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A. Cortesi (ed.), EUROPA IN DISCUSSIONE, Collana: Sul confine, Fi, Nerbini, 2015
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Mediterraneo-Europa: uno sguardo al futuro nei rivolgimenti del presente dall'osservatorio turco

Apr 10, 2023

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A. Cortesi (ed.), EUROPA IN DISCUSSIONE, Collana: Sul confine, Fi, Nerbini, 2015

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Claudio Monge

Mediterraneo-Europa:

uno sguardo al futuro nei rivolgimenti del presente dall’osservatorio turco

Al momento dello scoppio della cosiddetta « Primavera Araba » nel 2011

(data relativamente recente che, tuttavia, sembra così lontana nel tempo in

questa fase di drammatici rivolgimenti regionali a sud del Mediterraneo) da

molte parti si evocò l’idea di un “modello turco”. La Turchia di “auto-

proponeva” come un riferimento per società che per la prima volta declinavano

nelle loro rivendicazioni di piazza delle aspirazioni inedite alla dignità prima

ancora che alla democrazia, ad un futuro da costruire contro un presente

sempre e solo da ricevere come gentile concessione di poteri forti e

paternalistici. Fin dall’inizio era lecito sospettare che la ragione di tanta

ammirazione non fosse tanto da ricercarsi nel modello politico-sociale proposto

dal quasi decennale potere di Tayyip Erdoğan quanto in un certo sviluppo

economico, evidentemente compatibile con i valori islamici di ispirazione del

partito AKP (dal turco Adalet ve Kalkınma Partisi), ovvero Partito per la giustizia

e lo sviluppo.

In effetti, Ankara, dopo aver rilanciato e rafforzato le relazioni economiche,

politiche e culturali con degli stati arabi, ancora dominati da regimi autoritari, è

stata costretta a mettere alla prova la tenuta della sua politica dello “zero

problemi con i vicini”, di fronte a paesi ormai desiderosi di cambiamento e di

riforme. Ma alla modernizzazione rapidissima delle strutture produttive e

all’incremento di capitali stranieri nel paese, vere colonne portanti del rilancio

economico turco, ha fatto da contraltare una visione del potere interno e dei

rapporti internazionali sempre meno democratica e moderata ma più populista

e autoritaria: un modello battezzato come “neo-ottomano”.

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Il declino del “modello turco”

Il teorico del “modello ottomano” è Ahmet Davutoğlu, professore universita-

rio in Relazioni Internazionali, che nel 2009 diventa ministro degli esteri del Go-

verno Erdoğan. Alla base della sua politica l’obiettivo di liberare la Turchia da

una posizione regionale che tra la fine della seconda guerra mondiale all’inizio

della guerra fredda è stata caratterizzata più che altro dall’immobilismo. Gli

esperti in materia evidenziano tre elementi basilari della nuova dottrina strate-

gica: 1) rivedere le alleanze tradizionali aprendo canali di cooperazione e colla-

borazione con le nuove potenze emergenti (Cina, Russia, Iran, India e Brasile),

per allentare la dipendenza dall’Occidente ed inaugurare collaborazioni più

congeniali agli interessi nazionali; 2) ri-dinamizzare lo spazio geografico ex-

ottomano per concentrarvi risorse e progetti per una maggiore influenza politi-

ca, economica e culturale (in Medio Oriente, si guarda in particolar modo a Si-

ria, Iran e Iraq); 3) allargare l’influenza turca aldilà dello spazio ex-ottomano,

per esportare il modello economico e politico turco nel mondo islamico (rinvigo-

rendo i legami con paesi come l’Afghanistan, l’Indonesia e il Pakistan). Questo

terzo elemento, che comprende come aree d’interesse sia il Medio Oriente sia

l’Asia Centrale, punta all’espansione in queste regioni di un vero e proprio mo-

dello di sviluppo economico e politico. I vettori di questo progetto sono: gli uo-

mini d’affari turchi, la formazione scolastica, la costruzione d'infrastrutture e

l’operosità di diverse ONG nazionali1. A livello più strettamente diplomatico, An-

kara, scegliendo una diplomazia pro-attiva2, ha come obiettivo di diventare un

attore capace di mediare tra le parti in conflitto, promettendo di puntare sul

rafforzamento dell’interdipendenza economica ma, parimenti, della pluralità e

della coesistenza culturale.

Ma gli sconvolgimenti, testé evocati, della “Primavera araba” cambiano ra-

dicalmente le carte in tavola e, fin dalla caduta del regime libico di Gheddafi,

Ankara, temendo un pericoloso isolamento regionale e la frattura con i suoi sto-

1 Cfr. Giancarlo Casà, Profondità strategica e Zero-Problemi nell’instabile labirinto mediorientale, fonte http://www.-geopolitica-rivista.org/, consultata l’11 agosto 2014.2 Si stratta di un inglesismo passato ormai nel vocabolario politico strategico, che fa riferimento ad un modo di creare ocontrollare una situazione facendo in modo che accada più che reagendo dopo che essa è accaduta.

