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MI SONO INNAMORATO DI TE

Mar 24, 2016

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A che cosa serve l'amore? Il primo romanzo di Gianni La Corte, arrivato ormai alla 5° ristampa
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Gianni La Corte

Mi sono innamorato di teMi sono innamorato di teMi sono innamorato di teMi sono innamorato di te

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© 2008 La Corte Comunication Via Paolo Regis 44, Chivasso (To) Tutti i diritti riservati La Corte Editore è un marchio La Corte Comunication Progetto Grafico: La Corte Editore Foto in copertina: Simone Ballario © 2008 La Corte Comunication ISBN 9788896325001 Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010 presso lo stabilimento grafico Universal Book di Rende (Cs) per conto di La Corte Comunication

www.lacorteditore.it www.giannilacorte.it

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A mio padre, a mia madre, ai miei fratelli Moreno ed Emanuele.

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“Voglio che qualcuno ti travolga, voglio che tu leviti,

voglio che tu canti con rapimento e che danzi come un derviscio… Abbi una felicità delirante o almeno non respingerla.

Lo so che ti suona smielato, ma l’amore è passione, ossessione, qualcuno senza cui non vivi.

Io ti dico: buttati a capofitto, trova qualcuno da amare alla follia e che ti ami alla stessa maniera.

Come trovarlo? Be’, dimentica il cervello e ascolta il tuo cuore.

Io non sento il tuo cuore. Perché la verità, tesoro, è che non ha senso vivere se manca questo.

Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente, be’ equivale a non vi-vere. Ma devi tentare, perché se non hai tentato, non hai mai vissuto.”

Dal film “Vi presento Joe Black”…

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Prologo

Due anni prima È una bomba che esplode. È un fiume che straripa. È un treno che de-

raglia. È una semplice domanda. Ma che arriva all’improvviso, risucchiando tutto, per non lasciare più

nulla al suo posto. Arriva che non te ne accorgi. Di soppiatto, con finta indifferenza. Arriva che è un punto interrogativo. Semplice come tanti altri, ma deflagrante e irruente nella sua unicità.

Arriva. E toglie i colori alla speranza, la musica alla vita, la danza al tempo. Da lasciarti senza fiato, da ribaltare tutta una vita. Quella di Fabio in questo caso. Che è fermo ora. Da solo. In una stazione deserta, in piena notte. Ad attendere un treno che è in ritardo. Ad aspettare una risposta che

ancora non arriverà. A stringere i pugni dalla rabbia per averci sempre creduto così ciecamente e per essere stato così infinitamente ingenuo.

Perché fa male. Fa male da impazzire mettere in dubbio qualcosa del quale eri sempre

stato certo e sul quale avevi riposto gran parte della tua vita. Un po’ come se da piccolo ti dicessero, brutalmente e all’improvviso,

che Babbo Natale non esiste. Ci rimarresti di merda; e anche tu ti do-manderesti dov’è improvvisamente finita tutta quella magia a cui hai sempre creduto e che hai sempre decantato: nelle tue parole, nei tuoi gesti, nei tuoi anni…

Dov’è finita? Ti chiederai. Possibile che sia stata semplicemente un’illusione, un’allucinazione

del tuo cuore, una favola a cui ti ha sempre fatto comodo credere e nul-la più?

Possibile? E, soprattutto, in cosa crederai ora? Con quale forza affronterai an-

cora il mondo? Con cosa riempirai la tua vita?

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Non lo sai. Perché sei ancora fermo lì; insieme al nostro Fabio, nel silenzio robo-

ante di un chiaro di luna. Sei bloccato e confuso; incapace di rispondere alla domanda princi-

pale. Che ritorna, che riecheggia. Ancora. Ancora. Ancora. E ancora. E allora eccola, con tutta la sua cruda semplicità.

““““A che cosa serve l’amore?”

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A niente. A niente è servito fare tutto di corsa. Sono comunque in ritardo. In ritardo, ritardo, ritardo e quel deficiente davanti a me sembra aver

preso la patente da due giorni: ma vuole togliersi dai piedi, cazzo? Ecco, é diventato pure rosso.

