascurato; e mentre per i
monti anelando li segue, ha ormai imparato a cantare, sì da esser
lodato dagli altri, anche se non ancora è soddisfatto di sé. Perciò
si è proposto di aspirare alla perfezione e di raggiungerla o
morire. Monico cerca di persuadere Silvio a entrare nel suo antro,
per udirvi un canto più soave, ma subito lascia a mezzo il suo
discorso, come se veda sul viso di Silvio segni di turbamento.
Quello a sua volta si scusa, e Monico termina il suo discorso, alla
fine del quale Silvio meravigliato domanda chi sia quel pastore dal
canto così dolce, del quale ora per la prima volta ode far
menzione. Monico con rozzezza veramente pastorale non
ne fa il nome, ma ne descrive la patria e, come soglion fare i
villani, che spesso errano ne’ nomi, parla di due fiumi che nascono
da una stessa sorgente, e subito dopo, quasi accorgendosi del suo
errore, cambia le parole, e non più di due, ma di un sol fiume
seguita a parlare, che nasce da due sorgenti; l’una e l’altra in
Asia. Silvio dice di conoscer questo fiume, e ne dà prova
ricordando che in esso un irsuto giovane lavò Apollo. Di là
soggiunge Monico essere oriundo quel cantore; e ciò udendo, Silvio
subito lo riconosce e ne critica la voce e il canto, esaltando due
suoi pastori, mentre Monico ricopre di lodi il suo. Alla fine,
Silvio, come se si rassegnasse, dice che a suo tempo tornerà e
dimostrerà quanto dolcemente canti quello che è con lui, ma che ora
ha fretta. Meravigliato, Monico domanda la ragione di quella
fretta, e si sente rispondere che, tutto preso da un canto che ha
preso a comporre intorno a un giovane egregio, di cui brevemente
narra le gesta, Silvio non può ora occuparsi d’altro; sicché Monico
termina il colloquio dicendo addio a Silvio e in ultimo esortandolo
a considerare il rischio e il danno dell’indugio. Questo è il sunto
del componimento; quanto al suo significato, eccolo. I pastori che
parlano siamo noi due, io Silvio, tu Monico. Quanto alla ragione
dei nomi, del primo, poiché l’azione si svolge nelle selve, e
perché in me è insito fin dall’infanzia l’odio delle città e
l’amore delle selve, per il quale molti nostri amici nei loro
scritti mi chiamano più spesso Silvano che Francesco; del secondo,
perché, chiamandosi uno dei Ciclopi Monico quasi monocolo, un tal
nome mi parve in certo modo convenirti, come a colui che dei due
occhi di cui ci serviamo noi mortali per guardare con l’uno le cose
celesti con l’altro le terrene, tu ti sei privato di quello che
guarda le cose terrene contentandoti di quello migliore. L’antro
dove Monico vive solitario è Montreux, dove tu ora conduci vita
monastica tra spelonche e boschi, o anche in quello in cui Maria
Maddalena fece penitenza, vicino al tuo monastero; poiché in esso
tu ti confermasti, con l’aiuto di Dio che rinsaldò il tuo cuore
vacillante, nel santo proposito, di cui lungamente avevi meco
ragionato. La campagna e il gregge, di cui è detto che abbandonasti
ogni cura, intendili come la città e gli uomini, che lasciasti
fuggendo in solitudine. Che una sola fu la madre di ambedue, anzi
ambedue i genitori, non è allegoria ma pura verità. Il sepolcro è
l’ultima dimora; che te aspetta il cielo, me, se Dio non m’aiuta,
l’inferno; ma si può anche più semplicemente intendere come suonano
le parole; che tu hai ormai una sede stabile e perciò una più
sicura speranza di sepolcro, io sto ancora vagando e tutto è per me
incerto. La vetta inaccessibile, alla quale Monico rimprovera
Silvio di tendere con grande sforzo, è l’altezza della fama, che è
rara e cui pochi conseguono. I deserti, nei quali Silvio si aggira,
sono gli studi, oggi
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davvero deserti, perché abbandonati o per cupidigia di lucro o
per pigrizia d’ingegno. Gli scogli muscosi sono i potenti e i
ricchi, coperti dalle ricchezze come dal musco; fonti sonanti
possono essere chiamati i letterati e gli oratori, dal cui ingegno,
come da sorgenti, scaturiscono i fiumi delle scienze con piacevole
mormorio. Quello che Silvio fa in nome di Pale, è un giuramento da
pastori, poiché Pale è la dea dei pastori; da noi può significare
Maria, non dea, ma madre di Dio. Partenia è Virgilio, ed è nome non
da me ora inventato, poiché nella vita di lui si legge che meritò
di esser chiamato Partenia, come dire integro per il suo modo di