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rici alleati, è costretta a sostenere l’intervento esterno Occidentale nell’ex-colo-

nia italiana, sacrificando i suoi interessi strategici sulla Libia e contravvenendo

al proprio impegno di non intromettersi negli affari interni di un altro paese, nel

rispetto della sua sovranità. Ma non è che l’inizio di uno sconvolgimento di

stratege in politica estera, perché la crisi siriana è un ulteriore elemento di frat-

tura, un duro colpo alla risoluzione delle questioni pendenti tra Siria e Turchia.

Tra quest’ultime non si può dimenticare la questione curda e la contesa sulle ri-

sorse idriche e territoriali. Da questo momento in poi, gli errori strategici di An-

kara diventano talvolta pesanti. Le relazioni turco-siriane, dopo l’abbandono da

parte di Ankara della via diplomatica e il conseguente appoggio logistico e

umanitario fornito alla popolazione e ai ribelli, subiscono un graduale e perico-

loso deterioramento, anche per l’inattesa resistenza dell’ex-amico Bachar al-

Assad, unita alle infiltrazioni fondamentaliste estreme nel campo dell’opposizio-

ne al suo regime. Spesso e volentieri per rimediare a un errore se ne fanno al-

tri. Tale può essere definita la speranza turca di creare una Siria democratica,

dominata dai sunniti in chiave anti-Iran, incoraggiando la creazione di un asse

islamico moderato comprendente la Turchia, la Siria e l’Egitto di Morsi (anche

nella speranza di scongiurare un’escalation della frammentazione e della vio-

lenza, con il rischio di un acutizzarsi della crisi curda stessa).

Verso la fine del 2012 si assiste a un riavvicinamento della diplomazia di

Ankara, all’Unione Europea e alla NATO, con l’obiettivo primario di proteggere il

territorio turco lungo il confine con la Siria. Ma il quadro regionale peggiora di

giorno in giorno. Da un lato, il fallimento delle trattative con l’Armenia, arenate-

si sul riconoscimento delle responsabilità storiche sulla vicenda dell’eccidio de-

gli Armeni; dall’altro, i rapporti sempre più tesi con Israele, un tempo storico al-

leato di questo anomalo paese islamico; senza dimenticare, le tensioni con la

Bulgaria e la Grecia per il flusso continuo di immigrati clandestini lasciati passa-

re verso i confini turchi senza alcun filtro di sorta e, gli appena evocati rapporti

incandescenti con la Siria; dulcis in fundo, arriva pure lo scontro con l’Egitto dei

militari. Il declassamento dell’ambasciata egiziana ad Ankara a semplice sede

di un incaricato d’affari (stesso destino per la sede diplomatica turca al Cairo),

è il risultato della rottura diplomatica tra i due paesi a causa del presunto so-

stegno di Ankara ai Fratelli Musulmani e al loro neo-eletto presidente, Mohamed

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Morsi, deposto ed incarcerato dalla giunta militare. Insomma, le profonde ten-

sioni regionali unite a una sequela di infortuni diplomatici, portano alla precoce

fine di una stagione che avrebbe dovuto consacrare Ankara come un faro an-

che nel mondo arabo. Invece, il paradosso di questi ultimi mesi è che la Turchia

rischia di pagare un prezzo altissimo alla stessa deriva jihadista, infiltratasi e

propagatasi a partire dalle file dei miliziani sunniti (proprio come la maggio-

ranza dei turchi) armati, anche dal Governo di Ankara, in chiave anti Assad. In-

somma, la strategia turca che puntava ad un’entrata in guerra contro Dama-

sco, con l’intento di rompere l’asse sciita tra Siria ed Iran, non solo è naufra-

gata in pochi anni, ma ha notevolmente aumentato l’instabilità della regione3!

L’ultimo paradosso di questa intricatissima situazione alle frontiere della

Turchia, è rappresentato dal fatto che, fin dall’estate 2014, l’unica zona sicura

nel settentrione irakeno è diventata il Kurdistan, dove i celebri peshmerga han-

no finora relativamente arginato le infiltrazioni dell’orda integralista dei milizia-

ni dell’ISIL (Stato islamico dell’Iraq e del Levante), sostituendosi ad un impotente

esercito regolare iracheno. Dunque, la guerriglia curda, che è stata per decenni

una vera e propria spina nel fianco del governo di Ankara e del suo esercito, di-

venta ora un baluardo irrinunciabile per l’Occidente. Ma Ankara continua a esi-

tare molto a sostenere con armi e appoggio logistico quel fronte

paradossalmente ora necessario a proteggere le sempre più fragili frontiere

meridionali del paese.

