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Materia giudaica Rivista dell’associazione italiana per lo studio del giudaismo VII/1 (2002) Giuntina
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Feb 26, 2021

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Materia giudaicaRivista dell’associazione italiana

per lo studio del giudaismo

VII/1 (2002)

Giuntina

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Questo volume è stato pubblicato con un contributo del Dipartimento di Storie e Metodi per la Conser-vazione dei Beni Culturali dell’Università di Bologna, sede di Ravenna, nonché dell’area della ricerca

della sede centrale dell’Alma Mater Studiorum di Bologna.

QUOTE ASSOCIATIVE dell’AISG

Tutti coloro che non hanno ancora provveduto a pagare la quota associativa dell’AISG perl’anno 2002, che ammonta a Euro 32 per i soci ordinari e Euro 16 per gli aggregati, possono farlotramite un versamento sul c/c postale n. 10103562, intestato a: AISG, c/o Dipartimento di Medie-vistica dell’Università di Pisa, via Derna 1, 56126 Pisa.

Il mancato pagamento di due quote annuali consecutive comporta il decadimento dalla quali-fica di socio.

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ATTI DEL XV CONVEGNO INTERNAZIONALE DELL’AISG

(GABICCE MARE, 3-5 SETT. 2001)

a cura diPIERO CAPELLI e MAURO PERANI

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Jan Alberto Soggin

STORIOGRAFIA NEL VICINO ORIENTE ANTICO E IN ISRAELE.A PROPOSITO DELLA SECONDA EDIZIONE DELLA MIA STORIA D’ISRAELE

Su invito della Paideia editrice di Bresciaho preparato la seconda edizione italiana dellamia Storia d’Israele, uscita per i tipi dellamedesima casa nel 1984. Il lavoro ha avuto uncerto successo: tre edizioni della traduzioneinglese, sempre nuovamente aggiornate, unatraduzione tedesca, una spagnola e unaungherese; le due ultime sono state effettuatesenza che potessi controllare i risultati.

Più di tre lustri non sono passati senzalasciare traccia: le traduzioni inglese e tedescaportano il titolo di Introduzione alla storia diIsraele e di Giuda: ero infatti frattanto giuntoalla conclusione che si tratta di due entità etnico-politiche e religiose che mi sembra di poterdimostrare che siano state distinte, anche seprecariamente riunite nell’impero davidico-salomonico; mentre il termine Introduzione vuolemettere in evidenza la problematicità del-l’impresa: più che di risultati di questa ricerca,mi sembra si debba parlare piuttosto di problemiirrisolti e difficilmente risolvibili allo stato attualedelle ricerche. Tale situazione è stata del restomessa bene in evidenza dall’opera curata daLester L. Grabbe, Can a History of Israel BeWritten?, Sheffield University Press, Sheffield1997, opera nella quale gli autori dei varicontributi, tutti partecipanti ad un simposio sultema, rispondono chi negativamente, chiaffermativamente, chi in forma interlocutoriaalla domanda del titolo del libro.

Non stupirà quindi i lettori che nel corsodi questo non breve periodo siano avvenutemolte e sostanziali modifiche. Non solo nelcampo degli inevitabili aggiornamenti bi-bliografici e della correzione di proposterisultate insostenibili: si tratta di modifiched’impostazione e di fondo. L’impero di Davidee di Salomone è stato collocato nella preistoria,dalla quale imprudentemente (o forse troppoottimisticamente) l’avevo scorporata nellaprima edizione: è evidente infatti che si trattadi storie che rimontano all’opera di agiografiposteriori, intesi a contrapporre a tempi pocopropizi la tesi di un passato glorioso, nel qualeIsraele e Giuda, sotto la guida della monarchia

unita, dominavano il Vicino Oriente antico. Ilfatto, per altro, che di questo regno non sitrovino tracce nelle fonti orientali, ma solo neitesti biblici composti secoli dopo, e quindiverosimilmente per fini ideologici che nullahanno a che fare con gli avvenimenti del X secoloa.e.v., deve fare riflettere chi si accinga atrattare l’argomento.

Resta quindi chiaro che nelle ricostruzionidi quella che chiamiamo preistoria ci troviamo asecoli, a volte oltre un millennio di distanza dagliavvenimenti descritti, il che fa seriamentedubitare dell’adeguatezza di questi materiali aifini di una ricostruzione di avvenimenti della finedel II millennio e degli inizi del I millennio a.e.v.

Nella nuova edizione dell’opera sug-gerisco date dell’epoca post-esilica, dunquequella persiana; ma non sono da escludereepoche ancora posteriori, arrivando finoall’epoca dei Maccabei e dei sovrani Asmonei.Recentissimamente, nel XVII congressodell’IOSOT (Basilea, agosto 2001) l’archeologoisraeliano Israel Finkelstein (il quale hacelebrato il fatto che l’archeologia israeliana sistia finalmente liberando dalle tesi conservatricidi W.F. Albright) ha sostenuto nel suo contributoche presto apparirà negli atti del congresso(Archaeology and Text in the Year 2000) che lacreazione della leggenda dell’impero unito sottoi re Davide e Salomone va datata all’epoca deitentativi di riconquista sotto re Giosia, dunquealla fine del VII secolo a.e.v., finita ladominazione assira sui territori del regno delNord. Si tratta di una tesi tutt’altro che daescludere, anche se ad alcuni questa datazionepuò apparire troppo antica. Il che dimostra senon altro le difficoltà obiettive per unadatazione più o meno esatta di gran parte deitesti; anche se preferisco mantenere una datapost-esilica.

Jan Alberto Sogginvia Ottaviano 32

I-00192 Roma

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SUMMARY

The Author summarizes the main innovations in the forthcoming second edition of his History ofIsrael. The united monarchy under David and Solomon has been placed in prehistory: maybe I.Finkelstein is right in assuming that the emergence of the legend of such a united empire can be tracedback to Josiah’s efforts to reconquer the northern territories after the end of the Assyrian domination(end of 7th cent. B.C.E.).

KEYWORDS: History of Israel; United monarchy; Josiah.

Jan Alberto Soggin

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1 Le opere apocrife sono citate nel testo col titolointero. Nelle citazioni le abbreviazioni dei libri ca-nonici sono quelle normalmente usate. Per i testiapocrifi si noti che la sigla di Enoc etiopico è 1H.Poiché 1H è un pentateuco con numerazione conti-nua, alla sigla 1H segue fra parentesi l’indicazionedel libro di cui fa parte il passo citato: LV = Libro deiVigilanti; LA = Libro dell’Astronomia; LS = Libro dei

Sogni; EE = Epistola di Enoc; LP = Libro delle Pa-rabole.

2 P.D. HANSON , The Dawn of Apocalyptic,Philadelphia 1975 (rist. 1979).

3 Vedi gli atti raccolti in D. HELLHOLM (cur.),Apocalypticism in the Mediterranean World and theNear East,- Proceedings of the International Colloquiumon Apocalypticism, Uppsala 1979, Tübingen 1983.

Paolo Sacchi

LA TEOLOGIA DELL’ENOCHISMO ANTICO E L’APOCALITTICA1

Quando cominciai ad occuparmi diapocalittica giudaica – erano gli anni ’75-’79 –,la ricerca procedeva allora su due binari princi-pali. Il primo di questi binari consisteva nello stu-diare tutti i testi che potevano avere una formariconducibile alla visione e al simbolismo tipicidello stile apocalittico, partendo dall’AT fino alNuovo. Sto pensando allo Hanson2 che ha scrittouna complicata storia del genere apocalittico apartire dal VI secolo a.C. Una certa forma diapocalitticismo va oltre la profezia biblica stes-sa, per arrivare ai grandi miti cosmogonici del IImillennio a.C. Questi antichi miti prendono for-za in Israele con la distruzione di Gerusalemme(vedi Geremia ed Ezechiele). La redenzione e lasalvezza, riporto sempre il pensiero dello Hanson,tornano ad essere come nei miti antichi un moti-vo cosmico. La risposta più creativa «al vuotoderivante dall’alienazione per sopravvivere nel-l’esilio, venne da quella voce profetica che chia-miamo Isaia Secondo, il quale mise insieme tra-dizioni derivanti dalla profezia, dalla corte realee dal mito in una forma tale che preparò la viaper trasformare l’escatologia profeticanell’escatologia apocalittica» (p. 438).

Isaia Secondo mescolò simbolismo mi-topoietico e tradizione profetica. Il suo Dio è quel-lo che in tempi antichissimi fece a pezzi Raab etrafisse il Drago, che in tempi più recenti prosciu-gò il mare, le acque del grande abisso, perché vipassassero i redenti (2 Is 51,9-11). Vide lacontrapposizione cielo/terra ed eone presente/eonefuturo come uno schema dicotomico che diventòfondamentale nei movimenti apocalittici più tar-di. Questa forma e ideologia apocalittica proseguecon Aggeo e Zaccaria. Questo fu il primo movi-

mento apocalittico giudaico. Un secondo movimen-to apocalittico appare con Isaia Terzo, capp. 60-62. Vedi il motivo dei capi oppressi (3 Is 66,1-5;cfr. 3 Is 59,14.18-19). Questo movimento durò alungo, ma in esso crebbe il senso dell’alienazione(vedi Zc 12; 14). L’apocalittica scompare dopo leriforme di Neemia e di Ezra, che portano al cen-tro del giudaismo la Legge. Ma rinasce nel III sec.a.C. col Libro di Enoc etiopico, per arrivare «finoalla nostra era attraverso farisei ed esseni e varialtri gruppi settari» (p. 441). Questa impostazionedegli studi ebbe il suo acme nel congresso diUppsala3 del 1979, che si occupò di apocalittica intutte le epoche e in tutti i luoghi.

In questa interpretazione l’apocalittica èil sintomo di uno stato di alienazione –emarginazione. Forma e contenuto sono perfet-tamente corrispondenti, anche se fra l’apo-calitticismo di Isaia Secondo e quello del Librodei Vigilanti c’è evidentemente un divario robu-sto. Comunque è notevole che per lo Hanson laforma corrispondeva al contenuto e questo a suavolta poteva variare nella storia, ovviamente neilimiti del motivo di fondo, quello dell’alienazio-ne – emarginazione. L’apocalittica giudaica e lasua storia andavano inserite in questo movimen-to universale. È merito dello Hanson avere sta-bilito questo rapporto fra forma e contenuto.Piuttosto indifferente mi lascia invece il rappor-to con le situazioni storiche che abbiano la carat-teristica di aver creato forme di alienazione –emarginazione. Un genere letterario e la corri-spondente filosofia possono bene essere sorti insituazioni storiche come quelle indicate dalloHanson, ma il loro sviluppo è certamente conti-nuato in maniera indipendente dalla situazione

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Paolo Sacchi

storica che può averlo originato. In ogni caso,credo che valga la pena di riprendere il pensierodello Hanson per ciò che riguarda l’apocalitticagiudaica4. Capiremo meglio il perché dopo cheavrò presentato gli studi di Collins.

In questo tipo di ricerca l’interesse per laforma è prevalente e la ricerca si allarga a tuttoil bacino del Mediterraneo. Anche gli etruschiavevano un testo che poteva avere carattereprofetico-apocalittico5.

L’altra tendenza era quella che studiavasolo le apocalissi giudaiche. In questi studi l’in-teresse predominante era per il contenuto. Si ve-deva che le apocalissi avevano tutte qualcosa incomune. Era un’idea antica sorta due secoli fa,quando gli studiosi cominciarono a confrontarel’Apocalisse di Giovanni con altre opere simili senon altro per forma, che erano già note da sem-pre, come il Quarto Libro di Ezra, o che veniva-no pubblicate allora per la prima volta, comel’Enoc etiopico. Quel qualcosa che c’era in co-mune fra queste opere dette origine al termineApokalyptik, cioè apocalittica. Altre apocalissisi aggiunsero in seguito (particolarmente impor-tante l’Apocalisse siriaca di Baruc, pubblicatadal Ceriani per la prima volta nel 1866) e il con-cetto di Apocalittica ebbe sempre più bisogno dichiarificazioni, via via che esso si estendeva adaltre opere. Va notato che fino alla scoperta deiManoscritti del Mar Morto non era ammessa, perle apocalissi giudaiche, nessuna data anterioreal 200 a.C. e che comunemente si consideravaDaniele come prima apocalisse. Nel terzo quartodel secolo passato la ricerca era impegnata so-prattutto a risolvere il problema di quali operepotevano essere dette veramente apocalittiche equale era l’ideologia o teologia di quell’unità ide-ologica che era presupposta e che aveva ricevuto

il nome di apocalittica. Se esisteva la parola,doveva ben esistere anche il concetto relativo.Solo che il concetto era difficile a enuclearsi.Partendo dall’ideologia, si incontravano difficol-tà robuste a trovare l’unità di pensierodell’apocalittica. Identità di forma e contenutoera il presupposto della ricerca, ma forma diapocalisse e contenuto di pensiero apocalittico sirifiutavano di ricoprirsi.

In ogni caso, l’interesse della ricerca eravolto essenzialmente al pensiero e, in particola-re, alla ricerca del nocciolo del pensieroapocalittico: così si cercò di distinguere traapocalissi sicure e apocalissi non sicure. Si in-tendeva che il pensiero apocalittico puro nonpoteva trovarsi che nelle apocalissi sicure. Ab-biamo autori come il Carmignac6, che consideròapocalissi chiare e sicure solo Daniele e Giovan-ni; altri arrivavano a sei, come il Koch (Daniele,Enoc etiopico, Apocalisse siriaca di Baruc, Quar-to Libro di Ezra, Apocalisse di Abramo,Apocalisse di Giovanni) 7, altri ammettevanonumeri più alti come il Russel (ventidue) 8. In ognicaso, il discorso restava limitato ai due secoliprecristiani e la base della discussione era il pen-siero apocalittico, o meglio si cercava di indivi-duare quelle idee che potessero fare del-l’apocalittica, in qualche modo, una teologia uni-taria.

Nel 1979 uscì il mio primo articolosull’apocalittica, intitolato Il Libro dei Vigilanti el’apocalittica9, Partii dalle osservazioni del Kochche lessi sullo sfondo delle nuove scoperte diQumran che alzavano notevolmente la datazionedel Libro dei Vigilanti e di quello dell’Astronomia.C’erano alcuni dati sicuri: il Libro dei Vigilantiera anteriore almeno l’anno 200 a.C.; c’era unframmento del Libro dell’Astronomia che risaliva

4 L’idea dello Hanson che esista un rapporto fraapocalittica e situazione storica si ritrova anche nell’inter-pretazione che dell’apocalittica dà J. Maier, anche se lasituazione storica che può produrre il pensiero apocalitticoè diversa. Cfr. J. MAIER, Apokalyptik im Judentum, in H.ALTHAUS (cur.), Apokalyptik und Eschatologie, Freiburg– Basel Wien 1987, pp. 43-72, a p. 46: «(L’apocalittica èun) sintomo che si manifesta non appena si afferma laconvinzione, sulla base della concezione deuteronomistico-escatologica della storia, che il presente si situi in quellafase decisiva della storia, nella quale prende avvio, sia

nella sfera umana sia in quella superumana, la svolta versoil tempo della salvezza definitiva…».

5 Cfr. A. VALVO, La profezia di Vegoia, Roma 1988.6 J. CARMIGNAC, Qu’est-ce que l’apocalyptique? Son

emploi à Qumran: «Revue de Qumrân» 10 (1979),pp. 3-33.

7 K. KOCH, Difficoltà dell’apocalittica, trad. ital.Paideia, Brescia 1977 (ed. orig. 1970).

8 D.S. RUSSEL, L’apocalittica giudaica, trad. ital.Paideia, Brescia 1991 (ed. orig. 19641).

9 In «Henoch» 1 (1979), pp. 42-98.

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addirittura al III secolo a.C. Il Libro dei Sogniera stato datato con precisione dal Milik10, pro-prio in quegli anni, al 160 circa a.C. (subito dopola morte di Antioco IV). Ciò che teneva chiara-mente unite queste tre opere, tutte in forma diapocalisse, a formare una corrente unitaria dipensiero era il fatto che esse erano state raggrup-pate in un libro unico da parte dell’autore dell’ul-tima di esse: l’Epistola di Enoc della metà del Isecolo a.C. Qualcuno, evidentemente, riconosce-va in quelle opere, la prima e l’ultima delle qualidistavano almeno tre secoli, una propria tradizio-ne e ne fece un pentateuco. In effetti si tratta sem-pre di opere in cui il rivelatore è Enoc.

Il mio metodo e il mio lavoro consistetteronel delineare il pensiero del libro più antico, ilLibro dei Vigilanti, mettendo in evidenza che ave-va una lunga storia dietro di sé, la quale già mo-strava una forte evoluzione del pensiero. L’arcodi tempo di quasi mezzo millennio, che coprivala distanza fra la prima apocalisse (Libro dei Vi-gilanti o Libro dell’Astronomia) e le ultimeapocalissi giudaiche (Quarto Libro di Ezra eApocalisse siriaca di Baruc: entrambe della finedel I secolo d.C.), giustificava pienamente, conla sua lunghezza, la difficoltà di individuare ilnucleo della teologia apocalittica. Più che di uni-tà ideologica, mi parve che nell’apocalittica cifosse un’unità di interessi. Nelle apocalissi c’erasempre la credenza nella vita dopo la morte, an-che se in forme diverse: c’erano l’immortalitàdell’anima, la resurrezione, forme miste. Eratema ricorrente l’origine del male da porsi al difuori della sfera umana, come derivante da unpeccato angelico: come ribellione degli angeli dellesette stelle, come ribellione del diavolo, o anche,in epoca più tarda, come peccato d’Adamo o diEva, commesso prima che fossero cacciati dal-l’Eden senza tempo e gettati sulla terra a dareinizio alla storia.

Lavoravo secondo la tendenza generaledell’epoca: mi interessava più il pensiero che nonla forma letteraria. Infatti in lavori successivicercai di mettere in ordine lo sviluppo dei varilibri dell’Enoc Etiopico inserendoli nella storiagenerale del pensiero giudaico. Il fatto che nontutte le parti delle apocalissi note come tali sianoscritte in stile apocalittico mi parve un buon in-

dizio per considerare il pensiero di un’opera comecentro dello studio e la forma quasi un acciden-te. I capitoli 6-11 del Libro dei Vigilanti o le lun-ghe parenesi dell’Epistola di Enoc non hannonulla a che fare con lo stile apocalittico.

Mi resi conto che, avendo seguito esclusi-vamente il pensiero, stavo usando la parola e ilconcetto di apocalittica in maniera diversa daglistudiosi contemporanei che, pur dando il prima-to all’ideologia, tuttavia restavano attaccati an-che alla forma. Scrissi, pertanto, che usavo il ter-mine apocalittica in maniera convenzionale, cioènon come gli altri. Con questo creai una discretaconfusione terminologica, perché non sempre erachiaro se usavo il termine apocalittica nel sensocomune della ricerca o nel senso nuovo che attri-buivo al termine. Questo ha precluso a molti lacomprensione delle mie idee.

Cito a questo punto un articolo diBoccaccini che per me fu la riprova della bontàdel metodo con cui stavo studiando l’apocalittica(in senso convenzionale!). È l’articolo È Danieleun testo apocalittico? Una (ri)definizione delpensiero del libro di Daniele in rapporto al Li-bro dei Sogni e all’apocalittica11. In questoBoccaccini mostra come due libri circa contem-poranei (fra Daniele e il Libro dei Sogni non c’èuna distanza superiore a due o tre anni) abbianoideologie più opposte che diverse. Se il Libro deiSogni è apocalittico nel senso ideologico dellaparola, non può essere apocalittico il Libro diDaniele. Oggi Boccaccini ha messo da parte ilconcetto di opposte, perché vede nella formaapocalittica del libro già un avvicinamento allaparte opposta, ma il concetto di diverse resta se-condo l’analisi fatta nell’articolo sopra citato.Abbiamo, dunque, due apocalissi contemporaneeche rispecchiano due tendenze opposte del pen-siero, quella ufficiale o sadocita e quellaapocalittica in senso convenzionale: a questaBoccaccini ha dato un nome che si è affermato:enochismo. Il Quarto Libro di Ezra resta cosìapocalittico, ma non è enochico: il discorso si fapiù chiaro.

