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OTTOBRE 2020 RIVISTA MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868 SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/03 (CONV. IN L. ART. 1 COMMA 1 N°46 DEL 27/02/04) - PERIODICO MENSILE 6,00 La Componente sommergibili proiettata verso il futuro Andrea Petroni Il ruolo dell’Underwater per il futuro del mare Manuel Moreno Minuto La cavocrazia sul filo di Undernet Paola Giorgia Ascani
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marittima - RIVISTA - Ministero della Difesa

Mar 16, 2023

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MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

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La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

Andrea Petroni

Il ruolo dell’Underwater per il futuro del mareManuel Moreno Minuto

La cavocrazia sul filo di UndernetPaola Giorgia Ascani

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1Rivista Marittima Ottobre 2020

IL SUPPLEMENTO PER GLI ABBONATI

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Focus diplomatico

Osservatorio internazionale

Marine militari

Che cosa scrivono gli altri

SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE 98 Armando Gori, un eroe dimenticato Armanda Bertini

RUBRICHE

Il sistema di comando delle Forze armate di Rodolfo Bastianelli

QUESTO MESE CON LA RIVISTA MARITTIMA

Sommario

PRIMO PIANO

6 La Componente sommergibili proiettata verso il futuro Andrea Petroni

22 Il ruolo dell’Underwater per il futuro del mare Manuel Moreno Minuto

32 Approccio progettuale dei sottomarini di oggi Marco Rizzuti

38 La cavocrazia sul filo di Undernet Paola Giorgia Ascani

52 DRASS e lo scenario sottomarino Sergio Cappelletti, Marco Bellomo, Davide D’Alessio

60 Mediterraneo allargato e sottomarini: quadro strategico di situazione Manuel Moreno Minuto, Giuseppe Rizzi

72 Veicoli subacquei filoguidati militari e civili Massimo Vianello

78 Potere subacqueo e deterrenza strategica: la soluzione cinese Michele Cosentino

88 Le Marine militari al tempo del coronavirus Marzio Pratellesi

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Rivista Marittima Ottobre 2020

OTTOBRE 2020 - anno CLIII

HANNO COLLABORATO: Contrammiraglio Andrea Petroni

Capitano di vascello Manuel Moreno Minuto

Dottor Marco Rizzuti

Dottoressa Paola Giorgia Ascani

Dottor Sergio Cappelletti

Dottor Marco Bellomo

Dottor Davide D’Alessio

Capitano di vascello Giuseppe Rizzi

Ammiraglio di divisione (ris) Massimo Vianello

Contrammiraglio (ris) Michele Cosentino

Sottotenente di vascello Marzio Pratellesi

Professoressa Armanda Bertini

Ambasciatore Maurizio Melani,

Circolo di Studi Diplomatici

Dottor Enrico Magnani

Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante

IN COPERTINA: Battello nazionale classe U212, espressione del Potere Subacqueo e Marittimo nazionale (Foto Sestini).

RIVISTA MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

PROPRIETARIO ED EDITORE

UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE

DIREZIONE E REDAZIONE

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Capitano di vascello Daniele Sapienza CAPO REDATTORE

Capitano di fregata Diego Serrani REDAZIONE

Tenente di vascello Raffaella Angelino Secondo capo scelto QS Gianlorenzo Pesola

Tel. + 39 06 36807254 SEGRETERIA DI REDAZIONE

Primo luogotenente Riccardo Gonizzi Addetto amministrativo Gaetano Lanzo

UFFICIO ABBONAMENTI E SERVIZIO CLIENTI

Primo luogotenente Carmelo Sciortino Primo luogotenente Giovanni Bontade

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COMITATO SCIENTIFICO DELLA RIVISTA MARITTIMA

Prof. Antonello BIAGINI Ambasciatore Paolo CASARDI

Prof. Danilo CECCARELLI MOROLLI Prof. Massimo DE LEONARDIS

Prof. Mariano GABRIELE Prof. Marco GEMIGNANI

C.A. (aus) Pier Paolo RAMOINO A.S. (ris) Ferdinando SANFELICE DI MONTEFORTE

Prof. Piero CIMBOLLI SPAGNESI

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Rivista Marittima Ottobre 2020

Editoriale

L’ essere umano è tale in quanto caratterizzato da un’inestinguibile sete di conoscenza, principale motore dell’evoluzione tecnologica. Capace di concepire ciò che apparentemente sembra impossibile, ha sognato e poi

realizzato, tra l’altro, sia l’esplorazione dello spazio, sia l’esplorazione delle pro-fondità marine. Senza scendere nei dettagli storici, basta un nome: Giulio Verne col suo immortale Ventimila leghe sotto i mari. A tutt’oggi, l’immaginario col-lettivo rimane affascinato e attratto dai mezzi in grado di solcare gli abissi ma-rini, un mondo oscuro e pericoloso, eppure mai così determinante come nel XXI secolo dove il Potere Marittimo — definito e codificato dall’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan alla fine dell’Ottocento, ma sempre esistito — include oggi, a pieno titolo, anche il Potere Subacqueo. D’altronde è sem-pre più evidente e inevitabile: chi controlla il mare, tutto, fino agli abissi, controlla il mondo, l’economia, le risorse energetiche, gli accessi strategici, le comunicazioni. Gli abissi, oltre a custodire sotto i propri fondali gas e petrolio, sono costellati da immensi filoni di minerali, milioni di tonnellate di noduli polimetallici e di terre rare. Poggiati sui fondali o sepolti sotto un sottile strato di sedimenti si prolungano, quasi come una piovra grande come l’intero pianeta, centinaia di migliaia di chilometri di cavi (1), ov-vero il sistema nervoso del globo. Secondo alcune statistiche, attraverso i suoi gangli vengono processate transazioni giornaliere fino a 10 trilioni di dollari e il transito di ogni tipo di informazione in grado di determinare o meno il crollo di una Borsa, di decidere se valutare o meno, come po-tenziale nemico, un altro soggetto politico, di impedire a un aspirante egemone di consolidare il proprio dominio. Nel settore delle telecomuni-cazioni, che esalta la geografia delle aree interessate a trasmissione e ri-cezione, la rilevanza dei cavi sottomarini per le comunicazioni planetarie è fondamentale, ma la loro protezione necessita di regole, specie se poste a fronte di norme di diritto internazionale non sempre attagliate. L’UN-CLOS (2) del 1982 ha ribadito la protezione del cablaggio sottomarino in acque internazionali, ma non ha certo impedito agli Stati di considerare i cavi sottomarini come legittimi obiettivi militari in tempo di guerra, come già è avvenuto in passato. L’immaginario collettivo è convinto che le comu-nicazioni avvengano via satellite. In realtà i satelliti coprono solo tra l’1 e il 5% delle trasmissioni e assicurano qualità ed efficienza a dir poco ridotte, a fronte, per contro, di spese d’installazione e manutenzione elevatissime. I cavi sottomarini, sono intercettabili (anche se non proprio facilmente), ma coprono una percentuale compresa tra il 95 e il 99% delle comunicazioni e non hanno, di fatto, valide alternative orbitanti. Per quanto riguarda la loro importanza, in-fine, basti pensare al fatto che i cavi più moderni sono stimati affidabili al 99,999%, un livello riservato, per intenderci, alle sole armi nucleari e alle navicelle spaziali dopo letteralmente milioni di controlli. A maggior tutela, data la loro vulnerabilità,

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DANIELE SAPIENZA

Direttore della Rivista Marittima

è stata sviluppata sin dal principio una precisa ridondanza del sistema basata sulla posa di reti realizzate su più cavi paralleli. In buona sostanza siamo davanti a una geopolitica (e strategia) delle comunicazioni che ruota intorno a una precisa geopolitica dei cavi sottomarini. Il mondo subacqueo è dunque straordi-nariamente rilevante e altrettanto straordinariamente poco conosciuto. Una dimensione complessa e per molti versi temibile; ed è proprio a questo punto che — ci sia concesso — si immergono i «Prìncipi delle profondità»: ovvero i sottomarini (3), già sommergibili.

Il sommergibile è entrato a far parte della nostra cultura anche per il tributo di sangue che ha dram-maticamente preteso a partire dalla Prima guerra mondiale, anche in tempo di pace. Cambiano gli scenari: arriva la Guerra fredda e il sommergibile matura la propria trasformazione in sottomarino. Le flotte su-bacquee tornano imponenti, come nel pieno delle guerre maggiori, trasformandosi in moltiplicatori di forza, tanto discreti quanto efficaci. Si passa alla propulsione atomica e, poco dopo, i sottomarini diventano efficacissimi sistemi d’arma strategici, arrivano cioè i boomers (4), i quali integrano la triade nucleare delle potenze egemoni: aria, terra e mare. Come è appunto accaduto nelle Falkland, nel 1982, la loro mi-naccia, dopo l’affondamento del vecchio incrociatore argentino Belgrano, influisce pesantemente sulla condotta delle operazioni. Ma, l’arma subacquea non è efficace in assenza di marinai costantemente ben addestrati e inquadrati. I guerrieri, come li hanno definiti negli Stati Uniti. Le affinità tra la navigazione subacquea e quella nello spazio esterno, avvicinano i sommergibilisti agli astronauti. Sono entrambi pro-fessionisti in grado di adattarsi ad ambienti ostili e capaci di affrontare un continuo e dinamico problem solving; del resto la stessa NASA ha condotto ricerche sul comportamento nello spazio trovando gli ana-loghi confronti negli habitat dei sottomarini. Le grandi nazioni rinnovano gli arsenali: gli Stati Uniti pun-tano ai sottomarini classe «Columbia» e agli apparati XLUUV (5); la Russia ha varato il Belgorod, uno dei più grandi battelli mai realizzati, dotato dei siluri atomici Poseidon, e del Losharik, un mini-sommer-gibile atomico attaccato allo scafo-madre e utilizzato per missioni riservate. La Cina rivede a sua volta in maniera radicale la propria vecchia dottrina subacquea. Il Mediterraneo non è da meno; basti vedere l’Al-geria con i suoi battelli della classe «Kilo», l’Egitto con i tedeschi «Type 209», la Francia con i «Barra-cuda». E poi ci siamo noi, il paese che, già dal 1889, impostò, in gran segreto, il proprio primo battello, il Delfino. La Marina italiana opera oggi con i modernissimi «U212», battezzati con i nomi dei comandanti che hanno fatto la nostra storia subacquea. La Marina Militare è riuscita, da sempre, a esaltare il connubio tra tecnologia d’avanguardia e capacità umane portate ai limiti. Siamo, e saremo sempre, una Marina del presente, fondata su un solido passato di tradizione e costantemente proiettata nel futuro, nella serena consapevolezza di appartenere a una nazione che ha tutte le carte in regola per difendere e gestire le proprie frontiere e gli interessi nazionali vitali, sia che si tratti dello spazio, sia che si tratti degli abissi.

NOTE (1) Il più lungo cavo in fibra ottica al mondo (circa 16.000 chilometri) partirà da Singapore, attraverserà i mari di Giava, prima di iniziare la traversata dell’oceano Pacifico verso la California. (2) United Nations Convention on the law of the Sea. (3) Sottomarino: mezzo subacqueo che opera principalmente sott’acqua risalendo all’occorrenza in superficie al contrario del sommergibile che opera principalmente in superficie immergendosi all’occorrenza per brevi periodi. (4) Sottomarini dotati di missili balistici nucleari (Ballistic Missile Submarine - SSBN). (5) Extra Large Unmanned Undersea Vehicle.

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PRIMO PIANO

6 Rivista Marittima Ottobre 2020

La Componente

sommergibili

proiettata verso il futuro

In alto, sottomarino classe «Sauro» e, in basso, sommergibilisti all’interno della ca-mera di manovra del sottomarino SCIRE’.

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L’inquadramento strategico e la dimensione Underwater

La tradizionale visione strategica della Marina Mili-tare, che ha guidato le operazioni e il procurement della Forza armata nell’ultimo trentennio, è incentrata sul co-siddetto Mediterraneo allargato. Un’area dove si con-centrano gli interessi del nostro paese in termini di difesa e sicurezza, tra cui quelli legati ai corridoi energetici e commerciali che sostengono quotidianamente il nostro paese. Una visione che abbraccia molti interessi (non tutti) e in cui l’analisi della porzione «Underwater» si limita, di fatto, alla minaccia subacquea portata dai no-stri potenziali avversari, ovvero i paesi non appartenenti

all’Alleanza atlantica e alla UE. Tale visione continua a essere valida, anche alla luce del balzo nella connettività con il resto del mondo compiuto dal bacino mediterra-neo negli ultimi venti anni, con la rotta euro-asiatica che ha aumentato la propria incidenza sui traffici marittimi globali, costituendo oggi circa il 27% del traffico mon-diale container (2). Il merito è da ascrivere al raddoppio del canale di Suez e allo sviluppo della portualità medi-terranea, che ha saputo adeguarsi ai tempi — ovvero alle necessità dettate dal crescente gigantismo navale — e soprattutto ha aperto agli investimenti stranieri, prove-nienti in particolare dalla Cina. È tuttavia necessario am-pliare questa visione mediterraneo-centrica, estendendo

Rivista Marittima Ottobre 2020 7

Andrea Petroni

Nato a Livorno nel 1968. Nel 1987, entra in Accademia navale, dove completa l’iter di formazione e successivamente imbarca a bordo dei sommergibili casse «Sauro». Al termine di tale periodo, nel 1999, gli viene assegnato il comando del cacciamine Termoli con il quale partecipa a numerose attività addestrative e operazioni, imbarcando nuovamente sul sommergibile Gazzana come co-mandante in 2a (dal 2000 al 2002), fino ad arrivare al comando del sommergibile Longobardo (dal 2002 al 2004) e designato al comando del sommergibile Scirè nella fase di allestimento (dal 2004 al 2005). Nel 2005 frequenta l’8° Corso dell’Istituto superiore di Stato Maggiore interforze e nel 2008 imbarca nuovamente assumendo il comando della fregata Grecale. Nel 2010 prende servizio presso il Reparto sommergibili dello Stato Maggiore Marina, dapprima con l’incarico di capo Sezione logistica e poi in qualità di capo dell’Ufficio ricerca, sviluppo e dottrina. Nel 2014 assume il comando del cacciatorpediniere lanciamissili Luigi Durand de la Penne, con il quale prende parte alle operazioni di soccorso della M/N Norman Atlantic e all’operazione Mare sicuro. Nel set-tembre 2015, assume l’incarico di capo Ufficio coordinamento interno e capo dell’Ufficio ricerca e sviluppo presso il Reparto sommergibili dello Stato Maggiore Marina. Dal 29 settembre 2017 è comandante dei sommergibili, capo del 5° Reparto sommer-gibili dello Stato Maggiore della Marina, capo Ufficio programma sommergibili della Direzione degli Armamenti navali.

1890, dopo un lungo e segreto lavoro di pro-gettazione, inizia presso l’Arsenale della Spe-zia la costruzione del Regio Sommergibile Delfino (qui nell’immagine), prima unità su-bacquea della Regia Marina. Un evento fon-damentale nella storia di una flotta giovane e ambiziosa che si affacciava per la prima volta su un mondo tecnologico rivoluzionario, desti-

nato a cambiare per sempre la strategia della guerra sopra e sotto il mare. Subsum sed su-peris obsum ( ) fu il motto assegnato al pic-colo battello sottomarino che oggi, dopo 130 anni, suona quasi come un monito per ricor-dare la preziosa e indispensabile funzione de-terrente della nostra arma subacquea in tutti i mari — e oceani — d’interesse nazionale.

La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

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l’analisi sia geograficamente, cercando di abbracciare i trend che si svilupperanno nei prossimi anni, sia in pro-fondità, analizzando le realtà e le sfide derivanti da quella porzione di mare sotto la superficie spesso tra-scurata dagli analisti strategici.

Il futuro dell’Italia, da una prospettiva geopolitica, in-fatti, non si ferma al solo Mediterraneo, per quanto «al-largato», ma passa attraverso tre grandi macro-aree di interesse. La prima (coincidente con il Mediterraneo al-largato) si definisce come «near home» e vede di fatto coinvolti i principali interessi di difesa e sicurezza italiani che si coniugano in termini di: deterrenza verso le poten-ziali minacce, autonomia strategica nei confronti degli alleati e una diuturna azione di maritime security volta a mantenere «libero e percorribile» il Mediterraneo e le sue adiacenze definite dai choke point di Gibilterra, Suez, Dardanelli e Bab el-Mandeb. In questa regione rientra ovviamente, per motivi energetici, anche lo stretto di Hor-muz, protagonista nell’ultimo periodo di discutibili se-questri di pacifiche unità mercantili.

Tuttavia l’interesse italiano non può e non deve limi-tarsi a quest’area tutto sommato ridotta del globo, ma deve guardare traguardando verso orizzonti volti ad as-sicurare anche le risorse energetiche e l’intensificazione degli scambi commerciali, che hanno una distribuzione molto più ampia e per certi versi inaspettata. Dal punto di vista energetico nei prossimi anni diventerà sempre più critico il golfo di Guinea, un’area ricca ma con un crescente stato di insicurezza marittima. L’Artico è un altro punto focale, che seppur ben lontano dal Mediter-raneo rischia di marginalizzare il Mare nostrum. Un Ar-tico «ghiacciato» è un interesse globale del pianeta e il suo scioglimento porterà a rendere sempre più accessibili rotte fino a poco tempo fa impraticabili, con il rischio che con il Mediterraneo anche il nostro paese rimanga marginalizzato dai grandi flussi commerciali sulla diret-trice Est-Ovest. Infine è necessario tener conto del calei-doscopio delle nostre comunità all’estero, e in particolare sul continente americano da sud a nord: un’area dove la nostra lingua e cultura (non il mero Made in Italy) sono tuttora un richiamo importante per il mondo scientifico, tecnologico e imprenditoriale; un’opportunità di sviluppo che in futuro andrà perseguita presentando il volto mi-gliore del nostro «Sistema Paese».

Solo per dare un esempio concreto della globalità degli interessi italiani, basti guardare alle aree di produzione ed estrazione di ENI (3) su scala planetaria per capire, dove e quando la Marina potrebbe essere chiamata a dare un contributo di sicurezza marittima. Necessità quest’ul-tima che non risiede nel mero campo delle ipotesi, poiché dietro ogni potenziale risorsa energetica, nel mondo, ri-siedono interessi convergenti, quindi potenzialmente con-flittuali, da parte di diversi attori, tra acque territoriali, zone economiche e illegalità pronta a deflagrare in ogni istante. Tuttavia, l’aver esteso l’attenzione in senso oriz-zontale verso gli interessi globali del paese copre solo una parte di quelli prettamente marittimi che, per una na-zione avanzata come l’Italia si estendono a quella por-zione di globo «Underwater», spesso trascurata per l’oggettiva difficoltà di comprenderne alcuni fenomeni — per esempio la proliferazione di Zone economiche esclusive — ben lontani dalla comune percezione dei problemi e delle priorità.

Due semplici mappe, quella delle condotte per idro-carburi — il nostro «sistema circolatorio» — e quella dei cavi sottomarini per telecomunicazioni — il nostro «si-stema nervoso» — ci mostrano che sul fondo del mare corrono dei «corridoi strategici» di energia e dati il cui peso sulla civiltà odierna è pari, se non superiore, a quello del traffico marittimo che corre in superficie. Le nostre società, è inutile negarlo, non si alimentano di soli beni primari, ma di un complesso sistema finanziario (inter-net-based) ed energetico volto a soddisfare un welfare sempre più esigente e articolato. I cavi sottomarini, pur se privati e in acque internazionali, rientrano a ben vedere nelle infrastrutture critiche delle nazioni beneficiarie, e come tali devono essere sorvegliati e protetti.

In definitiva il quadro strategico appena delineato nelle sue porzioni di superficie e Underwater, permette di in-dividuare ben 4 ambiti «abilitanti» in cui il dominio nella dimensione subacquea permetterà a un paese come il no-stro di ottenere, pur con investimenti tutto sommato ri-dotti, una leva strategica di grande spessore a livello globale. È importante quindi ragionare non in termini di soli sottomarini (e sistemi associati), ma pensare al mondo Underwater (e al suo dominio) nel suo complesso, ov-vero, nella sua capacità di far competere la nostra nazione non solo in termini militari, quali la deterrenza e le azioni

8 Rivista Marittima Ottobre 2020

La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

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cinetiche contro le minacce simmetriche e asimmetriche, ma anche nel più ampio spettro della tutela dei nostri in-teressi energetici e commerciali sui fondali marini. Que-sto, senza dimenticare un ultimo pilastro, quello del confronto tecnologico e scientifico dove un paese come il nostro deve trovare ampi spazi in seno alla comunità degli Stati avanzati. Solo per fare un esempio, una tecno-logia green sviluppata per un sottomarino ha ricadute molto più ampie e positive di quello che un’opinione pub-blica poco informata possa immaginare.

Gli attesi sviluppi capacitivi nella dimensione subacquea

La rilevanza del dominio marittimo negli equilibri geopolitici globali e, in generale, nel determinare il be-nessere dei popoli è assoluta. L’80% dei commerci mon-diali si svolge sul mare; come accennato, sui fondali si dipanano centinaia di migliaia di chilometri di cavi che garantiscono la maggior parte delle comunicazioni mon-diali (tra cui milioni di transazioni finanziarie); sempre dagli abissi sono ricavate e trasportate le principali fonti energetiche. In sintesi, l’economia del pianeta è legata in-dissolubilmente a quello che avviene sopra, ma soprat-tutto sotto la superficie marina. In una recente intervista, il Capo di Stato Maggiore della Marina ha sottolineato come all’interno della F.A. «tra le eccellenze ci sono i sottomarini. Nel prossimo futuro ne avremo otto, tutti di ultima generazione: è quello che serve. Perché nel Me-diterraneo è cambiato tutto: l’assertività di molte nazioni si manifesta sott’acqua e i sottomarini sono raddoppiati. Ma soprattutto nei fondali ci sono le arterie fondamentali per la nostra vita: gasdotti, oleodotti e i cavi, dove scorre il 95% del traffico Internet. Vanno monitorati e protetti. E si può fare solo con i sottomarini» (4). Acquisisce quindi valenza strategica, per il paese, poter disporre di uno strumento subacqueo credibile, adeguatamente di-mensionato, moderno, efficace, efficiente e interopera-bile, ovvero in grado di esercitare un’accurata attività di sorveglianza e controllo nelle aree marittime di interesse nazionale, evidentemente caratterizzate da una crescente instabilità e diffusa minaccia. Sempre l’ammiraglio Cavo Dragone sottolineava, nell’analisi dello scenario strate-gico, come il Mare nostrum «è sempre stato il luogo dei confronti tra civiltà e potenze. Qualche anno fa si pen-

sava che sarebbe finito in secondo piano, invece è tornato centrale: la cerniera tra Occidente e Oriente. Due capi-saldi hanno creato questa fase di instabilità: prima la dissoluzione dell’Unione Sovietica, poi l’allontanamento degli Stati Uniti. Questo ha creato un vuoto che attori statali e non hanno cercato di occupare: anche la Cina si sta affacciando in queste acque. L’asse turco-libico e la tensione davanti a Cipro sono l’ultimo effetto».

Concentrandoci sui sottomarini, l’attuale realtà dei mezzi subacquei italiani è il frutto di una visione profon-damente legata agli interessi della difesa, articolati nelle quattro missioni delle Forze armate che sono diventate il cardine dell’analisi qualitativa e quantitativa nella pro-grammazione di lungo termine e nel procurement dei mezzi. Tale visione della difesa si concretizza in una flotta di 8 battelli, un numero certamente inferiore alla reale esi-

9Rivista Marittima Ottobre 2020

Sottomarino classe «Todaro» in ingresso in Mar Piccolo a Taranto.

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genza di 13 unità discendente dall’analisi del contributo che i nostri sottomarini sono chiamati a fornire alla difesa nell’ambito delle sue 4 missioni. Una consistenza così ri-dotta rispetto alle reali esigenze è il frutto di un compro-messo, funzione del budget, secondo un approccio quindi che difficilmente anche in futuro potrà essere superato e che deve indurre a ricercare nuove soluzioni tecniche che permettano di impiegare i sottomarini nazionali secondo logiche net-centriche, in grado di amplificarne e am-pliarne gli effetti sul campo di battaglia. In questo conte-sto, la piattaforma del prossimo futuro, il sottomarino U212 Near Future Submarine (U212 NFS), che descri-verò più ampiamente in seguito, dovrà essere capace di sviluppare molteplici payload, esprimendo una spinta modularità, fondamentale per adattarsi in maniera estre-mamente flessibile ed efficace al più ampio spettro di con-testi operativi. Una sfida tecnologica, ma soprattutto intellettuale, in cui sarà necessario mettere da parte ogni preconcetto o pregiudizio derivante da passate esperienze, associando alla capacità d’immaginare soluzioni innova-tive, la fondamentale competenza e volontà di realizzare. La sintesi delle missioni attualmente assicurate dai nostri

assetti subacquei si basa su quattro pilastri operativi im-mutabili, ovvero Prevenire, Sorvegliare, Informare e in-fine — se necessario — Attaccare. Ognuno di questi pilastri può essere ovviamente declinato a seconda del contesto strategico e delle capacità disponibili a bordo. Per esempio, la deterrenza è tradizionalmente un concetto che si ottiene in maniera indiscutibile a livello globale at-traverso la minaccia nucleare, ma in contesti più limitati — ma per questo non meno significativi — un buon ar-mamento antinave/antisom e di ingaggio in profondità, unito a un elevato livello di disponibilità dei mezzi, può essere la carta vincente. Sarà pertanto necessario rispettare i pilastri operativi appena enunciati, adattandoli però a un contesto strategico che guardi oltre il Mediterraneo, e che richieda al contempo flessibilità nei payload (i siluri di certo non potranno rimanere l’unico sistema d’arma), le-talità dell’armamento (senza il quale un sottomarino non ha nessuna credibilità), capacità di integrarsi e gestire una rete di sensori subacquei e, infine, capacità di intervenire dove e quando serve. Una visione d’insieme grazie alla quale si evince che l’arma subacquea, nel suo complesso (sottomarini, droni, sensori), dovrà cambiare pelle rispetto ai tradizionali criteri d’impiego nazionali, ricercando si-nergie ed eccellenza in campo scientifico e industriale. Una prospettiva, quindi, mirata al controllo della dimen-sione subacquea, ormai indispensabile nell’accesa contesa globale per spazi vitali e risorse, sopra e sotto la superfi-cie. Soffermandoci sul sistema d’arma, le necessità di ge-stire sia una crescente instabilità sia un importante ritorno della minaccia di tipo convenzionale — verso cui garan-tire una credibile deterrenza — faranno sì che le eccellenti capacità di ingaggio nel nuovo siluro nazionale, Black Shark Advanced, non saranno più sufficienti — da sole — nel campo di battaglia Underwater del futuro. I nostri sottomarini dovranno avere pertanto in futuro capacità di ingaggio multiruolo e, soprattutto, tali capacità dovranno esprimersi molto al di là dell’orizzonte, sia per estendere l’efficacia operativa del mezzo subacqueo e, di conse-guenza, il suo enorme potenziale di deterrente strategico, sia per allontanare sempre più la piattaforma lanciante dalla minaccia, sfruttando appieno i sensori e le capacità net-centriche. Il tutto volto a garantire la massima sicu-rezza dei nostri equipaggi e al contempo disporre di una affidabile acquisizione del bersaglio, in modo da scon-

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Sottomarino classe «Todaro», sviluppato dal programma congiunto italo-tedesco U212A, dettato dall’esigenza di disporre di una nuova classe di sottomarini (Foto Sestini).

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giurare ogni possibilità di errore di ingaggio. Natural-mente, l’impiego efficace di un sistema d’arma passa anche attraverso la disponibilità di una suite sensoriale che, in prospettiva attraverso i droni, dovrà anche essere «proiettabile», in grado di assicurare, sopra e sotto la su-perficie, e soprattutto sui fondali, una spinta capacità di raccolta informativa, orientata al supporto intelligence in-terforze e inter-agenzia. In tale ambito sarà fondamentale la possibilità di integrare nuove tecnologie, non appena rese disponibili, prevedendo sistemi sensoriali e di co-mando e controllo aperti, modulari e scalabili. Inoltre, per operare efficacemente e in sicurezza, i nostri sottomarini dovranno essere caratterizzati dal più basso livello di se-gnature consentito dallo stato dell’arte in campo acustico, ottico, infrarosso, magnetico ed elettromagnetico; per esempio attraverso l’impiego dei meta-materiali e della tecnologia del cloaking, per rendere acusticamente invi-sibili le piattaforme subacquee, anche contro le nuove reti sonar multi-statiche. Tra gli ulteriori sviluppi capacitivi dell’arma subacquea, uno dei settori più delicati e con i più ampi margini di miglioramento riguarda il citato im-piego di capacità net-centriche per l’ingaggio over the horizon. Tradizionalmente i sottomarini, specie quelli convenzionali d’attacco, agiscono come unità isolate e «off-line», ma il moderno campo di battaglia richiederà di rendere anche le unità subacquee perfettamente inte-grate, non nelle attuali reti ma in quelle di nuova genera-zione che verosimilmente verranno sviluppate. Questo consentirà di massimizzare il ritorno strategico dell’im-piego di un sottomarino, sia quale vettore di sistema d’arma, sia quale pregiato nodo di rete e fonte di alimen-tazione dei sistemi informativi. Il tutto senza snaturarne i profili di impiego, garantendo sempre — e questa è la principale sfida tecnologica — il necessario occulta-mento. L’esigenza net-centrica, trattando del dominio su-bacqueo, non si limita alle tradizionali reti «in aria» stabilite in superficie. Guardando l’universo Underwater, infatti, l’idea che si sta percorrendo in tutte le Marine evo-lute è quella di utilizzare — in sinergia con i tradizionali assetti subacquei, veicoli e sistemi autonomi — una rete formata da assetti di diversa natura e altamente coopera-tiva, in grado di dialogare attraverso protocolli di comu-nicazione standardizzati e capace di poter essere dispiegata o proiettata anche in aree d’operazioni lontane,

al fine di assicurare altresì l’outer defence. In considera-zione delle sfide che l’ambiente subacqueo impone, de-rivanti dalle sue caratteristiche fisiche, questa idea di network Underwater sarà realizzabile ricorrendo all’im-piego di algoritmi di intelligenza artificiale — per garan-tire autonomia decisionale ai veicoli singoli e in sciame, anche in ambiente ostile a elevata minaccia — e a una conseguente spinta capacità di processazione di Big Data. Tutto ciò sarà reso possibile dalle peculiarità che avranno i sistemi unmanned del futuro, sempre più modulari, ov-vero capaci di cambiare la configurazione del mezzo e il payload — a seconda della missione assegnata — nonché sempre più persistenti, grazie a sorgenti energetiche in grado di regalare endurance più spinte.

Infatti, un aspetto tecnologico che rappresenterà una milestone nella progettazione di una piattaforma subac-quea, indipendentemente dalle dimensioni, è certamente quello energetico. Tradizionalmente, l’esigenza per un sottomarino, di aumentare l’autonomia garantendo il più alto grado di occultamento, porta infatti alla necessità di una continua ricerca del massimo rendimento energetico: dalla tipologia di fonte, ai sistemi di stoccaggio a bordo,

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Sottomarino classe «Todaro», durante un passaggio di controbordo con un battello della classe «Sauro».

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alla capacità di ricarica, fino all’efficientamento degli ap-parati installati. In tale settore il miglior compromesso, anche in termini di affidabilità per sottomarini non nu-cleari, continua a essere, al momento, un sistema di pro-pulsione ibrido, che vede l’impiego di un sistema di propulsione convenzionale, capace di garantire elevata mobilità strategica, e un sistema di tipo air indipendent, per assicurare il massimo occultamento in area d’opera-zioni. In questo campo, la scelta che la Marina Militare ha operato, venti anni fa, di un sistema AIP (air indipen-dent propulsion) alimentato a idrogeno, ha permesso di acquisire un bagaglio di conoscenza tecnologica nei set-tori dell’efficientamento energetico e della circolarità della filiera basata sull’idrogeno: un bagaglio di compe-tenze che è possibile sfruttare a favore della collettività e della ricerca scientifica, e in pieno supporto al processo, estremamente attuale, di «decarbonizzazione» della na-zione. Inoltre, l’esigenza di miglioramento continuo porta a orientare l’R&D (research and development) sui sistemi di stivaggio ad alta pressione per l’idrogeno, su celle a combustibile sem-pre più efficienti e perfor-manti e sistemi di accumulo dell’energia elettrica al litio. Tutti aspetti che oggi devono essere considerati in fortis-sima sinergia con le tendenze tecnologi-che nel campo del-l’automotive, settore trainante mondiale, ancor più rafforzato dalla volontà nazio-nale di creare una rete di produzione, trasporto, accumulo e distribuzione dell’idrogeno. Relativamente alla tecno-logia per batterie agli ioni di litio è da rilevare come si tratti di un settore oggi ancora agli albori e che lascia pre-sagire eccezionali margini di crescita, specialmente in applicazioni Underwater in cui l’obiettivo finale rimane sempre la possibilità di concentrare la massima quantità di energia in volumi sempre più piccoli, con densità di energia fino a oggi impensabili.

Un altro filone tecnologico che dovrà avere un’alta

priorità, riguarda l’impiego dei veicoli subacquei da parte dei sottomarini, al fine di aumentarne il raggio di azione, dalle profondità abissali alle c.d. very shallow water. Un campo di applicazione in cui sarà necessario ricercare la più alta flessibilità nell’integrazione, affinché il connubio con il sottomarino non diventi un limite ma un vero e pro-prio moltiplicatore di potenza. In quest’ottica, si possono delineare due principali direttrici di ampliamento delle capacità esprimibili da una piattaforma subacquea: la prima a «proiezione orizzontale» mirata ad ampliare, at-traverso l’impiego di AUV (Autonomous Underwater Ve-hicle) le capacità di un sottomarino, sia geograficamente — estendendo notevolmente il raggio di azione, raggiun-gendo come già accennato le very shallow water, fino a penetrare le acque portuali — sia in termini di perfor-mance, consentendo ai sottomarini di dispiegare le pro-prie reti di sensori, per esempio per applicazioni sonar

multi-statiche. La seconda direttrice ri-guarda invece l’impiego di veicoli unman-ned con una capacità di proiezione sul

piano verticale. Come accennato, infatti, il dominio subacqueo è sede di in-

frastrutture strategiche alla base delle mo-

derne economie, par-lando in gergo militare si tratta di high value tar-

gets, la cui difesa principale era in passato basata sull’ino-spitalità e spesso inaccessibilità degli abissi marini; limiti che sono oggi superati dal progresso tecnologico. I sotto-marini del futuro dovranno pertanto, attraverso un effi-cace impiego di veicoli subacquei, essere in grado di monitorare e difendere tali infrastrutture posate sul fondo, anche a migliaia di metri di profondità.

Un’altra area di sviluppo tecnologico e capacitivo, ri-tenuta fondamentale, seppur non strettamente connessa con l’operatività dei sottomarini, e che offre un vasto ven-taglio di applicazioni duali, è quella della sicurezza ope-rativa degli equipaggi. In tale ambito, il perseguimento del miglioramento continuo delle condizioni di naviga-zione in sicurezza del personale sommergibilista, ha spinto la Forza armata nella ricerca e definizione di un requisito di nuova concezione per il soccorso sommergi-bili da impiegare sulla nuova unità SDO-SuRS (Special

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La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

La SDO-SuRS (Special & Diving Opera-tions-Submarine Rescue Ship) sostituirà nave ANTEO, ormai giunta a fine vita ope-rativa dopo oltre quarant’anni di impiego. L’unità avrà caratteristiche idonee per potersi riconfigurare, secondo la missione assegnata, per operare sia in ruolo di unità di supporto per le operazioni dei reparti subacquei della Marina, sia di soccorso ai sommergibili sinistrati sino alla quota di 600 metri. Disporrà, altresì, di specifiche capacità sanitarie per il trattamento in emergenza di personale colpito da patolo-gie subacquee di grave e media entità.

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Diving Operations-Submarine Rescue Ship), di prevista acquisizione. È stato quindi individuato un mezzo di soc-corso di tipo tethered, ritenuto in grado di offrire la mag-giore capacità e probabilità di successo nel salvataggio del personale sommergibilista, in caso di battello sini-strato posato sul fondo. La scelta operata pone la Marina italiana su un piano tecnologico assolutamente all’avan-guardia sul pregiato e sempre più importante scenario mondiale del soccorso sommergibili. Inoltre, tale capacità rappresenterà non soltanto un volano formidabile per l’in-dustria nazionale di eccellenza ma anche un efficace stru-mento di affiliazione e cooperazione internazionale nel settore, con un ritorno rilevante non solo per il mondo militare ma per l’intero «Sistema Paese».

Tutte le evoluzioni sin qui prospettate richiederanno una spinta integrazione e la capacità di realizzare — come prima accennato — una effettiva capacità di ge-stione di una enorme mole di dati, i cosiddetti Big Data, attraverso sofisticati sistemi di intelligenza artificiale. Tali capacità saranno esponenzialmente accresciute dallo sviluppo di tecnologie di calcolo su base quantistica che permetteranno di rendere immediata la risoluzione di problemi computazionali, al momento semplicemente irrisolvibili. In questo campo, è evidente quanta atten-zione dovrà essere posta al dominio cyber. La ricerca di un approccio sempre più net-centrico alle operazioni su-bacquee offre, infatti, enormi opportunità ma potrebbe

generare anche delle vulnerabilità potenzialmente im-piegabili per azioni ostili. Sarà pertanto necessario pro-teggere opportunamente i moderni mezzi e reti e, anzi, ci si dovrà dotare al contempo di capacità offensive nello stesso campo di battaglia, sfruttando le altrui vulnerabi-lità, per neutralizzare la minaccia ancor prima di colpirla con tradizionali sistemi cinetici.

Il futuro campo di battaglia Underwater: una sfida tecnologica e un’opportunità per il «Sistema Paese»

I futuri mezzi che opereranno nel dominio subacqueo — indipendentemente che si tratti di sottomarini tradi-zionali o veicoli subacquei ovvero reti oppure cortine idrofoniche da fondo — dovranno essere in grado di ge-stire o impiegare i nuovi ritrovati tecnologici appena esposti e di adeguarsi all’evoluzione dello scenario stra-tegico mondiale. In ogni caso, si dovrà ricercare un ap-proccio evolutivo rispetto alle capacità esistenti prevedendo le necessarie migliorie/modifiche/implemen-tazioni di tipo tecnico/operativo/logistico funzionali a colmare gli eventuali gap — un esempio tra tutti il pas-saggio rappresentato dagli U212A agli U212 NFS. In par-ticolare, data la rapidità dei processi d’innovazione, solo con un approccio modulare e stratificato sarà possibile integrare capacità sensoriali e di comunicazioni innova-tive non appena rese disponibili dal progresso. Infatti,

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«I futuri mezzi che opereranno nel dominio subacqueo — indipendentemente che si tratti di sottomarini tradizionali o veicoli subacquei ovvero reti oppure cortine idrofoniche da fondo — dovranno essere in grado di gestire o impiegare i nuovi ritrovati tecnologici e di adeguarsi all’evoluzione dello scenario strategico mondiale».

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data la rapidità del progresso, non si potranno attendere i cicli di ammodernamento di un mezzo per recepire le nuove tecnologie, pena l’accumulo di pericolosi gap nei confronti di una minaccia nel dominio Underwater in co-stante aumento. Questa corsa all’innovazione nel domi-nio Underwater, oltre che una necessità operativa, rappresenta un’opportunità per il «Sistema Paese» nel suo complesso. Anche in questo caso, il programma U212 rappresenta un esempio virtuoso per tutta la filiera che ruota intorno alla subacquea. Grazie al lavoro svolto nell’ambito di tale programma, infatti, diverse industrie e piccole medie imprese hanno avuto modo di maturare competenze e capacità che le rendono pronte, oggi, per un «salto di qualità» nella prossima serie di sottomarini, mentre diverse importanti università hanno maturato know how in diversi settori specifici, potenzialmente in-novativi nel settore delle costruzioni subacquee.

Accrescere la capacità subacquea in campo nazionale è quindi un dovere imprescindibile e obbligato dalla evo-luzione del campo di battaglia Underwater, dove saranno sempre più presenti e prolifiche tanto le minacce insidiose e asimmetriche quanto quelle convenzionali. La rapidità dell’innovazione tecnologica e il profondo interesse di-mostrato in ambito internazionale, anche da parte di attori che tradizionalmente non avevano mai operato in tale do-minio, è l’evidente dimostrazione di come non si possa rimanere indietro in un settore nel quale la Marina italiana è sempre stata un importante riferimento. È anzi questo il momento di puntare con decisione ad accrescere il van-taggio tecnologico, nei settori dove possiamo contare su vere e proprie eccellenze, sfruttando le sinergie tra le di-verse realtà per colmare i gap esistenti, evitando di per-dere opportunità a favore di altri player che, pur contando su basi tecnologiche meno solide, utilizzano politiche in-dustriali maggiormente assertive e coordinate.

In questo percorso la Marina può dare un contributo fondamentale, sia mettendo a disposizione il proprio know how specialistico per orientare e dare concretezza ai processi di ricerca e sviluppo, sia quale rappresentante — con i mezzi a disposizione — del meglio della tecno-logia e delle capacità nazionali nell’ambito delle relazioni internazionali.

Le sfide prospettate sono notevoli ma le energie e le capacità diffuse nel tessuto militare, industriale e acca-

demico del paese sono di tutto rispetto e denotano un forte potenziale. È tuttavia necessario operare in sinergia, per non disperdere risorse in inutili duplicazioni, focaliz-zare gli obiettivi e massimizzare i ritorni, senza incappare in sterili conflitti intestini o coltivare interessi magari ap-petibili al momento ma di poco conto se raffrontati a quelli potenzialmente perseguibili con un orizzonte più lungo e un focus più ampio.

Sempre più si avverte quindi la necessità di creare un cluster della subacquea all’interno del quale sia possibile far convergere e confrontare tutti gli attori interessati, a vario titolo, nello sviluppo di tecnologie nel campo Un-derwater. Da questo potrebbe poi discendere la creazione di un Polo della subacquea quale referente unico per le attività di ricerca, sviluppo e test che non sia un semplice «aggregatore», ma un vero e proprio moltiplicatore delle eccezionali capacità di cui il paese dispone. Allo scopo di raggiungere un tale obiettivo, è essenziale mantenere vivo il dialogo tra industria privata, Difesa, mondo acca-demico, centri di eccellenza e dicasteri interessati; è per-tanto necessario che occasioni come il Seminario della subacquea, svoltosi nel 2019 presso Segredifesa, e il re-cente Seafuture Webinar del 2020, con focus sulla dimen-sione Underwater, diventino sistematiche, con un appuntamento almeno annuale per fare un punto di situa-zione sullo stato dell’arte e sulle nuove esigenze, un’ana-lisi delle tendenze e una sintesi delle strategie future.

Tornando al presente

Tanti sono i compiti che i sottomarini italiani svolgono quotidianamente a favore della collettività nazionale, eu-ropea e NATO, in maniera occulta e lontano dal clamore mediatico, partecipando a tutte le missioni di sicurezza marittima in Mediterraneo, e oltre. I nostri battelli, infatti, con la loro esclusiva capacità di dominare la dimensione subacquea, rimanendo «invisibili», mantengono la tradi-zionale capacità di prevenire o impedire azioni ostili che possano minacciare gli interessi nazionali e delle alleanze miliari di cui l’Italia è membro (5). Lo strumento subac-queo è però, soprattutto, elemento principe, a valenza strategica, della deterrenza, che è ingrediente fondamen-tale dell’equilibrio internazionale, unico vero garante della pace e sicurezza globale. È doveroso sottolineare, infatti, che l’invisibilità del sottomarino gli consente di

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La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

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agire sfruttando l’effetto sorpresa, forte dell’iniziativa nel decidere il «dove», il «come» e il «quando», anche in profondità, oltre le linee avversarie e laddove nessun altro assetto può penetrare. Coerentemente con il quadro stra-tegico delineato e il Modello operativo integrato di rife-rimento (6) della Difesa, la Componente sommergibili dovrà disporre sempre di almeno otto battelli per svolgere la diuturna attività che spazia dalle missioni «single ser-vice» della Marina Militare, a quelle joint e combined in collaborazione con le altre Forze armate e i paesi alleati. Un complesso di attività da svolgere, sia nei mari prospi-centi la penisola (inner defence), sia lontano dall’Italia, ovunque gli interessi vitali nazionali siano minacciati (outer defence). Pertanto risulta evidente come otto unità rappresentino la c.d. «massa critica» al di sotto della quale non si potrà assolutamente scendere, pena una grave perdita di efficacia dello strumento subacqueo, a quel punto non più in grado neanche di assicurare la 1a missione della Difesa (7), ovvero la tutela dello Stato contro ogni possibile aggressione, salvaguardando: l’in-tegrità del territorio nazionale, gli interessi vitali del paese, la sicurezza delle aree di sovranità nazionale e dei connazionali all’estero e la sicurezza e l’integrità delle vie di comunicazione di accesso al paese.

Uno strumento essenziale per conseguire gli obiettivi delineati è certamente il mantenimento di un consistente

vantaggio tecnologico nel campo Underwa-ter, da considerare chiave del successo non solo per le esigenze di difesa, ma anche per contribuire allo sviluppo del nostro «Sistema

Paese» che, in passato, ha visto perdere fette di competi-tività in numerosi settori strategici. La Componente som-mergibili della Marina, con i suoi mezzi subacquei altamente sofisticati e performanti, rappresenta infatti un volano essenziale per la ricerca tecnologica applicata. Una ricerca che tuttavia non si esprime esclusivamente in apparecchiature e sistemi da impiegare a bordo, ma trova anche ampi spazi di crescita nel mondo civile. Un sottomarino è da considerarsi a tutti gli effetti un sistema del tutto «immerso» in un ambiente ad alto rischio e molte delle tecnologie impiegate sono rapidamente ap-plicabili dagli ospedali, al settore dell’automotive e su fino allo spazio. Ultimo elemento cardine di questo com-plesso puzzle è la ricerca di sinergie nell’ambito della cooperazione internazionale, ritenuta uno strumento abi-litante in diversi settori chiave del vasto mondo della su-bacquea. A tal proposito, in questi anni la Componente ha perseguito una crescita in tutti i settori — per esempio il soccorso sommergibili — dove il nostro paese poteva acquisire un vantaggio capacitivo (sia esso tecnologico o formativo/addestrativo), avviando al contempo un per-corso di fidelizzazione di numerose Marine estere che ve-dono nell’Italia il paese di riferimento per sviluppare le proprie flotte subacquee. Un tema considerevole, rispetto al quale sarà fondamentale raccogliere gli importanti ri-sultati attesi che permetteranno al nostro paese di guada-gnare posizioni di rilevanza e prestigio internazionale altrimenti di non facile accesso.

Un po’ di storia recente e prospettive nell’immediato futuro

La flotta di unità subacquee della Marina ha subito in questi ultimi anni una rilevante trasformazione che l’ha portata, dagli anni Novanta a oggi, a cambiare radical-

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La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

Il sottomarino SALVATORE TODARO (S526), primogenito della classe U212A, varato nel 2003 e consegnato alla Marina nel 2006. A fianco: lo SCIRÈ (S527), classe «Todaro», varato nel 2004 e consegnato nel 2007.

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mente approccio tecnologico, operativo e gestionale. Nel 1996 venne firmato, infatti, il MoU (Memorandum of Understanding) tra il Governo italiano e quello tedesco per la costruzione della prima coppia di sottomarini classe U212A — Todaro e Scirè — seguiti circa un de-cennio dopo da una coppia di unità gemelle — Venuti e Romei — entrate in servizio nel 2016-17. Questi sotto-marini di nuova concezione stanno affiancando le quattro unità legacy della classe «Sauro» 3a e 4a serie — Pelosi, Prini, Longobardo, Gazzana — che, seppur costruiti circa un trentennio fa, hanno beneficiato di importanti la-vori di ammodernamento intorno agli anni Duemila.

I «Sauro» hanno rappresentato, prima dell’inizio del-l’era U212A, il backbone della flotta subacquea italiana, conducendo innumerevoli missioni di maritime security in Mediterraneo allargato e cicli addestrativi fino alle fredde acque dell’Atlantico e del mar Baltico validando, pur nel solco di scelte tecnologiche tradizionali — come la propulsione diesel-elettrica — la bontà delle costru-zioni navali nazionali. L’ammodernamento di mezza vita, risalente a circa un ventennio fa, ha permesso in questi anni ai «Sauro» di poter operare con efficacia, in virtù di un sistema di comando e controllo tecnologica-mente in linea, seppur con prestazioni più limitate, con gli standard degli U212A. L’epopea di questi battelli continua ancora oggi nelle acque del Mediterraneo, dove questi anziani ma affascinanti battelli continuano a presidiare il limes marittimo italiano e contribuiscono ad addestrare le nuove generazioni di marinai degli abissi. Il loro futuro è naturalmente legato all’ingresso

in servizio dei battelli di nuova generazione ma non si può escludere che alcune Marine straniere, con mezzi finanziari limitati, possano essere interessate all’acqui-sizione di queste longeve macchine. I battelli della classe U212A 1o batch, costruiti al Muggiano (La Spe-zia), hanno rappresentato sin dal loro ingresso in linea nel 2006, una vera rivoluzione operativa, tecnologica e organizzativa. Questi sottomarini hanno un disloca-mento in immersione di circa 1.800 tonnellate per 56 metri di lunghezza, con un diametro di 7 metri all’in-

terno del quale sono contenuti numerosi e rivoluzionari contenuti tecnologici. Gli aspetti più pregiati di questo — ancora oggi — avveniristico sottomarino d’attacco, sono sicuramente la propulsione indipendente dall’aria (AIP), alimentata da idrogeno e ossigeno, nonché lo scafo amagnetico e una suite sensoriale acustica ed elet-tronica estremamente evoluta e performante. Particolar-mente curata dai progettisti è stata la segnatura ottica, termica e acustica dei battelli che li rende di fatto invi-sibili alla gran parte dei sensori imbarcati sulle navi, aerei ed elicotteri specializzati nella lotta anti-sommer-gibile. Queste qualità, nel loro complesso, costituirono (e tuttora costituiscono) un elemento di novità assoluta nel panorama sommergibilistico mondiale, tanto da spingere l’US Navy a chiedere la collaborazione italiana nel corso delle Campagne CONUS del 2008 e 2009, svolte sulle coste orientali degli Stati Uniti. In questi anni i battelli hanno percorso un incredibile numero di ore di moto partecipando a tutte le missioni della Ma-rina Militare, alla Campagna Unified Protector nel 2011 e spingendosi anche nelle pericolose acque del Corno d’Africa, dal settembre 2012 al febbraio 2013. Attività di grande profilo affiancate da un diuturno lavoro di sor-

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La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

Il sottomarino GIANFRANCO GAZZANA PRIAROGGIA (S525), seconda unità classe «Sauro» 4a serie, varato nel 1993 e consegnato nel 1995. A fianco il PELOSI (S522), della medesima classe (3a serie), varato nel 1986 e consegnato nel 1987.

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veglianza occulta del Mediterraneo che raramente ap-pare all’attenzione del grande pubblico, ma che ha ga-rantito al nostro paese l’indispensabile sicurezza dei traffici marittimi. Nel 2010, mentre il 1o batch solcava le onde, la Marina portava a termine il processo nego-ziale per la seconda trance di U212A che, per l’Italia (8), avrebbe visto la realizzazione dei battelli del 2o batch, Pietro Venuti e Romeo Romei. Queste nuove unità rappresentano una evoluzione ragionata della 1a

serie: mantenendone inalterata la configurazione origi-naria beneficiano infatti di una importante serie di mi-gliorie in termini di autonomia e capacità dei sensori (albero optronico e sonar), a cui si è aggiunta l’adozione del nuovo siluro pesante della italiana Leonardo — il Black Shark Advanced — che, con le sue capacità di at-tacco long range, ha surclassato la maggior parte degli analoghi prodotti stranieri, cambiando i paradigmi della guerra anti-nave e anti-som.

L’ultima e affascinante evoluzione del U212A è il nuovo battello il cui nome di U212 Near Future Sub-marine (U212 NFS) vuole indicare la sua capacità di fare da ponte tra l’affidabile progetto italo-tedesco e le tecnologie emergenti del nuovo secolo. Un battello, quindi, che segna un’importante discontinuità rispetto agli U212A del 2o batch, poggiando tuttavia le basi proprio su quel framework tecnologico che ha reso questi battelli dei campioni assoluti in termini di effi-cacia, efficienza e resilienza. Il programma U212 NFS, che prevede la costruzione di 4 unità, vedrà il suo ini-zio tra pochi mesi e consentirà, tra il 2027 e il 2032, di

poter finalmente disporre di una flotta di otto sottoma-rini di nuova generazione. Le innovazioni tecnologiche introdotte da NFS segneranno inoltre il ritorno a pieno titolo dell’industria italiana nel campo della progetta-zione e realizzazione di sistemi di combattimento per sottomarini — filiera tecnologica abbandonata alla fine degli anni Novanta — e l’ingresso del nostro paese nel settore dei sistemi di propulsione AIP e delle batterie agli ioni di litio. Entrambi settori dove gli investimenti nella Componente sommergibili faranno da trigger di

ricerca nazionale per il cluster della green economy e dell’economia dell’idrogeno. Altra grande innovazione prevista a bordo degli U212 NFS sarà la capacità mis-silistica di land attack, un’esigenza operativa sentita da oltre un ventennio e che ci si attende potrà essere finalmente realizzata con l’ingresso in linea dei nuovi battelli. Questa nuova configurazione del sistema d’arma permetterà in futuro alla Difesa di contare su uno strumento di deterrenza e stabilità in grado di rie-quilibrare la situazione strategica in Mediterraneo, dove l’Italia è l’unico tra i grandi paesi marittimi privo di capacità missilistica deep strike rilasciabile dai suoi vettori sottomarini. I nuovi battelli, infine, potranno contare su una estesa capacità di controllo delle acque circostanti, sia in senso orizzontale grazie ai nuovi per-formanti sonar e mezzi unmanned, ma anche in senso verticale grazie all’interoperabilità con i veicoli subac-quei che potranno sorvegliare in maniera efficace i fon-dali e le dorsali dei cavi e pipeline sottomarini. Il nuovo battello, quindi, sarà tra i primi per l’applica-zione del concetto di «sistema di sistemi», sempre più interconnesso con la Squadra navale e con la dimen-sione subacquea che lo circonda.

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La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

Nelle immagini, il sottomarino GIULIANO PRINI (S523) classe «Sauro» 3a serie, varato nel 1987 e consegnato nel 1989. È nato come strumento prevalentemente «hunter killer» e ha subito notevoli migliorie e modifiche tecnico-operative nel corso della vita progettuale e operativa.

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Il cuore della Componente: i sommergibilisti Le sfidanti traiettorie delineate hanno in comune un

elemento imprescindibile di ogni organizzazione, ovvero il suo cuore costituito da poco più di 700 uomini e donne della Componente sommergibili. Personale che ha alle spalle una tradizione ultracentenaria — proprio que-st’anno si è scelta la data del 16 ottobre (9) per celebrare i 130 anni dalla fondazione — e funge da cardine e rife-rimento in ogni azione della vita in servizio. Il sommer-gibilista è una figura particolare di militare, dove confluiscono solidi valori militari, elevata preparazione professionale e flessibilità operativa. Qualità essenziali senza le quali la gestione di mezzi così complessi e con un elevato ritmo operativo sarebbe impossibile. Esiste quindi all’interno della Componente un forte attenzione verso lo human factor, inteso come quell’insieme di cul-tura e comportamenti che delineano il successo di ogni attività in un ambiente ad alto rischio. Non si tratta — nel caso del personale sommergibilista — solo di aumentare la sicurezza delle operazioni, ma di coltivare al pari degli ambienti aereonautici — con i quali si condivide la com-plessità e delicatezza nel condurre mezzi nelle tre dimen-sioni — quell’insieme di skills, non solo tecniche, in grado di agevolare l’efficienza del sistema. In sostanza nei pros-simi anni sarà compiuto ogni sforzo per migliorare il ren-dimento della «macchina umana», sia imbarcata, sia a terra, sviluppando adeguati strumenti cognitivi come le moderne tecniche di crew resource management, ma anche affinando ulteriormente i processi di selezione, for-mazione e addestramento del personale che continuerà a sentirsi parte di una piccola, ma fondamentale élite della Forza armata e del paese. Particolare attenzione in questi anni è stata rivolta a un rinnovamento della formazione

per i futuri comandanti di sottomarino, che godono oggi di una didattica di alto livello e respiro internazionale con la c.d. «Scuola comando sommergibili», attiva dal 2015 e di anno in anno sempre più proiettata verso standard di assoluta eccellenza. Ulteriore iniziativa, condotta a partire dal 2017, è il Seminario tattico-operativo sommergibili, un appuntamento annuale dove si collocano a sistema tutte le conoscenze apprese in mare dal personale opera-tivo, allo scopo di assicurare il continuo miglioramento e progresso delle procedure e tattiche in campo subacqueo. Il personale sommergibilista nel solco degli irrinunciabili valori che provengono dalla nostra gloriosa storia di eroi-smo e abnegazione, dovrà essere quindi pronto nel futuro a nuove sfide al servizio del paese. Una di quelle che mag-giormente si presta ai nostri processi selettivi e formativi è sicuramente quella dello spazio, dove l’esperienza del nostro personale in termini di resilienza in ambienti con-finati e decision-making in assenza di informazioni e di-rettive dai comandi a terra, potrà costituire un eccellente banco di prova e di dialogo per le nuove generazioni di astronauti, in cui di certo un sommergibilista non sfigu-rerebbe. Un’opportunità già colta dall’US Navy nel corso dell’epoca degli Shuttle e che si è recentemente rinnovata con la sommergibilista Kayla Jane Barron, selezionata dalla NASA per l’Astronaut Group 22. Il sostegno alle operazioni: navi di supporto e ricerca scientifica

La Componente sommergibili sviluppa le proprie at-tività in un ambiente operativo complesso e variegato che non si può naturalmente limitare allo studio, proget-tazione e impiego dei sottomarini, ma deve guardare oltre, alla ricerca di supporti e sinergie sia all’interno

della Squadra navale, sia in campo civile. I programmi di maggior interesse in questo momento sono quelli legati alle nuove unità SDO-SuRS, LRSSS (Long Range Subma-rine Support Ship), che con finalità diverse andranno a supportare i nostri battelli. In or-dine cronologico il primo programma è quello della Special & Diving Operations-Submarine Rescue Ship che andrà a sosti-tuire la gloriosa — ma ormai troppo anziana

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— nave Anteo. I compiti di ricerca e soccorso di sottomarini sinistrati (Distressed Submarine - DISSUB) sono fondamentali per una Marina che impiega unità subacquee e il grande potenziale di SDO-SuRS e dei suoi innovativi sistemi di salva-taggio permetterà, nei prossimi anni, di riassumere — semmai ce ne fosse bisogno — la leadership mediterra-nea in questo delicato settore. Le nuove apparecchiature per intervento (come la capacità di ventilazione del DISSUB) e soccorso saranno confi-gurate per avere un elevato grado di trasportabilità aerea e via mare, rompendo, di fatto, il monopolio americano e nord-europeo in questo genere di operazioni. Ulteriore tassello fondamentale della proiettabilità dello strumento subacqueo è costituito da un’altra unità navale che per la prima volta nella storia della Marina sarà progettata e co-struita per supportare le operazioni di outer defence dei sottomarini. La Long Range Submarine Support Ship

(LRSSS) consentirà di supportare i sistemi di piattaforma dei battelli con idonei special tool, provve-dere ai rifornimenti per i reagenti delle fuel cell e del motore diesel, garantire il ripianamento di acqua e viveri e naturalmente costituire, in acque lontane, la base logistica avanzata per l’equipaggio di ri-serva del sottomarino. Uno stru-mento, quindi, importante, per aumentare di un significativo fat-tore di scala l’endurance dei nostri sottomarini, la loro proiettabilità e la persistenza nel teatro operativo. Naturalmente LRSSS sarà idonea quale possibile alternativa — la c.d. vessel of opportunity (VOO)

— per imbarcare gli assetti deployable di soccorso na-zionali e internazionali, in caso di indisponibilità della SDO-SuRS. A tal proposito, nell’ottica di assicurare la possibilità di accesso occulto ad acque lontane, anche la nuova unità idro oceanografica maggiore (NIOM), con la sua capacità di navigare in condizioni estreme, po-trebbe costituire anch’essa una validissima vessel of op-portunity per un soccorso nelle fredde acque del Nord Europa e dell’Atlantico settentrionale.Anche il campo della ricerca scientifica vede i sommergibilisti impegnati

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Personale sommergibilista in addestramento al simulatore Rush Escape. In alto: personale di bordo impegnato in posto di manovra e, nella pagina accanto, durante un ormeggio notturno.

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La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

nello studio di tutte le opportunità di supporto alle opera-zioni militari senza dimenticare il sostegno al «Sistema Paese». Un primo esempio virtuoso è quello della colla-borazione con l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) dedicato alla implementa-zione del monitoraggio di due descrittori ambientali, il rumore impulsivo e il rumore continuo antropico, che rientrano nel più ampio quadro delle azioni della comu-nità europea nel campo della politica per l’ambiente ma-rino. Una collaborazione così importante che un rappresentante della Marina Militare appartenente alla Componente sommergibili è inserito nel board europeo di monitoraggio dei suddetti parametri. Un altro settore in cui la Marina, grazie al progetto nazionale di ricerca militare (PNRM) denominato Echo, ha già compiuto no-tevoli passi avanti per merito di una felice collaborazione tra il mondo industriale e quello universitario, riguarda l’applicazione dell’intelli-genza artificiale ai metodi di classificazione acu-stica. A tal proposito, pro-prio in questi ultimi tempi si sta cercando di dare forma a una nuova proget-tualità che, partendo del PNRM Echo, permetta in futuro di applicare gli algoritmi di intelligenza artificiale utiliz-zata per la classificazione acustica delle tracce sonar anche per il riconoscimento e localizzazione dei mammi-feri marini partendo dall’intercettazione delle loro voca-lizzazioni. Un’applicazione che potrebbe avere risvolti importanti anche nel campo scientifico civile e che dimo-stra quanto sia elevato l’interesse della Forza armata per la protezione ambientale e la salvaguardia del mare. In generale, è indubbio che lo strumento del PNRM si è ri-velato fondamentale in molteplici settori dove il volano economico della Difesa sta permettendo di sostenere ri-cerche scientifiche altamente competitive. Alcune appli-cazioni necessarie per il progresso della Componente sommergibili che possano costituire esempi utili per con-testualizzare meglio il tema: sfruttamento dell’idrogeno quale vettore energetico, sistemi di navigazione inerziale basati su interferometria atomica (Atins), sistemi per le comunicazioni quantistiche sottomarine (Frontcom) fino alle nuove tecnologie per controllare il calcare e il biofilm nei depositi di acqua (Noname).

Verso gli oceani Il progetto U212 NFS, nelle sue linee essenziali, rappre-

senta l’evoluzione pragmatica ed efficace di un progetto ri-voluzionario che ha raggiunto in questi venti anni un incredibile stato di maturità. I sottomarini tipo U212A, nel loro complesso, sono in marcia per raggiungere a breve le 100.000 ore di moto in immersione, un dato che riverbera la bontà e resilienza delle scelte operative ed economiche compiute alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Un’affascinante responsabilità che adesso ricade sulla no-stra generazione che dovrà nel medio termine immaginare il futuro post U212 NFS. È nostro compito, infatti, comin-ciare a delineare già oggi le esigenze di tutela degli interessi marittimi italiani a partire dal 2030, quando sarà necessario impostare una nuova classe di sottomarini che possa nel

tempo affiancare e sostituire Todaro e Scirè che avranno superato, nel frattempo, un quarto di secolo di vita ope-

rativa. Parlare oggi di un futuro che sembra — solo apparentemente — così lontano, può sembrare un

puro esercizio speculativo, ma in realtà alcuni orientamenti in termini di esigenza

operativa — ovvero cosa dovrà fare il nuovo sottomarino — e di partnership tecno-logica e industriale dovranno essere deli-neati già nei prossimi anni, se non nei pros-

simi mesi. Un così lungo periodo di gestazione è, infatti, necessario per consentire un’analisi quanto più precisa e realistica delle opzioni sul campo, anche a fronte di un’evo-luzione della dimensione Underwater — e con essa delle minacce — sempre più accelerata e dinamica. L’Italia in campo subacqueo, a differenza di altri major player, non può permettersi errori o sbavature. Lo scenario che ritengo più prevedibile è quello di un allargamento degli interessi italiani nel campo Underwater in zone di mare al di là del tradizionale riferimento del Mediterraneo allargato. È, in-fatti, difficile pensare che uno strumento raffinato e invisi-bile come un sottomarino possa essere utile esclusivamente nelle acque del Mare nostrum e dintorni. La prevedibile — e in taluni casi già oggi accertata — crescita di assertività di alcuni paesi deve spingerci a ragionare in termini di un

La nuova unità idro oceanografica maggiore (NIOM) destinata a sostituire nave MAGNAGHI con la sua capacità di navigare in condizioni estreme, potrebbe costituire anch’essa una validissima vessel of opportunity per un soc-corso nelle fredde acque del Nord Europa e dell’Atlantico settentrionale.

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La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

NOTE (1) «Sto sotto, ma offendo chi sta sopra». (2) https://www.sr-m.it/wp-content/uploads/2020/10/sintesi-maritime-2020.pdf. (3) https://www.eni.com/it_IT/azienda/presenza-internazionale.page. (4) Intervista sul quotidiano La Repubblica del 30 settembre 2020 a cura del dott. Gianluca Di Feo. (5) Si tratta di operazioni che includono: il controllo dei traffici illeciti, quali armi o droga, il contrabbando o il terrorismo. (6) Documento che, partendo dalle quattro missioni delle Forze armate, ha delineato lo spettro di capacità militari che dovrà avere lo strumento militare nazionale. (7) Uno studio del Modello operativo di riferimento condotto dallo Stato Maggiore Marina alcuni anni orsono, individuò il numero ottimale di 13 battelli per assicurare, senza soluzione di continuità ed efficacia, lo svolgimento di tutte le missioni della Difesa. (8) Altrettanti furono costruiti dalla Germania. (9) Data in cui ricorre — nel 2020 sono trascorsi 80 anni — l’impresa della MOVM Salvatore Todaro, al comando del Regio Sommergibile Cappellini.

salto capacitivo ancora più spinto di quello rappresentato dal passaggio — di per sé già rivoluzionario — tra i «Sauro» e i U212A. La prossima generazione di battelli dovrà essere concepita in un’ottica operativa già orientata verso gli oceani in termini di performance di armi, sensori, connettività, ma anche naturalmente di endurance, in linea quindi con gli attesi sviluppi capacitivi nella futura dimen-sione Underwater, cui si è accennato precedentemente e per i quali già oggi si cominciano a cogliere le tendenze tec-nologiche. I nuovi «oceanici» non potranno quindi essere solo «semplici» sottomarini, ma dovranno diventare il «centro stella» mobile di reti di sistemi di sorveglianza su-bacquea sempre di più basati su veicoli autonomi, intelli-genza artificiale, «big data» analysis e sensori acustici multistatici. In estrema sintesi, una piattaforma altamente innovativa, caratterizzata da una forte connotazione expe-ditionary e da una spinta attitudine per la proiezione di ca-pacità, non solo cinetiche, in un più ampio spettro di opzioni rispetto al presente. Una sfida difficile, quindi, ma neces-

saria per mantenere il nostro paese tra le potenze di rango in campo marittimo e subacqueo.