Una lenta metamorfosi interna del potere

Per uno sguardo più complessivo all’evoluzione del progetto politico turco

degli ultimi anni, bisognerebbe studiare con molta attenzione anche i lenti

cambiamenti interni che l’appena citata annaspante politica estera non può

certo far passare in secondo piano. L’ultimo anno e mezzo si è in realtà

rivelato, anche all’interno dei confini nazionali, estremamente complicato per

il primo Ministro turco e per i suoi più stretti collaboratori. Frequenti

3 Visti i risultati della politica estera turca degli ultimi mesi, c’è già chi si è affrettato a sostituire la famosa espressione“zero problemi con i vicini” con quella “tanti problemi con tutti i vicini”, o addirittura con quest’altra: “zero vicini”,prospettando una più realistica strategia in politica estera, all’insegna della “preziosa solitudine” che richiama da vicinolo “splendido isolamento” britannico della fine del XIX secolo…

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“sospensioni” dello stato di diritto (dal momento che la legge diventa un

ostacolo, la si cambia con leggi ad personam), i tradizionali organi di controllo

resi inoffensivi o chiaramente spazzati via, una stretta mai vista prima a livello

di libertà di stampa e di opinione in genere (la Turchia ridiscende al 154 posto

su 180, nella classifica di Reporters sans frontières, ma molti cittadini comuni

perdono il loro lavoro per il semplice fatto di essersi dimostrati solidali con le

ragioni di una protesta crescente), smantellamento dell’esercito e creazione di

uno Stato di Polizia, con metodi spesso violenti e mezzi sproporzionati alle

effettive necessità… Ecco alcuni dei rilievi più frequenti, fatti al Governo AKP

all’interno e all’esterno del paese, al quale si deve aggiungere una clamorosa

inchiesta per corruzione e malversazioni finanziarie che tocca lo stretto

entourage governativo e familiare dell’ex Primo Ministro e ora neo Presidente

(dopo aver “promosso” Davutoğlu a Primo Ministro: insomma, gestione

“diciamo familiare” anche delle più alte cariche dello Stato) .

Che cosa è rimasto della famosa campagna di promozione del pluralismo

politico e religioso della quale Tayyip Erdoğan si era reso protagonista nei suoi

ripetuti viaggi nel mondo arabo, per incitare, alla vigilia della famosa

“Primavera araba”, quei paesi in ebollizione a scegliere la via della

“Democrazia laica”? Per poter rispondere a questa domanda, bisogna precisare

che Erdoğan aveva già offerto, da Primo Ministro, una rilettura estremamente

personale del concetto di laicità, intendendola più come equidistanza rispetto

alle diverse credenze che non come vera e propria separazione tra religione e

stato. Una interpretazione del potere in continuità con quella della tradizione

ottomana: evitare il più possibile gli scontri confessionali senza però negare la

convinzione che un individuo non può essere secolare come lo dovrebbero

essere invece gli Stati. Questa convinzione, che ha il merito di puntare il dito

contro una falsa idea di laicità che pretenderebbe di relegare le appartenenze e

le espressioni religiose alla sola sfera privata, negandone così la rilevanza

sociale, è, col passare dei mesi, in qualche modo un po’ sconfessata dal

comportamento di Erdoğan stesso. La pretesa del partito islamico moderato

AKP di ispirare idealmente un progetto politico che, tuttavia, coinvolga

democraticamente soggetti che fanno riferimento anche ad altri valori, a

distanza di dieci anni, sembra essere clamorosamente contraddetta dalla realtà

dei fatti. Il neo-presidente turco, messo con le spalle al muro dai limiti, appena

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evidenziati, della politica estera del suo governo e dalle molte nubi addensatesi

sul suo operato interno, inizia a far leva proprio sul fattore religioso per

puntellare il suo potere sempre più contestato. È una nuova riedizione dello

stato del “consenso obbligatorio” su basi fortemente nazionalistiche e

identitarie. In altre parole, si tratta della versione “alla turca” del populismo

politico, attualmente molto diffuso al cuore stesso delle cosiddette democrazie

europee. In sostanza, si entra in una “guerra non-convenzionale” mossa a

chiunque osi dissentire o chiedere dei conti a chi gestisce la cosa pubblica

(atteggiamento che in democrazia dovrebbe naturalmente prolungare la

responsabilità civica che si esprime, prima di tutto, con un voto che non può

mai essere una “delega illimitata”), dove la polizia, in permanente assetto di

guerra, rimpiazza, all’interno del paese il vecchio esercito che,

tradizionalmente, conduceva le guerre contro i nemici esterni al paese. Ma il

vero paradosso è che lo smantellamento del vecchio autoritarismo laico

kemalista, comporta l’instaurazione di un nuovo autoritarismo che coniuga un

ultra-liberalismo economico, distruttore della convivenza urbana, della natura e

dell’ambiente, con il “bio-potere liberale”. Con quest’ultimo termine Foucault

descriveva un potere sovrano che non si impone solo sui soggetti in quanto

detentori di diritti, ma sulla vita stessa delle persone4. Il capo politico diventa