Adesso possiamo confrontare il sadocitismocon l’enochismo: abbiamo concetti chiari con cuilavorare. D’altra parte l’inserimento nella ricer-ca del termine enochismo portava alla luce un

10 Cfr. J.T. MILIK, The Books of Enoch, Oxford 1976. 11 In «Henoch» 9 (1987), pp. 267-302.

La teologia dell’enochismo antico e l’apocalittica

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nuovo problema: come si possono classificarequelle apocalissi che non hanno come rivelatoreEnoc? Il problema è ancora aperto eun’apocalisse come quella di Sofonia (metà del Isec. d.C.), non saprei proprio come inserirla nelloschema sadocitismo – enochismo che, al tempodi Gesù, si fa molto più vario: sadduceismo,farisaismo, essenismo ed enochismo. E c’eranocertamente altre teologie ancora, che attendonodi essere identificate.

Dopo lo studio di Boccaccini su Daniele eil Libro dei Sogni, questo almeno era chiaro: checon le opere aventi forma di apocalisse potevanoesprimersi idee che potevano essere vicineall’enochismo come al sadocitismo. In altre pa-role, il termine apocalittica doveva essere usatosolo in senso letterario per indicare tutte lecaratteristiche letterarie delle apocalissi. Eanche il genere letterario delle apocalissi mi pareche abbia una sua evoluzione: ma anche questodeve essere studiato. Fra la struttura del Librodei Sogni e quella del Quarto Ezra c’è unadifferenza, che non può essere sottaciuta. Masono studi da fare e che saranno tanto piùfruttuosi quanto più il tema sarà trattato sulpuro piano letterario, senza lasciarsi coinvolgeredalle differenze ideologiche. Comunque, anchesul piano del pensiero i problemi aperti nonmancano: avere individuato all’interno delleapocalissi il filone enochico, non significa averrisolto tutti i problemi: le apocalissi nonenochiche sono ancora in cerca di esseresistemate in correnti di pensiero, che ne faccianomeglio capire l’ideologia.

I contenuti della teologia enochica più antica

Il primo enochismo si distingue dalsadocitismo per molti concetti. Do qui una listadei più importanti. Sembra che abbiamo a chefare con una forma di giudaismo che ha in comu-ne con quella ufficiale, col sadocitismo, solo ilfatto che entrambe onorano il medesimo Dio.

1. L’enochismo antico crede che il Male abbiale sue origini non nel peccato dell’uomo, main una trasgressione angelica, che contaminòtutto il mondo. Conseguenza di questo è chel’uomo è libero delle sue scelte fra bene emale, ma non interamente. La sua natura non

è quella voluta da Dio. La natura dell’uomoè stata sciupata dal peccato angelico delleorigini.

2. L’enochismo antico crede nell’esistenza nel-l’uomo di un anima disincarnabile e capa-ce, quindi, di sopravvivere alla morte delcorpo.

3. Lo sfondo comune delle due idee precedentiè l’esistenza di un mondo angelico o spiritua-le che si voglia dire, nel quale vivono Dio e gliangeli a lui fedeli, ma anche gli angeli ribelli.Questo mondo dello spirito, o mondo di mez-zo (scil. fra Dio e l’uomo), si dividerà col li-bro dei Giubilei (seconda metà del II sec. a.C.)in due regni contrapposti, quello di Dio equello del diavolo. Comunque, la comparsadell’angelo primo peccatore è già documen-tata nell’enochismo col Libro dei Sogni (cir-ca 160 a.C.). Molti avvenimenti del nostromondo hanno la loro radice in avvenimentiche si svolgono nel mondo angelico.

4. Conseguenza di questo schema di fondo dellecredenze dell’enochismo antico è che il Giu-dizio di Dio non riguarda più, o non più sol-tanto, avvenimenti di questa terra, che è sot-toposta anche alla potenza demoniaca, mariguarderà anche un giudizio definitivo sulleanime. Nasce l’idea del Grande Giudizio, con-siderato come giudizio che decide il destinoeterno delle anime. Nasce con questo il con-cetto di inferno e paradiso.

5. Questi concetti fondamentali apronoall’enochismo l’interesse per l’escatologia; maogni forma di escatologia trova le sue spiega-zioni nella protologia. Escatologia eprotologia sono due facce della medesimamedaglia. Il destino eterno delle anime, buo-no o cattivo che sia, trova la sua spiegazionenei fatti che furono all’inizio. Se l’uomo habisogno di salvezza, è per i danni che la natu-ra e l’umanità subirono all’inizio. Le cose cheaccaddero all’inizio sono la causa della vitache viviamo oggi e contemporaneamente sonoquelli cui dovrà porre rimedio alla fine deitempi una salvezza che non può derivare dal-l’uomo, perché l’uomo è vittima dei fatti ac-caduti all’inizio. Questo sembra il terreno piùadatto allo sviluppo del messianismo, mal’enochismo antico non pensò al messia, ben-sì a un supplemento di rivelazione da partedi Dio per mezzo di Enoc. Nel Libro dei So-

Paolo Sacchi

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gni e nei Giubilei l’intervento salvifico finalesarà di Dio stesso.

6. Gli enochici non avevano nessun tempio. NelLibro dei Sogni è riconosciuto il valore delPrimo Tempio, quello di Salomone, ma inquanto a quello contemporaneo di Ge-rusalemme, si profetizzava che era destinatoalla distruzione: sarebbe stato precipitatonella Geenna e poi sostituito da un Tempionuovo, che sarebbe stato costruito dalla manostessa di Dio.

7. Gli enochici antichi non avevano nessuna leg-ge paragonabile a quella sadocita. Cfr. 1H(LS) 89,27-38, che narra come Mosè sul Sinaisi occupò solo della forma del tabernacolo,cioè del Primo Tempio. Il libro dei Giubileiriconoscerà la Legge di Mosè, ma come di-pendente storica da quella eterna, che è scrit-ta nelle Tavole Celesti. Le Tavole Celesti sonoscritti misteriosi, dove Dio scrisse all’iniziodel mondo tutto ciò che avrebbe riguardatoil mondo: la scienza, le leggi, le punizioni peri trasgressori una per una, e tutta la storia.Di queste leggi delle Tavole Celesti sono con-servate una trentina di citazioni. Non abbia-mo, e forse non esistette mai, una raccoltasistematica di queste leggi eterne.

8. Stando ai testi che ci sono restati, l’impuritàesisteva solo a livello cosmico. In terminimoderni forse potremmo dire che esistevasoltanto a livello metafisico. L’unica eccezio-ne è rappresentata dal mangiar la carne colsangue (1H [LV] 7,5; Giub 3,71; 1H [EE]98,11. Per un significato negativo generaledell’impurità, cfr. 1H [LS] 89, 73). In ognicaso, per gli enochici l’impurità non sembramai aver avuto la stessa importanza che ebbepresso i sadociti.

9. La storia è predeterminata (è già scritta nelletavole celesti) e divisa in periodi (eoni). Ilpredeterminismo non riguarda, però, l’indi-viduo, che è responsabile delle sue scelte.Nell’enochismo più tardo (cfr. EE) il sensodella libertà e responsabilità dell’uomo si faràsempre più forte probabilmente per reazio-ne all’eresia qumranica, che fu prede-terminista anche nei riguardi dell’individuo.Contemporaneamente si sviluppa l’idea chenon è facile stabilire se un’azione è buona ocattiva. Vedi il Testamento di Aser (I sec. a.C.nella forma che abbiamo).

L’enochismo antico e l’apocalittica

L’autore del Libro dei Vigilanti cominciòad esporre il suo pensiero in forma apocalitticasolo a partire dal cap. 12. A partire da questopunto l’enochismo usò in prevalenza un tipo diespressione che può essere detto, sia pure conmolte varianti, apocalittico. Con questo appa-re che tra forma apocalittica (non esclusiva,però, dell’enochismo) e pensiero enochico cidoveva essere un forte legame. Gli enochici sen-tivano che l’apocalittica era la forma più adat-ta a e rendere il loro pensiero. Sta di fatto, però,che la parte più antica della più antica operaenochica (1H 6-11) racconta la caduta degli an-geli in prosa comune. La caduta degli angeli èraccontata come se fosse storia, non come mitotrasfigurato e trasfigurabile in immagini dallemolte valenze. La caduta degli angeli è storianon letta nelle Tavole Celesti, ma narrata se-condo la documentazione umana esistente. Lafonte è stata individuata in un Libro di Noè,citato così in un testo enochico più tardo, il cuicontenuto è stato ricostruito da GarcíaMartínez12.

Possiamo porre il problema in questomodo. Perché l’autore del Libro dei Vigilanticambiò la forma letteraria e, dopo aver narratola caduta degli angeli in prosa comune, passò allostile apocalittico? Il trapasso avviene in manieraquasi insensibile. L’elemento della visione e l’usodei simboli si alternano a tratti, dove il raccontoha toni piani. Anche la narrazione della grandeascesi del cap. 14, che porta il miste alla visionedi Dio procede per un’analisi psicologica che soloa tratti si fonda sul simbolo. Ma in ogni caso uncambiamento di stile c’è e marca un cambiamen-to profondo dello spirito, cambiamento che inve-ste religione e religiostà, teologia e sentimentiumani. Questo cambiamento di stile crea un’at-mosfera particolare che va interpretata comeconseguenza della nuova spiritualità, una spiri-tualità che cerca il contatto con Dio. Uso il ter-mine «spiritualità» in senso lato per indicarequalcosa la cui esistenza è certa, ma che è diffici-le definire.

La teologia dell’enochismo antico e l’apocalittica

12 F. GARCÍA MARTÍNEZ, 4QmesAram y el libro deNoé: «Salmanticensis» 28 (1981), pp. 195-232.

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Vedo che Collins13 indica questa nuova spi-ritualità, che è legata all’apocalittica e non esclu-sivamente a quella enochica, col termine«Worldview», che sembra un calco del termine te-desco, comunemente usato anche in italiano,«Weltanschauung». Ma questo richiama sempre,sia pure in maniera lata, il concetto di ideologia,che il Collins esclude, perché «Worldview» indicail fondo comune del libro di Daniele e di quello deiSogni, che Collins ammette ideologicamente diver-si. Bisogna che questo concetto di spiritualità o«Worldview» sia un contenitore abbastanza largoda poter contenere anche ideologie diverse e ab-bastanza preciso da poter essere utilizzabile.

Così il problema diventa: quali sono i limitiall’interno dei quali l’ideologia può cambiare, purrestando immersa nella stessa spiritualità? Nel li-bro di Daniele la caduta degli angeli, che è alla ra-dice di ogni possibile enochismo, non trova posto,perché nel sadocitismo non c’è posto per la cadutadegli angeli. Che vuol dire, allora, che siamo nellamedesima «visione delle cose»? Bisogna ammette-re che questa spiritualità che si rivela nelleapocalissi, in quella di Daniele come in quella delLibro dei Sogni sia veramente al di là di ogni ideo-logia. Io ho sempre interpretato l’apocalittica comefenomeno puramente stilistico, ma devo riconoscereche il fatto che un autore scelga di scrivere in for-ma di apocalisse e non in prosa comune o in poesiadeve avere certamente un valore anche a livello dipensiero. E poi, come sembra se seguiamo loHanson, l’enochismo non inventò lo stileapocalittico, ma solo lo assunse per portarlo nelloscorrere dei secoli a forme sempre più complesse,sempre più apocalittiche. Si potrebbe dire che laforma e la spiritualità apocalittiche raggiungono illoro vertice con Giovanni, ma Giovanni non era nésadocita, né enochico: era cristiano.

L’uso, dunque, della forma apocalittica creaun’atmosfera particolare, che è tale indipendente-mente dalle teologie che veicola. Se penso a unaprofezia classica, come quella di Isaia che annun-cia un germoglio dal tronco di Yesse (Is 11,1-5) e auna profezia apocalittica, come quella che annun-cia la distruzione del Tempio (1H [LS] 90,28-29),vedo una differenza fondamentale fra le due nelmodo in cui si generano. Isaia parla a nome di Dio,

è, cioè, Dio che parla per mezzo di Isaia. Si vedacome è introdotta la profezia di Osea in Os 1,2:Dio parla «in» o «per mezzo di» Osea14. Ma nelcaso della distruzione del Tempio non è Dio cheparla per mezzo del profeta, ma è il veggente chevede ciò che accadrà, perché già accaduto in un’al-tra dimensione. Nel sadocitismo Dio si rivela al-l’uomo, che prende nota della rivelazione e, se sitratta di un ordine, lo esegue; nell’apocalittica èl’uomo che ascende a Dio e può vedere scritto nelladimensione dell’eterno la realtà del cosmo: passa-to e futuro, scienza e leggi. È l’uomo che sale versoil cielo, non è Dio che scende sulla terra. Abramo,secondo il libro dei Giubilei, fuggì da Ur dei caldeiperché perseguitato. Arrivato a Harran, fu rag-giunto da un’ambasceria di uomini di Ur, che lopregavano di tornare indietro. L’una via era lecitacome restare a Harran. Allora cercò Dio, per sa-pere come si sarebbe dovuto comportare. Fu allo-ra che Dio, vista la preghiera, per mezzo di un in-termediario gli disse di continuare verso la Pale-stina. Quest’Abramo è diverso da quello biblico,anche se finisce in Palestina come quello biblico.

Lo spirito, il complesso mondo dello spiri-to ha sede e centro altrove, ma è presente anchenel nostro mondo in un groviglio che non è facileafferrare in termini di ragione. Questa presenzadello spirito è tanto certa, quanto inafferrabile eindicibile. La visione permette nella fase più an-tica dell’enochismo di dire ciò che si può diredell’indicibile. Ciò di cui si ha esperienza realenella visione non può essere narrato «con linguadi carne» (1H [LV] 14,3). Il simbolismo divental’unica via per esprimere ciò che le parole dellaragione non saprebbero dire.

Il nocciolo dell’apocalittica non sta in uncredo particolare. Certo l’apocalittica crede inDio, nei suoi angeli e nella vita oltre la morte, masoprattutto crede nell’esistenza fra gli uomini, omeglio, negli uomini, del mondo dello spirito, cheè cosa diversa dal credere in Dio e nel fatto chepossa mandare messaggeri sulla terra. Il Diosadocita ha creato il cielo e la terra; ha dato leggiagli ebrei; ha mandato loro profeti e angeli. IlDio apocalittico insieme coi suoi angeli fedeli for-ma un mondo che esiste in cielo, ma si mescolaanche alla vita degli uomini.

Paolo Sacchi

13 J.J. COLLINS, Apocalypticism in the Dead SeaScrolls, New York 1997; ID., The Apocalyptic

Imagination, Grand Rapids 1998.14 thlt dbr yhwh bhwš‘.

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Forse in questo senso si può parlare di unaprecisa visione delle cose, che caratterizzal’apocalittica al di là dell’enochismo che ne èl’espressione storica più potente.

Riassumendo: un certo rapporto fra formae contenuto apocalittico esiste a un livello profon-do di atteggiamento religioso. Questo ovviamentenon comporta che al genere letterario del-l’apocalittica corrisponda una qualsiasi unità ide-ologica. Il genere letterario dell’apocalittica esi-steva già prima dell’enochismo, che è il movimentoche, stando alle nostre conoscenze, più lo ha usa-to. D’altra parte nei testi enochici stessi si trovanoanche parti che non usano il genere letterario delleapocalissi. La «Worldview», o visione generale dellecose, di Collins deve essere accettata e rappresen-ta un contributo notevole alla comprensione dellastoria del Medio Giudaismo. Spero di essere riu-scito a darne una definizione non certo esatta, maabbastanza precisa. Questa visione delle cose sem-bra derivare da una religiosità che avverte il mon-do di Dio come mondo dello spirito, del quale l’uo-mo è partecipe. Questa religiosità rompe lo sche-ma sadocita classico con la sua contrapposizionedel sacro al profano. Se questa interpretazione èvalida per le apocalissi enochiche più antiche, è pro-babile che non valga interamente per quelle piùrecenti, che possono seguire semplicemente unamoda, un genere tradizionalmente accettato.

Le origini dell’enochismo

L’origine dell’enochismo non è stata studia-ta in maniera particolare, forse per la mancanzaoggettiva di notizie. Fa eccezione Boccaccini, cheha messo in relazione l’origine dell’enochismo conla cacciata di alcuni sacerdoti dal Tempio diGerusalemme, voluta da Neemia15. I sacerdoticacciati sarebbero gli antenati dell’enochismo.Comunque, dalla lettura delle presentazionidell’enochismo è facile enucleare due atteggia-menti di fondo: per alcuni si tratta di un fenome-no essenzialmente ellenistico e quindi, nondatabile a prima del III sec. a.C. Per altri si trat-ta di un fenomeno indipendente dall’ellenismoe databile all’epoca persiana. La datazione altasi appoggia sul fatto che abbiamo un frammen-to del Libro dell’Astronomia, che appartiene giànella sua scrittura al III sec. a.C. e sembra ri-mandare le origini del movimento a date piùantiche. Personalmente sono favorevole a unadatazione alta.

Paolo Sacchivia Aretina 48,

I-50063 Figline Valdarno (Firenze)e-mail: [email protected]

La teologia dell’enochismo antico e l’apocalittica

15 Cfr. Ne 7,64-65.

SUMMARY

A fundamental element in Sacchi’s work is that we must distinguish between the apocalyptic form,and consequentially the literary genre, and the contents of thought of the apocalypses. In order to retracethe history of Jewish thought the contents are what counts, not the literary form. The apocalyptic formexisted long before the oldest Jewish apocalypse that we know of, the Book of Watchers. Drawing on anarticle by Collins referring to an apocalyptic «Worldview», as the basis of all apocalypses from any andall currents of thought, Sacchi points out that the very fact that the author of the Book of Watchers chosethe apocalyptic form in order to express his thoughts demonstrates that in some way the apocalyptic formis a part of apocalyptic thought. The fact remains, however, that apocalyptic thought can express anextremely wide variety of theologies. Sacchi concludes, then, that there is such a thing as an apocalypticspirituality and he attempts to provide a definition that is neither so narrow that it precludes comprehensionof this diversity, nor so broad as to be useless. Apocalyptic spirituality would seem to derive from areligiosity in which the world of God is perceived as a spiritual world in which man participates in.

KEYWORDS: Apocalyptic form; Book of Watchers; Apocalyptic spirituality.

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2 Sul movimento come elemento costitutivo dellanarrazione, si veda N. WYATT, There and Back Again:the Significance of Movement in the Priestly Work:«Scandinavian Journal for the Old Testament» 5(1990), pp. 61-81.

Chiara Peri

TRA MARE E DESERTO: IL VIAGGIO DI GIONA

La critica biblica ha sempre incontratodelle difficoltà ad attribuire un significatopropriamente teologico al libro di Giona: esso sipresenta infatti come una storia edificante epiuttosto ingenua, che ha come protagonista unprofeta non disposto a compiere la propriamissione. L’inclusione di un racconto del generenel canone biblico non può che suscitare qualcheperplessità. Anche la struttura narrativadell’opera lascia, apparentemente, molto adesiderare: dopo un primo capitolo denso dieventi, un secondo è occupato interamente dalsalmo pronunciato dal profeta (sulla cui effettivapertinenza alla narrazione sono stati avanzatidiversi dubbi, già in epoca antica), mentre il terzoe il quarto sono ripetitivi, con una conclusionebrusca (Giona è l’unico libro biblico che finiscecon una domanda). Tra l’altro il racconto nonmanca di incongruenze, che sono state evi-denziate dai diversi commentatori: inverosimileè ad esempio il sacrificio compiuto dai marinai abordo della nave (1,16), così come il digiunoimposto agli animali niniviti (3,7).

1.Una chiave di lettura: il mito

Una prima osservazione, che può fornireuna chiave di lettura per il componimento, è ilfatto che più volte nel corso del libro Yhwh rivolgela parola a Giona direttamente, parlandogli«faccia a faccia». Come ha osservato GiovanniGarbini, l’ultimo personaggio biblico a ricevereun simile onore è Giosuè: tutti i personaggisuccessivi, siano essi re o profeti, ricevonomessaggi in sogno, in visione o attraversointermediari divini. La fine della comunicazionediretta tra Dio e gli uomini segna il confine, nellastoriografia ebraica, tra tempo del mito e tempo

della storia propriamente detta, «quello in cuiDio non parla più con gli uomini»1. Giona,almeno dal punto di vista del suo rapporto conYhwh, costituisce dunque un’eccezione, unmomentaneo ritorno all’età dei patriarchi. Eglinon si limita, infatti, a ricevere dei messaggi: sipermette anche di rispondere e di muovereobiezioni, ponendosi allo stesso livello dipersonaggi come Abramo e Mosè.