Conclusioni

La Componente sommergibili naviga oggi verso il futuro con una solida impostazione strategica e dottrinale corroborata da mezzi che nei prossimi anni faranno la differenza sott’acqua ma anche su terra grazie alle nuove tecnologie e capacità ope-rative. Una spinta tecnologica che tuttavia non deve farci mai dimenticare l’ingrediente essenziale di questa ricetta, ovvero le capacità, i valori, l’inventiva e resilienza di ciascuno dei sette-cento sommergibilisti che operano quotidianamente e in silen-zio per assicurare al paese sicurezza internazionale, benessere economico e progresso tecnologico. Un patrimonio unico e pre-zioso da tutelare e sviluppare in ogni suo aspetto e che sono certo sarà in grado di «navigare» con successo le insidiose acque del Mediterraneo e guidare la Componente, da sempre saldamente ancorata alla propria secolare storia ma proiettata al futuro, verso oceani e obiettivi sempre più ambiziosi. 8

130 ANNI DI STORIA PER I SOMMERGIBILI DELLA MARINA Uno spirito ancora vivo che anima gli equipaggi dei battelli dopo piu` di un secolo di storia al servizio del paese

Ottant�anni fa, il 16 ottobre del 1940, la MOVM C.C. Salvatore Todaro e l�equipaggio del Regio sommergibile Cappellini si resero protagonisti di una vicenda straordinaria i cui confini superano il quadro delle vicende belliche. Marinai fuori dal comune, vittoriosi tra le insidiose acque dell�oceano Atlantico ma dotati di una rara umanita` che li spinse ad affrontare situazioni di grande pericolo per portare in salvo i naufraghi del piroscafo armato Ka-balo, fiero avversario fino a pochi istanti prima dell�affondamento. Una decisione non facile e rischiosa da portare a compimento, ma che rispecchia in maniera indelebile l�essenza del sommergibilista e del marinaio italiano. Uno spirito ancora vivo che anima gli equipaggi dei battelli dopo 130 di storia al servizio del paese. Quest�anno ricorre infatti l�anniversario della fondazione della Componente sommergibili, coincidente con l�impostazione nel 1890 del Regio sommergibile Delfino, prima unita` subacquea italiana e tra le prime al mondo in assoluto. Il progetto rap-presento` l�inizio di un�epopea tecnologica e operativa che ha attraversato, con quasi 200 sommergibili, due guerre mondiali e la Guerra fredda. Il sig. Capo di Stato Maggiore ha reso lustro alla celebrazione odierna rivolgendo un pensiero riconoscente agli equipaggi, al personale di terra, militare e civile, agli uomini e alle donne della Componente che sono impegnati quotidianamente, 365 giorni all�anno, nel garantire la tutela sul mare degli interessi vitali del paese e la sicurezza degli spazi marittimi. Uomini e donne che con la loro dedizione, senza risparmi di energia, in maniera continua e in perfetta condivisione di intenti, si adoperano per il conseguimento degli obiettivi comuni e per il bene della nazione. La Componente sommergibili nazionale, e` una compagine saldamente ancorata alle proprie tradizioni e alla gloriosa storia, ma, al contempo, impegnata nello sviluppo dei nuovi sottomarini U212 NFS che saranno unita` all�avanguardia, tecnologicamente allo stato dell�arte e quindi costantemente proiettate al futuro.

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PRIMO PIANO

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Il ruolo dell’Underwater

per il futuro del mare

Alcune riflessioni post webinar preparatorio alla Sea Future 2021

Manuel Moreno Minuto

Capitano di Vascello, appartenente alla Componente subacquea della Marina Militare, è impiegato dal 2017 quale capo Servizio addestramento del Comando Flottiglia Sommergibili. Ha frequentato i corsi dell’Accademia navale dal 1994 al 1998. Dopo aver conseguito la specializzazione in armi subacquee ha ricoperto l’incarico di insegnante di dottrina operativa presso la Scuola sommergibili. Nel 2008 ha comandato il cacciamine Sapri, mentre dal 2010 al 2013 è stato al comando del sommer-gibile Gazzana Priaroggia. Nel corso 2014/15 ha frequentato il 17° corso ISSMI e il corso di Consigliere giuridico delle Forze armate presso il CASD di Roma. Dal 2013 al 2016 è stato impiegato presso la Centrale operativa marittima della Squadra navale nella gestione di tutte le attività nazionali e fuori area della Marina. Pubblicista militare per la Rivista Marittima e l’Ufficio Storico della Marina, collabora con i magazine Storia Militare e Il Nodo di Gordio nonché con la SIOI di Roma nel settore della Strategia marittima. Nel 2018 ha rappresentato la Marina Militare al Congresso della

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«Il mare scorre sempre, la terra non lo trattiene mai». Con questa felice sintesi poetica, scritta

oltre due secoli fa, Goethe riassumeva l’energia

di un elemento vitale per il futuro su terraferma

dell’umanità. Un elemento che dietro un’im-

mensa forza e vastità tuttavia custodisce grandi

fragilità e vulnerabilità. La visione del mare

quale semplice via di connessione privilegiata

per il commercio internazionale è ormai anacro-

nistica, e poco veritiera, nei confronti di una re-

altà in piena evoluzione che va ben oltre i

sempre validi concetti di sea line of communi-cation e choke point. I mari e gli oceani nel loro

complesso sono il principale «enabler» verso ri-

sorse indispensabili di cibo, energia, trasporti a

basso costo e traffico dati (il 97% del totale

mondiale). Il momento storico che viviamo,

piaccia o no, è il «secolo blu» e l’elemento ac-

quatico sta superando gli angusti confini geopo-

litici del Rimland di Spykman per rivelarsi nella

sua pienezza di «global common» dell’umanità.

Sottomarino appartenente alla classe «Todaro» (Foto Sestini).

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La posta in gioco, come sostenuto dall’ammira-glio Dario Giacomin — vice Segretario Gene-rale della Difesa/vice Direttore Nazionale degli

Armamenti — in un recente webinar (14 ottobre 2020) sul ruolo dell’Underwater nell’ambito della Sea Future 2021 (1), è infatti molto più importante di quanto stori-camente accaduto. «Il mare, con la sua capacità di creare benessere e prosperità, è sempre stato, nei secoli, un ele-mento fondamentale per lo “sviluppo sociale”, intere po-polazioni solo grazie a questo elemento-ponte hanno potuto lasciare gli angusti confini del proprio villaggio ed entrare in comunicazione — commerciale e culturale — con altre comunità umane. La storia ci dice, poi, che è dai rapporti costruiti sul mare che dipende moltissimo della sicurezza e stabilità sulla terra. Ora ci troviamo di fronte a fenomeni aggiuntivi, legati sia alla scoperta di nuove, ingenti, risorse energetiche sui fondali marini, sempre più sfruttabili grazie allo sviluppo della tecnolo-gia, sia agli effetti, purtroppo negativi, dell’opera del-l’uomo sull’ambiente: sfruttamento irresponsabile, come l’overfishing, fino all’estinzione di intere specie animali, l’inquinamento da idrocarburi e microplastiche, l’incre-mento del rumore ambientale, l’erosione delle aree co-stiere, ecc. Il rischio è che mentre sono facilmente visibili i disastri, purtroppo solo a titolo di esempio, della defo-restazione e della desertificazione delle terre emerse, possiamo semplicemente non accorgerci di quanto di analogo avvenga già ora nel mare e della drammatica entità del danno che ciò creerà all’intero genere umano, a partire già da noi e dai nostri figli. Questi non sono, infatti, problemi dei soli Stati marittimi e comunità lito-ranee (in cui vive il 50% della popolazione mondiale), ma rappresentano un vulnus per la catena globale che permette di ricavare preziose risorse indispensabili alla sopravvivenza dell’intero genere umano. In sostanza non si può più guardare al mare come mezzo economico per il trasporto marittimo e come arena per la gestione di tensioni e conflitti, di supremazia e dominio, ma bisogna essere ben consapevoli che è indispensabile, per il futuro dell’umanità, che si faccia un uso del mare rispettoso, consapevole, legale, equilibrato, inclusivo, ovvero aperto a tutti in termini di pari opportunità».

L’attuale contesto strategico generale, con tensioni militari che corrono veloci dal Mar Cinese Meridionale

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Il ruolo dell’Underwater per il futuro del mare

Sea Future 2021 (14-17 giugno) La Spezia. Il prestigioso evento per le tecnologie marittime in collaborazione con la Marina Militare, ha la caratteristica unica di affrontare sia il settore civile, che quello militare.

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al Mediterraneo e fino all’Artico, sono il frutto di angu-ste visioni particolaristiche, dove gli interessi del singolo Stato prevalgono su quelli della comunità globale del nostro pianeta, dimenticando le forti interconnessioni con cui i mari e gli oceani allacciano tra loro comunità e processi apparentemente lontani. Le acque territoriali di uno Stato e le Zone Economiche Esclusive non sono solo il confine legale con i propri vicini litoranei, ma il limes geopolitico con tutta l’umanità, e questa realtà non va mai sottovalutata nell’analisi dei fenomeni. In questo contesto così complesso, l’unico freno a tali pericolose fughe in avanti sono le Marine militari, non strumento di guerra, ma di sicurezza, il cui ruolo «deterrente» in ambito geopolitico e di «regolatore» delle attività civili si rivela ogni giorno più essenziale.

Le Forze navali — come segnala in maniera precisa l’ammiraglio Giacomin — «sono oggi l’unico elemento degli Stati in possesso dello status legale per sorve-gliare e intervenire nelle acque internazionali già in tempo di pace. Un ruolo, fondato sulla credibilità come strumento militare (che deve esserci), il cui effetto re-golatore, di raffreddamento degli stati di tensione e di prevenzione dei conflitti, completa lo spettro di capa-cità deterrenti, rendendo le Marine ancor una volta strumenti di stabilità, le cui attività in futuro saranno sempre più orientate ad assicurare libero accesso ai mari e ai relativi benefici e risorse e a preservare que-sto global common per le generazioni future».

L’anno che si sta per concludere ha riservato al nostro paese sfide difficili e inaspettate che non hanno interes-sato — come talora si potrebbe pensare — solo la lotta alla pandemia da Covid-19, bensì hanno visto concre-tizzarsi, nelle acque del Mediterraneo, inquietudini che covavano da almeno un paio di decenni e che si aggiun-gono agli endemici problemi di asimmetrico sviluppo sociale del bacino. La rinnovata presenza navale russa, il progressivo rafforzamento delle Marine rivierasche, la ricerca di nuovi giacimenti di gas, la crescente territo-rializzazione della piattaforma continentale, sono temi ben conosciuti dagli addetti ai lavori, ma che solo in que-st’ultimo anno hanno trovato la giusta visibilità sui media. Le tensioni che da est a ovest scorrono sopra e sotto il Mare nostrum, pongono per l’ennesima volta il nostro paese al centro delle dinamiche globali fornendoci

l’occasione per un rafforzamento strategico sul piano della politica internazionale, ma anche interessanti op-portunità sul piano industriale. L’Italia, infatti, è uno dei pochissimi paesi mediterranei in grado di innovare e pro-durre in campo navalmeccanico ed elettronico, posizio-nandosi quindi come fornitore privilegiato per alcune Marine in forte crescita, con le quali la collaborazione industriale è uno dei punti di forza di una più ampia col-laborazione geo-strategica. Una delle punte di eccellenza del comparto navale è il cluster subacqueo, tassello es-senziale della crescente «Underwater economy» rivolta all’impiego — e tutela — delle risorse sottomarine. Un settore poco conosciuto all’interno dei nostri confini, ma che fornisce al «Sistema Paese» la capacità di essere pre-sente in un dominio riservato a ben poche nazioni, tec-nologicamente avanzate, che avranno l’opportunità e l’onere di stabilizzare l’attuale situazione internazionale e di gestire le ingenti risorse che giacciono sui fondali marini. Il Segretariato Generale della Difesa — attra-verso la Direzione Armamenti Navali (2) — in armonia con i suoi principi istitutivi è attivamente impegnato nel promuovere l’ingresso in servizio di tecnologie «cutting-hedge», e sostenere lo sviluppo dei progetti e delle filiere industriali in grado di garantire all’Italia un posto di ri-lievo in questa inarrestabile corsa verso il dominio degli abissi. Una corsa che ha bisogno dell’Italia, e della sua flotta subacquea, quale elemento di stabilità e di equili-brio in un mondo dominato da insufficiente visione glo-bale dei problemi.

La corsa al dominio Underwater

Lo scorso 22 ottobre 2020 si è tenuto un interessante vertice tra i ministri della Difesa della NATO che ha ri-badito tra le sue priorità tre elementi essenziali: lo spazio, il sostegno dei budget della difesa e la ricerca di strategie difensive a protezione delle dorsali di connettività che passano sotto i mari e gli oceani. La netta presa di posi-zione della NATO non è un fulmine a ciel sereno ma si inserisce in una più ampia presa di coscienza dei paesi avanzati (3) nei confronti di tutto ciò che si nasconde sotto la superficie del mare (4). È importante, per esem-pio, sottolineare come le comunicazioni telefoniche su cavo esistano già dalla metà del 1800 e come il progres-sivo affiancamento con le onde radio le avesse reso nel

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Il ruolo dell’Underwater per il futuro del mare

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tempo quasi secondarie. Un bilancio che si è decisamente invertito con l’avvento di Internet e del connesso traffico dati che richiede un’ampiezza di banda tuttora economicamente in-compatibile con i sistemi basati su vettori satellitari. L’indispensabilità dei cavi sottomarini rende gli abissi uno degli ambienti con la maggior densità di infrastrutture critiche su cui si basa la società odierna. Infrastrut-ture tuttora fragili in mancanza, anche, di un consolidato quadro normativo internazionale che le tuteli da spio-naggio, sabotaggio e alterazione frau-dolenta dei flussi informativi. È, infatti, ancora poco percepito lo stretto legame tra il mondo della cyber warfare, abbondantemente pubbliciz-zato, e la struttura fisica che ne per-mette davvero la sua esistenza e impiego ostile (5). La consapevolezza delle enormi risorse materiali e imma-teriali nella porzione Underwater del-l’ambiente marittimo, ha innescato da almeno un decennio, un’accesa com-

petizione i cui effetti deleteri stanno cominciando a manifestarsi in alcune aree del pianeta già gravate da insta-bilità e insicurezza. Il Mediterraneo e dintorni purtroppo tra queste, in virtù di numerose e irrisolte crisi regionali cui si sovrappongono gli interessi delle grandi potenze e alleanze mili-tari del pianeta. L’Italia si trova quindi al centro di una corsa verso il dominio degli abissi da cui possono nascere anche delle inaspettate opportunità. Il mondo Underwater è oggi condiviso da diverse classi di mezzi, civili e mi-litari che, nel loro complesso, sono impiegati per costruire, riparare e ma-nutenere le infrastrutture sottomarine, ma anche per proteggerle da ogni at-

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Esempio di una rete di comunicazione sottomarina (nato.int). In alto: mappa dei cavi sottomarini (submarinecables.com). Nella pagina accanto: aree protette in Mediterraneo (Commissione europea).

Il ruolo dell’Underwater per il futuro del mare

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tacco. Un ambiente a elevatissimo contenuto tecnologico e industriale dove il confine tra le operazioni militari e quelle civili è sempre più labile. Se in un futuro i sotto-marini militari continueranno a condurre in senso oriz-zontale le proprie operazioni di deterrenza, attacco e intelligence, nei prossimi anni la capacità d’azione dovrà estendersi in senso verticale includendo la possibilità di intervenire in profondità a tutela di cavi, pipeline e strut-ture estrattive. Un’esigenza che richiederà l’interopera-bilità tra sottomarini con equipaggio, mezzi autonomi subacquei e reti di sensori. Non è un caso che in ambito internazionale la NATO stia sviluppando dal 2018, tra le altre iniziative, il Maritime Unmanned Systems, mentre il centro STO-CMRE (6) di La Spezia possiede iniziative a tutto campo inerenti protocolli di comunicazione su-bacquea e reti di sensori. L’Unione europea, attraverso l’EDA (European Defence Agency), nell’ambito del fra-mework PESCO (Permanent Structured Cooperation), ha attivato progetti inerenti come segue: Maritime Un-manned Anti-Submarine System (MUSAS), Deployable

Mudular Underwater Intervention Capability Package, Harbour & Maritime Surveillance and Protection. Un panorama di iniziative che si affiancano a quelle dello sviluppo delle nuove generazioni di sottomarini che, pur rimanendo spesso sotto l’egida di progetto nazionale, be-neficeranno di alcuni concetti tecnologici comuni e abi-litanti per le sfide del futuro. Un ottimo esempio in questo settore è il progetto italiano U212 NFS (Near Future Sub-marine) che sarà approfondito nei successivi paragrafi.

Il posizionamento del cluster Underwater italiano

L’industria e la ricerca italiana nel campo dell’Under-water hanno profonde e consolidate radici storiche che risalgono alla cantieristica subacquea, che quest’anno compie 130 anni dall’impostazione del Regio Sommer-gibile Delfino, e ai pionieri delle operazioni d’assalto della Regia Marina (7). Un piccolo gruppo di uomini appas-sionati e competenti cui si deve la concezione di apparec-chiature innovative (8), ma anche la pragmatica capacità di fare industria nell’Italia del dopoguerra. Un modo di

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operare sempre ai limiti più avanzati che negli anni ha portato a una grandissima specializzazione in termini di contenuti, ma come rovescio della medaglia ha determi-nato una grossa frammentazione del comparto. L’Italia può, infatti, vantare alcuni big player del mondo Under-water come Fincantieri, Leonardo e Saipem cui si affian-cano decine di qualificatissime piccole medie imprese spesso in concorrenza sul piano interno e internazionale. Una struttura che ha permesso lo sviluppo di numerose nicchie di eccellenza, ma che si rivela talora inefficace sul mercato globale dominato da filiere industriali com-patte e fortemente sostenute dai rispettivi governi che puntano oramai da anni — e senza timidezza alcuna — alla tutela delle tecnologie sovrane nei settori di maggior rilevanza strategica. Il Segretariato, consapevole della svolta storica nel mondo Underwater, sta conducendo da alcuni anni una decisa azione di guida del cluster, secondo una filosofia multilivello, volta a sostenere tutti gli aspetti della filiera e con una particolare sensibilità verso le rica-dute tecnologiche per il mondo civile. Il primo livello di intervento è quello della ricerca scientifica attraverso i PNRM (Piani di Ricerca Nazionale Militare) dedicati alla subacquea ma che abbracciano aspetti condivisibili tra tutto il mondo Underwater. Alcuni esempi sono impor-tanti per chiarire il campo d’azione. Nel corso di questi anni, infatti, SEGREDIFESA e NAVARM hanno soste-nuto progetti avveniristici e d’impatto sul mondo civile, come i sistemi di navigazione inerziale o i meta-materiali per l’invisibilità ai sonar, gli accumulatori al litio o le fuel cell di prossima generazione, ma anche iniziative nel campo dei veicoli autonomi (Sparta, Frontcomm, Persico) o del controllo della qualità delle acque.

Un secondo livello è quello del sostegno a una mag-giore integrazione e condivisione di esperienze e ap-procci tra tutte le diverse anime del cluster Underwater. L’iniziativa di maggior successo e visibilità è stata il Se-minario, primo in assoluto, sulle Capacità delle Aziende della Subacquea in campo Nazionale. L’evento si è te-nuto il 30 settembre 2019 nella sala conferenze di Pa-lazzo Guidoni, sede di SEGREDIFESA, a Roma, e ha riscosso una grande eco nel comparto della subacquea sia civile, sia militare, riuscendo a riunire, con il sup-porto della Federazione delle Aziende Italiane per l’Ae-rospazio, la Difesa e la Sicurezza (AIAD), ben 250

operatori del settore e la partecipazione di diversi rap-presentanti istituzionali civili e militari, tra cui il sotto-segretario di Stato alla Difesa, onorevole Angelo Tofalo. Il Seminario ha permesso di porre su di un unico tavolo virtuale le polari di sviluppo per le componenti specia-listiche della Marina Militare che operano sott’acqua, con le eccellenze del settore industriale e le principali linee di tendenza in campo tecnico e scientifico. La pre-senza di tutti i top player nazionali ha consentito un pro-ficuo scambio di idee, anche dietro le quinte, con l’obiettivo condiviso di favorire una cooperazione strut-turata nel settore subacqueo, far emergere, sostenere e valorizzare prodotti tecnologicamente all’avanguardia, nonché sviluppare e sostenere una competizione credi-bile nei ricchi mercati internazionali, i cui trend di cre-scita, dall’Asia all’Europa, sono ormai consolidati. Un’esigenza emersa nel corso del Seminario, e dei suc-cessivi mesi, è quella della nascita di un Polo della su-bacquea, in cui concentrare le eccellenze nazionali, con il supporto del ministero della Difesa, nel ruolo di in-cubatore di «key strategic activities». La creazione di una cabina di regia nazionale, a guida governativa, at-traverso cui promuovere accordi e strategie di mercato permetterebbe, infatti, in questo preciso momento sto-rico, la canalizzazione dei finanziamenti dell’European Defence Found lanciato dalla Commissione nel 2017, e che nel 2020 si è concretizzato nell’European Defence Industrial Development Programme (EDIDP), in cui tra le tematiche affrontate spiccano: Underwater Control Contributing to Resilience at Sea e Maritime Surveil-lance Capabilities.

Il terzo pilastro sistemico su cui si muove SEGRE-DIFESA, di concerto con la Marina Militare, è la pro-mozione del Made in Italy attraverso il sostegno di esposizioni internazionali tematiche come il Sea Fu-ture. L’evento si tiene all’interno della base navale della Spezia — una location unica nel Mediterraneo — e nella sua prossima edizione, sperabilmente a giugno del 2021, vedrà la partecipazione di 200 espositori tra aziende e centri di ricerca, e la partecipazione di una cinquantina di delegazioni straniere. Un meeting forte-mente atteso da produttori e clienti e che permetterà al cluster Underwater nazionale di esibire le più recenti innovazioni in campo industriale e tecnologico.

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Il ruolo dell’Underwater per il futuro del mare

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Le prospettive del Sistema Paese La sfida del mondo Underwater, per un paese così

ricco di eccellenze di livello scientifico, tecnico e indu-striale come l’Italia, va doverosamente raccolta e affron-tata da subito con entusiasmo, visione, rigore programmatico e adeguate risorse umane ed economiche. Le iniziative di SEGREDIFESA, per il sostegno di que-sto settore strategico, abbracciano sia il mondo della ri-cerca applicata, sia quello delle realizzazioni industriali, dove naturalmente alcuni programmi per la Marina Mi-litare hanno un peso specifico molto elevato. La sintesi tra le esigenze operative delle Forze armate e i delicati equilibri industriali è forse una delle maggiori sfide, da combattere armonizzando esigenze contrastanti e budget sempre piuttosto misurati. Le principali iniziative attual-mente in corso e che modificheranno in maniera sostan-ziale il panorama italiano sono di certo il progetto dell’unità SDO-SuRS (Special and Diving Operations-Submarine Rescue Ship) — e il correlato sistema di soc-corso — e dei quattro sottomarini U212 NFS.

L’unità SDO-SuRS, destinata a sostituire l’oramai ab-bondantemente sorpassata nave Anteo, consentirà al no-stro paese di consolidare la propria leadership nel campo delle operazioni in alta profondità e del soccorso ai som-mergibili. La sua spiccata flessibilità d’impiego permet-terà di condurre in autonomia le operazioni di ricerca, identificazione, soccorso e salvataggio dell’equipaggio di un sommergibile sinistrato, di fornire supporto alle attività subacquee della Marina Militare e alle attività subacquee organizzate in ambito civile a favore della collettività e degli interessi del paese, di prestare soccorso e assistenza medico-specialistica a personale civile e militare colpito da patologie connesse all’attività subacquea e, infine, di assicurare il supporto a un Comando forze speciali «de-ployable». La nave, dalla lunghezza di circa 120 metri per 8.600 tonnellate di dislocamento, possiederà 5.000 miglia di autonomia e sarà dotata di precisi sistemi di posizio-namento dinamico e di una ricchissima dotazione di im-pianti iperbarici per operare in saturazione fino a 300 metri. Collegato, ma autonomo rispetto alla SDO-SuRS, è il sistema di soccorso di progettazione italiana che ab-braccia gli innovativi concetti di tethered e deployability. Il nuovo impianto non ruoterà intorno a un tradizionale mini-sottomarino free-flying, ma userà un collegamento

fisso via cavo — tethered — con la nave madre in grado di assicurare potenza superiore, autonomia infinita e af-fidabili comunicazioni audio e video tra la zona di opera-zioni e la superficie. La SDO-SuRS sarà inoltre in grado di effettuare il cosiddetto TUP — Transfer Under Pres-sure — volto a limitare lo shock barico dei fuoriuscenti dal sottomarino sinistrato. Altra caratteristica saliente dei nuovi impianti è la completa trasportabilità per via aerea — deployability — impiegata per garantire la capacità di soccorso al di fuori del Mediterraneo, e in caso di indi-sponibilità tecnica della nave da soccorso.

Il progetto, tuttavia, di più grande respiro, curato dalla Direzione degli Armamenti Navali, è quello dei nuovi sot-tomarini U212 NFS, che rappresentano un ponte tra il consolidato progetto italo-tedesco U212A e le tecnologie di nuova generazione. La nuova serie di battelli, che sa-ranno costruiti dal 2021, vedrà l’innesto, sull’affidabile piattaforma della classe «Todaro», di una fortissima evo-luzione in termini di impianti e concetti operativi, in cui l’industria e la ricerca italiane avranno un ruolo di traino ben maggiore rispetto all’originale cooperazione tra Italia e Germania degli anni Novanta. Il battello permetterà l’in-gresso del nostro paese nella progettazione di sistemi AIP (Air Indipendent Propulsion) di nuova generazione e ac-cumulatori agli ioni di litio, segnando un deciso passo in avanti dell’industria nazionale nella grande filiera della green economy. Le novità riguarderanno, però, anche il sistema di combattimento di Leonardo, che vede il rientro italiano in questo delicato settore e che beneficerà in un

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Il ruolo dell’Underwater per il futuro del mare

Il performante siluro nazionale Black Shark Advanced (analisidifesa.it).

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prossimo futuro anche di software di intelligenza artifi-ciale. Un’altra caratteristica che renderà U212 NFS qual-cosa in più di un semplice sottomarino d’attacco è la sua concezione quale «sistema di sistemi», in grado di dialo-gare e gestire ulteriori veicoli subacquei autonomi e di in-tegrarsi in reti di sensori Underwater, verso la sorveglianza verticale a tutela dei nostri interessi negli abissi. Nel campo, invece, della deterrenza convenzio-nale, il battello sarà in grado di dialogare efficacemente nelle più ampie reti di comunicazione della Marina (sia in aria che sott’acqua), superando i tradizionali limiti d’impiego dei sottomarini di più vecchia concezione, e fornendo al decisore un’arma di ancor maggiore spessore strategico. Questa grande capacità d’integrazione troverà, infatti, la sua ragion d’essere, sul mare, grazie al perfor-mante siluro nazionale Black Shark Advanced e su terra, con le predisposizioni per i missili da crociera.

Conclusioni

Il prossimo decennio — iniziato sotto una pandemia globale vedrà il consolidamento di alcune fondamen-tali linee di tendenza in campo geopolitico, economico e militare. La corsa al dominio del mondo Underwater

è certamente tra questi, e un paese come l’Italia, pro-fondamente immerso nelle acque del Mediterraneo, non può ignorare tale tendenza, così come non può af-fidare esclusivamente a terzi la capacità di difendere i propri interessi economici e di sviluppo. La tutela delle tecnologie sovrane in campo Underwater e la ricerca di partenariati internazionali sono due facce della stessa medaglia, rappresentata dalla capacità del nostro paese di essere incisivo sulla scena globale, non solo in virtù della propria felice posizione geografica, ma in ragione della capacità di proiettare sul mare e dal mare, sicurezza, legalità e stabilità, con la chiara con-sapevolezza che preservare il mare come proprietà co-mune dell’umanità per le future generazioni sia la vera, grande, sfida. Siamo uno dei pochi paesi al mondo in grado di «esportare» valori così preziosi e dobbiamo continuare a farlo nel corso dei prossimi de-cenni. E che sia davvero necessario continuare con de-terminazione l’opera di stimolare la crescita e il coordinamento di tutto il cluster Underwater italiano con l’obiettivo di mettere a disposizione della collet-tività nazionale efficacia operativa, innovazione tec-nologica e sviluppo economico a tutto campo. 8

NOTE (1) https://www.seafuture.it/seafuture-underwater/. (2) L’acronimo impiegato nel mondo militare è NAVARM. (3) https://www.maritime-executive.com/editorials/the-challenge-of-defending-subsea-cables. (4) https://www.nato.int/wearenato/security-challenges.html, What are today’s security challenges? Today, we face a much broader range of threats than in the past…omissis…NATO is responding by reinforcing its deterrence and defence posture, as well as supporting international efforts to project stability and strengthen security outside NATO territory. We are also confronted with the spread of weapons of mass destruction, cyber-attacks and threats to energy supplies as well as environmental challenges with security implications. These challenges are too big for any one country or organization to handle on its own, so NATO is working closely with its network of partners to help tackle them. (5) https://www.maritime-executive.com/editorials/the-challenge-of-defending-subsea-cables. (6) Il Centre for Maritime Research and Experimentation è un organo della NATO’s Science and Technology Organization (STO). (7) Dai MAS, ai «barchini saltatori», e alla «mignatta» di Rossetti e Paolucci della Grande guerra, al Siluro a Lenta Corsa (o maiale) e al barchino esplosivo della X Flottiglia MAS della Seconda guerra mondiale. (8) Sistemi di propulsione, navigazione e guida, mute stagne, apparati di respirazione subacquea, sistemi iperbarici ecc.

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Sottomarino appartenente alla classe «Todaro».

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STORIA

La storia di STE.NI. srl fonda le sue radici sulla passione, l’esperienza e la dedizione dei propri soci fondatori i quali, forti di un bagaglio tecni-co acquisito durante le precedenti esperienze, nell’anno 1997 decidono di fondare una azienda specializzata nella realizzazione, installazione, gestione e manutenzione di impianti tecnologici.

Sin dall’inizio l’azienda si contraddistingue per la realizzazione di importanti lavori in materia di impianti tecnologici avanzati, per conto di impor-tanti Pubbliche Amministrazioni del panorama romano.

In seguito, l’azienda decide di diversificare il proprio portafoglio attraverso l’apertura verso nuovi settori, come la realizzazione, installazio-ne, gestione e manutenzione di impianti elettri-ci. Durante questo periodo di sviluppo continuo l’azienda sperimenta un’evoluzione organizzativa radicale che la porterà a diventare una piccola azienda artigiana con alti standard di qualità.

Nonostante l’ampia proposta in quanto a tipolo-gie di soluzioni offerte, la STE.NI. srl si posiziona sul mercato come lo specialista nella gestione ed installazione di impianti tecnologici.

Nel 2002 l’azienda si specializza nella progetta-zione e realizzazione di impianti di trattamento delle acque. Questa lunga esperienza nell’am-bito del trattamento acqua si concretizza, anche attraverso la collaborazione del Laboratorio di Restauro della Soprintendenza speciale per il Co-losseo, nella realizzazione di una apparecchiatura specifica per il trattamento delle superfici lapidei e murali denominata Hydra.

Dal 2008 la STE.NI. srl è iscritta al MEPA, Mercato Elettronico delle Pubbliche Amministrazioni.

Forte dell’esperienza maturata nell’installazio-ne e manutenzione di impianti tecnologici, nel 2018, la società STE.NI. srl ha deciso di espandere ulteriormente il proprio campo di lavoro impe-gnandosi nella realizzazione di impiantistica a

bordo di grandi navi e riuscendo nel 2019 nella non facile impresa, di iscriversi all’albo fornitori di Fincantieri.

SEDE

La STE.NI. srl opera sull’intero territorio naziona-le. La sede legale è a Roma, qui vengono svolte le attività amministrative ed operative legate allo svolgimento di manutenzioni ed alla realizzazione di impianti tecnologici.

La società dispone di un’ulteriore sede, ubicata all’intero del cantiere navale di Genova Sestri Po-nente, per lo svolgimento delle attività operative legate al settore navale.

SERVIZI

MANUTENZIONE DEGLI IMPIANTI TECNOLOGICILa nostra società ritiene che la manutenzione preventiva e predittiva sia la migliore strategia per ridurre gli interventi di manutenzione cor-rettiva. A questo scopo effettua una costante diagnosi delle eventuali criticità di servizio ed effettua un preciso censimento e controllo degli impianti, per ottenere un quadro definito della condizione impiantistica, individuare un piano di manutenzione corretto ed efficiente, progettare ed eseguire opere di riqualificazione e di adegua-mento normativo

INSTALLAZIONE IMPIANTI TECNOLOGICIL’installazione di impianti tecnologici, in modo particolare meccanici e idrico- sanitari, rappre-sentano da sempre il core-business della società. Gli investimenti costanti sulle proprie risorse ed in tecnologie avanzate hanno permesso alla so-cietà di offrire soluzione chiavi in mano con un elevato livello qualitativo ed in grado di ridurre i consumi energetici.

INSTALLAZIONE DI IMPIANTI NAVALIForte dell’esperienza maturata nell’installazione e manutenzione di impianti tecnologici la società

STE.NI. ha deciso di espandere ulteriormente il proprio campo di lavoro impegnandosi nella re-alizzazione di impiantistica a bordo di grandi navi.

CERTIFICAZIONI E ATTESTAZIONI

• ISO 9001:2015 – Certificazione di sistemi di ge-stione per la qualità• ISO 14001:2015 – Certificazione di sistemi di ge-stione ambientale• ISO 45001:2018 – Certificazione di sistemi di ge-stione per la salute e sicurezza sul lavoro• ISO 37001:2016 – Certificazione di sistemi di ge-stione per la prevenzione della corruzione• SA 8000:2014 – Certificazione di sistemi di ge-stione della Responsabilità Sociale• FGAS – Installazione, manutenzione o ripara-zione di apparecchiature fisse di refrigerazione, condizionamento d’aria e pompe di calore conte-nenti taluni gas fluorurati ad effetto serra, in base alle disposizioni del regolamento (CE) n. 303/2008• Iscrizione Albo Nazionale Gestori Ambientali – Categoria 2bis – produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti (D.M. 3/6/2014 art.8, c.1, lett. b)

ATTESTAZIONI SOA

• OG1 – Edifici civili e industriali, Classificazione I• OG2 – Restauro e manutenzione dei beni immo-bili sottoposti a tutela, Classificazione I• OG11 – Impianti tecnologici, Classificazione II• OS28 – Impianti termici e di condizionamento, Classificazione II

CONTATTI

Ste. Ni. srl – Impianti tecnologiciSede legale: Via Vittorio Metz, 45 - 00173 Roma (RM) Telefono: 06 7230499E-Mail: [email protected]: http://www.stenisystem.it/

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PRIMO PIANO

Approccio progettuale

dei sottomarini di oggiMarco Rizzuti

Ingegnere navale, responsabile dell’Ufficio progettazione sommergibili di Fincantieri.

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La realizzazione di sottomarini militari rappre-senta, nel campo dell’industria navale, la mas-sima capacità di progettazione e di costruzione

che un cantiere navale possa esprimere, attesa la intrin-seca difficoltà progettuale e costruttiva di tali assetti stra-tegici. Effettuando un paragone con l’industria aerospaziale, per complessità la nave sta all’aereo come un moderno sottomarino sta alle stazioni spaziali. L’at-tuale conoscenza in questo campo è il frutto di decenni

di continui, studi, sperimentazioni, test e applicazione pratica delle singole classi di unità nel corso delle due guerre mondiali. La Seconda guerra mondiale ha rappre-sentato uno spartiacque in tutti i campi tecnologici. La drammaticità della guerra ha spinto al limite la frontiera tecnologica e il sommergibile ha rappresentato sicura-mente un elemento trainante. Il sommergibile si è quindi evoluto in sottomarino (1), grazie a un iper-booster tec-nologico impresso dalle Marine mondiali di riferimento, tra cui la Marina Militare italiana, al comparto industriale; tale evoluzione è stata certamente favorita dall’ampio spettro che tali assetti strategici sono stati chiamati ad as-solvere a livello difesa, interministeriale e duale.

Dal punto di vista progettuale, a fattor comune, il de-sign di un moderno sottomarino (a propulsione conven-zionale, nucleare o air independent che sia) è connotato da determinati vincoli che lo rendono intrinsecamente di-verso dal prodotto navale di superficie e sensibilmente più complesso in termini di approccio progettuale: — in immersione naviga in condizione di assenza di ri-serva di spinta (P=S, Peso=Spinta) e ciò comporta un continuo e automatico controllo dell’assetto. Questo im-plica che un lieve aumento di peso comporta la perdita della quota se non si interviene tempestivamente, a 300 metri di profondità una falla DN 50 (diametro nominale) ha una portata di 9 tonnellate al minuto; — la piattaforma richiede una perfetta integrazione fra impianti e addestramento del personale, per cui il fattore ergonomico assume un peso preponderante rispetto a quanto accade per le unità di superficie; — l’atmosfera interna a circuito chiuso impone un rigo-roso controllo del microclima e la continua esigenza di assicurare il massimo benessere all’equipaggio; la varia-bilità della pressione di esercizio dei differenti impianti in pressione (aria, acqua di mare, oleodinamico), con oscil-lazioni dai pochi bar delle attività in superficie alle decine di bar di quelle alla massima quota operativa, impongono scelte progettuali determinanti ai fini della safety, della maintenance, della survivability e reliability di tutti gli im-pianti (attesi gli spazi angusti a disposizione del progettista e le performance richieste ai singoli sistemi); — lo scafo cilindrico, tuttora ottimale per sopportare le elevate pressioni in quota (risultano già allo studio in am-bito nazionale iniziative volte a verificare futuristiche

Camera di manovra di un sottomarino classe «Todaro».

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forme di scafo e di design utili a rincorrere future preve-dibili esigenze operative, il miglioramento delle condi-zioni di Human Factor a bordo delle unità sottomarine e l’ottimizzazione degli sviluppi tecnologici disponibili) comporta una riduzione dello spazio utile per l’installa-zione dei macchinari. Il coordinamento degli impianti deve perciò essere molto spinto e verificato e validato prima dell’inizio della costruzione, eventualmente con l’ausilio di un sistema in 3D per le verifiche di dettaglio; — gli impianti di bordo, da quelli di piattaforma ai mo-derni sensori acustici, impongono scelte di fornitori di ec-cellenza, certamente all’altezza di rispondere ai più moderni requisiti imposti da moderne Marine e Compo-nenti subacquee. In definitiva ogni team e Ufficio di pro-gettazione di unità militari subacquee, popolato con le migliori competenze, in stretta relazione all’ambito uni-versitario, che abbiano maturato adeguata competenza e supportato da eccellenze assolute nel settore dei centri di ricerca, sarà destinato a seguire lo sviluppo dell’intero iter progettuale in modo da consentire il trasferimento delle informazioni tecniche, dalla fase di ingegneria di base a quella funzionale e infine al dettaglio costruttivo, così da fornire, in fase di produzione, il miglior supporto tecnico.

In tal senso, per ogni tipologia di impianti, sistemi e sottosistemi, funzioni operative, sono necessari sotto-team di progettisti capaci di valorizzare l’esperienza pre-gressa, ma che siano dotati di una visione «disruptive e Over the horizon tecnologico», unica possibilità per svi-

luppare progetti innovativi e integrare assetti game chan-ger capaci di matchare con le sempre più sfidanti richieste operative derivanti dalle moderne esigenze del settore.

In base all’analisi della «vision» delle Marine più evo-lute, tra le quali la Marina Militare italiana, ha un ruolo preminente, come risulta dal carattere generale della pro-pria futura policy di «Underwater Warfare», presentata nel corso di un seminario svolto presso il Segretariato ge-nerale della Difesa e nel corso della Webex Conference SEAFUTURE 2021 UNDERWATER, si identificano al-cuni fattori che certamente Fincantieri, quale design Au-thority nazionale, assumerà a riferimento nella definizione e progettazione delle piattaforme subacquee 2040-50 che seguiranno il progetto NFS (2): — ASW (Anti Submarine Warfare) ed MCM (Mine Countermeasures) tendono a integrarsi verso un nuovo concetto di «Underwater Warfare»; — il sottomarino (inteso come minaccia) sta avendo una diffusione superiore alle aspettative; — il sottomarino (inteso come risorsa) ha margini di mi-glioramento: deve poter essere centro di comando e con-trollo, deve estendere la sua capacità di azione oltre gli attuali limiti di autonomia e di aree operative (esempio, very shallow water); — la minaccia delle mine è sempre presente poiché arma a basso costo e utilizzata dai paesi rivieraschi non in pos-sesso di sistemi di armamento evoluti (arma asimme-trica). L’evoluzione sta portando a mine intelligenti che vengono posate come tali, ma al momento della «detec-tion» del target, si comportano come siluri, determinando elevati effetti strategici e tattici; — i compiti ASW si stanno evolvendo per consentire il contrasto verso tutte le minacce subacquee (difesa delle linee di traffico, protezione delle installazioni terrestri, prevenzione delle infiltrazioni nelle acque di interesse, difesa delle aree di interesse strategico); — le minacce possono anche arrivare da mezzi più pic-coli quali SDV (Swimmer Delivery Vehicle) o operatori di forze speciali con trascinatori subacquei; — l’uso di sonar multistatico è ora consolidato. L’inte-grazione di questa tecnologia su mezzi unmanned, con-sentirebbe di trasformare i robot in nodi fondamentali per la determinazione del panorama acustico subacqueo; — introduzione del concetto di «Maritime Situational

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Definizione delle scelte ingegneristiche mediante integrazione fisica 3D (Fincantieri S.p.A.).

Approccio progettuale dei sottomarini di oggi

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Awareness»: ovvero la conoscenza dettagliata della si-tuazione tattica e strategica di tutto l’ambiente operativo (aria, superficie, subacqueo); attualmente la capacità di scoperta e identificazione in aria e sulla superficie è ade-guata alla missione, consentendo di operare «Over the horizon»; nell’ambiente subacqueo questo non è ancora possibile ed è la lacuna da colmare; — identificazione di un «concept» evolutivo delle capa-cità di proteggersi e proteggere; sviluppo di un concetto di «rete» di sensori (sistema di sistemi) per la realizza-zione della completa «Maritime Situational Awareness»; — capacità di supporto operativo a sottomarini nel corso di prolungati periodi di deployement in teatri operativi lon-tani dalla homebase, anche a mezzo di unità navale dedi-cata, che ne possa assicurare le specifiche esigenze in termini di personale, armamenti, rifornimenti and so on.

L’approccio, mediante la metodologia della «ingegne-ria dei sistemi», pone una particolare attenzione alla fase della «traduzione» del requisito operativo in Specifica Tecnica, e solo a definizione corretta di tale step porta alla progettazione di mezzi e sistemi che non rischieranno di essere impiegati ai limiti dei loro parametri di funzio-namento e di dimensionamento.

Nell’approccio tradizionale, la fase di sviluppo del re-quisito operativo è condotta dalla Marina Militare in modo completamente autonomo, facendo riferimento alla cantieristica nazionale, la design Authority Fincantieri è, di fatto, presente nel club delle principali realtà mondiali

produttrici di sottomarini e, avendo sviluppato proprie competenze specifiche, e risultando ormai avviata su un percorso di assoluta evoluzione tecnologica e di integra-zione di sistemi innovativi, sarà certamente in grado di collaborare sempre più con la Marina Militare sin dalle fasi di elaborazione delle performance operative delle fu-ture unità. Tale sinergia consentirà uno strategico, indu-strialmente parlando, «debugging» della fase successiva di sviluppo dell’ingegneria, consentendo inoltre la pos-sibilità di gestire meglio lo sviluppo di prodotti innova-tivi, e preferibilmente a tecnologia sviluppata in ambito nazionale, per il mercato dell’export, che nei prossimi anni vedrà il rinnovamento/strutturazione di importanti flotte subacquee (in ambito europeo, East-Far East e del-l’America centrale).

Dal punto di vista prettamente operativo, attualmente, a un moderno sottomarino, viene richiesto: — identificazione e tracciamento di unità ostili di super-ficie e subacquee; — eliminazione di unità ostili di superficie e subacquee; — manovre evasive da minacce aeree, di superficie e su-bacquee; — pattugliamento in modo occulto e rilevamento dati del traffico mercantile; — ombreggiamento di unità militari e mercantili; — infiltrazione in acque interne ostili per operazioni di intelligence; — rilascio in modo occulto di mezzi insidiosi e operatori subacquei; — distruzione di installazioni terrestri.

Il carico pagante, in grado di supportare il requisito, di un sottomarino, è rappresentato da sensori, armi e an-tenne di comunicazione. In una visione tradizionale la struttura sensoristica prevede l’installazione di alcuni componenti che sono riassumibili nella seguente sche-matizzazione: — sensori ottici (periscopi ottici o optronici) corredati di

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Render di un veicolo subacqueo autonomo in pattugliamento, rilasciato da sottomarino e, accanto, render in navigazione in shallow water (Fincantieri S.p.A.).

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sensore IR e telemetro laser; — sensori acustici passivi; — sensori acustici attivi; — sensore emissioni ESM (Electronic Support Measures); — sensore radar; — sensore AIS (Automatic Identification Systems).

I dati ricevuti dai sensori vengono elaborati dal sistema di navigazione e combattimento integrato che, dopo op-portuna elaborazione, forniscono una valutazione dello scenario tattico. Mentre in campo navale il migliora-mento tecnologico delle prestazioni dei sensori e della potenza di calcolo degli elaboratori ha consentito un ap-proccio di valutazione e gestione automatica dello sce-nario, nel settore subacqueo, la presenza di disturbi ambientali richiede ancora il pesante intervento di un operatore fortemente addestrato e specializzato in grado di filtrare le informazioni attendibili dalla mole di dati rappresentati dal sensore (acustico).

Per le telecomunicazioni è necessario prevedere an-tenne e sistemi di telecomunicazione, opportunamente dimensionati in base alle esigenze operative con oppor-tune ridondanze. Le antenne sono identificabili tradizio-nalmente in: — radio HF, VHF, UHF; — SATCOM. Per quanti riguarda le armi, i sottomarini convenzionali di medie dimensioni sono attualmente destinati all’im-piego di oggetti lanciabili mediante tubi di lancio, neces-sari per l’espulsione dell’arma a seguito della compensazione della pressione esterna. Questa partico-larità rende difficile l’impiego dell’attuale armamento na-vale e limita all’impiego delle seguenti famiglie: — siluri pesanti; — missili a cambiamento d’ambiente; — sistemi di minamento.

Questa struttura tradizionale di armi, sensori e si-stemi di comunicazione risulta invariata ormai da pa-recchi anni e ha subito esclusivamente interventi di miglioramento «continuo» sfruttando la crescita della potenza di calcolo degli elaboratori elettronici e l’adozione di trasduttori digitali; guardando al futuro e alle attività di ricerca e sviluppo che il mondo uni-versitario e industriale nazionale hanno di fatto av-viato, e che stanno vedendo affermarsi nel mondo brand italiani, è immediato pensare che le design Au-thority saranno naturalmente protese nella direzione di stimolare i principali player tecnologici a svilup-pare tecnologie attualmente in fase di affermazione (e con ottime prospettive di successo) e, quindi, di integrare tecnologie futuristiche oggi, realtà mature domani (Sistemi computazionali quantici, metamate-riali, nanotecnologie, AI and coconuts).

L’architettura del futuro quindi, è facilmente ipotizza-bile come un vero e proprio salto prestazionale, che vedrà il sottomarino, insostituibile nelle sue molteplici funzioni, quale «centro stella» di un sistema di droni (autonomi o filoguidati), satelliti e assetti cooperanti (dalle unità navali alle special Forces) che certamente ne moltiplicheranno l’impiego operativo in linea con quanto richiesto dall’at-tuale tendenza rilevata in ambito mondiale (3).

I requisiti operativi sono quindi declinati in requisiti funzionali che rappresentano il corpo documentale su cui si impegnano formalmente il Cantiere costruttore e la «supply chain». Per consentire la corretta gestione è fon-damentale provvedere alla tracciatura del requisito, che dimostra non solo il soddisfacimento delle richieste con-trattuali ma traccia l’intero processo ingegneristico ac-crescendo il know-how congiunto degli stakeholders.

Nella fase di definizione del requisito si determine-ranno, le performance di base (tra cui l’autonomia, la ve-

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Sottomarino in navigazione a quota periscopica con antenne esposte (Fincantieri S.p.A.).

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locità, le prestazioni di manovrabilità e la definizione della quota operativa) e, oltre, si potrà intervenire sui trade-off identificati con l’adozione di soluzioni tecniche «disrup-tive» provenienti dal processo di innovazione della filiera industriale. L’adozione di sistemi di storage energetici di nuova concezione può, per esempio, eliminare le attuali limitazioni imposte dai sistemi AIP (Air Indipendent Pro-pulsion); l’implementazione di sistemi di occultamento acustico, utilizzando materiali di nuova concezione, può ridare al sottomarino il vantaggio strategico che si è ridotto a seguito dell’adozione dei sistemi sonar multi-statici; l’utilizzo di sistemi di «machine learning», applicati ai si-stemi di comando e controllo, può assicurare il supporto decisionale per l’interpretazione dello scenario tattico sino a ipotizzare sensori quantici per l’ascolto. L’adozione di soluzioni innovative sarà, ovviamente, analizzata in ma-niera accurata nel contesto di integrazione globale, per mantenere in equilibrio il progetto complessivo.

Quanto precede, principalmente, è dovuto alla pecu-

liarità del mezzo che non consente l’adozione di un pro-cesso perfettamente seriale, ma richiede una continua ri-visitazione dovuta alla necessità di verificare ogni stadio del processo, con una valutazione dell’integrazione fi-sica. L’obiettivo principale è evidentemente quello di giungere a un progetto non solo fattibile, ma completa-mente bilanciato in tutte le sue parti e tale task non può prescindere da una rivisitazione del requisito operativo in una o più aree mediante una analisi di gerarchizza-zione delle richieste operative, in modo da equilibrarsi con l’intero progetto (4). In tale ottica, guardando altresì alle strategie complessive a livello di Sistema Paese, è di importanza fondamentale incrementare la sinergia tra la Marina Militare e il Cantiere che, in un continuo pro-cesso di stress di performance richieste e tecnologie of-ferte, consenta alla Marina di mantenere la «Underwater domination» e al Cantiere di porsi, anche sul mercato in-ternazionale, quale assoluto player esclusivo in grado di fornire soluzioni all’avanguardia. 8

Approccio progettuale dei sottomarini di oggi

NOTE (1) Il sommergibile è un mezzo che naviga in superficie e che si immerge all’occorrenza, svolgendo la missione sia in superfice, sia in immersione (da un punto di vista pre-stazionale, la permanenza in immersione è limitata nel tempo). Il sottomarino, invece, naviga principalmente in immersione svolgendo la totalità delle missioni assegnate, emergendo esclusivamente per l’ingresso o l’uscita dai porti. (2) Workshop: «Use of Unmanned systems in Underwater Warfare» - SEAFUTURE 2018. (3) Ralph R. Young, The Requirement Engineering Handbook, Boston 2004. (4) K.A. Crow, Quality Function Deployment, 2010.

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PRIMO PIANO

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La cavocrazia sul filo di Undernet

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Mappa completa dei cavi sottomarini intorno al mondo (visualcapitalist.com).

Paola Giorgia Ascani

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Avvocato del Foro di Roma dal 2006, esercita prevalentemente in campo penale e tutela dei diritti umani. Patrocinante dinanzi la Suprema Corte di Cassazione e giurisdizioni superiori. Membro della Commissione diritto e procedura penale del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, ha pubblicato con la casa editrice Giuffrè contributi sulla disciplina dei contratti, brevetti e marchi e proprietà intellettuale. È stata tutor e membro del direttivo della Camera penale di Roma e del Centro studi Alberto Pisani. Ha curato, sotto il profilo giuridico e legale, progetti foto-editoriali in materia umanitaria e in-ternazionale. È consulente giuridico e forense del Circolo del ministero degli Affari Esteri.

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Nell’aprile del 2011 le agenzie di stampa battono una notizia che ha dell’incredibile e il mondo apre gli occhi sulla realtà dell’era digitale che

stiamo attraversando. In un villaggio a pochi km da Tbi-lisi, una settantacinquenne pensionata georgiana, in cerca di vecchio metallo da rivendere, si imbatte in un cavo che spunta dal terreno e lo trancia. L’ignara pensionata si era portata a casa un pezzo prezioso della maggior cablatura che collega la Georgia e l’Armenia a Internet; con l’in-nocente gesto provocò, in entrambi i paesi, un blackout totale di ben 12 ore nell’accesso alla rete. Questa, che po-trebbe sembrare una novella, altro non è che la reale si-tuazione, in termini di rischio, in cui si trovano le infrastrutture critiche su cui si fonda, ormai, la quasi to-talità dell’efficienza della performante società digitale. La stessa cosa sarebbe potuta succedere, e succede, per mano di qualche pescatore durante le operazioni di ritiro delle ancore o delle reti, lungo qualsiasi costa e in qual-siasi oceano del mondo. Sempre più spesso parliamo di «cloud», tanto che l’opinione pubblica pensa che Internet e l’immensa mole di dati generata, corrano veloci e im-palpabili per l’etere, custoditi su una nuvola (cloud), gra-zie a una fitta rete satellitare. Non è questa la realtà. Quasi il 99% delle comunicazioni globali, e dunque pressoché tutti i dati digitali, viaggiano su una rete di cavi sottoma-rini poggiati sul fondo degli oceani. I nostri dati, sensibili e non, sono tutt’altro che custoditi su una nuvola, ancora una volta è il mare lo scenario delle grandi sfide. I cavi sottomarini sono un’arteria di scorrimento molto più con-correnziale dell’etere, dove i satelliti agevolano solo il 3% della trasmissione digitale con costi altissimi. Se-condo le mappe geografiche di Telegeography, leader nella tracciatura geografica della cablatura sottomarina, a oggi, son ben 476 i cavi che attraversano e mettono in comunicazione ogni singola parte del mondo. Per capire l’enormità della portata, basti pensare che, ogni giorno, sulle dorsali oceaniche si trasportano 10 trilioni di dollari, tra finanziamenti, trasferimenti e dati, comprese e-mail e informazioni riservate ai governi. Se ipotizziamo un col-lasso improvviso e totale della rete sottomarina, la capa-cità satellitare potrebbe supplire solo al 7% delle comunicazioni inviate, dai soli Stati Uniti, via cavo. L’idea che fossimo agganciati ai satelliti non è astrusa, risale agli anni Ottanta, quando realmente il traffico dati

internazionale era trasmesso in tal modo. Il lento declino di questa forma di trasmissione è divenuto definitivo e irreversibile dagli anni Novanta in poi grazie all’impiego dalla fibra ottica che ha permesso di far viaggiare i dati con velocità cinque volte superiore e a un costo inferiore. Dal 1858, anno in cui fu posato il primo cavo sottomarino a opera del Regno Unito, è stata fatta molta strada. Allora, Stati Uniti e UK poterono comunicare con un tele-gramma inviato dalla regina Vittoria al presidente James Buchanan e sembrarono stupefacenti anche le 16 ore che impiegò quella comunicazione ad arrivare. Oggi, i mes-saggi arrivano in modo istantaneo da una parte all’altra del mondo (un bit impiega poco più di 2 centesimi di se-condo per attraversare l’oceano Atlantico), e a quel-l’unico cavo si affiancano, all’incirca, altri 1,800 milioni di km, pari a quasi 23 volte la lunghezza dell’equatore. L’imponenza del fenomeno e delle infrastrutture spiega come nel mondo attuale, fondato sulla necessità di co-municare rapidamente, il ruolo delle TLC sia fondamen-tale in ogni settore della società. Ormai, sulla

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Le ciberpotenze mondiali (limesonline.com).

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comunicazione istantanea si incentra il potenziale di uno Stato di spostare idee, cultura, guadagni, investimenti, prestazioni sanitarie e persino la capacità di far crollare governi. I sistemi digitali e la possibilità di comunicare alle masse in tempo reale hanno una potenza deflagrante. Non è inverosimile ritenere che le TLC siano state, tra le altre, una componente cruciale nella globalizzazione, così come oggi siano il più grande giro di affari di tutti i tempi, per le partite, più o meno pacifiche, di geostrategia eco-nomica, finanziaria e politica, che vi si giocano intorno. A tutti gli effetti, stiamo vivendo l’era della cavocrazia.

Undernet sotto il mare: i fattori di rischio

La società digitale dipende in toto dal funzionamento corretto della cablatura sottomarina, ciò qualifica Under-net come infrastruttura critica. Non ci sono alternative validamente efficienti, e ciò è in special modo preoccu-pante posto che il livello di fragilità dell’infrastruttura è elevato per fattori di rischio molteplici quali: 1) natura, 2) mire egemoniche, 3) hacking informatico e terrori-stico. 1) i cavi sono soggetti a rischi strettamente con-nessi all’ambiente marino, ancor più pericolosi in quanto

imprevedibili, come valanghe sottomarine di sedimenti, tsunami (si ricorderà quello che travolse il Giappone nel 2011 e danneggiò molti cavi, provocando disservizi e ral-lentamenti della rete nazionale), terremoti subacquei, usura. I cavi, devono contrastare, infatti, l’erosione, lo sfregamento sulle rocce dei fondali causato da correnti oceaniche e interferenze elettromagnetiche, per un arco temporale di almeno 25 anni. Anche il semplice utilizzo di ancore di navi è un elemento di rischio. Tra il 65-75% del totale di guasti ai cavi di telecomunicazione avviene a profondità inferiori ai 200 m, causato proprio da attività di pesca e navigazione. L’ultimo incidente del genere è accaduto nel 2019 quando un peschereccio, a largo dell’Algeria, ha tagliato un cavo, escludendo anche il 90% del paese dalla connessione alla rete. Pure la dispo-sizione geografica di grandi quantità di cavi, che in par-ticolari aree ad alta densità genera strozzature, accresce la vulnerabilità delle infrastrutture lungo il percorso. Si tratta, a ben vedere, delle stesse rotte usate per naviga-zione commerciale tradizionale dai protagonisti del mer-cato globalizzato. Si veda il cablaggio Undernet che percorre il Mediterraneo, passando per il canale di Suez per raggiungere l’Asia, che è di gran lunga il fondale più affollato assieme all’area dello stretto di Malacca dove corrono i cavi che collegano Asia, India, Medio Oriente ed Europa o lo stretto di Luzon, tra Taiwan e Filippine e perfino il Mar Rosso; 2) di recente, le strategie geopoli-tiche coinvolgono le comunicazioni, si pensi agli attacchi cibernetici. Ebbene, grandi potenze come Russia e Cina, si sono avvedute, già da tempo, che la conquista di una posizione dominante nel panorama internazionale può correlarsi anche alla cablatura sottomarina. Le due po-tenze hanno avviato, soprattutto la Russia, una serie di attività belliche non convenzionali o ibride, tra cui figura anche l’interruzione delle reti di comunicazione subac-quee. La Russia ha già isolato la Crimea qualche anno fa e conduce operazioni, non del tutto trasparenti, con i propri sottomarini nei fondali atlantici vicini alla Scan-dinavia. L’utilizzo di tale tipo di azioni, vista l’intrinseca possibilità di negare il proprio coinvolgimento in atti la cui attribuzione di responsabilità, è di per sé, difficile da accertare. Le guerre ibride, come la casistica della cyber-security insegna, si collocano nelle zone grigie della de-finizione di conflitto, riuscendo ad arginare, spesse volte,

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l’inquadramento nella previsione dell’art. 5 del trattato del Nord Atlantico (con richiamo all’art. 51 della Carta ONU). La qualificazione in tal senso non è ancora una-nime. L’aggressione ai cavi sottomarini non sarebbe, per-tanto, facilmente inquadrabile nella definizione di attacco armato che giustifichi, in legittima difesa, la reazione con la Forza armata da parte dello Stato vittima dell’attacco. Nel caso che ciò accadesse, la compagine internazionale sarebbe nell’impossibilità di porre in essere una controf-fensiva legittima nei confronti della Russia; e forse pro-prio per questo, i russi continuano a impiegare ingenti somme nell’aumento della propria capacità navale allo scopo di ottenere la seconda Marina più grande del mondo entro il 2027. Gli investimenti in questione arric-chiscono la flotta di sottomarini tradizionali e ausiliari, ma anche di navi di intelligence classe «Yantar» in grado

di manomettere, dalla superficie, il cablaggio sottoma-rino. Le preoccupazioni non provengono solo dai com-portamenti sovietici nell’Atlantico; anche l’Australia ha di recente bloccato la posa in opera di una rete privata legata al colosso delle TLC Huawei, temendo che la Cina potesse sfruttare la multinazionale a fini di spionaggio; 3) le attività di terrorismo informatico e cyber trovano la cablatura particolarmente attraente già da molti anni, posto che non gode di particolare protezione né sotto il mare, né nei punti di approdo alla terraferma. Per dan-neggiare un cavo, o carpire le informazioni che esso tra-sporta, non è necessario l’utilizzo di strumenti sofisticati, bensì attrezzature comuni e facilmente reperibili che per-metterebbero agli hacker di compiere un vero e proprio kill switch mondiale (sospensione delle attività della rete, in autoprotezione). Va considerato che la posizione det-

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I danni ai cavi sottomarini creati dalle reti da pesca. Accanto: secondo quanto riferito, una nave da ricerca governativa cinese ha lasciato cadere una dozzina di alianti sottomarini in una posizione non specificata nel Mar Cinese Meridionale che ospita molti cavi sottomarini di primaria impor-tanza per l’Asia e costruiti con la partecipazione dei principali attori occidentali nel campo delle TLC (Handout). In basso: immagini di danneg-giamento ai cavi risalente a qualche decennio fa (iscpc.org).

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tagliata dei percorsi e delle posizioni dei cavi sottomarini è di pubblico dominio, e quindi oltremodo reperibile da qualsiasi soggetto maldisposto. Risale ormai a sette anni fa, l’arresto da parte delle autorità egiziane, di tre som-mozzatori che, al largo di Alessandria, erano intenti al sabotaggio del cavo SeaMeWe-4 per motivi, non meglio identificati, di vandalismo o azione terroristica. Nel 2005, fu il New York Times a divulgare la notizia che il sotto-marino USS Jimmy Carter era in grado di inserirsi nei cavi di comunicazione sottomarini per spiarne i dati, tanto che tredici anni dopo, nel 2018, la rivista LawFare riportò che la difesa dei cavi non si risolveva nella pro-tezione fisica da incidenti più o meno dolosi, bensì si-gnificava soprattutto difenderne la trasmissione dei dati. Un pericolo reale, dunque, che i paesi NATO cominciano a fronteggiare soprattutto nei confronti della Russia. La vulnerabilità della dorsale Undernet è sotto gli occhi di tutti e costituisce un problema rilevante non solo a fini militari, ma anche civili poiché le relative interruzioni o danneggiamento mettono a repentaglio la società civile nel suo insieme, il suo volume di interessi e le necessità quotidiane, pensiamo alla tecnologia usata in campo sa-nitario. Malgrado ciò, il rischio è sopportato passiva-mente, senza particolari strategie gestionali, da parte della globalità degli Stati, a differenza di tutti gli altri pe-ricoli esistenti e provenienti dall’ambiente marino, quali pirateria e sicurezza dei porti da attacchi informatici, per i quali nel corso del tempo si è provveduto ad aggiornare le legislazioni. Regime giuridico. Problemi applicativi

Il panorama giuridico a tutela dell’infrastruttura, ri-spetto alle numerose minacce cui i cavi sottomarini sono esposti, è lacunoso. Nel rapporto del 2018, The Challenge of defending subsea cables, si evidenzia che, dal punto di vista giuridico, il diritto internazionale vigente non è in grado di predisporre una tutela adeguata alla protezione dei cavi, soprattutto quando questi siano collocati in alto mare, posto che il cardine su cui si basa la convenzione UNCLOS (Convenzione delle Nazioni unite sul Diritto del mare) per quella zona marittima è proprio la libertà di azione reciproca tra Stati. È frustrante ammettere che l’UNCLOS si dimostra palesemente datata (è in vigore dal 1994) rispetto al rilievo che hanno assunto i cavi e al

nuovo ordine di interessi ed esigenze globali. Per questa ragione il focus è inserire la fattispecie degli attacchi ai cavi compiuti al di fuori della giurisdizione di uno Stato nel novero degli attacchi armati ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni unite e del Manuale di Tallinn, alla stregua degli atti di cybersecurity in generale. Il Manuale prevede la proporzionalità tra attacco informatico e difesa nel caso di una offensiva a mezzo di operazione informa-tica, equiparata nel documento stesso a un attacco cinetico standard. L’applicazione pacifica delle suddette norme alla cablatura subacquea risente, però, della mancanza di una-nimità interpretativa sul concetto di «operazione standard» che va ad aggiungersi ai già numerosi dubbi circa la clas-sificazione della stessa operazione informatica come at-tacco armato in senso cinetico tradizionale. Se si guarda agli effetti provocati, si potrebbe sostenere certamente che lo sia e quindi sia giustificata la reazione difensiva di tipo militare da parte degli Stati. Nella maggior parte dei casi però, come per il furto di dati e quindi l’attività di spio-naggio, il Manuale non parla espressamente di attacco ar-mato ciò che, nel caso del prelievo dai cavi sottomarini, sarebbe una soluzione profondamente deprivativa di tu-tela, considerate le conseguenze deflagranti che potreb-bero derivare, al mondo intero, nel caso di una comunicazione riservata tra governi. La conclusione dello studio sopra citato condivide altri due resoconti pubblicati in precedenza, rispettivamente nel 2013 e nel 2015. Il primo, che compare nell’ambito di una pubblicazione del Centro di eccellenza per la difesa cibernetica della NATO, ha denunciato apertamente che l’attuale regime legale ha lacune e scappatoie che non permettono di proteggere ade-guatamente i cavi, e il secondo, della Yale Law School, ha definito carente, in modo altrettanto categorico, l’attuale sistema legale in materia. È importante sottolineare che la carenza normativa sussiste anche per il tempo di guerra, con l’aggravante che non vi sono neppure studi rilevanti che possano costituire punti di riferimento autorevoli con cui orientarsi. Il quesito in tempo di guerra è se i cavi sot-tomarini sarebbero qualificabili come possibili bersagli. In caso affermativo, ai sensi del diritto internazionale o umanitario, sarebbero considerati in grado di dare un con-tributo all’azione militare in virtù delle loro caratteristiche (natura, ubicazione, scopo) e, dunque, la loro parziale o totale distruzione costituirebbe un vantaggio militare le-

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La cavocrazia sul filo di Undernet

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gittimo (caso emblematico, il taglio dei tre cavi sottoma-rini tra Italia ed Egitto avvenuto nel 2008, che ha deter-minato il rallentamento delle azioni militari americane in Iraq). La questione scabrosa in tale ipotesi è che i cavi tra-sportano sia dati militari che civili; se dal punto di vista militare questo fa sì che, secondo diritto, possano essere validamente presi di mira come oggetti funzionali alla guerra, non si può dire lo stesso per la funzione civile che svolgono. In quest’ultimo caso, si esporrebbe la popola-zione al rischio di danni di entità non facilmente valutabile in rapporto al rispetto del principio di proporzionalità vi-gente in tempo di guerra. Per questo, sebbene si possa pen-sare che la tutela del cablaggio sottomarino dovrebbe essere compiuta manu militari dagli organi di Difesa degli Stati come per gli obiettivi sensibili, va anche riconosciuto che non si tratterebbe di un lavoro facile, né plausibile da mettere in pratica. Per questi motivi la soluzione auspica-bile è che si arrivi alla firma di un trattato internazionale, o almeno di una serie di accordi multilaterali, che permet-tano di assegnare uno status di inviolabilità a Undernet, così da renderla oggetto di protezione internazionale, a ra-gione della rilevanza di interesse comune. Sotto il profilo della libertà sancita dall’UNCLOS per l’alto mare, non ci sarebbe alcuna limitazione a fronte, posto che interdire azioni dannose e belliche al di fuori dei territori e della giurisdizione degli Stati, non pregiudicherebbe in alcun modo la loro sovranità territoriale. Forse il tempo porterà consiglio alla comunità internazionale in tal senso, senza arrivare al verificarsi di un caso estremo dinanzi al quale dover correre ai ripari con urgenza. Il cablaggio sottomarino nel Diritto del mare

Sebbene lacunoso, il panorama giuridico idoneo a di-sciplinare e tutelare la rete di comunicazione sottomarina è comunque presente. Si tratta di una serie di trattati in-ternazionali che, dal generale al particolare, disciplinano realizzazione, utilizzazione e tutela nei danneggiamenti dei cavi. Questa manciata di norme applicabili proviene oltre che dalla convenzione delle Nazioni unite sul Diritto del mare (UNCLOS), anche da: A) convenzione di Gi-nevra sull’alto mare (articoli 1, 26-30); B) convenzione di Ginevra sulla piattaforma continentale (art. 4) e C) convenzione internazionale per la protezione dei cavi sot-tomarini, trattato specifico risalente al 1884 ancor oggi

vigente. A) nel 1958, per la prima volta, la Convenzione sull’Alto mare affermava il principio giuridico per cui ogni Stato ha il diritto di posare cavi e condotte sotto-marini sul fondo dell’alto mare (art. 26). Sempre lo stesso articolo sanciva, e sancisce, il diritto di esplora-zione della piattaforma continentale e delle sue risorse e il corrispondente dovere di non ostacolarlo dello Stato costiero. Il trattato fissa, tra l’altro, anche la responsabi-lità degli Stati nel caso di danneggiamenti ai cavi, tramite l’applicazione del principio dello Stato di bandiera in forza del quale ogni nazione provvederà a riparare e ri-sarcire i danni, dolosi o colpevoli, provocati in alto mare da navi che battono la propria bandiera o soggetti sotto la propria giurisdizione (art. 27); B) la Convenzione in-ternazionale per la protezione dei cavi sottomarini del 1884, dal canto suo, disciplina in modo specifico la ge-stione dei cavi sottomarini posati legalmente fuori delle acque territoriali e soprattutto qualifica, per la prima volta, come reato punibile, la rottura o il danneggia-mento a un cavo sottomarino avvenuta per colpa o dolo, che abbia causato l’interruzione o l’ostacolo alle comu-nicazioni (art. 2). Questo intervento legislativo, coevo alle prime pose in opera dei cavi sui fondali, ancor oggi è in vigore con una potenza legislativa straordinaria, e supplisce alla mancanza di ulteriore disciplina ad hoc che ne consolidi la potenza. Nei 16 articoli la Conven-zione conferma anche la risarcibilità dei soggetti coin-volti negli eventuali incidenti ai cavi, sancendo una serie di regole di condotta per le navi atte a preservare l’inte-grità dei cavi già esistenti e i diritti dei proprietari dei cavi e delle imbarcazioni che rimangono coinvolte negli incidenti (articoli 5-7), fissa le autorità giudiziarie com-petenti a conoscere dei casi di danneggiamento, indi-cando chi è legittimato a promuovere le azioni penali legate alle infrazioni descritte negli articoli 2 e seguenti (articoli 8-9); la Convenzione si spinge anche oltre, pre-

Immagine generica di cavo sottomarino (gelestatic.it).