una sorta di pater della nazione, animatore di una “società disciplinare”, nella

quale, cioè, il controllo sociale viene costruito attraverso una rete ramificata di

dispositivi che orientano e producono costumi, abitudini e pratiche. In altri

termini, è il tentativo d’imporre una morale, un modo di vita conforme a una

visione del mondo “islamicamente corretta” (un islam debitamente adattato

alle proprie necessità, ma che funge ancora da riferimento autoritativo e

rassicurante per una buona parte dell’elettorato anatolico di base). Non

bisognerà dunque più stupirsi se le più alte cariche dello Stato si esprimono

pubblicamente contro l’aborto, contro pratiche definite come scandalose (quali

il consumo dell’alcool o l’esistenza di collegi universitari misti), fino ad arrivare

a fustigare le donne per il loro riso sguaiato in luoghi pubblici! In piena

campagna di “moralizzazione dei costumi pubblici” del turco medio, si profilano

le prime clamorose denunce di un sistema di corruzione governativa di

4 Chignola, S., Il concetto di biopolitica in Foucault, fonte:http://www.treccani.it/scuola/lezioni/in_aula/scienze_umane_e_sociali/foucault/2.html, consultato il 23/22/2014.

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proporzioni mai viste: una vera e propria deflagrazione! Naturalmente, la

reazione dei vertici politici “moralizzatori”, dopo un primo tentativo frettoloso di

ridurre l’effetto macchia d’olio dell’inchiesta in corso con le rapide dimissioni di

alcuni ministri e dirigenti “indifendibili”, sarà quella del muro contro muro: un

attacco frontale ai più alti organi di controllo dello Stato (soprattutto la

magistratura) accusati di incarnare il complotto ordito dai nemici della nazione,

che sono identificati come tali all’interno così come all’esterno di essa.

Riflessi mediterranei delle evoluzioni turche

La colpa più grave di questi nemici della nazione è quella di spezzare un

sogno, di rallentare la corsa del Paese verso una nuova “età adulta” nel

concerto delle potenze mondiali. È la fine degli anni dell’anonimato sulla scena

mondiale, è la fine, almeno dichiarata, dell’infeudazione alla grande potenza

americana e, soprattutto, è il punto finale dei diktat umilianti dell’Unione

Europea che ha rifiutato di prendere sul serio gli sforzi fatti dal paese sulla

strada di quelle riforme considerate indispensabili all’integrazione. È la storia di

una fierezza identitaria ritrovata, grazie all’uomo del popolo, quel Tayyip

Erdoğan che ha pazientemente scalato i livelli del potere ma che non ha mai

dimenticato le sue umili origini. Ritorna il mito della “Grande Turchia”, quella

che assume pienamente la sua storia (compresa, anzi soprattutto quella

ottomana), la sua diversità, la sua missione unica e non trasferibile, al cuore di

un Medio - oriente in fermento. Il rischio è però quello di scimmiottare

solamente il passato ottomano, perdendo di vista quella “universalità nella

diversità” che aveva fatto la forza di quest’ultimo, e imboccando gli angusti

cammini di una visione autoritaria del potere e esclusivistica dell’identità.

Entrambe queste prospettive sono fondate sulla polarizzazione tra visione laica

e visione religiosa della società. Questa tendenza alla polarizzazione, che è

generalizzata su scala planetaria, si forgia in Turchia come reazione a

un’ossessiva percezione delle minacce esterne e su una cultura della violenza,

come se l’identità turca non potesse esprimersi se non attraverso

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un’opposizione radicale5. Tutto questo è, in fondo, l’espressione di uno stato

ancora adolescenziale della democrazia e di un rapporto non riconciliato con la

propria storia: il credere che l’identità sia qualcosa da difendere piuttosto che

da costruire con pazienza e interagendo con l’altro da te.

Il paradosso, è che proprio questo modo di pensare rende la Turchia

estremamente vicina all’Europa e alla sua cultura. Forse abbiamo dimenticato

che la nozione d’identità europea nasce al tempo della conquista araba della

Spagna bizantina? Si tratta in realtà di un’identità per contrapposizione alla

«diversità» arabo-mussulmana e avente, per la prima volta, un connotato

politico6. Riproducendo esattamente lo stesso modello, nel XVI secolo saranno

proprio i Turchi a sostituire gli Arabi come simbolo di quest’alterità irriducibile

che rafforza “un’identità europea per contrasto”: identità legittimata dalla

vittoria contro la flotta ottomana a Lepanto (1571), alle porte di Vienna. E un

po’ come se l’Europa dicesse di sé: “Non so chi io sia in verità ma percepisco

distintamente quello che non sono!”

I turchi, dal canto loro, al momento del crollo definitivo dell’Impero

ottomano, entrano in una ricerca identitaria che continua ai nostri giorni e che

ha molto ispirato una parte importante della letteratura turca contemporanea.