Questo particolare proietta la vicenda diGiona dalla sfera della semplice narrazione aquella del mito. Un’analisi della struttura dellibro e dei riferimenti che ne costituiscono iltessuto narrativo permetterà di precisare meglioin cosa consista – e a che cosa fosse finalizzata –tale «miticità».

2. Il filo conduttore: la fuga

Nel libro di Giona lo spazio in cui l’azione sisvolge è ben più che sfondo per le peripezie delprofeta: ha una essenziale funzione narrativa2. Ilfilo conduttore della vicenda sono i movimenti delprofeta, che fugge, scende, va, esce. La maggiorparte di questi movimenti segnano unallontanamento: Giona nel primo capitolo tentadisperatamene di scappare «dalla presenza diYhwh» (����� �����) e specularmente, nell’ultimo,esce «dalla città» (4,5). Una connotazioneparticolare si coglie nel reiterato uso del verbo«scendere» (�), che caratterizza il componimentofin dal primo capitolo: nel solo versetto 3 esso vieneutilizzato due volte, per indicare prima il viaggiodel profeta verso Giaffa e poi il suo imbarco perTaršiš. Se nel primo caso l’espressione puòconsiderarsi normale, nel secondo è decisamenteanomala, perché anche in ebraico, come in italiano,si dice «salire su una nave» piuttosto che «scendere

1 G. GARBINI, I miti delle origini nell’ideologiaebraica, in Convegno sul tema: Le origini di Israele(Roma, 10-11 febbraio 1986), Accademia Nazionaledei Lincei, Roma 1987, p. 30.

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Tra mare e deserto: il viaggio di Giona

in una nave» (cfr. l’espressione «scesero dalle loronavi» in Ez 27,29)3. Il verbo ricorre ancora al v. 5,per un totale di tre volte in soli 5 versetti:difficilmente tanta insistenza può essere casuale,specialmente all’inizio di un libro biblico. Imovimenti di Giona, apparentemente comuni, sonodescritti nei termini di una vera e propria catabasi.

Considerando complessivamente lo spazioin cui si svolge l’azione, colpisce il fatto che ilprotagonista si trovi costantemente al di fuori deiconfini della terra di Israele e, in un certo senso,al di fuori dei confini del mondo: in mezzo al mare,in terra straniera, nel deserto. Come ha notatoPhilip J. Nel4, gran parte della vicenda si svolgeal di fuori dello «spazio sacro», cioè, in altritermini, al di fuori del normale raggio di azione diYhwh. Significativamente, si può anche osservareche questi luoghi «esterni» sono tutti in qualchemodo lugubri e minacciosi: dall’immediata fugadi Giona al sentire la meta della sua missione siricava che egli ritenesse che a Ninive la sua vitasarebbe stata messa a repentaglio; il mare inghiotteil profeta e, come una divinità infera5, sembra anziesigerlo in sacrificio per calmare la propria collera(����); nel deserto, infine, Giona manifesta laprecisa intenzione di lasciarsi morire. Secondol’efficace definizione di Nel, questi scenari sono«stazioni sulla via verso la morte»6.

3. Costruire Giona

Il profeta Giona, figlio di Amittai, pro-tagonista del libro, è un personaggio già presentenell’Antico Testamento: è ricordato in 2 Re 14,25

per aver profetizzato l’estensione del regno diIsraele ad opera di Geroboamo7. Nullacaratterizza il personaggio, a parte il patronimicoe il titolo di «profeta» ( ����): probabilmente sitrattava di un profeta di corte, consultato dal reprima delle battaglie, del genere di quelliconsultati dal re di Israele su suggerimento diGiosafat in 1 Re 22,5-12.

Nelle leggende giudaiche tuttavia Gionagode di una fama particolare: secondo unatradizione diffusa, egli avrebbe avuto il privilegiodi discendere, ancora vivo, agli Inferi8. A unaprima analisi una credenza del generesembrerebbe estrapolata dal racconto biblicorelativo all’inghiottimento di Giona da parte del«grande pesce»: nel Talmud babilonese adesempio (‘Eruvin 19a) si trova soltanto la notiziache Giona avrebbe visitato lo Še’ol e da li avrebbegridato il salmo che gli viene attribuito nelsecondo capitolo del libro biblico. Ma secondoun’altra tradizione, che incontrerà molta fortunanella tradizione cabalistica, Giona vieneidentificato con il figlio della vedova di Sarepta,morto e resuscitato da Elia (1 Re 17,17-24). Èevidente che questa seconda versione presupponeche il viaggio di Giona sia avvenuto prima dellevicende raccontate dal libro biblico e la catabasidi cui Giona è protagonista non sarebbe unapunizione per la sua inadempienza agli ordinidivini, quanto piuttosto uno speciale privilegio.L’interpretazione cabalistica significativamenteproietta questa idea anche sulla vicenda biblica:nello Zohar (2,199) si parla del momento in cuiil pesce vomita Giona sulla spiaggia in termini di«resurrezione dai morti» .

all’interno del testo biblico e di altri testi dellatradizione giudaica.

6 «Tarshish, ship, fish, Niniveh, shelter outsidethe city – become stations on the road to death»: P. J.NEL, cit., p. 222.

7 «Egli [Geroboamo] ristabilì confini di Israele …secondo la parola di Yhwh dio di Israele pronunciataper mezzo del suo servo, il profeta Giona figlio diAmittai, di Gat ha-Hefer».

8 Sull’argomento si rimanda al capitolo dedicatoal viaggio ultraterreno di Giona della monografia diW. HALL HARRIS III, The Descent of Christ. Ephesians4 : 7-11 and Traditional Hebrew Imagery, Brill,Leiden-New York-London 1996, pp. 110-54.

3 Riprendo un’osservazione di G. REGALZI, Il librodi Giona. Edizione critica del testo ebraico, tesi dilaurea dell’Università «La Sapienza» di Roma, p. 65.La spiegazione proposta mi sembra però non del tuttoconvincente: «L’autore del libro di Giona, in realtà,non descrive il momento dell’imbarco ma quelloimmediatamente successivo, quando il profeta scendesotto coperta».

4 P J. NEL, The Symbolism and Function of EpicSpace in Jonah: «Journal of North West SemiticLanguages and Literatures» 25 (1999), pp. 215-24.

5 Non è certo casuale l’allusione al dio cananeoYam, i cui caratteri infernali sono noti anche dai testiletterari ugaritici, oltre che da vari riferimenti

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La letteratura giudaica ha sviluppato iltema del viaggio agli inferi di Giona: la versionepiù ricca è quella contenuta nel capitolo 10dell’opera midrashica Pirqe de-Rabbi Eli‘ezer(«Capitoli di Rabbi Eli‘ezer»), in cui si raccontadi un vero e proprio «giro turistico» compiutodal profeta all’interno del pesce che lo avevainghiottito. Alcuni elementi di questo dettagliatoresoconto, come la descrizione dell’interno delpesce i cui occhi fungono da finestre sul mondosottomarino, si ritrovano anche in una lungaomelia, falsamente attribuita a Filone diAlessandria, conservata solo nella tradizionearmena a partire dal VI secolo. Ma il viaggio diGiona era noto anche in epoca più antica: nelTargum palestinese a Dt 30,12-13 si fa infattiesplicito riferimento alla discesa di Gionanell’«abisso». L’uso della parola ¥bussoj pertradurre �� nella citazione di Dt 30,13 contenu-ta nella Lettera ai Romani (10,6-8), non attesta-ta nella traduzione dei LXX, indica cheprobabilmente Paolo di Tarso conosceva latradizione giudaica che attribuiva al viaggio diGiona un valore molto più pregnante di quantosi possa intendere dalla lettura del libro biblico.È particolarmente significativo il parallelismoproposto dal Targum tra il viaggio al cielo di Mosèe la discesa agli inferi di Giona: i due personaggisono messi in parallelo come due uomini che,ancora viventi, hanno varcato i confini delmondo9.

Il libro biblico fin dai primi versetti,sembrerebbe alludere velatamente allafamiliarità che, secondo la tradizione, Gionaaveva con gli Inferi e con le sue creature. Il puntodi partenza scelto dal profeta per la sua fuga è

infatti il porto di Giaffa, una località che, comeha dettagliatamente esposto Paul B. Harvey Jr.in uno studio sull’argomento10, era stata messain rapporto, già dal IV secolo a.C., con il mitodel combattimento di Perseo contro il mostromarino. Tale localizzazione della leggendariaimpresa era largamente diffusa nel mondo anticoe aveva anzi una vasta eco dal punto di vista delmercato delle «curiosità» per turisti11. Gerolamoracconta di aver visitato la città nell’anno 386 edi aver visto a sua volta la roccia doveAndromeda sarebbe stata legata: l’interesseprincipale del suo viaggio era però di naturabiblica. Intendeva infatti visitare il porto da cuiGiona era salpato, nonché il luogo dove secondogli Atti degli Apostoli (9,36-41) Pietro avevaresuscitato Tabitha. La celebrità dei luoghicristiani crebbe gradualmente a scapito di quellipagani: Teodosio, nel 530, già si disinteressavacompletamente del mito greco (altrettantofaranno tutti i visitatori successivi). L’attenzionedei viaggiatori cristiani e islamici si concentròsempre più su Giona, di cui venne identificataanche la casa natale e la tomba12, e persino ilricordo del miracolo di Pietro venne pro-gressivamente oscurato dalla fama crescente delprofeta. Harvey sostiene che l’identificazione delsito di Giaffa con il luogo della liberazione diAndromeda da parte di Perseo sia statacondizionata dall’ambientazione del librobiblico. Una relazione tra i due racconti è ineffetti molto probabile ed è confermata dall’usodel termine kÁtoj, «mostro marino», nella LXXper tradurre l’espressione �����. Ritengo peròche i termini della questione debbano esserecapovolti: l’ambientazione del libro di Giona,

che in città c’era una fontana che gettava acqua rossaperché Perseo vi si era lavato le mani dopol’uccisione del mostro. Tra il 64 e il 63 a.C. MarcoEmilio Sauro visitò Giaffa, riportandone comesouvenir alcune ossa del mostro (Plinio, StoriaNaturale 9,5,11) e ancora un secolo più tardi lacarcassa venne mostrata allo storico Pomponio Mela.I resti del «grande pesce» possono oggi essereammirati in una moschea intitolata a Giona nei pressidi Mossul.

12 Cfr. F. -M. ABEL, Le culte de Jonas en Palestine:«Journal of Palestine Oriental Society» 2 (1922),pp. 175-83.

9 A essi potrebbe essere accostato Elia, un altro «non-morto» della tradizione giudaica, significativamentepresente, insieme a Mosè, nel racconto evangelico dellaTrasfigurazione (Mt 17,1-8; Mc 9,2-8; Lc 9,28-36). Comesi vedrà meglio anche in seguito, la vicenda di Giona faalmeno un esplicito riferimento a un episodio della vita diElia. Il rapporto tra le due figure è confermato dall’iden-tificazione di Giona con il fanciullo resuscitato da Elia.

10 P. B. HARVEY JR., The Death of Mythology: theCase of Joppa: «Journal of Early Christian Studies»2 (1994), pp. 1-14.

11 L’identificazione è largamente documentatadalla numismatica locale e Pausania (4,35,9) ricorda

Chiara Peri

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Tra mare e deserto: il viaggio di Giona

composto verosimilmente nella tarda etàellenistica, è stata più probabilmente sceltaalludendo alla tradizione del kÁtoj ucciso daPerseo. La seriorità della tradizione relativa aGiona è dimostrata anche dal suo progressivo ecrescente affermarsi: se all’epoca di Girolamoessa era in qualche modo sullo stesso piano dellaleggenda pagana (e il fatto che Girolamo senta lanecessità, nel suo Commentario a Giona, diprecisare che i racconti pagani «sono tuttesciocchezze» indica la relativa debolezza dellaleggenda cristiana rispetto alla tradizione localegreca), progressivamente si espande, anche ascapito dell’altra antica meta di pellegrinaggiocristiano, relativa al miracolo di Pietro.

Un’ultima considerazione può essere fattasul nome del profeta: il significato letterale delnome Giona, «colomba», aveva probabilmenteun valore simbolico, le cui precise implicazioniin gran parte ci sfuggono. La colomba sulle grandiacque è un’immagine che ricorre più di una voltanella Bibbia, in particolare nel racconto deldiluvio (Gen 8,8-12) e nel Cantico dei Cantici(5,12), dove l’espressione �������� ha il saporedi un riferimento mitologico. Una colomba (lo«spirito di Dio in veste di colomba») appareanche nella scena del battesimo di Cristo alGiordano: ancora una volta una colomba volasulle acque di un fiume che, sgorgando dasorgenti sotterranee, non doveva apparire privodi connotazioni extraterrene. La sacralità dellacolomba in ambiente semitico nordoccidentale èben nota13: era simbolo di Astarte, venerata aIerapoli14 e, secondo alcune fonti, anche nelsantuario samaritano del Garizim. Forse lasimbologia della colomba sulle acque alludeva auna tradizione mitologica secondo la quale unadivinità femminile, il cui simbolo era la colomba,avrebbe compiuto un viaggio agli inferi (come la

Ištar della tradizione mesopotamica) oppureavrebbe avuto uno scontro vittorioso contro laMorte (si pensi a Mot sconfitto da Anat nel poemaugaritico di Baal). È impossibile, al momento,determinare se e fino a che punto una tradizionedel genere potesse essere ancora vitale a distanzadi tanti secoli: ci si può solo limitare a notare chela colomba che vola sulle acque dell’abisso è unelemento che, forse non casualmente, ricorre piùvolte nella tradizione giudaica e cristiana.

4. Costruire la storia di Giona

Nonostante l’apparente semplicità, a unalettura più approfondita il libro di Giona risultaestremamente elaborato dal punto di vistaletterario, ricco com’è di riferimenti ad altri passidell’Antico Testamento. La tecnica con cui ilracconto appare composto richiama i raccontievangelici: dietro una narrazione ap-parentemente semplice e spontanea le citazioni,dirette o indirette, di passi biblici costituisconouna fitta trama su cui la vicenda vienecostruita15.

Fa riflettere in primo luogo la meta dellamissione di Giona: all’inizio del terzo capitolodel libro del profeta Sofonia (3,1) si maledice unacittà che viene definita ���������, un’espressioneche va probabilmente intesa come «la città cheopprime», sebbene il testo appaia evidentementecorrotto. L’oracolo immediatamente precedentesi riferisce a Ninive (cfr. Sof 2,13), per cui èpossibile che anche l’allusione all’inizio delcapitolo successivo si riferisse alla stessa città, oalmeno che questa fosse l’interpretazionecorrente. La traduzione dei LXX, che traducecon ¹ pÒlij ¹ perister£, «la città colomba»,dimostra come il significato originario

confusione nelle tradizioni, perché Semiramide non puòsignificare «colomba», mentre invece potrebbe essereinterpretato in tal senso il nome del pastore che avrebbeallevato la bambina, Simma.

15 Sull’analogia tra l’uso evangelico di «prendereun testo antico e farlo nuovo» e la tecnica dellecitazioni in Giona, si veda Y. SHERWOOD, A BiblicalText and its Afterlives. The Survival of Jonah inWestern Culure, Cambridge University Press,Cambridge 2000, pp. 231-33.

13 J. FOSSUM, in Dictionary of Deities and Demonsin the Bible, Brill, Leiden 1995, s.v. «dove».

14 Le colombe dovevano avere una certa importanzaanche nel culto di Ascalona, a giudicare dalla leggendanarrata da Diodoro Siculo (II 4, 2-4) a proposito dellametamorfosi di Derceto in pesce e del nome della figliadi lei, Semiramide, che significherebbe, secondo lostorico greco, «colomba». Cfr. G. GARBINI, I Filistei.Gli antagonisti di Israele, Rusconi, Milano 1997, pp.186-88. Il racconto di Diodoro tradisce una certa

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dell’espressione risultasse incomprensibile già inetà antica. Se dunque un autore dell’etàellenistica avanzata avesse voluto mettere periscritto in modo sistematico le vicende di unprofeta di nome Giona, non avrebbe tralasciatodi tenere conto di tale espressione che, conqualche violenza al testo non insuperabile perl’esegesi (bisognerebbe eliminare entrambi gliarticoli determinativi) poteva essere tradottacome «la città di Giona».

Partendo dal porto di Giaffa, il profetadecide di fuggire a Taršiš, un luogo misterioso enon privo di suggestioni mitologiche. Secondo ilTalmud, una delle porte della Gehenna si trovanel mare di Taršiš, ma si tratta verosimilmentedi una tradizione secondaria, ricavata dalracconto biblico del naufragio di Giona.Nell’Antico Testamento invece il termine è legatoall’espressione «navi di Taršiš» generalmentetradotta come «navi di lungo corso», proprioperché in grado di andare a Taršiš, localitàimprecisata ma lontana. Verso questainterpretazione porta in particolare 2 Cr 20,36-37, tanto esplicito e ripetitivo da sembrare unaglossa. Ma in altri passi dell’Antico Testamentole navi di Taršiš sembrano assumere unaconnotazione diversa: in Isaia (23,1) esse gridanoper la distruzione di Tiro e, nello stesso libro(2,16), sono ricordate tra le entità su cui siabbatte la collera divina nel cosiddetto «giornodi Yhwh» insieme ai cedri del Libano, alle quercedi Bašan e ai monti; nel Salmo 48, al versetto 8,si racconta come queste particolari «navi»vengano squarciate dal vento orientale inviatoda Yhwh. Da questi elementi sembrerebbe chel’espressione indicasse originariamente esserimitologici ostili al dio di Israele e contro i qualisi abbatte la sua collera. Forse non casualmenteanche nel libro di Giona il termine ���� è usatoin relazione al termine ��� , «nave»: il vascello

diretto a Taršiš a cui ricorre il profeta sembrauna sorta di parafrasi dell’espressione biblica«nave di Taršiš». La nave sarà del resto colpitada una tempesta mandata dall’ira di Yhwh,rischiando di subire la stessa sorte che tocca alle«navi di Taršiš» nel «giorno di Yhwh» descrittonel secondo capitolo del libro di Isaia (v. 16) enel Salmo 48 (v. 8) in cui le stesse navi sonodistrutte da un ������16.

Una stranezza lessicale è rappresentata dalverbo che descrive l’azione dei marinai checercano di fuggire alla tempesta (1,12):normalmente tradotto con «remare», il suosignificato letterale è «scavare»17. Questoparticolare uso del verbo �� richiama un branodel libro di Amos (9,2-4):

Se scaveranno nello Še’ol da lì la mia mano li prenderàe se saliranno al cielo da lì li farò discendere. Se sinasconderanno sulla cima del Carmelo da lì li cercheròe li prenderò; se si nasconderanno dai miei occhi nelfondo del mare da lì darò ordine al serpente ed esso limorderà. Se andranno in prigionia davanti ai loronemici da lì darò ordine alla spada e essa li ucciderà.Ho posto i miei occhi su di loro per il male e non per ilbene.

Il brano presenta una sorta di catalogo diluoghi inaccessibili in cui la mano di Yhwh,direttamente oppure per mezzo di intermediari,arriverà a punire i colpevoli. Il contesto induce asupporre che i luoghi elencati (lo Še’ol, il cielo, lacima del Carmelo, il fondo del mare) si trovinotutti al di là dei confini del cosmo e sianoaccomunati, forse con l’unica eccezione del cielo,da una analoga connotazione infernale. Inoltre la«prigionia», a cui si fa riferimento alla finedell’elenco, è un’immagine comune nel mondosemitico per indicare la condizione dei defunti (sipensi alla «liberazione delle anime prigioniere» permezzo della discesa di Cristo agli Inferi). Con l’uso

17 Dal punto di vista letterario, trovo moltoefficace il commento di E. DE LUCA, Giona/Ionà,Feltrinelli, Milano 1995, p. 28: «Scavarono il marecoi remi tanta è la forza che mettono nelle bracciae tanta è la forza dell’immagine evocata dallascrittura ebraica. Il verbo è letteralmente l’operadi scavo per fare breccia in un muro. La scena ègrandiosa: qui il mare è per i marinai unamuraglia».