Tamburello, nervoso, con le mani sul volante. Cambio cd, slaccio la cintura, mi tolgo la giacca improvvisamente soffocante e, quando mi riallaccio, finalmente scatta il verde.

Odio arrivare tardi. Soprattutto se devo andare a un primo appuntamento. E lei, non so perché, ma non mi sembra proprio il tipo a cui piace a-

spettare. E poi a chi è che piace? Passo finalmente Piazza Vittorio, brucio le altre macchine ferme al

semaforo e mi butto sul Ponte della Gran Madre. Giù, i Murazzi bruli-cano di gente, ma io tiro dritto accelerando, cercando di sfruttare quel giallo appena scattato che può farmi guadagnare minuti preziosi. Confi-do nella scarsa prontezza di riflessi degli altri automobilisti e lo supero che é già diventato rosso; finisco per beccarmi qualche colpo di clacson, ma una volta presa la strada per la collina, sento che, finalmente, il peg-gio è passato.

Insomma, devo riuscire a rilassarmi. Ma come fare? Sto per uscire con la ragazza più bella ed eccitante che abbia mai visto.

E se mi sono giocato la possibilità di entrare nelle sue mutandine a causa di un banalissimo ritardo, giuro che impazzisco. Certo, lo so che potevo pensarci prima, ma che dire? A volte il tempo è sottile e fugge via che non te ne accorgi neanche.

Comunque, dai, in fondo sono quasi arrivato, il mio ritardo non supera i venti minuti e ho anche trovato il tempo di mandarle un messaggino per avvisarla. Sono sicuro che avrà capito. E poi al diavolo, sto per usci-

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re con Ottavia Rastelli che, a parte il nome uscito da chissà quale perfida mente, rimane sempre una di quelle ragazze che, il più delle volte, noi uomini, non sappiamo neanche come avvicinare. Che le dico? Cosa fac-cio? Tanto, figurati se non ha già il ragazzo... E invece, io, uomo intre-pido e fortunato, sto per passarci l’intera serata insieme.

A volte sorprendo persino me stesso. Quindi, cerchiamo di tranquillizzarci. Di tirare un bel respiro e di go-

derci queste ore che, se dovessero filare lisce, sono sicuro rimarranno indimenticabili.

E poi non posso farmi fregare dal nervosismo. È tutto il giorno che la desidero. Che sto pregando di tuffarmi su quel-

le labbra e di fare mio quel corpo da favola, così provocante, così fuori da ogni razionalità. Perciò devo rimanere freddo, lucido. Perché l’ansia è la peggiore nemica di ogni uomo.

E Ottavia devo assolutamente farla mia. Certo, è strano pensare che fino a ieri sera non la conoscevo neanche,

che le nostre vite non si erano nemmeno mai incrociate, mentre adesso risiede in cima a tutti i miei desideri. Ma quale bellissimo spettacolo si erano persi i miei occhi?

Per fortuna, allora, che è arrivata la laurea di Stefano. O meglio, la sua festa di laurea. Che anche se non sembrava essere affatto partita col pie-de buono, aveva invece regalato risvolti interessanti.

Stefano aveva deciso, infatti, di rinchiuderci in un locale piuttosto scialbo, dove la musica era fin troppo tranquilla e insipidi discorsi veni-vano sparsi per la sala, tra persone che non sembravano avere niente da raccontarsi e altre che si accalcavano al bar cercando, nell’alcool, una veloce via di fuga. Insomma, una noia mortale.

Finché non è apparsa lei. Non ho capito da che pianeta fosse arrivata, ma me la sono ritrovata lì,

in mezzo alla sala. Stivali alti, pantaloni stretti, top rosa, labbra che ri-splendevano e una cascata di capelli a coprirle la schiena quasi comple-tamente nuda. Regina della danza, sembrava stesse dando vita alla musi-ca stessa. Sensuale, provocatrice e assolutamente cosciente della propria forza, ballava prima di tutto per se stessa, per assaporare quell’ondata di

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desiderio che sapeva di far crescere dentro a ogni maschietto presente in quella sala.