Oran Pamuk, premio Nobel della Letteratura nel 2006, ha fatto di questo tema

un cardine dalla sua produzione, fin dai suoi primi romanzi. In una piccola

novella di Kara Kitap (« Il Libro Nero »)7, racconta la storia di un certo Hoca

5 C’è un’immagine simbolica di quanto detto, rappresentata dal vecchio centro culturale e teatro Atatürk, sulla piazza diTaksim ad Istanbul che, fin dai tempi delle proteste nel confinante parco Gezi, è stato “rubato” alla cultura e all’arte, perdiventare il presidio permanente delle truppe di polizia d’assalto che controllano minacciose la piazza e le vie circostan-ti. 6 La battaglia di Poitiers (732 d. C.), nella quale Carlo Martello arresta le truppe arabe di Abd al-Rahman, segna l’iniziodi una contrapposizione insieme geografica, etnica, culturale anche se non ancora religiosa tra due mondi. I Saracenisono considerati, infatti, degli invasori ma non un pericolo per la cristianità perché l’islam non è ancora configuratocome cultura antagonista (si parla all’epoca ancora solo di «eresia cristiana» sulla scorta degli scritti di Giovanni Dama-sceno). Sarà solo al tempo della letteraria Roncisvalle che nascerà il mito religioso dell’«infedele» da combattere conogni mezzo. Questa sensibilità si era radicata fin dai tempi di Carlomagno, benedetto ed incoronato imperatore da PapaLeone III. Nasceva così la santa alleanza tra il politico e il religioso (con conseguente inizio della lotta per il primato trapotere spirituale e temporale) e, con essa, la tendenza a identificare la Christianitas (occidentale, cioè cattolica latina)all’Europa. Quest’ultimo termine verrà praticamente assorbito dal primo, con la progressiva trasformazione del Medi-terraneo da Mare Nostrum, cuore della mitica pax romana, a una sorta di «Mare di nessuno»: baluardo fra «noi» e gli«altri», diversi, minacciosi, incompatibili con la nostra cultura e i nostri valori (cfr. Monge, C., « Il Mediterraneo: il vec-chio cuore di un’Europa a geometria variabile », in Cortesi-Tarquini (ed.) Mediterraneo crocevia di popoli e religioni,Firenze, Nerbini, 2009, pp. 27-46).7 Can Yayınları, 1990 (tr. It. Frassinelli 1996).

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Bedii, un falegname specializzato in manichini di legno, che lavora in un

laboratorio dei bassifondi di Istanbul, alla fine del XIX secolo. Volendo

rappresentare il “tipo turco”, si mette a studiare i gesti quotidiani della gente

che incontra per strada, per sintetizzarli in vere opere d’arte. Ma nessuno

accetta i suoi manichini: l’autorità religiosa li considera un empio tentativo

d’imitazione della creazione, opera solo di Allah; i politici non sanno che

farsene e neppure i commercianti delle boutique più eleganti dell’Istiklal

Caddesi (la grande via commerciale della Istanbul europea) li vogliono perché,

sull’onda della modernizzazione, preferiscono ormai esporre capi

d’abbigliamento ispirati alla moda occidentale. Ma per esporre tali capi

occorrono manichini che non riproducano il “tipo turco culo basso”, ma il “tipo

occidentale” perché, spiegano i commercianti, i turchi ormai non vogliono più

essere turchi, ma qualcosa di diverso. E cosi Hoca Bedii va incontro al suo

fallimento. Persevera per alcuni anni, insistendo nel coltivare il suo “sogno di

autenticità”, ma alla fine deve arrendersi perché il bisogno di mangiare è

troppo grande. Finalmente, i manichini tradizionali, svenduti ad un negoziante,

sono fatti a pezzi per ricavarne gambe, braccia, mani e piedi utili ad esporre

ombrelli, calze, guanti, stivali e scarpe di stile occidentale. Interi non erano

utilizzabili, perché rappresentavano una identità che la gente voleva

dimenticare.

Questa novella è una parabola sul destino dell’identità turca che, come

tutte le identità, mediorientali in particolare, è in bilico tra modernità e

tradizione. Nella frammentazione del corpo dei manichini di Hoca Bedii c’è la

metafora di un popolo, di una terra da sempre multi etnica e multiculturale,

crocevia fantastico della storia mondiale… un’eredità però pesante! Quando si

vive tra un passato che non è più ed un futuro che non è ancora, diventa

difficilissimo sentirsi a casa e la ricerca radicale di un’identità diventa una vera

e propria prova esistenziale. Il turco medio, che è difficile oramai da identificare

persino da un punto di vista somatico, è alla ricerca di una nuova

rappresentazione di sé, preso tra il desiderio di essere come un altro e la

nostalgia di essere se stesso.