16 L’espressione ������ ricorre nel libro di Giona,non a proposito del naufragio della nave (in quel casol’arma di Yhwh è un «forte vento», ����� ��, cheprovoca una «grande tempesta», ������) ma nell’ultimocapitolo, quando Yhwh lo manda a tormentare Gionadopo che la pianta si è seccata. L’autore potrebbe avertenuto anche presente che in Os 13,15 il ������ inviatoda Yhwh si alzava dal deserto e pertanto si adattavabene all’ambientazione della seconda parte del libro.

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di una forma verbale apparentemente poco adattaal contesto, l’autore del libro di Giona riesce adalludere efficacemente al contesto infernale in cuisi muove la nave su cui viaggia Giona nel vanotentativo di sfuggire all’ira di Yhwh.

Mentre i marinai cercano di fare fronteall’improvvisa tempesta, Giona scende nei «recessidella nave» e si addormenta profondamente.L’espressione ������� ���� è notevole in primoluogo per l’uso dell’hapax �����, un palesearamaismo che, se pure non sorprende in un testodi redazione tarda, resta tuttavia insolito in uncontesto in cui viene sempre coerentemente usatol’equivalente ebraico ��� . Curioso è anchel’impiego di una parola come «recessi» perindicare una stiva: è probabile che �����������intenda richiamare, per assonanza, l’espressione� ���� ����, che ha una forte connotazionemitologica (cfr. Is 14,13; Ez 38,6.15; Sal 48,3)18.

Un altro riferimento testuale èprobabilmente alla base dell’alternanza tra � e�� nel racconto, una difficoltà testuale che hadato origine a complicate spiegazioni esegeticheda parte dei rabbini19. Si tratta di una incoerenzatanto più vistosa in un racconto così breve ed èdifficile considerarla alla stregua di un sempliceerrore dell’autore del libro biblico: si direbbepiuttosto uno di quegli «errori-spia» chesegnalano al lettore che il testo va inteso in mododiverso da come appare a una prima lettura. Iltermine ��� ricorre, tra l’altro, nel libro delDeuteronomio (4,18), in un’elencazione diimmagini di culto proibite:

L’immagine di ogni essere che striscia sulla terra,l’immagine di ogni «pesce» (��) che è nell’acqua sottola terra.

Una simile specificazione dell’habitat del«pesce» fa pensare a una creatura mitologica piùche a un animale comune. In ogni caso l’uso diquesto termine nel libro di Giona sembra alluderea un pesce molto particolare, che nella versionegreca è stato interpretato come «mostro marino».

Il sacrificio offerto dai marinai alla finedella tempesta è, come ho già avuto modo diosservare, una situazione particolarmenteinverosimile nel contesto della vicenda20. Il passobiblico a cui l’autore allude questa volta è ilSalmo 107, un componimento dal significato atratti oscuro, che sembrerebbe riferirsi alleimprese di Yhwh nell’Oltretomba e in particolarealla liberazione dei «prigionieri». Il salmo apparechiaramente diviso in quattro sezioni dallaripetizione di un ritornello21; la partecomprendente i versetti 22-30 presenta unasituazione che ricorda da vicino la vicendanarrata nel primo capitolo del libro di Giona:

Offrirono a lui sacrifici di ringraziamento, narraronole sue opere con gioia coloro che scendono nel marenelle navi, che fanno le loro opere nelle grandi acque.Costoro videro le imprese di Yhwh e le sue meraviglienella profondità. Egli parlò e fece levare un vento ditempesta, che sollevò le onde; salirono al cielo, sceseronegli abissi, i loro animi si scioglievano nella disgrazia.Giravano, barcollavano come un ubriaco e tutta la lorosapienza fu inghiottita. Gridarono a Yhwh nella loroangoscia ed egli li liberò dalle loro difficoltà. Ridussela tempesta al silenzio e tacquero le sue onde; e sirallegrarono perché si erano calmate e lui li feceriposare alla città (?) del loro desiderio.

Ancora una volta il brano biblico a cui illibro di Giona allude presenta dei riferimenti auna realtà infernale: a parte il senso generale

pp. 49-50). L’autore dei Capitoli di Rabbi Eli‘ezer (10)intende invece che i marinai, sempre dopo esseresbarcati, si recarono a Gerusalemme e là sicirconcisero (la parola «sacrifici» indicherebbe il«sangue dell’alleanza, che è simile al sangue delsacrificio»).

21 Un’analisi del salmo anzi potrebbe far supporreche le quattro parti si riferissero a quattro diversiaspetti dell’inferno. Purtroppo il greco non presentapressoché alcuna variante e pertanto non c’èpraticamene nessuno strumento per ricostruire, anchedubitativamente, un testo che appare in molti puntigravemente corrotto.

18 J. S. ACKERMAN, Jonah, in R. ALTER - F. KERMODE

(eds.), The Literary Guide to the Bible, Fontana,London 1989, p. 235; P. J. NEL, cit., p.218.

19 Le spiegazioni proposte sono le più varie:dall’inghiottimento del primo pesce da parte di unopiù grande all’ancor più improbabile trasbordo delpovero Giona da un pesce all’altro.

20 Anche in questo caso l’esegesi giudaica devericorrere a una spiegazione macchinosa: «Comeavrebbero potuto offrire sacrifici a bordo di una nave?L’interpretazione corretta è che si impegnarono adoffrire un sacrificio una volta che fossero tornati ariva» (R. DELLA ROCCA, Il libro di Giona, s.l. 1994,

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del componimento, che non può che restareipotetico, sono significative le ricorrenze deitermini �������, ����� e ������.

La chiave di lettura della prima parte delracconto viene offerta, oltre che dagli spuntilessicali che abbiamo ricordato e che certo nonsfuggivano a un conoscitore della Bibbia, dallungo salmo attribuito a Giona, che costituisce ilcapitolo secondo. Tutti i commentatori, antichie moderni, hanno notato che il salmo si presentacome un corpo estraneo nella narrazione, sia perdifferenze di ordine linguistico (la lingua delbrano poetico presenta caratteri più arcaici) siaper il fatto che il contenuto del salmo presupponeche l’orante sia già stato salvato, il che è incontraddizione con quanto affermato nellanarrazione. «Il disaccordo fra il salmo e il suocontesto», osservava tra gli altri EliasBickerman, «mostra che l’autore deve avereadoperato un salmo che già circolava sotto ilnome di Giona»22. Il tema del salmo è unasupplica «dal ventre dello Še’ol», a cui Yhwh dàascolto: lo scenario descritto nel componimentoè uno dei più dettagliati paesaggi infernalidell’Antico Testamento23.

Dopo l’interruzione del salmo, inizia laseconda parte del racconto che comprende lamissione del profeta a Ninive (capitolo 3) e lapermanenza del profeta in una zona arida a estdella città (capitolo 4). La struttura del librosuggerisce che anche questa seconda parte,sebbene meno immediatamente decifrabile neisuoi riferimenti, abbia un secondo livello dilettura.

L’episodio di Giona che si ritira in una zona«a est» della città e si rallegra dell’ombra di una

pianta cresciuta spontaneamente24, ricorda davicino un episodio della vita del profeta Elia25.che, dopo l’uccisione dei profeti di Baal, si inoltra«nel deserto» (1 Re 19,4-5) con l’intenzione dilasciarsi morire. Sotto l’albero (in questo casoun albero ��) Elia si addormenta e gli appareun angelo, che lo esorta a mangiare. Il libro diGiona non dice, in effetti, che il profeta dormisseall’ombra dell’albero, ma solo che «provava unagrande gioia» per quella pianta, che gli facevaombra sul capo (4,6). Tuttavia il sonno delprofeta Elia richiama il «sonno profondo» di cuidormiva Giona nei «recessi della nave»26. Ildesiderio di morte è ciò che più direttamenteaccomuna i due profeti: Giona in realtà vuole«vedere cosa sarebbe successo nella città» (4,5),ma appena due versetti prima ha pregato Yhwhdi prendere la sua vita (v. 3) e la richiesta saràreiterata al v. 8, dopo che il verme ha fattoseccare la pianta. Le invocazioni di Giona sono,in questo senso, continue e apparentementespropositate: «E ora, o Yhwh, prendi la mia vita,perché per me è meglio morire che vivere» (v. 3);«…e chiese di morire e disse: «Meglio morire chevivere»» (v. 8); «…sono sdegnato fino alla morte»(v. 9).

Il tema della morte ricorre continuamen-te, a livello lessicale, in tutto il quarto capitolo.Il verbo che esprime il venir meno di Giona col-pito dal vento e dal sole, una rara formahitqattel dalla radice ���, rimanda all’unicaaltra attestazione di questo verbo con il signifi-cato di «svenire», che si trova nel libro di Amos(8,13): il contesto del passo profetico è una sce-na di lutto e di morte, in cui delle ragazze muo-iono di sete. Il termine �����, che indica il «ver-

alla sua ombra nelle raffigurazioni paleocristiane. NelCommentario di Gerolamo al libro biblico si accennaa una polemica sulla corretta traduzione del terminein greco e in latino («zucca»? «edera»?).

25 J. MAGONET, Form and Meaning. Studies inLiterary Techniques in the Book of Jonah, SheffieldAcademy Press, Sheffield 1983, pp. 67-69.

26 È questo il secondo «riferimento incrociato» chesi può notare tra il capitolo 1 e il capitolo 4, dopo lamenzione del ���� �� (vedi nota 16) che abbatte le«navi di Taršiš» nel Salmo 48,8 e che in Giona non fanaufragare la nave nel capitolo 1, ma colpisce ilprofeta nel capitolo 4.

22 E. BICKERMAN, Giona ovvero la profezia incompiuta,in Quattro libri stravaganti della Bibbia. Giona-Daniele-Kohelet-Ester, trad. ital. Pàtron, Bologna 1979, p. 31 (ed.orig. Four Strange Books of the Bible. Jonah/Daniel/Koheleth/Ester, Schocken, New York 1967).

23 Per un’analisi del salmo si rimanda a R.COUFFIGNAL, Le Psaume de Jonas (Jonas 2, 2-10). Unecatabase biblique, sa structure et sa function:«Biblica» 71 (1990), pp. 542-52.

24 L’albero, il cui nome rappresenta un hapax(sembrerebbe la resa ebraica di una parola greca),deve avere un significato simbolico, a giudicare dallamassiccia presenza della scena di Giona che dorme

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me» inviato da Yhwh per far seccare la piantadi Giona, in Is 14,11 il è usato in parallelismocon �� per descrivere la corruzione dello Še’ole lo stesso parallelismo si ritrova nelle cupe im-magini del salmo 22 (v. 7). Questi richiami te-stuali sono forse meno evidenti di quelli notati inprecedenza, ma suggeriscono una presenza co-stante della morte nella vicenda del profetaGiona, con un’insistenza che sembra andare benoltre le esigenze narrative di un racconto edifi-cante.

I riferimenti testuali finora ricordaticonfermano la dimensione «mitologica»dell’ambientazione della vicenda di cui Giona èprotagonista. Il mare e il deserto «a est dellacittà» in cui Giona si muove per compiere la suamissione terrena rappresentano due aspettispeculari e complementari della stessa realtàinfernale, in cui la tradizione voleva che Gionaavesse viaggiato27.

Da questo quadro complessivo restaescluso il capitolo 3, che descrive la missione diGiona per le vie di Ninive, «la grande città». Sipotrebbe però affermare che Ninive stessa, tantotemuta dal profeta fin dall’inizio del libro, abbiadelle connotazioni infernali. In primo luogo, sitratta della capitale di un paese straniero e, cometale, è esterna e anzi antitetica allo «spaziosacro» della terra di Israele. In uno studio cheho già avuto occasione di citare, Nicholas Wyattevidenziava come l’Egitto sia equiparato, indiversi testi biblici, al regno della morte28: tral’altro, il movimento che si compie per

raggiungerlo, provenendo dalla Palestina, èimmancabilmente una «discesa». Il paesestraniero, situato al di fuori dei confini della terrapromessa (il cui territorio rappresenta,idealmente, il cosmo) assume valenze caotiche e«infernali» di per sé. «Assur», che ricorre spessonei testi profetici in parallelismo con l’Egitto,sembra avere infatti le stesse caratteristiche, inprimo luogo l’impurità e l’impossibilità dipraticare il culto di Yhwh29. L’insistenza del li-bro di Giona sulla grandezza di Ninive («Alzati,vai a Ninive, la grande città», v. 1,2, ripetuto alv. 3,2; «Ninive era una città molto grande» v. 3,3; «e io non dovrei avere pietà di Ninive, lagrande città…» v. 4,11; corsivi nostri) potrebbeessere un’allusione voluta a uno dei nomidell’Oltretomba, che nella tradizione me-sopotamica, e probabilmente anche in quellacananaica, era comunemente definito «la GrandeCittà»30. La meta della missione profetica diGiona, svolta tra due «deviazioni» rispet-tivamente nell’abisso e nel deserto, è a sua voltaun luogo normalmente al di fuori del raggiod’azione del dio di Israele e, in una certa misura,infernale.

Così precisata l’ambientazione simbolicadella vicenda, è necessario notare la significativadoppia menzione del tempio di Yhwh (��������),ombelico del mondo e via di comunicazione trale diverse parti dell’universo, all’interno delsalmo che segna il centro del componimento(2,5.8)31. La presenza di Dio, da cui il profetacontinua a fuggire, brilla tuttavia, esplicitamenteevocata, anche nella profondità dello Še’ol.

paese fosse «literally overshadowed by the giganticstructures of its royal tombs» (p. 75).

29 Si veda ad esempio Osea 9,3-4: «Nonrisiederanno nella terra di Yhwh. Efraim torneràin Egitto, in Assur mangeranno impurità. Nonliberanno vino a Yhwh e non gli saranno graditi iloro sacrifici».

30 J. BOTTÉRO, La mitologia della mortenell’antica Mesopotamia, in P. Xella (cur.),Archeologia dell’inferno. L’Aldilà nel mondo anticovicino-orientale e classico, Essedue, Verona 1987,p. 62.

31 Non condivido la definizione di Y. SHERWOOD,che descrive il libro di Giona come un «infinitely richbut centreless text» (cit., p. 233).

27 Nel libro non ricorrono mai termini espliciticome «deserto» o «steppa», ma la pianta che crescesul riparo di Giona sembrerebbe l’unica, visto cheseccata quella il sole batte violento sulla testa delprofeta fino a farlo venir meno. Inoltre nel passorelativo all’episodio di Elia a cui il contesto di Giona4 fa riferimento, ricorre effettivamente il termine��. Per un tentativo di ricostruzione della geografiamitica del regno dei morti nella tradizione ebraicaantica, mi permetto di rimandare al mio studio Ilregno del Nemico. La morte nella religione di Canaan,in corso di stampa.

28 N. WYATT, cit, pp. 72-77. Non mi sembratuttavia condivisibile l’affermazione dell’autore, cheattribuisce questa visione dell’Egitto al fatto che il

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5. Il messaggio teologico

Alla luce delle osservazioni finora esposte,non ritengo che il libro di Giona possa essereconsiderato un semplice racconto edificante, oaddirittura parodistico o satirico come qualchecommentatore ha suggerito. Se così fosse, bendifficilmente si spiegherebbe la sua inclusione nelcanone biblico e la relativa fortuna di cui hagoduto nel mondo antico32.

Il primo messaggio che si coglie è una sortadi «attuazione narrativa» del passo di Amos (9,2-4), richiamato attraverso l’insolito uso del verbo«scavare» nel primo capitolo: per quanto l’uomofugga, Dio lo raggiungerà ovunque, anche nelleprofondità dell’inferno. Infatti anche al di fuoridei confini del mondo, nello spazio sinistro eminaccioso in cui Giona si muove, l’azione di-retta ed esplicita di Dio lo accompagnacostantemente33: Yhwh manda il forte vento checausa la tempesta (1,4); ordina al grande pescedi ingoiare Giona (2,1) e poi di vomitarlo sullaterraferma (2,11); fa crescere la pianta neldeserto (4,6) e poi manda il verme a roderla (4,7);infine invia il vento caldo ad esasperaredefinitivamente il profeta (4,8). Ma nel libro diGiona l’azione di Yhwh non è una vendetta, mauna redenzione: parafrasando il passo di Amos,Dio pone gli occhi sugli uomini (e sul suorecalcitrante profeta) «per il bene e non per ilmale».

Una seconda componente teologica dellibro è certamente un certo universalismo.L’evidente indulgenza di Yhwh verso gli abitantidi Ninive, che contrasta con l’apparenteintransigenza del suo profeta, e la conversionedei marinai pagani dimostra certamentenell’autore di Giona un atteggiamento ideologico

favorevole al proselitismo. Forse non è un casoche il profeta nel deserto costruisca una«capanna» (����): si tratta di un riferimento allamessianica capanna di Davide (Am 9,11-12) doverisiederanno «tutte le nazioni sulle quali è statoinvocato il nome» di Yhwh34?

La vera originalità del breve libro biblicoconsiste nell’elaboratissimo modo di comunicaree allo stesso tempo codificare il messaggioteologico. Sono infatti possibili due distintilivelli di lettura. Il primo, più evidente, raccontala conversione di gente pagana al dio d’Israele,per aver assistito ai suoi prodigi (i marinai) oper aver dato ascolto alla predicazione di unsuo profeta (i Niniviti). Un secondo livello,costruito attraverso un tessuto di implicitecitazioni bibliche e di rimandi lessicali,conferisce una più ampia dimensionecosmologica all’azione di Yhwh: essa èuniversale non solo e non tanto perché èriconosciuta dai popoli stranieri, ma perché èefficace anche al di fuori dei confini del cosmo,nel regno della morte. La decifrazione di questosecondo messaggio, ben più significativo dalpunto di vista teologico, era probabilmentefacilitata dalla preesistenza di tradizioni relativea Giona e al suo viaggio agli Inferi, oltre chedall’inserzione al centro del componimento diun salmo più antico, forse già attribuito a Gionaproprio in virtù del suo argomento.

L’importanza teologica della figura diGiona non sfuggiva evidentemente a Gesù, checita la vicenda del profeta35 come «segno»della propria morte e resurrezione, ovverodella sua katabasis alle «parti più basse dellaterra». Allo stesso tempo, forse, il Messia diNazareth voleva alludere alla portatauniversalistica del proprio messaggio, che

la negazione dell’azione diretta di Yhwh nel mondo(G. GARBINI, La meteorologia di Giobbe: «RivistaBiblica» 43 [1995], pp. 85-91). In quest’ottica il librodi Giona potrebbe costituire una risposta polemicaalle posizioni espresse dall’autore di Giobbe.

34 Sull’uso di questo passo di Amos nella tradizioneevangelica, si rimanda a G. GARBINI, La capanna delre, in G. SFAMENI GASPARRO (cur.), ’Agaq¾ ™p…j. Studistorico-religiosi in onore di Ugo Bianchi, L’»Erma»di Bretschneider, Roma 1994, 173-76.

35 Mt 12,38-42; Lc 11,29-32.

32 Sulla fama del libro di Giona si veda Y.-M.DUVAL, Le livre de Jonas dans la littérature chrétiennegrecque et latine. Sources et influences ducommentaire sur Jonas de saint Jerôme, Étudesaugustiniennes, Paris 1972.

33 Il libro di Giona si caratterizza per un certo«interventismo» di Dio, la cui azione diretta causatutti gli eventi della vicenda. Sarebbe interessante unconfronto con il messaggio del libro di Giobbe che,secondo G. Garbini, avrebbe sostenuto posizioni ditipo «epicureo», in particolare per quanto riguarda

Chiara Peri

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sarebbe stato accolto soprattutto dai goim. Alivello teologico, infine il messaggio del librodi Giona, che celebra l’azione di Dio in gradodi superare i confini della morte, risulta inpiena sintonia con quello di un altro librobiblico, a cui la predicazione di Gesù facevaesplicito riferimento: il Cantico dei Cantici,il cui autore afferma, secondo il testo stabilito

dall’edizione critica di Giovanni Garbini, che«Amore è più forte di Morte»36.

Chiara Perivia Guido Guinizelli 96

I-00152 Romae-mail: [email protected]

36 G. GARBINI, Cantico dei Cantici, Paideia, Brescia1992.

SUMMARY

Judaic and Christian tradition attributes to Jonah a symbolic value that goes far beyond the literalmeaning of the facts described in the biblical book dedicated to this prophet. The mythological space inwhich the action takes place, and the numerous references, mainly of lexical nature, to other OldTestament books open the way to an interpretation which may lead to a better comprehension of thetheological message of this brief composition.