Tanto, l’assoluto controllo ce l’aveva lei. E infatti, non appena le passò la voglia, lasciò tutti quei ragazzi che,

api sul miele, le stavano ballando attorno, con un palmo di naso e si di-resse da sola verso un divanetto.

I ragazzi si guardarono un attimo imbarazzati, poi, tornando con i piedi per terra, ricominciarono a perlustrare la sala in cerca di prede più ac-cessibili.

Io cercai di non perdere tempo: vedendola sola, riempii due bicchieri con lo champagne che avevano portato al nostro tavolo - e che era stato gentilmente offerto dal festeggiato -, recuperai da qualche parte un po’ di sfacciataggine e mi precipitai da lei. Che in questi casi non si deve mai esitare.

“Posso offrirti da bere?” le chiesi porgendole il calice. I suoi occhi mi scrutarono da cima a fondo. “E perché dovrei accettare?” mi disse lei ancora indecisa. “Beh, per dare un senso alla serata.” “La mia o la tua?” “Beh, mi sembra ovvio,” azzardai “la tua. La mia lo avrà solo se riu-

scirò ad avere anche il tuo numero di telefono.” “Presuntuosetto il signorino... comunque,” disse finalmente sorridendo

“come dire di no a un bicchiere di champagne?” Sollevato, le passai il bicchiere e le proposi il brindisi. “Alla tua serata fortunata?” “Attento ragazzo. Attento a non esagerare, altrimenti rischi...” “Di piacerti? Certo.” “Ma sentilo...” Rispose ridendo. “E chi saresti? Brad Pitt?” “Affatto. Mi chiamo Fabio, semplicemente. E tu?” Lei bevve un sorso, poi, avvicinandosi al mio orecchio ribaltò la fritta-

ta. “E mica te lo posso dire. Questa è la mia serata fortunata... non la tua.”

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Tosta la ragazza. Mi piaceva. Ma proprio in quel momento, invadente come al solito, il suo cellulare cominciò a vibrare e a lampeggiare come fosse impazzito.

“Scusami”, mi disse prima di allontanarsi improvvisamente e sparire tra la folla. “Mi stanno chiamando.”

Che palle. Non si stava meglio quando per comunicare si usavano i piccioni

viaggiatori? Va beh, forse aveva ragione lei, magari non era la mia serata fortunata.

Così, deluso, tornai verso gli altri ragazzi con i quali ero venuto, anime in pena dentro la gabbia di una festa nata male.

Tentammo di ballare qualche pezzo svogliato, ma alla fine, dopo una mezz’ora, decidemmo di rinunciare definitivamente.

“Oh, io non ne posso più di ‘sto posto.” Disse uno di loro. “Neanch’io.” Rispose un altro “Ci fosse almeno un po’ di figa...” La figa. Sempre quella. A misurare, come un arbitro insindacabile, la

temperatura di ogni serata. Anche per quelli che la possono solo guarda-re, invidiare, desiderare, anche per quelli che tanto non avranno mai il coraggio di provarci. Chissà, invece, qual è il metro di misura per le ra-gazze. Me lo sono sempre chiesto. Cos’è che cercano loro quando vanno a ballare?

Intanto, della splendida fanciulla che io invece ero riuscito a conosce-re, sembrava essersi persa ogni traccia, rapita dalle onde minacciose di un cellulare inopportuno.

Inutili tutte le mie ricerche, vano ogni mio tentativo. Poi, fortunatamente, mi trovò lei. “Ehi Fabio, ma dove stai andando? Ti arrendi così facilmente?” Mi voltai per ritrovarmela lì, oasi nel deserto, con un bigliettino in

mano. “Ma...” “Niente ma. Non darmi giustificazioni proprio adesso. Questo è il mio

numero.” Disse perentoria, passandomi il foglietto “Domani chiamami, che organizziamo per uscire. E comunque piacere, io sono Ottavia.” Disse prima di girarsi e andarsene così, senza darmi nemmeno il tempo

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di rispondere. Anzi, lasciandomi lì, bloccato, sorpreso dall’improvvisa svolta che aveva preso la serata.