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determinando quali prove possano essere considerate va-lide ai fini dell’instaurazione dei processi, per snellire e assicurare legalità agli stessi (articoli 10-11) e rimanda a legislazioni future, da emanarsi da ciascuno Stato in ossequio alla convenzione stessa (art. 13). Agli Stati non aderenti, il Trattato concede la possibilità di inoltrare ri-

chiesta di adesione, dal punto di vista diplo-matico, alla Francia, e successivamente a tutti gli altri governi degli Stati aderenti (art. 14). Una norma antica e rivoluzionaria, dunque, cui si è unita, in tempi recenti, una serie di ar-ticoli contenuti nell’UNCLOS, che però, non hanno introdotto la tanto attesa tranquillità in merito all’adeguata sicurezza dei cavi sotto-marini quali infrastrutture critiche mondiali possibili obiettivi primari nei conflitti globali.

Undernet e l’UNCLOS

Parte della disciplina è contenuta anche nella convenzione delle Nazioni unite sul Diritto del mare (UNCLOS). Il paradosso di queste norme è che esse rappresentino sia regole valide sia limiti vistosi alla ge-stione di Undernet, soprattutto quelle che concernono la libertà dell’alto mare, in-terpretate, anzi, da molti come ostacolo a una forma propulsiva di tutela dei cavi dagli attacchi indiscriminati di attori ma-levoli. Esse non contengono un divieto espresso di considerare i cavi sottoma-rini alla stregua di obiettivi militari, esponendoli alla possibilità di aggres-sione indiscriminata senza prevedere l’organizzazione di operazioni difensive di alcun genere. Si tratta di una vera e propria lacuna che aggrava il silenzio pre-cedente della Convenzione internazionale per la protezione dei cavi che, all’ultimo articolo, già faceva salva «la piena libertà di azione dei belligeranti». Un altro limite dell’UNCLOS è aver indirizzato gli Stati firmatari all’adozione di leggi interne per

configurare come reato qualsiasi azione negativa sui cavi presenti nell’alto mare, nonché le sanzioni relative in forza del principio dello Stato di bandiera, solo in forma di mera raccomandazione, senza prevedere rimedi ido-nei a evitare che rimanesse, come è accaduto per la mag-gioranza degli Stati firmatari, lettera morta. Questo ha portato ad avere un’unica sanzione vigente, a carattere internazionale, che è una semplice multa (art. 113). E

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Immagini generiche della lavorazione e posa in opera dei cavi sottomarini (iscpc.org).

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ancora: malgrado larga parte della dottrina giuridica mondiale consideri che il danno internazionale (in ge-nere è tale quello arrecato ai cavi) sia un crimine che at-tivi la giurisdizione universale e quindi consenta a qualunque Stato di avere giurisdizione sul responsabile del reato, l’art. 113 UNCLOS non recepisce tale princi-pio in alcuna previsione. Ancor di più, sempre l’art. 113 vieta all’equipaggio di una nave da guerra di salire a bordo di un altra che sia anche solo sospettata di atten-tare dolosamente alla sicurezza e integrità dei cavi in acque internazionali. Così è impedito a qualsiasi potenza navale di esercitare un controllo fattivo sulle navi ostili, rimanendo tutelata solo la porzione fisica di cavo sotto l’acqua del mare e non anche tutta la gamma di azioni aggressive possibili. I limiti della convenzione sono, come si vede, notevoli e la ragione è stata da molti rin-venuta nella sua vetustà. I cavi hanno subito un vertigi-noso perfezionamento tecnologico grazie alla scoperta e all’utilizzo della fibra ottica (avvenuta sei anni dopo rispetto all’entrata in vigore della Carta) e lo stesso di-casi la crescita esponenziale del cablaggio e dello stra-potere di Internet, cui non è corrisposto un altrettanto rapido adeguamento legislativo. L’UNCLOS è rimasta ancorata a un assetto normativo, quale quello degli anni Settanta-Ottanta, in cui si ebbe la gestazione della con-venzione. In buona sostanza, in essa ritroviamo niente altro che i principi generali della libertà di posare cavi sottomarini sulla piattaforma continentale e il relativo dovere di astensione degli Stati costieri dinanzi agli Stati che posano cavi e conducono le relative esplorazioni preventive (art. 79), già enunciati nelle convenzioni di Ginevra sull’alto mare e sulla piattaforma continentale e per la protezione dei cavi sottomarini che ci si è limitati a recepire senza alcuna innovazione. Sebbene perfetti-bile tramite un auspicato intervento legislativo che la in-novi, tenendo conto delle attuali condizioni di rilevanza di Undernet, l’UNCLOS fissa comunque delle regole importanti che possiamo fare salve. Per esempio le norme che tutelano la cablatura in virtù della colloca-zione. Un cavo è, infatti, sottoposto a regole diverse del diritto internazionale marittimo in virtù della zona in cui è collocato: 1. nel mare territoriale, dove la sovranità spetta allo Stato costiero, sarà quest’ultimo a rilasciare la concessione per la posa in opera del cavo, fissando

anche le condizioni del percorso. Potrà inoltre stabilire ogni regola e metodo per la protezione fisica, fatta ec-cezione per la limitazione del passaggio pacifico di su-perficie delle navi. Potrà finanche adibire a funzione di polizia giudiziaria, preposta alla prevenzione e repres-sione dei reati sui cavi sottomarini, la propria flotta di polizia o autorità marina e navale; 2. nella piattaforma continentale, dove lo Stato costiero mantiene il proprio diritto di sfruttamento ed esplorazione delle risorse na-turali non potrà pregiudicare il diritto altrui di posare cavi sulla piattaforma. In questo caso, la convenzione parla di consenso alla posa in opera e non di conces-sione. D’altro canto però, è fatto salvo il diritto della na-zione costiera: a) di stabilire le condizioni per la parte di percorso che i cavi o le condotte svolgono nel suo terri-torio o mare territoriale; b) esercitare la sua giurisdizione su cavi e condotte costruiti o utilizzati, per esplora-zione/operazioni di installazione/uso di altre strutture sotto la sua giurisdizione, senza che ciò comporti una supremazia oltre i limiti delle acque in questione; 3. in alto mare, dove il diritto degli Stati è identico per tutti e vige la libertà piena di posare i cavi, l’UNCLOS detta il solo limite di non danneggiare, né compromettere la ca-blatura esistente, creando zone di rispetto utili a consen-tirne eventuali riparazioni (art. 112, 79, § 5).

La normativa italiana per i cavi sottomarini

Tra le poche nazioni ad aver raccolto la raccomanda-zione contenuta nell’UNCLOS, c’è l’Italia. Il nostro paese, più che diligente, ha ratificato, già nel 1886 con legge n. 3620, la Convenzione internazionale per la pro-tezione dei cavi telegrafici sottomarini e ha emanato la legge 1447 nel 1956, per ratifica e applicazione in Italia della stessa. L’opera legislativa, senza abrogare la prece-dente, ha innovato la disciplina delle comunicazioni, te-nendo conto dei progressi della tecnica. A oggi, queste norme sono ancora le uniche esistenti in materia, senza aver subito alcuna ulteriore modifica. Lo si vede dagli articoli che stabiliscono le sanzioni, dove se ne può toc-care con mano la vetustà. Le multe e le ammende com-minate a chi danneggia/interrompe/trova in mare per caso/imbarca senza averne motivo spezzoni di cavi sot-tomarini/strumenti atti a lavorarli e destinati alle teleco-municazioni, sono ancora espressi in lire. Se ne evince

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come il valore sia irrisorio e per niente inibitorio non solo rispetto all’enormità delle ripercussioni dai danni possi-bili, ma anche rispetto all’entità della somma effettiva che deriva dal cambio nella divisa attuale espressa in euro (articoli 1-7). Gli articoli dettano previsioni nel caso in cui i reati siano commessi in alto mare o all’estero, ri-chiamando, per la competenza, l’applicazione dell’art. 1240 del Codice della navigazione (art. 8); e stabiliscono anche le condotte che debbono tenere gli ufficiali delle navi per evitare danni o ossequiare la legge internazio-nale (articoli 9-11), nonché le norme del codice civile ita-liano per l’indennizzo dai danni causati da reato e quelle internazionali di cui alla convenzione di Parigi sui cavi (12-13). Altra parte della normativa italiana riguardante i cavi sottomarini si rinviene, questa volta aggiornata, nel Codice delle comunicazioni elettroniche, D.LGS. 259/2003. Vi si trovano disciplinati il diritto di conces-sione dello Stato per il passaggio e l’installazione di cavi sottomarini come infrastrutture di comunicazione elet-tronica e la tutela di queste ultime (titolo IV, articoli 146-157). Si tratta di previsioni aggiuntive rispetto a quelle della legge 1447/56 che tuttavia, nella sostanza, si ri-fanno pedissequamente a essa. L’unica differenza è l’am-montare delle sanzioni amministrative e penali che sono

maggiormente onerose, seppur ancora lontane dall’avere una funzione realmente afflittiva e deterrente. Considerazioni finali. Gli attori della corsa all’oro digitale

Tra i problemi che hanno generato la persistente ina-deguatezza della tutela giuridica dei cavi sottomarini c’è il regime di proprietà degli stessi. A differenza delle navi, soggette a un regime di diritto pubblico in forza del prin-cipio dello Stato di bandiera, i cavi appartengono solo alle società private che li posano e si assumono i costi della loro collocazione. Per questo i governi se ne sono per lungo tempo disinteressati e ancor oggi non badano al regime giuridico dell’infrastruttura rispetto ad altri campi della sfera marittima come energia e trasporto in-ternazionale. L’interesse delle nazioni per i cavi sottoma-rini, aumentato di recente, riguarda solo l’accaparramento e la più ampia colonizzazione possi-bile, al fine di creare pseudo territori elettronici abitati da miliardi di persone, come proiezione della propria po-tenza sullo scenario geopolitico. L’impennata nella co-struzione di cavi sottomarini si è avuta a partire dal 2017 (in cui ne furono posati più di 100.000 km). I dati, e ancor di più i c.d. Big Data sono un vero e proprio oro digitale

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Blue med, il primo cavo sottomarino italiano tra Palermo e Genova (quattrocanti.it).

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con cui gli Stati si garantiscono una rendita di posizione e la libertà di espandere i propri servizi senza confini o limiti e, grazie all’acquisto di grandi quote della capacità di trasmissione, liberarsi dal controllo o dalle limitazioni di chiunque. L’analisi dei dati che corrono sui fondali re-stituisce un quadro sbalorditivo: l’ingente quantità di cavi posati sui fondali, e la corsa a posarne ancora e con ca-pacità sempre maggiore di trasporto, è dettata, per lo più, dalla domanda di intrattenimento. Si pensi al cavo Curie (costruito da Google tra Stati Uniti e America Latina) che sarà riservato soltanto all’uso di piattaforme come Goo-gleMail, YouTube, GoogleSearch e GoogleCloud. Le so-cietà impegnate nella costruzione di Undernet, riunite in consorzi per la condivisione degli altissimi costi di co-struzione dei cavi (si stima che un cavo intercontinentale costi tra i 100 e i 500 milioni di dollari) sono i giganti della comunicazione sui social network, dell’entertain-ment e del commercio elettronico: Google, Facebook, Microsoft e Amazon. Dette multinazionali hanno aumen-

tato, dal 2016 in poi, gli investimenti nel cablaggio, e oggi sono proprietarie o utilizzatrici di oltre il 50% della rete esistente. Google possiede, da solo, l’8,5% dei cavi sottomarini, senza considerare quelli in consorzio con Fa-cebook o Amazon. Possedere la fibra, al giorno d’oggi, è sintomo di potenza. Investire direttamente nella costru-zione dei cavi assicura libertà di movimento piena, e so-lida indipendenza da qualsiasi altro attore sulla scena. Purtroppo da questa partita, almeno per il momento, l’Europa rimane fuori; e non solo perché sia già capillar-mente connessa, ma perché non è considerata terreno redditizio per gli investimenti. Nell’anno presente, solo due cavi (Dunant e Havfrue), sono stati posati verso l’Eu-ropa dagli Stati Uniti, e anche nel prossimo triennio quelli in corso di realizzazione verso l’Europa, sempre dagli Stati Uniti, sono solo 2 (Amitie, tra Stati Uniti/UK/Fran-cia, Grace Hopper, tra Stati Uniti/Spagna/UK). L’Asia è la terra di approdo verso la quale si dirigono tutti gli sforzi delle multinazionali informatiche (solo la Cina vale

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La cavocrazia sul filo di Undernet

Il ROV, Q trencher 500, è tra i macchinari utilizzati per la manutenzione e la lavorazione dei cavi, in particolare per la sepoltura di quest’ultimi fino a 3 metri di profondità (uninformazione.com).

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oltre il 60% della domanda globale di TLC, ovvero 600 milioni di km ogni anno; dei primi 7 operatori mondiali, 5 sono cinesi). Il mercato asiatico è il più ambito, come si evince agevolmente dalle proporzioni e dal livello di digitalizzazione delle nuove generazioni. Facebook, già nel 2016, non si è lasciato sfuggire una partecipazione nella costruzione di importanti cavi nel Sud-Est asiatico, figurando nel consorzio tutto orientale (cinese in larga parte) che li ha realizzati; allo stesso modo Amazon si è introdotto nel consorzio per l’Hawaiki, che ha migliorato i tempi di trasmissione tra Australia e Stati Uniti, nel 2018. È evidente che queste vicende parlano di collabo-razioni sottomarine tra multinazionali che prescindono da assetti e rivalità geopolitiche terrestri, dando il via a quelle che gli osservatori internazionali definiscono meta-nazioni digitali, in grado di ridisegnare le mappe globali oltre la geografia e la politica tradizionali.

Conclusioni

La soluzione del dilemma sull’adeguata protezione giuridica dei cavi sottomarini non sembra prossima a ve-nire, malgrado sia più che mai necessaria. È di qualche mese fa l’affermazione cinese che qualora vi fosse una guerra mondiale sarebbe sicuramente combattuta sotto il mare, innanzitutto per conquistare o inibire il controllo e l’uso dei cavi sottomarini. La dimensione del mercato, che nel 2026 dovrebbe toccare oltre 30 miliardi di dollari di volume d’affari, prova che si tratti di un settore ne-vralgico. L’importanza di Undernet è fortemente legata ai temi caldi del nostro secolo. In primis, la necessità, non più procrastinabile, di fronteggiare gli effetti del cli-mate change and global warming, abbandonando l’uso di idrocarburi a favore di fonti energetiche rinnovabili. Il cablaggio sottomarino è, infatti, l’unica via di trasmis-sione dell’energia creata dagli impianti eolici offshore, in cui il mondo occidentale sta investendo per raggiun-gere l’impatto zero. In secondo luogo, non esistono an-cora tecnologie in grado di posare cavi sotto la calotta artica, e in questo senso la previsione della liberazione dai ghiacci dell’Artide rappresenta una frontiera che tutti vogliono raggiungere per accaparrarsi la posa in gran parte dei territori oggi ghiacciati, sfruttando il percorso più breve per le rotte transpacifiche. Insomma, i cavi sot-tomarini si intrecciano a una notevole quantità di pro-

spettive geopolitiche e geoeconomiche, ma non si inse-riscono in un quadro giuridico in grado di segnare i con-fini tra il lecito, il legittimo e l’equilibrato, unici elementi in grado di allontanare il rischio di conflitti tra Stati in cerca di potenza. A nulla serve riporre le speranze di una mediazione nell’unico organismo preposto ai cavi sotto-marini, l’International Cable Protection Committee (ICPC). Nato nel 1958 con l’obiettivo di presiedere la salvaguardia dei cavi sottomarini internazionali e for-mato da 170 membri appartenenti a oltre 60 nazioni, provvede allo scambio di informazioni tecniche, legali e ambientali, ma tra i soggetti che lo presiedono vi sono anche gli operatori via cavo, i proprietari, e i produttori, non soltanto i governi. E ciò non sembra dare garanzia per una legiferazione imparziale. Certo è che anche in questa partita il mare gioca un ruolo dominante nel quale, se non saranno raggiunti accordi per trattati internazio-nali specifici e aggiornati a tutte le variabili in campo, dalle geostrategie alle egemonie economiche dei grandi giganti digitali, tutto rimane affidato ai comandanti delle difese navali e militari che però non saranno in grado di difendere le infrastrutture critiche sul fondo marino in modo adeguato. Ci si augura la creazione di un sistema di governance che possa far cessare l’approccio preda-torio attuale, perché si tratta di interessi collettivi di difesa dei dati, della regolarità delle comunicazioni e loro riser-vatezza, superando l’ostacolo principale a che ciò av-venga: la mancanza di interesse delle potenze di cedere la quota di vantaggio conquistata sul campo. Si pensi all’Europa, il cui programma digitale attuale consiste proprio nel raggiungere una sovranità digitale; ebbene solo la Germania, tra gli Stati membri, ha realizzato un sistema in grado di affiancare la Comunità europea agli Stati Uniti. Gaia, la rete di sistemi cloud tedesca, ha rea-lizzato il primo magazzino dati in territorio europeo che, se utilizzato anche dagli altri Stati membri, potrebbe far confluire in una sola infrastruttura europea i dati sanitari, delle imprese pubbliche, e università, rendendo l’Europa autonoma dai colossi mondiali e per questo ci si augura sia utilizzato in comune. Per capire l’importanza di una simile eventualità, basti pensare che, attualmente, i dati della ricerca italiana sono su piattaforme Google, il che significa esposti al furto di dati, ogni giorno. Senza con-tare che, come si accennava prima, l’Europa è di fatto

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dipendente da cavi altrui e quindi rischia l’interruzione totale della rete qualora vi fossero rappresaglie tra le po-tenze di Stati Uniti, Russia e Cina, esercitate tagliando uno dei cavi su cui transitano tutti i dati più strategici come fornitura elettrica, telefonia, servizi privati e pub-blici. Lo stato dell’arte purtroppo, ci dice che l’Italia, come l’Europa, non dispone di autonomia digitale e ri-mane pertanto ancora, tristemente, non competitiva. 8

Rappresentazione grafica di un cavo sottomarino (privacyitalia.eu).

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PRIMO PIANO

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lo scenario sottomarino

DRASS e

Dall’offshore al soccorso sommergibili,

una nuova era per la tecnologia

subacquea applicata alla sicurezza

In alto, esempio di scenario di più assetti di soccorso e recupero contemporaneamente cooperanti in supporto a sottomarino sinistrato; in basso, DRASS, in joint-venture con SAIPEM, è stata recentemente selezionata per la realizzazione della nuova ge-nerazione di sistemi SRS di soccorso e recupero di sottomarino sinistrato (Submarine Rescue Systems) dalla Marina Militare italiana con il programma «Assetti SDO-SurS Deployable» (Drass Technical Documentation).

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Il campo di applicazione della tecnologia subac-quea è ampiamente variegato ed evolve conte-stualmente con i progressi tecnici e con i mutevoli

e molteplici scenari di impiego, spaziando da pochi centimetri sotto la superficie a migliaia di metri nelle profondità degli abissi.

Esiste però, in questo vasto scenario, un filo condut-tore rappresentato in primis dal rispetto verso il mare e seguito a ruota dalla volontà di migliorare le perfor-mances dei sistemi e la sicurezza di chi ogni giorno è portato a misurarsi con le profondità marine, perché l’ambiente sottomarino è in assoluto uno tra i più com-plessi e, al contempo, difficili per l’uomo. Non per nulla il livello di tecnologia richiesto per operare e vi-vere sotto la superficie marina è da sempre paragonato a quello richiesto per l’esplorazione dello spazio (1).

La tecnologia gioca spesso il ruolo di chiave di volta per la soluzione di problematiche considerate poco prima insormontabili, ovviamente quando correttamente indi-rizzata e commisurata all’esigenza. Per sfruttare al meglio e nella piena totalità e sicurezza le migliorie introdotte dall’avanzamento tecnologico, il relativo adeguamento normativo deve muoversi di pari passo.

La tecnologia subacquea nazionale è all’avanguar-dia nel mondo grazie alle sue realtà industriali, uni-versitarie, militari e sportive, come diffusamente discusso già un anno fa nel corso del seminario «Ca-pacità delle aziende della subacquea in campo nazio-nale (Roma, 30 settembre 2019)».

In questo contesto, da quasi un secolo, DRASS (2) è una delle aziende di spicco, sul panorama mondiale, nelle tecnologie iperbariche e nel settore delle immer-sioni subacquee ad alta profondità (per applicazioni nei settori industriale, commerciale e militare).

A conferma di ciò, DRASS, in joint-venture con SAIPEM, è stata recentemente selezionata per la realizzazione della nuova generazione di sistemi SRS (Submarine Rescue Systems) di soccorso e re-cupero di sottomarino sinistrato della Marina Mili-

tare italiana con il programma «Assetti SDO-SurS Deployable».

Questo importante traguardo è stato raggiunto in un contesto competitivo, risultando la miglior scelta a se-guito di un lungo iter di valutazione, che ha considerato non solo il livello di tecnologia nazionale esistente e di affidabilità della soluzione offerta, ma anche le potenzia-lità di crescita e implementazione delle performance dei sistemi in campo, in vista dell’ulteriore avanzamento tec-nologico previsto nei prossimi venticinque anni. Sono state, infine, valutate le possibilità di impiego «duale» dei sistemi di soccorso e recupero anche in attività extra a quelle normalmente di pertinenza e quindi non vincolate esclusivamente all’intervento (in esercitazione e, si spera mai, in scenario reale) su un sottomarino sinistrato.

I sistemi di soccorso e recupero per un sottomarino sinistrato di DRASS-SAIPEM sostituiranno gli analoghi assetti imbarcati su nave Anteo e risalenti agli anni No-vanta, a oggi ancora in uso, ma con capacità operative nettamente inferiori alle performance attese per i nuovi sistemi di prossima dotazione. Questi assetti furono a suo tempo forniti da DRASS, in particolare il sottoma-rino da ricerca e soccorso denominato SRV300, un vei-colo «stand-alone» o «free flying» per usare un gergo più appropriato, che a breve sarà sostituito da a un si-stema «filoguidato» dalla superficie o tethered.

Proprio il paragone tra il concetto operativo di un mezzo di soccorso pilotato dal suo interno (SRV300) con un mezzo di soccorso filoguidato e pilotato quindi dalla superficie (SRV - Submarine Rescue Vehicle) rende chiaro ed esplicativo il salto tecnologico e i limiti operativi che, con questa scelta, la Marina Militare Ita-liana ha deciso rispettivamente di effettuare e superare.

Capacità di trasporto

Il SRV di nuova generazione, grazie all’assenza di un dedicato compartimento piloti, può ospitare fino a 26 naufraghi, un numero significativamente supe-riore ai sistemi attualmente in servizio nel mondo.

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Sergio Cappelletti, Marco Bellomo, Davide D’Alessio

Amministratore delegato del gruppo DRASS, già ufficiale Ruoli Normali dei Corpi tecnici della Marina Militare italiana. Direttore tecnico del gruppo DRASS, già ufficiale Ruoli Normali dei Corpi tecnici della Marina Militare italiana. Responsabile progettazione del gruppo DRASS, già ufficiale Ruoli Normali dei Corpi tecnici della Marina Militare italiana.

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Questo, mantenendo una adeguata durata dei sistemi di rigenerazione dell’aria e dimensioni inferiori ai mezzi convenzionali. Ovviamente l’effettiva capacità di trasporto viene poi dimensionata in funzione dei requisiti specifici del committente.

Questa capacità maggiorata consente un dimezza-mento dei transiti verso il «distressed submarine» (DISSUB) e quindi dei tempi e dei rischi di comple-tamento delle operazioni di soccorso, e garantisce un progresso prestazionale elevatissimo rispetto ai si-stemi convenzionali.

Stato di mare e correnti

Gli aspetti meteorologici estremi sono fuori dal con-trollo della tecnologia e della pianificazione umana. È però possibile mitigarne gli impatti sulle operazioni impiegando, nel campo del soccorso sommergibili, le robuste e provate soluzioni sviluppate per le lavora-zioni subacquee, nello sfidante ambito offshore. A dif-ferenza di un mezzo come l’SRV300, che ha una direzione preferenziale di avanzamento (limitata quindi dalle correnti) e la necessità di raggiungere la superficie per essere recuperato a bordo della nave

soccorso (limitata dallo stato di mare), il nuovo mezzo di recupero SRV, di prossima dotazione, incorpora un WROV (Work class Remotely Operated Vehicle) del tipo SAIPEM Innovator 2 a cui viene demandata la propulsione e la navigazione del mezzo, sfruttando quindi la possibilità di distribuire in maniera più uni-forme l’elevata potenza propulsiva (un ordine di gran-dezza superiore rispetto ai mezzi free flying) sui 360° e gestendo, di fatto, le correnti sottomarine a prescin-dere dalla loro direzione di provenienza. In aggiunta, il veicolo, nel suo complesso, è dotato di un sistema che ne consente il lancio e il recupero sotto la zona di non interferenza del moto ondoso, svincolando quindi dette attività dallo stato di mare in superficie.

Livello tecnologico

Nonostante i passi in avanti nella tecnologia delle batterie, un sistema alimentato ad accumulatori è de-stinato, prima o poi, all’esaurimento della capacità di carica residua e a dover interrompere le operazioni, a qualunque stato esse siano, per effettuare il necessario ciclo di carica. Il nuovo SRV riceve la sua potenza di-rettamente dalla nave appoggio in superficie (e con

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Il sottomarino da ricerca e soccorso denominato SRV (Submarine Rescue Vehicle) in aggancio con DISSUB (Distressed Submarine) sbandato di 40° (Drass Technical Documentation).

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tutte le ridondanze in termini di alimentazioni del si-stema), e quindi questa limitazione non è più un pro-blema, essendo l’energia «illimitata», se si paragona quella necessaria al mezzo di soccorso a quella dispo-nibile ed erogabile dalla nave appoggio.

In aggiunta, «cablando» la potenza propulsiva, ven-gono anche incanalate, in maniera «wired», le comuni-cazioni (dati, voice, video), creando un flusso audio, video, dati a larga banda inaccessibile a un mezzo free flying tipo SRV300, e risolvendo definitivamente uno degli aspetti critici e fondamentali delle operazioni di re-cupero, ovvero le comunicazioni tra nave madre e mezzo.

I sistemi, che DRASS e SAIPEM introducono nel Submarine Escape and Rescue (SMER), derivano da soluzioni già applicate e ampliamente usate e provate in ambito offshore (che si tratti di oil fields, attività di ricerca, wind farms, ecc.). Da ciò consegue un’af-fidabilità delle tecnologie e delle lessons learned dal campo di «ordini di grandezza» superiori rispetto a sistemi creati ad hoc, e quindi come «prototipi», e che, data la loro natura, rimangono «tendenzial-mente» tali, per il loro intero ciclo di vita.

Fattore umano

Lo stress che si vive alla guida di un mezzo sottoma-rino, che si trova centinaia di metri sotto la superficie del mare, non è paragonabile alla sicurezza offerta da una centrale di comando e controllo a bordo della nave soc-corso. L’attività è la stessa ma varia il contesto, che in-clude il fattore di rischio personale, il supporto tecnico, la possibilità di agevoli turnazioni senza interrompere la missione. Tutto ciò favorisce la concentrazione e agevola il corretto svolgimento della missione.

Analoga importanza riveste l’aspetto addestrativo del personale operante il mezzo di soccorso: ope-rando un sistema «standard» quale un WROV, il «passaggio macchina» da un sistema a un altro è mi-nimo, variando esclusivamente il contesto operativo. Operare, invece, un «mezzo unico» è qualcosa di to-talmente diverso e molto più complesso, sia in ter-mini di addestramento del singolo, sia in termini di «unicità» e conseguente limitata disponibilità degli operatori, nonché di costi di strutturazione e mante-nimento dei sistemi di addestramento.

Tempi di intervento DRASS-SAIPEM hanno sviluppato un sistema di soc-

corso e recupero totalmente modulare e trasportabile, a copertura della totalità delle esigenze che possono pre-sentarsi in caso di scenario SMER. Il sistema è traspor-tabile per sottosistemi, in funzione di quelle che possono presentarsi come esigenze operative nel contesto reale con i rispettivi tempi di intervento, che ovviamente dif-feriscono per tipologia di attività e sequenza di esecu-zione. Un esempio pratico può essere rappresentato dal posizionamento del campo di trasponder una volta iden-tificata la posizione del DISSUB, dall’attività di «pulizia» e messa in sicurezza della zona di appontaggio del mezzo di soccorso e delle connessioni per la ventilazione esterna in emergenza del sottomarino, per ripristinarne i livelli di respirabilità dell’atmosfera interna. Tali esigenze sono tutte soddisfatte impiegando un WROV in modalità stand alone e «in parallelo» all’allestimento e preparazione alle operazioni del mezzo di recupero, con evidenti benefici in termini di tempi di primo intervento e andando ad au-mentare il numero di attività effettuate «in parallelo» ri-spetto a quelle «in serie», con conseguente diminuzione dei tempi di operazione totali. Ciò differisce nettamente dalle limitazioni tecnologiche del tempo, che limitarono il requisito di design e operativo di un mezzo tipo SRV300, costretto a effettuare, singolarmente e in serie, tutte le attività sopra citate, incluso l’uso dei manipolatori, con conseguente aumento della durata delle operazioni, affaticamento degli operatori e attesa dei tempi di ricarica delle batterie tra un’attività e la successiva.

La tecnologia messa in campo con questi sistemi e le potenzialità di sviluppo che ne conseguono sono tali da rendere potenzialmente disponibile per tutte le unità Re-scue del mondo il monitoraggio subacqueo di più assetti differenti e contemporaneamente operanti nello stesso scenario sottomarino. Questo consentirà di incrementare ulteriormente il numero di attività eseguibili «in paral-lelo» abbassando conseguentemente, ma sempre in to-tale sicurezza, i tempi delle operazioni di salvataggio e di intervento. Ovviamente, alla luce delle incrementate potenzialità operative, è prevedibile che ci sarà anche uno sviluppo ed arricchimento della dottrina operativa di soccorso che permetterà di ottimizzare procedure e performance. In estrema sintesi e volendo concludere,

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le attività di recupero e soccorso su-bacquee costituiscono non solo una nuova frontiera in movimento ma anche una costante sfida per la scienza e per la tecnica umana. Nel 1953 August Piccard conquistava — col batiscafo Trieste — per la prima volta, il record di profondità in mare e poi, nel 1958, si ebbe il primo sot-tomarino atomico statunitense (il Nautilus). Eventi che descrivono una traiettoria che in poco più di cin-quanta anni ha portato a grandi risul-tati ma «l’attività di esplorazione sottomarina (cioè di ¾ della superfi-cie terrestre) è appena incominciata» (3) come ebbe modo di scrivere il grande scienziato italiano, professor Bignami (1944-2017). 8

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Tipica nave con sistemi di «Intervention» integrati a bordo; sono facilmente riconoscibili (da sini-stra a destra: la capsula gialla orizzontale del sistema di ventilazione sommergibili, i 2 basket arancioni per sommozzatori, la campana gialla verticale di recupero SRC (Submarine Rescue Chamber). In alto: esempio di scenario in cui un ipotetico sottomarino poggiato sul fondo e impossibilitato alla risalita viene «ventilato» a mezzo dell’innovativo sistema di ventilazione DRASS direttamente in quota, consentendo e prolungando la permanenza dell’equipaggio all’interno del DISSUB in attesa dell’arrivo dei soccorsi (Drass Technical Documentation).

NOTE (1) Cfr. G. F. Bignami, Il mistero delle sette sfere. Cosa resta da esplorare: dalla depressione di Afar alle stelle più vicine, Ed. Mondadori, Milano 2013, pp. 34-48. (2) Cfr.: https://www.drass.tech/. (3) G. F. Bignami, Il mistero delle sette sfere, op. cit., p. 34. BIBLIOGRAFIA NATO, ATP 57, Submarine Search & Rescue Manual. NATO, ATP 57.1, Submarine Search & Rescue Manual background supplement. NATO, ATP 57, Submarine Search & Rescue Manual National Data. IMCA R 018, Guidelines for Installing ROV Systems on Vessels or Platforms, ed. 2013. IMCA R004, Guidance for the safe and efficient operation of remotely operated vehicles, ed. 2016. ISO 16049-2, Air cargo equipment - Restraint straps, ed. 2013. DRASS, Submarine Rescue and Intervention Systems - Methods of Operation, ed. 2020. Ulrich Gabler, Submarine Design, ed. 2011. Defence Acquisition University, Glossary of Defense Acronyms & Terms, ed. 2009.

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DOTTRINA TECNICO-OPERATIVA Le operazioni SUBSAR La filosofia generale delle operazioni di ricerca e soccorso di un sommergibile sinistrato (SUBSAR) è quella di poter fronteggiare, a livello internazionale e in maniera appropriata, un qualsiasi scenario di «incidente» riguardante un sottomarino. Concetto fondante delle attività SMER è la comunanza e interoperabilità tra sistemi di soccorso e sottomarini a livello interna-zionale. Il recupero del personale (e quindi rescue) è considerato il metodo preferenziale per il salvataggio dei sopravvissuti in un in-cidente riguardante un sottomarino impossibilitato alla riemersione. La normativa SMER regola anche la fuoriuscita in quota del personale (escape) seppur essa presenti rischi più elevati per i singoli sopravvissuti. Di questa attività, nel presente documento, si tratterà solo marginalmente in quanto non è oggetto di in-tervento e supporto da parte degli assetti componenti il sistema «SDO-SuRS Deployable». Il salvataggio dell’intero «sottomarino sinistrato» è di difficile applicazione come metodo di «salvataggio collettivo del personale» specialmente quando riferito a sottomarini di tipo convenzionale o nucleare, in primis perché richiederebbe, nella maggioranza dei casi, tempi di intervento troppo lunghi anche in scenari e condizioni meteomarine favorevoli. Caso particolare è quello in cui può essere possibile impiegare il sistema di invio aria alle casse zavorra del sottomarino al fine di far fuoriuscire l’acqua di mare ripristinando la sua capacità di galleggiamento autonomo permettendone il ritorno in su-perficie. Tale procedura per sua natura particolarmente complessa, se ben attuata, permette comunque il recupero dei naufraghi mantenendoli nell’«ambiente sicuro» rappresentato dal sottomarino stesso (sempre che non siano accorse avarie tali da ren-derne l’ambiente non più idoneo alla presenza dell’uomo). Le procedure e le fasi di soccorso L’indicazione/allarme che un sottomarino è disperso/affondato/in condizioni di emergenza, può giungere all’autorità SAR (Search and Rescue) da una varietà di fonti che possono spaziare dal mondo «mercantile» a quello «militare», fino ad arrivare alla stessa Submarine Operating Authority (SUBOPAUTH), che rileva il mancato rispetto da parte del sottomarino, «potenzial-mente» incidentato, della schedula di reportistica. Un’operazione SUBSAR può essere divisa in un determinato numero di fasi in funzione della tipologia di allerta e delle infor-mazioni disponibili. Le principali fasi da considerare sono: — ricerca e localizzazione (search & intervention) del DISSUB; — evacuazione e recupero (escape & rescue). Quest’ultima fase, il recupero (rescue), può richiedere un numero di giorni che è fortemente dipendente dallo stato in cui si trova il sottomarino sinistrato e dalle condizioni meteomarine nell’area delle operazioni, nonché dalle caratteristiche e dai limiti fisici dei sistemi di recupero impiegati; ciò nonostante le operazioni di evacuazione singola devono essere considerate solo in funzione dell’andamento delle attività di recupero e possono essere ordinate (nei limiti fisici della loro fattibilità) solo ed esclu-sivamente dal Comando delle Forze di recupero (CRF, Coordinator Rescue Forces), quando l’attesa per l’intervento dei soccorsi incrementa in maniera considerevole il rischio di sopravvivenza per i naufraghi del DISSUB. Proprio nel mese di settembre 2020 si è tenuto a Taranto, nella prestigiosa cornice della Scuola sommergibili della Marina Militare italiana, il primo corso NATO volto all’indottrinamento congiunto di ufficiali di diverse Marine NATO, per l’acquisizione della qualifica di CRF; corso a cui DRASS ha orgogliosamente partecipato con un panel dedicato ai suoi sistemi e focalizzato sull’indottrinamento tecnico della tecnologia messa in campo in ambito SMER. Fase Intervention Con il termine intervention si considera l’impiego di risorse e sistemi esterni al DISSUB, per incrementarne la sopravvivenza in attesa del recupero. Gli assetti impiegabili in questa fase possono essere di diversi tipi, sia di superficie, sia sottomarini; un esempio è rappresentato dal coinvolgimento nello scenario di particolari assetti di ispezione sottomarina per la localizzazione del DISSUB, oppure di pulizia delle zone di appontaggio per i sistemi di recupero (le mastre di appontaggio) che possano trovarsi in condizione non idonea all’appontaggio o, ancora, sistemi di posizionamento del campo di trasponder intorno al DISSUB a definizione e deli-mitazione dell’area di operazioni. In aggiunta, nel tempo che necessariamente intercorre tra la localizzazione del DISSUB, le attività di definizione e gestione dello scenario sottomarino e l’attività di recupero del personale (in primis a causa della differente velocità di approntamento dei vari sistemi), ma anche durante gli intervalli nel corso delle stesse attività di recupero, può rendersi necessario il manteni-mento all’interno del DISSUB di condizioni ottimali per la sopravvivenza del personale. Per esempio, tramite l’approvvigiona-mento di materiali di sopravvivenza (scorte di cibo, acqua, capsule per la rigenerazione aria in emergenza) in modalità «wet re-supply» e quindi «bagnata», tramite l’impiego di appositi ELSS (Emergency Life Support Stores) posizionati nella garitta del DISSUB a mezzo di «Intervention ROV», ADS (Atmospheric Diving Suit) o sommozzatori; oppure in modalità «dry», e quindi «asciutta» impiegando un mezzo (SRV) o una campana di salvataggio (SRC). Alcune classi di sottomarini consentono anche l’invio di aria pulita di soccorso ai compartimenti di sopravvivenza a mezzo di sistemi di ventilazione esterna, allo scopo di mantenere un’atmosfera respirabile all’interno del DISSUB (ventilazione) per l’intera durata delle operazioni di recupero dei sopravvissuti.

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DRASS e lo scenario sottomarino

Alla luce di quanto sopra, gli assetti che vengono identificati nel raggruppamento degli intervention assets sono quindi (SIS, Submarine Intervention Systems): — campana di soccorso (SRC, Submarine Rescue Chamber): perché impiegabile in primis per rifornire il DISSUB di materiali di sopravvivenza in dry-mode; — Emergency Life Support Stores: perché impiegabili per rifornire il DISSUB di materiali di sopravvivenza in wet-mode; — sistema di ventilazione di emergenza (VS): perché impiegabile per il mantenimento all’interno del DISSUB di atmosfera re-spirabile; — Intervention ROV (o Working ROV): perché impiegabile per molteplici usi e attività di supporto e preparazione dello scenario operativo di recupero da DISSUB; — Atmospheric Diving Suit (ADS): perché impiegabile per molteplici usi e attività di supporto e preparazione dello scenario operativo di recupero da DISSUB; — sommozzatori: perché impiegabili per molteplici usi e attività di supporto e preparazione dello scenario operativo di recupero da DISSUB; Fase Rescue Quando consentito dalle condizioni interne al DISSUB, il personale sopravvissuto aspetterà di essere recuperato. La pianifi-cazione e organizzazione, nonché l’esecuzione, di questa attività di recupero, ovvero di rescue, come già anticipato, data la sua complessità e quella degli assetti necessari, richiede solitamente dei giorni. Come già anticipato precedentemente, sarà obiettivo degli assetti di Intervention preparare il DISSUB alle operazioni di recupero e quindi: assicurare il mantenimento in vita dei sopravvissuti e lo sgombero della/e mastre di appontaggio; quest’ultima attività è indispensabile per l’appontaggio dei mezzi di rescue e dunque, scopo minimizzare il Time To First Rescue (TTFR), deve necessariamente essere effettuata in an-ticipo, rispetto all’impiego del mezzo di rescue, per il salvataggio e, preferibilmente, non essere demandata al mezzo stesso. Le operazioni di rescue in questo modo possono iniziare immediatamente non appena l’idoneo sistema di recupero raggiunge il luogo in cui il DISSUB è stato localizzato. Tra gli assetti di rescue si annoverano quindi (SRS, Submarine Rescue Systems): — SRV Submarine Rescue Vehicle (e suo LARS, Launch and Recovery Systems); — Survivors Deck Decompression Chambers (DDC); — SRC Submarine Rescue Chamber (o campana di soccorso), quando non impegnata in attività di Intervention.

Veduta del sistema SRS (Submarine Rescue System) DRASS-SAIPEM. Da sinistra a destra: Submarine Rescue Vehicle, Portable Launch and Recovery System, complesso di camere decompressione naufraghi e ausiliari, gruppi generatori (Drass Technical Documentation).

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PRIMO PIANO

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Mediterraneo allargato

e sottomarini

Quadro strategico di situazione

«I nuovi battelli della Marina Militare, e il progressivo auspicabile refitting dei più anziani, permetteranno nel tempo di continuare a mantenere un blocco di 8 sottomarini — numero ritenuto il minimo (c.d. «massa critica») per garantire le missioni della Difesa — di grandi capacità e flessi-bilità in grado di tutelare gli interessi italiani in Mediterraneo allargato, e di farci partecipare ad alleanze e coalizioni in condizioni di parità strate-gica». Nell’immagine: unità subacquee in linea di fila.

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Il quadro strategico generale L’area geografica che da ovest verso est si trova com-

presa tra il golfo di Guinea e il Golfo Persico, rappre-senta ormai da alcuni decenni il principale riferimento geostrategico e operativo della Marina Militare italiana. Quest’area, nota come Mediterraneo allargato, ha visto nell’ultimo quinquennio una brusca accelerazione di al-cuni fenomeni geopolitici — come la territorializza-zione marittima — che lungi dall’essere novità assolute sono invece delle tendenze endemiche del bacino. Il Mare nostrum e i suoi dintorni, per essere davvero com-presi devono essere osservati concentrando l’attenzione su quelle dinamiche di origine più profonda — e radi-cata — che hanno un impatto significativo e durevole a carico delle reti che lo attraversano senza soluzione di continuità allacciandolo alla più vasta rete connettiva del pianeta. Tale network ha un’aliquota ben visibile in superficie con il diuturno flusso di navi mercantili, ma paradossalmente la sua porzione vitale è quella più ce-lata agli occhi e che scorre lungo i fondali con energia e dati. La rete di cavi di connessione delle Telco (Tele-communications Company) mondiali rappresenta ormai il centro nervoso del sistema economico e sociale del pianeta, dove ogni informazione attraversa un tratto di mare: dalle semplici previsioni meteo alle più spinose transazioni in borsa (1). Ruolo co-primario lo riveste inoltre la sempre più fitta ragnatela di gasdotti (il TAP - Trans Adriatic Pipeline ne è un esempio) che colle-

gano produttori e consumatori di gas naturale, e per i quali le recenti scoperte al largo di Cipro ed Egitto aprono scenari sempre più complessi. In Mediterraneo si sovrappongono quindi senza soluzione di continuità una «logica globale» governata dalle grandi potenze, e un quadro strategico «locale» di spessore. Il bacino si caratterizza, infatti, per una generale (e antica) suddi-visione tra diverse macro-aree in cui gli Stati si diffe-renziano per alcuni parametri essenziali come il PIL, ma anche per la capacità di assicurare ai propri cittadini un dignitoso welfare (2). Uno sguardo complessivo al Mediterraneo allargato permette quindi di andare a de-finire alcuni raggruppamenti di Stati, di massima omo-genei tra loro per interessi strategici, e in cui lo sviluppo dello strumento militare marittimo ne rappresenta una logica conseguenza. Da ovest verso est, la prima area d’analisi è il MENA (3) (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Mar Rosso, Golfo Persico) seguita dalla sponda Nord (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Stati adriatici), sponda Est (Grecia, Turchia, Israele) e infine dalle grandi potenze sovraregionali (Stati Uniti, Cina e Russia). Per ognuna di queste aree analizzeremo le forze subacquee messe in campo dai governi nazionali, quale efficace strumento di deterrenza marittima, do-minio della dimensione Underwater, e volano di svi-luppo tecnologico e scientifico per le pochissime nazioni in grado di realizzare scafi, impianti e sistemi di combattimento.

Manuel Moreno Minuto, Giuseppe Rizzi

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Capitano di vascello, appartenente alla Componente subacquea della Marina Militare, è impiegato dal 2017 quale capo Servizio addestramento del Comando flottiglia sommergibili. Ha frequentato i corsi dell’Accademia navale dal 1994 al 1998. Dopo aver conseguito la specializzazione in armi subacquee ha ricoperto l’incarico di insegnante di dottrina operativa presso la Scuola sommergibili. Nel 2008 ha comandato il cacciamine Sapri, mentre dal 2010 al 2013 è stato al comando del sommergibile Gazzana Priaroggia. Nel corso 2014/15 ha frequentato il 17° corso ISSMI e il corso di Consigliere giuridico delle Forze armate presso il CASD di Roma. Dal 2013 al 2016 è stato impiegato presso la Centrale operativa ma-rittima della Squadra navale nella gestione di tutte le attività nazionali e fuori area della Marina. Pubblicista militare per la Rivista Marittima e l’Ufficio Storico della Marina, collabora con i magazine Storia Militare e Il Nodo di Gordio nonché con la SIOI di Roma nel settore della Strategia marittima. Nel 2018 ha rappresentato la Marina Militare al Congresso della International Ergonomics Association con il paper «The Underwater Human Factor: a look inside submariner’s world». Capitano di Vascello, ufficiale sommergibilista che, attualmente, riveste l’incarico di capo del 1° Ufficio ricerca, sviluppo e dottrina del 5° Reparto sommergibili in seno allo Stato Maggiore Marina. Ufficiale dei Ruoli Normali, è stato allievo dell’Accademia navale dal 1992 al 1996. Successivamente, impiegato a bordo di unità subacquee, ha svolto diversi incarichi sui battelli della classe «Sauro» e «Todaro». In particolare è stato il comandante del SMG Todaro dal 2009 al 2011. È stato capo Ufficio piani e operazioni del Comando sommergibili dal 2012 al 2015. Ha frequentato il 14° corso ISSMI ed è titolato, con lode, del Master Universitario di II livello in Geopolitica e Sicurezza Globale, conseguito con l’Università La Sapienza di Roma. Ha comandato, nel 2015, nave Maestrale e nel 2016 nave Alliance. Ha ricoperto, dal 2016 al 2019, l’incarico di capo Sezione pianificazione nazionale, dell’Ufficio pianificazione generale, in seno al 3° Reparto politica militare dello Stato Maggiore Difesa, facendo parte del Gruppo di lavoro che ha redatto il Modello operativo integrato di riferimento e il Documento di revisione della Difesa.

Mediterraneo allargato: quadro strategico di situazione

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Area MENA L’area MENA del Mediterraneo allargato si estende

da ovest verso est, dal Marocco fino ai paesi del Golfo Persico, e si caratterizza per un elevato livello di spese militari (sia in termini assoluti sia di percentuale sul PIL) con tradizionale vocazione aeroterrestre. Questa priorità, dovuta in sostanza a problemi di stabilità interni e di te-nuta delle frontiere terrestri sta progressivamente mu-tando in ragione della presa di coscienza del valore geopolitico e geo-economico delle acque costiere del Me-diterraneo allargato. La porzione occidentale di MENA è contraddistinta dalla storica rivalità tra Marocco e Al-geria. Il «regno magrebino» non dispone al momento di Forze subacquee, sebbene nell’ultimo biennio ci siano stati numerosi segnali di interessamento (4) per l’acquisto di una sola unità subacquea da assegnare alla base di Ksar Sghir strategicamente affacciata sullo stretto di Gibilterra. L’esigenza marocchina non si è ancora tradotta in un vero contratto, sebbene le fonti consultate citino accordi pre-liminari con Grecia (per un battello legacy), Francia, Ger-mania e Russia (5) e Portogallo (solo come supporto tecnico) rendendo il quadro di difficile lettura (6).

La Marina algerina è una forza navale di buon livello tecnologico e operativo con una tradizione subacquea che si avvicina al mezzo secolo. L’impiego dei sottomarini inizia nel 1983 con la cessione da parte dell’Unione So-vietica di due classe «Romeo» — Progetto 6337, seguiti nel biennio 1987-88 da due moderne unità classe «Kilo» — Progetto 877EKM. Questi battelli sono stati sottoposti nel 1993-95, e nel 2010-11, a estesi lavori di manuten-

zione e ammodernamento presso i cantieri dell’ammira-gliato a San Pietroburgo per l’inadeguato know-how della cantieristica locale. Nel 2006 furono ordinati, con una spesa di circa 400 milioni di dollari, due unità della classe «Kilo» — Progetto 636M consegnate nel 2010. Le due unità sono l’evoluzione tecnica degli 877EKM conser-vandone, tuttavia, le caratteristiche peculiari di elevato tonnellaggio, grande autonomia e prezzo contenuto, frutto di un basso livello di automazione degli impianti e un limitato sviluppo della sensoristica imbarcata. Per quel che concerne il sistema d’arma, le unità finora citate sono in grado di lanciare siluri (ben 18 armi) e posare campi minati, ma non è chiaro se siano in grado di lanciare mis-sili. Questa peculiarità è invece presente nei due battelli «Kilo» — Progetto 636.1, ordinati nel 2014 e consegnati nel 2019 presso la base di Mers-el-Kébir, che è stata tea-tro di una recente attività di lancio su bersagli terrestri. Il test effettuato a fine settembre 2019 (8) ha dimostrato la capacità di attacchi strike a medio raggio dei missili russi Club-S Kalibr, e sebbene non siano note le distanze reali dei bersagli colpiti, la stampa interna (9) ha sottolineato il valore strategico di tale sistema d’arma che ha una por-tata presumibile di circa 300 chilometri (10). Questo ele-mento pone l’Algeria tra i pochissimi paesi arabi in grado di proiettare, grazie alla mobilità dei propri sottomarini, capacità belliche lontano dal territorio nazionale. Prose-guendo verso est lungo le coste del Nord Africa, né la Tu-nisia né la Libia (11) sono al momento in grado di gestire o acquisire mezzi subacquei. Questi sono invece uno dei principali punti di forza della Marina egiziana, custode

Mediterraneo allargato: quadro strategico di situazione

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Paesi appartenenti all’area MENA (Middle East North Africa) - (un.org).

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del canale di Suez e di una significativa porzione del Mar Rosso. L’Egitto al pari di quasi tutti i paesi del Nord Africa ha una storia tecnica fortemente legata alle forni-ture sovietiche della Guerra fredda, ma in questo caso la tradizione sommergibilistica è significativa. Il primo tra-sferimento di sottomarini avvenne dall’Unione Sovietica tra il 1957 e il 1972 con la cessione di 10 battelli classe «Whiskey» — Progetto 613, noti in Egitto come classe «400». A queste unità rimaste in servizio fino agli anni Ottanta si aggiunsero, nel triennio 1966-69, 6 «Romeo» sovietici (classe «700»), seguiti nel 1982-84 (12), da ul-teriori 4 unità nella variante cinese denominata Progetto 033 (classe «800»). Questi battelli sono stati ammoder-nati nei cantieri di Ras el Tin (Alessandria d’Egitto) a par-tire dal 1996, con un investimento di 133 milioni di dollari. Il refitting curato dall’americana Lockheed Mar-tin Tactical Defense Systems permise l’installazione di nuovi sensori subacquei — della tedesca Atlas Elektronic — e le predisposizioni per l’impiego di siluri MK 37 e missili antinave UGM-84L Block-II (i famosi Sub-Har-poon) di fornitura americana. Questa specifica capacità è stata oggetto nell’ottobre 2019 (13) di una esercitazione livex di cui è stato dato ampio risalto sui media (con po-lemiche in Israele) (14) allo scopo di ribadire le poten-zialità marittime del Cairo nello scacchiere mediorientale. Alla fine degli anni Novanta la Marina egiziana iniziò a esplorare la possibilità di acquisire una coppia di piccoli battelli tedeschi Type 206, e successivamente di costruire in cantieri statunitensi le unità Type 209 della germanica TKMS. L’orientamento verso la tecnologia tedesca si è infine concretizzato nel 2011 con un contratto per due sottomarini Type 209/1400, a cui nel 2014 si sono ag-giunte ulteriori due unità. Il programma, le cui consegne sono iniziate nel 2016, è ormai giunto alla terza consegna e si concluderà presumibilmente il prossimo anno. I 4 nuovi battelli permetteranno al Cairo, almeno in linea teo-rica, di avere un sottomarino moderno sempre in mare: una prospettiva che ha destato perplessità e polemiche presso l’attenta opinione pubblica di Israele (15). L’onda delle polemiche ha coinvolto in prima persona l’allora premier Netanyahu (16), accusato di aver favorito il pro-curement egiziano indebolendo Gerusalemme. Il punto di forza dei nuovi sottomarini è, infatti, costituito dalla probabile dotazione di missili (17) americani UGM-84L

Block-II di cui, nel maggio 2016, è stata proposta, dalla Defense Security and Defense Agency (18) la vendita di una ventina di esemplari per circa 143 milioni di dollari. Le scelte militari egiziane hanno dimostrato nel tempo una grande prudenza puntando su mezzi e tecnologie consolidate, importate off-the-shelf, tuttavia l’ammini-strazione militare acquisì nel 2003 (19) la gestione dei cantieri di Alessandria investendo circa 280 milioni di dollari per il loro ammodernamento, con l’ambizione di un graduale affrancamento dalle corporate occidentali (20). Verso Oriente, al di fuori del Mediterraneo, le na-zioni rivierasche mostrano, a eccezione dell’Iran, una forte vocazione aeroterrestre coniugata a generosi budget della Difesa. Questa situazione di stallo tuttavia potrebbe cambiare già nel prossimo futuro. L’Arabia Saudita — 3° budget mondiale della Difesa — per esempio, ha si-glato nel febbraio 2019 (21) un accordo con il gruppo francese Naval, per la costruzione di unità militari, tra cui sottomarini, ma non sono stati ufficializzati eventuali pro-getti concreti. Un altro paese che ha manifestato un di-screto attivismo sono gli EAU che in più occasioni (22) ha palesato una possibile esigenza legata a mezzi di pic-colo-medio tonnellaggio, da impiegare esclusivamente nelle acque basse del Mare Arabico. Anche il piccolo Qatar si è recentemente attivato nel mondo subacqueo firmando, il 24 gennaio di quest’anno, un Memorandum of Understanding con l’italiana Fincantieri, per lo svi-luppo di diversi rami tecnologici tra cui quello dei sotto-marini (23). Appena fuori dal golfo, infine la Marina dell’Oman avrebbe emesso nei primi mesi del 2019 un requisito per un sottomarino di medio tonnellaggio (24), ma la mancanza di comunicati ufficiali non depone a fa-vore dello sviluppo di tale ipotesi.

A cavallo del choke-point petrolifero di Hormuz l’unica vera forza subacquea dei paesi MENA è quella della Marina iraniana, forte di cospicuo e diversificato numero di unità (25) che operano in un contesto di in-dubbio vantaggio geografico. I sottomarini di maggiore tonnellaggio sono i tre «Kilo» — Progetto 877 EKM co-struiti a San Pietroburgo tra il 1991 e il 1996 e armati di siluri e mine. I battelli sono analoghi alle coeve unità al-gerine, ma Teheran ha optato per effettuare le manuten-zioni nei propri cantieri (26) tentando, nel corso degli anni, di creare un know-how nazionale che ha avuto tut-

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tavia un costo non indifferente in termini di disponibilità operativa. Nel 2004, allo scopo di diversificare il proprio strumento subacqueo l’Iran acquisì dalla Corea del Nord un midget della classe «Yono» (120 t di dislocamento), riproducendolo successivamente in ulteriori 13 esemplari (27) denominati classe «Ghadir». La dotazione di armi comprende il siluro elettrico YT-534-UW1 (derivato dall’analogo nordcoreano), e il missile Jask-2, versione locale del Nasr-1 di origine cinese (28), e impiegato con successo nel febbraio 2019 durante l’esercitazione Vela-yet 97. La flotta vede inoltre la presenza di un sottoma-rino da 4-500 tonnellate, il Nahang, interamente costruito e progettato in Iran, e impiegato dal 2006 principalmente per il trasporto di Forze speciali. L’ultima realizzazione domestica è il Fateh (29) di circa 600 tonnellate, impo-stato nel 2013 e consegnato nel febbraio 2019 presso la base di Bandar Abbas (30). Il battello si caratterizza per le sue capacità missilistiche analoghe ai più piccoli «Ga-dhir». Sugli scali dei cantieri di Teheran è in fase di rea-lizzazione infine un ulteriore sottomarino da 1.300 tonnellate denominato Besat e che si può ragionevol-mente ritenere il futuro candidato per la sostituzione dei russi «Kilo». Il vero tallone d’Achille di questa forza nu-mericamente consistente è però la sua struttura di co-mando (31), dato che le unità sono gestite solo in parte dalla Marina iraniana, mentre le più piccole sono affidate dalla Marina del Corpo delle guardie della rivoluzione che sovente persegue dei propri (e spesso temerari) obiet-tivi strategici.

La sponda nord

La sponda settentrionale del Mediterraneo allargato vede operare, con sottomarini, paesi industrializzati, ric-chi (pur tra mille contraddizioni) e in alcuni casi tra i maggiori esportatori di tecnologia militare Underwater. Alla base quindi dello sviluppo di queste Forze subac-quee vi è un insieme di fattori sia nel campo della sicu-rezza marittima e deterrenza, sia in quello dello sviluppo nazionale di know-how di pregio.

Da occidente verso oriente il primo paese di questo raggruppamento è il Portogallo, che mantiene una Forza subacquea di due sole, ma modernissime, unità di origine tedesca del tipo U209-PN denominate classe «Tridente». I battelli largamente derivati dal tipo U214 presentano un

raffinato mix di capacità tecniche (32) (per esempio la propulsione AIP – Air Indipendent Propulsion) e belliche (siluri Black Shark e contromisure Circe, entrambi ita-liani) e vengono costantemente impiegati in operazioni di sicurezza marittima a favore dell’Alleanza atlantica. Nel luglio 2019 la Marina portoghese (33) ha aderito al Memorandum of Understanding relativo al Common in-service Support con il quale è stato esteso a Lisbona l’ac-cordo italo-tedesco nel campo del supporto operante fin dal settembre 2002 per i battelli della classe «U212A». Un importante attore in campo subacqueo è la Spagna, che ha impostato il programma per il suo nuovo sotto-marino (34) nel lontano 1990, con un progetto comune con la Francia derivato dal modello S-80 della transalpina DCN. Nel 1998, dopo la vendita del primo modello Scor-pene della DCN al Cile, anche la Spagna decise di adot-tare lo stesso progetto nella variante AIP per un totale di 4 unità. Nel 2002 fu approvato un nuovo requisito per un

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Il sottomarino SCIRE’, appartenente al Progetto «U212A», in navigazione.

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battello di dimensioni e capacità maggiori rispetto allo Scorpene, determinando nel 2003 il «divorzio» tra i can-tieri spagnoli Navantia e DCN. Il nuovo progetto, S-80A, prevedeva circa 2.400 tonnellate di dislocamento e la possibilità di lanciare missili americani da crociera To-mahawk. Il progetto, con un budget iniziale di 1,8 mi-liardi euro, saliti nel 2010 a 2,2, subì in quegli anni numerosi ritardi per cause finanziarie, problemi politico-industriali nella scelta dei fornitori, nonché due compli-cazioni progettuali che hanno costretto a dare vita alla variante Plus. Il primo, scoperto nel 2013, riguarda il bi-lanciamento dei pesi di bordo che ha causato un allunga-mento del sottomarino di circa 10 metri (per aumentare la riserva di spinta dello scafo) costando 4 anni di lavori supplementari e circa 80 milioni di euro per battello. Il secondo riguarda il sistema di propulsione AIP sviluppato ora congiuntamente da Spagna (Abengoa) per il reformer a bio-etanolo (35), e Stati Uniti (American Collins Aero-space) per la componente fuel cell. Il complesso non sarà ultimato in tempo per essere incorporato sulle due prime

unità, ma sarà imbarcato sulla terza e quarta e solo suc-cessivamente retrofittato sul resto della flotta. Il primo battello S-80 Plus — Isaac Peral — sarà consegnato nel 2022, mentre l’ultimo entrerà in servizio nel 2027 con un costo stimato di circa 4 miliardi euro per quattro sotto-marini e un’attesa quasi ventennale. Nel frattempo le ope-razioni di sicurezza marittima nazionale e NATO sono svolte dalle tre superstiti e obsolete unità della classe «Galerna» S-70 risalenti agli anni Ottanta.

Navantia, nel novembre 2019, ha presentato una serie di studi (36) volti al mercato indiano (Progetto P75I) per costruire una nuova classe con batteria agli ioni di litio, timoni a X, cofferdam per forze speciali e moduli per pay-load di veicoli autonomi, ma non è ancora noto lo stato di sviluppo di queste utilissime, ma piuttosto invasive modifiche progettuali.

La realtà subacquea dotata di maggiore aggressività industriale è certamente quella della Francia, che ha con-vertito tutta la sua flotta alla propulsione nucleare nel corso degli anni Novanta, pur rimanendo, grazie ai bat-telli della serie Scorpene (realizzati insieme a Navantia) uno dei tre principali player mondiali nell’export (37). Per quel che concerne lo strumento nazionale, la Francia basa le operazioni in Mediterraneo allargato sui 5 SSN della classe «Rubis», risalenti agli anni Ottanta, che ver-ranno sostituiti nei prossimi anni dalle 6 unità classe «Barracuda». Il nuovo sottomarino, di cui il primo esem-plare — il Suffren — ha iniziato le prove in mare, rap-presenta un deciso salto di qualità sia tecnico sia operativo rispetto al passato (38). Il battello è dotato di un sistema di propulsione ibrida elettrico/vapore (basato su reattore nucleare) in grado di diminuire i livelli di ru-more irradiato, timoni a X per una maggiore manovrabi-lità, propulsione pump-jet e, in generale, un elevato livello di automazione e di comunalità con gli impianti e i sistemi degli SSBN «Le Triomphant». La dotazione di armi include missili antinave (già presenti sui «Rubis»), missili da crociera Scalp Naval (con raggio di un migliaio di chilometri) e un DDS (Dry Dock Shelter) di ben 15 metri, per il rilascio di Forze speciali. Una combinazione di sistemi che mette i «Suffren» a un livello capacitivo paragonabile ai più avanzati battelli SSN («Virginia», «Seawolf») e SSGN (Ohio-refit) della Marina americana. Altro grande protagonista industriale e operativo del Me-

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diterraneo è la Marina italiana con il Progetto «U212A» che ha superato ormai la soglia dei 20 anni di esperienza sul campo. I sottomarini della classe «U212A» rappre-sentano, nel panorama europeo, un raro caso di gestione virtuosa, sia in termini di budget (circa 900 milioni di euro per ogni coppia) sia in termini di rendimento opera-tivo del prodotto finale. I 6 battelli della 1a Batch nascono nel 1996 con un accordo Gov-to-Gov, con il quale Italia e Germania mettevano a sistema sia le conoscenze in campo costruttivo, sia quelle nei settori della logistica e dell’addestramento. I battelli (di cui due italiani) realizzati tra la fine degli anni Novanta e i primi degli anni Due-mila, sono stati concepiti come la sintesi tra le esigenze operative delle due Marine e con il meglio delle rispettive industrie nazionali. Un esempio tra tutti, il sistema di go-verno della torinese Avio (presente anche sugli S-80 Plus) e gli impianti oleodinamici della Calzoni di Bologna (ora entrata nella galassia L3 americana). I battelli italiani, realizzati da Fincantieri nel cantiere di Muggiano, fu-rono consegnati nel 2006-07 rispettando in pieno i tempi di consegna e gli standard ri-chiesti (39). Questo permise quindi di svolgere la prima missione operativa in Medi-terraneo pochi giorni dopo la consegna, nonché di portare a termine due dislocazioni oceaniche CONUS (Conti-nental United States) nel successivo triennio. La 2a Batch italiana della serie «U212A», costituita da due battelli, è stata consegnata alla Marina nel 2016-17, ed è stata realizzata all’insegna della massima comunalità con i battelli in servizio (gli «U212A» pur nelle loro differenti evoluzioni, presentano i caratteri di un’unica grand fleet), pur aggiornandone al-cune componenti ormai obsolete del sistema di combat-timento e integrando il nuovo siluro italiano Black Shark Advanced. L’esperienza «U212A» ha permesso in quest’ultimo ventennio all’industria cantieristica italiana di recuperare velocemente un gap di know-how accumu-latosi dopo la fine della Guerra fredda per ragioni di or-

dine economico e industriale. Oggi l’industria navalmec-canica italiana e il collegato settore dell’elettronica e dei sistemi d’arma, sono in grado di offrire prodotti compe-titivi sul mercato internazionale e il progetto per i nuovi sottomarini italiani, gli U212NFS (Near Future Subma-rine), riflette questa favorevole situazione. Il requisito ita-liano (40), si pone come un ponte tra una piattaforma affidabile, basata sul modello U212A, su cui si andranno a effettuare migliorie (in coordinamento con la Germa-nia), e l’innesto di nuove tecnologie di produzione ita-liana in grado di rendere NFS uno dei migliori sottomarini AIP al mondo. I principali filoni produttivi vedranno l’adozione di sollevamenti all-electric (aumen-tati anche di numero, visto la maggiore lunghezza di 1,2 m della vela), l’adozione di batterie di nuova generazione al litio, un innovativo sistema di risalita di emergenza a generazione di gas, l’esteso uso di pitture fluoropolime-

riche a basso attrito, la speri-mentazione di impianti AIP di ultima generazione, non-ché l’adozione dei meta-ma-teriali (ironicamente noti come mantello dell’invisibi-lità) per assorbire le onde so-nore prodotte dai sonar attivi. Per quel che riguarda l’elettronica di bordo, i bat-telli saranno dotati di ele-menti di intelligenza artificiale nella gestione dei sensori (incluso il sonar mul-tistatico), delle predisposi-

zioni net-centriche per la gestione e rilascio di mezzi unmanned subacquei e di superficie, nonché in un auspi-cabile futuro per il lancio di missili antinave e da crociera. Il programma NFS, con il suo requisito per 4 sottomarini, è un progetto ambizioso, le cui solide basi permettono però di controllare sia i costi sia i rischi, senza tuttavia ri-nunciare all’effetto volano che i nuovi sistemi e materiali avranno sul mondo dell’industria e della ricerca nazionale per il prossimo ventennio. Le nuove unità, e il progres-sivo auspicabile refitting delle più anziane, permetteranno nel tempo di continuare a mantenere un blocco di 8 sot-tomarini — numero ritenuto il minimo (c.d. «massa cri-

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Un sottomarino americano classe «Virginia», su cui sono imbarcati i sistemi di sollevamento della italiana Calzoni (Calzoni).