È il caso, allora, di far proprie le domande di un altro scrittore, il franco-

libanese Amin Maalouf, che si chiede come mai sia così difficile assumere, in

tutta libertà, le proprie diverse appartenenze. O perché si debba, nel terzo

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millennio, ancora accompagnare l’affermazione di sé ad una negazione

dell’altro da sé.

Governare la globalizzazione

In fondo, il destino di tutto il Mediterraneo è decisamente analogo a quello

della Turchia. In entrambi i casi, ritroviamo una visione spesso dicotomica della

storia e del mondo che mette a confronto, nel caso della Turchia un passato

remoto (ottomano) dove la diversità era in qualche modo una ricchezza, e un

passato prossimo (repubblicano) in cui l’artificiale nuova identità nazionale

deve in qualche modo evacuare le differenze come una minaccia; oppure, nel

caso del Mediterraneo, l’opposizione tra la funzione che questo mare può

svolgere in quanto ‘ponte’ che unisce due sponde e quella di ‘muro’ che le

separa. Nel caso della Turchia, come in quello del Mediterraneo, il tentativo di

adattare dei parametri di valutazione in qualche modo esigui ed insufficienti è,

non solo, penalizzante ma mistificatorio. Il Mediterraneo è stato più volte

tradito nella storia: quando ci si è accostati ad esso da punti di vista solo

eurocentrici, che lo consideravano esclusivamente come creazione latina,

romana o romanza, osservandolo da un punto di vista panellenico o panarabo o

sionistico, o ancora giudicandolo dalla posizione di qualsivoglia particolarismo,

etnico, religioso o politico. L’immagine del Mediterraneo è stata deformata da

fanatici tribuni o da esegeti faziosi, da studiosi senza convinzioni o da

predicatori senza fede. Stati e religioni, governanti e prelati, legislatori secolari

e spirituali hanno diviso in tutti i modi questo spazio e la gente che lo abita.

D’altro canto, continuando il nostro parallelo, il passaggio dell’Impero

ottomano alla Turchia moderna, ha comportato un’operazione di riduzionismo

spesso molto simile a quello inflitta all’idea di Mediterraneo ma, tuttavia,

dettato da un pragmatismo politico in molti casi necessario. L’élite politica

ottomana nutriva una radicale avversità al principio di nazionalità8, espressione

della profonda convinzione che la sola possibilità di sopravvivenza dello Stato

ottomano, ovvero di una realtà istituzionale e militare in grado di fungere da8 Quest’avversità si esprimeva, tra l’altro, in una classe dirigente completamente eterogenea quanto ad appartenenza et -nica e confessionale il cui reclutamento veniva appunto intrapreso indipendentemente dall’origine etnica e confessiona-le.

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degno avversario alle ambizioni coloniali europee, era quella di non cedere alle

emergenze nazionali, puntando piuttosto sulla valorizzazione del proprio

intrinseco carattere sovranazionale; « …alcuni giuristi ottomani elaborarono

perfino ipotesi di evoluzione confederativa dell’Impero, che tuttavia persero di

plausibilità man mano che le incombenze militari, sempre più pressanti,

imponevano una centralizzazione dei poteri e un appesantimento del carico

fiscale gravante sulle province9. » Questa progressiva implosione finanziaria,

prima che militare, dell’Impero, con l’aumentare esponenziale di movimenti

centrifughi, rappresentò l’inizio della fine. Fine però che Mustafa Kemal non

attese passivamente, ma anticipò inaugurando una nuova pagina di storia

turca su base rigorosamente nazionale e nazionalista: un’identità che ha

preteso di forgiare da zero, in modo decisamente artificiale e con i limiti che

abbiamo già brevemente illustrato. Il progetto kemalista non rappresentava

solo della fine dell’era degli Imperi transnazionali e multiculturali, ma costituiva

un tentativo autoritario di imposizione del “pensiero unico” francamente

contro-natura in una terra da sempre crocevia di culture e riferimenti

estremamente eterogenei.

Ma non è meno “avvilente”, nei confronti di quasi due millenni di storia

turca-ottomana, l’attuale interpretazione paternalistico - autoritaria del potere

di Ankara, che pur fingendo di voler riannodare col passato imperiale, sembra

totalmente ignorarne la diversità delle culture e delle aspirazioni che in esso si

esprimevano, e che ancora provano ad esprimersi all’interno delle frontiere

anatoliche di un Paese, residuo dell’immenso Impero ottomano che fu. Certo,

l’abbiamo già sottolineato: si tratta di “un’eredità pesante”, non facile da

portare nel presente. Spesso e volentieri, come occidentali, fatichiamo a capire

che un certo rifiuto di frugare nella memoria storica non è semplice

negazionismo ma frutto della paura di rimettere il dito nella piaga di un passato

troppo diverso e complesso per poter costituire una base solida sulla quale

costruire un futuro riconciliato nell’ambito degli orizzonti propri di uno stato-

nazione …

Il problema è che, di questo passo, la Turchia rischia (come del resto molti

altri paesi della regione) di essere condannata a vivere in uno stato

9 Costantini, V., « Caratteri originali dell’ecumenismo ottomano », in Semantiche dell’Impero, Atti del Convegno dellaFacoltà di Lingue e Letterature Straniere, Scripta Web, Napoli 2009, fonte:http://arca.unive.it/bitstream/10278/21552/1/semantiche-301209.pdf . pp. 261-269 (263).