Ecco, il cellulare, come mezzo di comunicazione, aveva immediata-mente riguadagnato punti. Semplice, veloce, diretto. Che poi, a pensarci bene, i piccioni come si addestravano? C’era una scuola apposita?

Guardai ancora incredulo quel tesoro che avevo tra le mani, poi lo ri-piegai con cura nel portafoglio e, infine, cercai Ottavia con lo sguardo; ma niente. Era già sparita. Chissà dove, chissà da chi.

Eppure, non so, mi era sembrata strana, diversa da prima... con meno trucco, gli occhi leggermente più arrossati, un tono più aspro nella vo-ce...

“Ehi Fabio, non ci posso credere, ma davvero sei riuscito a combinare con Ottavia Rastelli?”

“Scusa?” “Ma tu sai chi è?” Mi chiese, ipereccitato, Daniele, un mio amico di

Economia. “No, chi è?” E giù a snocciolarmi, per un’intera mezz’ora, l’aura mitologica che

aveva acquistato quella ragazza tra i corridoi della facoltà. Ottavia Rastelli, la dea del desiderio ricacciato in gola, la studentessa

tentazione che con le sue gonnelline sfacciate sapeva mettere in difficol-tà qualsiasi professore, la ragazza dal no così facile che, per qualche tempo, si era persino vociferato fosse lesbica.

Chissà cosa avevo fatto io, invece, per meritarmi addirittura un’uscita? Possibile che fosse bastato un semplice bicchiere di champagne e due battutine idiote?

Eppure eccomi qui, mentre, dal cancello, finalmente entro nel vialetto interno che mi porta dritto davanti a casa sua. Che poi chiamarla casa mi sembra riduttivo... insomma, se all’entrata, invece del cancello, mi fossi trovato un ponte levatoio con tanto di fossato e coccodrilli, non mi sarei affatto sorpreso.

Io, invece, sto andando a prenderla con una Punto. Vecchia di cinque anni, con uno strano bollo sulla portiera e con uno stop che non funzio-

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na. Chissà, forse averla lavata e profumata, non è bastato a renderla più presentabile.

Comunque la trovo già lì ad aspettarmi, fuori dalla porta, con le brac-cia conserte e con uno sguardo che non promette niente di buono. Caz-zo, forse il messaggino di scuse non è bastato.

Mi fermo davanti a lei, tiro fuori il sorriso più accattivante della mia collezione e scendo per salutarla. Non faccio, però, in tempo ad aprire la portiera che lei è già salita in macchina, si è seduta e si è persino allac-ciata la cintura. Un fulmine.

“Beh, cos’è non hai ancora imparato a leggere l’ora?” esordisce acida. No, è ufficiale. Il messaggino non è affatto bastato. Avrei dovuto tele-

fonare? “No”, le rispondo cercando di strapparle un sorriso “è che le altre tre

ragazze con cui ero prima non ne volevano sapere di lasciarmi andare e ho faticato un po’ a convincerle che si dovevano rivestire.”

“Beh, la prossima volta regala loro un buon vibratore. Vedrai che le farai felici lo stesso.” Risponde in maniera anche un po’ squallida.

“Beh, dai,” provo a uscirne fuori “adesso comunque siamo insieme. Ti prometto che mi farò perdonare. Ho prenotato un ristorantino che...”

“E chi ti ha detto di farlo? Stasera ti dico io dove andiamo.” Come mi dice lei dove andiamo? Ma io ho già prenotato! Prenotato da

Pepe Carvalho, il mio ristorante preferito. Quello dove non manca mai la candela al tavolo, dove la musica é sempre quella giusta per un ap-puntamento e dove puoi mangiare delle penne in salsa di noci che sono la fine del mondo. È lì che voglio andare, dove posso giocare in casa.

“Prendi per Corso Francia, poi ti dico bene la strada.” “Ma cos’é, non ti fidi?” “Esatto, non mi fido. E poi, visto che stai uscendo con me, se permetti,

decido io.” Alleluja. Non sono passati neanche due minuti da quando è salita, che

già mi sta sui coglioni. Che faccio, la scarico qui? Poi, però, la guardo e ci ripenso. È bella da mozzare il fiato. Le gambe lunghissime, la gonna che non le

arriva al ginocchio, quel seno che prepotentemente rigonfia la camicetta

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minacciando i bottoni. Così bella che mi verrebbe voglia di saltare il so-lito copione e baciarla direttamente lì, ancora sotto casa sua, spiazzando-la completamente.