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tica») per garantire le missioni della Difesa — di grandi capacità e flessibilità in grado di tutelare gli interessi ita-liani in Mediterraneo allargato, e di farci partecipare ad alleanze e coalizioni in condizioni di parità strategica.

La sponda est

Il blocco costituito da Israele, Turchia e Grecia rappre-senta uno dei principali snodi geopolitici del Mediterraneo (energia, immigrazione, conflitto siriano) e pur perse-guendo interessi profondamente diversi, sono tutti para-dossalmente clienti della cantieristica e sistemistica tedesca Underwater. La flotta di Gerusalemme è attual-mente composta da tre battelli classe «Dolphin» realizzati con un accordo molto particolare, che ha visto la Germania di Helmut Kohl finanziare per intero i primi due battelli e il terzo al 50%. L’insolito schema nacque quale compen-sazione per i danni subiti da Israele nel corso della Prima guerra del golfo, ma anche quale pacchetto di aiuti al-l’industria navalmeccanica tedesca in crisi dopo la fine della Guerra fredda. Al mo-mento della consegna, tra il 1999 e il 2000, i «Dolphin» erano le unità più grandi mai realizzate dalla TKMS, e allo stato dell’arte in termini di sensori, automazione e si-stema d’arma (basato su ben 10 tubi lanciasiluri). Que-st’ultimo in particolare è stato oggetto di numerose, e tuttora non verificabili, speculazioni su una presunta do-tazione di missili con testata nucleare (41), mentre quella di ordigni convenzionali sarebbe stata impiegata (42) il 5 luglio 2013 nel corso di un attacco contro obiettivi in ter-ritorio siriano. Sebbene il battello sia, di fatto, quasi tutto tedesco, Gerusalemme si è riservata alcune componenti vitali, come il sistema di guerra elettronica e i citati missili (43). Nel 2006, Israele siglò un ulteriore contratto per la realizzazione di due unità — denominate Dolphin II — dotate del sistema di propulsione AIP basato su celle di combustibile. Anche questi sottomarini sono stati co-fi-nanziati per circa un terzo dal governo tedesco, a similitu-

dine di un terzo battello ordinato nel 2011 e per il quale la Germania avrebbe stanziato circa 135 milioni di dollari. Nell’ottobre del 2017 è stato finalizzato un Memorandum of Understanding per la sostituzione, a partire dal 2017, dei primi tre «Dolphin» con altrettante unità di nuova ge-nerazione che potrebbero ricevere, anche in questo caso, un cospicuo finanziamento da Berlino. Le operazioni della Marina israeliana nello scacchiere mediorientale sono co-perte dal massimo riserbo, ma è importante sottolineare come esse si basino su un concetto di sopravvivenza dello Stato dissimile da quello occidentale ed europeo, e preve-dano una proporzionale assunzione di rischi. Per esempio, a novembre 2018 (44) è stata diffusa dalla stampa israe-liana la notizia che nel 1982, nel corso dell’operazione Dreyfuss, un battello classe «Gal» affondò per errore (ma con due siluri) un’imbarcazione civile a largo del Libano, sospettata di trasportare combattenti palestinesi. Una scelta

di obiettivi e modalità opera-tive che non ha precedenti nelle operazioni militari suc-cessive alla Seconda guerra mondiale. Le Marine greca e turca, pur appartenendo alla NATO, hanno un importante ruolo di reciproca deterrenza, frutto della tradizionale — e insanabile — rivalità delle due nazioni in mar Egeo. Una diatriba storica che nel corso dell’ultimo quinquen-nio si sta infuocando a causa dei crescenti e conflittuali in-

teressi energetici che ruotano intorno al Mediterraneo orientale e Cipro. Paradossalmente (o forse deliberata-mente) entrambe le flotte sono tra i maggiori clienti del-l’industria tedesca sin dai primi anni Ottanta, quando le antiquate unità ex-statunitensi vennero rimpiazzate in en-trambi i paesi con i battelli Type U209. La costruzione di questi sottomarini realizzati in 14 esemplari per la Turchia, e 8 per la Grecia, ha abbracciato oltre un ventennio, diffe-renziandosi tuttavia, per la scelta del sito di produzione. La Turchia, forte di una base industriale più solida, ha, in-fatti, realizzato i battelli in gran parte presso i cantieri di Gölcük, pur con assistenza tedesca mentre, la Grecia, si è

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Il sottomarino della Marina israeliana TANIN, appartenente alla classe «Dolphin» (difesaonline.it).

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appoggiata presso gli Howaldtswerke-Deutsche Werft di Kiel. Le vicende più complesse sono tuttavia legate all’av-veniristico Progetto U214 (quattro unità ordinate nel 2000) per il quale la Grecia ha combattuto un’aspra battaglia le-gale ed economica. Il capoclasse HS Papanikolis, nel corso delle prove in mare del 2006 presentò un’estesa serie di problemi sul bilanciamento dei pesi, gli impianti idrau-lici, il sonar e l’impianto AIP. L’impasse tra l’industria te-desca e le autorità greche durò fino al 2009 con reciproci scambi di accuse, risoltisi infine con il pagamento del primo battello e l’accettazione dei rimanenti tre che erano in corso di realizzazione presso gli Hellenic Shipyards, passati già nel 2002 sotto controllo del gruppo TKMS. La Turchia ha sicuramente beneficiato delle migliorie sugli U214 imposti dalle vicende greche, avendo iniziato i ne-goziati con la Germania nel 2009. Il contratto firmato solo nel 2016 ha una regolare tabella di marcia e prevede la consegna della prima delle sei unità nel 2021. Lo schema industriale turco, come prevedibile, è più ambizioso di quello di Atene e prevede la costruzione di tutti i battelli denominati classe «Reis» presso i cantieri di Gölcük, con un’estesa partecipazione dell’industria locale (80% del contratto da 2,5 miliardi euro) nelle componenti elettroni-che, mentre parte della meccanica e l’impianto AIP sa-ranno forniti direttamente dalla Germania. Le grandi potenze in Mediterraneo allargato

Stati Uniti, Russia e Cina sono il vero ago della bilancia della stabilità e sicurezza di un Mediterraneo allargato in cui si affacciano troppi interessi discordanti, sia sopra sia sotto la superficie. Una bilancia che include in maniera molto minore anche Francia e Regno Unito in virtù delle capacità delle piattaforme subacquee, ma alle quali manca la vera forza delle potenze maggiori, ovvero la quantità. Stati Uniti, Russia e Cina si distinguono, infatti, da tutti i paesi del mondo per la possibilità di poter impiegare sia i mezzi residenti, per esempio quelli della VI fleet ameri-cana, sia di poter muovere in breve tempo alcune impor-tanti pedine «di riserva» dagli altri teatri operativi (45). La mobilità strategica delle grandi potenze marittime è, in ef-fetti, un fattore di primaria importanza in ambito geostra-tegico, in quanto garantisce di poter gestire situazioni di crisi su più continenti, bilanciando accuratamente lo sforzo in ragione degli effetti che si vogliono conseguire. In Me-

diterraneo allargato la Marina americana è il tradizionale player di maggior peso politico e operativo le cui opera-zioni abbracciano tutti gli spazi marittimi. Le sue unità su-bacquee d’attacco delle classi «Los Angeles» e «Virginia» e gli SSGN «Ohio» sono state protagoniste di numerose operazioni belliche, da «Iraqi Freedom» in Golfo Persico (46) a «Odissey Dawn» (47) in Libia. Meno noto è invece il loro ruolo di «sentinella» delle attività marittime — in primis quelle russe — che si svolgono tra Gibilterra e lo

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Il sottomarino da 5.000 tonnellate Tipo 091 della classe «Han» è il primo sottomarino a propulsione nucleare della Repubblica Popolare Cinese. In alto: immagine artistica raffigurante un SSGN della classe «Ohio» mentre lancia dei missili da crociera Tomahawk (wikipedia.it). Al centro: il sottomarino nucleare lanciamissili russo TK-20 SEVERSTAL della classe «Typhoon» (naval-technology.com).

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stretto di Hormuz (48). Un incarico ben sintetizzato nel corso di un’intervista a bordo dell’USS Florida del vice comandante della VI flotta (49), rear admiral William Hou-ston: «We do have plenty of company. The Russians are very active and we’re active with them». La Russia dal canto suo, nel corso dell’ultimo quinquennio, ha rafforzato in maniera consistente la propria componente subacquea residente in Mediterraneo allargato, destinando ben sei unità alla flotta del Mar Nero (50) e riattivando nel 2013 lo Squadrone operativo erede della V Eskadra della Guerra fredda. Le basi di appoggio sono quelle in Mar Nero (in-clusa la Crimea) e il porto siriano di Tartus (51). Questo sito, oltre a essere impiegato per il supporto a sostegno di Bashar al-Assad, permette ai sottomarini russi di poter pro-lungare in maniera consistente la propria presenza nel Le-vante mediterraneo, anche in ragione del sempre più flebile rispetto del Trattato di Montreaux (52) che regola l’attra-versamento dei Dardanelli. Per rinvigorire la propria pre-senza locale, Mosca (53) ha puntato sulle moderne unità Progetto 636.3 Varshavyanka, ennesima versione miglio-rata dei «Kilo», che si distingue tuttavia per l’implemen-tazione del sistema missilistico Kalibr. L’arma ha avuto il

suo debutto operativo l’8 dicembre 2015 con un lancio multiplo da parte del battello Rostov-on-Don su obiettivi terrestri in territorio siriano (54) rappresentando per molti osservatori un drammatico «game changer» delle logiche di potere marittimo in tutto lo scacchiere (55). L’ultimo — ma solo in ordine di apparizione — attore geostrategico dell’area è la Cina, con la sempre più influente flotta del-l’Esercito di liberazione nazionale. La Marina di Pechino è presente in Mediterraneo allargato da circa un decennio, con sempre maggior costanza e reattività, si pensi per esempio alla corposa evacuazione di connazionali dalla Libia nel 2011. La componente subacquea cinese è ormai composta da 4 SSBN, 11 SSN e circa 50 SSK a propul-sione convenzionale, ma con capacità missilistiche (56). Un complesso così imponente di mezzi non è stato ovvia-mente pensato per operare esclusivamente nelle acque del Mar Cinese Meridionale e ci sono evidenti segnali dal 2015 — come le attività addestrative in Pakistan (57) — di un progressivo ma inarrestabile avvicinamento alle acque del Mediterraneo e del Mar Arabico. La presenza di una terza potenza subacquea globale nel Mare nostrum è ormai solo una questione di tempi e opportunità strategiche.

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Sviluppo dei droni subacquei nella visione dell’US Departement of Defence (US DOD).

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Conclusioni I cospicui investimenti che le nazioni del Mediter-

raneo allargato hanno effettuato nel settore delle Forze sottomarine rispondono a tre logiche tra di loro com-plementari, e che caratterizzano le spese militari di questi paesi. Da una parte ci sono numerosi Stati del-l’area MENA dove gli investimenti in tecnologia Un-derwater rispondono a logiche puramente strategico-militari. La dimensione subacquea, con la sua complessità e invisibilità, è vista come un prezioso (e spesso unico) strumento di deterrenza e prestigio. La presenza di una componente subacquea è l’indice di un salto di qualità capacitivo riservato a un club ristretto di nazioni, mentre dal punto di vista puramente militare uno o più battelli in mare garantiscono un effetto de-terrente anche su avversari di calibro superiore: il caso iraniano in questo è emblematico. Un secondo gruppo di nazioni affianca a tali logiche esclusivamente mili-tari, una precisa volontà di acquisire attraverso tali in-vestimenti, conoscenze e capacità altrimenti non disponibili. Ciò avviene per esempio in Turchia attra-verso scambi diretti nel settore subacqueo, o mediante accordi ad ampio raggio che coinvolgono più settori industriali. Esiste, infine, un terzo gruppo di nazioni tecnologicamente avanzate (Stati Uniti, Francia, Italia ecc.) che vedono nel sottomarino, non solo l’indispen-sabile strumento per il dominio della dimensione su-bacquea, ma un ghiotta occasione di sviluppo scientifico e industriale del comparto Underwater. I

mezzi subacquei (inclusi i nuovi unmanned) richiedono infatti un sostanzioso sforzo progettuale e realizzativo, che si riverbera anche in settori apparentemente lontani dall’industria bellica. La Marina italiana, con il suo Progetto U212 NFS, dopo una fase di ricostruzione del know-how nazionale, è oggi finalmente in grado di af-frontare questa nuova impresa da una posizione di forza. Le consolidate capacità realizzative di Fincan-tieri, l’inventiva dei nostri maggiori gruppi hi-tech, la galassia di piccole medie imprese, nonché i progetti di ricerca universitaria (58) che ruotano attorno al mondo Underwater, costituiscono oggi un complesso affida-bile ma soprattutto competitivo. NFS pur rimanendo agganciato alla grand fleet di sottomarini di origine germanica (calmierando costi e rischi d’impresa), si pone come un robusto ponte tecnologico per rafforzare la competitività industriale del nostro paese e le possi-bilità di export militare e civile. Un cambio di passo che tuttavia richiederà un parallelo cambio di mentalità da parte di tutto il comparto, che dovrà operare in fu-turo con un maggior coordinamento, mettendo da parte antiche e improduttive rivalità a favore di un aggre-gante «Polo della subacquea» nazionale. Una prospet-tiva importante, e da non sciupare, per un paese che vuole giocare da protagonista il proprio destino politico e militare in Mediterraneo allargato. 8

Mediterraneo allargato: quadro strategico di situazione

«L’Italia, come altre nazioni tecnologicamente avanzate, guarda al sottomarino, non solo come l’indispensabile strumento per il dominio della dimensione subac-quea, ma come un ghiotta occasione di sviluppo scientifico e industriale del com-parto Underwater». Nell’immagine il sottomarino ROMEO ROMEI (Fincantieri).

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Mediterraneo allargato: quadro strategico di situazione

NOTE (1) Nel 2008 la rottura accidentale di un cavo nei pressi dell’hub di Alessandria d’Egitto causò l’interruzione dei servizi internet per 60 milioni di persone, tra cui 6 milioni di egiziani, per circa due settimane. (2) Uno degli indici «globali» più interessanti è quello creato nel 1990 dall’economista pakistano Mahbub ul Haq, che permette di definire attraverso il tasso di «sviluppo umano» le reali condizioni di vita del cittadino medio e di riflesso le grandi tematiche sociali che, al netto delle condizioni geopolitiche, sono il vero motore dell’atteggiamento strategico di ogni Stato. (3) Middle East North Africa. (4) https://www.moroccoworldnews.com/2020/01/291856/morocco-armament-france. (5) https://en.yabiladi.com/articles/details/74774/morocco-reportedly-planning-purchase-submarine.html. (6) https://www.elconfidencialdigital.com/articulo/defensa/marruecos-busca-submarinos-nueva-base-atlantico/20190215133900121849.html. (7) La classe «Romeo» – Progetto 633, nata agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso in Unione Sovietica è rimasta in produzione in Cina fino al 1984 in virtù dei bassi costi di costruzione. Le unità algerine, di origine sovietica, erano risalenti al 1961e furono disarmate già nel 1989. (8) https://www.janes.com/article/91624/algeria-tests-land-attack-sub-launched-missile. (9) https://www.echoroukonline.com/rai-al-yaoum-algeria-second-country-in-the-mediterranean-to-succeed-in-hitting-ground-targets-from-guided-missiles-submarines. (10) Missile Defense Project, SS-N-27 «Sizzler», Missile Threat, Center for Strategic and International Studies, January 9, 2017, last modified December 10, 2019; https://missilethreat.csis.org/missile/ss-n-27-sizzler. (11) La Marina di Gheddafi dal 1982, e per un periodo relativamente lungo, schierò alcune antiquate unità classe «Foxtrot» – Progetto 641 di origine sovietica. (12) https://ihsmarkit.com/pdf/IHS-Janes-Amphibious-and-Special-Forces-Egyptian-Navy_1755921109 13044232.pdf. (13) https://www.thedrive.com/the-war-zone/31459/egypts-soviet-era-chinese-made-american-upgraded-subs-can-still-fire-harpoon-missiles. (14) https://www.israeldefense.co.il/en/node/40697. (15) https://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-5093965,00.html. (16) https://www.jpost.com/Israel-News/AG-denies-Netanyahu-told-him-why-Egypt-submarine-deal-green-lighted-584468. (17) https://oidagroup.com/first-egyptian-newly-operational-type-2091400-attack-submarine. (18) https://www.dsca.mil/major-arms-sales/egypt-ugm-84l-harpoon-block-ii-encapsulated-missiles. (19) https://carnegie-mec.org/2019/02/28/egyptian-military-slumbering-giant-awakes-pub-78238. (20) http://www.seatrade-maritime.com/news/middle-east-africa/alexandria-shipyard-in-280m-upgrade-of-ship-repair-facilities.html. (21) http://english.alarabiya.net/en/business/economy/2019/02/17/Paris-Riyadh-to-manufacture-ships-frigates-military-submarines-in-Saudi-Arabia.html. (22) http://www.asian-defence.net/2014/02/uae-saudi-arabia-want-to-get-submarines.html. (23) https://www.forbes.com/sites/hisutton/2020/02/04/qatars-massive-naval-expansion-to-include-submarines/#787ab5d3322e. (24) https://www.tacticalreport.com/view_weekly/TR-Weekly—-Friday-March-1-2019-%E2%80%93-26th-Year-No-26-09/2078. (25) https://www.oni.navy.mil/Portals/12/Intel%20agencies/iran/Iran%20022217SP.pdf. (26) https://www.foxnews.com/world/iran-relaunches-russian-made-submarine; https://www.telegraph.co. uk/news/2019/02/17/iran-launches-new-missile-submarine. (27) Secondo le stime dell’Office of naval intelligence americano. (28) https://www.janes.com/article/86895/iran-shows-submarine-launched-missile. (29) Conquistatore, in lingua persiana. (30) https://www.telegraph.co.uk/news/2019/02/17/iran-launches-new-missile-submarine. (31) https://www.oni.navy.mil/Portals/12/Intel%20agencies/iran/Iran%20022217SP.pdf. (32) https://www.janes.com/images/assets/120/71120/Fleet_regeneration_Portugal_shapes_up_a_modern__balanced_fleet.pdf. (33) http://www.marina.difesa.it/media-cultura/Notiziario-online/Pagine/20191213_1_Steering_Committee_ ita_deu_por.aspx. (34) https://nationalinterest.org/blog/buzz/spain%E2%80%99s-billion-dollar-ethanol-powered-s-80-super-submarines-are-too-big-fit-their-docks. (35) Impianto impiegato per l’estrazione di idrogeno e ossigeno dal bio-etanolo e che permette potenzialmente un più agevole stivaggio dei reagenti per l’impianto AIP a fuel cell. (36) https://www.navalnews.com/naval-news/2020/03/navantia-pitching-s80-plus-submarine-for-indias-p75i-during-uds-2020. (37) Attualmente i battelli di questa tipologia sono stati venduti a Cile (2), Malesia (2), India (6), Brasile (4), mentre la classe «Attack», in progettazione per la Marina australiana, seppur a propulsione convenzionale è da ritenersi tecnicamente più vicina ai battelli nucleari classe «Barracuda». (38) https://www.navalnews.com/naval-news/2019/07/more-details-on-suffren-the-french-navy-next-gen-ssn-on-its-export-ssk-variants. (39) Questo include anche i sistemi di simulazione SCS ed SCTT, fondamentali per l’addestramento dei primi due equipaggi. (40) https://www.difesa.it/Primo_Piano/Pagine/difesa_sbloccati_sette_miliardi_di_investimenti_dal_mise.aspx. (41) https://nationalinterest.org/blog/the-buzz/israel-has-submarine-could-destroy-entire-nations-armed-23520. (42) https://www.jpost.com/Middle-East/Report-Israeli-submarine-strike-hit-Syrian-arms-depot-319756. (43) Anche il sistema sonar dei «Dolphin» sembra sarà aggiornato con un sistema di costruzione israeliana della Rafael Advanced Defense Systems. (44) https://www.timesofisrael.com/israel-admits-it-sank-lebanese-refugee-boat-in-1982-war-error-killing-25-tv. (45) Nel 1990, nel corso dell’operazione Desert Shield/Desert Storm, il sottomarino USS Louisville condusse un trasferimento di 14.000 miglia in immersione attraverso il Pacifico e l’oceano Indiano — fino al Mar Rosso — per effettuare il primo lancio di missili da crociera Tomahawk nel corso del conflitto. (46) https://www.public.navy.mil/subfor/underseawarfaremagazine/Issues/Archives/issue_19/iraqifree_b.htm. (47) https://www.navy.mil/submit/display.asp?story_id=59476. (48) https://www.c6f.navy.mil/Press-Room/News/Article/1991727/commander-us-6th-fleet-embarks-uss-florida-in-mediterranean. (49) https://abcnews.go.com/International/uss-florida-submarine-admiral-david-muir-russians-active/story? id=66745121. (50) http://tass.com/defense/1049393 (51) https://news.usni.org/2019/03/18/russian-submarine-makes-mysterious-exit-black-sea. Sulla rilevanza della presenza russa nell’area, cfr. D. Ceccarelli Morolli, Appunti di Geopolitica, Roma 2018, pp. 229 ss. (52) https://jamestown.org/program/moscow-wants-to-have-it-both-ways-on-montreux-convention. (53) https://nationalinterest.org/blog/the-buzz/all-not-well-russias-black-sea-fleet-26352. (54) https://www.bbc.com/news/world-middle-east-35041656. (55) https://www.janes.com/images/assets/147/70147/Game_changer_Russian_sub-launched_cruise_ missiles_bring_strategic_effect_edit.pdf. (56) https://www.deccanherald.com/specials/sunday-spotlight/the-underwater-threat-the-chinese-are-coming-791458.html. (57) https://www.indiatoday.in/world/story/china-defends-submarines-deployment-indian-ocean-283460-2015-07-20. (58) Tali progetti confluiscono nei Piani di ricerca nazionale militare, PNRM.

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Massimo Vianello

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Ammiraglio di divisione in riserva. Ha frequentato la Scuola militare navale F. Morosini e l’Accademia navale. Ha conseguito la qualificazione in armi subacquee e la specializzazione in contromisure mine. È stato il comandante del MSC Mandorlo, MHC Gaeta, fregata Maestrale e di nave Vespucci. Nel grado di contrammiraglio ha comandato le Forze di CMM (contromisure mine) e il 29° Gruppo navale. Ha partecipato alle operazioni Golfo Persico, Allied Force e Mare nostrum.

PRIMO PIANO

Veicoli subacquei filoguidati

militari e civiliAnalogie e differenze. Possibili sinergie e fattori strategici

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Il termine «drone», ormai largamente diffuso, si iden-tifica nel campo subacqueo con quello di UUV (Un-manned Underwater Vehicle) (1). Gli Unmanned

Underwater Vehicles, per l’appunto definiti spesso nel lin-guaggio corrente anche «droni subacquei», sono un gruppo estremamente eterogeneo di veicoli di varie dimensioni in grado di operare in ambiente sottomarino con un certo li-vello di autonomia rispetto al controllo dell’essere umano, oppure operati a distanza. In questa categoria rientrano a pieno titolo, oltre agli AUV (Autonomous Underwater Ve-hicles) anche i veicoli subacquei filoguidati, tecnicamente

denominati ROV: Remotely Operated Vehicles. Benché i veicoli subacquei autonomi rappresentino la più moderna frontiera della robotica subacquea, per un certo numero di impieghi i ROV continuano a rivestire un ruolo particolar-mente importante e in certi casi insostituibile. Dagli anni Settanta sino a oggi ne sono stati sviluppati svariati tipi per molteplici impieghi e con capacità via via crescenti, sia nell’ambito militare sia in quello civile. Nelle Marine mi-litari l’impiego dei ROV avviene in differenti tipi di ope-razione, a partire da quelle di contromisure mine per arrivare alle campagne idro-oceanografiche e a quelle della ricerca e investigazione subacquea nei suoi molteplici aspetti. Parimenti, nel campo civile, i ROV trovano largo uso non solo negli ambiti scientifici ma anche in quelli in-dustriali. Un confronto tra l’impiego dei ROV militari e di quelli civili, andando a individuarne le analogie e le diffe-renze, può portare a delle interessanti considerazioni non solo da un punto di vista tecnico e tattico ma anche per ta-luni risvolti geo-strategici. Dato che l’utilizzo nazionale prevalente dei ROV riguarda le operazioni di contromisure mine, in campo militare, e quelle industriali nel campo ci-vile, il confronto prenderà principalmente in considera-zione tali ambiti. Per essere più completa ed efficace l’analisi si riferirà ai «sistemi ROV», laddove per sistema ROV si intende l’insieme costituito da: veicolo filoguidato vero e proprio, stazione di controllo, sistema di gestione della filoguida e quello di messa a mare e recupero.

Operazioni di Contromisure Mine (CMM)

Il principale ruolo dei ROV durante le operazioni di contromisure mine è quello di consentire l’identifica-zione ottica degli oggetti che sono stati scoperti e classi-ficati al sonar, evitando di ricorrere all’impiego degli operatori subacquei. Laddove il riconoscimento ottico portasse alla identificazione di una mina, al ROV è asse-gnata anche la funzione del brillamento dell’ordigno tra-mite il rilascio della carica di controminamento nelle sue prossimità. Per assolvere tali compiti il ROV deve essere costruito con materiali e propulsione che minimizzino le influenze magnetiche e acustiche percepibili dai sensori della mina, deve essere alimentato da sue batterie, deve avere una filoguida facilmente gestibile al fine di effet-tuare interventi in tempi contenuti per ridurre il suo tempo di esposizione in vicinanza di ordigni. L’impiego

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Il ROV Pluto Plus, utilizzato dalla Marina Militare italiana per effettuare operazioni di ispezione e sminamento (wikipedia.it).

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del ROV richiede che la piattaforma d’appoggio (il cac-ciamine) abbia una spiccata capacità di mantenimento della posizione durante l’investigazione subacquea e che quindi sia dotata di un sistema di posizionamento dina-mico (autopilota) interfacciato con il sistema di naviga-zione di precisione e i principali sensori di bordo nonché di una propulsione dedicata (propulsione di caccia). Allo scopo di facilitare la guida del ROV dalla stazione di controllo, i veicoli sono dotati, oltre che di telecamera, anche di sonar di ricerca e discriminazione e dispositivi per il tracciamento, per condurre l’investigazione e la successiva identificazione degli oggetti sul fondo.

Operazioni subacquee industriali

Le principali operazioni industriali nelle quali si ricorre correntemente all’impiego dei ROV, sono quelle connesse alle ricerche e allo sfruttamento delle risorse minerarie in mare (con particolare riferimento agli idrocarburi) e al tra-sferimento dell’energia. In tali ambiti vengono svolte atti-vità di prospezione e ispezione così come di controllo, manutenzione e supporto a lavori su infrastrutture subac-quee (non solo quelle petrolifere ma anche cavi elettrici e telefonici). Anche qui l’avvento dei ROV ha consentito di ridurre sensibilmente l’impiego del personale subacqueo riducendo il rischio delle lavorazioni; infatti, in questo caso, i ROV agiscono come vere e proprie macchine ope-ratrici controllate a distanza. Pertanto, per il loro impiego, sono richieste piattaforme d’appoggio dotate di capacità di posizionamento dinamico analoghe a quelle delle unità cacciamine ma caratterizzate da una maggiore precisione nel mantenimento della posizione, necessaria per consen-tirne l’esecuzione delle specifiche lavorazioni subacquee (dell’ordine centimetrico anziché metrico). Tali prestazioni sono ottenute con il ricorso all’interfacciamento con RTK-GPS (Real Time Kinematic-GPS) o con trasponder acustici posati in predeterminate posizioni sul fondo. Oltre a que-sto, persino gli stessi ROV, in alcuni casi, sono a loro volta muniti di sistemi di tenuta della posizione. A differenza dei ROV militari, l’alimentazione elettrica è fornita da gene-ratori a bordo dell’unità appoggio, tramite la filoguida, allo scopo di garantire una lunga autonomia compatibile con i tempi di esecuzione dei lavori o delle ispezioni a grandi profondità. Le caratteristiche di tale filoguida (diametro e lunghezza) fanno sì che il sistema ROV includa talvolta

particolari predisposizioni per la gestione del cavo ombe-licale (denominate TMS, Tether Management System) da impiegarsi nel caso di immersioni a grandi profondità. Questi ROV non hanno particolari profili idrodinamici ma piuttosto sono dotati di una vasta gamma di dispositivi. Hanno in comune, con i ROV militari, i medesimi dispo-sitivi per il controllo della navigazione nelle tre dimensioni e i sensori per l’investigazione ma a questi si aggiungono le attrezzature per i lavori subacquei, quali i bracci mani-polatori o il probe per la verifica delle protezioni catodiche delle tubazioni. La possibilità di trasporto di un ulteriore carico pagante (pay load) consente, all’evenienza, di in-stallare ulteriori sensori o attrezzi mentre, nel caso delle contromisure mine, il carico pagante del ROV si identifica con la sola carica di controminamento. La normativa che regolamenta l’impiego dei ROV per gli usi civili e com-merciali, li suddivide in cinque diverse classi. Le prime due comprendono, in ordine crescente di dimensioni e ca-pacità, i ROV impiegabili per operazioni di osservazione e ispezione (survey) nonché per l’esecuzione di lavori leg-geri. Sono normalmente veicoli con propulsione elettrica, nella maggior parte dei casi «free swimming», cioè non do-tati di TMS. La terza è quella dei «Work ROV», cioè dei veicoli con propulsione idraulica e dotati di TMS per l’ese-cuzione di lavori «Heavy Duty» (HD) o «Ultra Heavy Duty» (UHD) a grandi profondità. La quarta include i cra-wlers: veicoli filoguidati cingolati destinati a lavori di scavo sul fondo e infine, la quinta è quella dei ROV spe-rimentali. Un consolidato comparto industriale italiano provvede alla produzione di propri modelli di ROV delle classi I e II, mentre varie università e istituti sperimentano prototipi leggeri nell’ambito della classe V. Nel settore na-zionale del terziario, esistono ditte che forniscono specifi-catamente «servizi ROV» tramite appalti di imprese che conducono attività industriali. Dynamic Positioning Vessels (DPV)

Stabilito che il presupposto comune per l’impiego dei ROV è quello che la «nave madre» sia dotata del sistema di posizionamento dinamico, corre l’obbligo di eviden-ziare il ruolo che, di riflesso, assumono in questo contesto i «Dynamic Positioning Vessels». Con tale termine, in am-bito civile, vengono indicate le navi d’appoggio alle ope-razioni di lavorazioni subacquee con prevalente impiego

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Veicoli subacquei filoguidati militari e civili

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dei ROV. I DPV sono generalmente caratteriz-zati dalla presenza di ampi ponti scoperti pop-pieri in grado di ospitare i moduli containerizzati dei sistemi ROV e svolgere age-volmente le manovre marinaresche. Inoltre de-vono essere dotati di spiccate capacità di movimentazione di carichi per le operazioni di messa a mare e recupero e di sistemi propulsivi dedicati che consentano una elevata capacità di manovra (thrusters e/o propulsori azimutali).

La normativa IMO (International Maritime Organization) suddivide i DPV in tre classi, a seconda dei livelli di automazione e ridondanza degli impianti nonché dei limiti operativi ri-spetto alle condizioni meteo marine. Tali piat-taforme d’appoggio, per certi versi, sono assimilabili al cacciamine che però, per sua na-tura operativa, dovendosi muovere in acque ca-ratterizzate dal rischio di mine, oltre ad avere un sensore di scoperta, deve necessariamente rispondere a severi standard di segnatura ma-gnetica, acustica e di shock factor. Il sonar di cui il cacciamine è provvisto, non trova alcuna utilità sui DPV in quanto questi operano in tratti di mare che si configurano come cantieri di lavorazioni subacquee dove, anziché la capacità di scoperta è necessario, da una posizione prestabilita, supportare il lavoro che i ROV con-ducono per periodi prolungati anche in alti fondali.

In tali circostanze assumono una particolare importanza l’integrazione e la ridondanza di differenti sistemi di na-vigazione di precisione che possano garantire lunghi tempi di mantenimento della posizione e la gestione della filo-guida. Nel caso di ROV che operano a grandi profondità, la gestione del cavo ombelicale viene effettuata ricorrendo al già citato TMS che sostanzialmente consiste in una gab-bia, calata dalla nave appoggio a una quota predeterminata o sul fondo, da cui il ROV fuoriesce svolgendo il cavo om-belicale e vi rientra al termine del lavoro. Ciò consente di prevenire ogni possibile incattivamento di anse della filo-guida nelle appendici dello scafo della nave.

Confronti e possibili sinergie

Se da un lato il confronto tra le due tipologie di sistemi ROV evidenzia alcune differenze tecniche (forme, dimen-

sioni, materiali costruttivi, filoguida e carico pagante/at-trezzature), dall’altro lato emergono tante analogie (sensori e controlli, sistemi di tracciamento, caratteristiche dei si-stemi di posizionamento dinamico delle relative piatta-forme di appoggio nonché, per certi versi, i sistemi di propulsione). Entro certi limiti, persino alcune fasi delle rispettive modalità operative presentano delle somiglianze. Se si fa eccezione per la fase di ricerca, che il cacciamine esegue impiegando il sensore primario di scoperta (sonar a scafo o a profondità variabile), la fase di investigazione degli oggetti sul fondo con i ROV è del tutto analoga, sep-pure basata su differenti condizioni e criteri di valutazione del rischio. Per le medesime considerazioni, l’analogia può essere estesa a tutte le operazioni di ispezione subacquea di siti di posizione nota e più in generale a quelle di survey, dove peraltro vengono effettuati rilievi delle caratteristiche del fondo (tra i quali l’infangamento e la presenza di ve-getazione subacquea che rivestono una particolare impor-tanza nella caccia alle mine) e della «colonna d’acqua» (di prevalente interesse idro-oceanografico). Non è un caso che a partire dal 2015 il ministero della Difesa, di fronte

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Veicoli subacquei filoguidati militari e civili

Dynamic Positioning di una nave in supporto a investigazione subacquea di ROV «Free Swimming» (elaborazione autore).

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all’esigenza di disciplinare l’organizzazione del servizio di bonifica del territorio nazionale da ordigni esplosivi re-siduati bellici, abbia emanato dei decreti rivolti non solo agli enti dipendenti ma anche alle imprese civili specializ-zate. A oggi, in ambito navale, tale normativa consente alle ditte fornitrici di servizi con ROV di prendere parte, previa iscrizione ad apposito albo, alle operazioni di sorveglianza dei fondali caratterizzati dalla presenza di residuati bellici, per la localizzazione e l’identificazione degli stessi. D’altro canto, in passato, gli stessi cacciamine, quando impiegati per supportare operazioni di recupero di materiali dal fondo, hanno imbarcato e impiegato sistemi ROV di tipo civile, grazie anche alla modularità che li contraddistingue (componenti containerizzati). Ciò a riprova della compa-tibilità e complementarità tra piattaforma militare e veicolo civile. Altre possibili sinergie sono potenzialmente realiz-zabili anche nei confronti di altri tipi di operazioni militari. Le operazioni idro-oceanografiche, tra le quali il REA (Rapid Enviromental Assesment) in determinate circo-stanze, potrebbero trarre beneficio dall’impiego di ROV civili per alcuni particolari sensori che dispongono. Peral-tro, a prescindere, i dati ambientali normalmente raccolti con i ROV, durante le ordinarie attività civili, sono un po-tenziale serbatoio di informazioni di un certo interesse nel campo dell’oceanografia militare che supporta le diverse

forme di lotta. Inoltre sono già da tempo in essere coope-razioni civili-militari che contemplano operazioni di sor-veglianza dei siti archeologici e storici per le quali i ROV civili sarebbero particolarmente idonei e consentirebbero di preservare i ROV militari per gli usi specialistici. Per ciò che attiene agli studi e alla ricerca del settore, ci sono stati nel tempo orientamenti divergenti dettati da differenti obiettivi: la logica commerciale e industriale da un lato e le esigenze operative militari dall’altro. Dagli anni No-vanta gli sforzi profusi in tale settore dalle Marine militari sono stati prevalentemente rivolti, prima allo sviluppo dei PVDS (Propelled Variable Depht Sonar), che possono es-sere grossolanamente definiti come dei ROV dotati di sonar di scoperta, e successivamente agli AUV. L’ambito civile ha invece provveduto a consolidare e potenziare le capacità dei sistemi ROV esistenti. Ciononostante i con-tatti tra le parti potrebbero comunque risultare vicendevol-mente utili per aspetti particolari, afferenti ai sensori e ai sottosistemi.

Conclusioni

La riduzione degli assetti di CMM, derivante dalla più ampia ristrutturazione del comparto difesa, sta natural-mente portando ad adottare sinergie militari-civili che, seppure entro certi limiti, possono consentire di far fronte più agevolmente alle molteplici esigenze che, nel caso specifico, implicano l’impiego dei sistemi ROV. È peral-tro interessante rilevare come la capacità di investigazione subacquea esprimibile dalle ditte del terziario nazionale rivesta, di fatto, una valenza strategica in quanto consente di provvedere alla vigilanza di importanti infrastrutture energetiche del paese, contribuendo indirettamente a eser-citare la funzione del «Sea Control» nelle acque territo-riali e internazionali. Di riflesso, una certa attenzione deve essere rivolta anche al comparto industriale nazionale del settore che produce alcuni tipi di sistemi ROV, soprattutto nella considerazione che un reciproco travaso di espe-rienza con il corrispondente comparto industriale della di-fesa potrebbe portare a mutui benefici. 8

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NOTE (1) Cfr. D. Ceccarelli Morolli, Appunti di Geopolitica, Roma 2018, pp. 71-72. ». BIBLIOGRAFIA Robert Christ, Robert Wernli, The ROV Manual, a User Guide for Remotely Operated Vehicles, Butterworth-Heinemann, 2013. International Marine Contractors Association, IMCA R004 Rev.3, Code of Practice for the Safe & Efficient Operation of Remotely Operated Vehicles, IMCA 2014. Det Norske Veritas - Germanischer Lloyd, Rules for Classification Underwater Technology, DNV – GL, 2015.

Nave ALLIANCE (A 5345), unità polivalente di ricerca (NATO Research Vessel - NRV), è dotata di circa 400 m2 di laboratori, sistemi di naviga-zione e comunicazione all’avanguardia, gru, verricelli e argani, con una struttura poppiera «a portale», che permette all’unità di effettuare movi-menti di carico e, contestualmente, manovre di messa a mare e recupero di apparecchiature subacquee.

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Michele Cosentino

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Contrammiraglio (r) del Genio Navale. Ha frequentato l’Accademia navale nel 1974-78 e ha successivamente conseguito la laurea in Ingegneria navale e meccanica presso l’Università «Federico II» di Napoli. In seguito, ha ricoperto vari incarichi a bordo dei sottomarini Carlo Fecia Di Cossato, Leonardo Da Vinci e Guglielmo Marconi e della fregata Perseo. È stato successivamente impiegato a Roma presso la Direzione generale degli armamenti navali, il segretariato generale della Difesa/Direzione nazionale degli armamenti e lo Stato Maggiore della Marina. Nel periodo 1993-96 è stato destinato al Quar-tier generale della NATO a Bruxelles; nel periodo 2005-11 ha lavorato al «Central Office» dell’Organisation Conjointe pour la Cooperation en matiere d’Armaments (OCCAR) a Bonn. Ha lasciato il servizio a settembre 2012, è transitato nella riserva della Marina Militare e nel 2016 è stato eletto consigliere nazionale dell’ANMI per il Lazio settentrionale. Dal 1987 collabora con numerose riviste militari italiane e straniere (Rivista Marittima, Storia Militare, Rivista Italiana Difesa, Difesa Oggi, Tecnologia & Difesa, Panorama Difesa, Warship, Proceedings, ecc.) e ha pubblicato oltre 600 fra articoli, saggi monografici, ricerche e libri su tematiche di politica e tecnologia navale, politica internazionale, difesa e sicurezza e storia navale.

PRIMO PIANO

Potere subacqueo e deterrenza strategica

La soluzione cinese

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Da oltre un decennio, le dinamiche geostrategi-che del più vasto teatro marittimo del globo, vale a dire la regione Indo-Pacifico, ruotano

attorno all’evoluzione politica, economica e militare della Repubblica Popolare Cinese. La doppia distesa oceanica che si estende dalle coste dell’Africa orientale a quelle dell’America occidentale ha ormai assunto una connotazione marittima sempre più multipolare, perché nelle sue acque operano forze navali di cui fanno anche parte sottomarini a propulsione nucleare lanciamissili balistici appartenenti ad almeno quattro nazioni (Stati Uniti, Russia, Repubblica Popolare Cinese e India). Nel computo delle forze subacquee comunque presenti si aggiungono quelle di Giappone, Corea del Sud, Austra-lia, Indonesia, Singapore, Vietnam, Malesia e Pakistan, concepite per giocare un ruolo chiave nelle rispettive strategie marittime nazionali, soprattutto per controllare le vitali vie di comunicazione marittima ivi esistenti e

contrastare a loro volta minacce subacquee indesiderate. Un importante elemento delle dinamiche geopolitiche nella regione Indo-Pacifico risiede dunque nella deter-renza strategica, esercitabile mediante alcuni strumenti indiscutibilmente militari in una gamma che, in campo navale, ha la sua espressione massima nei citati sotto-marini a propulsione nucleari lanciamissili balistici, na-viglio a elevato contenuto tecnologico in cui può condensarsi il progresso raggiunto da una determinata nazione nel raggiungere obiettivi specifici. Ampliando questa considerazione ad altri aspetti della galassia mi-litare, è utile ricordare come il processo di potenzia-mento militare ormai in atto da circa un ventennio nella Repubblica Popolare Cinese sia uno dei principali indi-catori, se non quello principale, del desiderio di Pechino di affermarsi come grande potenza mondiale: allo stesso tempo, questo processo ha innescato una competizione con Washington che sembra erodere gradualmente il vantaggio tecnologico militare esistente fra Stati Uniti e Cina. Se questa erosione dovesse ridursi ai minimi ter-mini e si dovesse manifestare una situazione di crisi, si potrebbe prospettare uno scenario in cui Washington sa-rebbe sempre più orientata a fare maggior affidamento alle sue pur sempre superiori capacità di deterrenza nu-cleare per neutralizzare quelle cinesi, comprese quelle basate sulle unità subacquee e in via d’evoluzione. Tut-tavia, alcuni analisti hanno contestato l’assunto che i sottomarini nucleari lanciamissili statunitensi rimar-ranno per sempre invulnerabili agli sforzi, in essere o in divenire, dei potenziali avversari — Repubblica Po-polare Cinese in primis — per ridurne l’efficacia e le capacità complessive in caso di conflitto.

Lo scenario geopolitico

Negli ultimi decenni, lo sviluppo degli armamenti nu-cleari sembra aver avuto un ruolo secondario nell’ambito del rilevante incremento delle potenzialità e capacità mi-litari messe in campo dalla Repubblica Popolare Cinese. In effetti, l’incremento delle risorse finanziarie devolute al rapido sviluppo di santuari o bolle A2/AD (Anti ac-cess/Area denial) e di capacità finalizzate alla proiezione di potenza è stato percepito in maniera più visibile ri-spetto a quanto fatto per l’ammodernamento dell’arsenale nucleare di Pechino. Fino a poco tempo fa, il programma

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Un’immagine dall’alto di un SSBN cinese «Type 094A» in procinto d’immergersi (scmp.cn.tv).

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per la costruzione di sottomarini nucleari lanciamissili balistici (SSBN) di nuova generazione era considerato di secondaria importanza rispetto a quanto realizzato per l’arsenale nucleare terrestre: da qualche anno vi è stata tuttavia un’inversione di tendenza, o quanto meno un’ac-celerazione dei programmi per gli SSBN cinesi, proba-bilmente destinati a dispiegare una percentuale maggiore di testate nucleari cinesi rispetto ai missili basati a terra. In ogni caso, la politica di sviluppo degli armamenti nu-cleari cinesi non può essere separata dalla politica mili-tare seguita a Pechino e dall’ambizione di diventare una grande potenza, come platealmente evidenziato nel-l’ostentazione dei missili balistici durante la parata che nell’ottobre 2019 ha celebrato il 70° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Anche se queste immagini da Guerra fredda potrebbero suggerire il contrario, la Cina segue una linea di condotta, pubbli-camente dichiarata, che minimizza il ruolo delle armi nu-cleari, limitandone l’impiego a logiche di ritorsione basate su una politica di no-first use.

Da quando la Repubblica Popolare Cinese ha dato il via alle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meri-dionale e ha proceduto a una vera e propria colonizza-zione militare insulare, la tensione in ambito regionale si è arricchita di una serie di contenziosi in origine concen-trati unicamente sulla rivalità fra Pechino e Taipei e adesso allargata alle dispute con Filippine, Vietnam, Ma-lesia, Brunei e Indonesia; la logica ramificazione verso settentrione di questo scenario si compendia nel conten-zioso con il Giappone nel Mar Cinese Orientale. La gamma delle reali e potenziali frizioni interstatuali si è ulteriormente ampliata con l’ormai celeberrima iniziativa geoeconomica del leader cinese Xi Jinping riguardante una «Nuova Via della Seta» (detta «One belt One Road») (1) comprensiva di infrastrutture, investimenti ed eserci-zio di influenza politica attraverso l’Asia centrale e lungo l’oceano Indiano. Su quest’ultimo versante, la rivalità fra Pechino e Nuova Delhi ha favorito la creazione, nella Marina indiana, di una componente subacquea lancia-missili balistici con una doppia funzione dissuasiva, nei confronti del Pakistan e come deterrente asimmetrico contro una Cina militarmente ed economicamente molto più forte. In questo secondo decennio del XXI secolo, tutto ciò si sintetizza in una competizione strategica fra

la Repubblica Popolare Cinese da una parte e gli Stati Uniti e i loro alleati attuali e in pectore dall’altra; com-petizione in cui spiccano diversi momenti di confronto e di potenziale insorgenza di crisi e conflitti.

Proprio per evitare un’escalation nucleare e piuttosto che ricorrere all’intervento di unità navali militari, nel Mar Cinese Meridionale Pechino è generalmente orien-tata a fare affidamento su unità paramilitari della Guardia Costiera e delle milizie marittime per sostenere sul campo le proprie rivendicazioni contro Vietnam e Filippine. Meno propagandate appaiono per il momento le rivendi-cazioni e le azioni di Pechino nel Mar Cinese Orientale, anche in virtù delle superiori capacità sviluppate nel tempo dalle forze aeronavali giapponesi e delle dichiara-zioni ufficiali statunitensi, in cui si afferma l’applicabilità del trattato di sicurezza fra Tokyo e Washington anche in caso di confronto nelle adiacenze dell’arcipelago nippo-nico. Più a settentrione, i ricorrenti scenari di crisi nella penisola coreana potrebbero paradossalmente portare sia a un confronto fra Stati Uniti e Cina, sia a un certo grado di cooperazione fra questi stessi soggetti, perché la prin-cipale minaccia nucleare è oggettivamente rappresentata dal regime di Pyongyang. Nell’oceano Indiano, è difficile da immaginare che un confronto fra Cina e India — per esempio sul destino di un piccolo Stato insulare come le Maldive — possa sfociare in un conflitto fra le parti, anche perché Pechino sembra essere consapevole delle capacità del deterrente nucleare indiano.

In sostanza, la più chiara prospettiva di confronto armato tra Cina e Stati Uniti che potrebbe portare verso un’escalation nucleare continua a ruotare at-torno alla situazione di Taiwan: inoltre, un controllo militare dell’isola consentirebbe a Pechino di «supe-rare» il vincolo geografico delle catene insulari dispo-ste da nord a sud lungo il Pacifico occidentale e di avere libero accesso al Pacifico centrale. Sarebbe tut-tavia una semplificazione eccessiva sostenere che una crisi per Taiwan aumenterebbe rapidamente il rischio di escalation nucleare, anche perché Pechino può sfruttare altri strumenti coercitivi quali il blocco eco-nomico e gli attacchi informatici, mentre un possibile e conseguente conflitto potrebbe espandersi in altri ambiti, compresa una forte pressione economica e di-plomatica internazionale sulla Cina. Ciononostante,

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una crisi per Taiwan — o, in effetti, un confronto vero e proprio derivante per esem-pio da una scaramuccia fra unità navali cinesi e statuni-tensi nel Mar Cinese Meri-dionale — potrebbe portare a una più ampia mobilitazione di risorse militari, soprattutto aeronavali, da parte di en-trambi contendenti, e con ciascuna delle parti in causa indotta a prevenire una rea-zione dell’altra e quindi ad attaccare per prima.

Politica e dottrina nucleare cinese

Partendo dal presupposto che la Repubblica Popolare Cinese continui a seguire una politica nucleare basata sul no-first use, è interessante analizzarne gli aspetti appli-cativi pratici, con particolare riferimento alle capacità nel settore marittimo. Sebbene Pechino abbia iniziato a svi-luppare capacità nel settore degli SSBN sin dal lontano 1958, i risultati non lusinghieri ottenuti fino ad alcuni anni orsono hanno indotto la leadership nazionale a fare principalmente affidamento sui vettori missilistici basati a terra quale strumento di rappresaglia nucleare.

Negli ultimi tempi, alcuni esperti cinesi hanno tut-tavia sottolineato in chiave positiva ruoli e capacità del deterrente subacqueo quale alternativa agli sviluppi sta-tunitensi nel settore della difesa antimissili balistici. Tuttavia, un complesso di percezioni e valutazioni con-dotte a Pechino induce a pensare che esistano ancora non poche resistenze all’interno della leadership cinese nell’affidare anche a una componente subacquea una funzione di deterrenza strategica nucleare: infatti, una geografia marittima sfavorevole, l’assenza di nazioni amiche e alleate, diversi problemi tecnici e le capacità di contrasto antisommergibile messe in campo dall’US Navy e da altre forze navali, costituiscono ostacoli si-gnificativi per sviluppare e dispiegare una siffatta com-ponente realmente efficace. Non va inoltre dimenticato che lo sviluppo della dottrina operativa per gli SSBN cinesi potrebbe essere in contrasto con le procedure di

comando e controllo normalmente adottate da Pechino per il proprio arsenale nucleare e con le misure di con-servazione e protezione delle testate nucleari. In ac-cordo con la politica nucleare nazionale, la dottrina operativa per un attacco di rappresaglia a cura della Forza missilistica dell’Esercito cinese (noto in prece-denza come «Second Artillery»), si basa su due prin-cipi: il primo riguarda la protezione delle testate nucleari e dei vettori missilistici nei confronti di un at-tacco avversario da «primo colpo» preventivo, mentre il secondo principio è relativo all’esecuzione di attacchi nucleari di precisione contro i principali obiettivi stra-tegici avversari per assicurare che essi infliggano danni inaccettabili per proseguire con lo scambio nucleare.

Di conseguenza, la struttura delle forze nucleari ci-nesi è stata concepita per evitare o minimizzare i danni provocati da un attacco nucleare avversario e per dare subito il via a un attacco di ritorsione contro obiettivi strategici del predetto avversario: da qui la consistenza contenuta dell’arsenale nucleare cinese, al momento formato da circa 290 testate, se paragonata ai 3.800 or-digni disponibili e/o dispiegabili nell’arsenale nucleare statunitense. Sebbene un arsenale nucleare più robusto rimanga comunque coerente con la politica di no-first use e di ritorsione dichiarata da Pechino, nonché con le sue disponibilità finanziarie, i leader cinesi e gli ana-listi nucleari hanno finora preferito affidasi a un arse-nale «snello» per evitare una corsa agli armamenti

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Durante la parata, che nell’ottobre 2019 ha celebrato il 70° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, hanno defilato anche i missili balistici «JL-2» imbarcati sui battelli a propulsione nucleare «Type 094» (Sinodefense).

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nucleari. Non esiste un’opinione condivisa sul fatto che la Cina manterrà in futuro un arsenale nucleare conte-nuto, perché nel 2019 l’intelligence statunitense ha sti-mato che esso possa raddoppiare nell’arco di un decennio, riconoscendo tuttavia l’inesistenza di prove sull’intenzione di Pechino nel ricercare una parità quantitativa con gli Stati Uniti, né che sarebbe possibile costruire un arsenale nucleare grande come quello sta-tunitense con le riserve di materiale fissile attualmente disponibili. I sistemi missilistici nucleari cinesi com-prendono gli ordigni «JL-2» lanciabili da unità subac-quee, i missili a medio raggio DF-21 basati a terra e una famiglia di ordigni intercontinentali fissi e mobili, sempre basati a terra e identificati con «DF» e un suf-fisso numerico; fra quest’ultimi, alcune varianti del DF-5 in silos fissi e il DF-41 in lanciatori mobili sono equipaggiati con testate di rientro multiple e indipen-denti, in grado cioè di colpire più bersagli.

Il ruolo degli SSBN nella strategia nucleare cinese

Come già accennato, un’analisi di dettaglio dello svi-luppo militare cinese negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo conferma che non esisteva un reale requisito militare per sviluppare una flotta di SSBN. Tuttavia, negli ultimi decenni questo scenario è stato modificato e al programma per la realizzazione di bat-telli lanciamissili di nuova ge-nerazione è stata conferita una priorità maggiore rispetto ad altri programmi militari, e ciò grazie alla possibilità di svol-gere un ruolo chiave nel raf-forzamento complessivo del deterrente nucleare cinese. Gli esperti cinesi indicano una serie di ragioni pratiche per cui una solida capacità nu-cleare basata sul mare sta di-ventando sempre più importante per mantenere un deterrente nucleare credibile, in primo luogo, le sue mag-giori capacità di sopravvi-

venza se paragonata ai sistemi basati a terra. L’ammi-raglio Liu Huaqing (1916-2011) (2), il padre della mo-derna Marina cinese e membro molto influente della potente Commissione Militare Centrale dal 1989 al 1998, affermava che non più del 10% degli ordigni mis-silistici cinesi basati a terra sarebbe sopravvissuto a un primo colpo nucleare su vasta scala, mentre i meno vul-nerabili ordigni in dotazione agli SSBN avrebbero pre-servato le capacità di contrattacco cinesi. Nella Repubblica Popolare Cinese questa percezione di mag-gior sopravvivenza deriva da diversi e condivisibili pre-supposti, come per esempio la discrezionalità intrinseca di un sottomarino, le risorse necessarie per scoprire e tracciare un’unità subacquea, la sua elevata mobilità e la conseguente abilità nell’espandere la propria area di pattugliamento e le maggiori possibilità per un ordigno lanciato da un sottomarino che opera non distante dalla costa nemica di eludere le difese antimissili di un av-versario: è peraltro assodato che molta attenzione de-v’essere devoluta a migliorare le qualità della piattaforma.

Il punto di vista degli esperti cinesi contiene anche motivazioni di prestigio e orgoglio. Essi sono consape-voli che tutte le altre nazioni con capacità nucleari con-feriscono maggior importanza agli ordigni missilistici in dotazione agli SSBN, confermando una tendenza ba-sata anche su dati numerici: per esempio, negli Stati

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Il lancio di un missile «JL-2» da un SSBN cinese: l’ordigno è accreditato di una gittata massima di circa 4.000 miglia e può essere equipaggiato con una testata multipla di potenza variabile (Sinodefense).

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Uniti, la «gamba» subacquea della triade di deterrenza nucleare corrisponde attualmente a circa il 70% di tutte le capacità esprimibili in questo settore, un fenomeno analogo riscontrabile anche in Russia, dove si è passati dal 25% del 2010 a circa il 60% del 2020. Gli esperti ci-nesi affermano che questa tendenza si applica anche al gruppo di potenze nucleari da essi definiti «di medio li-vello», cioè Gran Bretagna e Francia, e a cui essi riten-gono che la Cina appartenga. In sostanza, la creazione e il mantenimento di una capacità minima di deterrenza nucleare subacquea rafforzano l’ipotesi che gli SSBN armati con missili con testate nucleari rimangono il mi-glior strumento per esercitare la rappresaglia nucleare per una nazione con le caratteristiche politiche, econo-miche e militari della Repubblica Popolare Cinese.

L’altra faccia della medaglia, evidenziata dagli ana-listi, si manifesta attraverso le non poche riserve sulla capacità della Repubblica Popolare Cinese di mettere concretamente in pratica i concetti di deterrenza strate-gica subacquea, tenendo conto che conoscenze scienti-fiche e tecnologie industriali disponibili non appaiono al momento comparabili con quelle sviluppate nelle na-zioni occidentali. Va ricordato che il primo esemplare di SSBN, lo Xia, in servizio dai primi anni Ottanta fino al 2013, fu ricavato modificando il Project 091 utiliz-zato per la costruzione dei primi sottomarini nucleari d’attacco cinesi classe «Han»: la conversione diede ri-sultanti alquanto deludenti, una circostanza alla quale progettisti e tecnici cinesi — reclutati fra il personale in servizio nella Marina e nelle numerose università e agenzie di ricerca statali — hanno cercato di rimediare nel tempo attraverso un processo di «osmosi tecnolo-gica» fra SSN e SSBN. Per circa un ventennio, e missili balistici a parte, forme di scafo, sistemi e sensori intro-dotti di un nuovo progetto di battello d’attacco o lan-ciamissili sono stati sperimentati sui primi esemplari di ciascun tipo di piattaforma, eventualmente migliorati, e infine introdotti nella produzione di serie. Nel tempo e tenendo conto di diversi fattori, questa metodologia ha dato vita a un continuo ricambio generazionale che, nel settore degli SSBN, vede adesso in linea i battelli «Type 094», altrimenti noti come classe «Jin» e appartenenti alla seconda generazione di unità lanciamissili balistici.

Le valutazioni dell’intelligence dell’US Navy, ese-

guite a partire dal 2009, danno due indicazioni princi-pali: il programma costruttivo per i «Type 094/Jin» do-vrebbe includere 10 battelli, di cui gli esemplari successivi al primo presentano alcune differenze e sono pertanto noti come «Type 094A»: il loro punto debole rimane la rumorosità, essendo paragonabili agli SSBN sovietici classe «Delta III», risalenti agli anni Settanta e da cui hanno ereditato alcune peculiarità progettuali (3). Tenendo conto della filosofia costruttiva dei battelli cinesi (prototipo sperimentale seguito da unità di serie), è verosimile che sui «Type 094A» siano state introdotte misure per abbattere il rumore irradiato che, nel loro complesso, sembrano essersi rivelate sufficienti per sod-disfare i requisiti tecnici e operativi definiti dalla Marina cinese. Infatti, se ciò non fosse stato vero, la produzione dei «Type 094» o «Type 094A» si sarebbe fermata so-lamente al primo esemplare, circostanza che non si è verificata e che indica la soddisfazione della leadership cinese per le prestazioni di questi battelli.

Seguendo una filosofia decisamente ispirata da quella in voga nell’ex Unione Sovietica, il progetto dei battelli «Type 094/Jin» si è sviluppato parallelamente a quello del missile balistico a essi destinato, cioè il «JL-2», a sua volta derivato dal precedente «JL-1» (4). Identificato in Occidente con il codice alfanumerico CSS-N-14, il missile «JL-2» è un ordigno tristadio a propellente so-lido a cui è stata attribuita una gittata massima di circa 4.000 miglia e un CEP (Circular Error Probable) di circa 300 metri: il carico utile è rappresentato da una te-stata nucleare singola di potenza variabile fra 250 kilo-ton e 1 megaton o da quattro testate indipendenti manovrabili (Multiple Independently targetable Re-entry Vehicles, MIRVs), ciascuna con una potenza di 90 kiloton. La campagna di prove dell’arma si è conclusa nel 2015, utilizzando soprattutto i battelli classe «Jin» che entravano progressivamente in linea e consentendo dunque a essi di iniziare i pattugliamenti strategici.

Le modalità operative degli SSBN cinesi

Le modalità operative per l’impiego della flotta ci-nese di SSBN sono influenzate da tre elementi: la mi-naccia percepita da Pechino, gli obiettivi militari da raggiungere e le capacità operative e tecniche dei bat-telli. Non vi sono dubbi sul fatto che le capacità marit-

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time nucleari cinesi siano principalmente destinate a fronteggiare la minaccia percepita dagli Stati Uniti, che rimane dunque l’obiettivo principale del deterrente nu-cleare globale cinese. Pertanto, tutte le discussioni e i dibattiti all’interno della Repubblica Popolare hanno come presupposto che l’obiettivo delle forze strategiche sottomarine nucleari cinesi sia la rappresaglia contro obiettivi situati anche negli Stati Uniti. Alcuni studiosi suggeriscono che gli SSBN cinesi hanno anche la capa-cità di colpire obiettivi in India e che Pechino potrebbe essere motivata a dissuadere Nuova Delhi dall’impie-gare le emergenti capacità strategiche subacquee in-diane (5). Trovandosi in pattugliamento nel Mar Cinese Meridionale, un battello lanciamissili cinese può facil-mente colpire obiettivi in India, senza dunque bisogno di spingersi più in profondità nell’oceano Indiano. Na-turalmente e nonostante alcuni recenti rischieramenti di SSBN nel Mar Cinese Meridionale, Pechino non ha bi-sogno di dichiarare apertamente che questi battelli rap-presentano anche un deterrente contro le mosse indiane. Comunque, la Marina cinese segue attentamente gli sforzi e i risultati di quella indiana nel settore degli SSBN e dei missili balistici imbarcati e non è quindi da escludere totalmente che in futuro Pechino attribuisca al proprio arsenale strategico subacqueo anche funzioni di dissuasione nei confronti dell’India.

Il dibattito interno sulle modalità operative degli SSBN cinesi segue due direttrici principali in tema di di-

spiegamento dei battelli. La prima riguarda un approccio simile a quello statunitense, con i pattugliamenti condotti in spazi ocea-nici: in questo caso, ciascun battello fa affi-damento sulle proprie capacità di stealthness nei transiti verso e dall’area di pattuglia-mento assegnata, evitando altresì le possibi-lità di scoperta a cura dei potenziali avversari durante il pattugliamento vero e proprio. Questo approccio richiede requisiti di silen-ziosità stringenti, da soddisfare attraverso ac-corgimenti tecnici e procedure d’impiego ben precise. Il secondo approccio deriva dalla strategia adottata dalla Marina ex so-vietica prima e da quella russa oggi e ri-guarda il concetto di bastione, una zona di

mare relativamente prossima al proprio territorio ma suf-ficientemente ampia da consentire il pattugliamento di un SSBN e la sua protezione — a cura di unità di super-ficie e subacquee e velivoli di norma basati a terra — contro le incursioni dei potenziali avversari, soprattutto di quelli in possesso di ottime capacità antisommergibili.

Numerosi fra gli esperti cinesi sono convinti che i pat-tugliamenti oceanici rappresentino l’impiego maggior-mente idoneo ed efficace per gli SSBN cinesi, perché essi evitano alla Marina cinese di «costruire» e proteg-gere uno o più bastioni prossime alle coste nazionali, consentendo altresì di avere maggiori possibilità di pe-netrare i sistemi di difesa antimissili balistici statunitensi. Inoltre, la gittata massima dei «JL-2» non consente loro di raggiungere obiettivi del territorio continentale statu-nitense se lanciati da un bastione a ridosso delle coste cinesi. L’aspetto critico di questa «strategia oceanica» è la disponibilità di battelli molto silenziosi, in grado di giungere nell’area d’operazioni in condizioni di relativa tranquillità e di svolgere il pattugliamento a velocità ri-dotta, minimizzando così il rischio di scoperta; il periodo più delicato riguarda il trasferimento dalla base verso gli spazi oceanici, durante il quale il battello deve mantenere una velocità idonea, non troppo ridotta, a raggiungere l’area d’operazioni in un lasso di tempo ragionevole. Ciò implica l’esigenza di minimizzare il rumore indotto, in modo da rendere il battello meno vulnerabile, soprattutto durante l’attraversamento di quei tratti di mare che gli

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Un sottomarino a propulsione convenzionale «Type 039», ripreso in superficie: ben visibile, la grossa valvola di testa dell’albero snorkel. Noti come «Yuan» in Occidente, i battelli di questa classe partecipano ai dispositivi di protezione dei presumibili bastioni per gli SSBN realizzati dalla Marina cinese nel Mar Cinese Meridionale e in quello Orientale (US Navy).

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SSBN cinesi devono percorrere per giungere negli spazi oceanici partendo dalle basi poste nel Mar Cinese Meri-dionale e nel Mar Giallo. Questi tratti di mare, veri e pro-pri choke points nell’ambito della cosiddetta prima catena insulare (6), sono costantemente monitorati dalle Forze navali statunitensi, nipponiche, taiwanesi e, spesso negli ultimi tempi, filippine: Giappone e Stati Uniti hanno inoltre ammodernato le reti di sorveglianza su-bacquea ivi esistenti, già all’opera ai tempi della Guerra fredda. In sintesi, tutti questi elementi fanno sì che un SSBN cinese poco silenzioso possa essere facilmente scoperto durante la navigazione verso le vastità marine del Pacifico occidentale. Negli ultimi anni, la divulga-zione delle notizie di SSBN cinesi scoperti durante il transito attraverso i predetti choke points ha accresciuto, nei vertici militari e navali di Pechino, la consapevolezza di aumentare le risorse e gli sforzi per migliorare la dis-screzione acustica degli SSBN e per cercare strategie e metodi alternativi per il loro dispiegamento.