vivere; e perché questo da sé il lettore intendesse, è ivi aggiunto
un passo nel quale è detto che il Benaco, lago della Gallia
Cisalpina, genera un figlio a sé somigliante, ed è questo il
Mincio, fiume di Mantova, che è la patria di Virgilio. Il nobile
pastore venuto di fuori è Omero, nella descrizione del quale quasi
tutte le parole hanno un particolare significato. Infatti quel poi,
cioè dopo, non è detto senza occulta cagione, poiché a Virgilio
ancor fanciullo io mi accostai, e poi, cresciuto in età, ad Omero;
poiché devi sapere che quella che porta volgarmente il nome di
Omero è un’operetta di non so quale scolastico, sebbene contenga un
riassunto dell’lliade d’Omero. Dissi poi che veniva da paesi
stranieri, perché non è italiano né si serve della lingua latina;
perciò dissi che non cantava nella nostra favella, essendo egli
greco. E giustamente gli compete l’epiteto di generoso pastore,
poiché chi mai più generoso della lingua e dell’ingegno d’Omero? Fu
aggiunto non so qual valle perché del luogo dov’egli nacque varie
sono le opinioni che qui non è il caso di enumerare; infine che
Virgilio bevesse al fonte omerico è cosa nota a tutti quelli che si
dedicano alla poesia. L’amica, della quale ambedue son degni, è la
fama, per la quale cantino i poeti, come per l’amica gli amanti.
L’orrida selva e gli aerei monti che Silvio si meraviglia che non
seguano il dolce canto dei pastori sono il volgo ignorante e i
principi potenti. La discesa dalla cima del monte al fondo delle
valli e la salita dal fondo delle valli ai monti di cui parla
Silvio a proposito di se stesso, sono l’alterno passaggio
dall’altezza della teorica all’esercizio della pratica secondo il
variare dei nostri affetti. La fonte che applaude colui che canta è
il coro degli studiosi; le aride rocce sono gli idioti, sui quali,
come l’eco sulle rocce, batte la nuda voce e si riflette indietro
senza esser da essi compresa; le ninfe dee delle fonti sono i
divini ingegni degli studiosi. La casa, dentro la quale Monico
invita Silvio, è l’ordine dei Certosini, nel quale nessuno entra
ingannato, come avviene per altri ordini, nessuno malvolentieri. Il
pastore, il cui canto Monico preferisce a quello di Omero e
Virgilio, è David stesso, a cui propriamente conviene il verbo
salmeggiare a cagione dei suoi Salmi; e la mezzanotte è ricordata
per la mattutina salmodia, che soprattutto in quell’ora si
ode nelle nostre chiese. I due fiumi con una sola sorgente,
intorno ai quali Monico dapprima prende errore, sono il Tigri e
l’Eufrate, noti fiumi dell’Armenia; il fiume dalle due sorgenti è
il Giordano della Giudea, e di ciò fanno fede molti autori, tra i
quali Girolamo, che spesso e a lungo abitò in quel paese. I nomi
delle sorgenti sono: Ior e Dan, dalle quali deriva il fiume stesso
e il suo nome; e si narra che sfoci nel mare di Sodoma, dove si
dice esistano ancora i campi di cenere a cagione dell’incendio di
quella città, in questo fiume si ricorda che Cristo fu lavato col
battesimo da Giovanni. Poiché quel giovane irsuto è Giovanni
Battista: giovine vergine, puro, innocente, irsuto, incolto,
coperto di folte pelli, coi capelli arruffati, con la faccia
bruciata dal sole. Quanto ad Apollo, esso è detto figlio di Giove e
dio dell’ingegno; e per esso io intendo Gesù Cristo, vero Dio e
vero figlio di Dio, signore di ingegno e di sapienza, poiché,
secondo i teologi, ha gli attributi della somma e indivisibile
Trinità, al figlio è attribuita la sapienza ed egli stesso è detto
la sapienza del Padre. Quanto alla voce rauca di David e alle
frequenti lacrime e al nome di Gerusalemme spesso ripetuto, essi
vogliono indicare lo stile di lui, a prima vista aspro e flebile, e
il fatto che nei Salmi ricorre, storicamente e allegoricamente,
menzione di quella città. A questo punto si accenna sommariamente a
quel che cantano i poeti che Silvio preferisce; fare una vera e
propria trattazione sarebbe stato troppo lungo, ma a chi è provetto
negli studi tutto è chiaro e manifesto. Monico gli contraddice
giustificando la davidica raucedine e con uguale brevità esponendo
il suo tema. Il giovane, del quale Silvio cominciò a riferire un
canto, è Scipione Affricano, che sul lido d’Affrica abbattè
Polifemo, cioè Annibale duce dei Cartaginesi; poiché come Polifemo
anche Annibale fu monocolo, dopo aver perduto un occhio in Italia.