Ma forse è meglio evitare. Dallo sguardo incazzato che ha, credo che non esiterebbe a rifilarmi un gancio destro e a scendere al volo dalla mia Punto.

Ingrano la marcia, saluto mentalmente Pepe e gliela do vinta. Per i primi dieci minuti non riesco a strapparle neanche un sorriso, ma

poi riesco a vederla illuminarsi quando, annaspando, riesco a toccare ca-sualmente il tasto giusto facendole un complimento sulla sua originale borsetta.

“Hai visto che bella!” dice con tono frivolo “L’ho comprata solo l’altro giorno a Milano, nella mia boutique preferita. Ormai sono quasi di casa. Pensa che prima di partire per far shopping chiamo persino per sapere se c’è la mia commessa preferita. Altrimenti mica vado, sai? Non mi diverto se non c’è lei.”

Guardo bene la borsa e in effetti vedo che, piccolissime, sotto il mani-co, ci sono una D e una G a sottolinearne il prestigio.

“E poi costava solo cinquecento euro.” Quanto??? Solo cinquecento euro... Dio, io con quei soldi mi ci vesto per un’intera stagione... E poi, cazzo,

se devo spendere cinque biglietti da cento per una firma, voglio almeno che capeggi su tutta la borsetta. Deve brillare di luce propria!

Ma forse non ne capisco niente di moda, io. “Beh, è davvero molto bella.” Così provo a far cambiare direzione al discorso, ma noto che lei torna

a irrigidirsi. Tesa, butta continue occhiate all’orologio e a un semaforo rosso sbuffa addirittura pesantemente.

Possibile che siano bastati venti semplici minuti di ritardo per esser-mela giocata del tutto? Ok, ok, erano trenta, ma cosa devo fare adesso?

Mi viene un’idea e svolto improvvisamente alla prima traversa. “Ma dove stai andando?” mi sbraita dietro “È dall’altra parte che dob-

biamo andare.” “Non ti preoccupare, fidati di me!”

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“Fidati il cazzo...” Ecco, se me lo dicevano prima che sarei uscito con una Contessa, ma-

gari mettevo l’abito buono... Comunque respingo l’obiezione e proseguo dritto per la mia idea. Co-

nosco lì vicino un chiosco di fiori aperto fino a tardi, dolce manna per i romanticoni dell’ultima ora.

Tra i tuoni e i fulmini dello sguardo incazzato di Ottavia parcheggio in doppia fila e mi catapulto giù dall’auto.

“Aspetta un attimo...” Quando torno, ho in mano un mazzo di sette rose gialle e un’espres-

sione sicura stampato sul volto. Lei, invece, mi sta aspettando scura in volto fuori dalla Punto. Non abbozza neanche un sorriso e rientra in macchina.

“Ora possiamo andare?” mi aggredisce facendomi venire voglia di ri-portare indietro i fiori e di farmi ridare i venti euro.

“Dai, questi sono per te...” “L’avevo capito.” Risponde acida e poi, molto meno premurosa di me,

li getta con noncuranza sul sedile posteriore. Ok. Ora sono davvero combattuto. La riporto indietro. Non posso far-

mi trattare così. Ci vuole un po’ d’orgoglio. Ma chi cazzo si crede di es-sere questa? Così, duro, cattivo, arrabbiato, maschio. Ciao ciao Ottavia. Però... però, Dio, guarda che gambe... insomma, poi magari migliora, diventa più simpatica... e pensa che bello sarebbe baciarla, spogliarla, portarla a letto, sentirmi dentro di lei... pensa che bello...

Ecco, ho capito, ormai è il mio pisello che ragiona per me. Sta di fatto che arriviamo fino al ristorante senza più emettere una so-

la, singola parola. Allegria.