Tenendo conto delle prestazioni dei battelli classe «Jin/Type 094», la strategia dei «bastioni» appare quella che, almeno nel breve termine, assicura migliori garan-zie di applicazione. La ricognizione satellitare ha per-messo di identificare SSBN cinesi nelle basi navali di Jianggezhuang, nei pressi di Dalian (nella provincia dello Shandong) e di Longpo, sull’isola di Hainan: nel primo caso, lo sbocco è verso il Mar Giallo e nel se-condo, direttamente sul Mar Cinese Meridionale, due aree verosimilmente prescelte per fungere da bastioni perché gli sforzi cinesi si sono ampliati per associare a ciascuna delle basi navali vere e proprie un complesso d’infrastrutture di sup-porto tecnico e logistico necessario per l’at-tività degli SSBN. Questa valutazione è avvalorata dalle caratteristiche batimetriche delle due aree marittime, sufficientemente profonde per pattugliamenti, anche di lunga durata; e fra esse, la seconda — il Mar Ci-nese Meridionale — presenta caratteristiche fisico-chimiche che influenzano la propaga-zione del suono in acqua e rendono in qual-che modo più difficile la scoperta e il tracciamento di un battello in immersione.

Come già detto, il punto debole di un

santuario nel Mar Cinese Meridionale è l’insufficiente gittata del missile «JL-2» nei confronti di bersagli si-tuati negli Stati Uniti continentali, «limitando» perciò la scelta a obiettivi situati sull’isola di Guam o nel-l’arcipelago delle Hawaii, obiettivi peraltro assai im-portanti nell’ambito della strategia di Washington nel teatro dell’Indo-Pacifico e che non inficiano dunque più di tanto l’effetto deterrente degli SSBN cinesi. Forse, il vero punto debole di un bastione marittimo nel Mar Cinese Meridionale risiede sempre nella geo-grafia, perché — a differenza della Marina ex sovie-tica prima e russa poi, in grado di costruire bastioni in aree marittime costiere quali il Mar di Okhotsk e il Mar di Kara — le acque a ridosso di Hainan, delle Fi-lippine e di Taiwan, sono affollate vie di comunica-zione marittima, frequentate non solo da una cospicua aliquota di naviglio mercantile, ma anche da non poche unità navali militari appartenenti a nazioni cer-tamente non amiche della Repubblica Popolare Ci-nese. Nel paragone con i bastioni russo-sovietici si deve inoltre rammentare che il Mar Cinese Meridio-nale, situato a sud del Tropico del Cancro, non è mai ricoperto dal ghiaccio, che alle latitudini molto più elevate fornisce un certo grado di protezione agli SSBN in pattugliamento sotto di esso.

Un altro aspetto da tenere in considerazione è l’ap-plicabilità del concetto CASD, Continuous-At-Sea De-terrence, secondo il quale una nazione con ambizioni da grande o media potenza nucleare marittima deve, o

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Due pattugliatori marittimi antisommergibili P-8 «Poseidon» dell’US Navy appartenenti al reparto «VP-4, Skinny Dragons» in volo sul Mar Cinese Orientale. L’intensificazione dell’attività subacquea a cura degli SSBN cinesi ha accresciuto il rateo d’impiego dei velivoli statunitensi di base nelle isole giapponesi e a Guam (US Navy).

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dovrebbe, mantenere sempre almeno un SSBN in pat-tugliamento in una o più aree del globo. Il concetto CASD è adottato sicuramente dagli Stati Uniti e, seb-bene su scala ridotta, anche dalla Gran Bretagna e dalla Francia, nazioni queste con una «gamba» subacquea della triade strategica comprendente unicamente quattro battelli. Non è tuttavia noto se il concetto CASD sia se-guito anche in Cina, ma in ogni caso la sua applicabilità dipende essenzialmente dal numero di SSBN in inven-tario e, in subordine, dal numero di missili balistici in dotazione a ciascuno di essi. Alcuni commentatori mi-litari cinesi stimano che il pattugliamento continuativo a cura di un determinato numero di battelli, ancorché ri-dotto, sia l’obiettivo prioritario della dimensione marit-tima di una politica nucleare nazionale di cui fa comunque parte il principio del no-first use.

Sfide, opportunità e contromisure

Oltre a quelli di natura tecnica, esistono in sostanza alcuni problemi che la Marina cinese deve risolvere se vuole realizzare uno o più bastioni — o aree marittime comunque sicure — per permettere ai propri SSBN di eseguire quei pattugliamenti dissuasivi che la strategia marittima di una potenza nucleare come la Cina molto verosimilmente contempla: la soluzione di questi pro-blemi risiede nell’implementazione di un certo numero di misure di natura operativa e tecnica fra loro corre-late, da implementare attraverso un complesso militare-industriale efficace ed efficiente, in grado di realizzare un numero di SSBN coerente con i requisiti operativi e tecnicamente all’avanguardia.

Come già accennato, nella Marina cinese stanno progressivamente entrando in linea le unità classe «Jin/Type 094A» e si valuta che il numero comples-sivo di battelli costruiti si fermerà a 10 esemplari; nel frattempo, ha già preso il via il programma per la rea-lizzazione di SSBN cinesi di terza generazione, iden-tificati come «Type 096» o classe «Tang», i cui requisiti prioritari comprendono la riduzione del ru-more irradiato e l’imbarco di un nuovo missile bali-stico, noto come «JL-3». Assumendo che la strategia di deterrenza nucleare di Pechino faccia affidamento su una componente subacquea composta sempre da 10 battelli, è verosimile che nel processo di transi-

zione dai «Jin» ai «Tang» ci sarà una coesistenza fra i battelli di seconda e terza generazione, nonché di ordigni «JL-2» e «JL-3». Essendo questi ultimi ac-creditati di una gittata massima pari a 12.000 km, la gamma di bersagli raggiungibili nel continente ame-ricano aumenta in maniera considerevole, raffor-zando le capacità di deterrenza del binomio «Tang/JL-3».

Con dieci SSBN in inventario e facendo ricorso alla regola aurea di un’unità in pattugliamento e altre due impegnate in manutenzioni, addestramento e transiti, la Marina cinese dovrebbe essere in grado di mantenere almeno tre battelli continuamente in pattugliamento in altrettante zone di mare, un numero sostanzialmente congruo se rapportato a quanto succede nell’US Navy, nella Royal Navy e nella Marine Nationale. Di conse-guenza, è possibile ipotizzare la creazione di un ba-stione nel Mar Cinese Meridionale in cui opererebbe un battello classe «Jin», in un’area da cui è possibile eser-citare la deterrenza nei confronti sia degli Stati Uniti per i bersagli a Guam e alle Hawaii, sia delle principali na-zioni dell’Indo-Pacifico alleate di Washington (Giap-pone e Corea del Sud in primis), oltreché naturalmente nei confronti di Taiwan. Un siffatto bastione nel Mar Cinese Meridionale appare difendibile da «intrusioni» esterne grazie alle bolle A2/AD costruite attorno alle numerose isole militarizzate citate in precedenza e anche al dispiegamento di un dispositivo aeronavale di protezione comprendente anche sottomarini convenzio-nali di nuova generazione «Type 039» o classe «Yuan», unità di superficie specializzate nella lotta antisommer-gibili che la Marina cinese sta riproducendo in gran nu-mero e velivoli antisommergibili basati a terra.

Ad altri due battelli classe «Jin», più avanti sostituiti da altrettanti «Tang» armati con missili «JL-3» verreb-bero assegnati ad aree di pattugliamento oceaniche, al di là della prima e anche della seconda catena insulare (7), dove gli spazi di manovra sono enormemente più ampi e i fondali assai più elevati rispetto al Mar Cinese Meri-dionale. Per raggiungere queste ipotetiche aree di pattu-gliamento oceaniche, gli SSBN cinesi sarebbero costretti a «forzare» i passaggi obbligati ivi esistenti, attraver-sando i vari canali (Bashi, Babuyan e Balintang) collo-cati nello Stretto di Luzon, un braccio di mare ampio

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Potere subacqueo e deterrenza strategica: la soluzione cinese

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circa 160 miglia situato fra le Filippine e l’isola di For-mosa; la presenza di piccole isole crea i predetti canali, caratterizzati da canaloni subacquei che potrebbero ren-dere difficile la scoperta dei battelli cinesi. Non va co-munque sottovalutata la difficoltà implicita in un siffatto «forzamento», a cui potrebbe dunque partecipare un ag-guerrito dispositivo di protezione comprendente anche battelli d’attacco a propulsione nucleare (8), anch’essi in linea nella Marina cinese in quantità non trascurabile e destinati a scortare — ancora assieme ad unità di su-perficie specializzate nella lotta ASW — gli SSBN.

È naturalmente lecito supporre che queste ipotesi su modalità operative e dispiegamento degli SSBN ci-nesi, con tutte le condizioni a contorno, siano state prese in considerazione anche dai potenziali avver-sari, contendenti e competitori di Pechino, Stati Uniti in primo luogo, seguiti a ruota dalle nazioni marittime

che si trovano nel Pacifico occiden-tale, in modo da concepire e attuare le contromisure più appropriate. Le operazioni di presenza nel Mar Ci-nese Meridionale condotte da unità e gruppi navali dell’US Navy sono un segnale tangibile delle intenzioni di Washington che, in caso di crisi, escalation e confronto, si tradurreb-bero in un’intensificazione del dispo-sitivo aeronavale schierabile in profondità; dispositivo di cui fareb-bero sicuramente parte risorse speci-fiche quali pattugliatori marittimi antisommergibili, unità alleate an-ch’esse specializzate nel settore e altre assetti militari, tutti all’opera

per penetrare le bolle A2/AD cinesi e per contrastare il «forzamento» dei passaggi obbligati a cura del na-viglio avversario. A queste operazioni eseguibili in caso di necessità farebbero da contorno altre iniziative attuabili sin dal tempo di pace, fra cui il potenzia-mento e l’ampliamento delle reti di sorveglianza su-bacquea, la costante vigilanza satellitare delle basi navali cinesi (per capire se gli «ospiti» sono in casa o meno) e il dispiegamento di mezzi di superficie e su-bacquei, soprattutto a controllo remoto, per anticipare quanto più possibile le mosse dell’avversario e reagire dunque tempestivamente a svariate circostanze. In estrema sintesi, lo scenario dell’Indo-Pacifico si ar-ricchisce di un altro elemento di studio e valutazione, da monitorare con attenzione negli anni a venire, anche per poterne comprendere l’evoluzione in un quadro geopolitico assai dinamico. 8

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NOTE (1) Sul tema, tra i molti, cfr. F. De La Iglesia Viguiristi, La nuova Via della Seta. Le ambizioni globali dell’economia cinese, in La Civiltà Cattolica III (2017), pp. 486-499; G.E. Valori, La via della Cina. Passato, presente e futuro della storia, Milano 2010, passim. (2) D. Ceccarelli Morolli, Appunti di Geopolitica, Roma 2018, p. 264. (3) Usando informazioni non classificate, un’analista cinese ha stimato che alle basse frequenze (100 hertz), il rumore irradiato da un «Type 094» è pari a circa 140 decibel, un valore che si discosta non poco dalle analoghe unità in servizio nelle Marine occidentali e anche in Russia. Assumendo la correttezza di queste stime, i «Type 094» appartengono alla categoria dei sottomarini «rumorosi»; a titolo di paragone, il rumore irradiato dai battelli «silenziosi» e «molto silenziosi» si aggira, ri-spettivamente, intorno ai 120 e 100 decibel, in una gamma di frequenze compresa fra i 5 e i 200 hertz. (4) Attribuito ai missili balistici lanciati da unità subacquee cinesi, l’acronimo «JL» è l’abbreviazione del termine «Jù Làng», che significa «onda gigante». (5) L’unico SSBN indiano attualmente in servizio, l’Arihant, ha completato il suo primo pattugliamento strategico nel novembre 2018, operando nella zona centrale del Mar Arabico. Il battello risulta equipaggiato con missili balistici «K-4», probabilmente in grado di colpire bersagli in tutto il territorio pakistano e in una parte di quello cinese. (6) Essa si estende dalla Malesia fino al Giappone e comprende l’immenso arcipelago delle Filippine. (7) Quest’ultima parte dall’arcipelago nipponico si estende verso il Pacifico centrale e procede verso sud fino alla Nuova Guinea. (8) Si tratta delle unità classe «Shang/Type 093B», battelli di seconda generazione destinati a essere sostituiti nel medio-lungo termine dalle unità classe «Sui/Type 095».

Una foto satellitare della base navale di Xiaopingdao, situata nei pressi di Dalian, nella zona setten-trionale del Mar Giallo e usata per preparare i sottomarini di nuova costruzione alle attività operative. Il riquadro mostra un SSBN classe «Jin/Type 094» (Google Earth).

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Analisi navale del primo semestre dallo scoppio della pandemia

Le Marine militari al

tempo del coronavirus

Marzio Pratellesi

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Nato a Firenze il 15 agosto 1994. Ha conseguito la Maturità scientifica nel 2013 diplomandosi con il voto di 100 e lode. Entra all’Accademia navale di Livorno nel medesimo anno, vincendo il concorso nel Corpo dello Stato Maggiore e risultando ca-poclasse della Prima classe dei Corsi Normali. Restando capocorso per i tre anni di formazione in Istituto e mantenendo un profilo di alto livello, dal punto di vista degli studi e della professionalità, è stato insignito della «Sciabola d’Onore». Nel-l’estate 2016 si laurea in Scienze marittime e navali con il voto di 110 e lode discutendo una tesi in missilistica. Dal settembre 2016 al febbraio 2017 svolge presso MARICENTADD Taranto il corso basico di Tattica navale e consegue l’abilitazione in direttore del Tiro. Ha svolto l’incarico di capo Componente artiglieria della FREMM Luigi Rizzo con la quale ha partecipato alle operazioni Mare sicuro ed Eunavformed Sophia. Da febbraio a settembre 2018 ha partecipato alla circumnavigazione del Sud America, nell’evento «Velas Latinoamerica 2018» a bordo della nave scuola messicana ARM Cuauhtemoc. Attualmente sta svolgendo un Personnel Exchange Program con la Marina Militare francese a bordo del cacciatorpediniere Forbin. È ap-passionato di vela e ha praticato scherma ad alto livello; suona il pianoforte, parla inglese, francese e spagnolo.

PRIMO PIANO

Le Marine militari al

tempo del coronavirus

Analisi navale del primo semestre dallo scoppio della pandemia

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Le seguenti idee potrebbero essere pro-dotte da considerazioni precoci, e non frutto di una necessaria recollection in

tranquillity, posteriore al passaggio di questa pandemia; nasce però spontaneo cominciare ad analizzare le interconnessioni tra la crisi del co-ronavirus e le attività navali, a esso contempora-nee, ed eventualmente, formulare delle ipotesi sull’evoluzione del contesto navale a breve ter-mine. Si è soliti definire in modo omnicompren-sivo, quel periodo di natura storica, sanitaria,

economica e sociale impattato dalla pandemia in questione: «crisi del coronavirus». Al fine di me-glio contestualizzare la trattazione è opportuno partire da una necessaria osservazione: la mag-giore parte delle potenze marittime si sono do-tate, negli anni del post-Guerra fredda, di «Marine di crisi» (1), perdendo i connotati clas-sici delle «Marine di guerra» (ridondanza nelle unità e capacità di operare dopo un «impatto a bordo»). Sorge naturale porsi il quesito: erano pronte le attuali «Marine di crisi» a rispondere alla destabilizzazione del coronavirus? Una crisi, la cui origine è molto dissimile dalle ipotesi di scenario strategico previste per i prossimi anni; se si esclude qualche serie televisiva (2) di suc-cesso, in cui lo strumento navale rappresentava l’isola sanificata e la sola capacità di proiezione in chiave antivirale. In particolare, molti modelli di scenario di crisi, prevedevano la destabilizza-zione sanitaria in paesi già colpiti da crisi sociali ed economiche, non nell’occidente dei «welfare state» e dell’«Obama care». La genesi della re-cente destabilizzazione non è sociale, nemmeno economica, tantomeno politica ma sanitaria. Il fattore sociale, al massimo, può essere reputato un vettore e un catalizzatore nell’espansione della crisi.

Lo scopo del presente elaborato è fornire, in forma miscellanea, ma con un denominatore co-mune, elementi per trattazioni puntuali più ap-profondite. La breve analisi in chiave navale, che cercherò di compiere, verterà sull’aspetto stru-mentale (navi e risorse umane), logistico (le ca-pacità di mantenere le navi in stato di prontezza operativa) e strategico (come cambiano, o po-trebbero evolversi, gli equilibri marittimi e na-vali a medio termine).

Navi ed equipaggi Poche «Marine di crisi», paradossalmente,

erano predisposte materialmente alla gestione del coronavirus in questo periodo storico, sia a livello di protezione dello strumento navale dalla pandemia, sia nel contrasto della pandemia

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«Le Marine al tempo del coronavirus hanno confer-mato il postulato che dove sulla terra ci si ferma, nel mare si avanza, infatti sono numerosi i teatri strategici in cui si sono affrontati dei competitor con strumenti navali. (…) La Marina italiana ha aperto un teatro operativo stabile nel golfo di Gui-nea e, in pieno confinamento, nave LUIGI RIZZO (qui nell'immagine), sventava un attacco di pirati su un mercantile battente bandiera greca».

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stessa. Nel combattere una minaccia batteriolo-gica, non ben definita, le Marine si sono ritro-vate a costruire uno scafo di una nave navigandoci sopra allo stesso tempo. Ci sono stati due leitmotiv navali contemporanei della diffusione del coronavirus, il primo è stato il di-slocamento preventivo di due «assetti pregiati» statunitensi: la USNS Mercy e la USNS Comfort, due navi ospedale (3), rischierate rispettiva-mente a Los Angeles e New York, per far fronte alla crisi. Tal evento è stato mediaticamente più visibile che qualsiasi carrier vessel strike group o amphibius task force rischierata in prossimità dello stretto di Hormuz o delle Isole Spratly. Da notare che un numero esiguo di Marine militari è dotato di questa tipologia di unità (4) e normal-mente, sono proprio le Marine «meno di crisi» a possederne alcune. Il secondo evento significa-tivo, che ha mostrato gli effetti della pandemia sullo strumento navale, è rappresentato dalla ge-stione della malattia a bordo della portaerei ame-ricana USS Roosevelt; senza trattare le diatribe mediatiche che hanno coinvolto l’evento, mi sof-fermo, simbolicamente, sul fatto che l’assetto pregiato della talassocrazia statunitense è venuto meno, proprio in quell’oceano esposto alle am-bizioni marittime cinesi (5). Tranquillizziamo gli

animi dei disfattisti navali occidentali ricordando che la Royal Navy ha saputo proteggere un impero, per almeno due secoli, con va-iolo, colera e malaria, a bordo delle proprie capi-tal ship. In generale le Marine hanno operato con mezzi terrestri nella ge-stione della crisi (ospedali da campo o fornendo un supporto logistico con gli assetti aerei ad ala ro-tante). L’unica missione interforze con la parteci-pazione di asseti navali,

degna di nota, concepita per il contrasto/con-trollo del coronavirus è l’operation Resilience (6), dispositivo francese nel quale un grande ruolo è stato svolto dalle unità portaelicotteri classe «Mistral», in grado di fornire supporto sanitario e logistico ai territori dell’outre-mer. Sicuramente dopo le navi ospedale, le unità an-fibie tuttoponte sono gli assetti navali più utili nella gestione della crisi sanitaria. Per alcuni aspetti esse hanno dei vantaggi sostanziali ri-guardo alle navi a vocazione prettamente ospe-daliera, quali la capacità di condurre operazioni di volo con un maggior numero di velivoli e la

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Le Marine militari al tempo del coronavirus

La USNS COMFORT schierata a New York per dare supporto al sistema sanitario cittadino. A causa di proble-matiche burocratiche, all’inizio della pandemia, il numero di ricoverati sarà esiguo (Seth Wenig, the asssociated press 2020).

Elicottero EH-101 della Marina Militare italiana durante un trasporto sanitario.

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possibilità di imbarcare materiale da proiettare sulla terra ferma (veicoli, ambulanze, gruppi elettrogeni, infrastrutture ospedaliere). La Ma-rina Militare è sempre stata all’avanguardia nella proiezione di aiuti umanitari a partire dalle proprie LPD/CV-STOVL (Landing Platform Dock/Craft Vehicle-Short Take-Off and Vertical Landing), lo dimostrano le esperienze (7) in Turchia (1997), Haiti (2010), Libia (2011) e il recente intervento in Libano in seguito al-l’esplosione nel porto di Beirut. In generale, no-nostante alcune predisposizioni «umanitarie» presenti sulle unità di scorta (cacciatorpedi-niere, fregate e pattugliatori) è difficile che esse possano compiere missioni umanitarie su larga scala, di conseguenza il loro impiego, nel pe-riodo della pandemia, è stato molto limitato e incentrato su operazioni puntuali.

Strutturalmente, l’unità navale, soprattutto in navigazione, è un elemento facilmente isolabile dalla minaccia virale, ma al contempo, può dive-nire, in un brevissimo lasso temporale, un cluster pandemico significativo, qualora il virus pene-trasse a bordo e non venisse prontamente isolato. Dal punto di vista organizzativo, sono state in-

centivate misure di confina-mento preventivo e con-trollo, al fine di tutelare il patrimonio umano degli equipaggi, sollecitando le Marine militari, nell’aspetto economico e logistico, a do-tarsi di infrastrutture per la salvaguardia e la tutela del personale. Nell’ambito tat-tico, alcune operazioni che richiedono l’interazione con l’esterno quali boarding e passex sono state notevol-mente ridotte. Il problema sanitario, nel mondo navale, va individuato maggior-mente nel fattore psicolo-gico, infatti, almeno per il

personale imbarcato, si considera che esso goda di una buona salute e sia facile da proteggere, tramite la barriera fisica rappresentata dal mare stesso. Gli equipaggi sono addestrati e pronti al combattimento (anche in contesti di minaccia batteriologica), ma impreparati a operare per lungo tempo in un contesto degradato da una crisi interna al proprio paese, la quale potrebbe colpire i propri affetti a terra. Nel mondo militare moderno, almeno nei paesi occidentali, si è soliti operare in modo scisso dai problemi familiari. Il nemico è sempre stato esterno, ben delimitabile (anche nel caso della minaccia terroristica) e lon-tano dal proprio contesto sociale di origine. Con la crisi del coronavirus, la malattia e la destabi-lizzazione interna possono essere metaforica-mente «imbarcate a bordo delle unità navali per lunghe missioni», con ripercussioni psicologiche e motivazionali impattanti per il personale. In sintesi, per un equipaggio è più facile accettare di «combattere il coronavirus» (visto come mi-naccia virale esterno), che «combattere nel coro-navirus» (fattore di destabilizzazione interno).

Paradossalmente, dal punto di vista cantieri-stico, molte Marine militari hanno risposto alla

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Hangar di un’unità francese classe «Mistral» durante operazioni di trattamento di un malato (Thibaut Claisse/Marine Nationale/Armees).

Le Marine militari al tempo del coronavirus

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crisi sanitaria, non con strumenti «duali», come si poteva ipotizzare al principio della crisi, ma con un navalismo convenzionale molto pronun-ciato. Nel 2020, nonostante la crisi economica successiva all’ondata virale si sono concretizzati importanti progetti navali. La Russia ha messo in produzione circa 40 navi (8) mentre la Cina pro-segue il suo massiccio programma (9) di arma-mento navale incentrato particolarmente su navi di proiezione strategica (LHD - Landing Heli-copter Dock, portaerei e cacciatorpediniere). Anche le Marine anglosassoni (Stati Uniti, UK, Canada e Australia) hanno visto un incremento nell’industria della difesa marittima. Gli Stati Uniti perfezionano lo strumento aeronavale con forti investimenti nei droni marittimi e nella cyber defence, considerando di possedere già una netta superiorità nell’hardpower militare. La Royal Navy, nel 2020, ha in costruzione gli ul-timi 2 SSN «Astute», il primo SSBN Dread-nought e le nuove fregate «Type 23» e «31». Parlare delle grandi potenze navali può sembrare però poco provante, di conseguenza, se si ana-lizza il panorama navale delle potenze regionali e degli Stati emergenti, si possono osservare, allo

stesso modo, importanti programmi di riarmo na-vale. Le potenze emergenti, le cui ambizioni sono state accompagnate da una politica navale-industriale forte, sono in particolare: Turchia (10), Pakistan (11), Egitto, Brasile (12), Qatar, Corea del Sud (13) e India (14). Occorre preci-sare che si tratta di Stati che per lo più avevano già intrapreso un programma di riarmo navale negli ultimi anni, ma che non solo non hanno visto significativi rallentamenti, anzi hanno ac-celerato e accresciuto molti progetti in atto. Anche la cantieristica italiana ha avuto modo di affermarsi in questo contesto di riarmo navale; lo confermano il progetto FFX con l’US Navy, l’in-teresse egiziano verso le FREMM (Fregate Euro-pee Multi Missione) italiane, i pattugliatori e i sommergibili per il Qatar e infine il proseguo della seconda tranche della Legge navale (15).

Combat readiness

Compiuta una rapida analisi su mezzi ed equi-paggi, ci soffermeremo ora sulla loro predisposi-zione al contesto operativo, ovvero nei termini di efficienza e addestramento.

La crisi del coronavirus ha messo in luce alcuni

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Le Marine militari al tempo del coronavirus

Varo di un’unità portaelicotteri anfibia cinese type 075. La classe sarà formata da 3 unità (south china morning post/Weibo).

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limiti delle moderne Marine militari occidentali, in particolare il loro rapporto interdipendente con l’industria del comparto della difesa, soprattutto per ciò che concerne l’MCO (mantenimento in condizioni operative), infatti, negli ultimi anni, si è registrata la tendenza ad affidarsi al comparto in-dustriale privato a scapito delle capacità arsenali-zie militari. Nel periodo della pandemia, i protocolli sanitari applicabili ai militari non sono gli stessi messi in atto nel mondo dell’industria ci-vile, elemento indispensabile nei moderni contratti di manutenzione, di conseguenza si sono avuti molti casi di «equipaggi sani e navi malate». Nella così definita: «fase due» del coronavirus, si è as-sistito a due eventi mediatici importanti: l’incendio del sommergibile nucleare d’attacco francese Perle (16) e l’incendio della LHD USS Bonhomme Ri-chard (17). Due eventi sicuramente stocastica-mente indipendenti dal contesto sanitario, ma che hanno segnato emblematicamente il de-confina-mento delle Marine militari occidentali dal periodo del coronavirus». Un altro aspetto della prepara-zione operativa che è stato particolarmente colpito dalla malattia è l’ambito esercitativo. Molti eventi addestrativi nazionali sono stati annullati nel se-condo trimestre dell’anno, con impatti negativi sulla preparazione degli equipaggi e l’organizza-zione di strutture di comando.

Le esercitazioni aeronavali sono un indice della salute di una politica marittima, esse hanno la possibilità di veicolare dei messaggi geopoli-tici importanti. Una premessa necessaria, consi-ste nell’osservare come, nei periodi di deflagrazione della pandemia, si sia assistito a un calo di esercitazioni maggiori (18), che però è stato nettamente compensato dalle attività adde-strative estive e autunnali. Gli Stati interessati a ribadire il proprio ruolo strategico hanno cercato di mantenere i loro impegni esercitativi come monito, in eventuali mutamenti di scenario post-pandemici. In ambito NATO si evidenzia una ri-sposta positiva con lo svolgimento di alcune esercitazioni maggiori: Defender-Europe 2020, con il più grande dispiegamento di forze statuni-tensi sul suolo europeo negli ultimi 25 anni (19), Dinamic Mongrose, esercitazione aeronavale in-centrata sulla lotta sottomarina nel GIUK Gap e Dynamic Mariner, con lo scopo di certificare la prontezza operativa dello Stato Maggiore marit-timo NATO a guida francese. La maggiore eser-citazione del teatro pacifico, RIMPAC (20), si è svolta con successo anche se con alcune restri-zioni dovute al coronavirus. Le Marine di Russia, Iran e Cina non sono state certo inattive. Quella russa, oltre ad aver rispettato l’appuntamento an-nuale della Ocean Shield, ha svolto molteplici

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Le Marine militari al tempo del coronavirus

Unità russe durante l’esercitazione «Ocean Shield-20» (Russian Ministry of Defence).

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esercitazioni nei «mari caldi» con partner locali: Egitto (21) e Iran (22) su tutti. La Marina ira-niana ha recentemente svolto la dimostrazione annuale di sea control nello stretto di Hormuz, e testato il suo missile antinave Quader (23). La Marina della Repubblica Popolare Cinese ha con-dotto innumerevoli esercitazioni navali, con due intenti fondamentali: dimostrare il sea denial ri-spetto alla settima flotta americana, quindi te-stare l’efficacia di batterie costiere e fregate missilistiche e affermare il sea control dei mari rivendicati, nei confronti delle potenze asiatiche limitrofe (Giappone, Indonesia, Corea del Sud, India e Australia). L’esercitazione navale JIMEX (24), organizzata dalla Marina nipponica e in-diana è una risposta, a tenaglia, alle ambizioni navali cinesi in area.

Contesto strategico

Le Marine al tempo del coronavirus hanno confermato il postulato che dove sulla terra ci

si ferma, nel mare si avanza, infatti sono nume-rosi i teatri strategici in cui si sono affrontati dei competitor con strumenti navali. Alcuni pro-cessi erano già iniziati, o in programma, ma la crisi sanitaria è stata un catalizzatore strategico significativo tanto da velocizzarne il corso. L’evento navale che ci ha colpito più da vicino è stata l’attività della Marina turca nel Mediter-raneo centrale e orientale, tra Cipro e Libia, tra-ducendo in atto quelle teorie che erano, fino a pochi mesi fa, solamente in potenza (25). La Turchia ha saputo mantenere in mare un dispo-sitivo aeronavale composto per la maggioranza da vecchie fregate statunitensi «Oliver Perry» per tutto il periodo del lock-down dimostrando una buona preparazione logistica e una forte re-silienza. In quasi contemporanea, la Francia, con alcuni partner europei, lanciava la missione EMASOH (European-led mission Awareness Strait of Hormuz) «Agenor» creando l’alterna-tiva europea (26) nel teatro del Golfo Persico

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Le Marine militari al tempo del coronavirus

Luglio 2020, durante l’esercitazione «Great-Prophet 14» i Guardiani della Rivoluzione hanno svolto una serie di attacchi asimmetrici congiunti e coordinati contro una riproduzione ridotta di una portaerei statunitense (Sepahnews).

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(27). Nelle medesime acque, nel settembre 2020, faceva ingresso il carrier vessel battle-group della USS Nimitz che, nel contesto del-l’operazione Inherent Resolve, riportava una

portaerei americana in Golfo Persico dopo dieci mesi di assenza (28). La Marina italiana ha aperto un teatro operativo stabile nel golfo di Guinea e, in pieno confinamento, nave Rizzo,

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Le Marine militari al tempo del coronavirus

Agosto 2020, unità della Marina Militare turca scortano l’unità di prospezione sottomarina ORUÇ REIS. Le interazioni cinematiche fra la Marina greca e quella turca porteranno alla collisione tra la fregata greca LIMNOS e quella turca KAMAL REIS (turkish defence ministry/AFP/getty Images).

Settembre 2020, il carrier vessel battle group della USS NIMITZ entra nel Golfo Persico, immagine scattata da un drone iraniano (Tasnim News).

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sventava un attacco di pirati su un mercantile battente bandiera greca (29). Mentre la Marina della Repubblica Popolare Cinese, si radica nel Corno d’Africa partendo dal contesto dell’anti-pirateria (30), la quella indiana inizia un’assi-dua attività di pattugliamento nello stretto di Malacca fino al Mar Cinese Meridionale (31). Si osserva quindi che, nonostante la riduzione del volume del commercio marittimo dovuta alla crisi economica, la fascia del rymland (32) risulta particolarmente interessata da nuove operazioni navali, confermando quanto il coro-navirus abbia stimolato politiche navali di stampo militare.

Conclusioni

Dagli elementi di cui disponiamo, la crisi del coronavirus è l’evento storico che ha interrotto l’epoca delle «Marine di crisi» per confermare un ritorno a un navalismo più incentrato al com-battimento; processo già avviato nell’ultimo triennio, ma accelerato dalle opportunità geopo-

litiche fornite dalla crisi sanitaria. Il neo inse-diato Capo di Stato Maggiore della Marine Na-tionale, l’ammiraglio Pierre Vandier, ha ipotizzato, durante un intervento nell’Accademia navale francese (33), un ritorno al combattimento navale ad alta intensità, espletato con mezzi e tecniche convenzionali; tale affermazione che può fare eco alle recenti tensioni in Mediterraneo dimostra una forte ipotesi di ritorno allo scontro simmetrico e un abbandono della vocazione prio-ritariamente duale, dello strumento navale. Il «navalismo da confronto» non va inteso come la mera produzione tecnico-industriale di navi, ma un insieme più complesso di processi: addestra-mento, dottrina d’impiego e pensiero strategico. Nonostante un primo tempo, si sia pensato a un blocco degli investimenti nel comparto della di-fesa e a un calo dell’attività navale militare nel mondo, si è osservato, al contrario, un netto au-mento delle interazioni aeronavali, sia in ambito esercitativo, sia operativo, dall’inizio della pan-demia. Gli scenari esercitativi propongono tema-

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Le Marine militari al tempo del coronavirus

Nave LUIGI RIZZO in attività di antipirateria nel Golfo di Guinea.

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tiche sempre più incentrate sul combattimento aeronavale tridimensionale (WASEX: war at sea exercise). Gran parte degli Stati marittimi ha uti-lizzato la propria flotta come emblema della sa-nità di quel particolare territorio, infatti, il poter svolgere un’operazione aeronavale in tempo di crisi è il paradigma di un apparato militare che non si ferma nonostante il confinamento; le ma-novre navali sono, ora più che mai, un emblema delle capacità di uno Stato nel reagire alla pan-

demia. Mentre sulla terraferma si osservava un periodo di stasi dovuto alla malattia, se si esclude il riacuirsi di alcuni contenziosi locali (Nagorno-Karabakh), sul mare si decide la fisio-nomia del mondo a medio termine; lo strumento navale, accompagnato da una strategia marittima coerente e una valida dottrina di impiego, sarà quindi il fattore determinante per ristabilire, a proprio vantaggio, gli equilibri internazionali post-covid. 8

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NOTE (1) Marine a vocazione duale, che spesso hanno mezzi in numero ridotto (una decina di fregate di primo rango) con standard qualitativi non militari e la cui peculiarità sociale (controllo dei traffici commerciali, disaster relief, search and rescue, humantarian support) è preponderante rispetto alle capacità strettamente militari. L’ar-mamento risulta focalizzato alla difesa contro la minaccia di tipo asimmetrico e all’interdizione marittima. (2) The Last Ship, serie TV creata da Hank Steinberg e Steven L. Kane, incentrata sull’equipaggio di un cacciatorpediniere classe «Arleigh Burke» chiamato ad af-frontare una crisi sanitaria globale. (3) Definite secondo l’art. IV, Convention for the adaptation to maritime war of the principles of the Geneva Convention, 18 ottobre 1907. (4) Le navi ospedale più grandi nel mondo sono una ventina, la Repubblica Popolare Cinese ne detiene il numero maggiore (tre classe «Nankang», un’unità classe «Zhuanghe», la Daishan Dao e il progetto 320 nato dalla nave russa Ob). (5) Federico Peroni, Il virus sulla Roosevelt: come sguarnire il fianco del Pacifico alla Cina, Limes, 10 aprile 2020. (6) www.defense.gouv.fr/english/actualites/articles/covid-19-lancement-de-l-operation-resilience. (7) www.marina.difesa.it/cosa-facciamo/per-la-difesa-sicurezza/operazioni-concluse/operazioni-umanitarie/ Pagine/operazioni-umanitarie.aspx (8) «Project 22350», corvette «project 20380», «20385», «20386» e «21631», corvette lanciamissili «project 22800» e «22160» e infine, cacciamine «project 12700», il sottomarino nucleare d’attacco «project 08951» e altri sottomarini lanciatori di missili balistici. (9) Rear admiral Michael A. McDevitt, US Navy, China’s Navy Will Be the World’s Largest in 2035, Proceedings, febbraio 2020. (10) La portaeromobili Anadolu entrerà in servizio quest’anno e avrà una vocazione molto innovativa quale drone-carrier. (11) Il 9 giugno 2020 è avvenuto il taglio della prima lamiera delle nuove corvette pachistane MILGEM di concezione ed esportazione turca. (12) Il 4 marzo 2020 il Brasile stipula il contratto con il consorzio Thyssen-Krup Marine System per la realizzazione delle 4 fregate classe «Tamandaré» originate dalle MEKO A-100. (13) La Corea del Sud, nel luglio 2020, ha lanciato la gara per la realizzazione di nuovi cacciatorpediniere classe «KDDX» e ha in progetto l’acquisizione di una portaerei leggera per i prossimi F-35. (14) Nonostante un ridimensionamento in riduzione del budget dedicato ai progetti navali, nel settembre 2020 si è svolto il taglio della prima lamiera della prima fregata «project 11356» costruita in India. Proseguono programmi navali massici in termini di SSBN Arhiant, gli SSK «Kalvari», e la portaerei Vikrant inizierà le prove in mare nel prossimo dicembre. (15) Servizio Studi Camera dei Deputati, Utilizzo contributi pluriennali - Programma navale, Atto del Governo n. 128, XVII legislatura. (16) Le Monde, Le sous-marin «Perle» incendié, une perte majeure pour les opérations de la Marine, 15 giugno 2020. (17) The New York Times, Navy Warship Is Still Ablaze, and Now Tilting to One Side, 13 luglio 2020. (18) Degno di nota è il dispiegamento di carattere operativo/esercitativo del Groupe aeronaval della portaerei francese Charles de Gaulle nella missione Foch, ove si è registrato uno dei primi «scontri navali» contro il coronavirus. (19) https://shape.nato.int/defender-europe. (20) RIMPAC 2020, Public Affairs, Multinational exercise Rim of the Pacific 2020 concludes, 31 agosto 2020. (21) Daily News Egypt, Egypt, Russia conduct joint naval drills in Black Sea until 2020 end, 10 ottobre 2020. (22) Esercitazione Kavkaz-20, svolta nello scenario caucasico e del mar Caspio. Come emerge dalla stampa russa, l’esercitazione ha dimostrato interoperabilità con le forze cinesi e iraniane dispiegate in area. Inoltre, il ministro della Difesa russo e il corrispettivo iraniano hanno siglato accordi per una maggiore attività congiunta nel Golfo Persico. Fonte: The Jameston Foundation: Russia, Iran Expand Military Cooperation Against US and Europe in Gulf, 1o ottobre 2020. (23) Già un test missilistico si è svolto il 10 maggio 2020 dalla Repubblica Islamica, e ha portato al quasi affondamento della nave ausiliaria Konarak per un caso di fuoco amico. Nonostante l’Iran sia stato uno dei paesi mediorientali più colpiti dalla pandemia, ha avuto comunque luogo lo show of force mediatico che ha visto l’at-tacco alla riproduzione di una portaerei statunitense da parte dei Guardiani della Rivoluzione. (24) Japan Forward, Rupakjyoti Borah, The Importance of the India-Japan JIMEX 20 Naval Exercises, 7 ottobre 2020. (25) Concetto strategico di «Patria Blu». Marco Ansaldi, Conversazioni con l’ammiraglio Gürdeniz, Limes, «Il turco alla porta» n. 7, 2020. (26) Al momento rappresentato da Francia, Olanda e Danimarca. (27) Esiste già una missione a guida anglo-statunitense facente parte dell’organizzazione International Maritime Security Construct. (28) Sam LaGrone, USS Nimitz now operating in the Persian Gulf, USNI, settembre 2020. (29) Francesco Grignetti, Nave Italiana sventa attacco di pirati al largo della Nigeria, La Stampa, 27 marzo 2020. (30) Nel corso del 2020 si è assistito all’avvicendamento di due surface escorting group, il 35th e il 36th. (31) Sneash Alex Philip, China, India signal each other on might in Indian Ocean Region, amid tensions on land, The Print, 18 settembre 2020. (32) Nicholas John Spykman, The geography of the peace, Harcourt, Brace 1944. (33) Laurent Lagneau, Général Lecointre: «L’histoire nous apprend que le risque le plus grave est celui qu’on ne veut pas voir venir», OPEX 360, 13 settembre 2020.

Le Marine militari al tempo del coronavirus

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SAGGISTICA E DOCUMENTAZIONE

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La biografia di Armando Gori, il nonno materno da cui ho preso il mio nome un po’ inusuale, po-trebbe sembrare uno spot per convincere i gio-

vani ad arruolarsi nella Marina Militare. Figlio di piccoli proprietari terrieri in una frazione di Vicchio nel Mugello, era destinato, come i suoi fratelli, a seguire un percorso

tracciato, dedicandosi alle terre e a qualche attività com-merciale, nell’ambito culturalmente e geograficamente limitato, soprattutto all’inizio del ‘900, di quest’area, pe-raltro bellissima e ricca di storia e di arte, sull’Appennino tosco-emiliano. La scelta di arruolarsi in Marina, nel 1906, a 18 anni, gli ha aperto un mondo di opportunità, lo ha portato a formarsi con una solida preparazione tec-nica e professionale, a compiere viaggi in terre lontane, dall’Africa all’Estremo Oriente, a prendere parte a nu-merose azioni belliche, tra le quali la famosa impresa di Premuda, a vivere l’esaltante avventura di una Campagna oceanica in Sud America, a partecipare addirittura a un film, in cui, a fianco di Luigi Rizzo, interpreta se stesso nella ricostruzione dell’evento. Certo la sua carriera, ini-ziata in modo così promettente, non ha avuto poi uno svi-luppo altrettanto brillante, ma l’ascesa del fascismo e gli avvenimenti successivi sicuramente non hanno favorito un uomo semplice, poco incline agli intrighi politici, spinto non dall’ambizione e dal desiderio di emergere, ma da un leale e profondo attaccamento alla Marina Mi-litare e da una sconfinata passione per i viaggi e per il mare. Comunque, anche le meno prestigiose vicende suc-cessive, i numerosi imbarchi nel Mediterraneo, il periodo in Africa, l’impegno nella Seconda guerra mondiale, sempre nella zona coloniale, la lunga prigionia in India, e gli ultimi difficili anni nel disastrato panorama econo-mico e sociale dell’Italia, rendono tutta quanta la vita di quest’uomo estremamente interessante ed esemplare; le sue vicende personali rispecchiano, infatti, i principali avvenimenti dei primi cinquant’anni del ‘900, in un in-tenso dialogo tra grande storia e microstoria.

Tutto ciò è stato ricostruito accuratamente grazie a un ricco archivio conservato con religiosa cura dal-

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L’articolo illustra la vita di Armando Gori, eroe della Grande guerra, uno dei protagonisti dell’impresa di Premuda del 10 giugno 1918, data scelta in seguito come festa della Ma-rina. Utilizzando numerosi documenti dell’ar-chivio familiare, l’autrice mette in luce i punti salienti di un’esistenza tutta dedicata alla Pa-tria, alla Marina Militare e alla vita sul mare: la nascita in un paesino dell’Appennino tosco-emiliano, il desiderio di una vita di-versa, l’arruolamento, i primi viaggi in Oriente, la partecipazione alla guerra di Libia e poi alla Prima guerra mondiale, il lungo ser-vizio nel Mediterraneo e in Africa, la Seconda guerra mondiale e la prigionia, vicende esal-tanti e vicende drammatiche. Allargando lo sguardo al contesto dell’epoca, si sottolinea il continuo intrecciarsi della storia individuale di Gori con la grande storia dei primi cinquan-t’anni del Novecento. Le immagini contenute nell’articolo provengono dall’archivio della fa-miglia Gori (dove non diversamente indicato).

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La vita di uno dei protagonisti dell’impresa di Premuda

(*) Laureata in Lettere all’Università di Genova, insegna Storia dell’arte negli istituti di istruzione secondaria superiore. Nel 2000 si è laureata in Storia con una tesi sul nonno materno, dal titolo Armando Gori e l’impresa di Premuda tra storia e mito - dalle carte dell’archivio familiare (relatore, il prof. Antonio Gibelli). Tra i numerosi progetti didattici e percorsi di alternanza scuola/lavoro che ha curato, si evidenzia l’organizzazione di due mostre sulla figura di Armando Gori.

(*) Armanda Bertini

Armando Gori un eroe dimenticato

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l’unico figlio maschio, Antonio, che nel 2000 è stato per me indispensabile consulente nella stesura di una tesi di laurea in storia, sulla vita di mio nonno, ripercorsa attraverso il materiale conservato nell’archivio fami-liare, integrato dalle fonti orali, in quegli anni ancora disponibili. Ed è proprio partendo da questa tesi, a lungo rimasta nel cassetto e ripresa in mano solo recente-mente, dopo la morte dello zio, che inizio ora a raccon-tare le principali tappe della biografia di mio nonno.

La formazione

Dell’infanzia di Armando Gori, nato il 25 luglio 1888 a Molezzano, frazione di Vicchio (Firenze), non ci resta alcuna immagine, e anche le notizie sono piuttosto scarne. Sappiamo che, conclusi con qualche ritardo gli studi obbligatori, viene mandato a prendere lezioni di la-tino e italiano dal pievano di Vaglia, Francesco Piattoli, figura di primo piano del movimento cattolico nel Mu-gello. C’è evidentemente in lui l’aspi-razione a qualcosa di diverso rispetto alle modeste prospettive che la sua con-dizione familiare gli offre, un profondo desiderio di evasione che lo porta, pro-babilmente attratto dal fascino della Marina Militare, il 18 ottobre 1906, ad arruolarsi nel Corpo reale equipaggi, in qualità di «marinaio con ferma di anni quattro», matricola 26465, presso il de-posito della Spezia. Inizia così un pe-riodo di formazione e di esperienze molto importanti: il primo imbarco sulla RN Ammiraglio Saint Bon; le numerose traversate, prima nel Mediterraneo, poi, passato al deposito di Ta-ranto, sulla RN Caprera, in Africa. Questi primi viaggi sono documentati, oltre che attraverso il foglio matrico-lare, anche grazie a un minuscolo taccuino scritto di suo pugno con l’elenco minuzioso dei porti toccati nella na-vigazione, Paesi visitati e miglia percorse durante il mio servizio. Di questo periodo rimane una prima fotografia fatta a Zanzibar che mostra un sorridente marinaretto. Mentre effettua questi lunghi viaggi, supera gli esami per diventare sottocapo timoniere con una media di punti

18,1 su 20. Il programma è molto duro, anche perché se-guito a bordo, in costante servizio e con il caldo torrido. Sbarcato a Taranto nel 1909, riparte per un’altra serie di viaggi, questa volta nel Mediterraneo, prima sulla RN Montebello, poi sulla Tripoli. Nel 1910 viene promosso sottocapo timoniere e ovviamente continuano gli imbar-chi, questa volta sulla RN Andrea Doria. Sono anni in-tensi che culminano con l’entusiasmante opportunità di partecipare a un viaggio di formazione (una sorta di stage) nel lontano Oriente, una Campagna oceanica in Cina, Giappone e Singapore. Dopo ventotto giorni di na-vigazione sul piroscafo tedesco Princesse Alice, giunto alla metà, Shangai, si imbarca sulla RN Calabria: il ser-vizio ricomincia. Tra i porti toccati ricordiamo Ching

Wang Tao, Port Arthur, Vladivostok, Hakodate, Yokohama, Kobe, Miya-jima, per poi tornare a Shangai. Attra-verso questi continui spostamenti, ha la possibilità di entrare in contatto con la multiforme realtà asiatica che lo affa-scina profondamente; lo testimonia un tema scritto successivamente, durante il corso di formazione seguito nel 1913, dal titolo: «Qual è il più bel viaggio che avete compiuto da quando siete in ma-rina. Descrivetelo brevemente», nel quale Gori parla del viaggio di trasferi-mento verso Oriente, raccontandolo con dovizia di dettagli e anche con ri-flessioni autobiografiche, cosa assai rara per lui, incline a un’esposizione asciutta e impersonale. L’inizio è parti-colarmente illuminante: «Dietro mia

domanda di lunga Campagna inoltrata al ministero della Marina, venni mandato al Deposito C.R.E. di Napoli per imbarcare su di un transatlantico per raggiungere la nave in cui dovevo imbarcare, la quale si trovava in Cina. Il 2 giugno 1911 lasciai il Deposito per imbarcarmi sul piroscafo Principessa Alice che trovavasi ormeggiato nel porto militare. Alle ore 24 dello stesso giorno si lasciò Napoli diretti a Port-Said. Benché la domanda di lunga Campagna l’avessi fatta di mia spontanea volontà, al momento di lasciare le sponde della madrepatria ne fui commosso: pensavo al lungo tempo che sarebbe tra-

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Armando Gori, un eroe dimenticato

Armando Gori a vent’anni. La fotografia è stata scattata a Zanzibar il 25 dicembre 1908 e stampata a Venezia. In apertura: fotografia in uniforme con dedica al suocero (Cesena, 23 giugno 1922).

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scorso avanti di rivederla e a stento potei trattenere le lacrime che mi affluivano agli occhi. Passato il momento critico del distacco, riacquistai la mia abituale calma in-coraggiandomi al sol pensare che avrei visto nuove terre, nuovi mari e nuovi costumi a me del tutto sconosciuti e sarei riuscito ad appagare il desiderio tanto vagheggiato fin dall’infanzia». In ricordo di questo viaggio, destinato a rimanere scolpito nella sua memoria come qualcosa di leggendario, raccoglie una piccola collezione di circa 200 cartoline, interamente conservata, alcune delle quali molto belle o curiose (1).

Mentre la RN Calabria, a Shangai dal 16 settembre 1911, si prepara a risalire lo Yang-Tze, per la program-mata visita ad Han-Kow, riceve, in data 26 settembre,

l’ordine telegrafico ministeriale di approntarsi in vista dell’imminente apertura di ostilità con la Tur-chia. Quattro giorni dopo parte per il Mar Rosso. Finisce così, prima del tempo, la Campagna ocea-nica in Estremo Oriente. Dal 6 novembre la nave rimane per cinque mesi agli ordini del Comando superiore navale in Mar Rosso, compiendo nume-rose missioni di guerra tra cui il bombardamento del forte Akabah, nella penisola del Sinai, e la ricerca di navi sospette con la conseguente cattura di tre piroscafi carichi di contrabbando diretti ai porti nemici. È pos-sibile seguire le operazioni militari grazie al taccuino di Armando Gori nel quale registra diligentemente i luoghi. Esso si conclude alla fine del 1913.

Sono rimasti anche due componimenti relativi a que-

sto periodo di guerra (sempre inerenti al corso di perfe-zionamento di cui parleremo tra breve): è curioso notare che Gori, il quale aveva scritto in modo ampio ed entu-siastico dei suoi viaggi, quando descrive le azioni in guerra è molto più stringato, al punto da ricevere un ri-chiamo dal suo insegnante del corso di perfezionamento. Usa invece un linguaggio più partecipe quando descrive un atto di eroismo. Nel primo di questi due temi: «De-scrivete brevemente gli avvenimenti principali ai quali avete assistito sulla vostra nave durante la guerra italo-turca», il racconto del bombardamento del Forte Warmer si risolve in poche righe. Il secondo invece, dal prolisso titolo: «Parlate di un atto di valore compiuto da un mili-tare essendo voi presente o a bordo della nave in cui era-

vate imbarcato e dei sentimenti che esso vi ha suscitato nell’animo», racconta in modo forse un po’ retorico, ma sicuramente più personale, il dif-ficile salvataggio della Bandiera caduta in mare da parte di un eroico compagno. Queste compo-sizioni sono tra le poche testimonianze di scrit-tura di Gori che in genere si limita a scrivere semplici lettere ai suoi familiari.

Il 18 aprile 1912 rientra a Venezia, dopo circa

nove mesi di permanenza all’estero, ma solo per reim-barcarsi, tre giorni dopo, sulla RN Vespucci diretta in Libia per proseguire la guerra. All’epoca, la nave è anche adibita a Scuola mozzi e, a questo proposito, in un altro componimento dal titolo «Riferite per iscritto all’ufficiale di rotta circa l’indirizzo e l’andamento delle scuole pro-fessionali dei timonieri di cui siete istruttore, sui risultati ottenuti e sulle proposte che ritenete opportune», Gori ri-

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Cartoline acquistate durante la Campagna in Oriente nel 1911, fanno parte di una collezione di 200 pezzi.

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corda le sue mansioni: «Sottoistruttore degli allievi 1a squadra, prendendo parte agli esercizi e alle scuole che giornalmente si facevano mantenendo il buon ordine du-rante le istruzioni. Durante le manovre alla vela disim-pegnavo il servizio al timone; al posto di manovra, di combattimento e d’incendio ero destinato alla plancia ai segnali. Nelle ore di riposo esercivo la vendita della coo-perativa marinai». Questa sua predisposizione a gestire le attività commerciali, organizzative, di approvvigiona-mento, adatta alla sua indole pratica e attiva, rimarrà una costante nella sua vita, tanto che del suo periodo di pri-gionia in India sono rimasti molti quaderni di contabilità.

Alla fine della guerra, Armando Gori può appuntare sulla sua divisa il nastrino di Campagna significante l’au-torizzazione a fregiarsi della medaglia della guerra libica, con brevetto n. 9969. Dopo questa parentesi bellica, pro-segue il suo percorso formativo, con la frequenza sulla RN Italia del corso di perfezionamento a Secondo capo timoniere per il quale risulta idoneo con una media di 16,07 su 20 (O.G. Com. CRE del 30 gennaio 1914). Di questo corso rimangono numerose testimonianze, sia i temi cui abbiamo già fatto riferimento, sia esercizi di ca-rattere più tecnico, di navigazione, di procedure di segre-teria o di segnalazioni. In particolare colpisce lo svolgimento del componimento: «Dite se preferite essere destinati sul naviglio silurante o sopra una nave da batta-glia e quali sono le ragioni della vostra preferenza», in cui dichiara che preferisce imbarcarsi su una grande nave da guerra perché «c’è sempre la possibilità che essa venga destinata a compiere una lunga Campagna all’estero». L’impresa di Premuda

Ma il momento culminante della sua carriera sta per realizzarsi: scoppiata la Prima guerra mondiale, Gori, contraddicendo la preferenza espressa nel tema appena citato, decide di passare al Corpo dei MAS (2), probabil-mente attratto dalle notevoli potenzialità di questo piccolo motoscafo veloce e maneggevole, fortemente sostenuto dall’ammiraglio Thaon di Revel come mezzo d’assalto ideale per opporsi alle possenti corazzate della Marina austro-ungarica. Fa le sue prime esperienze di comando sul MAS 17 della 2a Squadriglia a Grado, poi sul MAS 55 della 4a Flottiglia di Ancona, effettuando incessanti missioni di agguato notturno. Passa poi a comandare il

MAS 15, sostituendo il capo timoniere Nicola Marotta, destinato provvisoriamente a Venezia per altre mansioni.

Chi legge questa Rivista sicuramente non ha bisogno che io racconti l’impresa di Premuda, che è nota a tutti come l’azione marittima più significativa compiuta dalla Marina Militare italiana, determinante per gli sviluppi successivi, poiché risollevò il morale dell’Esercito, aprendo la strada a quella che fu battezzata da D’Annun-zio la «Battaglia del solstizio». Sembra comunque op-portuno narrarla per sommi capi: il MAS 15 era partito la sera del 9 giugno da Ancona, insieme al MAS 21; a bordo era imbarcato anche il capitano di corvetta Luigi Rizzo («l’affondatore», secondo il soprannome nuova-mente coniato dall’inesauribile creatività di D’Annunzio, che lo definì anche «il solitario asceta marino della pa-tria»). Dopo aver compiuto ordinari lavori di sminamento e controllo, i due MAS si misero in attesa finché un «fumo nero all’orizzonte» (3) denunciò che qualcosa si stava muovendo nel panorama tranquillo, avvolto nella nebbiolina di primo mattino. Si trattava di due imponenti corazzate, la Tegetthoff e la Szent István, accompagnate da 6 torpediniere e un cacciatorpediniere, che, partite da Pola, stavano scendendo verso sud per riunirsi ad altre corazzate già pronte per attuare lo sfondamento dello sbarramento di Otranto, secondo l’ambizioso piano ela-borato dall’ammiraglio Miklós Horthy. L’azione fu ful-minea, i due MAS si avvicinarono silenziosamente, poi dal MAS 15, portatosi a circa 300 metri della Szent István, furono lanciati due siluri che colpirono la grande nave su un fianco facendola affondare nel giro di poco più di due ore, mentre il siluramento della Tegetthoff da parte del MAS 21 fallì e la nave poté rientrare a Pola. Il piano di Horthy fu immediatamente cancellato.

L’azione ebbe questo risultato eccezionale sia per una buona dose di fortuna (il ritardo delle unità austro-unga-riche, unito a un guasto del motore del MAS 15 fece sì che l’incontro fortuito potesse avere luogo), sia per l’ar-dimento incredibile del capo Sezione Rizzo che fu asse-condato con grande perizia dal capo timoniere Armando Gori; ma non va dimenticato il contributo di tutto il pic-colo equipaggio, in particolare del fuochista Salvatore Annaloro che, riparando prontamente il motore, rese pos-sibile l’impresa. Il ruolo cruciale avuto da Gori viene sot-tolineato, con un linguaggio enfatico e impetuoso, da

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Vittorio G. Rossi nel libro Le streghe di mare del 1930 («la faccia solitamente pacata di Gori è compressa dalla violenza dell’attenzione: è piegata sulla ruota del timone ch’egli governa a piccole scosse, un occhio alla prora l’altro al fumo lontano, vigile e accorto come se guidasse un cavallo ombroso e bizzarro sopra una stretta passe-rella gettata attraverso un precipizio»), e viene ricordato, con insolita precisione storica, anche da un fumetto pub-blicato sul Corriere dei Ragazzi del 1972 (4).

Egli si trova così a essere uno dei protagonisti di un’azione destinata a entrare nella storia e viene fatto og-getto di numerosi riconoscimenti: in particolare riceve la MAVM, come gli altri membri dell’equipaggio (Luigi Rizzo e Giuseppe Aonzo, comandante del MAS 21, ot-tengono invece la MOVM), mentre la Francia lo insigni-sce con la Croix de guerre con una palma; viene promosso capo timoniere di 1a classe con anzianità 10

giugno; ha l’onore di diventare socio vitalizio del TCI (Touring Club Italiano) e della CRI (Croce Rossa Italiana); riceve molti bi-glietti di congratulazioni, tra cui si evidenziano due del capitano En-rico D’Albertis (figura curiosa di navigante genovese, che aveva combattuto nella battaglia di Lissa, di cui Premuda venne considerata una sorta di riscatto) e uno della Fa-miglia del Volontario trentino (orga-nizzazione nata a Firenze, gestita da

donne che si occupavano dei volontari trentini al fronte, supportandoli con invio di cibo e vestiario). Un’altra con-seguenza di Premuda è la partecipazione a un film di tipo propagandistico, realizzato dalla Marina Militare, in cui Luigi Rizzo, Gori e altri membri dell’equipaggio del MAS 15, interpretano se stessi nella ricostruzione del-l’evento. La particolarità di questo film è che, accanto a parti appositamente realizzate, vengono montati spezzoni di riprese effettuate da cineoperatori austriaci. Questi, im-barcati a bordo della Tegetthoff, con il compito di docu-mentare il trionfo del piano di Horthy, si trovarono invece a registrarne la disfatta. Gori non eccelle nella recitazione, è piuttosto rigido e racconterà ai suoi familiari di essersi sentito un po’ fuori luogo in quelle vesti inedite di attore. Un fotogramma del film, che lo vede al timone con Rizzo in piedi dietro di lui, è diventato quasi il logo dell’evento, mentre un altro, con i due che parlano vicini, è stato uti-

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Alcune vignette del fumetto «Tornati alla vittoria» pubblicato sul Corriere dei Ragazzi (5 novembre 1972) - (da Il Corriere dei Ragazzi). In alto: cartolina commemorativa dell’impresa di Premuda con quasi tutti i membri dell’equipaggio dei MAS 15 e 21.

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lizzato anni fa per la pubblicità di strumenti di precisione, indispensabili in imprese di portata così eccezionale.

L’anno dopo, l’onda lunga di questo momento fortu-nato porta Gori a partecipare a una Campagna oceanica in Sud America, partita da Genova il 16 maggio del 1920 sulla RN Roma, su cui è imbarcato anche Aimone di Savoia. Si tratta di occasioni per tenere saldi i legami con gli italiani emigrati, stringendo anche nuovi rapporti diplomatici e commerciali. Tra i porti toccati ricordiamo Barcellona, Malaga, Gibilterra, Las Palmas, Dakar, Bahia, Rio de Janeiro, Isola Grande, Santos, Montevi-deo, Buenos Aires, Bahia Blanca. Nell’archivio sono conservati numerosi giornali, in lingua italiana, spa-gnola e portoghese, che documentano il successo otte-nuto da Gori, chiamato «l’eroe di Premuda», accolto trionfalmente e protagonista di feste e altri eventi mon-dani. In particolare citiamo il banchetto servito dalla So-cietà italiana Epicurea di Montevideo, di cui resta un menù davvero curioso (in cui spicca il «gelato al sangue freddo goriano», servito come intermezzo tra portate dai nomi altrettanto originali, come le «costolette battute a Vittorio Veneto» o lo champagne di marca «Premuda»). Al ritorno da questo viaggio durato un anno, che vede

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Alcuni fotogrammi del film sull’impresa di Premuda realizzato dalla Marina Militare, in cui Luigi Rizzo, Gori e altri membri dell’equipaggio del MAS 15, interpretano se stessi nella ricostru-zione dell’evento (youtube.com). In basso a destra: pubblicità di Chrono-graphe Eberhard (data imprecisata) che utilizza un’immagine del film. Sotto: prima pagina del giornale La patria degli italiani (Rio de Janeiro, 15 agosto 1920).

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l’apice della sua notorietà, Armando si sposa con una signorina dell’alta borghesia di Cesena, Dolores Ghiselli. Il suocero, per l’occasione, fa pubblicare un libretto che narra la biografia del genero e un giornale locale, Il momento, dedica un trafiletto all’evento. Sono anni difficili in Ita-lia: il fascismo avrebbe gradito accogliere tra le sue fila un eroe su cui ancora non si erano spenti i riflettori, ma il rigore morale e l’innata sempli-cità tengono lontano Gori dalla retorica fascista; ciò lo condannerà al graduale oblio e a una modesta car-riera, complice anche l’inizio dal basso, con una gavetta molto faticosa. Ricordiamo comunque, in questo pe-riodo, una grandiosa festa a Vicchio, con la presenza di numerose camicie nere e la realizzazione di una lapide sulla sua casa natale, che recita con i toni magniloquenti dell’epoca: «In questa casa il XXV luglio MDCCCLXXXVIII nacque il capo timoniere della Regia Marina Armando Gori, Ultore di Lissa a Pre-muda, Il Comune di Vicchio memore». Il tutto viene am-piamente trattato sul giornale locale Il Messaggero del Mugello, che Gori continua a leggere tutta la vita, a ri-prova del suo profondo legame con la terra natìa.

Dopo Premuda

A parte questi sporadici episodi mondani, Gori pre-ferisce, quando può, occuparsi della famiglia che si al-larga in fretta (avrà 5 figli, di cui la primogenita, Gloria, muore a Taranto per scarlattina) e continuare, con im-mutato senso del dovere, nelle sue incessanti naviga-zioni: tra i tanti comandi ricordiamo quello sulla Regia Vedetta Camogli (precedentemente chiamata Nembo), adibita a intensi traffici col possedimento delle isole ita-liane dell’Egeo, e quello sulla Regia Motocisterna Pol-cevera, dopo essersi trasferito alla base della Maddalena. Dal 1932 è al comando Marina di Tripoli, comandante della Regia Cannoniera Alula. Nello stesso

periodo è insignito della Medaglia d’onore per lunga na-vigazione. È probabilmente per far fronte alle spese cre-scenti di una famiglia così numerosa e per aiutare quella d’origine (in difficoltà economiche dopo la morte del padre Pietro e del fratello Attilio disperso sul fronte) che,

dopo l’aggressione italiana all’Etiopia, fa domanda per essere assegnato in una zona di guerra in Eritrea: dal 1o gennaio 1936 lo troviamo al comando della Regia Mo-tocisterna Sebeto, con base a Massaua; qui conduce una continua spola per rifornire le postazioni militari e i nuovi cantieri legati all’opera di colonizzazione. Re-stano di questo periodo alcune fotografie.

Iniziata la Seconda guerra mondiale, nell’aprile del 1941, mentre è impegnato a Massaua nel trasporto delle riserve idriche, viene fatto prigioniero dagli inglesi che lo portano in un campo di prigionia in India, a Bairagarh, dove rimane per 4 anni, con la nomina di Capo campo del campo numero 16, ala 2a. Pur prigioniero, Gori gode di una certa stima da parte degli inglesi, che ricordano ancora l’impresa di Premuda che ha avuto grande riso-

Armando Gori, un eroe dimenticato

Il NEMBO durante il passaggio del canale di Taranto (18 dicembre 1923). In alto: la Regia Motocisterna POLCEVERA (1928-31).

Massaua, febbraio 1936.

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nanza in Inghilterra, cosi come la ricordano i suoi compagni di pri-gionia che, il 10 giugno del 1943, gli regalano, in occasione del 25° anniversario, un cofa-netto di legno. Esso presenta, intagliata sul coperchio, la scena del-l’affondamento e, al-l’interno, l’incisione con le date della ricor-renza (MAR DI PRE-MUDA 10-6-918 P.D.G INDIA 10-6-943); è commovente pensare che, se tanti oggetti di valore sono andati persi, questo umile regalo è passato indenne attraverso le travagliate vicende del do-poguerra, rimanendo tuttora in possesso della famiglia. Di questi anni difficili sono rimaste anche altre testimo-nianze: due giornali del campo di prigionia, uno dal titolo esplicito «Me ne frego», l’altro, pubblicato dopo la ca-duta del fascismo, intitolato più genericamente «Il Cor-riere», un invito personale a una mostra d’arte, alcune fotografie, missive della moglie, scritte con un esiguo nu-mero di parole numerate, e una lettera scritta in inglese

dal suo medico in cui Gori si offre come cooperator. Sarebbe disposto anche ad an-dare in Australia, ma la sua proposta viene ri-fiutata in quanto soffre dei postumi di un grave edema tropicale procuratosi a seguito di una ferita a una gamba nel 1939. Rientrato in

patria relativamente pre-sto, nell’aprile del 1945, con un contingente di an-

ziani e malati, trova un paese devastato, che per di più guarda con diffidenza ai militari prigionieri di guerra per i possibili legami con il passato regime. Per sopravvivere e mantenere i figli agli studi, Gori decide di spostarsi con tutta la famiglia da Cesena, dove si sono stabiliti da anni, a Genova: qui, passato alla Marina mercantile, con il grado di capitano di gran cabotaggio, ottiene vari incari-chi in porto. Tra i tanti, quasi metaforico è l’imbarco con il ruolo di nostromo sull’incrociatore Attilio Regolo con-segnato alla Francia come risarcimento di guerra. Di quel viaggio gli resta un timbro, conservato assieme a quello d’argento con inciso «Premuda». Appena andato in pen-sione, dopo i lunghi anni di servizio nella Marina Militare e gli ultimi in quella mercantile, muore a Genova per complicazioni cardiorespiratorie il 24 febbraio 1953. Dopo una cerimonia funebre resa solenne dalla presenza del picchetto d’onore, viene sepolto nel piccolo cimitero di Gattaia, frazione di Vicchio, vicino alla casa in cui è nato. Nel 1975 il borgo natale, su iniziativa dell’Associa-zione marinai d’Italia di Firenze, lo ricorda facendo eri-gere un piccolo monumento, posto accanto al laghetto di Montelleri, con le motivazioni della medaglia e la dedica a tutti i marinai del Mugello scomparsi in mare. Ricordo bene la vicenda del monumento: mia madre e i miei zii, dopo un ampio dibattito sull’opportunità o meno di far realizzare un busto in bronzo, alla fine hanno fatto la scelta più sobria preferendo, in accordo con l’ANMI, porre soltanto un’ancora, con l’intento di rimarcare il suo grande attaccamento al mare e alla Marina Militare, nella

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Armando Gori, un eroe dimenticato

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Coperchio del cofanetto di legno, dono dei compagni di prigionia per il 25° anniversario dell’impresa di Premuda. In basso: fotografia degli anni di prigionia con il dottore del campo (2 marzo 1942).