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permanente di tensione, esposta allo scatenarsi anche improvviso della

violenza, per la sola ragione che gli esseri umani chiamati a vivere uno accanto

all’altro non hanno tutti la stessa religione, lo stesso colore della pelle, la stessa

cultura d’origine e di riferimento.

Ci sarà una sorta di “legge della natura” che condanna gli uomini ad

uccidersi tra di loro in nome della loro identità? È necessario lottare contro

questa fatalità; è necessario poter pensare allo spazio Mediterraneo come ad

un nuovo spazio di incontro dove la non belligeranza non sia il semplice

risultato di una egemonia indiscutibile, come ai tempi della famosa “pax

romana” o “pax augustea” : la tregua forzata che seguiva un secolo di bagni di

sangue perpetui e di tremende invasioni.

Alla riscoperta di un “umanesimo mediterraneo”

In realtà, esiste una “identità mediterranea” che può fare da comune

denominatore delle sue genti10, così come ci sono punti di tangenza tra le

diverse anime che la Turchia repubblicana ha ereditato dalla storia ottomana.

Bisogna però ricostruire insieme una “memoria collettiva” che faccia

riferimento al concetto di “umanesimo mediterraneo”, che abbraccia

contemporaneamente la Magna Grecia e l’Islam, Cartagine e la Giudea con i

Latini11. L’idea di umanesimo mediterraneo sta alla base della conciliazione tra

queste identità diverse, contro quelle dottrine che dividono gli uomini e i

popoli: del resto il Mare Nostrum è sempre stato un “mare di mezzo”. È un’idea,

questa, che ha avuto una grande influenza nella costituzione dello “spirito

europeo” o dell’Europa storica e che deve essere alla base della ricostruzione di

una memoria collettiva, appunto.

10 Il fatto che, nell’area non manchino né elementi unificanti né conflittuali, significa che solo una valutazione dientrambi può offrire una visione completa delle relazioni inter-statali e sociali che intercorrono nel Mediterraneo.11 Il Mediterraneo non è mai stato più esclusivamente latino di quanto sia stato semitico. Non più cristiano che pagano.Non più giudaico che saraceno. Come ricorda Stefania Panebianco : « La civiltà mediterranea del passato si è sviluppatagrazie agli scambi sul piano culturale, sociale e politico. La storia dell’antica Grecia e dell'antica Roma offre numerosiesempi di flussi culturali oltreché commerciali. L’'aumento dei trasporti e delle comunicazioni dell'era ellenica favorì imovimenti migratori e permise un'elevata mobilità territoriale che, mettendo in contatto comunità distanti, incentivò lacircolazione di idee e scoperte culturali tra le comunità » (Panebianco, S., « Sfide e prospettive per un'identitàmediterranea "plurale"», in Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, fonteweb: http://www.juragentium.org/topics/med/it/panebian.htm, consultata il 21/10/2014..

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Certo, è lecito chiedersi che cos’è rimasto della civiltà mediterranea del

passato? Tra le maggiori eredità comuni delle civiltà sviluppatesi nel Mediterra-

neo come non citare: sul piano intellettuale, la logica e la ragione della filosofia

greca, su quello politico, il diritto e la forma politico-territoriale dell’impero ro-

mano, su quello spirituale, le religioni monoteistiche fondate sui testi sacri della

Bibbia, dei Vangeli e del Corano. Una visione unitaria del Mediterraneo deriva

anche da osservazioni di tipo geografico. La definizione di Mediterraneo come

regione si basa, infatti, su caratteri comuni come la diffusione di colture tipiche

come la vite, l’ulivo e gli agrumi o il clima particolarmente mite.

Ma tutto non è così netto e armonioso. Accanto all’unità storico-culturale e

geografica, vi sono numerosi fattori di divisione che segnano il Mediterraneo.

Dal punto di vista politico, ad esempio, nel bacino del Mediterraneo oggi si

sono sviluppati modelli estremamente diversi: le democrazie liberali compiute,

i regimi più o meno autocratici o i regimi in transizione. La religione, l’abbiamo

detto, è un elemento importante che distingue e caratterizza il Mediterraneo,

che è la culla delle religioni abrahamitiche (l’Ebraismo, il Cristianesimo e

l’Islam), ma in realtà la storia ha visto ripetutamente le religioni alimentare le

guerre (come ad esempio la guerra di Bosnia) sfatando il falso mito della reli-

gione come fattore unificante. Inoltre, la laicità dello Stato, lo abbiamo ampia-

mente illustrato nella prima parte di questo contributo, non si è affermata in

ugual misura in tutti i paesi del Mediterraneo e, soprattutto, comporta delle in-

terpretazioni divergenti, talvolta ambigue. Se nella visione classica dei paesi

arabi, l’Islam regola la vita pubblica e privata in toto e contesta la modernità

che separa le due sfere e attribuisce alla dimensione religiosa una valenza me-

ramente intimistica e personale, in alcuni paesi come la neo-repubblica turca,

si sono cercati dei compromessi tra queste due sfere. Sul piano economico, poi,

i paesi del Mediterraneo sono interessati da forti disparità di sviluppo che, per

altro, non comporta solo più un Nord ricco ed un Sud necessariamente povero.