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Quanto sono belli i primi appuntamenti. Con quelle infinite distese ancora sconosciute; con quegli oceani di ri-

cordi, opinioni ed esperienze ancora da esplorare, da rivisitare, da far ri-vivere.

Siamo ancora dei libri sconosciuti, che cerchiamo di presentare al me-glio, sperando che a chi ci sta di fronte venga la voglia di leggerne al-meno qualche capitolo, aggiungendone così di nuovi in questo meravi-glioso romanzo, in continuo aggiornamento, che è la vita.

E io mi sono sempre trovato molto a mio agio in queste situazioni. A-crobata della parola, sono sempre riuscito a saltellare da un discorso all’altro con grande agilità, senza far mai morire la discussione, senza mai far calare l’interesse, senza mai dimenticarmi, nel frattempo, di fermarmi ad ascoltare.

Ecco, credo sia sempre stato questo il mio segreto con le donne. A-scoltarle. Sono sempre stato affascinato da ognuna di loro e mi sono sempre fermato, incantato, ad ascoltare le loro storie, i loro aneddoti, le loro gioie, sofferenze, speranze, problemi, passioni, paure. Tutte così uguali, tutte così diverse.

Comparse più o meno nitide dei miei ventiquattro anni appena com-piuti. Posseditrici autentiche di mille miei ricordi, infestati da labbra, ri-sate, occhi languidi, bottoni slacciati, reggiseni da strappare, passioni improvvise, capelli scompigliati, sedili d’auto troppo stretti. Passeggere, ma mai condottiere, di quella nave del mio cuore che nessuna di loro ha mai saputo far propria.

Nessuna. Tranne una. Ma questa è un’altra storia. Ora, invece, sono con Ottavia e sono davvero curioso di capire quale

ruolo riuscirà a occupare nella mia storia, nella mia vita.

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Il ristorante, comunque, sembra promettere molto bene. Ha scelto dav-vero con ottimo gusto. E poi, non so, da quando siamo arrivati sembra essere migliorata notevolmente. È più rilassata, simpatica, vivace.

Forse aveva paura di fare qualche brutto incontro, chi lo sa? Quando siamo entrati l’ho vista guardarsi intorno con circospezione, per rinasce-re finalmente a nuova vita, solo quando ci hanno portato in questo splendido angolo del dehor, accanto agli altri due unici tavoli vuoti dell’intero locale.

Un paradiso di riservatezza, di eleganza, di profumi che stuzzicano l’appetito. Speriamo solo che la cucina sia poi all’altezza del posto e che quei due tavoli continuino a rimanere vuoti: sarebbe perfetto.

“E così quando sarebbe la tua prossima sfilata?” “A settembre, credo. Per l’estate dovrebbero essere finite.” “Quindi ricapitoliamo, ti stai per laureare in economia, sfili a Milano

per le più grandi firme e stasera sei persino riuscita a uscire con me. E-satto?”

“Beh, sì, a parte quel persino, vedo che la tua memoria è ancora in per-fetta forma.”

Eh beh, grazie. Abbiamo parlato solo di quello per tutto il tempo! Sembra che per lei, al mondo, non esistano altro che passerelle e abitini griffati.

Sto per riaprire la conversazione, quando il cameriere ci porta il vino. È una splendida bottiglia di Bonarda. Lo verso nei due bicchieri, pro-pongo un silenzioso brindisi e poi, con voce impostata, mi metto a fare il verso ai sommeliers.

“Con un profumo misto di spezie, agrumi e violette selvatiche, lascia al palato un lieve ma gustoso retrogusto di cacao, vaniglia e tulipano es-siccato. Da accompagnarsi preferibilmente con carni rosse, formaggi e droghe di qualsiasi genere...”

Ma niente. Lei non ride. Così ne bevo un sorso e cambio immediata-mente registro.

“Beh, dai,” la incoraggio “raccontami qualcos’altro di te.” “Tipo?”

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“Ma non lo so, raccontami qual è la tua favola preferita o di che colore è il tuo pigiamino.”