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quale si identificava in modo totale. Lo rammenta con ef-ficacia anche un breve articolo comparso sul Secolo XIX in occasione della sua morte: «Visse tutta la sua vita sul mare, al servizio della patria, con scrupolosa coscienza del proprio dovere, con animo aperto e generoso ardire». Questo aneddoto è significativo per chiudere la biografia di un uomo semplice, diventato eroe forse per caso, il cui nome viene troppo spesso dimenticato. Noi nipoti (mia sorella Alessandra e mio figlio Enrico Montani, oltre a me) cerchiamo di tenerne viva la memoria, non tanto con intento celebrativo quanto perché ci sembra una storia

che meriti di essere raccontata. Essa pro-babilmente è simile a quella di tanti altri uomini di mare di cui

purtroppo si sono perse le testimonianze, ed è anche per loro che ci fa piacere farla conoscere, così come ci pia-cerebbe che, nella ricorrenza del 10 giugno, accanto al nome assai più prestigioso e noto di Luigi Rizzo di Grado e di Premuda, venisse ogni tanto citato anche il suo, quello del modesto capo timoniere Armando Gori, co-mandante del MAS 15, «ultore di Lissa a Premuda». 8

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NOTE (1) Sulla Campagna oceanica in Oriente sulla RN Calabria esiste un sito https://www.regianavecalabria.it/12009-Regia%20Nave%20Calabria.html. (2) Ricordiamo che MAS è l’acronimo di Motobarca Armata Silurante o Motoscafo Armato SVAN, ma Gabriele D’Annunzio inventò il più potente motto: Memento Audere Semper, reso ancor più eroico dall’incisione del pittore Adolfo De Carolis, che presenta un robusto braccio che esce fuori dai flutti recando in mano un ramo di quercia, simbolo di forza e resistenza (Paola Sorge, Motti dannunziani, Roma 1994). (3) Fumo nero all’orizzonte è il titolo di un film-documentario del 2008 con la regia di Marco Visalberghi. Nel 2018 è uscito anche Il destino degli uomini, regia di Leo-nardo Tiberi, una biografia di Luigi Rizzo in cui la figura di Gori viene tratteggiata rapidamente sottolineandone la «toscanità» e l’amore per la caccia. (4) Questa storia a fumetti dal titolo «Tornati alla vittoria», pubblicata sul Corriere dei Ragazzi, numero 45, 5 novembre 1972, con testo di Mino Milani e disegni di Bajef, è stata ristampata sul numero di maggio 2015 del Notiziario della Marina. BIBLIOGRAFIA Ferdinando Bersani, I dimenticati - I prigionieri italiani in India 1941-1946, Mursia, Milano 1997. Armanda Bertini, Armando Gori e l’impresa di Premuda tra storia e mito. Dalle carte dell’archivio familiare, tesi di laurea, Genova, a.a. 1998-99. Gino Galuppini, L’azione di Premuda e i forzamenti dei porti austriaci nella guerra 1914-18, estratto Rivista Guardia di Finanza, anno XXI, n. 6, novembre-dicembre 1972, Stab. Aristide Staderini, Roma 1972. Fausto Leva, Storia delle Campagne oceaniche della Regia Marina, vol. III, Ufficio Storico della Marina militare, Roma 1992. Luigi Rizzo, L’affondamento della Santo Stefano, Tipografia Moderna Susmel, Trieste 1927. Vittorio G. Rossi, Le streghe di mare, edizioni Alpes, Milano 1930. Ufficio di Stato Maggiore della Regia Marina (Ufficio Storico), Cronistoria documentata della guerra marittima italo-austriaca 1915-18; Collezione: L’impegno delle Forze navali-Operazioni-Fascicolo X: L’azione di Premuda (10 giugno 1918), Ufficio Storico della Regia Marina, s.l, s.d.

Il funerale a Genova Cornigliano nel febbraio 1953. A lato: il monumento a Vicchio (Foto Alessandra Bertini).

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Europa, Medio Oriente e Nord Africa Nel suo pregevole contributo del 22 giugno scorso

(vedi Rivista Marittima, settembre 2020), Francesco Aloisi de Larderel ha tratteggiato un accurato quadro della situazione mediorientale, dei suoi attori regionali ed esterni, statuali e non, dei loro interessi e dei loro rapporti di forza, delle risorse, delle forze sociali e politiche, delle ideologie, dei conflitti e delle loro cause.

In questo ampio affresco vi è un silenzio che vale più di cento affermazioni. Non sono mai citati, tra gli attori delle vicende trattate, l’Europa e gli europei, se non fu-gacemente in relazione al loro passato ruolo coloniale e post-coloniale. Non si tratta certo di una dimenticanza. È una constatazione e in un certo senso una silente de-nuncia. Eppure l’Europa e gli Stati che la compongono hanno enormi interessi nel Medio Oriente e nel Medi-terraneo. E i conflitti e le tensioni nell’area hanno per-vasive conseguenze sulla loro sicurezza, sulla loro prosperità e sulla loro stessa tenuta sociale e politica.

Energia e infrastrutture

L’Europa dipende dall’area MENA (Middle East and North Africa) per una parte non irrilevante dei suoi ap-provvigionamenti energetici in idrocarburi, anche se sen-sibilmente inferiore rispetto al passato. L’UE importa, secondo dati della Commissione, circa il 70% del gas na-turale che utilizza. A questa quota contribuiscono, per il 22% circa dei consumi totali, le importazioni da Nord Africa e Medio Oriente, sia at-traverso gasdotti che in prodotto li-quefatto. Per il complesso dell’Unione sembra una quota relati-vamente bassa, ma la sua incidenza è molto elevata, rispetto ai totali di cia-scuno, per Portogallo, Spagna, Italia e Francia, nell’ordine. Infatti, quanto più ci si allontana dal Nord e dall’Est tanto minore è l’incidenza delle im-portazioni dalla Norvegia e dalla Rus-sia, quest’ultima comunque rilevante per l’Italia. Le importazioni dal qua-drante Sud-orientale sono peraltro de-

stinate ad aumentare nell’insieme, ma soprattutto per l’Italia, quando saranno realizzate le infrastrutture per lo sfruttamento e il trasporto del gas dei giacimenti tra Egitto, Israele, Libano e Cipro e quando sarà completato il gasdotto TAP (Trans-Adriatic Pipeline).

Il greggio consumato dall’UE è importato per il 90%, ma per questo prodotto l’incidenza dai paesi MENA è ancora meno rilevante essendo cresciute negli ultimi de-cenni le importazioni via mare da ogni parte del mondo accanto a quelle via tubo da Russia e Norvegia fin quando le riserve di quest’ultima, al pari di quelle di gas, non si esauriranno come è già accaduto per quelle co-munitarie di Olanda e Regno Unito. Per il gas ve ne sa-rebbero di nuove nell’Adriatico, ma il loro sfruttamento suscita preoccupazioni di carattere ambientale.

Il settore energetico è però importante non soltanto per gli approvvigionamenti, ma anche per le attività up stream e down stream delle società petrolifere europee, in competizione o in collaborazione tra loro e con quelle americane, cinesi, russe, giapponesi e sud-coreane in fun-zione delle circostanze e delle convenienze. Le europee sono ancora le più forti, nelle competizioni e nelle alle-anze trasversali, per una produzione nella quale è ormai maggioritaria la quota destinata ai mercati dell’Asia e in particolare alla Cina, oltre a quella per la produzione di energia elettrica a uso interno, settore nel quale sono

FOCUS DIPLOMATICO

RUBRICHE

Area MENA (Middle East and North Africa). Legenda: blu; comunemente accettati come Stati MENA; celeste; a volte considerati anch’essi parte della regione (forbes.com).

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ugualmente impegnate in modo maggioritario imprese europee (in particolare tedesche e italiane), insidiate però, e in alcuni casi assistite, da quelle asiatiche e americane.

Crescenti sono anche gli interessi di società europee e non solo nel settore delle energie rinnovabili, che nella regione presentano enormi potenzialità, per ora soltanto per la soddisfazione di domanda interna liberando, così, risorse fossili per l’esportazione almeno fino a quando progressi nelle tecnologie dello stoccaggio e delle con-duzioni non consentiranno trasporti di elettricità a lunga distanza soprattutto dal Nord Africa verso l’Europa. Nel frattempo, soprattutto il gas continuerà ad avere un ruolo importante nella transizione energetica, seppure in modo progressivamente decrescente, in sostituzione dei più inquinanti carbone e petrolio.

Analoga è la presenza europea nel campo delle infra-strutture di connettività (strade, autostrade, ferrovie), nel quale sono fortemente presenti anche cinesi, la cui nuova Via della seta ha come fulcro il Medio Oriente, turchi e sud-coreani. Ai lucrosi mercati per la ricostruzione di paesi, in cui buona parte delle infrastrutture e delle realtà urbane sono state distrutte, sono fortemente interessati anche i russi, nelle cui intenzioni, come per i turchi, ac-quisizioni di basi militari e influenza politica, dovrebbero andare di pari passo a contratti a condizioni di favore con aspettative di finanziamenti provenienti anche da paesi

del Golfo dei due schieramenti, che una prolungata situazione di bassi o addirittura ulteriormente decrescenti prezzi del petrolio potrebbe però pre-giudicare. Per gli europei, relativa-mente significative, con una importate quota italiana, sono anche le esporta-zioni di beni di consumo durevoli di alta qualità soprattutto versi i ricchi paesi del Golfo.

Effetti dei conflitti, presenze militari ed esportazioni di armamenti

L’intreccio di conflitti e tensioni, così ben descritto dal contributo di Francesco Aloisi de Larderel e da altri che l’hanno preceduto, ha effetti che

colpiscono in primo luogo interessi europei. Quelli eco-nomici li abbiamo appena evidenziati. Produzione ener-getica di ogni tipo e opere infrastrutturali sono ostacolate da guerre, insicurezza e instabilità politica. Ma, a queste situazioni sono collegati anche i fenomeni terroristici, che a fasi alterne e con diverse intensità, hanno colpito fino ai giorni scorsi anche l’Europa negli ultimi due decenni e, con motivazioni e forme diverse, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Quelli di questo secolo hanno a loro volta alimentato i conflitti all’interno della regione aggiungendosi ai flagelli che hanno colpito le popolazioni civili. Non è questa la sede per parlarne, essendo stato, il tema, già ampiamente trattato, ma sta di fatto che questo insieme di fattori distruttivi degli aspetti più elementari della sicurezza produce milioni di rifugiati che chiedono assistenza e bussano alle porte dell’Europa. Crisi umani-tarie, respingimenti, impossibilità di rendere completa-mente stagni i confini, producono tensioni nelle nostre società, colpite da anni di stagnazione economica e disa-gio sociale alimentato dalle conseguenze di una globa-lizzazione e di una rivoluzione tecnologica mal governate, ora drammaticamente accentuato dagli effetti della pandemia. Per combattere l’ISIS, i maggiori paesi europei (non l’Unione europea con gli strumenti che pur sono disponibili) hanno inviato proprie forze nella coali-zione dei volonterosi occidentali. Alcuni, come la Francia

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Focus diplomatico

Il gasdotto Trans-Adriatico (TAP, Trans-Adriatic Pipeline) è un gasdotto in costruzione che dalla frontiera greco-turca attraverserà Grecia e Albania per approdare in Italia, sulla costa adriatica della provincia di Lecce, permettendo l’afflusso di gas naturale proveniente dall’area del mar Caspio (Azerbaigian) in Italia e in Europa (rainews.it).

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e il Regno Unito, hanno direttamente partecipato ai bom-bardamenti e hanno operato con forze speciali impiegate anche in operazioni combat. Altri, come l’Italia e la Ger-mania, hanno partecipato a missioni aeree di ricogni-zione, ad attività di presidio di lavori infrastrutturali e soprattutto, con successo, all’addestramento e al sostegno logistico e di intelligence delle Forze armate e di polizia irachene e dei peshmerga della regione autonoma curda, con regole d’ingaggio soltanto difensive. Una parte di queste unità sono inquadrate in una missione di addestra-mento della NATO. Uno sforzo importante contro il ter-rorismo jihadista di matrice salafita è condotto dalla Francia nell’area saheliana, a ridosso del Nord Africa, di cui questa area è strategicamente parte, assieme ai paesi della regione (G5 Sahel). A esso l’Italia ha aderito tardi-vamente rispetto ad altri partner europei, in questo caso nell’ambito di missioni UE. È stata inoltre avviata una missione navale nel Golfo di Guinea in funzione antipi-rateria e a protezione delle attività di estrazione di idro-carburi dell’ENI e di altri operatori, presentata come sinergica rispetto a quelle nel Sahel. Va detto che la par-tecipazione a queste missioni, al pari di quelle in Libano, in Afghanistan e altrove, ha importanti ricadute nei rap-porti con gli alleati e alle Nazioni unite soprattutto quando si tratta di missioni ONU. Esse hanno inoltre qualche effetto nel farci inserire nelle liste dei paesi pre-feriti per l’aggiudicazione di commesse, che alcuni riten-gono dovrebbe essere maggiore, ma sono spesso scarsamente utilizzate come leva per svolgere un ruolo politico nella regione e nei singoli paesi. È, a dire il vero, difficile farlo attualmente da soli. Sarebbe molto più ef-ficace e credibile se lo si facesse nell’ambito di una azione politica dell’Unione europea. Un altro fattore di presenza europea nella regione è rappresentato dalle for-niture militari. Sappiamo quanto le esportazioni di arma-menti siano funzionali alla sostenibilità dei nostri comparti industriali in questo settore che, di là dai suoi effetti sul progresso tecnologico in tanti campi civili e alle sue implicazioni occupazionali, costituisce un fattore essenziale della nostra sicurezza. Questo tipo di forniture può anche essere un formidabile strumento di azione po-litica e strategica come, in effetti, spesso è da parte di po-tenze che tale azione vogliano svolgere. È molto chiaro, da parte degli Stati Uniti, che in una prassi ormai secolare

sottopongono queste forniture a precisi condizionamenti politici, applicando anche sanzioni indirette a chi fornisca armi a importatori sgraditi anche quando non è stato pos-sibile raggiungere, nell’ambito del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, un accordo per l’istituzione di un em-bargo, mentre invece transigono se il destinatario non è sgradito o se si intende gratificare, per qualsiasi ragione, il fornitore (vedi le palesi forniture di armi turche al Go-verno di accordo nazionale libico malgrado l’embargo). È quello che fa una grande potenza che subordina i suoi comportamenti in questo campo a una visione strategica complessiva. Una piccola o media potenza può invece cercare spesso di esportare tutto quel che può a chiunque (per esempio la Francia è stata sempre sostenitrice della rimozione dell’embargo UE verso la Cina) a meno che non vi sia un embargo deciso dalle Nazioni unite o con-cordato in ambito europeo (cosa che a volte piccoli paesi produttori di armi leggere violano) o che vi siano mag-giori ricadute negative nei rapporti con un potente alleato e partner industriale. In Italia vi è una legislazione in que-sto campo che stabilisce regole su cosa può essere espor-tato e a chi, lasciando margini alla valutazione politica. È da ritenere che essa sia puntualmente osservata dalle autorità preposte, tenendo presenti quelli che sono gli ef-fetti delle forniture sui conflitti e sulle tensioni in corso con le loro conseguenze anche sulle popolazioni civili, sugli equilibri che incidono su tali conflitti e sugli speci-fici e rilevanti interessi italiani che possano esservi ri-spetto a essi, come per esempio nel caso della Libia o di

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Il Parlamento europeo (anche noto come Europarlamento) è un’istituzione di tipo parlamentare che rappresenta i popoli dell’UE, ed è l’unica istituzione europea a essere eletta direttamente dai cittadini dell’Unione. Nell’immagine, la sede a Strasburgo (europarl.europa.eu).

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rapporti con attori regionali che in quel contesto hanno una influenza, come l’Egitto, di cui va tenuto conto anche per altri aspetti nei rapporti bilaterali. Un uso politico e non soltanto commerciale e di sostenibilità produttiva delle esportazioni di materiali d’armamento, che com-plessivamente secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) e altre fonti vanno per quasi il 25% al Medio Oriente (fornitori nell’ordine Stati Uniti, UE e Russia), con l’Arabia Saudita secondo importatore al mondo dopo l’India, può tuttavia essere efficace e si-gnificativamente influente soltanto se inserito nel quadro di una iniziativa con il peso e la massa critica che l’Unione europea dovrebbe poter fornire.

Necessità di una forte iniziativa politica europea

Nelle sue dichiarazioni programmatiche, la presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, ha manife-stato la volontà di promuovere una dimensione geopoli-tica dell’Unione europea di fronte alle crisi e alle minacce di vario tipo che la circondano. A questo approccio è stato espresso il sostegno a grande maggioranza del Parla-mento europeo. Analoghe considerazioni, sia pure con termini diversi, sono state svolte dalla cancelliera Merkel e dal presidente Macron, nella prospettiva dell’acquisi-zione di quella autonomia strategica il cui concetto è stato affermato in diverse conclusioni del Consiglio europeo. La stessa Presidente ha fatto presente che da parte di nu-merosi attori dell’area mediorientale, anche se certamente non da tutti, vi è una richiesta di maggiore coinvolgi-mento dell’Europa, vista come fattore di equilibrio. Si tratterebbe di un coinvolgimento che non può essere cre-dibilmente affrontato da singoli paesi, ma richiederebbe

uno sforzo comune che superi spesso inutili protagonismi nazionali. A questo andrebbe accompagnato un signifi-cativo impiego di risorse finanziarie a favore dei paesi da ricostruire e di quelli a reddito pro capite comparativa-mente più basso e più vulnerabili a fattori di instabilità, dopo che per decenni il processo di allargamento del-l’Unione e politiche di vicinato sbilanciate a Est hanno penalizzato i vicini meridionali.

È positivo che Italia, Francia e Germania abbiano mo-strato, prima e dopo la conferenza di Berlino, di voler operare insieme sulla crisi libica superando rivalità spesso alimentate artificiosamente. Dovrà trattarsi di una convergenza non di facciata ma di sostanza, evitando scarti sul terreno, ai quali la Francia ci ha a volte abituati, e da parte italiana le inutili polemiche di un recente pas-sato. In Libia, come altrove in Nord Africa, le società pe-trolifere dei due paesi competono o collaborano secondo le convenienze, ed evidenti sono le convergenze di inte-ressi nel Mediterraneo orientale di fronte all’aggressività turca, anche se rispetto a questo paese si possono cogliere diversità di approccio. Molto rigido è quello francese, che potrebbero far pensare a persistenti volontà di soste-gno al generale Haftar dopo l’arresto della sua avanzata e la riduzione dei sostegni a suo favore nella regione e altrove, con l’eccezione dell’Egitto il cui presidente ha affermato di essere pronto a un intervento diretto in Libia per impedire che le forze di al-Sarraj sostenute dai turchi prendano Sirte e la base di Al Jufra. Un dialogo con la Turchia è stato invece avviato dall’Italia che comunque considera essenziale mantenere un contatto con una Ci-renaica nella quale il potere di Haftar sembra sensibil-mente ridimensionato. Non si tratterebbe di «equidistanza», ma di azione da svolgere nel contesto delle risoluzioni delle Nazioni unite, che riconoscono il Governo di accordo nazionale, e delle conclusioni della Conferenza di Berlino. L’assunzione della presidenza dell’UE da parte della Germania, che sulla Libia si mo-stra in sintonia con l’Italia e la cui Cancelliera sembra appunto intenzionata a promuovere, anche in questo scacchiere, la dimensione geopolitica dell’Unione, do-vrebbe favorire l’impegno europeo auspicato.

Un’iniziativa politica europea sulla Libia dovrebbe comportare un coinvolgimento dei vicini maghrebini e saheliani e non escludere il possibile impiego o quanto

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meno la messa a disposizione di uno strumento militare di stabilizzazione e di sostegno addestrativo e logistico assieme a forze regionali, dell’Unione Africana, o del G5 Sahel, sotto l’egida dell’ONU. A questo scopo sarà es-senziale un’intesa con gli Stati Uniti ma anche con gli altri membri del Consiglio di sicurezza, come si è d’altra parte realizzato parzialmente alla Conferenza di Berlino, i cui interessi e sensibilità vanno tenuti in conto. Tra que-sti, un interesse prioritario alla stabilità in tutta l’area MENA, funzionale ai suoi approvvigionamenti energetici e ai corridoi logistici sui quali ha avviato rilevanti pro-grammi di investimento, che potrebbero essere però con-dizionati dagli effetti della pandemia, lo ha la Cina.

Di una coerente e determinata iniziativa europea non possono comunque essere sottovalutati i rischi di po-tenziali contrasti con Russia e Turchia che da fronti op-posti, ma pronte a un accordo spartitorio che escluda gli europei, potranno giocare in modo propagandistico anche la carta anticolonialista.

Un’azione diplomatica europea a tutto campo in Libia, con l’uso di tutti gli strumenti disponibili, do-vrebbe quindi cercare di ricomporre un quadro col-laborativo tra i numerosi attori presenti, con rapporti di forza sul terreno in evoluzione, in un intreccio di interessi che coprono tutta l’area mediorientale e mediterranea allargata, comprensiva del Corno d’Africa e del Sahel, per la quale occorrerà cercare di ricostituire un sistema di sicurezza collettiva, anche se le dinamiche sembrano essere andate finora in tutt’altra direzione. E ciò in un contesto nel quale operano, con un rilievo sempre maggiore, soggetti non statuali politici, economici, sociali, religiosi, et-nici e tribali, sui quali è diventato sempre più com-plesso incidere dall’esterno.

Sul piano sostanziale vi sono tuttavia fattori di con-vergenza su cui operare tra i grandi attori esterni. I loro

interessi di medio e lungo termine, soprattutto econo-mici, di lotta al terrorismo e alle criminalità, di contrasto alla non proliferazione di armi di distruzione di massa (la convergenza realizzata in questo senso con il JCPOA — Joint Comprehensive Plan of Action — è stata poi disarticolata da Trump) e a non produrre esodi di rifu-giati, dovrebbero indurre a operare per una stabilizza-zione sostenibile e quindi in grado di recuperare un consenso derivante da risposte seppure parziali ai fer-menti che agitano dal basso le società mediorientali e nordafricane non eliminabili con mezzi soltanto repres-sivi. Il rispetto e la promozione dei diritti umani restano in questo contesto un elemento caratterizzante, anche quale strumento di soft power, dell’azione dell’UE, pur con le difficoltà di una sua adeguata gestione che tenga conto delle complessità delle diverse situazioni. Non compatibile con tale stabilizzazione sarebbe una ri-messa in discussione degli attuali confini statuali.

Occorrerà però vedere se gli interessi alla convergenza per le ragioni esaminate potranno prevalere su asseriti vantaggi geopolitici nell’ambito di rivalità regionali. La storia ci insegna che non sempre gli interessi reali e di lungo periodo di uno Stato prevalgono su quelli presunti che dirigenti alimentano e strumentalizzano per il loro po-tere interno. Ogni azione diretta ad avviare e condurre un processo coerente con nostri interessi indicati nei prece-denti paragrafi attraverso la ripresa di un ruolo determi-nante nel Mediterraneo e nel Medio Oriente potrà peraltro avere un minimo di efficacia soltanto se condotta a livello europeo. Auspicabilmente con gli strumenti della politica di sicurezza e difesa comune, potenziati negli ultimi anni ma scarsamente utilizzati per carenza di volontà politica. E se questo non fosse possibile, con strumenti e formati nuovi da parte di paesi che lo vogliano.

Maurizio Melani, Circolo di Studi Diplomatici

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Focus diplomatico

L’ambasciatore Maurizio Melani è stato direttore generale per la Promozione del sistema paese del ministero degli Esteri, amba-sciatore in Iraq, rappresentante italiano nel Comitato politico e di sicurezza dell’UE, direttore generale per l’Africa, ambasciatore in Etiopia, capo dell’Ufficio per i rapporti con il parlamento nel Gabinetto del ministro degli Esteri, capo della Segreteria del sot-tosegretario di Stato delegato alla cooperazione. Ha prestato servizio nella Rappresentanza permanente presso la CEE, nelle am-basciate ad Addis Abeba, Londra e Dar es Salaam e nelle Direzioni generali dell’Emigrazione, degli Affari politici e degli Affari economici. Docente di Relazioni internazionali e autore di libri, saggi e articoli su temi politici ed economici internazionali. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’Associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e am-pliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta re-sponsabilità, a Roma e all’estero.

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OSSERVATORIO INTERNAZIONALE

RUBRICHE

La guerra civile islamista A metà agosto, Al-Naba, voce dell’IS, ha riferito di pe-

santi combattimenti tra le milizie dell’ISGS (IS nel Grande Sahara) e quelle, allineate ad Al-Qaeda, di Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), in corso dal 17 aprile 2020. L’ISGS incolpa la JNIM per averli attaccati in concomitanza con le forze francesi, internazionali e africane in Mali e Burkina Faso, per aver impedito alle forniture di carburante di raggiungere i loro campi e per la disponibilità dell’JMIM a condurre colloqui con il go-verno maliano per una potenziale tregua. Sinora, gli ana-listi del Sahel usavano spesso il termine di «eccezione saheliana» per descrivere il cordiale rapporto tra ISGS e JNIM, in contrasto con altre regioni del mondo dove IS e Al-Qaeda sono feroci rivali. A quanto risulta, i vertici di entrambi i gruppi si erano incontrati in più occasioni per discutere le condizioni della cooperazione, che consiste-vano principalmente in accordi territoriali e linee rosse da non oltrepassare. L’incontro, nel settembre 2019 tra Jaffar Dicko per il JNIM e il tristemente leggendario Abu Walid Al-Sahrawi (leader dell’ISGS) si è svolto in questa dire-zione. Tuttavia, i due gruppi non sono giunti a un accordo, provocando un aumento delle tensioni. Nelle sue recenti accuse l’IS afferma che la mossa di JNIM (su cui insi-stono pesanti accuse, da parte algerina, di essere uno stru-mento degli odiati Servizi marocchini) coincide con un aumento delle operazioni contro ISGS da parte dell’ONU, nel Sahel. Il JNIM è accusato di aver utilizzato queste condizioni come un’opportunità per prendere di mira l’ISGS in questo particolare momento e avvantaggiarsi nella ricerca di una leadership. Come su accennato, gli scontri tra IS e Al-Qaeda non sono una novità e sono par-ticolarmente violenti in Yemen, Siria, Somalia, Afghani-stan, Iraq, Nigeria e altrove, dove le due organizzazioni terroristiche competono per reclutare nuovi aderenti, ac-caparrarsi risorse e guadagnare influenza presso le popo-lazioni locali, oltre che diversi approcci ideologici o strategie politiche. Scontri sporadici tra JNIM e ISGS erano stati riportati dalla stampa locale nella seconda metà del 2019 e si sono intensificati in grandi battaglie nel Mali centrale e nel Burkina Faso all’inizio del 2020. Gli scontri sono iniziati dopo che i guerriglieri dell’ISGS sono entrati in un regione del Mali centrale dal Burkina Faso all’inizio

dell’anno, dove operavano i miliziani di Al-Qaeda. In un solo scontro costoro avrebbero subito la perdita di quasi 50 combattenti uccisi dai rivali, che accusano Al-Qaeda di essere debole e di deviare dai principi fondamentali ji-hadisti (mentre Al-Qaeda ritrae i membri dell’IS come ultra estremisti assetati di sangue che violano la legge della Sharia e rovinano la reputazione dei mujahidin [sic!]). Per ribadire la sua posizione contro Al-Qaeda, l’IS ha caricato un lungo video «documentario» che elenca tutte le ragioni che avrebbero reso ad Al-Qaeda e alle sue filiali, incluso il JNIM, il titolo di «apostati». Il gruppo ha utilizzato il video per esortare i membri di Al-Qaeda a di-sertare nei confronti dell’IS. Rapporti locali indicano che JNIM percepisce l’ISGS come l’unico ostacolo per con-durre colloqui con il governo maliano e avrebbe fatto pace con tutte le forze e le tribù pro e antigovernative nel nord del Mali, comprese le milizie di autodifesa Dogon. Da lu-glio 2020, JNIM sembra aver preso il sopravvento contro i rivali negli scontri. L’ISGS non è riuscita a espandere la sua portata nell’area del delta del Niger poiché la maggior parte dei suoi attacchi sono stati respinti o non sono riu-sciti a provocare una presenza duratura. Nonostante al-cuni successi iniziali dell’ISGS, il JNIM ha ripreso il controllo su quasi l’intera area. Nel Burkina Faso setten-trionale, JNIM è persino riuscita ad aumentare ulterior-mente il suo raggio d’azione obbligando i militanti dell’ISGS a ripiegare dal Mali centrale verso il confine con la Mauritania, o più a sud-est verso il confine con il Burkina Faso e il Niger. Le lotte intestine, tuttavia, po-trebbero avere un impatto sulle operazioni jihadiste contro le truppe locali e straniere nel Sahel, dove entrambi i gruppi hanno notevolmente intensificato gli attacchi dallo scorso anno. Sebbene le forze a guida francese potrebbero trarre vantaggio dagli scontri tra ISGS e JNIM poiché queste portano all’indebolimento di entrambi i gruppi, po-trebbe anche verificarsi un effetto boomerang. In una competizione per dimostrare le proprie credenziali verso le popolazioni locali, è probabile che ISGS e JNIM in-tensifichino i loro attacchi. Il 3 giugno 2020, le Forze francesi hanno ucciso il cittadino algerino Abdelmalek Droukdel, capo di Al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM), in uno spettacolare raid nel nord del Mali. Tre leader jihadisti ora incombono sul Sahel centrale: Iyad

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Ag Ghaly e Amadou Koufa — entrambi legati ad Al-Qaeda — e Adnan Abou Walid Sahraoui, che guida il gruppo dell’IS nella regione. Tuttavia i recenti sviluppi per la ricerca della stabilità regionale hanno avuto una battuta d’arresto il 18 agosto con il colpo di Stato in Mali dove un gruppo di militari ha deposto il contestatissimo presidente IBK (Ibrahim Boubacar Keïta). Anche se la giunta provvisoria ha promesso di mantenere gli impegni nella lotta contro gli islamisti e di ristabilire il quadro de-mocratico dopo un periodo di transizione, si è aperta una nuova frattura e una situazione paradossale, dove tutta la comunità internazionale è corsa a sostegno (almeno ver-bale) del deposto IBK, che non è esente da critiche (fonti diplomatiche riportano di un furibondo incontro a porte chiuse con il presidente Macron in quel di Bamako, che gli rimproverava in sostanza, le accuse dei golpisti quali corruzione e incompetenza nella gestione delle opera-zioni anti-islamiste) e monitorando la situazione sul ter-reno con grande attenzione. Tra le varie misure prese, mentre la missione ONU (MINUSMA), quella francese (Barkhane) e G5S (G5 Sahel) proseguono, l’operazione di addestramento UE (EUTM) è stata sospesa (e questa sospensione potrebbe però essere l’occasione per mettere a fuoco e risolvere le sue criticità). Attualmente lo schie-ramento della missione europea Takuba (nome delle spade locali) prosegue seppur lentamente, mentre l’arrivo delle truppe della futura MIAM (MIssion [de l’Union] Africaine au Mali) è in stand-by in conseguenza delle decisioni di Addis Abeba. Infatti, la prassi adottata in caso di colpi di Stato in Africa è di sospendere ogni re-lazione con le giunte militari al potere (per questo il Mali è stato immediatamente sospeso dall’Unione africana e dall’ECOWAS, mentre invece continua a far parte del G5S) sino alla normalizzazione della situazione interna con l’installazione di governi democraticamente eletti a seguito di un processo di transizione che, come sopra detto, la giunta militare ne ha promesso il ritorno alla de-mocrazia dopo un periodo di tre anni (successivamente ridotto a diciotto mesi). Tuttavia è facile immaginare quali conseguenze avrebbe una rigorosa applicazione di tale isolamento in un quadro di lotta al terrorismo inter-nazionale, mentre le formazioni islamiste continuano a colpire forze francesi, locali e internazionali.

Himalaya: crocevia di tensioni ad alta quota Nonostante la rapida diffusione del Covid-19 e una

pesante stagione monsonica, a metà agosto il Primo ministro indiano Narendra Modi ha lanciato un nuovo avvertimento alla Cina sulle tensioni al confine, attra-verso il suo discorso più importante dell’anno, quello che celebra l’indipendenza nazionale, per promettere di rafforzare ulteriormente le Forze armate. Con i col-loqui sull’allentamento della tensione militare nella re-gione di confine himalayana in una fase di stallo, ma con piccole tensioni e colpi di mano frequentissimi (come l’improvvisa presa del controllo di un sito stra-tegico da parte di truppe indiane), Modi ha detto che la sovranità dell’India è «suprema» e che le relazioni con i vicini dipendono dalla sicurezza e dalla fiducia. Il Primo ministro nazionalista indù ha menzionato gli scontri con il Pakistan e la Cina sui confini contesi, ma senza nominare nessuno dei due paesi e ricordando la letalità che caratterizza l’azione delle Forze armate in-diane, in particolare in Ladakh, riferendosi a uno scon-tro al confine con le truppe cinesi nella regione del Ladakh dell’Himalaya, il 15 giugno scorso. Venti sol-dati indiani sono caduti nello scontro, che ha visto le due parti arrivare a combattersi persino con manga-nelli, pietre e pugni. La Cina ha anche ammesso di aver subito vittime ma senza rivelarne l’ammontare. Le due parti si sono accusate a vicenda dei combatti-menti e da allora sono state inviate nella regione de-cine di migliaia di soldati delle due parti, ripetendo lo schema della guerra di confine nel 1962 (20 ottobre-21 novembre). Modi, di fronte a un uditorio assai sen-sibile a questi temi, ha insistito sul fatto che nessuna terra indiana è stata persa nella battaglia (tuttavia le truppe cinesi occupano il territorio di frontiera che l’India ha rivendicato per decenni). Le Forze armate, che contano quasi un milione e mezzo di persone, pro-seguono nel loro, a volte incerto, programma di am-modernamento e rafforzamento e il governo Modi sta ampliando gli sforzi per rendere l’India autosufficiente nella produzione della difesa. Sinora però i programmi nazionali di armamenti non sono riusciti a raggiungere i livelli auspicati dal mondo politico e continuano gli acquisti dall’estero e che vedono crescere quelli occi-

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dentali in quantità e qualità, ma la Russia (e prima l’Unione Sovietica) resta sempre il primo fornitore di materiali da difesa per l’India. Come oramai usuale, il contrasto politico si espande rapidamente sul terreno economico e su quello del controllo delle tecnologie informative. L’India ha usato armi economiche contro la Cina, ignorando che fanno parte entrambe di diversi gruppi di associazioni e organizzazioni regionali for-mali e informali (G-77, Movimento dei Non Allineati, BRIC, Shangai Cooperation Organization [SCO], G-20, East Asian Forum, Asia-Europe Meeting). Nuova Dehli ha, infatti, bandito almeno 59 app, inclusa la principale piattaforma di condivisione video TikTok, e ha adottato altre misure per congelare le aziende ci-nesi dai contratti e bloccarne le importazioni. Modi ha affermato che le relazioni con i vicini sono ora legate a principi di sicurezza, progresso e fiducia, affermando che: «un vicino non è solo qualcuno che condivide la nostra geografia, ma colui che condivide i nostri cuori. Dove il rapporto è rispettato, diventa più caldo». Ma le tensioni non si sono placate; arresti di civili indiani da parte di truppe cinesi a causa di un supposto sconfinamento (poi rilasciati), e seguito da una massiccia e impressionante esercitazione di avio-lancio da alta quota di paracadutisti cinesi, prossimo alle zone di scontro con le truppe indiane. A seguito di tale escalation, almeno per un breve periodo, le due parti si sono accordate per adottare misure di riduzione della mutua ostilità (fino alla prossima occasione, pro-babilmente).

Russia-Cina: dietro la facciata

L’asse Mosca-Pechino ha da sempre contenuto al suo interno degli squilibri, di vario tipo e tutti a favore del contraente cinese, e la crisi della pandemia e gli scossoni al sistema di alleanze pro-russe, come quella bielorussa, l’hanno reso ulteriormente sbilanciato. Inoltre vi sono dei dossier particolarmente difficili nelle relazioni bilaterali come lo status di Vladivostok e le vendite di armi russe in India, che spesso passano in silenzio nei grandi media. Cina e Russia hanno spesso descritto la loro relazione come «speciale» e «senza precedenti» e hanno recentemente promesso di mantenere quella che chiamano una «partnership stra-

tegica globale». Nel combattere la pandemia da coro-navirus, la «particolarità» di questa relazione è stata evidente. A febbraio, Mosca ha inviato forniture me-diche a Wuhan, allora epicentro dell’epidemia, e quando il virus ha raggiunto il picco in Russia, la Cina ha ripagato il favore consegnando ai suoi vicini milioni di maschere e altri dispositivi di protezione. Inoltre, i leader dei due paesi sembrano personalmente anche assai vicini, essendosi incontrati in più di 30 occasioni dal 2013. Nel mese di luglio, in quello che sembrava essere un messaggio, neanche troppo velato, verso gli Stati Uniti, il presidente cinese Xi Jinping ha chiesto a Cina e Russia di opporsi congiuntamente all’egemonia e unilateralismo, mentre il presidente russo Vladimir Putin ha affermato che i legami tra i due paesi hanno raggiunto un livello di intesa e intensità senza prece-denti. Anche così, negli ultimi mesi, per quanto i due paesi abbiano cercato di coprire le differenze, sono ap-parse delle crepe. Ma forse la questione più esplosiva di tutte è il suggerimento nelle ultime settimane che Washington voglia avvicinare il suo vecchio avversario della Guerra fredda in modo da contrastare la crescente potenza cinese. Per quanto possa sembrare impensabile una volta, alla domanda su tale possibilità, il segretario di Stato americano Mike Pompeo, il mese scorso, ha risposto parlando con dei giornalisti di considerarla una opportunità. Le divisioni su Vladivostok sono di-ventate di dominio pubblico, quando l’ambasciata russa ha causato un contraccolpo online in Cina pub-blicando un video sul servizio di commemorazione per il 160° anniversario della città. I sentimenti cinesi su Vladivostok, che un tempo apparteneva alla Cina, ri-mangono forti. Infatti, il territorio di Primorsky Krai (territorio del litorale in russo), di cui Vladivostok è la capitale amministrativa, faceva parte del territorio della Cina prima di essere annessa all’impero zarista nel 1860 dopo la sconfitta di Pechino per mano di Gran Bretagna e Francia durante la Seconda guerra dell’op-pio (8 ottobre 1856-24 ottobre 1860). Molti cinesi hanno criticato il blog dell’ambasciata come un dolo-roso ricordo delle storiche umiliazioni del loro paese per mano di potenze straniere considerandola una spe-cie di terra irredenta. Hu Xijin, direttore del quotidiano ufficioso Global Times, si è persino spinto a rifiutare

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di riferirsi alla città come Tongzhi Dongfang (sovrano dell’Est) in russo, chiamandola invece con il suo antico nome cinese di Haishenwei. Molti cinesi hanno addi-rittura chiesto a Pechino che dovrebbe rispondere al blog dell’ambasciata ripensando la sua posizione sul-l’annessione russa della Crimea. Anche Mosca si è tro-vata in pubbliche difficoltà con Pechino quando ha aumentato le sue vendite di armi a Nuova Delhi subito dopo uno scontro mortale tra le truppe cinesi e indiane lungo il loro conteso confine himalayano. Il mese suc-cessivo agli scontri, Nuova Delhi si è affrettata a con-cludere un accordo per acquistare nuovi aerei da guerra russi e a spingere per contratti navali. Nonostante il nervosismo cinese, la Russia ha fornito armi all’India sin dalla sua indipendenza e la maggior parte delle armi strategiche indiane, dalla sua portaerei al suo sot-tomarino d’attacco nucleare, sono importate dalla Rus-sia. L’industria della difesa russa, ovviamente, vorrebbe rimanere sul mercato indiano, che sta diven-tando sempre più competitivo, con Francia e Stati Uniti nel ruolo di sfidanti più evidenti. Infatti, le vendite di armi russe in India sono diminuite dal picco nel 2005, quando le vendite hanno raggiunto 3,2 miliardi di dol-lari. Tuttavia, gli analisti hanno riconosciuto che le questioni di difesa avevano già creato linee di faglia nelle relazioni Russia-Cina. Infatti, Mosca è a disagio per la cooperazione cinese con l’Ucraina in materia sia militare che commerciale. Un’altra linea di faglia sem-bra essersi aperta per un accordo con la Russia per la fornitura del sistema missilistico antiaereo S-400 alla Cina. L’S-400 è considerato il più avanzato del suo ge-nere in Russia, in grado di distruggere bersagli a di-stanze fino a 400 km e altezze di 30. Il mese scorso alcuni siti web cinesi hanno riferito che le consegne erano state ritardate a causa del coronavirus, mentre Mosca, in seguito, che erano state sospese. Secondo l’agenzia di stampa russa Tass, la Cina ha ricevuto il suo primo lotto di S-400 nel 2018, ma ulteriori conse-gne sono state sospese quando Mosca ha accusato Va-lery Mitko, presidente dell’Accademia delle scienze sociali artiche di San Pietroburgo, di spiare per conto di Pechino. La mossa ha infastidito la Cina, anche per-ché il ministro della Difesa russo Sergey Shoygu aveva concordato con la sua controparte indiana Rajnath

Singh di accelerare la produzione e la consegna di cin-que sistemi S-400 acquistati dall’India nel 2018. Fonti cinesi hanno affermato che la Russia stava antepo-nendo gli interessi dell’India a quelli di Pechino, che aveva emesso i suoi ordini nel 2014. Tuttavia, forse la più controversa di tutte le questioni che deve affrontare l’apparentemente solida relazione russo-cinese, è la re-cente affermazione dei media indiani secondo cui Nuova Delhi vorrebbe che Mosca si unisca all’inizia-tiva indo-pacifica guidata dagli Stati Uniti, un gruppo strategico ampiamente visto come un tentativo di con-trastare la Cina. Alcuni commentatori cinesi hanno af-fermato che l’idea — un «tradimento della Cina», secondo alcuni — è stata tanto esplosiva quanto chie-dere alla Russia di aderire alla NATO. Ma mentre al-cuni analisti si chiedevano se gli Stati Uniti sarebbero stati d’accordo con l’adesione della Russia, altri pen-savano che con i giusti incentivi Mosca potesse essere convinta, anche se appare inconcepibile che la Russia, soprattutto dopo la rinascita dell’era putiniana si rele-gasse a essere un vassallo degli Stati Uniti.

EAU: nuovi probabili alleati

Gli Stati Uniti revocheranno un embargo di 33 anni sulle armi nei confronti di Cipro e approfondiranno la loro cooperazione in materia di sicurezza con Nicosia, ha affermato il primo settembre il segretario di Stato americano Mike Pompeo, provocando una risposta rab-biosa della Turchia. L’isola è stata divisa nel 1974 a se-guito di un’invasione turca innescata da un colpo di Stato di ispirazione greca. La Turchia riconosce la se-paratista Repubblica turca di Cipro del Nord, istituita a seguito dell’operazione Attila, e che non è riconosciuta da altri paesi. Diversi sforzi di pacificazione condotti dalle Nazioni unite, che sono presenti sull’isola dal 1964, sono falliti. Washington ha posto restrizioni al trasferimento di armi a Cipro nel 1987 per incoraggiare gli sforzi di riunificazione ed evitare una corsa agli ar-mamenti sull’isola. Cipro è un partner chiave nel Me-diterraneo orientale, ha detto Pompeo aggiungendo che Washington abolirà le restrizioni sulla vendita di mate-riali e servizi per la difesa non letale alla Repubblica di Cipro. La decisione, usualmente precede la vendita di materiali letali (Washington è interessata a scalzare la

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Russia come principale fornitore di armamenti per la Guardia nazionale, le Forze armate di Cipro e ridurre una certa influenza politica di Mosca). La decisione ar-riva in mezzo alle crescenti tensioni nel Mediterraneo orientale tra gli alleati della NATO, Turchia e Grecia, sulle rivendicazioni di potenziali risorse di idrocarburi nel Mediterraneo orientale sulla base di opinioni con-trastanti sull’estensione delle loro piattaforme continen-tali. Il presidente cipriota Nicos Anastasiades ha apprezzato la decisione statunitense, mentre la reazione di Ankara, come detto è stata furiosa. Il ministero degli Esteri turco ha affermato che la decisione ignora l’ugua-glianza e l’equilibrio dell’isola e che Ankara si aspetta che il suo alleato della NATO la riveda. «Altrimenti, la Turchia, in quanto paese garante, adotterà i necessari passi reciproci in linea con la sua responsabilità giuri-dica e storica per garantire la sicurezza del popolo turco-cipriota», ha minacciato in una nota. La decisione statunitense è considerare un ulteriore segnale del cre-scente isolamento internazionale e regionale della Tur-chia e questo è in parte il motivo e origine per cui Erdogan si scaglia e insiste sui diritti della Turchia con-tro i paesi che uniscono le forze senza Ankara. L’anno scorso Cipro, Grecia, Egitto, Israele, Giordania, Italia

e territori palestinesi hanno deciso di creare il Forum del gas del Mediterraneo orientale, senza la Turchia. La Grecia e la Turchia hanno tenuto «colloqui esplorativi» tra il 2002 e il 2016 relativi al mar Egeo, ma si sono conclusi su richiesta di Atene, ha dichiarato una fonte diplomatica turca. La Turchia afferma che Erdogan si è sforzato di rinnovare i colloqui con il Primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni unite e al vertice della NATO a Londra dello scorso anno. Secondo un dirigente turco, la Grecia non ha accettato queste offerte e ha invece in-dirizzato l’azione dell’UE contro Ankara. Un accordo marittimo firmato dalla Turchia con la Libia a novem-bre ha esacerbato le tensioni dopo aver stabilito i con-fini marittimi che, secondo quanto affermato, isolavano l’isola di Creta. Un diplomatico occidentale ha definito la situazione instabile, avvertendo che qualsiasi errore di calcolo potrebbe avere gravi conseguenze. Ma Erdo-gan è pragmatico e sa che le tensioni prolungate non vanno bene, ha affermato il diplomatico, indicando il rischio che eventuali sanzioni occidentali possano dan-neggiare la già debole lira turca, appesantendo una si-tuazione interna difficile.

Enrico Magnani

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AUSTRALIA Impostazione del terzo pattugliatore d’altura classe «Arafura»

Il programma australiano di nuove costruzioni navali militari ha raggiunto un importante traguardo l’11 set-tembre, con l’impostazione del terzo pattugliatore d’al-tura classe «Arafura» — battezzato Pilbara —, il primo della serie realizzato nei cantieri Henderson dell’Au-stralia occidentale. Le unità della classe hanno una lun-ghezza di 80 metri, una larghezza di 4 e un dislocamento di 1.600 tonnellate: la velocità massima sarà di 30 nodi, mentre all’equipaggio di 40 uomini e donne si potrà aggiungere altro personale. L’armamento comprende un cannone da 40 mm e due mitragliere da 12,7 mm. I pattugliatori della classe «Arafura» sono ba-sati sul progetto PV80 della società tedesca Lürssen: le prime due unità sono in costruzione nel cantiere Osborne, nell’Australia meridionale, mentre i successivi 10 esemplari saranno realizzati nei cantieri Henderson.

... e ritardo per le fregate classe «Hunter» Secondo alcuni esperti locali di costruzioni navali mi-

litari, il programma per la costruzione delle nuove fregate classe «Hunter», del valore complessivo di 45 miliardi di dollari australiani (pari a 27,3 miliardi di euro) per 9 esemplari, potrebbe accumulare un ritardo di due anni: il programma è già in ritardo di 12 mesi, perché alcune aree principali del progetto non sono state ancora completate e sussiste una carenza d’integrazione fra numerosi sub-

contraenti australiani destinati alla produzioni di sistemi e impianti. Il ministero della Difesa australiana e l’azienda capocommessa, la britannica BAE Systems, af-fermano che il programma non è affetto da ritardi e che rispetterà le scadenze previste, senza tuttavia commentare le dichiarazioni dei predetti esperti, appartenenti all’au-torevole Naval Shipbuilding Advisory Board, presieduto dall’ex-segretario dell’US Navy, Don Winter. Da parte sua, BAE Systems lamenta una carenza di ingegneri e tecnici specializzati australiani, ma senza specificare a quali aree progettuali e produttive appartengano. Il pro-getto delle fregate classe «Hunter» è derivato da quello delle unità classe «City/Type 26» in costruzione per la Royal Navy, ma incorpora varianti molto significative, prime fra tutte, un radar multifunzionale e multibanda di produzione australiana, del sistema di gestione operativa «Aegis» della statunitense Lockheed Martin e di un’in-terfaccia tattica sviluppata dalla branca australiana della svedese Saab. Le attività preliminari del progetto «Hun-ter» dovrebbero aver inizio nei cantieri di Adelaide alla fine del 2021, mentre il taglio della prima lamiera della prima unità è programma alla fine del 2022.

FRANCIA

Prove in mare per la fregata Alsace Sono iniziate a ottobre le prove in mare della fregata

Alsace, primo dei due esemplari nella configurazione per la difesa antiaerea delle unità francesi classe «Aquitaine» realizzati nell’ambito del programma FREMM e dunque identificati come «FREMM DA» dalla Marine nationale. L’Alsace è stata varata nell’aprile 2019 a Lorient ed è la settima unità del segmento transalpino del programma FREMM; le prove in mare avrebbero dovuto iniziare a maggio, ma l’emergenza sanitaria ha imposto uno stop al programma protrattosi per circa quattro mesi. Per lo stesso motivo, l’unità gemella, Lorraine, doveva essere già in acqua, ma il suo varo è stato posticipato alla fine dell’anno. La società costruttrice, Naval Group, prevede comunque di rispettare i tempi di consegna, fissati per la prima metà del 2021 per l’Alsace e un anno dopo per Lor-raine: in tal modo, la Marine nationale potrà sostituire le due anziane fregate classe «Cassard». Dopo la consegna

RUBRICHE

Il pattugliatore d’altura PILBARA, terzo esemplare della classe «Arafura», impostato l’11 settembre 2020 nei cantieri Henderson dell’Australia occidentale (Lürssen NSW).

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dell’ultima «FREMM DA», Naval Group darà il via alla costruzione di una nuova classe di fregate, inizialmente note come FDI e adesso battezzate classe «Amiraux». Al-cune fonti stampa hanno ventilato la possibilità che le due «FREMM DA possano essere noleggiate alla Marina greca, ma il ministero della Difesa francese ha smentito quest’ipotesi. La configurazione «FREMM DA» prevede un potenziamento delle capacità del radar multifunzio-nale «Herakles», una nuova direzione del tiro «STIR EO Mk.2», una versione aggiornata del sistema di gestione operativa SETIS, la presenza di tre consolle aggiuntive in centrale operativa di combattimento, per le funzioni di difesa antiaerea, un aumento dell’equipaggio, un rinforzo strutturale della plancia e una suite per le comunicazioni appositamente potenziata per le nuove funzioni. La mis-sione principale di Alsace e Lorraine sarà la difesa aerea di area a favore delle principali unità francesi, fra cui la portaerei Charles de Gaulle e le tre portaelicotteri d’as-salto anfibio classe «Mistral».

Campagne di lanci per il Suffren

A metà settembre sono iniziate in Mediterraneo le campagne di prova per i sistemi d’arma a cura del sotto-marino nucleare d’attacco francese Suffren, eponimo di una classe comprendente sei unità. La prima campagna riguarda i siluri pesanti da 533 mm F21, mentre la se-conda è relativa ai missili antinave Exocet SM39; le prove sono condotte nelle acque antistanti il Centre des Essais de Missiles du Levant, nei pressi di Tolone. A se-guire, sarà la volta delle prove con i missili da crociera per l’attacco contro obiettivi terrestri (al momento noti come Missile de Croisière Naval, MdCN), le cui prove

avranno luogo in un analogo centro sulla costa atlantica, a Biscarrosse. La capacità d’imbarco dei battelli classe «Suffren» ammonta a 20 fra siluri e missili, mentre dai quattro tubi in dotazione sarà anche possibile la posa di mine, rinunciando a un’aliquota di missili e/o siluri; sarà, inoltre, possibile l’installazione in coperta di un modulo per le operazioni con mezzi e reparti speciali. In funzione dell’esito delle prove, si prevede che il Suffren venga con-segnato alla DGA entro la fine del 2020, mentre l’in-gresso in linea nella Marine nationale avrà luogo al termine della cosiddetta «crociera di lunga durata». Nel frattempo, la società Naval Group prosegue la costru-zione, a Cherbourg, degli altri cinque battelli: il Duguay-Trouin dovrebbe essere varato alla fine del 2021 o all’inizio del 2022, mentre a seguire sarà la volta del Tourville, del De Grasse, del Rubis e del Casablanca, prevedendo di ultimare tutto il programma entro il 2030.

GERMANIA

Impostazione dell’ottava corvetta classe «Braunschweig/K-130»

La cerimonia per l’impostazione dell’ottava corvetta classe «Braunschweig/K-130» ha avuto luogo il 6 ottobre nei cantieri Peene-Werft del gruppo Lürssen, a Wolgast; le restrizioni imposte per combattere il Covid-19 hanno ridotto la presenza di personale all’evento. Battezzata Karlsruhe, l’unità è il terzo esemplare del secondo gruppo di corvette: i primi cinque esemplari sono entrati in servizio fra il 2008 e il 2013, in sostituzione delle mo-tovedette lanciamissili veloci classe «Gepard», per lungo tempo in linea con la Marina tedesca, impiegate esclusi-vamente nel mar Baltico e a ridosso degli stretti danesi. Viceversa, le corvette classe «Braunschweig» sono con-cepite anche per compiti oceanici e hanno operato ugual-mente in Mediterraneo. Il secondo gruppo di cinque unità — Köln, Emden, Karlsruhe, Augsburg e Lübeck — sono realizzate in base a un contratto siglato nel 2017 e tutte le dieci unità saranno inquadrate in un unico reparto, di base a Warnemunde: questo secondo gruppo di cinque esemplari è costruito a cura di un consorzio compren-dente TKMS, German Naval Yards Kiel e Lürssen Werft, quest’ultimo in qualità di contraente principale. Le unità sono lunghe 90 metri e sono equipaggiate con un im-pianto da 76 mm, due impianti a controllo remoto da 27

Una grigia alba bretone fa da sfondo alla prima uscita in mare dell’ALSACE, per le prove: l’unità è il primo di due esemplari di fregate francesi classe «Aquitaine» (FREMM) configurate per la difesa aerea (Naval Group).

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mm, un sistema missilistico superficie-aria RAM per la difesa di punto e missili antinave RBS 15, per i quali a settembre è stata selezionata l’azienda svedese Saab, per una fornitura da completare entro il 2026.

GIAPPONE

In costruzione due nuove fregate tipo 30FFM Due esemplari di fregate multimissione 30FFM (Fu-

ture Multi-Mission Frigates) sono in costruzione nei can-tieri Mitsubishi Heavy Industries (MHI) di Nagasaki e Mitsui E&S di Okayama: il programma costruttivo per la Marina giapponese prevede la realizzazione di 22 esem-plari, ciascuno dei quali caratterizzato da un dislocamento a pieno carico di 5.500 tonnellate, una lunghezza di 132,5 metri e una larghezza di 16,3. Grazie a un elevato livello di automazione, l’equipaggio sarà formato da circa 90 persone, mentre la velocità massima raggiungerà i 30 nodi. Secondo fonti industriali nipponiche, i requisiti prin-cipali delle future fregate sono una segnatura radar molto ridotta, un’elevata velocità, equipaggio contenuto e capa-cità di mettere a mare e recuperare sistemi a controllo re-moto. Le fregate sono equipaggiate con un sistema propulsivo CODAG, formato da una turbina a gas Rolls Royce MT-30 e due motori diesel MAN 12V28/33D. Le 30FFM saranno dotate di una centrale operativa di com-battimento futuristica, a pianta circolare e comprendente una parete con schermi a 360°, un anello esterno con 14 consolle multifunzionali, le postazioni per il timoniere, comandante e comandante in seconda, due tavoli tattici orizzontali di grandi dimensioni e altre quattro consolle multifunzionali. Lo schermo a 360° opererà secondo nu-merose modalità, impiegando la realtà aumentata e le in-formazioni generate dalla fusione dei dati raccolti dai sensori radar, elettrottici e all’infrarosso, nonché dai di-spositivi presenti nei locali del sistema propulsivo, per-mettendo dunque di gestire, dalla centrale operativa di combattimento, anche la condotta della propulsione, il controllo danni e la lotta antincendio. Le fregate saranno equipaggiate con un cannone da 127 mm Mk.45 Mod.4, le predisposizioni per un impianto verticale lanciamissili, otto contenitori/lanciatori per missili antinave «Type 17» e due postazioni a comando remoto per mitragliatrici da 12,7 mm. I sensori elettronici saranno il radar multifun-zionale Mitsubishi Electric OPY-2, i sensori IR/elettrottici

Mitsubishi Electric OAX-3EO/IR, il sistema sonar inte-grato NEC OQQ-25 e il sonar antimine Hitachi OQQ-11; non è ancora noto quanti e quali mezzi di superficie e su-bacquei a controllo remoto sarà possibile imbarcarne. Il taglio della prima lamiera sui due esemplari di fregate 30FFM citati in apertura ha avuto luogo a settembre 2019 a Nagasaki e il mese successivo a Okayama: il varo della prima unità era previsto a novembre 2020, ma la sosta forzata dovuta al Covid-19 ha probabilmente causato uno slittamento in avanti di almeno due/tre mesi di tutto il pro-gramma, compresa la consegna alla Marina giapponese.

Varo del sottomarino Taigei

Il 14 ottobre è stato varato a Kobe il sottomarino Taigei (grande balena), caratterizzato dal distintivo ottico 513 e costruito nei cantieri Mitsubishi Heavy Industries: pre-senti alla cerimonia, in forma ridotta, erano il nuovo mi-nistro della Difesa giapponese Kishi Nobuo e il Capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Yamamura Hi-roshi. Il nuovo battello si può considerare l’eponimo di una nuova classe di unità subacquee progettate come evo-luzione della classe «Soryu», di cui gli ultimi due esem-plari sono serviti quale banco di prova per una nuova architettura energetica implementata proprio sul Taigei. Il battello dispone, infatti, di un impianto propulsivo in cui l’energia elettrica per azionare, in immersione, il pro-pulsore è fornita unicamente da un complesso di batterie agli ioni di litio prodotte in Giappone: la novità del nuovo battello è rappresentata dal fatto che i due succitati ultimi esemplari di «Soryu» — Ōryū in servizio da alcuni mesi e Tōryū, in costruzione — sono equipaggiati con una bat-teria agli ioni di litio più contenuta e anche con un im-pianto anaerobico tipo 4V-275R Mk. 3, quest’ultimo assente sul Taigei. La sua lunghezza totale è pari a 84 metri, con una larghezza massima di 9,1 metri e un di-slocamento a pieno carico che supera le 3.000 tonnellate; l’equipaggio comprende 70 effettivi.

GRAN BRETAGNA

La portaerei Queen Elizabeth in esercitazione All’inizio di settembre, la portaerei Queen Elizabeth

ha lasciato Portsmouth per partecipare a una campagna operativa nell’Atlantico con due gruppi di velivoli F-35B «Lightning II»: la campagna addestrativa è finalizzata alla

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Marine militari

verifica del concetto di carrier strike group secondo le capacità della Royal Navy, nonché a migliorare l’intero-perabilità fra le unità con capacità aerea britanniche e sta-tunitensi. I velivoli appartengono al 617 Squadron della Royal Air Force (noto come i «Dambusters» per le sue attività durante la Seconda guerra mondiale) e al VMFA-211 del Corpo dei marines statunitensi (noto come i «Wake Island Avengers»). L’occasione per quest’oppor-tunità è derivata dall’esercitazione NATO Joint Warrior, il più grande evento addestrativo dell’Alleanza atlantica che ha avuto luogo nelle acque al largo della Scozia. Per questa circostanza, la Queen Elizabeth ha imbarcato in totale 14 velivoli ad ala fissa e otto elicotteri «Merlin» e assieme a essa hanno operato i cacciatorpediniere lancia-missili Diamond e Defender, le fregate Northumberland e Kent, e le unità ausiliarie Tideforce e Fort Victoria; nel Gruppo navale, guidato dalla portaerei britannica, sono stati integrati anche due cacciatorpediniere lanciamissili, lo statunitense The Sullivans e l’olandese Evertsen.

Un task group anfibio in missione per tre mesi

La portaelicotteri d’assalto anfibio Albion è alla testa di un Gruppo navale anfibio salpato da Por-tsmouth il 14 settembre per un rischieramento opera-tivo di tre mesi durante i quali sono previste attività con diverse nazioni del Mediterraneo e del Mar Nero. Oltre all’Albion, il task group anfibio comprende il cacciatorpediniere lanciamissili Dragon e il rifornitore polivalente Lyme Bay, nonché elementi del 47, 42 e 40

Commando dei Royal Marines, nonché esperti d’intel-ligence del 30 Commando Information Exploitation Group ed elicotteri «Wildcat» della Commando Heli-copter Force basati a Yeovilton. Il Gruppo navale è impegnato a testare il nuovo concetto di littoral strike group, che sostituirà l’attuale amphibious task group e che servirà a definire la future commando force, in pratica un’evoluzione dell’impiego dei Royal Marines britannici quale assetto a elevato contenuto tecnolo-gico dedicato allo strike dal mare. Il task group sarà inserito anche nell’operazione NATO Sea Guardian condotta in Mediterraneo, svolgerà esercitazioni al largo di Cipro e un certo numero di attività addestra-tive e soste nei porti del Mar Nero, per dimostrare il sostegno fornito dalla Gran Bretagna alla sicurezza re-gionale e alla libertà di navigazione in quelle acque.

ISRAELE

Prossima a entrare in linea la prima corvetta «Sa’ar 6»

Fonti stampa industriali hanno annunciato che la Ma-rina israeliana riceverà la prima corvetta lanciamissili tipo «Sa’ar 6» all’inizio di dicembre 2020 e le successive tre entro il 2022. Denominata Magan, la prima corvetta sta ultimando le prove a cura della società costruttrice tede-sca TKMS, che nel 2015 ha ricevuto il relativo contratto di costruzione dal ministero della Difesa israeliano: il suo progetto è basato su quello delle unità MEKO 100, ma contiene numerosi sistemi e sensori di produzione israe-liana ed è caratterizzato da numerosi accorgimenti per minimizzare la segnatura ottica, radar, acustica e all’in-frarosso. L’unità avrà una lunghezza fuori tutto di 90 metri, una larghezza massima di 13,2 metri e un disloca-mento di circa 2.000 tonnellate. L’armamento comprende un impianto Leonardo OTO da 76 mm, 16 celle per il lancio verticale di missili superficie-aria «Barak 8», 40 celle dedicate alla difesa di punto contro razzi e armi gui-date e integrate con il sistema «C-Dome», 16 missili an-tinave, due tubi lanciasiluri antisommergibili da 324 mm e due impianti a controllo remoto «Typhoon», per la di-fesa di punto. Il principale sensore elettronico è un radar attivo a scansione di fase EL/M-2248 MF-STAR di pro-duzione nazionale, mentre le sistemazioni aeronautiche saranno in grado di far operare un elicottero medio.

Lo schieramento dei velivoli F-35B «Lightning II» della RAF e dell’US Marine Corps sul ponte di volo della portaerei QUEEN ELIZABETH durante la campagna operativa svoltasi nell’Atlantico a settembre- ottobre 2020 (Royal Navy).

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Prove di un nuovo missile antinave Il 25 settembre il ministero della Difesa israeliano

ha annunciato che la locale Marina ha eseguito con suc-cesso una prova di un nuovo missile antinave: il filmato mostrato dal ministero mostra una corvetta tipo «Sa’ar 5» che lancia l’ordigno contro quella che sembra essere una motovedetta ritirata dal servizio, senza peraltro no-minare il nome del nuovo ordigno, sviluppato in colla-borazione con la società Israel Aerospace Industries (IAI). Un portavoce di quest’ultima ha dichiarato che il missile ha volato verso il bersaglio con estrema pre-cisione, colpendolo al momento e al posto giusto; da parte sua, il ministero della Difesa ha ribadito che il nuovo missile continuerà ad assicurare la superiorità navale alle Marina israeliana, perché in possesso di ca-pacità, in termini di raggio d’azione, precisione, ingag-gio e flessibilità d’impiego, maggiori rispetto ad altri ordigni attualmente in servizio. Il nuovo missile sarà integrato sulle corvette classe «Sa’ar 5» in linea, non-ché sulle nuove unità classe «Sa’ar 6», da inquadrare nella 3a Flottiglia della Marina israeliana.

ITALIA

Conclusa la missione del San Giusto in Libano Dopo oltre un mese di permanenza in teatro ope-

rativo, l’unità d’assalto anfibio San Giusto ha con-cluso la missione umanitaria interforze denominata Emergenza Cedri, per fornire assistenza alla popola-zione libanese a seguito dell’esplosione che il 4 ago-sto 2020 ha devastato il porto di Beirut. Salpata la notte del 18 agosto da Brindisi, il San Giusto ha pro-iettato assetti di vario tipo, fra cui un ospedale da campo dotato di un modulo radiologico, un laborato-rio biologico per le analisi e l’effettuazione dei tam-poni Covid-19, un modulo di terapia intensiva, un modulo chirurgico con due letti operatori, una farma-cia, un modulo pediatrico e alcune sale ambulatoriali e di sterilizzazione. Le peculiarità tecnico-operative del San Giusto hanno inoltre permesso di imbarcare uomini e mezzi dell’Esercito italiano impiegati poi a Beirut per la rimozione delle macerie di edifici di-strutti da esplosioni, nonché un elicottero MH-101 delle Forze aeree della Marina Militare, proveniente dal 1° Gruppo Elicotteri di Luni-Sarzana.

La fregata Luigi Rizzo addestra la Marina omanita Le opportunità di lavorare con la Marina del Sultanato

dell’Oman non sono frequenti, ma nella settimana con-clusasi il 13 settembre, la fregata Luigi Rizzo, inquadrata in EUNAVFOR Somalia, ha avuto la possibilità di con-durre un’esercitazione «Passex» con la fregata omanita al-Rasikh. Nel corso dell’esercitazione, le due unità hanno eseguito manovre cinematiche semplici e complesse, in-clusa la navigazione in linea di fila e in linea di fronte, si-mulazioni di approccio propedeutiche allo svolgimento di rifornimento in mare, e scambi di comunicazioni me-diante l’impiego di segnali a lampi di luce e bandiere.