Vanno anche aggiunti gli stereotipi ancora diffusi esistenti tra i popoli del Medi-

terraneo, che alimentano incomprensioni e intolleranza; l’occidente viene spes-

so demonizzato per i valori materiali che incarna e diffonde attraverso politiche

ritenute “neo-imperialiste”, mentre nei paesi europei l’Islam è visto talvolta

come un pericolo ed una minaccia alla stabilità del mondo occidentale. In que-

sto quadro, il Mediterraneo certamente non appare come un “lago di pace”.

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Tuttavia, è ormai chiara la consapevolezza di una certa crisi dello stato-

nazione. Questa crisi è accelerata dal fenomeno della globalizzazione che com-

porta un attacco frontale alle nozioni di “territorialità” e “sovranità” e, conse-

guentemente, ad un vero e proprio svuotamento dello Stato o comunque ad

una dispersione dei suoi poteri, i quali vengono ceduti a nuovi attori della politi-

ca internazionale. Ora, la crisi dello stato nazione ripropone la necessità di nuo-

ve strategie di cooperazione multilaterale. Insomma, l’esatto contrario della po-

litica suicida di perfetto isolamento recentemente adottata dal governo di An-

kara, che pare di per ciò stesso totalmente anacronistica. Intanto, gli stati non

solo non possiedono gli strumenti per risolvere autonomamente questioni spi-

nose come il degrado ambientale, la scarsità delle risorse naturali come

l’acqua, la sperequazione della distribuzione della ricchezza, lo sviluppo econo-

mico fortemente diseguale, la crescita demografica incontrollata che alimenta i

flussi migratori, questi sì, dalla costa meridionale a quella settentrionale del

Mediterraneo, ma non sono più neppure gli unici protagonisti delle relazioni in-

ternazionali. In molti casi vengono affiancati da ONG, da organizzazioni interna-

zionali, da attori transnazionali rappresentanti della società civile, che avviano

rapporti di cooperazione creando specifiche reti tematiche e forum di dialogo.

Questo tipo di cooperazione multilaterale, basata su una comunicazione diret-

ta, permette di migliorare la conoscenza reciproca e stimolare l’integrazione re-

gionale politica, economica e culturale. È l’esperienza formidabile vissuta dalla

Turchia nei mesi del sit-in iniziato nel parco di Gezi, ad Istanbul, nel maggio-giu-

gno 2013. In questa inedita e talvolta rinnovata circolazione della parola e delle

esperienze, si esprime una esigenza fondamentale, che ripropone la necessità

di affermare un “umanesimo mediterraneo”, un Mediterraneo “plurale” basato

su comuni interessi e comuni origini, in cui le diverse tradizioni culturali vanno

intese come fonte di arricchimento reciproco e rispettate nella loro altérità.

«Una sintesi tra unità e diversità, tra cooperazione e conflitto, in sostanza un

compromesso tra il rispetto delle diverse tradizioni culturali e la valorizzazione

delle origini comuni permette di analizzare i processi di cooperazione regionale

che si prefiggono come obiettivo di lungo periodo la costruzione di una comuni-

tà di sicurezza nel Mediterraneo legata a un’identità mediterranea, senza mini-

mizzare le difficoltà che questo processo incontra»12.

12 Panebianco, S., cit.

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Tra queste ultime, ne citiamo una particolarmente importante in questo mo-

mento: la difficoltà di passare a una fase davvero politica, nel senso nobile del

termine, traducendo questi fermenti di partecipazione sociale in veri e propri

progetti che ridiano una nuova forma al “vivere comune”, dove “l’utile” sia rim-

piazzato dal “sostenibile” e dove, alla crisi dello Stato tradizionale, si risponda

con una “nuova governabilità” che non rinunci ad orientare i fenomeni globali,

per un vero progresso che non sia solo quello di un’infima minoranza13. Insom-

ma, la grande sfida mediterranea, e non solo, è resistere alla frammentazione

per rischiare nuove vie di cooperazione; ma per questo è davvero necessario

un cambiamento nella visione del mondo.

13 Parafrasando Zygmunt Bauman, intendiamo parlare della gestione del passaggio dalla semplice globalizzazione deiproblemi all’universalizzazione delle soluzioni.