KEYWORDS: Jonah; Sheol; Tarshish.

Tra mare e deserto: il viaggio di Giona

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Josephus Flavius, Tübingen 1998 (henceforthJRRW), p. 131.

4 RDGE, p. 7.5 JRRW, pp. 125-127.6 See Cic., Att., XVI, 16c, 2; see also Phil., 1,

16-17, App., Bell.Civ., 2, 135; 3, 5 and 3, 22. Othersources are quoted by T.R. BROUGHTON, TheMagistrates of the Roman Republic, II, New York1952, pp. 316, 332.

Miriam Ben Zeev

FIVE JEWISH DELEGATIONS TO MARCUS ANTONIUS (44-41 BCE)AND JOSEPHUS’ APOLOGETIC PURPOSES

Four documents quoted by Josephus in thefourteenth book of his Antiquities deal with thepolicy of Marcus Antonius towards the Jews. Allof them attest to a clearly pro-Jewish policy.

In quoting his documents, however,Josephus had specific purposes1, among them thatof convincing his intellectual Greco-Roman publicthat the Jews had always been greatly respectedand honored by important Roman statesmen. Themodern scholar, therefore, is left to wonderwhether he is permitted to make historical use ofthese documents. In our specific case, we may alsoask ourselves whether such a favorable policy ofAntony towards the Jews is independentlyconfirmed by extant contemporary sources.

As to the question regarding authenticity,a comparison of these texts with original Romandocuments of the same kind is highly instructive.Unfortunately, the overwhelming majority of theactual original texts of Roman decrees andsenatus consulta dealing with foreign peopleshave been lost. Official copies, however, weremade by the Roman senate and sent, translatedinto Greek, to the interested parties, whosometimes used them to establish permanentrecords of those decrees that concerned them2.These are the texts preserved by Greekinscriptions, and with them we may compareJosephus’ documents, both from the formal pointof view and from that of their content.

Our first relevant document is quoted inAnt. XIV, 219-222. It is a senatus consultum issuedon the initiative of Marcus Antony and PubliusDolabella in the spring of 44 BCE, confirmingdecisions taken by Caesar concerning the Jews,

which, owing to Caesar’s death, there had beenno time to register in the Treasury. This is one ofthe few cases where a senatus consultum is quotedin full by Josephus. The prescript opens with thedate and the place («three days before the Ides ofApril, in the temple of Concord»). Then thewitnesses are mentioned, introduced bygraphomeno paresan, which translated the Latinscribendo adfuerunt, at the usual place in whichit appears in known senate decrees. There areeleven witnesses, which is the usual number inCaesar’s time, as opposed to the two or threeappearing in documents from the second centuryBCE3. The entire prescript, including the openingclause, is in full accordance with the standard formof prescripts in the senate decrees issued in theRepublican age. As for the theme, we find thestandard formula peri touton areskei hemin,«about these matters it pleases us that…». We donot find the additional mark of approval, that isthe vote of the senate formally expressed, edoxen.This however is not particularly significant, since,as Sherk shows, it is also missing in many decreespreserved by extant Greek inscriptions4.

As to the historical plausibility of thecontent of this document, we notice that eightsenators, out of the eleven mentioned byJosephus, allow a possible historical identi-fication with Roman senators active in Rome atthe time, known from other sources5. Moreover,the information concerning the later ratificationof Caesar’s decrees is confirmed by what Cicerotells us of the Lex Antonia which confirmedCaesar’s acta, and which was promulgated in thespring of 44 BCE6.

1 On the purposes of the Antiquities, see L.TROIANI, I lettori delle Antichità Giudaiche diGiuseppe: prospettive e problemi: «Athenaeum» 64(1986), pp. 343-453.

2 See R.K. SHERK, Roman Documents from theGreek East (henceforth RDGE), Baltimore 1969,pp. 15-16.

3 See my work Jewish Rights in the Roman World:the Greek and Roman Documents Quoted by

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Marcus Antonius (44-41 BCE) and Josephus’ Apologetic Purposes

The other documents dealing with Antony’spolicy towards the Jews quoted by Josephus wereissued three years later, in 41 BCE, afterOctavian’s and Antony’s victory at Philippi overBrutus and Cassius. They inform us that a Jewishdelegation met Antony at Ephesus, requesting thefreedom of those Jews who had been takencaptive by Cassius, and the restoration of theterritory of which they had been deprived by theTyrians in Cassius’ time. Antony agrees to theJewish requests, and sends two letters toannounce his decision, one to Hyrcanus (Ant.,XIV, 304-313) and the other to the Tyrians (Ant.,XIV, 314-318).

The formal features of these two lettersconform well to those appearing in official Romanletters written at that time. They open with thename of the sender in the nominative, followedby his official titles. In the letter to Hyrcanus,we also find the formula valetudinis («if you arein good health, it is well. I also am in good health,as is the army»: Ant., XIV, 306), a formula whichoften appears in official letters written by Romancommanders in the first century BCE7.

As to the content of the letters, it is amazingthat only a few lines concern the Jews. Thegreatest part deals with the battle of Philippi andwith the impious character of Brutus’ andCassius’ deeds. From the very beginning, it isclear that this is actually a piece of politicalpropaganda: «For when our adversaries andthose of the Roman people overran all Asia,sparing neither cities nor temples, anddisregarding the sworn agreements they hadmade, it was not only our own battle but that ofall mankind in common that we fought when weavenged ourselves on those who were guilty bothof lawless deeds against men and of unlawful actsagainst the gods, from which we believe the verysun turned away, as if it too were loath to lookupon the fool deed against Caesar…» (Ant., XIV,309). The text carries on at length, dealing withRoman internal and international politicalmatters. At first glance, it appears a long and

irrelevant digression, but it is worth noticing thatit finds a close parallel in the voluminous edictannouncing the proscriptions issued in Rome notlong before Philippi by the same Antony, togetherwith the other two triumvirs, Lepidus andOctavian. The edict is reported by Appian. It isan elaborate, propagandist declaration,justifying the proscriptions by means of violentattacks on the political opponents and defendingand explaining the position of the triumvirs. Thetext opens with charges against the murders ofCaesar, which are striking similar to thoseappearing in our letter: «Marcus Lepidus,Marcus Antonius, and Octavian Caesar, chosenby the people to set in order and regulate therepublic, do declare that, had not perfidioustraitors (poneroi deomenoi) begged for mercy andwhen they obtained it became the enemies(echthroi) of their benefactors and conspiredagainst them, neither would Gaius Caesar havebeen slain by those whom he saved by hisclemency after capturing them in war, whom headmitted to his friendship and upon whom heheaped offices, honors and gifts…»8. Appian doesnot constitute the only parallel to our letter.Allusion to Cassius’ and Brutus’ deeds in Asiaalso appears in a decree issued jointly byOctavian and Antony which is preserved in aninscription from Aphrodisias, where, too, theirbehavior is depicted in most emotive language9.

The third document concerning Antony’spolicy towards the Jews quoted by Josephus is infact a combination of two documents, anaccompanying letter sent to magistrates, counciland people of Tyre (Ant. XIV, 319) and a decreeissued by Antony. Both deal with the samematters, namely, the liberation of those Jews whohad been taken captive by Cassius, and therestoration of the territory of which they hadbeen deprived by the Tyrians, also in Cassius’time (Ant. XIV, 320-322). The letter opens withthe salutatio and the order, expressed by the verbboulomai, that the attached decree is «registeredin the public tablets in Latin and Greek

9 J. REYNOLDS, Aphrodisias and Rome, London1982, no. 7. On p. 51, Reynolds observes that theemotive words appearing on l. 4 are «very suitable tothe Caesarian view of the conduct of Brutus and Cassiusat Laodicea on the Lycus, at Rhodes and at Tarsus».

7 See JRRW, pp. 18, 34.8 App., BC, IV, 2, 8. On the literary features of

this edict, see M. BENNER, The Emperor Says: Studiesin the Rhetorical Style in Edicts of the Early Empire,Göteborg 1975, pp. 46-48.

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characters» and «kept in the most conspicuousplace in order that it may be read by all»,expressions which find numerous parallels in theepigraphical material. In particular, this letterclosely echoes that written by Antony or Octavianto the city Plarasa-Aphrodisias in 39 or 38 BCE,where we read: «[---], triumvir for the con-stitution of the Republic, to the Plarasa-Aphrodisian magistrates, Boule and People,greetings. If you are well, it is good. I myself tooam in good health along with the army. …Copiesof the privileges granted to you are affixed below.I wish (boulomai) you to register them in yourpublic records»10.

As for the decree, it opens with the nameof the issuer in nominative, followed by hisofficial title and the verb eipen. Then we findthe reasons which prompted the decree,introduced by epei, and the decision itself,introduced by tauta aphetheto, as we find bothin the decrees of the Republican age and in theedicts of the Imperial era. Formal features areusual.

The main content of these documentsconcerning the restoration of the territory andthe people enslaved is amply documented incontemporary sources, from which we learn thatthe restoration of the status quo in force beforewars considered illicit was a common pattern ofRoman policy. Consequently, all the events thattook place after Cassius was declared publicenemy of the Roman state, were declared legallyinvalid. The Romans would compensate the lossesthat their internal and international struggles hadcaused to peoples living under Roman rule. Inthese same years, and also later, in Labienus’time, in Asia as well as in Syria, a number offreeborn persons had been captured andenslaved and were then liberated by Antony.Appianus, for example, reports that «thoseinhabitants of Tarsus who had been sold intoslavery he (Antony) liberated by an order» (BC,V, 1, 7). Similar cases are also attested by theepigraphical material11.

We are therefore permitted to concludethat, both from the formal point of view and from

that of their content, these letters and theattached decree display striking similarities tothe letters and decrees issued by Romancommanders in the second half of the firstcentury BCE. We also realize that Antony’sagreement to the Jewish requests which emergesfrom these documents quoted by Josephus doesnot reflect a special consideration for the Jewishpeople but common Roman policy.

As for the real meaning of these texts,however, we may well ask ourselves whether thefavorable impression of Antony’s policy towardsthe Jews which Josephus is interested in stressingfinds confirmation in other contemporarysources. We do not have to look far. The sameJosephus gives us a completely different picturein other passages of his Antiquities, from whichwe see that, when vital political issues were atstake, Antony’s reactions and decisions were verydifferent.

The delegation referred to in thedocuments quoted by Josephus was not the onlyone that reached Antony, nor the first. Anotherdelegation had been dispatched by Hyrcanus toAntony a short time before, immediately afterthe battle of Philippi, when Antony and Octavianremained in effect the only masters of the Romanpolitical scene. The meeting, as Josephus depictsit, was most frustrating for the Jews. «Alsopresent were the leading Jews, who broughtaccusations against Phasael and Herod to theeffect that while Hyrcanus had the outwardappearance of sovereignty, it was they who hadall the power. But Herod, who was held in greathonor by Antony, came to him to defend himselfagainst his accusers, and in this way hisadversaries did not even get a chance to speak,for this service had been obtained by Herod fromAntony with money12».

Even more serious was an incident thatoccurred some time later, in the summer of 41.Antony was in Syria, and another Jewish embassycame to meet him at Daphnae beside Antioch. Itwas a huge delegation. Josephus writes that «ahundred of the most influential Jews came beforehim to accuse Herod and his friends, putting

Miriam Ben Zeev

12 Ant. XIV, 301-303. See also Bell. I, 242.10 RDGE no. 28 A, ll. 49-50.11 See for example RDGE no. 18.

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forward their most skilful speakers … and whenAntony had listened to both sides at Daphnae andinquired of Hyrcanus which were the betterleaders of the nation, he replied ‘Herod and hispeople’, whereupon Antony, who had of old beenfriendly with them because of the hospitablerelations which he had formed with their fatherwhen he was with Gabinius, appointed bothHerod and Phasael tetrarchs, and entrusted tothem the government of the Jews; he also wroteletters (to this effect), and put in chains fifteenof their adversaries, but as he was about to killthem, Herod’s intercession saved their lives»(Ant. XIV, 324-326). Unfortunately, this had onlythe effect of intensifying the agitation inJerusalem.

A third and larger embassy was sent toAntony at Tyre. Josephus tells that Antony, who«had already been heavily bribed by Herod andhis brother», gave orders to the governor of Tyreto chastise all whom he caught. Herod’s attemptto calm the deputies only intensified their fury.«Antony ordered out troops, who killed orwounded a large number. …Those who escapedwere, even now, not silenced, and by thedisturbance which they created in the city soexasperated Antony that he put his prisoners todeath’13.

Antony had been on excellent terms withHerod’s father Antipater for more than ten years,

since he was in Judaea with Gabinius in 55 BCE,as the same Josephus informs us14. Later, in 47BCE, Caesar had bestowed important politicaltasks on him, and Herod had given proof ofstrength and power. Antony needed a strong andfaithful leader in Judaea, also in view of thepossible danger coming from Parthia, dangerthat in fact materialized in 40 BCE. No doubt,Herod appeared to Antony as the most influentialally of Roman interests in Judaea. Money, too,may have played some role in Antony’s decisionto ignore Herod’s former collaboration withCassius, and to give him his full support.

Of the five delegations sent by the Jews toAntony between 44 and 41 BCE, therefore, threeof them, dealing with serious political issues,failed, the last with disastrous consequences.Josephus’ quotation of three long documentsdealing with minor issues that gained Antony’ssupport, has therefore a somewhat ironic taste.No doubt we may recognize Antony’s support forHerod, but we should not overestimate hisgoodwill toward the Jews of Judaea.

Miriam Ben ZeevBen Gurion University

Rehov Agassi 16/16,93877 Jerusalem – Israel

e-mail: [email protected]

Marcus Antonius (44-41 BCE) and Josephus’ Apologetic Purposes

14 Ant. XIV, 326; Bell. I, 244.13 Ant. XIV, 326-329; see also Bell. I, 246-247.

SUMMARY

Flavio Giuseppe nel XIV Libro delle Antichità menziona quattro documenti che trattano dellapolitica di Marco Antonio verso gli ebrei, in essi descritta come favorevole. Giuseppe, tuttavia, nelpresentare i documenti lascia trasparire l’intento di convincere il mondo intellettuale greco-romano chegli ebrei sono sempre stati grandemente rispettati e onorati dalle personalità politiche di Roma. Glistudiosi oggi si chiedono se attribuire valore storico a questi documenti e se questa presunta politica diAntonio favorevole agli ebrei sia confermata da altre fonti coeve. Da un esame accurato di esse emergeche possiamo riconoscere senza dubbio il supporto fornito da Antonio a Erode, ma non dobbiamoesagerare la sua benevolenza verso gli ebrei della Giudea.

KEYWORDS: Flavio Giuseppe; Marco Antonio; politica verso gli ebrei.

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cità delle donne sono conservati negli archivi aramaicida Elefantina, in Egitto: PORTEN - YARDENI 1989. Intutti i casi citati, però, a differenza di quanto accadea Palmira, la documentazione epigrafica non è inte-grata da materiale iconografico.

2 Circa trentacinque iscrizioni onorifiche datatetra 10/11 d.C e 260 d.C. che testimoniano l’attività diPalmira come centro carovaniero, sono discusse daGAWLIKOWSKI 1994 e 1996.

3 Si veda STAUFFER 1995.4 Tra i beni – non solo di lusso – in transito da

Palmira e colà tassati, la Tariffa menziona «olio profu-mato [che] è importato [in] v[asi di alabastro]» (r. 13mšh’ bšym’ [dy] mt’ ‘l [b]š[typt]’), «lana italiana»(r. 95 e 96: ‘mr’ dy ‘yt[ly’]; ‘mr’ ’ytlyq[’]), «un caricodi p[esce] affumicato» (r. 34: mn t‘wn n[wny] ’mlyhy’),«pinoli» (r. 114: ’strbyly’), e, parzialmente ricostruito,«[ta]ssa sulla porpora» (r. 137: [mk]s’ dy ’rgwn’).

Eleonora Cussini

LA RAPPRESENTAZIONE FEMMINILE A PALMIRA:STEREOTIPI E REALTÀ DOCUMENTARIA

La documentazione epigrafica ed ico-nografica che proviene dal sito di Palmira offreun punto di vista privilegiato per lo studio delruolo femminile. A differenza di altri archiviaramaici anteriori o coevi, i dati epigraficipalmireni sono integrati dal ricco repertorioiconografico pervenutoci che ci offre una prospet-tiva diversa e ulteriore, utile alla ricostruzionedella rappresentazione femminile e del ruolo delladonna a Palmira tra I e III secolo d.C1.

Palmira, l’antica Tadmor, è situata al centrodel deserto siriano, nei pressi di un’oasi. La soprav-vivenza e lo sviluppo del sito sono legati alla pre-senza di fonti d’acqua, intorno alle quali si svilup-parono i primi insediamenti nel Neolitico, nell’areadel Tempio di Bel. La Palmira greco-romana, le cuirovine sono a tutt’oggi visibili, si data tra il I secoloa.C. e il III secolo d.C. Tra il I e il III secolo d.C.Palmira fu un importante e ricchissima cittàcarovaniera, attraverso la quale transitavano benidi lusso, quali seta, incenso, unguenti, olii profu-mati, spezie, perle e pietre dure2. Alcuni di questibeni giungevano a Palmira dall’Estremo Oriente,dalla Cina e dall’India fino al Golfo Persico; di quivenivano trasportati lungo l’Eufrate, per giungerepoi a Palmira ed essere successivamente inviati fino

al Mediterraneo e alle destinazioni successive. Unaprova tangibile di questi commerci è data dai fram-menti di vesti di seta, alcuni dei quali decorati daideogrammi cinesi, ritrovati nel corso degli scavi ditombe palmirene3. Nella Tariffa (PAT 0259), unalunga iscrizione bilingue in greco e aramaico del 137d.C. contenente la regolamentazione del pagamen-to delle tasse municipali, troviamo riferimenti aibeni che transitavano per la città e venivano colàsottoposti a tassazione4.

Il periodo di maggiore espansione e ricchez-za delle attività commerciali palmirene si situa trail 130 e il 160 d.C.; la città era parte della provin-cia Siria dell’Impero Romano ed era governata daun’assemblea locale composta da membri delletribù autoctone, da quattro tesorieri e, probabil-mente, da altri membri eletti. L’imperatore Adria-no visitò Palmira nel 129 d.C., concedendo allacittà una serie di privilegi fiscali; dopo il 212 d.C.l’imperatore Caracalla concesse ulteriori privile-gi, tra cui lo status di colonia. Nel 267 d.C.Odainat, il capo locale di Palmira, in aramaico:rš’ tdmwr «capo di Tadmor»(PAT 2815), o mlkmlk’ «re dei re» (PAT 0292), nonchè governatoreromano della provincia Siria-Fenicia, fu assassi-nato insieme al figlio maggiore e il potere fu assun-

1 I contratti aramaici ritrovati a Nahal Hever checostituiscono l’archivio di Babatha, ci forniscono unanotevole quantità di dati relativi al ruolo di questadonna, alle sue capacità giuridiche e alle limitazioni alei imposte. Su questo archivio: LEWIS - YADIN -GREENFIELD 1989 e YADIN - GREENFIELD - YARDENI -LEVINE 2002. Per altri documenti giuridici riguardan-ti donne ritrovato nella stessa località, per esempiol’archivio di Julia Crispina, si veda COTTON - YARDENI

1997. Si vedano inoltre le iscrizioni funerarie nabateeda Mada’in Salih, tra gli estensori delle quali qualifigurano numerose donne, HEALEY 1993. La documen-tazione nabatea è tipologicamente simile a quellapalmirena (si tratta iscrizioni monumentali che con-tengono estratti di documenti giuridici redatti su ma-teriale deperibile), anche se, nel caso delle iscrizioninabatee la possibilità di cedere parti della tomba è difatto vietata. Documenti giuridici in aramaico, di epocaanteriore, contenenti dati relativi al ruolo e alle capa-

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to dalla sua vedova, la celeberrima regina Zenobia– Bat Zabbai nelle fonti aramaiche – nelle vesti direggente per il figlio Wahaballat, ancora bambi-no. Zenobia costituì un impero orientale di brevedurata, con la conquista dell’Egitto e dell’AsiaMinore. Nel 272 d.C. Palmira fu conquistata esaccheggiata da Aureliano e la regina Zenobia fudeportata a Roma. I commerci e l’importanza diPalmira come centro carovaniero scemarono viavia fino a cessare completamente. Intorno al 293d.C. divenne una fortezza di confine per i legiona-ri di Diocleziano. Fu restaurata da Giustiniano nelVI secolo, senza che, tuttavia, riprendessero le at-tività commerciali un tempo così fiorenti e, nel 634,fu conquistata dagli Arabi.