“Ma che domande sono?” “Le più belle. Sono i dettagli che fanno una persona.” Si ferma un attimo, sorride, poi mi risponde sicura. “Cappuccetto Rosso.” “Come mai?” “Mi ha sempre affascinato la figura del lupo.” “Del lupo? Mi stai prendendo in giro?” “Figurati. Ogni volta mi dispiace da morire quando viene ucciso. Po-

verino. Ma non poteva farsi gli affaracci suoi quell’idiota di un cacciato-re?”

Il lupo. E io che pensavo le ricordasse lo splendido rapporto che aveva con la

nonna o, che ne so, i dolci che le faceva sua mamma da piccola. “E il pigiamino di che colore è?” “Non ho nessun pigiamino. Dormo nuda...” Mmmm... Ecco, questa è già una risposta più carina. “Sì, però ora torna sulla Terra.” “Scusa?” “Frena i bollori. Calma. Sembra tu mi stia radiografando...” Cazzo. Mi ha beccato. “Ma no, figurati. Stavo pensando alla crescita incredibile dell’infla-

zione nell’India sudorientale. Pensa, più del quattro per cento solo nel-l’ultimo anno. Che pensavi?”

Sorrido. Lei no. È una costante ormai. Mi verso un altro bicchiere di vino e ne bevo un sorso. Non è neanche finito il primo tempo e già mi sento sotto di tre gol. La guardo negli occhi, mi soffermo sui capelli, ca-do sul decolté. Devo recuperare, recuperare, recuperare.

Poi, però, succede l’incredibile. Dietro di me sento arrivare delle voci. Mi volto e vedo che è il came-

riere che sta guidando una coppia a uno dei tavoli rimasti vuoti accanto al nostro. Mi rigiro sbuffando - ti pareva che potessimo rimanere in in-

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timità! - ma quando lo faccio, mi ritrovo Ottavia lì, in piedi, appoggiata al tavolo, a un passo dalle mie labbra. E mi bacia.

Così, senza dolcezza, inaspettatamente, con prepotenza, cercando im-mediatamente la mia lingua. Mi bacia che, a momenti, non riesco nean-che a realizzare. Come ho fatto a pareggiare e a portarmi in vantaggio così in fretta?

Decido che non me ne frega niente e, incurante del resto del mondo, comincio a rispondere con veemenza al suo bacio.

Dio, che bello. “E sto stronzo chi è?” Ottavia si stacca di colpo e risponde acida a questa domanda arrivata

dal nulla. “Si chiama Fabio. E stasera è con me. Piuttosto chi è quella puttanella

lì? Tu stasera non dovevi uscire a cena con degli amici?” Frastornato, cerco di dare un volto a questa voce che mi ha appena da-

to dello stronzo e che sembra conoscere Ottavia così bene. Mi giro e ve-do che è il tipo della coppia appena entrata. La ragazza, invece, sembra essere allibita e incapace di reagire più o meno quanto me.

“Di quello che faccio io non te ne deve fregare un cazzo. Sei tu che mi devi dare spiegazioni. Ieri sera mi piangi al telefono, mi fai due coglioni così sul fatto che mi ami, che avresti fatto di tutto per me e stasera ti fai sbattere dal primo che passa?”

Volgare. Fastidioso. Irritante. E io, alzandomi in piedi, lo fotografo velocemente. Più alto di me,

corporatura robusta, capelli fin troppo ingelatinati, e rolex d’oro al pol-so. Odioso solo a guardarlo.

Imbarazzato, il cameriere si defila nell’altra sala, mentre l’altra ragaz-za mi guarda cercando una spiegazione che non riuscirà a trovare. Io, invece, sto fissando piuttosto infastidito Ottavia, mentre mi torna in mente la telefonata inopportuna della sera precedente.

“Certo che posso, Luca. Anzi, usando le tue parole, visto che mi hai scaricato, posso sbattermi chi voglio...”

“Ti sbagli. Non ti permetto di farlo. Tantomeno in quello che era il no-stro ristorante.”

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Ormai stanno urlando, la mia serata se n’è andata a rotoli e io non so neanche come intervenire. So solo che lo sbigottimento si sta trasfor-mando rapidamente in feroce irritazione.