Coordinamento del soccorso a unità subacquee

La Scuola sommergibili del Comando flottiglia som-mergibili a Taranto è stata la sede del 1° corso NATO per coordinatori delle Forze di soccorso a unità subac-quee sinistrate (Coordinator Rescue Force, CRF), svol-tosi nella prima metà di settembre 2020. Il corso, finalizzato a soddisfare un’importante esigenza svilup-pata in seno al SubMarine Escape and Rescue Working Group (SMERWG), a guida NATO, rappresenta un momento di formazione avanzata per quegli specialisti potenzialmente chiamati a operare in una situazione di assoluta emergenza, durante la quale sarà necessaria una specifica preparazione e la massima tempestività di azione, sia in termini di personale, sia di mezzi e tec-nologie. Il corso è stato tenuto congiuntamente da con-ferenzieri internazionali dell’ISMERLO (International SubMarine Escape and Rescue Liaison Office), uffi-ciali della Marina Militare sommergibilisti e palombari, con interventi illustrativi da parte di rappresentanti di aziende private che operano nell’ambito della subac-quea. Tale momento formativo ha interessato diverse tematiche, da quelle prettamente tecniche, come la ca-pacità di soccorso in ambito nazionale e internazionale, a quelle di gestione dei media, fino ai più recenti svi-luppi nel campo del supporto psicologico ai sopravvis-suti. Nel corso delle due settimane, i partecipanti hanno toccato con mano alcune realtà operative della Marina Militare destinate a fronteggiare simili eventi, come la Stazione aeromobili di Grottaglie, il Centro ospedaliero militare di Taranto e la Stazione Cospas-SarSat di Bari (per la localizzazione dei segnali di soccorso), conclu-

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dendo il percorso formativo con un impegnativo eser-cizio di pianificazione operativa di un evento di soc-corso sui fondali del golfo di Taranto. Accordo di collaborazione tra la Marina Militare e il ministero dello Sviluppo economico

Il 14 settembre è stato siglato, nella biblioteca di Pa-lazzo Marina, un accordo fra la Marina Militare, rappre-sentata dall’ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis, Sottocapo di Stato Maggiore, e il ministero dello Svi-luppo economico, rappresentato dall’ingegner Gilberto Dialuce, responsabile della Direzione generale per le in-frastrutture e la sicurezza dei sistemi energetici e geomi-nerari (DGISSEG). L’accordo è finalizzato a consolidare le sinergie già in atto tra le due organizzazioni, nell’am-bito dei rispettivi compiti d’istituto. Attraverso il proprio personale specializzato nei settori della subacquea e del-l’idrografia e di moderni mezzi specialistici, la Marina Militare fornisce supporto alla DGISSEG nell’organiz-zazione e nello svolgimento dell’attività ispettiva di com-petenza in tema di controlli di sicurezza agli impianti nel mare territoriale e nella piattaforma continentale, campa-gne d’ispezione e prelievo di campioni provenienti dal settore estrattivo, per l’effettuazione delle attività di ve-rifica delle condizioni dello stato di condotte e impianti e, infine, il necessario supporto idrografico. L’accordo definisce le attività congiunte da svolgere nel biennio 2020-21 e consentirà di sviluppare sinergie nell’ambito dell’apprezzamento delle condizioni dei fondali marini e nell’esecuzione d’interventi in quota nei mari prospicienti

l’Italia, al fine di supportare la sicurezza offshore nazio-nale e la sorveglianza e il controllo per la tutela ambien-tale: l’azione congiunta fra la Marina Militare e la DGISSEG fornirà un importante contributo anche nei campi della pubblica utilità e della sinergia interistituzio-nale per una maggiore sicurezza dell’approvvigiona-mento energetico e della sicurezza marittima.

La fregata Federico Martinengo in azione nel golfo di Guinea

Il 26 settembre, nelle acque a sud della Costa d’Avo-rio, la fregata Federico Martinengo, l’expeditionary sea base (ESB) dell’US Navy Hershel «Woody» Williams e due pattugliatori della Marina ivoriana, Sekongo e L’Emergence, hanno svolto alcune attività addestrative congiunte finalizzate a incrementare l’interoperabilità tra le unità navali di diverse nazioni, soprattutto per con-trastare la pirateria, ancora diffusa in alcune aree quali il golfo di Guinea, lo stretto di Malacca e il Corno d’Africa. Le quattro navi hanno simulato due diversi sce-nari in cui il Sekongo ha dapprima svolto il ruolo di un mercantile sequestrato dai pirati e dopo di un’unità re-sponsabile di uno sversamento illecito d’idrocarburi in mare. Nell’esercitazione, il ruolo del Martinengo e dell’Hershel «Woody» Williams è stato l’acquisizione d’informazioni necessarie al pattugliatore L’Emergence per consentirgli l’intervento con sicurezza ed efficacia. Le quattro unità hanno poi effettuato una serie di mano-vre cinematiche ravvicinate con l’obiettivo di rafforzare l’integrazione tra assetti aeronavali provenienti da di-

verse parti del mondo e operanti in sinergia nelle medesime aree marittime. Nelle settimane suc-cessive, il Martinengo ha parteci-pato alla terza edizione dell’esercitazione «Grand African NEMO», uno fra i più articolati eventi addestrativi aeronavali del continente africano, svoltosi que-st’anno al largo delle coste del Togo e a cui hanno anche parteci-pato unità navali delle nazioni ri-vierasche del golfo di Guinea, dell’US Navy, della Marina fran-

Il Sottocapo di Stato Maggiore, ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis, e l’ingegner Gilberto Dialuce, hanno firmato un nuovo accordo di cooperazione fra la Marina Militare e il ministero dello Sviluppo economico.

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Marine militari

cese e di quella brasiliana. L’esercitazione si è sviluppata attraverso una serie di scenari mirati al mantenimento della massima capacità d’intervento per la sicurezza ma-rittima e al contrasto ai fenomeni di pirateria con il coin-volgimento delle Marine militari. Il golfo di Guinea è un’area estremamente importante a livello strategico, in quanto il 70% del petrolio prodotto in Africa proviene da questa regione, mentre la quasi totalità delle merci importate ed esportate dall’Africa centrale transita in quelle acque. Tuttavia, nel 2019, il golfo di Guinea è anche stato il teatro in cui si sono verificati il maggior numero di attacchi di pirateria, rendendolo una delle aree del pianeta più pericolose per la navigazione.

NATO

La Dynamic Mariner 2020 nel Mediterraneo occidentale

Dal 25 settembre al 9 ottobre ha avuto luogo l’edizione 2020 dell’esercitazione Dynamic Mariner, condotta dalla NATO, prevalentemente nelle acque del Mediterraneo occidentale, a cui hanno partecipato sette nazioni dell’Al-leanza, cioè Italia, Belgio, Grecia, Olanda, Spagna, Stati Uniti e Francia. Alla Dynamic Mariner 2020 hanno com-plessivamente partecipato 31 navi di superficie, un sot-tomarino e tre aerei da pattugliamento marittimo: scopo dell’esercitazione è stato la verifica della componente marittima della NATO Response Force Maritime (NRF/M) e dell’interoperabilità fra i reparti aeronavali alleate, con l’obiettivo di potenziare le flessibilità e le ca-pacità d’impiego congiunto. L’esercitazione è stata diretta dal NATO Maritime Command di Nortwood (Regno

Unito) e ha coinvolto lo Standing NATO Maritime Group One (SNMG1) e lo Standing NATO Maritime Group Two (SNMCMG2), due delle formazioni navali perma-nenti che contribuiscono alla difesa collettiva dell’Alle-anza atlantica. A causa dell’emergenza sanitaria, alcune attività addestrative a elevata interazione di personale sono state ridotte, in omaggio alle procedure NATO in vigore, per preservare la salute del personale e prevenire la diffusione del virus. La Marina Militare ha partecipato alla Dynamic Mariner 2020 con due ufficiali inseriti nello staff del comando delle Forze di intervento rapido della Marina francese (COMFRMARFOR), il cacciatorpedi-

niere lanciamissili Luigi Durand de la Penne (assetto na-zionale nell’ambito della VJTF, Very High Joint Task Force, della NATO), il cacciatorpediniere lanciamissili Andrea Doria, il sottomarino Giuliano Prini, il caccia-mine Chioggia (nell’ambito della SNMCMG2) e un pat-tugliatore marittimo P72.

Attivato il Joint Force Command Norfolk

In una cerimonia svoltasi a Norfolk il 17 settembre, la NATO ha attivato il Joint Force Command (JFC Nor-folk) riproponendo in sostanza, ma in chiave interforze, quell’Allied Atlantic Command, che nel 2003 era stato rimodulato come Allied Command Transformation e de-stinato a compiti non operativi. Ribadendo che la NATO è un’alleanza transatlantica, il segretario generale Jens Stoltenberg ha descritto l’Atlantico settentrionale come un teatro marittimo vitale per la sicurezza dell’Europa e il suo dominio è necessario per assicurare l’integrità e la sicurezza dei rifornimenti e dei rinforzi diretti dal conti-nente nordamericano al Vecchio continente. Operando congiuntamente con la 2a Flotta dell’US Navy, il JFC è incaricato di condurre esercitazioni, definire la pianifi-cazione operativa e tenere costantemente aggiornato il

La fregata FEDERICO MARTINENGO in esercitazione nel golfo di Guinea assieme all’expeditionary sea base HERSHEL WOODY WILLIAMS dell’US Navy e al pattugliatore costiero del Ghana, vessel EHWOR. Accanto: rifornimento in mare fra il cacciatorpediniere lanciamissili DURAND DE LA PENNE e il rifornitore polivalente francese VAR, nel corso dell’esercitazione NATO Dynamic Mariner 2020.

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Marine militari

quadro di situazione per un teatro che si estende dalle coste orientali degli Stati Uniti, comprende il famoso «G-I-UK gap» e giunge fino all’Artico. L’approvazione per la creazione di JFC Norfolk, comprensivo di un di-staccamento logistico di supporto a Ulm, in Germania, era stata data dai ministri della Difesa della NATO nel giugno 2018 nell’ambito dell’adattamento della struttura di comando dell’Alleanza atlantica. JFC Norfolk è su-bordinato al Supreme Headquarters Allied Powers Eu-rope (SHAPE) di Mons, ed è dunque di pari livello ai comandi JFC di Brunsumm e di Napoli: la responsabilità per le operazioni navali rimane sotto l’egida dell’Allied Maritime Command (MARCOM) di Northwood.

QATAR

Varato il primo pattugliatore realizzato da Fincantieri

Alla presenza del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, del vice Primo ministro e ministro della Difesa dello Stato del Qatar, Khalid bin Mohammed Al At-tiyah, del Capo di Stato Maggiore della Marina del Qatar, maggiore generale Maj. Gen. Abdulla Hassan Al Suleiti, del Capo di Stato Maggiore della Marina Mili-tare italiana, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, il 18 settembre 2020 ha avuto luogo — nello stabilimento di Muggiano (La Spezia) di Fincantieri — il varo tecnico del pattugliatore d’altura Musherib, unità eponima di una classe di quattro esemplari commissio-nata dal Qatar nell’ambito del programma di potenzia-mento navale nazionale. Il varo è avvenuto in forma privata e nella piena osservanza di tutte le prescrizioni sanitarie vigenti. Le autorità civili e militari presenti alla cerimonia sono state accolte dal presidente e dal-l’amministratore delegato di Fincantieri, Giampiero Massolo e Giuseppe Bono. Le unità della classe «Mu-sherib», da consegnare a partire dal 2022, sono state progettate in accordo al regolamento RINAMIL dedi-cate ai pattugliatori veloci (fast patrol vessel, FPV) e assolveranno molteplici compiti. I tipi «Musherib» hanno una lunghezza di circa 63 metri, una larghezza di 9,2 metri, una velocità massima di 30 nodi, e un equi-paggio di 38 effettivi. L’impianto di propulsione pre-vede quattro eliche a passo variabile, due a dritta e due a sinistra, ciascuna accoppiata con un motore diesel:

l’unità potrà impiegare un gommone a chiglia rigida, imbarcato tramite una gru poppiera. Con un valore complessivo di circa 4 miliardi di euro, il programma navale per la Marina del Qatar comprende sette navi di superficie, fra cui quattro corvette lunghe oltre 100 metri, una nave d’assalto anfibio e due pattugliatori d’altura classe «Musherib», oltre ai servizi di supporto post-vendita per 10 anni dopo la consegna delle unità. Tutte le unità vengono interamente costruite negli sta-bilimenti italiani della Fincantieri, assicurando fino al 2024 la continuità di lavoro e una ricaduta importante sulle principali società della difesa italiane.

REPUBBLICA POPOLARE CINESE

In corso le prime prove del velivolo imbarcato KJ-600

La società cinese Xian Aircraft Corporation (XAC) ha iniziato le prime prove del futuro velivolo da allarme radar avanzato e comando e controllo (Airborne Early Warning, AEW&C) destinato alle portaerei della Marina della Repubblica Popolare Ci-nese. Designato KJ-600 e simile alle analoghe mac-chine in servizio con l’US Navy e altre nazioni occidentali, il nuovo velivolo è caratterizzato da un grosso radome circolare sul dorso della fusoliera che ospita verosimilmente il radar attivo a scansione di fase KLC-7, sviluppato da un istituto di ricerca tec-nologica di Nanchino. Le dimensioni del KJ-600 ne impongono l’impiego su unità dotate di catapulte e cavi d’arresto: il velivolo sarà quasi sicuramente uti-lizzato dalla portaerei cinese tuttora in costruzione e al momento nota come «Type 003».

Il pattugliatore d’altura MUSHERIB, ripreso sulla piattaforma di movimen-tazione per la messa in acqua: l’unità è stata varata il 18 settembre negli stabilimenti Fincantieri del Muggiano, alla Spezia (Fincantieri).

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RUSSIA Annunciati i prossimi programmi costruttivi

Secondo fonti stampa attendibili, durante l’esposizione militare Army-2020 svoltasi a settembre 2020, sono stati firmati diversi contratti per la realizzazione di unità navali destinate alla Marina russa e ordinate dal ministero della Difesa. Si tratta del nono e decimo esemplare di fregate classe «Admiral Gorshkov/Project 22350», che assieme a quelle già in linea e in costruzione sono destinate alle Flotte del Nord, Pacifico e Baltico. Sono state inoltre or-dinate otto corvette classe «Steregushchiy/Project 20380», prevalentemente destinate a operare nella Flotta del Pacifico e su cui sarà installato un albero integrato con un nuovo modello di radar. Altre due corvette apparten-gono alla classe «Gremyashchy/Project 20385», armate con missili «Kalibr» e di cui l’esemplare capoclasse si trova alle prove: originariamente destinate a essere pro-pulse da motori diesel tedeschi, queste unità saranno in-vece equipaggiate con macchine di produzione russa. Inizialmente, la Marina russa aveva pianificato la costru-zione di corvette classe «Mercury/Project 20386», ma la decisione di proseguire con le «Steregushchiy» significa che la realizzazione delle nuove unità ha incontrato diffi-coltà di ordine tecnico ed economico. Il programma na-vale comprende anche la realizzazione di un imprecisato numero di unità per la guerra di mine «Project 12700», di cui tre esemplari sono in servizio e cinque in costru-zione, che hanno riscontrato la soddisfazione della Marina russa. Il cantiere Admiralty di San Pietroburgo ha ricevuto il contratto per il sesto sottomarino classe «Lada/Project 677», il cui eponimo è tuttavia oggetto di prove appro-fondite resesi necessarie per cercare di risolvere i pro-blemi riscontrati durante la costruzione. Appare dunque strano che il programma dei «Lada» vada avanti e non è da escludere che la decisione sia più di natura politica che non tecnico-operativa: il ministero della Difesa appare orientato a completare un numero di battelli sufficienti a creare una brigata di sottomarini classe «Lada», destinati alla Flotta del Baltico. Ad Army-2020 è stato firmato il contratto anche per il 13° sottomarino della classe «Kilo Improved/Project 636.3», probabilmente destinato an-ch’esso alla Flotta del Baltico assieme al Dmitrov, appar-tenente però alla precedente classe «Kilo/Project 877». Infine, da segnalare il contratto con il cantiere Zvyozdo-

chka Shipyard di Severodvinsk per il ripristino e l’am-modernamento di sottomarini nucleari d’attacco classe «Akula/Project 971», di cui quattro esemplari — Samara, Bratsk, Volk e Leopard — si trovano già a Severodvinsk.

Primo lancio di un missile Zircon imbarcato

Il ministero della Difesa russo ha pubblicato un video relativo al lancio, probabilmente eseguito il 6 ottobre, di un missile ipersonico Zircon, dalla fregata Admiral Gorshkov, in navigazione nel Mar Bianco. Il video mo-stra che il lancio è avvenuto da una delle celle per il lan-cio verticale di ordigni missilistici situate, assieme ad altre, nell’impianto multiplo sistemato a proravia della plancia dell’unità. Secondo le informazioni divulgate, dopo aver volato a una velocità di Mach 8, il missile ha colpito un bersaglio situato nel mar di Barents, a 450 km di distanza e dopo un volo durato circa 4,5 minuti. L’ordigno è un’arma antinave sviluppata a partire dal 2015, che ha già eseguito alcuni lanci di prova e che si preveda entri in servizio nei prossimi anni.

STATI UNITI

Prove e valutazioni per i nuovi mezzi anfibi a cuscino d’aria

All’inizio di settembre, i primi due mezzi da sbarco a cuscino d’aria di nuova generazione, sempre noti con l’acronimo anglosassone LCAC ma realizzato nell’ambito del programma Ship-to-Shore Connector, SSC, sono giunti nel centro di sperimentazione e va-lutazione per le operazioni di superficie dell’US Navy di Panama City (in Florida), per svolgere un’intensa attività di ricerca, sviluppo e valutazione tecnico-ope-rativa. Designati LCAC 100 e LCAC 101, i due mezzi sono stati progettati per il trasporto a elevata velocità di personale, munizionamento, veicoli e merci dalle unità d’assalto anfibio dell’US Navy alle spiagge. Il programma SSC prevede, a valle della campagna delle prove, il via libera per la costruzione di 72 mezzi, secondo un contratto affidato a Textron Sy-stems: l’azienda ha tuttavia incontrato non poche dif-ficoltà tecniche per la realizzazione del primo esemplare, generando ritardi nel raggiungimento della initial operational capability/IOC, adesso prevista per il secondo trimestre del 2022.

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Marine militari

Superati 4.000 decolli e appontaggi dalla portaerei Ford

Nel corso di una campagna di prove protrattasi per 18 mesi al largo della costa atlantica degli Stati Uniti, diversi modelli di velivoli imbarcati in maniera fissa o temporanea sulla nuova portaerei a propulsione nucleare Gerald Ford, eponima della classe, hanno totalizzato il record dei 4.000 decolli e appontaggi, dimostrando le prestazioni del si-stema di catapulte elettromagnetiche (EMALS) e di quello d’appontaggio (AAG), anch’esso elettromagnetico. Con-cepiti dalla società General Atomics per ridurre l’impatto sul progetto complessivo dell’unità, ridurre drasticamente le manutenzioni rispetto alle tradizionali catapulte a vapore e cavi d’arresto, e il conseguente impiego di personale ad-detto e testati in precedenza in una struttura situata nella Joint Base McGuire-Dix-Lakehurst, nel New Jersey, i due sistemi si trovano adesso a metà circa della campagna di valutazione, la cui conclusione positiva permetterà alla Ford di entrare nel ciclo operativo dell’US Navy. Il sistema «Archerfish» per l’US Navy

Il Pentagono ha stipulato un contratto da 87 milioni di sterline con la società britannica BAE Systems per la for-nitura di un numero non noto di sistemi «Archerfish», per la neutralizzazione delle mine navali. Si tratta di un si-stema a controllo remoto spendibile, messo a mare e ge-stito da unità di superficie, elicotteri e mezzi subacquei anch’essi a controllo remoto: l’impianto data-link a fibra ottica di cui è dotato, consente lo scambio in tempo reale d’immagini a elevata risoluzione acquisite tramite il sonar di cui dispone. La neutralizzazione delle mine avviene at-traverso la detonazione di cariche esplosive contenute nel corpo del sistema. Secondo BAE, il sistema «Archerfish» accorcia il tempo d’identificazione e neutralizzazione dei bersagli, riducendo la durata della missione e non espo-nendo il personale a rischi. Nell’US Navy, il sistema è identificato come AN/ASQ-235 ed è impiegato dagli eli-cotteri MH-60S, imbarcati sulle littoral combat ships. Conclusa la certificazione della portaerei Carl Vinson per l’impiego dell’F-35C

La portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson è stata il palcoscenico per la condotta di una serie di atti-vità finalizzate alla certificazione del ponte di volo e

della centrale per il controllo del traffico aereo alle ope-razioni con il velivolo F-35C «Lightning II», adesso pienamente integrato con l’unità. La certificazione del ponte di volo è un requisito essenziale per l’imbarco di un determinato modello di velivolo ed è necessaria per assicurare la continuità operativa e l’efficienza del-l’equipaggio, durante le operazioni di lancio e recupero dei velivoli in sicurezza, di giorno e di notte. La certifi-cazione della Vinson ha riguardato anche i sistemi per l’appontaggio di precisione (PALS, precision approach landing system e JPALS, joint precision approach lan-ding system) e di essa ha fatto parte anche la qualifica-zione dei sei squadron di velivoli ad ala fissa imbarcati sull’unità. Prima di svolgere queste attività, la Vinson è stata oggetto di un periodo di lavori durato circa 17 mesi, necessario per introdurre le migliorie indispensa-bili a far operare velivoli di 5a generazione quali l’F-35C, nonché i convertiplani CMV-22 «Osprey»; gli interventi hanno riguardato il potenziamento dei deflet-tori degli scarichi dei velivoli al decollo, l’integrazione dell’autonomic logistics information system, ALIS, per le esigenze manutentive degli F-35C e l’installazione di una nuova rete informatica per supportare le funziona-lità tecnico-operative del nuovo velivolo. Oltre al gruppo basato sull’F-35C, il reparto aereo della Vinson comprende tre squadron di velivoli multiruolo F/A-18E/F «Super Hornet», uno squadron di velivoli per l’attacco elettronico EA-18G «Growler», uno squadron di velivoli E-2D «Hawkeye» per l’allarme radar avan-zato e il comando e controllo e due squadron di elicot-teri della famiglia H-60. La certificazione ottenuta dalla Vinson le consentirà di proseguire con l’approntamento propedeutico richiesto dalle procedure dell’US Navy, per lo svolgimento di missioni belliche. In accordo con le procedure di sicurezza sanitaria, tutto il personale im-barcato sulla Vinson è stato sottoposto ai test anti Covid-19, nonché a restrizioni nella libertà di movimento prima del periodo trascorso in mare.

Ingresso in servizio del cacciatorpediniere lanciamissili Delbert D. Black

In una cerimonia svoltasi il 26 settembre a Port Cana-veral, Florida, e cui ha assistito un ridotto numero di per-sone, l’US Navy ha sancito l’entrata in servizio del

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129Rivista Marittima Ottobre 2020

Marine militari

cacciatorpediniere lanciamissili Delbert D. Black, carat-terizzato dal distintivo ottico DDG 119 e appartenente alla classe «Arleigh Burke Flight IIA», nella variante «Te-chnology Insertion». Si tratta del 68° esemplare dell’intera classe, che onora il primo sottufficiale dell’US Navy ad aver raggiunto il grado/funzione di master chief petty of-ficer of the Navy (MCPON), cioè il sottufficiale più an-ziano di tutta l’US Navy che funge da consigliere per il chief of naval operations. L’unità è stata costruita nei can-tieri Ingalls Shipbuilding del gruppo Huntington Ingalls Industries, mentre, della variante «Technology Insertion», fanno parte alcuni impianti e apparati che verranno instal-lati anche sulle unità del «Flight III», di cui tre esemplari si trovano in costruzione e dieci sono stati autorizzati. Verso una nuova struttura delle Forze navali

Nel corso di un evento svoltosi a Washington il 6 otto-bre, al Center for Strategic and Budgetary Assessments, il segretario alla Difesa Mark Esper ha annunciato un nuovo piano — noto come Battle Force 2045 — di po-tenziamento della struttura delle Forze dell’US Navy. L’obiettivo è di giungere a una flotta di 500 unità navali con e senza equipaggio per il 2045; in tale contesto, si pre-vede un incremento delle Forze subacquee e l’affianca-mento di portaerei leggere alle similari e più grandi unità a propulsione nucleare, in modo da soddisfare al massimo livello i requisiti di presenza avanzata e investire massic-ciamente in un elevato numero di naviglio senza equipag-gio di piccole dimensioni, idoneo alla strategia delle operazioni distribuite. Fino a ieri, l’US Navy aveva inten-zione di giungere a una struttura delle Forze compren-dente 355 unità, tutte con equipaggio, da avere in linea verso il 2035, un obiettivo da molti ritenuto non congruo con le prevedibili disponibilità finanziarie per le nuove costruzioni. Nel Battle Fleet 2045, si prevedono da 70 a 80 sottomarini nucleari d’attacco, mentre fino a sei por-taerei, derivate dalle grandi unità d’assalto anfibio classe «America», dovrebbero associarsi a un numero variabile fra 8 e 11 portaerei nucleari classe «Nimitz» e «Ford». Esper ha illustrato l’esigenza di schierare da 140 a 240 unità subacquee e di superficie con e senza equipaggio, in grado di svolgere una gamma di missioni comprendenti la posa di mine, lo strike missilistico, il rifornimento di unità con equipaggio e la sorveglianza. Il settore delle

unità combattenti di ridotte dimensioni (genericamente denominate small surface combatants) dovrebbe com-prendere 60-70 esemplari, comprese le 32 littoral combat ship attualmente previste e un numero maggiore di fregate rispetto alle 20 al momento previste per il programma FFG(X) assegnato a Fincantieri: al primo esemplare di quest’ultime è stato conferito il nome di Constellation e il distintivo ottico FFG 62. In tema di naviglio anfibio, si prevede un aumento delle piattaforme fino a 50-60 esem-plari, prevedibilmente anche con la realizzazione di unità più piccole di quelle attualmente in inventario e in costru-zione per i requisiti dell’US Marine Corps. Nel settore del trasporto marittimo strategico e della logistica operativa, due ambiti cruciali per l’attuazione del concetto di opera-zioni marittime distribuite, Esper ha citato una consistenza comprendente da 70 a 90 unità specializzate, sebbene sia necessario approfondire i requisiti globali. Infine, molta enfasi è stata posta anche sull’ingresso in linea di velivoli senza equipaggio a bordo delle portaerei, necessari per le missioni di aviorifornimento, attacco elettronico e allarme avanzato, nonché per funzioni belliche tradizionali quali intercettazione e attacco. Esper ha concluso il suo inter-vento affermando che giungere a Battle Force 2045 non sarà facile, perché esistenti interessi specifici, incertezze finanziarie, capacità industriali e altre fattori di difficoltà e rischio per il raggiungimento di un obiettivo comunque ambizioso.

Michele Cosentino

Un velivolo multiruolo F-35C del gruppo aereo VFA 147 in rullaggio sul ponte di volo della portaerei nucleare CARL VINSON durante la campagna di certificazione del ponte di volo e della centrale per il controllo del traffico aereo dell’unità (US Navy).

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CHE COSA SCRIVONO GLI ALTRI

«I nostri Anni Venti»

«Purtroppo il mondo post Covid non è ancora cominciato — leggiamo nell’Edito-riale firmato da Ro-berto Menotti e Marta Dassù — il virus starà con noi per qualche tempo ancora. E poi spa rirà dalle nostre vite, come tutte le pan-demie precedenti [e il

riferimento storico obbligato è alla terribile «spagnola» degli anni Venti del secolo scorso], ma lasciando dietro di sé “tre grandi fatti”». E cioè una nuova coscien za della delicatezza del rapporto fra sicurezza e libertà (che ci viene illustrata da Sabino Cassese); un nuovo modo di lavorare, dopo il bagno digitale forzato dal lockdown (di cui scrive Domenico De Masi) e infine nuovi squilibri internaziona li [nel caso di specie con una de-globalizzazione parziale e un confronto acceso fra Stati Uniti e Cina]. In particolare, se rafforzare l’Atlantico dovrebbe rappresentare il primo punto di un’agenda geopolitica europea post Covid (ma-gari riprendendo le trattative per un nuovo accordo econo-mico transatlantico, pur dopo il precedente fallimento del 2015-16 nella creazione di un gigantesco mercato unico euroamericano), il che darebbe naturalmente sia a Washin-gton sia a Bruxelles maggiore forza contrattuale nei con-fronti della Cina, il secondo punto riguarda «la forte instabilità del Mediterraneo, con il suo retroterra afri-cano». Alle prese con la nostra crisi (a un tempo, sanitaria, sociale ed economica), stiamo rimuovendo il problema, la-menta la rivista, ma l’effetto Covid, combinato al declino del prezzo del petrolio, produrrà, secondo le previsioni, un forte aumento delle tensioni da Sud, moltiplicando il nu-mero dei «failed states» e peggiorando le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone con tanto di allarme su una possibile e gravissima carestia in vari paesi africani. È quindi decisivo tornare a riflettere da ora sui flussi migrato -ri dall’Africa e dal Mediterraneo: sono flussi che potreb-bero non cambiare di molto in termini numerici — sostiene

la rivista, ma solo sulle coste italiane, aggiungiamo, nel pe-riodo gennaio-settembre 2020, secondo i dati del Viminale, gli sbarchi in Italia sono stati ben 20.057 rispetto ai 5.726 dello scorso anno nello stesso periodo! Peraltro, di fatto, senza nessuna copertura europea, almeno per il momento, visto che, ricordiamo, l’accordo di Malta del 23 ottobre 2019 sul meccanismo automatico per la ridistribuzione dei migranti tra paesi europei «volenterosi» è ormai scaduto e ci vorrà ancora tempo — osserviamo — prima che le pro-poste annunciate da Ursula von der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 16 settembre scorso, si tradu-cano in realtà operativa! I rinnovati flussi migratori intanto stanno ponendo una seria sfida politica per la coesione euro pea, più grave di quella pre Covid, di fronte alla quale speriamo che il nostro paese, ancora una volta, non sia la-sciato da solo di fronte al problema dell’immigrazione. Il Mediterraneo, infatti, non è soltanto la frontiera marittima dell’Italia ma dell’Unione europea stessa. Nelle conclu-sioni del periodico in esame, si sottolinea come la pande-mia del secolo scorso «ci insegna che le decisioni razionali non sono affatto scontate, tanto più quando si tratta di de-cisioni collettive: per entrare nei nuovi anni Venti [del XXI secolo], invece che tornare al passato, è indispensabile che i governi nazionali europei siano davvero disposti a un compromesso e che fra opinione pubblica e istituzioni (na-zionali ed europee) si ristabilisca un rapporto di fiducia [perché, in estrema sintesi] un’ Unione europea che fun-zioni potrà fondarsi solo sul recupero di un certo grado di solidarietà; che tuttavia richiede, per essere esercitata, una forte responsabili tà nazionale. Da parte di tutti». Quella solidarietà che rappresenta, ricordiamo, il leitmotiv della terza e recentissima Enciclica pontificia intitolata Fratelli Tutti, firmata emblematicamente da papa Francesco pro-prio ad Assisi.

«Mare, Fortuna & Naufragi» e «Anche il Mare nell’Aldilà»

«Metti un Uomo e il Mare e hai già un romanzo epico — scrive Marco Morini sul supplemento culturale del quotidiano economico ambrosiano — aggiungi una nave, un’isola, una méta (raggiunta o mancata che sia) e ti trovi nel mezzo di una Saga». Il naufragio da sempre rappre-

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RUBRICHE

ASPENIA, N. 89, GIUGNO 2020

IL SOLE 24 ORE - LA REPUBBLICA, 5 GIUGNO E 3 AGOSTO 2020

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Che cosa scrivono gli altri

senta una drammatica possibilità alla quale i marinai pos-sono andare incontro nei loro viaggi quando l’abilità ma-rinaresca non è sufficiente e la fortuna li abbandona in un mare spesso infido e ostile. E la «fortuna», scrive Stefano Salis nel brillante elzeviro in questione, «è il comporta-mento del cielo e del mare, almeno così si diceva nei secoli passati», quella fortuna, aveva scritto il Machiavelli, che domina la metà delle vicende umane. Sulle orme quindi dell’Atlante delle Fortune di mare di Cyril Hofstein si ri-percorrono così le travagliate storie dei più noti naufragi dell’età moderna, chiedendosi «cos’altro siano questi viaggi andati a male, se non un repertorio eccezionale di storie, di romanzi da scrivere, di vicende che si leggono sognando un nuovo Salgari». Spiluccando qua e là in que-ste storie (opportunamente suddivise per mari), storie che i marinai erano soliti raccontarsi al tramonto nei momenti di bonaccia, facendo ben poca attenzione alla loro veridi-cità, i protagonisti sono sempre relitti, imbarcazioni fan-tasma, pirati e, ovviamente, favolosi tesori nascosti di ogni genere, tutti da scoprire. Come quello del famigerato ca-pitan William Kidd, dapprima «corsaro» di sua Maestà britannica con tanto di «lettera di marca» e poi accusato a sua volta di essere un pirata, finì impiccato nel 1701 e, dopo l’esecuzione, il suo corpo venne immerso nel ca-trame e appeso a una catena per due anni lungo una sponda del Tamigi come monito per potenziali futuri pirati. Del suo favoloso tesoro nascosto e della sua nave, l’Adventure Galley, si è tornati a parlare recentemente dopo una serie di fortunati ritrovamenti al largo dell’isola di Santa Maria, non lungi dalle coste occidentali del Madagascar (http://www.ocean4future.org/savetheocean/archives/9720). In un altro pregnante elzeviro apparso sul quotidiano romano in esame, Enzo Bianchi, saggista e monaco laico, fondatore della Comunità monastica di Bose in Piemonte, ci parla ancora del mare e, in particolare, del suo personale e travagliato rapporto con esso. Un rapporto improntato, da un lato, a un grande fascino mentre, dall’altro, a un al-trettanto grande timore, concordando in merito col giudi-zio della Bibbia, per la quale «il mare è un grembo del nulla, un abisso enigmatico, dal quale può sempre emer-gere il Leviatano, l’informe mostro marino». «C’è un aspetto di ostilità nel mare che non sono mai riuscito a negare o a dominare del tutto — confessa l’Autore — tut-

tavia amo il mare al punto da desiderare la sua presenza anche nell’Aldilà. Se ci saranno infatti “cieli nuovi” e “terra nuova”, perché non anche un “mare nuovo”?». Il riferimento è all’Apocalisse di Giovanni, cioè il Libro delle Rivelazioni, l’ultimo libro del Nuovo Testamento, tradu-cendo il quale l’Autore si è sentito autorizzato a pensare che il grande disegno divino del mondo che verrà — in cui «il mare non ci sarà più» — possa plausibilmente si-gnificare che «il mare “ostile” non ci sarà più»! Di qui, con afflato poetico, segue una vera e propria palinodia del mare, l’elemento naturale che cattura meglio della terra e del cielo il nostro intimo, «diventando un oggetto sul quale i nostri occhi sostano quasi a voler fissare quelle immagini così passeggere, perché il mare non è mai uguale. Infatti,

pochi minuti dopo averlo guardato, appare diverso, per-ché la luce cambia e il suo movimento si ripete in maniera differente. Accanto ai colori ecco i suoi movimenti, che a volte sembrano un gioco, quasi a rivelare la natura gio-cosa dell’universo. E dopo la tempesta — in cui il mare si scatena e si scaglia contro la terra come se cercasse di vincerla — il mare diventa liscio come l’olio, l’orizzonte lontano si staglia netto, lasciando intravedere l’infinito. Così ritorno a contemplarlo, senza mai provare noia o stanchezza». Dopo tanta prosa, ogni tanto un tocco di «poesia del mare» non guasta!

Ezio Ferrante

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Immagine artistica di captain Kidd con la mappa possibile del suo tesoro perduto (dailymail.co.uk).

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132 Rivista Marittima Ottobre 2020

RIVISTA MARITTIMA

MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

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RIVISTAMARITTIMA

MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

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La Componente sommergibili proiettata verso il futuro

Andrea Petroni

Il ruolo dell’Underwater per il futuro del mareManuel Moreno Minuto

La cavocrazia sul filo di UndernetPaola Giorgia Ascani

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE

ARMATERIVISTA MARITTIMA

RODOLFO BASTIANELLI

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RIVISTA MARITTIMA

RODOLFO BASTIANELLI

IL SISTEMA DI COMANDO

DELLE FORZE ARMATE

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UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE

Capo dell’Ufficio Contrammiraglio ANGELO VIRDIS

RIVISTA MARITTIMA

Direttore Responsabile Capitano di vascello DANIELE SAPIENZA

Capo Redattore Capitano di fregata DIEGO SERRANI

Redazione, Art Director Tenente di vascello RAFFAELLA ANGELINO

Redazione Secondo capo scelto QS GIANLORENZO PESOLA

Le immagini presenti in questa pubblicazione, se non diversamente indicato, provengono da Britannica Images Collection e da ProQuest Image.

2Supplemento alla Rivista Marittima

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3 Ottobre 2020

Presentazione a cura della Direzione della Rivista Marittima CAPITOLO I Il sistema di comando negli Stati Uniti I poteri del Presidente e il ruolo del Congresso I poteri del Presidente in situazioni di emergenza interna Il ruolo della “Guardia Nazionale” e i poteri militari attribuiti ai Governatori Il potere di decidere l’uso della forza nucleare CAPITOLO II Il sistema di comando in Francia II poteri del Presidente e del Primo ministro I poteri nella gestione delle situazioni di emergenza Il potere di decidere l’uso della forza nucleare CAPITOLO III Il sistema di comando nel Regno Unito I poteri del Governo e del Primo ministro Il potere di decidere l’uso della forza nucleare CAPITOLO IV Il sistema di comando in Germania La struttura di comando durante l’Impero tedesco (1871-1918 ) La struttura di comando durante la “Repubblica di Weimar” (1918-1933) La struttura di comando durante il regime nazista (1933-1945) Il sistema di comando nell’attuale Repubblica Federale di Germania CAPITOLO V Il sistema di comando in Russia L’assetto istituzionale e il sistema di comando nell’Unione Sovietica (1917-1991) L’assetto istituzionale e il sistema di comando nella Federazione Russa Il potere di decidere l’uso della forza nucleare CAPITOLO VI Il sistema di comando in Cina La struttura istituzionale e la forma di governo esistente in Cina Il sistema di comando militare L’apparato di sicurezza interna cinese e le forze paramilitari Il potere di decidere l’uso della forza nucleare CAPITOLO VII Il sistema di comando in Israele La forma di governo israeliana Il sistema di comando delle Forze armate Il potere di decidere l’uso della forza nucleare

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INDICE

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4Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

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5 Ottobre 2020

l “sistema” di comando delle Forze Armate è un argomento d’antico ragionamento e ricerca nonché di dibattito dottrinario e non solo.

Già i Romani si erano posti il problema; così, per esempio, l’imperium militiæ, ovvero il comando militare di massimo grado, era riservato ai consoli, mentre al Senato spettava il con-trollo della guerra.

Ovviamente, dall’architettura “costituzionale” romana fino ai giorni nostri si è avuta una lunga evoluzione, che in Occi-dente ha portato alla creazione di un vero e proprio sistema di check and balance — “pesi e contrappesi” — che trova la sua manifestazione nel costituzionalismo moderno e contempo-raneo. Questo tuttavia appare oggi alquanto policromo, per cui alla domanda “Chi comanda le Forze armate” la risposta che ne consegue non è affatto univoca. Pertanto, si possono avere varie tipologie di sistemi di comando delle Forze armate, che si riflettono in modo differente a seconda delle latitudini e longitudini.

In base a tale premessa, la Rivista Marittima è particolar-mente lieta di proporre il presente supplemento dedicato a tale questione che viene tratteggiata dal dottor Rodolfo Bastianelli. Per la cronaca, egli collabora, come giornalista specializzato, con diverse riviste e testate (Informazioni della Difesa, Rivista Marittima, Rivista di Politica, Rivista di Studi Politici, LiMes, Rivista di Studi Politici Internazionali, Affari Esteri e il settima-nale on-line dello IAI, Affari Internazionali), parimenti è stato docente a contratto di Storia delle relazioni internazionali.

PRESENTAZIONE

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

I

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6Supplemento alla Rivista Marittima

PRESENTAZIONE

ome il lettore avrà modo di constatare, il presente lavoro si snoda attraverso l’illustrazione di vari modelli o esempi che sembrano seguire un’ideale linea che da Ovest approda a Est; si parte con gli Stati Uniti e la Francia, poi la Gran Bretagna e la Germania, successivamente, proseguendo verso Oriente, si giunge in Russia e in Cina, per concludere con Israele. Ciascun modello è trattato, quando possibile, in chiave crono-logica; per cui si parte dagli antecedenti storici per giungere alla contemporaneità.

Dunque ogni “modello” riflette l’architettura e la storia co-stituzionale di quella determinata nazione, né potrebbe essere diversamente. Ne emerge un quadro di interesse e rilievo, sul piano del diritto pubblico comparato, ma anche d’utilità per coloro che si vogliono avvicinare alla tematica. La scelta degli esempi o modelli di cui sopra sembra riflettere il ruolo di al-cune potenze storiche e attuali che giocano nella scacchiera geopolitica internazionale contemporanea.

Se è vero, infatti, come dicevano i Romani: si vis pacem para bellum, è altrettanto veritiero e, forse lapalissiano, che è fon-damentale capire come le strutture di difesa si vedano coordi-nate dall’esecutivo e chi detenga il potere, ovvero quell’imperium così caro ai Romani, la cui struttura militare — non a caso — è ancora oggi considerata come la macchina bel-lica più organizzata ed efficiente che sia stata mai realizzata nella storia.

Dunque auspichiamo che il presente lavoro monografico potrà permettere ulteriori approfondimenti sia da parte dei no-stri lettori che da parte dei ricercatori.

In margine a queste poche righe di presentazione, non è escluso di proseguire tale mappatura verso altri paesi — sia eu-ropei, sia extra-europei — in quanto tale tematica appare densa di implicazioni non solo giuridiche ma anche necessariamente geostrategiche.

La Direzione della Rivista Marittima

C> segue da pagina 5

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IL SISTEMA DI COMANDO

Capitolo I

NEGLI STATI UNITI

7 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

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La “valigetta nucleare” (Nuclear Football), accompagna il Presidente degli Stati Uniti in ogni spostamento dalla Casa Bianca. Nella pagina precedente: lo stemma del Comando strategico degli Stati Uniti.

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L a Costituzione degli Stati Uniti attribuisce al Presidente un ruolo preponderante nella gestione della difesa e della politica estera, assegnando al Congresso una funzione di

controllo allo scopo di limitare e bilanciare le prerogative della Casa Bianca. Sempre al Presidente competono poi tutta una serie di poteri per la gestione delle eventuali situazioni di emergenza interna che dovessero presentarsi nel paese.

I poteri del Presidente e il ruolo del Congresso

Secondo la Costituzione, il Presidente è il “Comandante in

capo” delle Forze armate disponendo del loro comando operativo. In base a quanto stabilito dal dettato costituzionale, al Congresso spetta il compito di approvare il bilancio della Difesa, decidere lo stanziamento dei fondi e dichiarare la guerra, mentre al Presidente è attribuito il comando delle Forze armate e della Milizia — oggi “Guardia Nazionale” — dei vari Stati quando questa sia chiamata al servizio degli Stati Uniti. In questo modo, ripartendo le prero-gative tra il Presidente e il Congresso, i “Padri fondatori” inten-devano contenere il ruolo presidenziale e assicurarsi che una decisione di importanza fondamentale come l’entrata in guerra del paese fosse di competenza di un organo elettivo. Se da un lato quindi i costituenti riconoscevano come la prontezza e la segre-tezza delle azioni costituiva un elemento essenziale per garantire la sicurezza della nazione e che, di conseguenza, spettasse al Pre-sidente di condurre le operazioni militari, dall’altro si riconosceva però come fosse prerogativa del Congresso di decidere se far en-trare il paese in un conflitto.

Ma nonostante la divisione delle competenze, tra la Casa Bianca e il potere legislativo sono sorti frequentemente dei contrasti, come quello riguardante la questione se le Forze armate potessero essere impegnate in azioni militari senza una formale dichiara-zione di guerra del Congresso. Se difatti per i “Padri fondatori” al Congresso competeva non solo il potere di dichiarare la guerra ma anche la prerogativa di “limitare” la portata di un conflitto de-finendone gli obiettivi e la durata, dall’altro tuttavia, le ambiguità del testo costituzionale hanno consentito ai Presidenti, in ragione del loro ruolo di “Comandante in capo” nonché di quello di capo dell’Esecutivo per il quale gli è attribuito il compito di garantire la sicurezza nazionale, di rafforzare sensibilmente le loro prero-gative nel campo militare.

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10Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

E un’altra questione che si è presentata, soprattutto nel primo periodo della storia degli Stati Uniti, è quella se spettasse al potere legislativo o alla presidenza la prerogativa di decidere in merito al fatto se il paese do-vesse o meno rimanere neutrale in un conflitto. Così, nel 1793, l’allora segretario di Stato Thomas Jefferson, davanti alle ostilità che opponevano Gran Bretagna e Francia, affermò come gli Stati Uniti sarebbero rimasti «amichevoli ed imparziali» nonostante la gran parte dell’opinione pubblica fosse schierata dalla parte dei francesi visto l’appoggio di Parigi durante la guerra d’indipendenza. Tra gli esponenti politici del paese sorse quindi una discussione tra chi, come Hamilton, sosteneva come finché la guerra non fosse stata dichiarata era diritto del Presidente mantenere la pace usando tutti i mezzi disponibili, e chi, come Madison, al contrario sosteneva che la presidenza, nell’assumere una posizione di neutralità, era andata oltre le sue competenze. Il contrasto si risolse quando Washington presentò le sue considerazioni al Congresso che le approvò votando nel 1794 il “Neutrality Act” (1).

Ed è poi sempre competenza del Congresso di dichiarare formalmente terminate le ostilità, attuando in questo una ripartizione delle competenze con il Presidente. Se a quest’ultimo spetta, in qualità di “Coman-dante in capo”, la prerogativa di ordinare alle Forze militari di cessare le operazioni oppure di ritirarsi dall’area interessata alle operazioni, al legislativo compete invece quella di porre termine legalmente al conflitto, come avvenne nel 1921 quando dichiarò terminato lo stato di guerra seguito all’intervento statunitense nella Prima guerra mondiale e successivamente nel 1951 in cui si proclamarono concluse le ostilità contro la Germania. Osservando i precedenti storici, solo cinque dei conflitti in cui si è trovato coinvolto il paese — quello contro la Gran Bretagna nel 1812, contro il Messico nel 1846, contro la Spagna nel 1898 e le due guerre mondiali — sono stati apertamente dichiarati dal Congresso, per gli altri vi è stata solo un’autorizzazione congressuale a condurre delle operazioni militari, mentre appaiono formalmente incostituzionali l’intervento in Corea de-ciso da Truman e l’attacco contro la Jugoslavia attuato da Clinton (2).

E proprio le guerre del 1812 e del 1846 costituiscono due esempi di come il potere esecutivo e il legisla-tivo possano entrare in conflitto, in quanto il primo fu dichiarato dal Congresso nonostante la contrarietà del Presidente, mentre il secondo invece fu il risultato di una abile — però non certo edificante, viste le critiche avanzate in seguito — manovra del presidente Polk che riuscì a portare dalla sua parte il legislativo operando una serie di provocazioni che portarono alla guerra (3). E un’altra situazione in cui il Presidente, nonostante il suo ruolo di “Comandante in capo”, fu quanto mai restio a coinvolgere il paese in un conflitto, fu quella che portò alla guerra con la Spagna nel 1898. In quell’occasione, prima il presidente Cleveland e poi McKin-ley si dimostrarono contrari a entrare in guerra, andando così contro l’orientamento dell’opinione pubblica che, invece, premeva per un’azione militare contro la Spagna sia in ragione delle brutalità commesse dalle autorità spagnole a Cuba ma anche perché auspicava che gli Stati Uniti, sconfiggendo la Spagna, assumessero un ruolo più importante sulla scena internazionale. L’affondamento della corazzata USS Maine, avvenuto nel porto dell’Avana nel febbraio 1898, diede a McKinley il motivo per chiedere al Congresso di dichiarare la guerra contro la Spagna che si concluse poi il trattato di pace firmato il 10 dicembre 1898 (4). Sul piano le-gislativo, l’interpretazione data per giustificare la legittimità di un intervento effettuato senza una formale dichiarazione di guerra è quella che il Congresso divide le azioni in conflitti dichiarati e conflitti autorizzati. Rientrano tra i primi — definiti “perfetti” — quelli che mettono in pericolo la sicurezza e l’integrità nazionale e che necessitano di una formale dichiarazione di guerra, mentre invece vengono inseriti tra i secondi — de-finiti “imperfetti” — quelli che danno luogo a un momentaneo pericolo per la sicurezza nazionale e per i quali tale dichiarazione non è richiesta (5).

Ma il punto su cui più si è incentrato il dibattito politico e accademico è quello riguardante i poteri di cui di-spone il Presidente in qualità di “Comandante in capo” delle Forze armate, un tema questo che è emerso so-prattutto quando il paese si è trovato coinvolto in guerre o situazioni di emergenza nazionale. E gli stessi “Padri

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

fondatori” sapevano bene come le prerogative presidenziali in queste eventualità potevano espandersi signifi-cativamente, tanto che diversi commentatori hanno evidenziato come proprio l’elasticità delle disposizioni co-stituzionali consenta al Presidente di rafforzare i suoi poteri durante un conflitto. Emblematico in proposito è quanto avvenne con Lincoln durante la “guerra civile” e poi con Franklin D. Roosevelt nel corso del Secondo conflitto mondiale. Al momento dello scoppio delle ostilità, nell’aprile 1861, Lincoln ritardò la convocazione del Congresso fino a luglio e in quel periodo assunse una serie di provvedimenti per la gestione delle operazioni militari, alcuni dei quali andavano ben oltre le prerogative di cui disponeva quale “Comandante in capo”.

Tra questi, vanno ricordati, la decisione di mobilitare 75.000 effettivi della “Milizia” dei vari Stati in base a una legge del 1795 che autorizzava il Presidente al loro arruolamento, l’introduzione del 1862 del servizio di leva e il blocco navale nei confronti degli Stati confederati con il conseguente sequestro dei mercantili attivi nel commercio con la confederazione, ma anche quella di procedere allo stanziamento di fondi senza l’auto-rizzazione del Congresso e, soprattutto, la sospensione della garanzia dell’“Habeas Corpus” (Rescritto del di-ritto inglese, emesso già nel XII secolo: consiste in un atto, rilasciato dalla giurisdizione competente, con cui si ingiunge a chi detiene un prigioniero di dichiarare in qual giorno e per quale causa sia stato arrestato; onde il nome, in latino «abbi il [tuo] corpo», cioè, ti sia ridata la libertà fisica. La locuzione è usata per indicare le garanzie delle libertà personali del cittadino assicurate costituzionalmente) insieme ad altre misure limitative di alcuni diritti costituzionali (6).

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. La Costituzione gli attribuisce la carica di “Comandante in capo” delle Forze armate.

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12Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

E questo ampliamento del ruolo presidenziale apparve ancora più evidente durante il Secondo conflitto mon-diale, quando la Casa Bianca istituì tutta una serie di organi incaricati di gestire ogni aspetto dell’organizzazione bellica i quali rispondevano direttamente alla presidenza invece che ai Dipartimenti e alle agenzie indipendenti. I poteri di Roosevelt tra il 1941 e il 1945 si estesero a un tale livello che, nel settembre 1942, la Casa Bianca si spinse fino a prospettare di sospendere la Costituzione se il Congresso non avesse abolito alcune disposizioni contenute nell’“Emergency Price Control Act”.

E anche prima dello scoppio delle ostilità, a Roosevelt, con il “Lend-Lease Act” del 1941, era stata attribuita la prerogativa di vendere, prestare o affittare ogni prodotto inerente alla difesa dei paesi che si riteneva essere di importanza fondamentale per gli Stati Uniti, mentre sempre lo stesso anno Roosevelt, senza consultare il Congresso, inviò dei reparti militari a occupare l’Islanda e la Groenlandia per prevenire una loro possibile oc-cupazione da parte della Germania (7). Proprio su questa linea ha sempre insistito la Casa Bianca per giustificare il rafforzamento del ruolo presidenziale, tanto che Roosevelt nel corso del Secondo conflitto mondiale affermò come «…una volta terminata e vinta la guerra i poteri sotto cui agisco ritorneranno al popolo al quale apparten-gono…», facendo così intendere che le sue prerogative derivassero direttamente dal popolo e non dalle disposi-zioni costituzionali (8). E a partire dagli anni Cinquanta, con l’emergere di un nuovo scenario geopolitico internazionale, che si assisterà a un deciso incremento dei poteri presidenziali nel settore della difesa, i quali si andranno così a concentrare quasi totalmente nelle mani della Casa Bianca. Tuttavia, all’inizio degli anni Settanta, innanzi a un clima di crescente antimilitarismo e sotto la spinta di un’opinione pubblica sempre più ostile al-l’impegno americano nel Sud-Est asiatico, il Congresso cominciò a prendere in esame delle misure che fossero in grado di limitare le prerogative del Presidente nel campo della difesa ritenendo che questo disponesse di un potere decisionale sproporzionato rispetto a quanto attribuitogli dal dettato costituzionale.

LA CATENA DI COMANDO MILITARE NEGLI STATI UNITI

Presidente degli Stati Uniti

Segretario alla Difesa

Capo degli Stati Maggiori Riuniti (Chairman of Joint Chief of Staff)

Africa Command

Central Command

European Command

Indo-Pacific Command

Nothern Command

Southern Command

Space Command

Special Operational Command

Strategical Command

Transportation Command

Cyber Command

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Nel 1973 fu quindi approvata la “War Powers Resolution” la quale si proponeva di coinvolgere e ampliare il raggio d’azione del legislativo nonché di fissare un limite temporale alle operazioni militari intraprese dalla Casa Bianca che da quel momento in poi avrebbe dovuto richiedere un’esplicita autorizzazione del Congresso per inviare dei reparti militari in zone a rischio di guerra.

Attraverso il vincolo del consenso congressuale si tentava così di evitare anche il ripetersi di quanto accaduto nel corso del conflitto vietnamita, quando l’impegno delle Forze armate americane fu deciso dal presidente Joh-nson sulla base di quanto contenuto all’interno del trattato che istituiva la SEATO (South East Asia Treaty Or-ganization) (9). Fortemente osteggiata dalla Casa Bianca, la risoluzione però sollevò anche le critiche di quegli osservatori che ritenevano come il limite posto alla durata delle operazioni avrebbe potuto arrecare un danno alla stessa sicurezza del paese (10).

Fin dall’inizio la Casa Bianca aveva infatti evidenziato come fissare una durata temporale alle azioni militari non solo poteva portare al loro insuccesso ma contribuiva inoltre a dare l’immagine di un paese diviso, privo di risolutezza e in cui il Presidente era costretto a ritirare le sue truppe dietro pressioni politiche interne, senza contare poi che il ritiro sarebbe potuto avvenire anche nel caso in cui il Congresso, terminati i sessanta giorni stabiliti, non fosse riuscito a prendere una decisione per autorizzare il proseguimento della missione. E non meno severe sono state le osservazioni rivolte anche alla disposizione in cui si stabiliva che per mettere termine all’intervento militare poteva essere usata una “Concurrent Resolution”, uno strumento legislativo che, una volta approvato dal Congresso, sarebbe diventato effettivo senza la firma del Presidente che così era impossibilitato a far uso del diritto di veto. Dal lato opposto, non mancarono invece quelli che sottolinearono come la “War Powers Resolution” non risolveva la questione se il Presidente in casi di emergenza — quali il salvataggio di cit-tadini americani all’estero o l’adozione di misure di deterrenza militare verso alcuni paesi — poteva decidere au-tonomamente l’utilizzo delle Forze armate, un punto questo assai controverso e sul quale ha dovuto in seguito pronunciarsi anche la stessa Corte suprema, la quale ha ribadito come il Presidente conserva l’autorità di poter condurre delle operazioni militari a condizione però che esse abbiano una durata temporale e degli obiettivi li-mitati. Inoltre, alcuni parlamentari di orientamento più liberal sostennero come la “War Powers Resolution” costituisse addirittura uno dei provvedimenti più pericolosi approvati dal legislativo, in quanto se pure vi si af-fermava come il Presidente dovesse negoziare con il Congresso dopo novanta giorni dall’inizio delle operazioni, appariva però evidente come la Casa Bianca, durante quel periodo, conservasse il potere di disporre pienamente delle Forze armate, cosa che di fatto gli offriva una base legale per iniziare un conflitto. Altri poi dichiararono come ben difficilmente il Congresso, nel corso di un’operazione militare, potesse opporsi alle decisioni presi-denziali senza incorrere nel rischio di apparire “anti patriottico” o privo di risolutezza. E anche se in diverse occasioni sia la Casa Bianca sia il Congresso sono stati tentati dal ricorrere alla Corte suprema o per invalidare il contenuto del provvedimento ritenendolo incostituzionale in quanto costituiva un’ingerenza nelle prerogative costituzionali della presidenza oppure per cercare di imporre alla presidenza vincoli di osservanza alle disposi-zioni ancora più stretti, nessuno ha mai presentato una mozione in proposito, in quanto, è opinione degli os-servatori, entrambe le parti avrebbero avuto ben pochi vantaggi da una eventuale pronuncia dei giudici (11). Negli anni successivi alla sua approvazione, l’applicazione della “War Powers Resolution” è stata invocata in diverse occasioni, anche se solo per alcune operazioni militari la Casa Bianca ha ritenuto necessario presentare un rapporto al Congresso, sostenendo come in tutte le altre circostanze le Forze americane non erano impegnate in azioni di combattimento (12). A più di quarant’anni dalla sua approvazione, diversi commentatori sottolineano però come l’entrata in vigore della “War Powers Resolution” non abbia rafforzato in maniera significativa l’azione di controllo del Congresso il quale continua a incontrare dei limiti principalmente per ragioni politiche, visto che in caso di un forte sostegno popolare alle operazioni presidenziali per i parlamentari può risultare contro-producente, in chiave elettorale, contrastare le azioni militari decise dalla Casa Bianca.

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14Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Un’altra questione sulla quale negli ultimi anni si è incentrato il dibattito riguarda poi la partecipazione americana a operazioni decise dalle Nazioni unite. Stando a quanto previsto dallo “United Nations Parteci-pation Act”, il Presidente può inviare dei reparti militari in operazioni decise dal “Consiglio di sicurezza” solo dopo aver ricevuto l’approvazione del Congresso, mentre, sempre in base a questo provvedimento, alla Casa Bianca è espressamente proibito di sottoscrivere accordi con quest’ultimo con cui negoziare trattati o procedere alla difesa degli Stati Uniti. Un’ulteriore risoluzione stabilisce poi che la Casa Bianca è autorizzata a contribuire militarmente alle missioni delle Nazioni unite a condizione però che le unità abbiano una fun-zione di osservatori, non vengano impiegati in azioni di combattimento e i loro effettivi non superino le mille unità. Negli ultimi anni la discussione sulla partecipazione statunitense alle missioni delle Nazioni unite e sulle modalità con cui queste dovevano avvenire si è fatta però più accesa. Difatti, con la fine della Guerra fredda e della conseguente necessità di contenere le politiche dell’Unione Sovietica, è divenuto sempre più difficile giustificare degli impegni che coinvolgono le Forze militari in aree dove non sono messi a rischio gli interessi essenziali degli Stati Uniti.

Così, nel 1993 il Congresso prima approvava una mozione dal valore non vincolante con la quale si fissavano degli stretti criteri per la partecipazione statunitense alle missioni delle Nazioni unite e a cui due anni più tardi faceva seguito un’altra risoluzione che ne restringeva ulteriormente i termini. E lo stesso Clinton, che pure all’inizio del suo mandato aveva sostenuto l’idea di un più largo impegno degli Stati Uniti nelle missioni delle Nazioni unite, nel 1994 approvò delle più rigide misure alla partecipazione, sostenendo come vi dovesse essere un concreto in-

La sede del NORAD, il Comando di Difesa aerospaziale del Nord America.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

teresse nazionale e che la situazione ponesse un serio pericolo per la pace e la stabilità internazionale.

Tuttavia, nel documento si riaffermava però come fosse piena prerogativa del Presidente di impegnare le Forze statunitensi in base a quanto fissato dagli ac-cordi internazionali e dalle risoluzioni delle Nazioni unite, ribadendo inoltre come le limitazioni del Con-gresso andavano contro le disposizioni costituzionali che delineano i poteri presidenziali nella difesa e nella politica estera. E sul piano politico quindi le parteci-pazioni militari hanno provocato non pochi contrasti, e questo anche per la non certo elevata considerazione di cui godono le Nazioni unite a Washington. Va co-munque sottolineato come nella stragrande maggio-ranza dei casi le operazioni a cui gli Stati Uniti hanno preso parte non erano missioni dell’ONU, ma missioni condotte con la copertura giuridica di risoluzioni del “Consiglio di sicurezza” e, di conseguenza, le Forze americane non erano poste sotto il diretto comando dell’ONU. Passando a osservare le diverse missioni cui gli Stati Uniti hanno preso parte, se si esclude l’inter-vento contro l’Iraq nel 1991, le altre missioni ONU hanno finito per suscitare un acceso dibattito all’in-terno del Congresso che non ha mancato di criticare il Presidente per la gestione delle operazioni. Ma il nodo più importante riguarda però le ragioni che sono state alla base delle azioni decise dalla Casa Bianca e il fatto se queste siano state compiute nel pieno ri-spetto delle procedure costituzionali (13).

Se si osservano i numerosi interventi militari effet-tuati dagli Stati Uniti dall’indipendenza a oggi, si può notare come nell’Ottocento questi sono stati in mag-gioranza attuati contro la pirateria e il banditismo mentre prima del Secondo conflitto mondiale hanno assunto in prevalenza l’aspetto di operazioni di breve durata compiuti dai Marines o dalla Marina per tute-lare i cittadini e gli interessi economici statunitensi. È evidente quindi come solo dal secondo dopoguerra gli interventi hanno avuto le caratteristiche di missioni belliche o di assistenza militare e che soltanto da allora la Casa Bianca ha iniziato a disporre di un’ampia li-bertà di manovra per impiegare le Forze armate nel modo che riteneva più idoneo per tutelare la sicurezza degli Stati Uniti e quella dei paesi alleati (14).

Il missile balistico intercontinentale MINUTEMAN.

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16Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

FORMALI DICHIARAZIONI DI GUERRA PRONUNCIATE DAGLI STATI UNITI

GRAN BRETAGNA

MESSICO

SPAGNA

GERMANIA

AUSTRIA-UNGHERIA

GIAPPONE

GERMANIA

ITALIA

BULGARIA

ROMANIA

UNGHERIA

18 GIUGNO 1812

13 MAGGIO 1846

25 APRILE 1898

6 APRILE 1917

7 DICEMBRE 1917

8 DICEMBRE 1941

11 DICEMBRE 1941

11 DICEMBRE 1941

5 GIUGNO 1942

5 GIUGNO 1942

5 GIUGNO 1942

SENATO 19-13 CAMERA 79-49

SENATO 40-2

CAMERA 173-14

SENATO 42-35 CAMERA 310-6

SENATO 82-6

CAMERA 373-50

SENATO 74-0 CAMERA 365-1

SENATO 82-0

CAMERA 388-1

SENATO 88-0 CAMERA 393-0

SENATO 90-0

CAMERA 399-0

SENATO 73-0 CAMERA 357-0

SENATO 73-0

CAMERA 360-0

SENATO 73-0 CAMERA 361-0

JAMES MADISON

JAMES K.

POLK

WILLIAM MCKINLEY

WOODROW WILSON

FRANKLIN D. ROOSEVELT

FRANKLIN D. ROOSEVELT

FRANKLIN D. ROOSEVELT

CONFLITTO DATA VOTO CONGRESSO PRESIDENTE

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Passando a esaminare le più importanti azioni militari intraprese negli ultimi sessant’anni emerge che, di là da delle motivazioni politiche addotte dalla Casa Bianca, alcune di queste hanno suscitato tra gli analisti non pochi interrogativi riguardo alla loro legittimità mentre, come ricordato più sopra, l’intervento in Corea ordinato da Truman e il conflitto contro la Jugoslavia deciso da Clinton appaiono manifestamente incostituzionali (15). Su queste ultime due situazioni è necessario soffermarsi in maniera più dettagliata. Informato che le Forze armate nordcoreane avevano lanciato un attacco contro la Corea del Sud, l’allora presidente Truman, il 26 giugno 1950, dichiarò che gli Stati Uniti appoggiavano la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite in cui si ordinava alle truppe di Pyongyang di ritirarsi a nord del 38° parallelo e che avrebbe sostenuto ogni misura adottata dall’ONU per ripristinare la pace nella regione. Poco dopo il Consiglio di sicurezza, ap-profittando dell’assenza del rappresentante sovietico attuata in segno di protesta per la presenza dei delegati del governo nazionalista cinese, approvò una risoluzione nella quale si richiedeva l’assistenza militare americana per respingere l’aggressione nordcoreana. La questione, su cui poggiano le critiche rivolte a Truman, riguarda il fatto che già prima della decisione adottata dalle Nazioni unite la Casa Bianca aveva ordinato alle Forze navali e aree statunitensi di appoggiare la Corea del Sud nel respingere l’attacco nordcoreano. Quindi, dal punto di vista esclusivamente costituzionale appare evidente come, nonostante le dichiarazioni rilasciate dall’allora se-gretario di Stato, Dean Acheson, per cui le azioni decise da Truman erano in conformità con quanto fissato dal Consiglio di sicurezza e che l’intervento in Corea avveniva sotto l’egida delle Nazioni unite, i reparti statunitensi erano stati inviati in azione prima che l’ONU ordinasse l’uso della forza e senza un’autorizzazione del Congresso. Alcuni commentatori hanno in seguito sottolineato come le stesse dichiarazioni di Truman abbiano suscitato ulteriore confusione riguardo alla natura del conflitto coreano.

Poco dopo lo scoppio delle ostilità, il Presidente affermò che il paese «non era in guerra, essendo la missione un’operazione di polizia effettuata sotto il mandato delle Nazioni unite», anche se appariva evidente come l’ONU non esercitasse alcuna reale autorità sulla condotta delle operazioni militari tanto che le stesse corti federali e sta-tali, in seguito, smentirono la Casa Bianca sostenendo che l’intervento costituiva una vera e propria azione di guerra. Analoghe critiche sollevarono anche le operazioni in Vietnam del Sud. Se fino alla presidenza Eisenhower il ruolo delle Forze americane si era limitato a una missione di consulenza e supporto al governo di Saigon, durante l’amministrazione Kennedy il numero di militari presenti nel paese era già arrivato a quasi sedicimila, numero che negli anni seguenti crescerà fino a superare il mezzo milione di effettivi. Questo avverrà soprattutto sotto la presidenza di Lyndon Johnson, durante la quale l’impegno degli Stati Uniti nella regione prenderà l’aspetto di una vera e propria missione di guerra. In risposta a una serie di attacchi compiuti nell’agosto 1964 nel Golfo del Tonchino da pattuglie nordvietnamite contro unità navali militari americane, azioni che secondo Washington erano avvenute in acque internazionali, Johnson chiese al Congresso di approvare una risoluzione con la quale si dava alla Casa Bianca l’autorizzazione a prendere tutte le misure, compreso l’uso della forza, per ristabilire la pace e la sicurezza nel Sud-Est asiatico. Inoltre, stando a quanto dettato dal testo, gli effetti del provvedimento sarebbero terminati o nel momento in cui il Presidente avesse riconosciuto che l’azione internazionale stava riportando la stabilità nella regione oppure nel caso il Congresso avesse approvato una “Concurrent Resolution”. Di fatto, so-stengono i critici, con la risoluzione la Casa Bianca ricevette una completa libertà di manovra nel decidere l’im-piego delle Forze armate, finendo così per trascinare apertamente gli Stati Uniti nel conflitto vietnamita (16). L’altro intervento militare ritenuto incostituzionale è quello attuato nel 1999 dall’allora presidente Clinton in risposta alla repressione operata dal regime di Milosevic contro la popolazione albanese in Kosovo.