Il corpus testuale palmireno conta circa tre-mila iscrizioni, alcune delle quali bilingui(aramaico-greco, o aramaico-latino), o trilingui(aramaico-greco-latino5), redatte nel dialettoaramaico-palmireno, una fase dell’aramaico me-dio attestata epigraficamente tra il I secolo a.C. eil III secolo d.C., la cui grafia caratteristica necostituisce uno dei tratti distintivi. Le iscrizioni,oggetto di una riedizione critica a cura di DelbertR. Hillers e di chi scrive6, sono redatte su pietra,metallo o terracotta; è altresì certo l’uso di altri

supporti scrittori deperibili, quali il papiro e lapergamena, dei quali non restano che poche trac-ce7. Questi ultimi venivano impiegati per la stesu-ra di contratti, l’amministrazione ed altro; le iscri-zioni celebrative, dedicatorie e funerarie invecesono scolpite su pietra, mentre altri testi caratte-ristici dell’epigrafia palmirena, le tesserae o get-toni di ammissione ai banchetti sacri o marzeahsono brevissimi testi relativi alla celebrazione delmarzeah e sono redatti su piccoli oggetti di metal-lo, terracotta e vetro8. Tra le tipologie documen-tarie superstiti sono attestate in larga misura leiscrizioni dedicatorie e onorifiche. In questi testi,redatti secondo uno schema fisso, sono celebraticittadini benemeriti, capi-carovana e personalitàpolitiche. Numerosi esempi di iscrizioni onorifi-che sono conservati sulle colonne che si trovanoancora erette ai lati della grande via colonnata cheattraversa Palmira, il cosiddetto GrandeColonnato, come pure in altre zone della città9.Nella stragrande maggioranza esse celebrano uo-mini, con l’eccezione di due iscrizioni dedicate allaregina Zenobia10. Oltre a questi esempi, menzionidi donne si trovano nella Tariffa, in un paragrafoche registra tassazioni relative a prestazioni diprostitute11. Quali sono dunque, a Palmira, oltre

archeologica, dal rinvenimento di frammenti e da trac-ce lasciate sui basamenti in pietra: COLLEDGE 1976, p.90, pl. 124; HERZIG - SCHMIDT - COLINET 1991,p. 69. Si veda inoltre la statuetta di bronzo raffiguranteun sacerdote: BOUNNI - SALIBI 1965, pp. 121-138.

10 PAT 0317, iscrizione su colonna dedicata aWahaballat, «l’illustre re dei re, governatore di tuttol’oriente», che menziona anche Zenobia; PAT 0293,iscrizione su colonna eretta in onore di Zenobia daZabda, generale in capo e da Zabbay, generale diTadmor nel 271 d.C. Infine, una tessera di piombocon breve iscrizione in greco e aramaico conterrebbeun’altra menzione della regina Zenobia: PAT 2827[S]e[p Zhnob…a] ¹ bas…lissa.

11 PAT 0259, rr. 47-51: ’p ygb’ mks’ mn znyt’ mnmn dy šql’ dynr [’w] ytyr dnr ’hd mn ’tt’ wmn mn dyšql’ ’sryn tmny’ ygb’ ’sryn tmny’ [Parte II, Colonna 2]wmn mn dy šql[’] ’sry[n š]t’ «Inoltre, l’esattore delletasse riscuoterà la tassa dalle prostitute, da quella cherichiede un denario [o] più, un denario per (ogni) don-na; e da quella che richiede otto assarii, egli riscuoteràotto assarii; [Parte II, Colonna 2] e da una che richie-da [s]ei assar[ii], egli riscuoterà [sei] assarii»; r. 125:mks’ dy ‘lymt’ «la tassa sulle ragazze (= prostitute)».

5 Si veda ad esempio, PAT 2801, un’iscrizione rela-tiva alla fondazione di una tomba redatta in latino,greco e aramaico del 52 d.C.

6 HILLERS - CUSSINI 1996. Tutte le iscrizioni palmirenecitate fanno riferimento a questa edizione e sono indi-cate dall’abbreviazione PAT seguita da un numero.

7 Piccolissimi frammenti di papiro, inediti, con re-canti tracce di iscrizioni in aramaico e in greco, ritrovatinella Tomba di Kitot si trovano oggi al Museo di Palmira.Si veda inoltre un’iscrizione di difficile comprensione,redatta su pergamena e ritrovata a Dura Europos:WELLES - FINK - GILLIAM 1959, p. 414, Pl. LXVIII: 2.

8 Sono attestati più di mille e duecento esemplari ditesserae di varie forme e dimensioni. Per le iscrizionisi vedano PAT 2012-2623. Si vada inoltre INGHOLT -SEYRIG - STARCKY 1955.

9 Sulle mensole aggettanti, un elemento tipico del-l’architettura palmirena, erano poste statue, in bronzoo in pietra, raffiguranti l’individuo celebrato nell’iscri-zione. Nessuna delle statue di bronzo è stata rinvenuta;tuttavia, riferimenti a tassazioni imposte su statue dibronzo sono contenuti nella Tariffa, r. 128: xlmy nhš’’drty’ «immagini di bronzo, (ossia) statue». Oltre al datoepigrafico, tale presenza è confermata su base

La rappresentazione femminile a Palmira

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a questo frammento dalla Tariffa e alle tre brevicitazioni riguardanti Zenobia, i documenti perve-nutici che menzionino donne?

Un lotto considerevole all’interno delcorpus epigrafico palmireno è costituito dalleiscrizioni funerarie; si tratta, per la maggior par-te, di epitaffi che registrano il nome dei defunti ea volte i loro patronimici e sono incisi a lato deirilievi funerari che, in origine, sigillavano i loculiposti all’interno dei tre tipi di edifici funerariattestati a Palmira12. Poichè molti dei rilievifunerari rappresentano donne, essi sono la no-stra fonte più ampia di materiale per lo studiodella rappresentazione femminile a Palmira. Tut-tavia, le iscrizioni che li accompagnano, ancorchènumerosissime, sia a causa del loro carattereformulaico, che della loro laconicità, non ci per-mettono di ricostruire quale fosse il ruolo delledonne in questione nella società palmirena13.Qualche dato utile allo studio di questo aspettoci viene fornito da un altro gruppo di iscrizioniritrovate anch’esse in contesto funerario: si trat-ta dei cosiddetti testi di concessione, ossia iscri-zioni a carattere monumentale, scolpite sullearchitravi o sugli stipiti delle porte di accesso alletombe, o su pareti, o incise su lapidi murate sullepareti delle tombe, che registrano compravenditedi singoli loculi, o di aree (esedre e corridoi), odell’intera tomba e costituiscono un aspetto pe-culiare ed un tratto unico del corpus testualepalmireno. I testi di concessione sarebbero, se-

condo la mia opinione, veri e propri estratti dacontratti di compravendita, di cui esistevano co-pie formalmente più articolate e complesse, re-datte su pergamena e papiro. Copie di tali con-tratti su supporto scrittorio deperibile, dei qualinon è rimasta traccia, venivano depositate e con-servate negli archivi della città, mentre altre co-pie restavano in possesso dei contraenti14.

Le iscrizioni di concessione, cosìmonumentalizzate sulle pareti delle tombe, suggel-lavano il diritto di sepoltura acquisito dal compra-tore che, nella maggior parte dei casi non era legatoda vincoli di parentela alla famiglia del fondatore eil cui nome, quindi, non appariva nell’iscrizione difondazione e dedica della tomba. Sulla base di se-dici iscrizioni di concessione che si datano tra il II eil III secolo d.C., ricostruiamo il diritto esercitatoanche da donne, ad amministrare e gestire i propribeni, nel nostro caso, le tombe15. Inoltre, un testodel I secolo d.C., pur non facendo riferimento aduna compravendita, indica che la proprietàfuneraria è condivisa da due donne16. I testi in no-stro possesso rappresentano solo un frammentodella documentazione giuridica originaria, che com-prendeva, tra gli altri, anche contratti di compra-vendita di beni mobili e immobili; tuttavia, così comeè assodato che le donne potessero gestire le pro-prietà funerarie, allo stesso modo possiamo ipotiz-zare che lo stesso valesse anche per altri beni, comeabitazioni, campi, botteghe, schiavi, o altro17. Esa-minando i testi di concessione, si nota che le donne

Per uno studio dettagliato di queste ed altre iscrizionimenzionanti donne, si veda E. CUSSINI, Investigatingthe Role of Palmyrene Women, in stampa.

16 PAT 2727, 95 d.C., «Questo ipogeo, che è all’in-terno, è diviso in parti uguali tra Batmitray e Batailid.Entrando a destra, la prima fila [di loculi] appartienea Batailid, mentre a sinistra, la prima fila appartienea Batmitray; procedendo all’interno, la fila a destraappartiene a Batmitray e la fila a sinistra appartienea Batailid...».

17 Riferimenti alla compravendita di schiavi sonocontenuti nella Tariffa, rr. 2-6: mn m‘ly ‘lymy’ dy mt’‘lyn ltdmr / ’w [lthwmyh ygb’ mks]’ lkl rgl[y] [...]d<ynr> 20+2 / mn ‘lm dy y[zb]n b[mdy]t[’ ...] [d]<ynr>10+2 / mn ‘lm wr[n] dy yzbn [...] [d]<ynr> [...] / whnzbwn’ [ypq] ‘lymyn ytn lkl rgly [d]<ynr> 10+2 «da co-loro i quali importano schiavi, importati a Tadmor o[nel suo territorio, l’esattore delle tasse riscuoterà] perogni uo[mo]: 22 d(enarii). Per uno schiavo che viene

12 Le tombe a torre, caratterizzate da una scalainterna con sepolture a loculo ai vari piani e, a volte,da una camera sotterranea (o ipogeo), gli ipogei e, in-fine, i cosiddetti templi funerari.

13 Gli epitaffi funerari seguono infatti di regola laformula «Nome Proprio, figlia di Nome Proprio». Inalcuni casi : «NP moglie di NP, figlia di NP». Solo inpochi casi queste iscrizioni sono datate, ad esempioPAT 0887, 211 d.C.: «Attai, figlia di Ateshur, ahimé.Anno 522, nel mese di Tebet.»

14 Per un’analisi di questa tipologia di testi e dellaloro formulazione, si veda CUSSINI 1995, pp. 233-250.

15 I testi in questione sono: PAT 1815, 147 d.C.;PAT 1791, 171 d.C.; PAT 2761, 178 d.C.; PAT 0555,193 d.C.; PAT 0067, 194 d.C.; PAT 0562, 234 d.C.;PAT 0043, 237 d.C.; PAT 0095, 239 d.C.; PAT 0527,241 d.C.; PAT 2725, 242 d.C.; PAT 2729, 243 d.C.;PAT 0057, 263 d.C.; PAT 0058, 265 d.C.; PAT 0053,257 d.C.; PAT 0054, 267 d.C.; PAT 0055, 274 d.C.

Eleonora Cussini

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agivano in proprio, sia come compratrici che comevenditrici; a volte insieme ad altri individui, siauomini che donne, ma mai in posizione subalterna,o attraverso la mediazione di un tutore18. In altricasi, le iscrizioni ci mostrano donne nel ruolo diamministratrici delle proprietà del marito (assenteo incapace di occuparsene), o dei figli, pre-sumibilmente minori19. Tenendo presente questacapacità di comprare e vendere in prima personaesercitata dalle donne palmirene, ritorniamo allerappresentazioni iconografiche femminili, e analiz-ziamone le catteristiche salienti, per poi confronta-re i risultati ottenuti con le fonti documentarie.

Lasciando da parte rappresentazioni didivinità femminili, come ad esempio Allat, im-magini di donne comuni sono conservate quasiunicamente nei rilievi funerari (Fig. 1, 2, 4)20.Le poche eccezioni sono costituite da un fram-mento di bassorilievo dal frontone dal tempio diBel che raffigura quattro donne completamentevelate che partecipano ad una processione21 e da

un frammento proveniente dagli scavi del tempiodi Allat che mostra una processione di sette don-ne velate22. Poichè donne col volto velato non sitrovano altrove nel repertorio iconograficopalmireno, tali immagini vanno considerate nel-l’ambito delle pratiche cultuali cui la scena fa ri-ferimento23. Un un altro caso è costituito da unastatua femminile parzialmente mutila, priva del-la testa e di iscrizione identificativa24.

I rilievi funerari ci offrono moltissimi ritrattifemminili singoli o duplici: due donne insieme, ingenere madre e figlia adulta (Fig. 2), o una donnainsieme ad un congiunto di sesso maschile (maritoo fratello). In altri casi la donna è parte di scenepiù articolate, quali le raffigurazioni di banchettiritrovate in contesto funerario, che vedono l’inte-ra famiglia riunita. In questi casi la donna è ri-tratta seduta, posta ad un’estremità della scena,in una posizione subalterna, mentre il coniuge, coni figli alle spalle, occupa la posizione centrale(Fig. 3)25. In un caso una donna è protagonista di

cune rappresentazioni di divinità femminili a Palmirasi veda GAWLIKOWSKI 1990, pl. II, IV, XVII-XXII.

21 Un altro gruppo di donne velate, raffigurate inscala ridotta, appaiono all’estremità opposta.

22 DIRVEN 1999, fig. 18 e pl. XIX. Per una discus-sione del frammento dal tempio di Bel si veda SEYRIG

1934, pp. 159-165, pl. XIX; GAWLIKOWSKI 1990, p.2614. In entrambi i frammenti, la processione di don-ne velate segue un cammello sul quale è montato unpalanchino coperto da una tenda, probabilmente unaqubba sulla quale sono visibili tracce di pigmento ros-so. Si tratterebbe di una sorta di santuario mobile,che doveva contenere una statua della dea Allat:DIRVEN 1998, pp. 297-308, e DIRVEN 1999, pp. 82 eseguenti. Secondo DIRVEN 1999, p. 83, il frammentodal tempio di Allat è cronologicamente anteriore ri-spetto all’altro e sarebbe servito da modello per il bas-sorilievo proveniente dal tempio di Bel.

23 Sul significato e sull’uso del velo nel Vicino Orien-te antico si vedano de VAUX 1935 e, più recentemen-te, VAN DER TOORN 1995.

24 COLLEDGE 1976, pl. 126, statua onorifica in mar-mo.

25 Vanno notate inoltre, in alcuni casi, le dimen-sioni ridotte della statua che rappresenta la donna, ela pone, dal punto di vista dell’articolazione della sce-na, in secondo piano, mentre al marito è riservato ilprimo piano. Si veda, ad esempio il rilievo PAT0818+0819: COLLEDGE 1976, pl. 98 = HVIDBERG-HANSEN

- PLOUG 1993, p. 51, n. 8 e in molti altri casi.

ve[ndu]to in [citt]à [ ... ]: 12 d(enarii). Per uno schia-vo vetera[no] venduto [ ... ]: [10(+?) d](enarii). E seun mercante [esporta] degli schiavi, pagherà per ogniuomo: 12 [d](enarii)», o, r. 80: mn dy m‘l rglyn ltdmr«chiunque importi esseri umani, persone a Palmira».Tuttavia, nessun contratto relativo a questo tipo di tran-sazione ci è pervenuto. Per contratti aramaici di com-pravendita di schiavi da Samaria del IV secolo a.C., siveda CROSS 1985 e 1988. Il contratto pubblicato in CROSS

1988, Samaria 2, 351 a.C., mostra una donna, Abieden,nel ruolo di acquirente. Si veda inoltre il contrattosiriaco ritrovato a Dura Europos e redatto ad Edessanel 243 d.C., che registra la vendita di una schiava daparte di una donna, Marcia Aurelia Matar‘ata. Su que-sti documenti si veda CUSSINI 1993.

18 Da notare la diversa situazione che si evidenzianei documenti in greco facenti parte dell’archivio diBabatha. In essi Babatha viene sempre rappresentatada un tutore di sesso maschile, detto epitropos, e, inaramaico, ’dwn (P.Yadin 15 e 22, in LEWIS - YADIN -GREENFIELD 1989). Sulla questione si veda COTTON 1997.

19 Ad esempio, in PAT 1791 una donna agiscebmqmwt «al posto di», ossia per conto del propriomarito. CUSSINI 1995, p. 246.

20 Si tratta, comunque, solo di un segmento dellapopolazione di Palmira. Le donne raffigurate nei ri-lievi funerari appartengono infatti alle famiglie piùricche di Palmira, e la loro ricchezza è sottolineatadalla profusione di gioielli di cui si adornano e dallevesti sontuosamente ricamate che indossano. Per al-

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una scena di banchetto (Fig. 4) ed è affiancata daun servo che le porge uno scrigno contenente i suoigioielli. I rilievi funerari hanno preservato imma-gini di bambine, adolescenti e donne adulte. Spe-cifici elementi connotativi e pose stereotipate ca-ratterizzano i diversi ritratti. Le bambine (e i bam-bini) sono solitamente rappresentati a figura inte-ra, con grappoli d’uva, pigne o uccelli nelle mani,o alle spalle della madre (o del padre), mentre ineonati sono raffigurati nelle braccia della ma-dre26. A parte la presenza di orecchini in ritrattidi bambine, non si notano elementi specifici utilialla distinzione di sesso; poichè vesti e acconciatu-ra sono gli stessi, è solo l’iscrizione ad indicarci sesi tratti di maschio o femmina. I ritratti di ragazzenon si discostano molto dai ritratti di donne adul-te; spesso sono assolutamente identici per quantoriguarda acconciatura, vesti, monili.

A volte, una fiducia eccessiva nell’analisidel dato iconografico (abito, acconciatura, gio-ielli) a scapito di un’analisi complessiva del rilie-vo e della sua iscrizione, può essere fuorviante,ed ha portato in passato ad attribuzioni errate diritratti femminili, come ad esempio nel caso delbusto funerario di una giovane, ritenuto esserequello di un eunuco, anche se l’iscrizione che loaccompagna la identifica come una donna; o,ancora, nel caso di una bambina ritratta insiemealla madre secondo uno schema classico ed estre-mamente diffuso, ma considerate un eunuco af-fiancato da «una sinistra sirena»27.

I busti funerari che ritraggono donne adul-te si differenziano a volte dai ritratti di adolescen-ti di sesso femminile per quanto concerne alcunecaratteristiche somatiche, e, in special modo, l’ac-

conciatura. Anche se la stragrande maggioranzadei rilievi non è datata (in altre parole, le iscrizio-ni che li accompagnano non sono datate) si puòipotizzare una classificazione cronologica appros-simativa dei ritratti muliebri basata sull’analisi didati prosopografici o paleografici, o su datistilistici, come acconciatura, posa, gioielli e altrielementi28. Rappresentazioni di donne con velo edue ciocche di capelli che scendono lungo le spallesi iscrivono alla prima fase, tra 50 e 150 d.C.29;ritratti cronologicamente successivi, ascrivibili allaseconda fase mostrano donne perlopiù senza veloe caratterizzate dall’acconciatura detta «Melon-frisur», ispirata a quella di Faustina Maggiore,moglie di Antonino Pio, e largamente adottata aPalmira nel corso del II secolo d.C.30. Tra gli ele-menti caratteristici che riscontriamo nei ritrattidella prima fase, notiamo alcuni oggetti che ricor-rono con frequenza: si tratta del fuso e dell’arcolaio(Fig. 1), strumenti per la cardatura e la filaturadella lana. In un unico caso inoltre, una donna èraffigurata con in mano un gomitolo di lana31.

In altri casi, ritratti femminili che apparten-gono a questa prima fase mostrano donne con unao più chiavi in mano, o appese alla fibula appunta-ta sul petto32. Non tutti i ritratti femminili mostra-no la presenza di fuso e arcolaio; ci sono numerosialtri casi in cui la posa consiste nello stringere unacocca del velo, o nel sorreggere il volto con la mano.In taluni altri casi ai ritratti femminili sono asso-ciati elementi quali scrigni contenenti gioielli, comenel rilievo che mostra una donna su kliné (Fig. 4).Va notato comunque che mentre i busti maschilisono rappresentati insieme ad elementi facenti ri-ferimento alla professione svolta33, con oggetti che

ca nel III secolo d.C. Nei ritratti ascrivibili a questafase, come già notato da Colledge, non sono più presen-ti elementi quali il fuso e l’arcolaio, o le chiavi.