“Ah. Il nostro ristorante... e tu perché puoi venirci con quella troietta bruna? Da quale strada l’hai raccolta?”

Grezza. Pesante. Cattiva. Che mi vergogno io stesso per Ottavia, mentre la situazione precipita

furiosamente. La ragazza dietro di me, infatti, si sveglia improvvisamente dal suo

stato di torpore, prende il mio bicchiere di vino e lo rovescia con violen-za in faccia a Ottavia.

“Ma vaffanculo, brutta stronza...” Mi aspetto una reazione da quel rottweiler biondo con cui sono uscito,

invece vengo sorpreso. È Luca a reagire. Rifilando un sonoro schiaffo alla ragazza.

Ma da quali patatine è uscito questo qua? “E a te chi ti ha detto di intervenire?” Non so perché, ma è la goccia che fa traboccare il vaso. Così, reagisco finalmente d’istinto e parto al volo con un cazzotto in

faccia. Dritto per dritto. Colpendolo tra naso e guancia. Barcolla all’indietro, si porta le mani al volto e quando se le guarda le

trova sporche di sangue. Prova a reagire e a scagliarsi contro di me, ma sbaglia. Tiene la guardia abbassata e io lo colpisco di nuovo. Veloce. In pieno volto. Destro, sinistro, destro. Stavolta cade pesantemente. All’in-dietro, andando a sbattere sul tavolo accanto e facendo rovesciare tutto quanto. Si ritrova disteso a terra tra cocci di piatti e bicchieri.

“Amore, amore, ti sei fatto male?” Mi giro, ed esterrefatto mi fermo a guardare Ottavia che, da infermie-

rina premurosa, si precipita a soccorrerlo. “Amore? Amore? Mi senti?” Come amore? “Ottavia, stai scherzando?”

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“Guarda cosa gli hai fatto brutto stronzo... ma sei completamente idio-ta? Gli avrai rotto il naso... e poi cosa pensavi? Che fossi davvero inte-ressata a te?”

È troppo. Me ne vado incazzato nero. Un cameriere prova a prendermi dal brac-

cio per chiedere spiegazioni, ma me lo scrollo velocemente di dosso. Usato. Ecco cosa sono stato. Usato, usato, usato. È uscita con me solo per fare

ingelosire lui. Era stato tutto calcolato. Tutto. Ecco perché era così infa-stidita quando sono arrivato in ritardo. Perché aveva paura di non poter mettere in atto la sua recita. Paura di non avere il controllo della situa-zione. E io il povero pollo. Che puttana! Mi ha persino baciato. E non gliene fregava nulla di me. Assolutamente niente. Aveva già studiato tutto ieri sera, convinta che tanto non avrei rifiutato un suo invito a usci-re.

Un burattino. Esco dal locale con passo furioso. Raggiungo la macchina, ma prima

di salirci, mi prendo un attimo per buttare, con rabbia, in un cassonetto, quelle inutili rose gialle.

“Ehi, scusa..?” Cosa vogliono adesso? “Scusa, non è che mi daresti un passaggio? Sai, sono rimasta anch’io

improvvisamente a piedi.” Lei. Me l’ero completamente dimenticata. È la ragazza che era uscita con quel cretino e, per la prima volta, mi

fermo a guardarla meglio. Gli occhi verdi, i capelli scuri, il vitino stretto, quei tacchi che la fanno

essere alta almeno quanto me e quel rossore ancora evidente sulla guan-cia sinistra.

“Dai, sali.” Ci sediamo in silenzio e con lo sguardo fisso ci allacciamo le cinture.

Lei ha l’espressione un po’ assente e un paio di lacrime si affacciano al burrone delle sue ciglia.

Page 25: MI SONO INNAMORATO DI TE

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“Grazie, comunque. Grazie per avermi difesa.” “Figurati.” Respiro profondamente per scaricare un po’ di rabbia, mi tolgo il por-

tafoglio dalla tasca, poi mi giro verso di lei. Ci fissiamo per un attimo. “Ma con chi cavolo siamo usciti?” Scuotiamo la testa, ci guardiamo ancora un momento e poi, improvvi-

samente, succede. Che scoppiamo a ridere.