I leoni libici, di cui come si sa abbonda l’Africa, sono gli altri
capitani dei Cartaginesi, che Annibale vincitore sbalzò dal potere.
Le tane incendiate sono le navi bruciate, nelle quali era riposta
ogni speranza, dei Cartaginesi; narra la storia romana che ben
cinquecento Scipione ne bruciò sotto i loro occhi. Questi è anche
chiamato giovane celeste sia per l’eroico valore onde rifulse, che
da Virgilio è chiamato ardente e da Lucano igneo, sia per
l’opinione della sua origine celeste, che per l’ammirazione di
tanto uomo avevano allora i Romani. Lui lodano gl’Italici
dall’opposto lido, poiché il lido italico è di contro al lido
africano, non soltanto per la reciproca inimicizia, ma anche per la
posizione geografica; Roma è infatti di fronte a Cartagine. Ma di
questo così lodato giovane nessuno canta; così io dissi perché,
sebbene ogni storia sia piena delle lodi e delle gesta di lui, e
non vi sia dubbio che Ennio a lungo scrisse di lui «in uno stile
rozzo e trascurato» come dice Valerio Massimo, non esiste su tal
personaggio un componimento poetico veramente degno. Di esso
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dunque io mi proposi di scrivere come potevo, perché proprio di
lui tratta l’opera mia che s’intitola Africa, che Dio voglia io
possa felicemente terminare da vecchio come animosamente
incominciai da giovane. Quanto poi al grave pericolo di differire
un saggio divisamento e ai gravi e inattesi casi della vita
presente, da cui le ultime parole di Monico consigliano di
guardarsi, non c’è bisogno neppur di parlarne. Il resto capirai
bene meditandolo. Addio. Padova, il 2 di dicembre, di sera
[1349].
PETRARCA, Epistola a Barbato da Sulmona (Var. 49, da Epistuale
de rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze
1863) Ti recherà questa lettera il mio carissimo ed intrinseco
amico Lelio, che volgarmente chiamano Lelio di Pietro Stefano, uomo
di recente ma nobilissima romana origine, e d’indole e di natura
veramente romano all’antica. E a te, fratello mio, con tutto il
cuore, con tutta l’anima lo raccomando, e per la santa amicizia
nostra ti prego che in quelle bisogne sue, delle quali ti parlerà
Messer l’Arcivescovo di Trani, piacciati di fare in suo pro né più
né meno di quanto faresti se si trattasse delle mie cose o
dell’onor mio. E quello che a te scrivo fa che come a sé scritto
abbialo il nostro Giove, cui raccomanda tu il suo Mercurio il quale
è pronto sempre e parato ad eseguire ogni paterno di lui comando.
Addio fratello. - Quantunque la nausea delle faccende che m’ho in
questa Curia mi abbiano messo addosso una tal quale pigrizia, e la
gravissima soma delle mie occupazioni fatto m’abbia restio ad ogni
fatica, non son potuto star saldo contro il volere di questo Lelio,
che mi costrinse a copiare colle stanche mie dita una almeno delle
diverse Egloghe or ora da me composte nel solitario ritiro della
mia Valchiusa: quella cioè con cui intesi d’onorare la eterna
memoria del nostro santissimo Re. Egli dice che quantunque piccolo,
deve questo dono tornare accettissimo a voi due, ed a Maestro
Niccolò d’Alife, ai quali vuol che io lo mandi per avervi ben
disposti a secondare del consiglio e dell’opera i suoi desiderii.