31 SADURSKA - BOUNNI 1994, p. 168, Cat. 225, fig. 161.32 Ad esempio, HVIDBERG-HANSEN - PLOUG 1993, p.

135, no. 89, o DENTZER-FEYDY - TEIXIDOR 1993,p. 165, n. 168 (= PAT 0644).

33 Per esempio il busto di un uomo con alle spalleun dromedario, probabilmente un mercante o un capo-carovana (HVIDBERG-HANSEN - PLOUG 1993, p. 90, no.47); a parte l’esclamazione hbl «ahimé», l’iscrizione èperduta; cfr. SADURSKA 1994, p. 186 e fig. 33, 35, 80,81. In numerosissimi casi, uomini con un caratteristi-co cappello a tronco di cono, sono idenficati come sa-cerdoti, si veda Fig. 3.

26 Ad esempio, COLLEDGE 1976, pl. 86 = DENTZER-FEYDY - TEIXIDOR 1993, p. 171, n. 174.

27 Per una discussione di questi materiali e delleprecedenti identificazioni erronee si veda CUSSINI

2000.28 INGHOLT 1928; COLLEDGE 1976, specialmente

pp. 69-72. Si veda inoltre SADURSKA 1994, con bi-bliografia precedente.

29 COLLEDGE 1976, pp. 69 e seguenti.30 COLLEDGE 1976, pp. 70-71. Per questo tipo di ac-

conciatura si veda il ritratto della giovane donna senzavelo, Fig. 2. La seconda fase, secondo Colledge, si col-loca, approssimativamente, tra 150 e 200 d.C. Infine,la terza ed ultima fase evidenziata da Colledge si collo-

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sono stati identificati come documenti su papiro opergamena o con altri materiali scrittori (Fig. 5 e6), o ancora, con utensili e materiali utilizzati nelrito o nel banchetto: balsamari, vasi, ciotole (Fig.3), le donne, al contrario, quando siano associatead oggetti, si tratta sempre di oggetti che rimanda-no ad un’occupazione prettamente femminile comela filatura, o le chiavi, a simboleggiare la casa. L’im-magine che ricaviamo dall’esame del datoiconografico, quindi, non collima perfettamente conquanto si evince dall’esame delle iscrizioni di con-cessione. Sulla base dei testi, ricostruiamo un’im-magine di donna che gode di libertà e di indipen-denza economica, della facoltà di comprare e ven-dere beni in prima persona; l’iconografia, invece,almeno secondo i ritratti della prima fase indicatasopra, ci mostra che anche le donne più ricche (esenza dubbio affrancate dai lavori più umili) sonoritratte secondo moduli e stereotipi che oggi forseci paiono limitanti, alla luce di quanto sappiamodelle effettive capacità di queste donne che, in tut-ta probabilità, non si dedicavano in prima personaad attività quali la filatura. Il fuso e l’arcolaio, comele chiavi, sono scelti dagli artisti palmireni a simbo-leggiare il ruolo femminile e un’immagine della don-na legata ad attività tradizionalmente femminili edomestiche. L’accento è posto sul focolare, la casa,simboleggiati dalle chiavi, o sulla filatura, epitomedel ruolo femminile. A Palmira quest’immaginesubalterna della donna (che non è mai raffigurataal centro delle scene famigliari) anche se è reiteratanei numerosi ritratti costruiti secondo questi mo-duli, viene smentita dall’esame delle iscrizioni dicompravendita che ci rimandano un’immagine piùcomplessa e più forte del ruolo femminile, che siesplicava anche in attività imprenditoriali, da svol-gersi al di fuori delle mura domestiche.

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Eleonora CussiniDipartimento di studi eurasiatici

Università Ca’ Foscari di VeneziaSan Polo 2035

I-30125 Veneziae-mail: [email protected]

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La rappresentazione femminile a Palmira

SUMMARY

An investigation of the role of women at Palmyra may be conducted on a restricted number ofinscriptions mentioning women, and on a wider specimen of portraits depicting women in stereotypedposes. As far as the epigraphic material is concerned, the largest majority of texts are funerary epitaphs,mentioning the names of the deceased women and their patronyms, or an indication such as «wife of»with no other reference to their role in Palmyrene society. Some additional data may be gleaned from theanalysis of a unique type of texts recording cession of portions of tombs. These texts indicate thatPalmyrene women could manage properties on their own, without the mediation of male relatives. Thispartly clash with the more demure image of women resulting from an analysis of iconography, and stressesthe importance of the interplay between visual and epigraphic data for a study of Palmyrene women andtheir role.

KEYWORDS: Palmyra; Role of women; Gender studies.

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Fig. 1: Busto femminile; PAT 0791, daCorpus inscriptionum semiticarum, tab.XLIX.

Fig. 2: Ritratto di due donne; PAT 0873, da Corpusinscriptionum semiticarum, tab. L.

Fig. 3: Scena di banchetto; PAT 0587, da Corpus inscriptionumsemiticarum, tab. XXXIX.

Fig. 4: Scena di banchetto; Museo di DamascoC.2153, da Colledge 1976, pl. 107.

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La rappresentazione femminile a Palmira

Fig. 5: Busto di giovane uomo; Museo di Istanbul3793, da Colledge 1976, pl. 80.

Fig. 6: Busto di scriba; Museo del Louvre 18.174, daColledge 1976, pl. 82.

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Comunale, Olschki, Firenze 1997; EID. (curr.), Iframmenti ebraici di Modena – Archivio Capitolare,Archivio della Curia – e di Correggio – ArchivioStorico Comunale, Olschki, Firenze 1999.

Chiara Pilocane

FRAMMENTI DI UN ANTICO MANOSCRITTO BIBLICO ITALIANO (SEC. XI)DAGLI ARCHIVI MODENESI

Oggetto di questa relazione è un manoscrit-to frammentario della Bibbia. Parti del mano-scritto sono state ritrovate, nell’ambito del «Pro-getto Genizah italiana», negli archivi della cittàdi Modena – Archivio di Stato, Archivio Capito-lare, Archivio Storico Comunale ed Archivio del-la Curia Arcivescovile – e nell’Archivio StoricoComunale della città di Nonantola1.

L’importanza del manoscritto è duplice. Daun lato l’esame paleografico rivela che si tratta diun manoscritto italiano redatto tra l’XI e gli inizidel XII secolo. È quindi uno dei più antichi mano-scritti italiani che abbiamo, se non il più antico.Dall’altro lato è particolarmente rilevante anchel’analisi filologica del testo del codice. Da essaemerge una puntazione anomala, differente in piùtratti dalle puntazioni a tutt’oggi note, e contem-poraneamente molto consistente e dettagliata.

Prima di entrare nel merito della questio-ne, vale la pena accennare brevemente alle tap-pe del discorso, a come si svolgerà la trattazionedell’argomento: i dati da fornire sono infatti moltie lo studio svolto in nello spazio di una tesi dilaurea è stato ridotto ad una relazione, nellaquale inevitabilmente si parlerà più per accennie proposte che non diffondendosi sui vari argo-menti. Dopo aver fatto riferimento al contestodel rinvenimento del manoscritto, si passerà al-l’aspetto principale del lavoro, quello filologico,ovvero lo studio dell’insolita puntazione di cui iltesto del manoscritto è dotato. Tale puntazione,come si vedrà, presenta numerose affinità conquella di un manoscritto già da tempo noto, ilCodex Reuchlinianus (d’ora in avanti CR) diKarlsruhe, un codice dei Profeti datato al 1105/1106. Dopo aver dunque trattato delle peculia-rità della puntazione del manoscritto di Modenae Nonantola in un confronto con il textus receptus(d’ora in avanti TR), si tratterà delle analogiecon il CR e si tenterà, basandosi appunto anche

sui risultati raggiunti negli studi passati sul CR,un’ipotesi sull’origine ed il carattere dellapuntazione in questione.

Iniziando dal contesto del ritrovamento,come detto, frammenti del manoscritto sono statirinvenuti, nell’ambito del «Progetto Ghenizà ita-liana» in più archivi. Nella metà del XVII secolo ilmanoscritto era stato evidentemente venduto allabottega di un cartularius (legatore) che, dopo aversmembrato il codice, ne aveva vendute le paginepergamenacee a più archivi in differenti periodiperché venissero lì riutilizzate come copertine diregistri notarili, di vacchette, di cartelline con attidi vario genere. Le date di reimpiego dei fogli delmanoscritto in molti casi sono conservate sui foglistessi, sui quali generalmente veniva annotato l’an-no in cui si iniziava la compilazione del registro; cisi trova così in un lasso di tempo piuttosto ampio,che va dal 1649 al 1722, la data più tarda che com-pare su uno dei frammenti del codice: evidente-mente dopo che il manoscritto era stato smembratonon tutti i fogli furono riutilizzati subito come co-pertine, ma alcuni furono reimpiegati soltanto piùtardi. Quanto al modo in cui il manoscritto giunsenelle mani del cartularius per essere reimpiegato,la questione è aperta, e non soltanto per questocodice in particolare ma per tutto il fenomeno delriciclaggio dei manoscritti ebraici. È fuori di dub-bio che il fenomeno fu fra il XVI ed il XVIII secolodiffusissimo in Italia, e lo dimostra il numero dimanoscritti che sono emersi e stanno emergendonegli archivi italiani, e segnatamente dell’EmiliaRomagna. Tuttavia i fattori che hanno portato allosmembramento e al riciclaggio dei manoscrittiebraici sono molteplici, e non c’è ancora accordosu quale possa essere quello determinante. Sicu-ramente la diffusione della stampa contribuì a farcadere in disuso il codice vergato a mano, non pareperò irrilevante la censura operata dall’Inquisi-

1 M. PERANI (cur.), Frammenti di manoscritti e libriebraici a Nonantola, Aldo Ausilio- Bottega d’Erasmo,Padova 1992; M. PERANI - S. CAMPANINI (curr.), Iframmenti ebraici di Modena. Archivio Storico

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Frammenti di un antico manoscritto biblico italiano (sec. XI)

zione sui libri ebraici; mentre i codici cartacei con-fiscati venivano dati alle fiamme, quellipergamenacei – ben più preziosi – una volta sot-tratti alle famiglie ebraiche venivano rivenduti allebotteghe dei cartularii per essere riciclati. Ciò nonporta ad escludere che certe famiglie ebraiche ab-biano venduto i loro vecchi codici manoscrittispontaneamente, ma le confische sembrano esse-re l’unico fattore in grado di spiegare la vastitàdel fenomeno. Questa ipotesi è per altro conforta-ta dal fatto che i manoscritti dell’Emilia Romagnahanno date di reimpiego successive a quelle suimanoscritti di altre regioni, in cui il tribunaleinquisitorio si impose prima. Lo Stato Estense ri-mase indipendente dall’influenza dell’Inquisizio-ne più a lungo di altri Stati, e il riciclaggio deimanoscritti divenne cospicuo solo quando ilSant’Uffizio con i suoi vari inquisitori – tra cui sipossono ricordare Arcangelo Calbetti e GiacomoTinti – impose la sua influenza2.

Va fatta ancora una premessa sul tipo diaccentazione riscontrata nel ms, prima di descri-verla nei suoi tratti principali: il codice in que-stione non è l’unico dotato di questa puntazionefra quelli ritrovati nell’ambito del «ProgettoGhenizà italiana». Un altro manoscritto, testi-moniato per ora soltanto da due frammenti del-l’Archivio di Stato di Modena, presenta quasitutte le caratteristiche tipiche della puntazionedel manoscritto di Modena e Nonantola, e sicu-ramente tutte quelle più significative; inoltre,dall’Archivio di Stato di Perugia proviene unaltro breve frammento con la fine del libro diEzechiele, che, oltre ad essere stato copiato conogni probabilità dallo stesso scriba del manoscrit-to di Modena e Nonantola, condivide con esso itratti salienti della puntazione e dellavocalizzazione. Si deve dunque tener presenteche il numero di manoscritti italiani che testimo-niano con sicurezza la stessa tradizione dipuntazione sale a tre.

Detto questo, è ora il momento di entrarenel merito della questione principale ed elencarele peculiarità essenziali della puntazione del ma-noscritto di Modena e Nonantola; si tratterà poi

brevemente del parallelo fatto con il CodexReuchlinianus e con la storia della ricerca su diesso, al fine di individuare un’eventuale relazionetra i due manoscritti e tentare un’ipotesi sull’ori-gine della puntazione del manoscritto emiliano.

Innanzi tutto, peculiare e significativo èl’uso del dageš, per il quale si individuano duefenomeni differenti:1. La presenza del dageš nella alef, alternato

al rafé. Il dageš compare tutte le volte in cuila lettera è consonante, il rafé quando èmater lectionis. In questa posizione il dageš,e alternativamente del rafé, ricorre in modomolto consistente.

2. È poi tipica la presenza del dageš lene nonsoltanto nelle �����������, ma anche in tuttele altre consonanti, fatta eccezione per legutturali e per la waw e la yod, che seguonoun comportamento ancora differente. Quin-di, si troverà il dageš ad inizio di parola, oad inizio di sillaba dopo šewa quiescente,anche nelle seguenti consonanti: �������� �� �� �� �. Come nella puntazione tiberienseclassica avviene per le �����������, così nelnostro manoscritto quando una parola è pre-ceduta da sillaba aperta con accento congiun-tivo le consonanti che ad inizio di parolausualmente possono prendere dageš lene ven-gono dotate di rafé.

3. Un’altra caratteristica interessa la notazionedella waw finale consonantica, ad esempio nelsuffisso di terza persona singolare maschile(����): nel manoscritto di Modena e Nonantolaviene aggiunto un punto nella waw, un dageš,che ne indica la natura consonantica.

4. Analogo è il caso della yod finale: quando èconsonante, ad esempio in ���, viene segna-to uno hireq sotto di essa perché la si possadistinguere dalla yod finale mater lectionis.

5. Ancora, se un prefisso vocalizzato con šewa( ������������) si attacca ad una yod con hireq, adesempio nella parola ���������, muta il suo šewain hireq e la yod iniziale della parola divienequiescente. Si avrà dunque ��������� anziché���������.

6. Ci sono poi tre parole che ricorrono in tuttoil manoscritto con una grafia particolare. Sitratta di �� ���, �!"� ed ���#�����. Per quanto con-cerne il tetragramma, esso viene semprescritto senza šewa sotto la yod e senza puntosulla waw. Il fatto che il nome di Dio abbia

2 A questo proposito si vedano per esempio PERANI,La “Genizah italiana” cit.; E. FREGNI - M. PERANI

(curr.), Vita e cultura ebraica nello Stato Estense,Fattoadarte, Bologna 1993.

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una grafia particolare non stupisce, in quan-to tradizionalmente la parola ha avuto unruolo a sé nei testi ebraici; basti ricordarel’uso di scriverlo in caratteri paleoebraici inmanoscritti che erano già in scrittura assira.Gli altri due casi sono più inusuali: da unlato, il pronome relativo viene scritto senzavocali e senza il punto diacritico sulla sibi-lante, dall’altro nella parola ���#������ vienevocalizzata solo la alef con xeré, in quasi tuttii frammenti del manoscritto. In tre frammen-ti la parola è vocalizzata interamente, ma indue di questi sotto la reš non si trova il con-sueto qamax, bensì il patah.

7. È da notare anche l’uso di vocalizzare het e‘ayin finali con šewa, sia che nel testo classi-co benasheriano esse abbiano il patahfurtivum, sia che non abbiano vocale.

8. Sempre per quanto riguarda la vocalizza-zione, al posto del qamax hatuf in sillabaatona chiusa viene usato sempre il hatafqamax per indicare la «o» breve: probabil-mente l’uso del hataf qamax, che in qualsia-si contesto sillabico viene letto «o», ha lo sco-po di evitare eventuali confusioni generateinvece dal qamax hatuf, che potrebbe venirletto «a» avendo la stessa forma del qamax3.

9. Ci sono poi due varianti nell’accentazione, eanch’esse si presentano in modo regolare econsistente: a) la prima consiste nell’uso delgereš semplice al posto dei geršayim; b) laseconda riguarda l’accentazione dei libri po-etici: viene sempre usato il tevir al posto deldehi prepositivo.

10. Le varianti grafiche, naturalmente quelle chenon dipendono dall’uso dei caratteri a stampaper il TR, sono anch’esse due: a) il mappiq nellahe finale consonantica viene segnato al di sottodella lettera anziché all’interno; b) Il puntodiacritico per distinguere šin da sin è posto al-l’interno della lettera, a destra o a sinistra del-la gambetta centrale, e non al di sopra.

Per concludere, fra le caratteristiche delmanoscritto di Modena e Nonantola vanno an-che segnalate le ricorrenza del maqqef e quelladel meteg.

11. Il maqqef è in linea di massima usato meno fre-quentemente che nel TR; tuttavia è bene ri-cordare che non si può essere definitivi su que-sto punto: il maqqef infatti sui manoscritti eraindicato da una linea sottilissima, dunque erasenz’altro il primo segno a scomparire perabrasioni o usura, e anche laddove le letteresono del tutto leggibili e sembra non ci sia al-cun segno tra esse, forse il maqqef era presen-te e si è cancellato. Non bisogna inoltre sotto-valutare il fatto che il maqqef era uno dei segniusati con maggior arbitrarietà nei vari mano-scritti e che, a quanto pare, la sua assenza nonera considerata particolarmente grave.

12. Per quanto concerne il meteg, esso è inveceusato nel manoscritto di Modena e Nonantolapiù frequentemente che nel TR: non sempreè facile individuare quali siano le regole cuisottostà nel manoscritto la presenza delmeteg. Tuttavia, si possono rilevare tre tipidi situazioni in cui il meteg è inserito nelmanoscritto laddove nel TR non c’è:i. Il primo caso interessa l’uso del meteg

laddove nel TR c’è soltanto un maqqef –in parole mono sillabiche o bisillabiche –e può essere suddiviso in due sottoca-tegorie: – Il meteg viene usato al postodel maqqef; – il meteg viene utilizzato inconcomitanza con il maqqef.

ii. Un secondo caso vede il meteg utilizzatocome accento secondario in una parolapolisillabica. Questa è la variante deci-samente più frequente; è da notare chein questi casi il meteg può essere postosu di una parola che ha già un accentosecondario, ed inoltre può essere postosu una sillaba immediatamente contiguaa quella con l’accento principale, cosache nel TR non è ammessa.

iii. Il meteg sostituisce poi in alcuni casi ilmunah.

Come è chiaro, se il testo del manoscrittopresenta anche alcune varianti di non granderilevanza, la maggioranza di esse è però signifi-cativa: ad esempio importanti sono quelle cheriguardano l’uso del dageš, la notazione di wawe yod finali consonantiche. Dinnanzi ad un ma-noscritto così particolare per la sua puntazione,il secondo passo dopo l’analisi approfondita del-le lezioni varianti, fatta attraverso una collazio-

3 L’unica parola che mantiene il qamax hatuf intutti i casi è ����.

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ne con il TR, è il confronto con uno dei pochissi-mi manoscritti che si avvicinino al codice di Mo-dena e Nonantola, il CR. Lo scopo è constatarese effettivamente i due manoscritti sianoaccostabili, così come appare a prima vista, an-che ad un esame approfondito, e se quindi gli stu-di svolti sul CR possano essere presi in conside-razione anche per la puntazione del manoscrittoemiliano. Per chiarezza si sono suddivisi i risul-tati del confronto fatto con il CR in tre gruppi:(a) i punti in cui il manoscritto ed il CR si com-portano in modo identico, (b) i punti in cui sicomportano in modo analogo, e (c) i punti in cuii due codici divergono.

a) Si può iniziare dalle lezioni identiche,che sono sei:1. Fra le caratteristiche più significative rientra

senza dubbio l’uso del dageš: da un lato, an-che nel CR esso viene usato nella alef quandoè consonantica, dall’altro, nella sua valenzadi dageš lene viene utilizzato in tutte le conso-nanti – e non soltanto nelle ����������� – fattaeccezione per le gutturali, proprio come nelmanoscritto di Modena e Nonantola.