Fate dunque che non cadano a vuoto le sue speranze: io ve ne prego
e riprego quanto so e quanto posso. Or perché aperto a te si paia
il senso di questa Egloga, rammentane l’argomento che dianzi io ti
esposi. Nell’occhiuto pastore ravvisa l’avvedutissimo Re che a
guidare i suoi popoli era tutt’occhi: sotto il nome d’Ideo intendi
il nostro Giove nutrito a Creta sull’Ida: in Pitia conosci il mio
Barbato, che così chiamai per dar gloria alla sua amicizia, della
quale non volendo pur io arrogarmi il vanto, anzi che dirmi Damone,
scelsi chiamarmi Silvio, e perché innato è in me l’amore per le
selve, e perché quel poetico mio lavoro, siccome dissi, fu da me
composto nel silenzio de’ boschi. Il resto è chiaro. Addio di
nuovo. Dall’inferno de’ vivi. Ai 18 di gennaio 1347
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PETRARCA, Epistola a Cola di Rienzo (Var. 42, da Epistuale de
rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze
1863) Dal procelloso mare di questa Curia che chiaman Romana, in
mezzo al quale navigando invecchiai, e pur mi sento rozzo ancora e
inesperto del navigare, al porto della consueta mia solitudine, che
è quanto dire, dalle mura di Avignone al luogo che secondo sua
natura detto è Valchiusa, mi riparai. E sebbene di quindici sole
miglia da quella città quanto altra mai turbolenta, e dalla
sinistra sponda del Rodano sia questo luogo lontano, tanta in così
piccola distanza corre fra loro la differenza, che quante volte
dall’una partendo mi reco all’altro, dall’ultimo occidente al punto
estremo d’onde nasce il sole parmi d’aver fatto viaggio. Tutto è
diverso dal cielo in fuori: uomini, acque, terre diverse. Limpida e
fresca per cristalline onde meravigliose scorre per letto come puro
smeraldo trasparente e tra tutti i fiumi bellissima la Sorga, or
tumida e gonfia come torrente, or come fonte cheta e tranquilla,
che veggo con meraviglia da Plinio fra le cose piu memorabili della
Narbona annoverata, perocché veramente è sul territorio di Arles.
Ho qui una villetta in cui fuori d’ltalia, per legge d’inesorabile
necessità, io mi trattengo, luogo a miei studi del mattino e della
sera acconcissimo più ch’altro mai per colli ombrosi, per valli
apriche, per nascosti ricetti, e per la solitudine che tutta
intorno vi regna grata e tranquilla: nel quale d’altri animali
meglio che d’uomini l’orme si stampano, né per altro mai che per lo
mormorare delle acque correnti, pel muggito de’ buoi che pascolano
lungo le rive, o pel cantar degli augelli il grave e lungo silenzio
avvien che si rompa. In questo luogo pertanto, del quale altro non
dico perché dalle naturali sue qualitadi e da miei versi venuto in
fama già fu per ogni dove celebrato e notissimo, non appena
avidamente io mi ridussi, sia perché le orecchie e la mente stanche
del cittadino tumulto qui potessero trovare alcun conforto, sia per
dar l’ultima mano ad alcuni lavori che mi tengono in faccende ed in
pensiero, all’aspetto di queste selve mi venne in fantasia di
cantare alcun che d’incolto e di pastorale. Ed a quel carme
bucolico che nella scorsa estate aveva composto, un capitolo, o per
parlare come di poetiche cose conviensi poeticamente, un’egloga
aggiunsi, e seguendo la legge che in quella specie di componimenti
vieta d’uscir dalle selve, indussi a colloquio fra loro due pastori
germani fratelli, e a te degli studi amantissimo in sollievo delle
gravi e molteplici tue cure questo mio componimento volli inviato.
Ma perché di cosiffatto genere di poesia proprio è che ove l’autore
stesso non ne mostri la chiave, altri possa per avventura
congetturando indovinare, ma tutto per intero il riposto
significato a comprenderne non riesca, io che te intento a pubblici
e gravissimi negozi della
Repubblica non voglio costringere a meditar le parole di un
rozzo pastore, né che tu spenda in cosiffatte bazzecole pur una
briciola di cotesto ingegno divino, brevemente ti farò manifesto il
mio pensiero. I due pastori pertanto sono due specie di cittadini
nella medesima patria loro abitanti, ma nel sentire della
Repubblica fra loro a gran pezza discordi. Marzio è uno che è
quanto dire bellicoso ed inquieto, il quale preso il nome da Marte
cui fecer gli antichi padre di Romolo, tutto pietoso e
compassionevole si dimostra alla sua genitrice. E questa è Roma.