2. In secondo luogo, anche nel CR sotto het e‘ayin finali viene sempre utilizzato lo šewa.

3. Anche il CR trasforma lo šewa al di sotto deiprefissi, quando essi si attaccano ad una yodvocalizzata con hireq, in hireq rendendo layod successiva quiescente; la forma ���������diviene così ���������.

4. Ancora, nell’accentazione il CR usa sempreil semplice gereš al posto dei geršayim, comeil manoscritto emiliano4.

Infine, le varianti grafiche che i codicicondividono sono due:5. Il mappiq viene posto al di sotto della he fina-

le consonantica, anziché all’interno di essa.6. Il punto diacritico che distingue šin da sin è

posto nella lettera anziché sopra.

b) Passando alle lezioni analoghe è bene in-dicare prima di tutto cosa si intende per lezioni in

cui i due codici si comportano in modo analogo.Questa categoria comprende tutti i punti in cui idue codici, pur presentando in effetti un segno dipuntazione differente, rispondono tuttavia ad unastessa esigenza filologico-grammaticale; in altreparole, i manoscritti intendono mettere in eviden-za una stessa caratteristica linguistica del testo, malo fanno in modo differente. Per essere più chiari sipuò passare all’elenco di questi caratteri analoghi:

1. La notazione della waw finale consonantica:come si ricorderà, il manoscritto di Modena eNonantola segna un dageš nella waw finalequando essa è consonante. Diversamente, ilCR usa mettere uno šewa in tale waw; anchese l’uno usa il dageš l’altro lo šewa è comun-que chiaro che l’intento per cui i due segni sonousati è il medesimo: sia il manoscritto emilianoche il CR intendono segnalare che una wawfinale è consonante, semplicemente indicanoil fenomeno con due espedienti diversi. Si puòdunque ritenere che questo tratto analogo equelli che seguiranno siano, insieme alle pe-culiarità identiche, ulteriori prove della vici-nanza dei due codici in quanto si riscontra neicodici il medesimo intento di evidenziare unostesso aspetto linguistico-grammaticale.

2. Lezione simile a quella appena descritta èl’uso di segnalare la yod finale consonanti-ca, uso che si nota sia nel manoscritto diModena e Nonantola, come si è visto, sia nelCR: il manoscritto di Modena e Nonantolausa a questo scopo uno hireq, il CR uno hireqed un rafé insieme.

3. Ancora, né il manoscritto né il CR usanoqamax hatuf per indicare la /o/ breve in sil-laba atona chiusa. Il manoscritto usa sem-pre hataf qamax, il CR alternativamentehataf qamax e holem.

4. Si nota poi un’analogia fra i due manoscrittianche nella grafia del tetragramma: il mano-scritto di Modena e Nonantola, come si è visto,non segna lo šewa al di sotto della yod, né loholem sulla waw, il CR segna regolarmente lošewa sotto la yod, ma non usa lo holem. I duecodici usano entrambi una grafia del nome diDio convenzionale e diversa da quella del TR.

5. Ancora, il CR come il manoscritto usa ilmeteg abbondantemente; non si può dire chei due codici in questione si comportino inmodo identico, in quanto spesso il segno vie-

4 A questo proposito si deve sottolieare che l’altrapeculiarità che riguarda l’accentazione – l’usa deltevir al posto del dehi – non può essere verificata nelCR, in quanto il dehi è accento dei tre libri poetici edel CR è conservata solo la parte dei Profeti.

Frammenti di un antico manoscritto biblico italiano (sec. XI)

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ne messo secondo regole diverse e nonindividuabili: in ogni caso, la caratteristicaprincipale, cioè un uso più frequente del se-gno, si riscontra in entrambi i manoscritti.

6. Infine, CR senza apparente motivo omette ilrafé sulla mem e sulla nun finali, mentre lousa sulle altre lettere finali. Anche il mano-scritto in parecchi casi omette il rafé in que-sta posizione.

c) Finora si è visto che i due codici sonoaccostabili per numerose, e soprattutto signifi-cative, somiglianze. Si devono tuttavia rilevareanche alcune differenze non trascurabili, chesono tra le altre cose indicative per tentare diipotizzare una relazione cronologica tra i duemanoscritti, una linea di sviluppo della punta-zione. Fra le differenze notiamo:1. Innanzi tutto, tratto tipico ed importante del

CR è l’assenza di distinzione tra vocali brevie vocali lunghe, cioè tra segol e seré da unlato e tra patah e qamax dall’altro. Questevocali vengono segnate alternativamente sen-za alcuna regola. Il manoscritto di Modena eNonatola invece si comporta regolarmente,in linea con la tradizione tiberiensebenasheriana classica, tenendo conto delladifferenza tra vocali brevi e vocali lunghe.

2. In secondo luogo, come si è già detto, il mano-scritto emiliano mette il rafé ad inizio di paro-la su una lettera preceduta da sillaba apertacon accento congiuntivo, come avviene nel TR.Il CR invece, non tenendo conto della sillabacon cui finisce la parola precedente, ad iniziodi parola usa comunque sempre, nelle lettereche possono prenderlo (cioè in questo mano-scritto, lo si ricordi, quasi tutte), il dageš lene.

3. Il CR scrive normalmente �!"� ed ���#�����,mentre il manoscritto usa due grafie defe-ctivae fisse.

4. Ci sono, infine, alcune differenze grafiche: a)nel CR si riscontra un uso frequente delle let-

tere dilatate che invece nel manoscritto diModena e Nonantola non compaiono quasimai; b) nel CR spesso lo šewa di una vocalecomposta viene scritto al di sopra della voca-le, nella he e nella het incluso dentro alla con-sonante, mentre nel manoscritto i casi del ge-nere si contano sulle dita di una mano; c) fre-quentemente CR omette il dageš nella sin/šin enella lamed quando sono in inizio di parola,mentre il manoscritto lo usa consistentemen-te, come per le altre lettere.

A parte queste eccezioni, prove del fattoche il manoscritto ed il CR costituiscono forse duetappe differenti dello sviluppo masoretico nel-l’ambito della stessa tradizione, i dati che con-sentono di accostare i due codici e considerarli,appunto, testimoni dello stesso tipo di puntazionesono più che sufficienti. Stabilito questo, a qualetradizione appartengono i due codici? O forsemeglio: da quale tradizione si è sviluppata la loropuntazione? Per rispondere a questa domanda sideve guardare alla storia della ricerca sul CR ealle ipotesi via via formulate sulla sua puntazione.Non sono molti coloro che hanno studiato il CR ela tradizione di puntazione che in esso è testimo-niata, ed in questa sede, per ragioni di tempo, siaccennerà solo brevemente alle varie posizioni inmerito, con lo scopo di giungere ad una possibi-le, e sempre del tutto ipotetica, identificazionedella storia e dell’origine della puntazione pre-sente nel manoscritto di Modena e Nonantola.

Il primo a parlare del CR, insieme ad altriframmenti in parte simili ad esso, fu Kahle inMasoreten des Westens5; se ne occupò poiAlexander Sperber, cui si deve l’editio princeps delcodice – se per tale intendiamo la riproduzione infacsimile6; Díez Macho riprese la teoria di Kahlesui manoscritti del gruppo in cui rientrava anche ilCR per confutarla alla luce dell’analisi fatta da luistesso su un manoscritto analogo, il 558 del JewishTheological Seminary di New York7; per ultimo

5 P. KAHLE, Masoreten des Westens, II,Kohlhammer, Stuttgart 1927, pp. 45-78.

6 A. SPERBER (cur.), Codex Reuchlinianus, No. 3of the Badische Landesbibliothek in Karlsruhe(formerly Durlach No. 35). With a GeneralIntroduction by A. Sperber: Masoretic Hebrew, inCorpus Codicum Hebraicorum Medii Aevi

Redigendum Curavit R. EDELMAN, Pars II: The Pre-Maroretic Bible, I. Codex Reuchlinianus, Munks-gaard, Copenhagen 1956.

7 A. DÍEZ MACHO, Un manuscrito hebreo protoma-sorético y nueva teoria acerca de los llamados ma-nuscitos Ben Naftali: «Estudios Biblicos» 15 (1956),pp. 187-222.

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Morag dedicò uno studio al CR8. È proprio a Moragche si deve la teoria più nuova e convincente sul-l’origine della puntazione del manoscritto.

Kahle aveva classificato il CR, insieme adalcuni frammenti provenienti dalla Genizah checondividono con esso e tra loro una serie di ca-ratteristiche, come manoscritto della scuola diBen Naftali. Com’è noto, del masoreta tiberiensecontemporaneo a Ben Asher non si sa pratica-mente nulla, e si è giunti anche a mettere in dub-bio la sua esistenza; il testo che più approfondi-tamente tratta delle presunte caratteristiche delsuo sistema di puntazione è il Kitab al Khilaf diMishael Ben ‘Uzziel, un trattato incentrato sulledifferenze e le somiglianze fra il testo di BenAsher e quello di Ben Naftali, redatto nel XIIsecolo.

Kahle si basa principalmente su questotrattato per enucleare le caratteristiche dellapuntazione bennaftaliana ed individuarle nel CRe nei manoscritti analoghi. Sono 21, a detta diKahle, i tratti tipici del sistema di Ben Naftali,quasi tutti presenti nel CR; per fare un esempiodi una peculiarità che Kahle considera di BenNaftali e che CR ed alcuni altri frammentibennaftaliani condividono con il manoscritto diModena e Nonantola si può citare l’uso del dagešnella alef. L’idea di un gruppo di frammenti conla puntazione della scuola di Ben Naftali, tra iquali sarebbe compreso il CR, fu accettata perun certo periodo; sarà poi Díez Macho a riconsi-derare l’attribuzione di tutti questi frammenti edi CR a Ben Naftali.

Nel frattempo, pur senza mettere in dub-bio tutto il gruppo di manoscritti riconosciuti daKahle come bennaftaliani, Alexander Sperberaveva già, nel 1956, riconsiderato il CR sotto unanuova prospettiva. Sperber fece precedere allasua edizione un’ampia introduzione, quasi untrattato, sulla grammatica e la puntazione ebrai-ca, dedicando ovviamente un paragrafo al CR9.Sperber interpretò alcune caratteristiche salientidel manoscritto come premasoretiche, rappre-sentative di una frase ancora embrionale dellosviluppo della masorah. I dati che Sperber rite-

neva provassero più chiaramente il caratterepremasoretico della puntazione del CR sono l’as-senza di distinzione fra vocali brevi e lunghe, l’as-senza di patah furtivum e l’uso del dageš ad ini-zio di parola anche quando la parola precedentetermina con accento congiuntivo e sillaba aper-ta. Quest’ultimo elemento indicherebbe che nelCR non si dava ancora valore agli accenti con-giuntivi nel contesto sintattico della frase, cioènon si teneva conto della loro funzione di unionefra le parole. Ma soprattutto non è da sottovalu-tare il fatto che difficilmente si può far risaliread un masoreta tiberiense della levatura che siattribuiva a Ben Naftali l’assenza di distizionetra vocali lunghe e brevi.

Díez Macho si allinea sostanzialmente conSperber nel non considerare il CR un prodottodella scuola di Ben Naftali, tuttavia inserisce ildiscorso in una più ampia riconsiderazione ditutti i manoscritti che Kahle aveva attribuito aBen Naftali: secondo Díez Macho tutti i mano-scritti bennaftaliani – che divengono così pseudo-bennaftaliani – hanno in realtà caratteristichepiù arcaiche e sono direttamente riconducibilialla puntazione palestinese. Egli lo dimostra apartire dalla somiglianza che tali frammenti han-no con il ms. 558 del Jewish Theological Seminarydi New York, che viene dettaglia-tamente analiz-zato e che effettivamente condivide molti tratticon la puntazione palestinese. Si può fare breve-mente qualche esempio: nel ms. 558 spesso gliaccenti non sono posti sulla sillaba tonica e gliaccenti congiuntivi sono quasi assenti, come av-viene in alcuni frammenti palestinesi; nel ms. 558come anche nei manoscritti palestinesi non si fadifferenza tra vocali brevi e vocali lunghe; in al-cuni manoscritti palestinesi compare il dagešnella alef, una caratteristica tipica non solo delms. 558, ma anche, come si è visto, del CR e delmanoscritto di Modena e Nonantola. Díez Machodimostra quindi da un lato che il ms. 558 testi-monia uno sviluppo della puntazione palestinese,dall’altro che il CR e gli altri frammenti conside-rati bennaftaliani, avendo molte peculiarità incomune con il ms. 558, sono da ritenere anch’es-

8 S. MORAG, The vocalization of CodexReuchlinianus: is the “pre-masoretic” Bible pre-masoretic?: «Journal of semitic studies» 4 (1959),pp. 216-237 .

9 Insieme al CR Sperber pubblicò anche altri tremss per molti rispetti uguali ad esso: si tratta delcosiddetto Pentateuco di Parma, della Bibbia diParma e della Bibbia di Londra.

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si di derivazione palestinese, e costituiscono unatappa successiva, più evoluta rispetto al ms. 558.

In ultimo, Morag, dopo aver analizzato neiminimi dettagli il CR, giunge a dimostrare inmodo convincente due fatti, uno dei quali già trat-tato da Díez Macho:1. Come prima cosa Morag sottolinea un ele-

mento importante e nuovo rispetto alla teo-ria di Dìez Macho, che non si era direttamen-te occupato del CR: la puntazione testimo-niata dal CR non è affatto premasoretica, maè anzi pienamente masoretica, ed in certi trat-ti addirittura più complessa di quellabenasheriana del TR. Lo prova in primisl’uso esteso del dageš lene, che non comparesolo nelle ������������e che aiuta ad identifi-care chiaramente la natura dello šewa pre-cedente: se il dageš lene è presente, lo šewache lo precede chiude la sillaba – è cioèquiescente – e non va letto, se il dageš lenenon c’è allora lo šewa è mobile e va pronun-ciato. Questo sistema, volto ad evitare ognipossibile errore di lettura dello šewa, nel TRè meno sviluppato, dice Morag: è limitatoinfatti soltanto alle �����������; nel CR – enoi possiamo dire ora anche nel manoscrittodi Modena e Nonantola – il sistema è più com-pleto e interessa quasi tutte le consonanti. Diseguito Morag segnala anche, fra le altre ca-ratteristiche che provano la naturamasoretica del CR, il dageš nella alef, la no-tazione di waw e yod finali consonantiche, ilhataf qamax in sillaba atona chiusa, semprecon lo scopo di evitare errori di lettura: tuttielementi che a suo avviso provano unapuntazione cosciente e dettagliata.

2. In secondo luogo, Morag, riprendendo DíezMacho, segnala che molte caratteristiche ri-mandano in effetti al sistema palestinese. Fraqueste l’assenza di distinzione tra vocali brevie lunghe e l’uso ancora in nuce del dageš nellaalef, già indicate da Díez Macho, e l’uso deldageš lene non soltanto nelle �������� �� �.Queste caratteristiche si ritrovano anche inparecchi frammenti palestinesi. Tenendoconto di ciò e della precisione e completezzadella puntazione del manoscritto, Morag con-clude che con il CR ci si trova davanti ad unaPuntazione Palestinese Complessa, unpuntazione cioè di derivazione palestinese,ma molto più sviluppata. L’ipotesi di Morag

è in effetti convincente, ed è la più esaustivasul CR.

Ma in che modo queste conclusioni si rap-portano con il manoscritto di Modena e Nonan-tola? Dal momento che, come si è detto, il mano-scritto emiliano condivide la più parte delle suecaratteristiche con il CR, gli studi fatti su que-st’ultimo codice possono in gran parte esserevalidi anche per il manoscritto di Modena eNonantola. Tale manoscritto, per gli elementi didifferenza che comunque presenta rispetto al CR,pare porsi tuttavia suc-cessivamente al CR lun-go una linea di sviluppo; la distinzione tra vocalilunghe e vocali brevi, che il CR non fa, l’assenzadi dageš ad inizio di parola quando segue unasillaba aperta con accento congiuntivo – elemen-to che prova un uso cosciente degli accenti con-giuntivi – sembrano indirizzare verso un’ipotesidel genere, dal momento che provano una mag-gior precisione masoretica. Se poi si ricorda ladimostrazione fatta da Díez Macho in base allaquale il CR costituirebbe una tappa succesiva alms. 558, a sua volta testimone di uno sviluppodella puntazione palestinese, allora si può pen-sare ad una successione di questo tipo:

puntazione dei frammenti palestinesi�

ms. 558�

CR�

ms. di Modena e Nonantola

In effetti, ad un esame comparativo si notacome il ms. 558 sia quello che condivide il mag-gior numero di caratteri con i frammentipalestinesi, e il manoscritto di Modena e Nonantolaquello che, pur apparendo da questo studio lega-to appunto alla tradizione palestinese, ha menocaratteristiche in comune con con i frammentipalestinesi più antichi. A questo punto è indispen-sabile fare un accenno – anche se sarebbe interes-sante diffondersi maggiormente sull’argomento –all’ambiente storico-culturale in cui il manoscrit-to fu con ogni probabilità prodotto. Si è detto cheil codice risale all’XI-XII secolo: in quel periodole comunità ebraiche in Italia più attive cultural-mente erano insediate nel Sud, in specie in Pugliae nei territori limitrofi. Per il Nord non abbiamo

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quasi notizie di una presenza ebraica in quell’epo-ca. Nella Puglia invece la vita culturale era flori-da ed originale: prima del Mille, prima che pren-desse ad esercitare la sua influenza l’ebraismobabilonese, gli stimoli maggiori giungevano allecomunità ebraiche apule del periodo bizantino enormanno da Erez Israel: la diffusione della mi-stica della merkavah e del piyyut, gli usi liturgicie l’organizzazione dell’insegnamento, senza di-menticare la reviviscenza dell’ebraico, furono tutti

apporti provenienti dall’ebraismo palestinese. Frale molte influenze culturali di derivazionepalestinese potrebbe dunque essere giunta anchela tradizione di lettura e puntazione del testobiblico.

Chiara Pilocanevia Sant’Anselmo, 2

I-10125 Torinoe-mail: [email protected]

Frammenti di un antico manoscritto biblico italiano (sec. XI)

TABELLA RIASSUNTIVA

TEXTUS RECEPTUS MS. DI MODENA E NONANTOLA

1 Assenza del dagew e del rafè nella � Dagew e rafè nella �

2 Dagew lene solo nelle ����������� Dagew lene e rafè anche in altre consonanti:Non usa in alternativa rafè �������� ��������

3 Nessun segno per indicare la � finale Dagew nella � finale consonanticaconsonantica

4 Nessun segno per indicare la � finale Hireq sotto la � finale consonanticaconsonantica

5 Wewa sotto prefisso aggiunto ad una � Prefisso aggiunto ad una � vocalizzata convocalizzata con hireq hireq prende hireq e la � diviene quiescente

6 �� ��� �����

7 �!"� ���

8 ���#����� ������

9 Patah furtivum sotto $�e % finali Wewa sotto $�e % finali

10 Assenza di vocale sotto $�e % finali Wewa sotto $�e % finali

11 Qamax hatuf in sillaba atona chiusa Hataf qamax in sillaba atona chiusa

12 Alternanza di gerew e gerwayim Uso esclusivo del gerew

13 Nei libri poetici dehi prepositivo Tevir al posto del dehi

14 Mappiq all’interno della � finale Mappiq al di sotto della � finale

15 Punto diacritico di �e ��sopra alle lettere Punto diacritico di �e ��all’interno delle lettere

16 Maqqef Uso più scarso del maqqef

17 Meteg Uso più scarso del meteg

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SUMMARY

The present study deals with a fragmentary manuscript of the Old Testament written in Italybetween the 11th and the 12th century. The most interesting feature of this manuscript is its punctuation:vowels, accents and other diacritical marks. It differs from the three punctuation-systems hitherto known(the Tiberian, the Babylonian and the Palestinian), and it is, at the same time, highly detailed. Thanksto collation of all the extant fragments, and through comparison with the already known CodexReuchlinianus, the following hypothesis regarding the origin of this unusual punctuation is offered here.The punctuation system of the manuscript could have originated from the Palestinian punctuation andsubsequently developed autonomously. In any case it is important to notice the use, as late as the 12th

century, of a punctuation system which is not the Tiberian. Differently from the almost universal opinionin the field of history of the Old Testament text, it is remarkable to note that the Tiberian punctuation,at that time, was far from having attained the supremacy it would acquire later on.

KEYWORDS: «Italian Genizah»; New fragmentary Biblical manuscript; Punctuation system.

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