L’altro fratello è Apicio, che tu ben sai essere stato maestro
della cucina: nel quale sono da ravvisarsi i voluttuosi e gli
inerti. Gran contesa è fra loro intorno agli uffici di pietà che
all’annosa madre sono dovuti, e spezialmente si tratta di
ristorarle la casa antica, cioè a dire il Campidoglio, ed il ponte
per lo quale alle campagne sue solea tragittarsi, che è il ponte
Milvio, sotto cui scorre il rivo, ossia il Tevere, che giù discende
dai gioghi dell’Appennino. In quella strada che porta agli orti
antichi e alle case di Saturno intendi quella che guida ad Orta
antica ed a Sutri: e nell’ombrosa Tempe ravvisa l’Umbria ove sono
Narni, Todi, ed altre molte città: siccome più innanzi è la
Toscana, il cui popolo discendere dalle genti dei Lidi è a te ben
noto. E in quel pastore, del quale ivi si narra che sorpresi i
ladri li uccidesse sul ponte, ravviserai di leggieri M. Tullio
Cicerone, che tu sai bene aver sul ponte Milvio scoperta la
congiura di Catilina. Perché console, lo dissi pastore: lo dissi
arguto, perche fu principe nella eloquenza. La selva cui la rovina
del ponte minaccia ruina e la scarsa greggia, sono figure del
popolo di Roma: le mogli e i figli, de’ quali, senza curar della
madre, tanto pensiero si dà Apicio, sono le terre ed i vassalli e
le spelonche delle quali ivi è parola, sono le rocche dei baroni,
entro le quali riparandosi insultano alla pubblica miseria. E vuole
Apicio che il Campidoglio non si restauri perché Roma si sbrani e
partasi in due, ed a vicenda or dall’una ed or dall’altra parte si
prenda il comando. L’altro, ch’è vago dell’ unità dell’impero,
rammenta per lo restauro del Campidoglio le materne dovizie, e
tuttora potente nella concordia de’ figli vuol che sia Roma nutrice
del gregge e dei giovenchi, che è quanto dire dell’umile volgo e
del popolo più robusto. E fra gli altri avanzi dell’ antiche
ricchezze gli vien pur fatto di rammentare il sale nascosto: il
che, quantunque della gabella del sale, che a quel che dicono rende
assaissimo, possa intendersi detto, meglio però sarà da te
interpretato per la Romana sapienza lungamente soffocata dalla
tirannide. E mentre que’ due così garriscon fra loro, ecco venir un
Veloce, che è la Fama, di cui, secondo Virgilio:
Altro male non avvi al par veloce. E questi delle vane cure e
del piatire inopportuno fatta prima rampogna, annunzia
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loro che la madre li sconosce, e che per volere di lei un minor
germano gli imprese a fabbricare la casa; il quale e delle selve
tiene il governo, e a dolce canto sciogliendo la voce, alle greggie
degli animali impone silenzio, che è quanto dire: leggi promulga, e
quel che nuoce allontana. Delle quali cose parlando o i nomi, o
l’indole, o gli stemmi di alcuni infra i tiranni nel nome delle
fiere accortamente nascosi. Quel germano minore infino ad ora sei
tu. Il resto è chiaro di per se stesso. - Addio , grand’ uomo, e ti
sovvenga di me. PETRARCA Fam. XXII 2 (da Opere, Sansoni, Firenze
1975, trad. E. Bianchi) A Giovanni da Certaldo, che spesso
scrivendo gli accade di errare in quel che meglio sa; e sulla legge
dell’imitazione. Appena tu fosti partito, sebbene addolorato,
tuttavia, poiché non so stare senza far nulla - sebbene, a dire il
vero, tutto quello che fo sia nulla o al nulla molto simile -
trattenni presso di me il nostro amico per compiere insieme con lui
il lavoro cominciato insieme con te: rivedere le copie del Carme
bucolico, che avevi portato teco. E mentre ne discorrevo con quel
brav’uomo tagliato all’antica, amico veramente caro, tardo nel
leggere, mi accorsi di alcune parolette ripetute più spesso che non
avrei voluto e di altre cosette ancor bisognose di lima. Perciò ti
avvisai di non affrettarti a trascriverlo e a darne copia al nostro
Francesco, non ignaro dell’interesse che voi dimostrate a ogni cosa
mia e soprattutto ai miei scritti, che, se l’amore non vi facesse
travedere, non sarebbero degni né delle vostre dita né dei vostri
occhi; pensavo di poter far comodamente le correzioni in poche ore,
appena tornato in campagna, come mi proponevo di fare il primo di
luglio; ma m’ingannai. Poiché i frequenti e quasi annuali moti
della Liguria mi trattennero in città, sebbene ta