In questo caso la decisione di autorizzare la NATO a compiere un’azione militare contro la Jugoslavia fu presa senza il consenso del Congresso visto che, a differenza di quanto accadde negli altri paesi membri dell’Alleanza dove si richiese alle rispettive assemblee parlamentari di esprimersi per approvare l’operazione, negli Stati Uniti furono votate solo due “Concurrent Resolution” — tra l’altro senza valore di legge non essendo sottoposte alla

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18Supplemento alla Rivista Marittima

firma presidenziale —, una dalla Camera dei rappresentanti in cui si autorizzava la partecipazione a una missione di “peacekeeping” della NATO e l’altra del Senato nella quale si sostenevano le misure militari prese nei confronti di Belgrado. Non meno interrogativi sollevarono anche le azioni decise da George W. Bush. Pochi mesi dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, che furono definiti come un «atto di guerra», la Casa Bianca, nel “National Security Strategy”, tracciò la dottrina della “guerra preventiva”, un concetto in base al quale gli Stati Uniti si ri-servavano di usare la forza prima che una situazione potenzialmente pericolosa arrivasse a essere una minaccia per la sicurezza del paese. Proprio su questo punto si incentrarono le critiche di chi riteneva un tale principio assolutamente al di fuori delle convenzioni internazionali le quali, secondo quanto stabilito dalla stessa Carta delle Nazioni unite, consentivano a uno Stato di compiere delle azioni di autodifesa ma a condizione che fossero direttamente proporzionali alla minaccia posta in essere e avvenissero successivamente a un attacco armato. In seguito Bush illustrò meglio il concetto dichiarando come «…gli Stati Uniti non avrebbero usato la forza in ogni circostanza, ma allo stesso modo in un mondo dove i nostri nemici aspirano a possedere armi di distruzioni di massa e si formano un numero sempre maggiore di pericoli per la nostra sicurezza noi non possiamo rimanere inerti», chiarendo così che se da un lato la sua amministrazione avrebbe fatto ricorso ai mezzi diplomatici per ri-solvere le crisi internazionali dall’altro si sarebbe comunque riservata di usare la Forza militare avendone il diritto e l’autorità morale. E con analoghe opinioni contrastanti furono accolti anche gli interventi militari in Afghanistan e in Iraq in quanto, mentre il primo riscosse un consenso pressoché unanime, il secondo invece in-contrò un’opposizione più ampia sia nell’ambito congressuale sia sulla scena politica internazionale.

Se l’azione in Afghanistan fu motivata con il fatto che il regime talebano stava offrendo supporto logistico e politico alla rete terroristica di Al-Qaeda, ritenuta responsabile degli attentati dell’11 settembre e di altri attacchi terroristici contro obiettivi statunitensi, quella contro l’Iraq fu giustificata invece dalla necessità di prevenire il rischio che Saddam Hussein acquisisse delle armi nucleari e anche perché si riteneva opportuno favorire a Ba-ghdad un cambio di governo data la natura dittatoriale e oppressiva del regime iracheno; due ragioni queste che però numerosi paesi non hanno ritenuto valide per legittimare un attacco militare (17). Dalla disamina degli ar-gomenti più sopra riportati, si può quindi affermare come i “Padri fondatori” intendevano come le Forze armate dovessero essere sempre poste sotto il controllo civile e che il loro comando venisse attribuito al Presidente, in quanto si riteneva che una singola personalità avrebbe esercitato un’autorità più efficiente e sarebbe stata inoltre riconosciuta in maniera più evidente dai vertici militari (18). Ma nonostante il dettato costituzionale ponga le Forze armate sotto il controllo civile attraverso il Presidente e il dipartimento della Difesa, queste comunque hanno sempre mantenuto un ampio livello di autonomia interna. Difatti, pure se ai presidenti è attribuito il ruolo di “Comandante in capo”, questi ben difficilmente hanno mai avviato delle operazioni senza che i vertici militari le ritenessero effettivamente attuabili e con prospettive di successo positive, anche perché spetta sempre ai co-mandi fornire i reparti e gli equipaggiamenti per le azioni progettate. Riguardo all’organizzazione della struttura, l’apparato difensivo statunitense è stato riorganizzato una prima volta nel 1947 con l’introduzione del “National Security Act”, il quale istituiva la figura del segretario alla Difesa e univa in un unico dicastero i dipartimenti della Guerra — che aveva il controllo sull’Esercito — e della Marina fino a quel momento esistenti (19).

Ma i poteri di cui disponeva il segretario alla Difesa erano però ancora limitati, avendo egli solo una funzione di coordinamento sui dipartimenti dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, istituita subito dopo il Secondo conflitto mondiale. E se il successivo “National Security Act”, approvato nel 1949, ne rafforzava le prerogative, sarà comunque solo con il “Department of Defense Reorganization Act” del 1958 che l’intera struttura sarà centralizzata e il segretario alla Difesa posto al vertice dell’apparato militare con un ruolo secondo solo a quello del Presidente (20). Più di recente, un ulteriore riassetto delle competenze all’interno del sistema di difesa del paese si è avuto con il “Goldwater - Nichols Department of Defense Reorganization Act” del 1986, che definisce la catena di comando delle Forze armate statunitensi. Secondo quanto affermato dal provvedimento, le funzioni

RODOLFO BASTIANELLI

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

si diramano dal Presidente al segretario alla Difesa fino ai diversi comandi che coordinano tutti gli aspetti militari delle operazioni incluse le tattiche e la scelta degli obiettivi (21). Nella struttura dell’apparato di difesa degli Stati Uniti una posizione di primo piano è ricoperta dagli “Stati Maggiori Riuniti” (Joint Chiefs of Staff), che si compone dei comandanti delle quattro armi delle Forze armate — ovvero Esercito, Marina, Aeronautica e Marines —, i quali sono nominati dal Presidente con un incarico della durata di quattro anni e la cui designazione deve essere poi confermata con un voto da parte del Senato. Guidato da un “capo degli Stati Maggiori Riuniti” (chair-man of Joint Chiefs of Staff) anch’esso indicato dalla Casa Bianca il quale resta in carica con un mandato di due anni e mezzo che può essere rinnovato per una seconda volta, quest’organo è incaricato di formulare le strategie di difesa e di fornire al Presidente ogni indicazione in merito alla situazione militare.

Dopo la riforma attuata da Reagan nel 1986, l’organo è stato riorganizzato e la stessa posizione del “capo degli Stati Maggiori Riuniti” sensibilmente rafforzata.

I poteri del Presidente in situazioni di emergenza interna

Un discorso a parte va fatto, poi, sui mezzi di cui dispone la Casa Bianca in caso di guerra o di grave minaccia

alla sicurezza nazionale per garantire l’ordine interno. Nel testo costituzionale non è riportato nessun riferimento all’assunzione di poteri straordinari da parte della Casa Bianca, limitandosi la Costituzione a indicare come, in situazioni di emergenza, possa essere sospesa la garanzia dell’“Habeas Corpus”. E su quali misure potessero essere attuate dalla presidenza davanti a situazioni di emergenza o di grave pericolo per la sicurezza dei cittadini

Il bombardiere B-2 Stealth, della flotta dell’Aeronautica degli Stati Uniti.

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20Supplemento alla Rivista Marittima

e delle istituzioni sono sorti numerosi dibattiti e interpretazioni in merito alla questione. In base a quanto asserito dalla maggior parte dei giuristi il Presidente, in qualità di “Comandante in capo”, dispone della prerogativa di disporre delle Forze armate per la difesa e la sicurezza degli Stati Uniti, e questo non solo in tempo di guerra, ma anche in pace e, appunto, in situazioni di emergenza, nelle quali la Casa Bianca, in assenza di autorizzazione da parte del Congresso, viene ad appoggiarsi ai suoi poteri indipendenti per affrontare e gestire la crisi. Tuttavia, anche se la Corte suprema ha generalmente accettato la tesi che nei momenti più critici il Presidente disponga di poteri autonomi i quali possono essere esercitati senza una preventiva approvazione o autorizzazione del Congresso, è però evidente allo stesso tempo come la Casa Bianca non possa far uso e ricorrere a tali prerogative in mancanza di un’effettiva situazioni di emergenza. Inoltre, la stessa Corte suprema ha poi dichiarato come, pure se al Congresso è attribuito il diritto di dichiarare la guerra, questo comunque non può limitare il potere del Presidente di disporre delle Forze militari, aggiungendo poi che nelle situazioni di emergenza le prerogative della Casa Bianca devono intendersi “assolute” e non soggette all’esame del legislativo e delle corti federali.

Passando a esaminare le modalità e la tipologia delle circostanze nelle quali il Presidente può assumere dei poteri che oltrepassano quelli esercitati nella normalità, queste possono essere riassunte nei seguenti casi. La prima si presenta quando è richiesto l’impiego delle Forze armate in operazioni di ordine interno qualora le autorità civili non fossero in grado di provvedervi. Sulle disposizioni che regolano l’uso dei reparti militari, però è opportuno soffermarsi in maniera più dettagliata. Davanti al massiccio utilizzo di reparti dell’Esercito negli Stati ex confederati, durante il periodo seguito alla “guerra civile” e a un’opinione pubblica da sempre contraria all’impiego delle Forze militari all’interno del paese per il mantenimento dell’ordine pubblico, il Congresso approvò nel 1878 il “Posse Comitatus Act”, il quale proibisce l’utilizzo delle Forze armate in compiti di polizia a meno che questo non sia esplicitamente autorizzato dal legislativo (22).

Questo provvedimento tuttavia non impone però una completa interdizione dal poter utilizzare i reparti mi-litari nel mantenimento dell’ordine pubblico, in quanto riconosce che esistano delle eccezioni a questa impo-sizione. Davanti a una situazione di grave emergenza, il governo federale, in base al dettato costituzionale, ha il compito di difendere l’ordine pubblico e di assicurare che le autorità continuino a svolgere le loro funzioni e, di conseguenza, dispone quindi della prerogativa di ricorrere all’uso delle Forze armate. E per molti osser-vatori, il fatto che l’amministrazione federale a partire dal XX secolo abbia ampliato le sue competenze, sta a significare come i casi in cui il governo possa ricorrere all’uso delle Forze militari in situazioni di emergenza si sia notevolmente incrementato. In proposito, alcuni osservatori citano poi come, a partire dagli anni Novanta, in un sempre maggior numero di occasioni si sia ricorso alle Forze militari per contrastare il narcotraffico e l’im-migrazione clandestina, e anche se i reparti hanno operato come forza “passiva” e sotto il controllo delle autorità civili, è innegabile come questi abbiano comunque svolto significativi compiti di ordine pubblico (23). E anche se circoscritto dalle disposizioni del “Posse Comitatus Act”, questa prerogativa resta una delle più rilevanti di cui dispone il Presidente in caso di gravi emergenze interne, come avvenne soprattutto in occasione delle tensioni razziali esplose negli anni Cinquanta e Sessanta (24). L’altra situazione di emergenza interna dove il potere pre-sidenziale emerge più nettamente è nella decisione di proclamare la legge marziale in base alla quale la legisla-zione ordinaria e l’autorità civile sono temporaneamente sostituite da quella militare (25).

Formalmente, la Costituzione non fa riferimento alla proclamazione della legge marziale ma, stando all’opi-nione condivisa dai costituzionalisti, si presume che questa spetti al Presidente il quale la trasmetterebbe ai co-mandi militari per la loro applicazione. È chiaro però che per assumere una decisione di impatto così rilevante, deve sussistere una situazione talmente critica per la quale, per tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza del paese, si ritiene di ricorrere alle Forze militari non essendo più le autorità civili in grado di svolgere le loro fun-zioni. Davanti a uno scenario critico seguente a un grave disastro oppure a una serie di attacchi terroristici che le autorità locali probabilmente non sarebbero in grado di gestire, il Presidente è autorizzato a prendere delle

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

misure immediate per tutelare l’ordine e la sicurezza dei cittadini le quali possono essere attuate senza una pre-ventiva autorizzazione. Pur non essendo mai stata dichiarata sull’intero territorio nazionale, la legge marziale nel corso della storia degli Stati Uniti è comunque stata imposta in alcune parti del paese sia durante la “guerra civile” e il Secondo conflitto mondiale sia in occasione di insurrezioni, rivolte o disordini. Mentre già nel 1791 l’allora presidente George Washington decise, non senza esitazioni, di utilizzare l’Esercito per porre fine alla “Whiskey Rebellion” (26), la prima occasione in cui la legge marziale venne applicata fu però nel 1814, quando il generale Andrew Jackson la proclamò a New Orleans prima della battaglia avvenuta durante la guerra contro gli inglesi. Sarà tuttavia durante la “guerra civile” che la questione se la Casa Bianca potesse ricorrere a delle misure eccezionali per fronteggiare l’emergenza creata dal conflitto apparve in tutta la sua evidenza. Subito dopo la secessione attuata dagli Stati confederati, Lincoln ordinò il blocco di quattro porti del sud dichiarando che la sua decisione derivava dai poteri conferitigli in qualità di “Comandante in capo” delle Forze armate, ag-giungendo inoltre come tali azioni, pur in assenza di un’esplicita autorizzazione del Congresso, erano giustificate dal fatto che il paese si trovava davanti a una situazione di estrema emergenza (27).

E dalla conclusione della “guerra civile” a oggi, la legge marziale è stata proclamata solo in pochi casi e in aree territorialmente limitate, come avvenne alle Hawaii nel corso del Secondo conflitto mondiale, mentre in altre circostanze in cui il governo ha fatto ricorso all’uso dei reparti militari per ristabilire l’ordine pubblico non ha invece ritenuto opportuno di introdurla (28). Un’altra situazione nella quale il Presidente è autorizzato a ri-correre ai poteri di emergenza è poi in caso di disastri naturali o di gravi problemi sanitari, come avvenuto quando l’uragano Katrina, nel 2005, colpì la città di New Orleans, oppure davanti alle pandemie causate dalla SARS, dall’influenza A/H1N1 e, attualmente, dal Covid-19. E in base al “National Response Plan” attuato nel 2004, tra le situazioni in cui la Casa Bianca può far uso dei poteri di emergenza, sono state incluse anche il verificarsi di un disastro naturale capace di porre rischio alle forniture agricole e alimentari del paese, un attacco cibernetico e un incidente che comporti un potenziale grave rischio per l’ambiente.

Il Boeing E-4B modificato: in situazioni di emergenza

funzionerebbe come centro di comando (National Airborne Operations Center).

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In merito alle emergenze sanitarie va comunque sot-tolineato come in questo caso anche ai singoli Stati spettino una serie di importanti competenze. Stando al dettato costituzionale, i diversi Stati hanno la prero-gativa di imporre una quarantena sulle merci ritenute in grado di propagare un’infezione, mentre secondo quanto affermato da una sentenza della Corte suprema, le autorità e le Forze di polizia statali dispongono del potere di imporre l’isolamento a tutela della salute dei cittadini e sono competenti per tutte le questioni in materia sanitaria che interessino il loro Stato (29). Ri-guardo invece alle funzioni del governo federale in caso di disastri naturali o di emergenze sanitarie, que-ste sono regolate dallo “Stafford Act” approvato dal Congresso nel 1988. Questo provvedimento, invocato da Trump per gestire la crisi creata dal Covid-19, elenca le possibili situazioni critiche provocate da ca-tastrofi naturali e definisce i modi in cui la Casa Bianca è autorizzata a intervenire in casi di “emergenza” o di “disastro maggiore” che le autorità statali e locali non sono in grado di fronteggiare con i propri mezzi (30). E in circostanze eccezionali, il Presidente può far uso di due ulteriori poteri, i quali sono stati anche oggetto di discussioni tra i politici e i giuristi, ovvero la sospen-sione della garanzia dell’“Habeas Corpus” e la possi-bilità che dei civili possano essere arrestati dalle Forze armate e processati dalle corti militari (31).

In merito a queste due prerogative, va ricordato come durante la “guerra civile” nel 1861 un cittadino del Maryland venne arrestato dalle autorità militari con l’accusa di essere implicato in attività secessioniste, men-tre nel 1864 un residente nell’Indiana venne, invece, processato e condannato a morte da una corte militare (32). E in queste situazioni di emergenza, un’importante funzione di controllo dell’azione presidenziale è svolta dalla Corte suprema, che però nella sua azione viene a incontrare due ostacoli. Il primo di questi è che le sentenze arrivano sempre molto tempo dopo l’emissione del provvedimento assumendo quindi una valenza simbolica, mentre l’altro, invece, è che le pronunce possano venire ignorate dal Presidente con la scusa della sicurezza nazionale vista la situazione di emergenza in cui si trova il Paese (33).

Ma uno dei poteri più discussi di cui dispone il Presidente in situazioni di guerra è poi quello che gli at-tribuisce l’autorità di istituire dei “tribunali militari” per processare i responsabili di atti di sabotaggio, spionaggio o attentati terroristici anche se questi non appartengono alle Forze armate (34). Previsti dalle leggi approvate dal Congresso nel 1806, i “tribunali militari” hanno operato durante i conflitti in cui sono stati impegnati gli Stati Uniti, in occasione della guerra civile e della successiva occupazione dei territori ex confederati, mentre dopo l’11 settembre 2001 il presidente George W. Bush, affermando che gli attacchi avevano creato una situazione che richiedeva l’uso delle Forze militari statunitensi, ne ha deciso nuovamente l’istituzione stabilendo che davanti a loro vi potesse comparire chiunque fosse stato accusato di aver favorito la pianificazione degli attentati.

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I reparti delle Forze armate statunitensi schierati con la bandiera nazionale.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Le procedure previste per il funzionamento di que-sti tribunali particolari, i quali dovevano processare i prigionieri sospettati di appartenere a dei gruppi ter-roristici fondamentalisti islamici detenuti nella base di Guantánamo a Cuba, sono stabilite dal segretario alla Difesa il quale dispone anche delle prerogative di se-lezionare i giudici. Le ragioni avanzate dalla Casa Bianca nell’istituire i “tribunali militari” erano che le regole stabilite per i processi davanti alle corti civili non potevano applicarsi, per ragioni di sicurezza, a di-battimenti in cui erano giudicati dei terroristi insieme al fatto che i tempi di un dibattito con le procedure or-dinarie sarebbero stati estremamente lunghi e la segre-tezza delle sessioni non assicurata (35).

E infine non va dimenticato come durante gli eventi bellici l’autorità del presidente si estende anche all’economia e alle attività produttive. In un tale contesto la Casa Bianca non solo ha il potere di imporre il controllo sui prezzi e sui salari dei dipen-denti pubblici e privati ma anche la facoltà di distri-buire le risorse e i materiali strategici per la difesa nazionale, concedere prestiti e finanziamenti alle in-dustrie qualora queste non intendano o non possano effettuare investimenti, impedire fusioni o acquisi-zioni di aziende nazionali da parte di società straniere se questo può arrecare pericolo alla sicurezza del paese nonché di quella di impedire delle transazioni

finanziarie e sequestrare le proprietà di Stati considerati nemici. Sotto quest’aspetto, va ricordato come Roo-sevelt, poco prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, mise sotto controllo statale diverse industrie che producevano armamenti e mezzi militari in quanto, essendo da settimane in sciopero, non erano più in grado di far fronte alla produzione e come, nel 1952 Truman, davanti allo sciopero proclamato dai lavoratori del-l’acciaio durante il conflitto coreano, emanò una direttiva in cui ordinava al governo federale di prendere possesso degli impianti e di stabilire tutte le misure necessarie per garantire la produzione, informando nello stesso tempo i dirigenti delle compagnie che da quel momento sarebbero divenuti degli operating manager del governo sottoposti all’autorità del segretario al Commercio (36). Ma in questo caso il provvedimento fu immediatamente impugnato davanti alla corte federale di Washington, che annullò l’ordine presidenziale re-stituendo il controllo delle aziende ai proprietari (37). Riguardo invece allo stato di emergenza nazionale, che denota l’esistenza di una situazione imprevista e di durata sconosciuta in grado di mettere in pericolo la sicurezza del paese, va invece chiarito che questo può essere proclamato dalla Casa Bianca non solo davanti a rischi per l’ordine pubblico o in caso di guerra, ma anche per affrontare qualsiasi circostanza straordinaria.

In proposito vanno ricordate, la decisione presa nel 1933 da Roosevelt di fermare tutte le transazioni fi-nanziarie e bancarie per determinare prima quali istituti di credito fossero in grado di stare sul mercato dopo l’approvazione della nuova legge sulle banche, quella adottata, nel 1970, da Nixon con la quale si au-torizzava l’uso di unità militari della riserva per la distribuzione della corrispondenza per fronteggiare lo

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sciopero delle poste e l’altra disposta l’anno successivo sempre da Nixon per imporre dei dazi supplementari su alcune merci d’importazione allo scopo di controllare i flussi della bilancia dei pagamenti (38). Ed è sem-pre prerogativa della Casa Bianca, secondo quanto previsto dall’“International Emergency Economic Powers Act”, di autorizzare il congelamento dei fondi e ordinare il blocco o la limitazione degli scambi commerciali con paesi, organizzazioni e persone ritenute pericolose per la sicurezza degli Stati Uniti. Tuttavia, in questi ultimi anni l’azione del Presidente nella gestione delle emergenze è venuta ad essere soggetta ad una più precisa regolamentazione, in quanto se fino al primo conflitto mondiale la Casa Bianca ha fatto uso dei poteri a propria discrezione, a partire dagli anni Settanta il Congresso ha circoscritto questa prerogativa, stabilendo che il Presidente può chiedere l’autorizzazione ad adottare misure straordinarie indicando quali provvedi-menti intenda prendere.

Inoltre, viene stabilito che l’emergenza può durare solo per un anno e possa essere prorogata solo per un analogo periodo di tempo, spettando al Congresso la facoltà di porvi termine attraverso l’approvazione di una “Joint Resolution”.

Il ruolo della “Guardia Nazionale” e i poteri militari attribuiti ai Governatori

Anche se oggi il loro ruolo risulta quanto mai limitato visti gli ampi poteri spettanti al Presidente, il sistema

federale statunitense attribuisce comunque delle prerogative nel campo della difesa anche ai Governatori dei singoli Stati, dato che dispongono del controllo della “Guardia Nazionale” quando questa è chiamata a in-tervenire in situazioni di emergenza interna. Istituita nel 1636 dai coloni proprio per difendere gli insedia-menti che stavano costruendo sul territorio americano (39), la “Guardia Nazionale” ha attualmente una funzione di forza di riserva dell’Esercito statunitense, come dimostra la sua partecipazione a tutti gli interventi militari a cui sono stati chiamati gli Stati Uniti in questi ultimi anni nonché ai due conflitti mondiali. Secondo quanto stabilito dal “National Defense Act” del 1916, al Presidente, infatti, è conferita, in casi di emergenza, l’autorità di utilizzare per le operazioni la “Guardia Nazionale”, mentre in base a quanto previsto dalla “Total Force Policy” del 1973, i suoi effettivi, al pari degli altri componenti delle Forze armate, devono essere con-siderati come parte di una singola forza integrata. Come accennato prima, la “Guardia Nazionale” svolge tut-tora un ruolo di primaria importanza anche all’interno dei diversi Stati dell’Unione. In questo caso è formalmente sottoposta al comando del Governatore che può richiederne l’intervento in caso di emergenza, calamità naturali o di gravi disordini, anche se, va sottolineato, i poteri di utilizzo da parte dei governi statali hanno subito una serie di limitazioni, sia perché i tribunali federali hanno la facoltà di valutare se l’impiego della “Guardia Nazionale” è veramente necessario sia per il fatto che gli stanziamenti per il mantenimento degli effettivi provengono dal governo federale. Inoltre, la “Guardia Nazionale” può essere messa sotto il co-mando federale per fronteggiare sommosse interne oppure per partecipare a missioni militari all’estero, men-tre è poi previsto che in particolari occasioni il Presidente possa decidere di ricorrere ai reparti dell’Esercito federale per imporre alle autorità statali il rispetto e l’esecuzione delle leggi nazionali.

In conclusione, si può affermare che la struttura istituzionale degli Stati Uniti ha prodotto un sistema di con-trollo e comando delle Forze Armate quanto mai particolare, che attribuisce al Presidente amplissime prerogative in campo militare e, parallelamente, di condotta della politica estera, e che rende partecipi della difesa, anche se in modo indiretto, i diversi Stati dell’Unione attraverso l’utilizzo della “Guardia Nazionale” nel sua doppia funzione di garante della sicurezza interna e di forza di riserva dell’Esercito federale.

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25 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Il potere di decidere l’uso della forza nucleare Il Presidente, nel suo ruolo di “Comandante

in capo” delle Forze armate, costituisce la sola autorità che può ordinare l’uso della forza nucleare degli Stati Uniti e que-sta prerogativa è stata ribadita anche da un rapporto inviato dal diparti-mento della Difesa al Congresso, nel 2013. Nessuno dei suoi consiglieri militari o alcun membro del Congresso può sovrapporsi e fermare l’ordine impartito dal Presidente, in quanto gli appartenenti alle Forze armate, in base a quanto prescritto dall’“Uniform Code of Military Justice”, sono tenuti a eseguire gli ordini impartiti da quella che costituisce la sola legale e competente autorità. Riguardo alla struttura con cui sarebbero diramate le eventuali decisioni, la “National Com-mand Authority” stabilisce che gli ordini vengano impartiti appunto dal Presidente e dira-mati al segretario alla Difesa e da questo ai diversi co-mandi (Combatant Command), anche se, a detta di alcuni analisti, nella catena, il ruolo del responsabile del Pentagono e del “capo degli Stati Maggiori Riuniti” non sa-rebbe ben definito. Stando ad alcuni documenti ufficiali tra i quali un rapporto del “Congressional Research Service”, il segretario alla Difesa, nella procedura, avrebbe il compito di validare l’ordine certificando che sia stato impartito dal Presidente, anche se, in base a quanto riportato da altre personalità politiche, il segretario alla Difesa non avrebbe una posizione particolare all’interno della catena di comando, mentre la dottrina dell’US Air Force stabilisce che il Presidente dispone dell’esclusivo potere decisionale e può trasmettere l’ordine per mezzo del “capo degli Stati Maggiori Riuniti”. In merito alla procedura per gli ordini di lancio, questa prevede che, in presenza di un attacco individuato contro gli Stati Uniti, il Presidente si consulti con il segretario alla Difesa, il “capo degli Stati Maggiori Riuniti” e i principali consiglieri militari, mentre il Comandante del “Co-mando strategico” (STRATCOM) illustrerebbe le varie opzioni utilizzabili per il contrattacco.

Non è da escludere che in questo frangente sia il Comandante dello STRATCOM che il segretario alla Difesa possano cercare anche di esercitare la loro autorità sul Presidente per cercare, per l’ultima volta, di convincerlo a modificare la sua decisione di usare il dispositivo atomico (40). Ma nel caso decidesse di attivare la forza nucleare, egli si dovrebbe identificare con il Pentagono attraverso un “biscuit”, ovvero una “carta” preparata dalla “National Security Agency” dove è riportato un codice di autenticazione appositamente selezionato. Subito dopo, il Presi-dente aprirebbe la “valigetta” nucleare — la “Football” come è comunemente indicata, la quale deve trovarsi sem-

Lo stemma del Presidente

degli Stati Uniti.

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pre nelle sue immediate vicinanze ed è tenuta a turno da un ufficiale di ognuna delle cinque armi che compongono le Forze armate degli Stati Uniti — esaminando le soluzioni descritte nel “Black Book” contenuto al suo interno. Successivamente, l’ordine sarebbe impartito telefonicamente al Pentagono (41) dove, all’interno del “National Military Command Center” (NMCC) verrebbe autenticato e formattato in un “Emergency Action Message” (EAM) contenente i codici per il lancio delle testate il quale, attraverso un apposito canale di comunicazione, sarebbe trasmesso al “Global Operations Center” del “Comando strategico” (STRATCOM) per poi raggiungere i siti di lancio dei missili intercontinentali (ICBM, Intercontinental Ballistic Missile) e dei sommergibili nucleari (SLBM, Submarine-launched ballistic missile) (42). Il sistema di controllo delle forze nucleari statunitensi, a detta degli analisti, è organizzato in questo modo in quanto la sua struttura ha essenzialmente l’obiettivo non di discutere sulle eventuali opzioni che si presenterebbero, ma di consentire al Presidente di prendere una decisione in tempi rapidi. Configurato durante gli anni della Guerra fredda quando gli Stati Uniti si trovavano a fronteggiare la forza nucleare dell’Unione Sovietica, l’apparato doveva quindi permettere alla Casa Bianca di rispondere in maniera immediata a un attacco, dato che i missili lanciati dalle basi sovietiche avrebbero raggiunto il territorio statunitense in circa trenta minuti, mentre quelli dai sommergibili sarebbero stati in grado di arrivare sugli obiettivi nella metà del tempo, tanto che, si presume, il Presidente, effettuate le rilevazioni e le procedure, avrebbe avuto meno di dieci minuti per prendere una decisione (43). E un altro aspetto del sistema di comando nucleare degli Stati Uniti nel periodo della Guerra fredda era che, in situazioni di emergenza, l’ordine di procedere al lancio poteva essere

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Lancio di un SLBM (Submarine Launched Ballistic Missile) da parte di un sottomarino nucleare americano.

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“delegato” dal Presidente a un’altra autorità. Così dal 1957 al 1968 rimase attiva una procedura — denominata “Furtherance” — in cui, nel caso il Presi-dente non avesse il tempo per assumere una decisione oppure che tutti i si-stemi di comunicazione non fossero più attivi, l’ordine poteva essere impartito dai Generali responsabili dei diversi comandi o anche dagli ufficiali di grado immediatamente inferiore (44). Un’ulteriore procedura di delega-zione, attiva dal 1965 fino al 1992, prevedeva invece che il “North Ameri-can Aerospace Defense Command” (NORAD), il comando congiunto di Stati Uniti e Canada incaricato di controllare lo spazio aereo dei due paesi, disponesse, ma solo «sotto strettissime restrizioni e determinate condi-zioni», del potere di attivare la forza nucleare, anche se questo poteva av-venire solo dopo ripetuti tentativi di mettersi in contatto con le autorità civili e con la limitazione che le armi fossero di potenza limitata e venissero usate solo sul territorio degli Stati Uniti e del Canada.

E sullo stesso piano si inquadrava anche l’operazione Looking Glass, istituita nel 1961 e non più operativa dal 1990, che conferiva a un Gene-rale del “Comando Aereo Strategico” (SAC), operante su un aereo appo-sitamente attrezzato, il potere di decidere la risposta nucleare statunitense qualora un attacco sovietico avesse distrutto la capitale Washington e fatto saltare gli altri anelli della catena di comando (45). E di recente, all’interno del mondo politico, si è aperta una discussione, favorita anche dalla ten-sione creata dai test missilistici di Pyongyang, sulla possibilità di limitare il potere di utilizzo della forza nucleare di cui dispone il Presidente, dato che, in base alla dottrina, gli Stati Uniti, nel caso di un conflitto, si riservano il diritto di usare per primi l’arma atomica. Così, nel gennaio 2017 al Con-gresso è stato presentato un disegno di legge — indicato con il nome di “Re-stricting First – Use of Nuclear Weapons Act” — nel quale si proponeva

come il Presidente poteva decidere di attivare la forza nucleare solo in presenza di una dichiarazione di guerra del Congresso che ne autorizzasse l’uso. Di fatto, il provvedimento intenderebbe quindi prevenire la possibilità che il Presidente possa, in un conflitto, decidere di lanciare per primo un attacco nucleare (first strike) contando sulle sue prerogative costituzionali nonché sulle disposizioni dell’“Authorization for Use of Military Force” del 2001, il quale autorizza la Casa Bianca a usare ogni mezzo contro chi ha pianificato gli attentati dell’11 settembre e chi ha offerto ospitalità e appoggio ai gruppi terroristici implicati nell’azione (46).

Dal punto di vista costituzionale, nel caso il Presidente non fosse in grado di svolgere le sue funzioni queste, in base alla sez. 1 del XXV emendamento del 1965, verrebbero temporaneamente trasferite al vice Presidente, il quale assumerebbe la carica a pieno titolo in caso di scomparsa, dimissioni o destituzione per Impeachment del titolare. E se qualora anche il vice Presidente fosse impossibilitato, i poteri, stando al “Presidential Suc-cession Act” del 1947, sarebbero assunti nell’ordine dallo “Speaker” della Camera dei rappresentanti, dal Presidente pro tempore del Senato e dai segretari del “Gabinetto” presidenziale secondo il loro ordine di isti-tuzione. E allo scopo di assicurare la continuità dell’ufficio presidenziale, è previsto che, in occasione del “Discorso sullo Stato dell’Unione”, pronunciato nel gennaio di ogni anno dal Presidente davanti al Con-gresso, un membro del Gabinetto, indicato come “Designate survivor”, resti in una località sconosciuta di-stante dalla capitale al fine di poter assumere le funzioni qualora un attacco terroristico o nucleare eliminasse l’intera struttura del potere esecutivo e legislativo.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

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(1) Su questo vedi Base/Diller/Wirls, Commander in Chief, in The Powers of the Presidency, Congressional Quarterly, Washington D.C., 2008, pp. 231-232. (2) Le più importanti azioni intraprese dalle Forze armate statunitensi senza una formale dichiarazione di guerra sono state quelle attuate contro la Francia nel 1798 in risposta agli attacchi compiuti da unità militari francesi contro il naviglio mercantile americano, le missioni contro Tripoli nel 1802 e l’Algeria nel 1815 per tutelare il traffico commerciale dagli assalti delle navi dei sultani locali, le operazioni anti-pirateria effettuate nei Caraibi tra il 1819 e il 1823, le misure adottate da Eisenhower nel 1955 a tutela dell’isola di Taiwan e nel 1957 per la sicurezza del Medio Oriente, la decisione di iniziare i bombardamenti contro il Vietnam del Sud presa da Johnson nel 1964, l’invio dei Marines in Libano nel 1982 e infine l’intervento deciso da Reagan a Grenada nel 1983. (3) Il conflitto del 1812 fu il primo ufficialmente dichiarato nella storia degli Stati Uniti. Quando un numero di mercantili statunitensi furono catturati da navi britanniche, una parte del paese iniziò a chiedere che si avviasse un’azione militare contro la Gran Bretagna. Tuttavia, se l’even-tualità di un conflitto era approvata negli Stati del sud e dell’ovest dove i prezzi agricoli erano in calo, al contrario in quelli del nord-est l’idea di arrivare a uno scontro armato era invece estremamente impopolare in quanto i profitti del commercio erano molto elevati e gli effetti dello scontro in atto con gli inglesi erano praticamente inavvertiti. Allo stesso modo, il presidente Madison era contrario alla guerra e intendeva risolvere la questione diplomaticamente. Venne però convinto che la soluzione migliore fosse invece quella avviare un conflitto e così chiese al Congresso di dichiarare la guerra, che però si risolse in un disastro per le forze statunitensi. Anche gli inglesi, però, iniziarono a trovarsi in difficoltà e la guerra entrò così in una fase di stallo che terminò con la firma del Trattato di Gand il 24 dicembre 1814. Riguardo invece al conflitto con il Messico, le origini risalgono al 1841 quando l’allora presidente Tyler, acceso schiavista originario del sud, avviò delle consultazioni per l’ingresso del Texas nell’Unione, anche se, va detto, la gran parte dei texani era contraria in quanto temeva un’invasione da parte del Messico e, di conse-guenza, chiesero alla Casa Bianca che, nel caso si fosse proceduto all’annessione, essi avrebbero richiesto la protezione delle Forze statunitensi. Quando la proposta di annessione avanzata da Tyler al Congresso fu respinta, il Presidente chiese che questa fosse approvata con una risoluzione presa a maggioranza assoluta invece che con i due terzi. Sarà però con il presidente Polk, successo a Tyler, che il conflitto esplose. Gli Stati Uniti richiedevano al Messico il pagamento dei danni per i disordini che spesso si verificarono nella regione, mentre da parte sua il Texas rivendicava che i suoi confini si estendessero fino al Rio Grande, anche se il territorio texano non aveva mai raggiunto quell’estensione territoriale. Da parte sua Polk, che oltre al Texas mirava all’incorporazione del Nuovo Messico e della California, le quali erano sotto il controllo messicano, propose di acquistare i territori e contemporaneamente decise di inviare una missione con il compito di negoziare la questione. L’offerta consisteva nel-l’annullamento degli indennizzi richiesti per i disordini in cambio dell’estensione del confine fino al Rio Grande e del pagamento di cinque milioni di dollari per l’acquisto del Nuovo Messico e di venticinque milioni per quello della California. Quando però i messicani respinsero le richieste statunitensi, Polk ordinò alle Forze militari di avanzare e contestualmente chiese al Congresso una dichiarazione di guerra motivandola con il fatto che il governo del presidente Mariano Paredes si era rifiutato di trattare con gli Stati Uniti. Ma proprio quando Polk si apprestava a chiedere il voto del Congresso, le truppe del generale Taylor furono attaccate da quelle messicane dando così modo al Presidente di modificare il testo con le motivazioni per cui il paese doveva dichiarare guerra al Messico. Con il trattato di Guadalupe del febbraio 1848 gli Stati Uniti entrarono in possesso dei territori della California e del Nuovo Messico vedendo riconosciuto per il Texas il confine del Rio Grande. (4) Per effetto del conflitto, la Spagna rinunciò al controllo di Cuba e gli Stati Uniti entrarono in possesso di Porto Rico, delle Filippine e dell’isola di Guam. (5) Vedi su questo: Scigliano, The War Powers Resolution and the War Powers in Bessette/Tulis (a cura di), The Presidency in the Constitutional order, Louisiana State University Press, Baton Rouge/Londra 1981, pp. 124-127. (6) La Corte suprema approvò la decisione di Lincoln affermando come il Presidente «è autorizzato a resistere con la forza ad un atto di forza», aggiungendo come, pure se la Casa Bianca non disponeva della prerogativa di dichiarare la guerra, questa «in caso di atti ostili aveva comunque il diritto di rispondere senza attendere l’autorizzazione del Congresso». (7) Sui poteri di Lincoln e Roosevelt vedi Base/Diller/Wirls, op. cit., pp. 235-239. (8) Vedi sull’argomento Corwin, Presidential Power and the Constitution, Cornell University Press, Ithaca/Londra 1976, pp. 23 e 114-115. (9) Secondo gli articoli del trattato di alleanza del Sud-Est asiatico, il Presidente degli Stati Uniti poteva prendere tutte le misure, comprese quelle militari, per difendere l’indipendenza e la sicurezza di uno dei membri dell’Alleanza, quale era appunto il Vietnam del Sud. (10) I punti più importanti della “War Powers Resolution” del 1973 sono: Sezione 4 (a) - In assenza di una dichiarazione di guerra e ogniqual-volta le Forze armate degli Stati Uniti sono inviate (1) in situazioni di ostilità o dove queste sono ritenute imminenti (2) nel territorio, nello spazio aereo o nelle acque territoriali di un paese straniero, a eccezione se il dispiegamento avviene non con lo scopo di partecipare a operazioni di combattimento ma per ricevere rifornimenti e parti di ricambio o addestrare le forze locali (3) se viene incrementato il numero degli effettivi delle Forze statunitensi già presenti in un paese straniero, il Presidente entro quarantotto ore dovrà sottomettere allo “Speaker” della Camera dei rappresentanti e al Presidente pro tempore del Senato un rapporto scritto che spieghi (A) le ragioni che necessitano l’invio delle Forze

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NOTE AL CAPITOLO I

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militari statunitensi (B) sotto quale autorità costituzionale e legislativa sono poste le forze in questione (C) lo scopo e la durata dell’intervento; (b) - Il Presidente provvederà a inviare qualsiasi altra informazione che può essere richiesta dal Congresso nel rispetto delle sue funzioni costi-tuzionali riguardanti la partecipazione del paese a operazioni di guerra e all’uso delle Forze armate statunitensi all’estero; (c) - Qualora le Forze armate degli Stati Uniti partecipano a ostilità o a qualsiasi altra situazione descritta dalla sotto sezione (a) di questa sezione, il Presidente, fintanto che i reparti militari sono impegnati, dovrà informare periodicamente il Congresso sullo svolgimento delle operazioni e sulla loro durata, a condizione che i rapporti vengano presentati almeno una volta ogni sei mesi. Sezione 5 (b) - Entro sessanta giorni dal momento in cui la Casa Bianca ha presentato il suo rapporto, il Presidente dovrà porre termine all’intervento militare a meno che il Congresso (1) dichiari for-malmente lo stato di guerra (2) estenda ulteriormente la durata dell’intervento (3) sia impossibilitato a riunirsi a causa di un attacco portato al territorio degli Stati Uniti. Inoltre, il periodo dell’intervento potrà essere esteso per altri trenta giorni se il Presidente attesta al Congresso che improrogabili impegni militari concernenti la sicurezza delle Forze armate degli Stati Uniti richiedono un proseguimento delle operazioni per consentire un efficiente disimpegno dei reparti utilizzati; (c) Stando a quanto previsto dalla sotto sezione (b), le forze impegnate in situazioni di ostilità al di fuori degli Stati Uniti e dei suoi territori e possedimenti senza una dichiarazione di guerra o un’apposita autorizzazione dovranno essere rimpatriate dal Presidente se il Congresso dovesse approvare una “Concurrent Resolution”. (11) Storicamente, la Corte suprema ha sempre tenuto una linea tesa a favorire il Presidente e a ribadire le sue prerogative nel campo della difesa e della politica estera. (12) La prima di queste accadde nel maggio 1975, quando il presidente Ford ordinò un’azione di forza per liberare l’equipaggio della nave Mayaguez catturato da un battello cambogiano sottomettendo un rapporto al Congresso sull’operazione. Allo stesso modo anche Carter, quando nel gennaio 1980 organizzò un blitz per liberare i diplomatici tenuti in ostaggio dagli iraniani nell’ambasciata americana a Teheran, presentò una relazione ma non si consultò preventivamente con il Congresso, mentre al contrario nessuna informativa venne rilasciata da Reagan nel 1981 al momento dell’invio dei consiglieri militari a El Salvador, in quanto la Casa Bianca riteneva che la situazione non rientrasse tra quelle previste dalla Sezione 4 della “War Powers Resolution”. Sarà solo con la missione in Libano che le disposizioni della risoluzione trovarono effettivamente la loro applicazione. Nel luglio del 1982 Reagan decise di inviare un contingente di Marines in Libano all’interno di una Forza multinazionale istituita per ristabilire l’ordine nel paese. In quel-l’occasione in un primo momento si giunse a un compromesso tra il Congresso, che ottenne dalla Casa Bianca l’applicazione di quanto contenuto nella Sezione 4 della risoluzione, e il presidente Reagan, il quale ricevette in cambio l’autorizzazione a far restare le truppe in Libano per diciotto mesi. Con il peggioramento della situazione il Congresso richiese l’applicazione della “War Powers Resolution”, ma sarà il sanguinoso attentato contro la sede diplomatica americana di Beirut, in cui rimasero uccisi oltre duecento Marines, a spingere Reagan ad annunciare nell’Aprile 1984 la fine della missione. In altre occasioni la Casa Bianca decise di informare il Congresso, come fu per lo sbarco a Grenada nel 1984, per le azioni contro la Libia nel 1986 e per quelle attuate nel Golfo Persico nel 1987 allo scopo di offrire protezione militare alle petroliere kuwaitiane, senza citare però le disposizioni della risoluzione riguardanti l’impiego delle Forze militari in situazioni di ostilità. Un’analoga situazione si presentò nel dicembre 1989, quando l’allora presidente George H.W. Bush decise l’invasione di Panama affermando che l’operazione doveva restaurare la democrazia, garantire il libero transito al Canale e portare all’arresto del generale Manuel Noriega. La Casa Bianca non si consultò con il Congresso, che tra l’altro era fuori sessione, anche se va ricordato come il Senato aveva concesso al Presidente un’autorizzazione a usare tutte le misure diplomatiche ed economiche contro il regime pa-namense ma non a intervenire militarmente. Infine, in occasione dell’intervento deciso dalle Nazioni unite per liberare il Kuwait, il Congresso autorizzò esplicitamente il Presidente a usare la forza in base a quanto stabilito dalla “Risoluzione 678” del Consiglio di sicurezza. Vedi sulla questione, The War Powers Resolution: After Twenty-Eight Years, Congressional Research Service, Washington D.C., novembre 2001. (13) L’azione in Corea venne decisa dal Consiglio di sicurezza grazie all’assenza, attuata in segno di protesta per la presenza dei delegati del governo nazionalista cinese, dell’Ambasciatore sovietico. Subito dopo Truman ordinò un attacco per respingere l’offensiva nordcoreana, anche se il senatore Taft, nel gennaio 1951, affermò come Truman aveva inviato Forze statunitensi in guerra senza alcuna autorizzazione del Con-gresso. In seguito, la missione in Somalia, criticata per l’alto numero di perdite americane, non fu rifinanziata dal Congresso e nel 1994 Clinton ne ordinò la conclusione. Dei dubbi sono stati inoltre espressi anche per le operazioni in Bosnia-Erzegovina nel 1995, attuate in risposta alle violazioni di una serie di risoluzione dell’ONU effettuate dai serbo-bosniaci, tanto che il Congresso arrivò a prospettare un suo voto contrario al finanziamento della missione se unità militari americane fossero state dispiegate nei Balcani senza un’autorizzazione del legislativo. Lo stesso intervento in Kosovo, effettuato nell’ambito della NATO nonostante una prima approvazione del Congresso, suscitò critiche tra i parlamentari, alcuni dei quali arrivarono addirittura a presentare delle mozioni davanti ai Tribunali federali per ottenere o un’esplicita autorizzazione per continuare le operazioni oppure, scaduti i sessanta giorni previsti dalla “War Powers Resolution”, un ordine di ritiro delle truppe. Queste mo-zioni furono comunque rigettate. Va ricordato come sia per la missione in Bosnia-Erzegovina sia quella in Kosovo, il Senato approvò delle ri-soluzioni a sostegno delle Forze militari impegnate nelle operazioni. (14) Nel 1986 Reagan disse che l’attacco aereo contro alcune installazioni libiche era stato deciso per il coinvolgimento del regime di Tripoli nel-l’attentato compiuto contro una discoteca di Berlino in cui era rimasto ucciso un militare americano, aggiungendo inoltre come il ricorso all’auto-difesa non solo era un diritto/dovere degli Stati Uniti per proteggere i propri cittadini ma che questo era contemplato anche nella stessa Carta delle Nazioni unite. Più controversa fu l’operazione “Giusta Causa” attuata nel 1989 da George H.W. Bush a Panama. Il Presidente giustificò l’intervento dicendo che questo era attuato perché il regime panamense rappresentava un pericolo per i cittadini americani residenti nel paese e per il fatto che il generale Manuel Noriega doveva essere portato davanti alla giustizia statunitense per rispondere delle accuse di traffico di stupefacenti rivoltegli

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dalla magistratura. La Casa Bianca inoltre aggiunse come l’azione militare aveva anche lo scopo di restaurare la democrazia nel paese centroame-ricana, visto che lo stesso Noriega pochi mesi prima aveva illegalmente rimosso il presidente eletto, Guillermo Endara. In seguito, l’operazione fu criticata da alcuni giuristi i quali ritennero che le motivazioni avanzate dalla Casa Bianca non giustificavano l’uso della forza. Il presunto pericolo per la sicurezza dei cittadini americani e per lo stesso Canale di Panama furono considerati infondati, mentre la tesi per cui gli Stati Uniti avevano deciso l’intervento allo scopo di restaurare la democrazia venne contestata in quanto nella carta delle Nazioni unite non era contemplata questa ipotesi. Su questo punto, l’allora consigliere giuridico del dipartimento di Stato rispose che gli Stati Uniti non avevano accettato la teoria per cui un paese era autorizzato a intervenire nel territorio di un altro Stato per rovesciarne il regime dittatoriale in quanto l’azione militare a Panama era dettata da ragioni umanitarie essendo largamente sostenuta dalla popolazione locale; un’affermazione alla quale i critici dell’operazione ribatterono affermando che questo elemento era irrilevante dal punto di vista giuridico. Non meno severe furono le osservazioni riguardo al fatto che l’azione aveva lo scopo di portare davanti alla giustizia statunitense il generale Noriega che si era servito della sua carica per trasformare Panama in un centro per il traffico di stupefacenti e il riciclaggio della valuta. Se questo argomento fosse stato accettato avrebbe implicitamente autorizzato gli Stati Uniti a intervenire anche in altri paesi sospettati di essere implicati nel traffico di droga, una linea politica che ovviamente Washington non intendeva se-guire. Delle critiche si sollevarono anche in occasione degli attacchi aerei ordinati da Clinton in Bosnia-Erzegovina tra il 1994 e il 1995. Diversi costituzionalisti obiettarono che l’affermazione della Casa Bianca per cui il Presidente, agendo in collaborazione con gli altri paesi membri della NATO, aveva la facoltà di non richiedere il consenso del Congresso era palesemente infondata. In questo modo la decisione su un’eventuale entrata in guerra avrebbe coinvolto solo la presidenza e il Senato che aveva approvato il trattato con cui si sanciva l’adesione degli Stati Uniti all’Alleanza atlantica, facendo così venir meno il ruolo della Camera dei rappresentanti e violando quindi le stesse disposizioni costituzionali. (15) Per un elenco di tutte le operazioni militari effettuate dagli Stati Uniti al di fuori dei propri confini vedi: Instances of Use of United States Armed Forces Abroad, 1798-2007, Congressional Research Service, Washington D.C., gennaio 2008. (16) Vedi sulla vicenda Westerfield, War Powers: the President, the Congress, and the Question of War, Praeger, Westport 1996, pp. 2-4. (17) Sulle azioni militari decise dalla Casa Bianca dal Secondo conflitto mondiale a oggi vedi Fisher, Presidential War Power, 2a Ed., University of Kansas Press, Lawrence 2004, pp. 90-215. (18) Una particolarità che spesso non viene riportata è che i presidenti dispongono, tra l’altro, della prerogativa di poter assumere direttamente sul campo il comando delle operazioni militari. Da tempo è però prassi consolidata per la Casa Bianca di non mettere in discussione il ruolo e l’autorità di cui dispongono i comandanti militari sul terreno delle operazioni. (19) Il provvedimento inoltre istituiva il “National Security Council”, un organo guidato da una personalità designata dalla Casa Bianca e a cui tuttora spetta il compito di sottoporre al Presidente le questioni riguardanti la difesa e la sicurezza nazionale. (20) In conseguenza della riforma, la posizione dei dipartimenti dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica è stata di conseguenza ridimen-sionata. Questi non fanno parte della catena di comando e le funzioni dei tre segretari preposti alla loro guida sono di tipo amministrativo. (21) Un ruolo rilevante nella catena di comando è attribuito al capo degli Stati Maggiori Riuniti (chairman of Joint Chiefs of Staff), il quale dirama ai comandi operativi (Combatant Command) gli ordini emanati dal Presidente. Va poi ricordato che i vertici di questi ultimi, dal 2002, portano solo il nome di “Comandanti”, essendo riservato il titolo di “Comandante in capo” esclusivamente al Presidente. (22) Il provvedimento, proibendo ai reparti militari di svolgere compiti di ordine pubblico quali l’arresto di cittadini sospetti, perquisizioni e li-mitazioni al movimento delle persone attraverso l’istituzione di blocchi stradali, intendeva impedire che le Forze armate potessero divenire una forza di polizia assumendo così un ruolo simile a quello delle Gendarmerie esistenti in alcuni paesi europei. Tuttavia, la legge non proibisce l’im-piego dei reparti militari all’interno del territorio statunitense, in quanto le corti hanno stabilito che questi possono essere utilizzati rimanendo però il loro compito limitato a una funzione di supporto “passivo” e quindi sottoposto al controllo dell’autorità civile. Si deve poi ricordare come le disposizioni del “Posse Comitatus Act” riguardino solo l’Esercito, la Marina, l’Aeronautica e i Marines, escludendo la “Guardia Nazionale” quando opera sotto il comando del governatore di uno Stato e la “Guardia Costiera” in quanto, anche in tempo di pace, questa è incaricata di far rispettare le leggi sulla navigazione marittima. Vedi sull’argomento, C.T. Trebilcock, Posse Comitatus – Has the Posse outlived its purpose?, Center for Strategic and International Studies Homeland Defense Working Group, Washington D.C., marzo 2000, pp. 1-5. (23) I reparti militari possono essere impiegati all’interno del paese per compiti attivi di ordine pubblico in caso di insurrezioni o gravi disordini secondo l’“Insurrection Act” del 1807. La decisione di ricorrere all’“Insurrection Act” può essere presa autonomamente dalla Casa Bianca oppure da questa attuata su richiesta dei Governatori. L’“Insurrection Act” è stato invocato in numerose occasioni, l’ultima delle quali nel 1992 in occasione dei gravi disordini avvenuti a Los Angeles. (24) In proposito, va ricordato il celebre episodio avvenuto a Little Rock, nell’Arkansas, nel 1957, quando il presidente Eisenhower decise di inviare nello Stato un reggimento di paracadutisti per far entrare in una scuola un gruppo di studenti di colore ai quali il Governatore Orval Faubus continuava a negare l’accesso nonostante una pronuncia della Corte suprema disponesse l’incostituzionalità della discriminazione nelle scuole pubbliche statunitensi. Dopo che in un primo momento una corte statale aveva dichiarato come il provvedimento avrebbe potuto dar luogo a ten-sioni razziali, un tribunale federale sostenne successivamente invece come la legge dovesse essere applicata. A questa pronuncia il Governatore dello Stato rispose ordinando alla “Guardia Nazionale” di prevenire l’applicazione della misura e di impedire l’entrata in vigore delle norme anti discriminatorie. Per contrastare l’azione di Faubus la Casa Bianca, forte di un’ulteriore sentenza di un tribunale federale e del parere favorevole del Procuratore generale nonché di una formale richiesta avanzata dal Sindaco della città affinché fossero dispiegate delle unità militari, decise

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l’invio di un reparto ordinando inoltre alla “Guardia Nazionale” dello Stato, la quale era stata posta sotto comando federale, di garantire l’appli-cazione della legge. Allo stesso modo nel 1965 il presidente Johnson decise di mettere sotto il comando federale la “Guardia Nazionale” del-l’Alabama dopo che il governatore dello Stato, George C. Wallace, aveva provocatoriamente dichiarato che non poteva garantire l’ordine per la manifestazione convocata a Montgomery dai sostenitori del movimento dei diritti civili per la concessione del voto ai neri. (25) In base alle direttive emesse dal dipartimento della Difesa, la legge marziale è applicabile nei confronti della popolazione civile e può anche essere usata per imporre le decisioni prese dal governo in una situazione di estrema emergenza. (26) La “Whiskey Rebellion” esplose nelle regioni occidentali degli Stati Uniti in segno di protesta contro le decisioni attuate dal governo, con-siderato espressione delle aree orientali del paese, tra le quali una delle più contestate era proprio la tassa sul whisky. Dopo alcuni episodi violenti, la protesta si dissolse prima dell’arrivo delle forze militari e ai capi dell’insurrezione venne in seguito concessa la grazia. (27) Il governo degli Stati Uniti difese anche il diritto da parte degli armatori privati di procedere al sequestro di navi confederate come preda di guerra, come avvenne subito dopo lo scoppio delle ostilità, quando una compagnia di navigazione del Massachusetts catturò un mercantile in na-vigazione da Rio de Janeiro a Richmond, in Virginia, caricata di forniture di caffè. (28) Subito dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor il Governatore del territorio delle Hawaii, con l’approvazione del Presidente, impose la legge marziale nell’arcipelago fino all’ottobre 1944, mentre lo stesso Roosevelt, nell’aprile 1942, autorizzò il segretario alla Guerra e le autorità militari a istituire delle aree dalle quali qualunque persona potesse essere allontanata per ragioni di sicurezza, anche se in questo caso non venne formalmente dichiarata la legge marziale. In passato, fu posto sotto amministrazione militare e governato dalla legge marziale il territorio degli Stati ex confederati, mentre in alcuni casi questa fu imposta o per porre fine a scontri razziali, come accadde nel 1919 ad Omaha nel Nebraska, oppure in occasione di scioperi e dispute sindacali. In altre circostanze invece, pur se i Presidenti hanno deciso di utilizzare i reparti militari per ristabilire l’ordine, la legge marziale non fu proclamata, come accadde nel 1932 nel District of Columbia in occasione della “Bonus March” dei veterani del Primo conflitto mondiale che richiedevano il pagamento delle loro indennità di servizio, nel 1962, per gli scontri tra i segregazionisti locali e le forze federali avvenuti nell’università del Mississippi e tra il 1967 e il 1968 per placare i disordini esplosi in alcune grandi città del paese. Allo stesso modo l’11 settembre 2001 le unità militari furono chiamate ad assistere le Forze dell’ordine locali dopo i devastanti attentati avvenuti a New York e Washington. Difatti, secondo il parere di diversi costituzionalisti, l’uso dei reparti militari per compiti di ordine pubblico non implica la proclamazione della legge marziale, in quanto questi sono posti sotto il controllo delle autorità civili oppure impegnate in compiti di supporto e assistenza, rispondendo quindi a quanto stabilito dalle disposizioni del “Posse Comitatus Act”. Vedi su questo, Martial Law and National Emergency, Congressional Research Service, Washington D.C., gennaio 2005. (29) Sui poteri del Presidente nelle situazioni di emergenza vedi J.L. Friedman, Emergency Powers of the Executive: The President’s Authority When All Breaks Loose, apparso su Journal of Law and Health, Vol. 25, No 2, Anno 2012, pp. 265-306. (30) Nel caso di dichiarazione da parte del Presidente di una situazione di “emergenza”, le autorità federali sono autorizzate a offrire a quelle statali e locali un supporto limitato all’assistenza tecnica, mentre qualora la Casa Bianca proclamasse invece l’esistenza di un “disastro maggiore”, il governo centrale può agire fornendo sussidi per la disoccupazione, assistenza abitativa e aiuti finanziari per i lavoratori stagionali a basso reddito e i migranti. Vedi su questo Would an Influenza Pandemic Qualify as a Major Disaster Under the Stafford Act?, Congressional Research Service, Washington D.C., luglio 2008. (31) In base a quanto riportato dalla Costituzione, l’“Habeas Corpus” non può essere sospeso se non in presenza di un’insurrezione, di un’invasione o qualora le circostanze lo richiedessero, anche se lo stesso testo costituzionale non specifica se questa prerogativa spetti al Congresso o alla Casa Bianca. E la storia degli Stati Uniti offre diversi esempi di sospensione dell’“Habeas Corpus” da parte del Presidente. Durante la guerra di secessione Lincoln sospese le garanzie costituzionali per gli abitanti di zone strategiche che erano sospettati di collusione con la Confederazione, mentre nel corso dell’ultimo conflitto mondiale numerosi cittadini di origine giapponese residenti nelle Hawaii e in California furono internati in quanto consi-derati minaccia alla sicurezza nazionale. Vedi su questo Bowie (a cura di), Studi sul federalismo, Edizioni di Comunità, Milano 1959, pp. 260- 261. (32) Nel maggio 1862 John Merryman, noto per le sue simpatie verso la causa secessionista, venne arrestato nel Maryland dalle Forze militari. Subito dopo lo stesso Merryman presentò un ricorso al chief Justice della Corte suprema, Roger Taney, richiedendo che venisse emesso un ordine di “Habeas Corpus”. La Corte suprema ordinò il rilascio di Merryman ma, quando Lincoln si rifiutò di sottostarvi, dichiarò come il potere di sospendere la garanzia dell’“Habeas Corpus” non spettasse al Presidente ma al Congresso. Di nuovo, Lincoln rispose asserendo come la sospensione costituiva una misura dettata dalla situazione di emergenza in cui si trovava il paese e, dato che il Congresso in quel momento non era in sessione, il Presidente aveva il diritto di prenderla autonomamente. Come sottolineato dai politologi, la vicenda dimostra come un Presidente può prendere provvedimenti d’emergenza e non tenere conto delle pronunce dei tribunali se le sue decisioni godono di un ampio sostegno popolare. Nel 1864 invece Lamdin P. Milligan fu arrestato nell’Indiana dalle Forze armate con l’accusa di aver appoggiato il raid compiuto da unità confederate nel territorio dello Stato attraverso il fiume Ohio. Pochi mesi dopo, nel maggio 1865, lo stesso Milligan venne processato da una corte militare e condannato a morte. Imme-diatamente, fu presentato ricorso alla Corte suprema la quale dichiarò come il Presidente non aveva il diritto di far processare un civile dalle corti militari in Stati dove i tribunali ordinari funzionavano regolarmente e in territori posti al di fuori delle zone di guerra. La Corte suprema dichiarò inoltre come l’amministrazione militare era da ritenersi legittima nelle aree dove era in corso un conflitto, ma l’Indiana invece era quanto mai distante dal fronte delle operazioni. Va comunque ricordato come la pronuncia definitiva avvenne nel 1866, ovvero quando la “guerra civile” era già terminata. (33) In proposito, va ricordato come la Corte suprema invalidò alcune decisioni prese da Lincoln relative alla sospensione dei diritti civili così

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come allo stesso modo, durante la Seconda guerra mondiale, annullò l’internamento deciso dalle autorità militari di due cittadini di origine giap-ponese. E sempre la Corte suprema affermò come, una volta venuti meno i presupposti per la sospensione dell’“Habeas Corpus”, il governo doveva immediatamente reinsediare i tribunali civili e porre fine alla legge marziale. (34) L’autorità conferita al Presidente per istituire i “tribunali militari” deriva dal suo ruolo di “Comandante in capo” delle Forze armate nonché dalle leggi di guerra che gli attribuiscono il potere di sanzionare chiunque ne violi le disposizioni. Storicamente, i “tribunali militari” vennero costituiti per la prima volta da Andrew Jackson a New Orleans nel 1812 e in seguito sempre dallo stesso Jackson nel 1818 nel corso delle ope-razioni condotte in Florida contro i Seminole. In seguito, questi furono nuovamente formati in occasione del conflitto messicano, nel corso della guerra civile e del regime di occupazione al quale furono successivamente sottoposti gli Stati ex confederati, durante la Prima guerra mondiale e infine nel 1942 e nel 1944 quando Franklin D. Roosevelt decise di sottoporre al giudizio dei “tribunali militari” dieci spie tedesche. Sempre nel corso del Secondo conflitto mondiale, due “tribunali militari” furono istituiti nelle Hawaii subito dopo l’attacco giapponese dal governatore militare al quale erano state attribuite tutte le funzioni politiche e amministrative. Un caso controverso si presentò alla fine della guerra quando, nonostante le ostilità fossero terminate, una corte militare giudicò e condannò a morte, nelle Filippine, per i crimini commessi durante l’occu-pazione, il generale giapponese Tomoyuki Yamashita. Pure se la legittimità e le modalità del procedimento sollevarono dei dubbi anche in un giudice della stessa Corte suprema degli Stati Uniti, la condanna contro l’alto ufficiale nipponico venne eseguita nel 1946. (35) La Corte suprema nel 2006 affermò come la Casa Bianca, nell’istituire i “tribunali militari”, doveva sottostare comunque alle disposizioni previste dalla Convenzione di Ginevra che regolano il trattamento dei prigionieri di guerra. (36) Vedi sulla questione della vertenza dell’acciaio: Negri, Il sistema politico degli Stati Uniti. Le istituzioni costituzionali, Nistri Lischi, Pisa 1969, pp. 188-194. (37) Sui poteri del Presidente in campo economico e sul contenuto del “Defense Production Act” del 1950 vedi lo studio Declarations of War and Authorizations for the Use of Military Force: Historical Background and Legal Implications, Congressional Research Service, Washington D.C., marzo 2008. (38) Nell’elenco sono inclusi paesi come la Siria, lo Zimbabwe, la Bielorussia, l’Iran, la Corea del Nord nonché la stessa Russia, per prevenire il traffico di uranio e materiale fissile, le organizzazioni classificate come terroristiche e una serie di persone ritenute responsabili di attentati, di traffico di stupefacenti e gravi crimini. Vedi su questo e per l’elenco delle emergenze nazionali finora dichiarate: National Emergency Powers, Congressional Research Service, Washington D.C., novembre 2006 e Declarations under the National Emergencies Act, Part 1: Declarations Currently in Effect, Congressional Research Service, Washington D.C., 28 febbraio 2019. (39) Fondata con la denominazione di “Milizia”, assunse in tutti gli Stati Uniti quella di “Guardia Nazionale” nel 1903. (40) Vedi su questo, Strengthening Checks on Presidential Nuclear Launch Authority, Arms Control Today, gennaio/febbraio 2018. Il testo è reperibile al sito www.armscontrol.org/act/2018-01/features/strengthening-checks-presidential-nuclear-launch-authority. (41) L’ordine può essere impartito dal “Presidential Emergency Operations Center” situato nella Casa Bianca oppure dal “National Airborne Operations Center”, un aereo E-4B modificato che in quella situazione funzionerebbe come centro di comando. (42) I codici di autenticazione e di autorizzazione all’uso dei dispositivi nucleari (PAL) sono conservati, oltre che al Pentagono, anche al Comando strategico (STRATCOM) situato ad Omaha, in Nebraska. (43) Vedi sul sistema di controllo delle forze nucleari, Defense Primer: Command and Control of Nuclear Forces, Congressional Research Service, Washington D.C., 10 gennaio 2020. (44) Impartite da Eisenhower queste disposizioni, le quali includevano anche lo scenario dove un attacco sovietico avrebbe ucciso il Presidente e gli altri membri del governo degli Stati Uniti, autorizzavano i vertici delle Forze armate e della difesa strategica ad attivare le armi nucleari se dopo un attacco nemico non vi fosse stato il tempo di consultarsi con il Presidente oppure nel caso in cui a quest’ultimo fosse stato impedito di prendere una decisione. Eisenhower comunque tenne a precisare che una tale decisione da parte dei vertici militari doveva essere presa solo se «era assolutamente chiaro che un attacco nucleare contro gli Stati Uniti aveva avuto luogo e solo in casi di eccezionale gravità». Queste istruzioni furono poi confermate nel 1960 da Kennedy, anche se suoi diversi collaboratori prospettarono il rischio che un comandante militare poteva di sua iniziativa decidere una guerra termonucleare qualora non fosse stato in grado di contattare il Presidente. Rimaste in vigore durante le crisi di Berlino e dei missili a Cuba del 1962, le disposizioni sulla delega dei poteri di utilizzo delle armi nucleari furono in seguito fortemente contestate dal segretario alla Difesa Robert McNamara, il quale affermò che le istruzioni andavano immediatamente cancellate in quanto «solo il Presidente aveva il potere di decidere un attacco nucleare». (45) Va poi ricordato come nel 1961 il “Comando Aereo Strategico” (SAC) aveva impartito una direttiva in base alla quale, per assicurare un’ef-fettiva capacità di sopravvivenza dei sistemi di comunicazione tra i comandi e le basi di lancio, era previsto che un missile potesse trasmettere alle unità presenti entro la sua traiettoria i codici di lancio delle testate. Pressoché identica al sistema semi automatico sovietico “Perimetr”, questa procedura fu disattivata nel 1967. Vedi in proposito su questo argomento il sito www.globalsecurity.org/wmd/systems/ercs.htm. (46) Il provvedimento, che riprendeva l’emendamento presentato nel 1972 dal Senatore William J. Fulbright, con il quale si intendeva impedire al Presidente di usare la forza nucleare senza una dichiarazione di guerra o un’autorizzazione del Congresso, conteneva anche un disposizione per cui il Presidente non poteva decidere l’attivazione senza il parere dei più importanti membri del “Gabinetto” presidenziale. Vedi su questo, Legislation Limiting the President’s Power to Use Nuclear Weapons: Separation of Powers Implications, Congressional Research Service, Wa-shington D.C., novembre 2017.

32Supplemento alla Rivista Marittima

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

IL SISTEMA DI COMANDO

Capitolo II

IN FRANCIA

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Un momento della tradizionale parata militare che si svolge sugli Champs-Élysées, a Parigi, in occasione della festa nazionale del 14 luglio. Nella pagina precedente: il logo dell’EMA, l'État-Major des armées.

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L a Francia presenta un “esecutivo bicefalo” in cui il potere compete sia al Presidente sia al Primo ministro. Tuttavia, come è stato sottolineato da tutti gli osservatori, la preponderanza del Presi-dente è netta. E questa situazione è riscontrabile soprattutto nel campo della difesa e della politica

estera in quanto, se alcuni costituzionalisti affermano come questi poteri rientrino tra quelli “condivisi” tra il governo e la presidenza, la maggior parte li ritiene invece un “dominio riservato” dell’Eliseo e quindi di esclusiva competenza presidenziale.

I poteri del Presidente e del Primo ministro

Quello della difesa è uno dei settori dove più accesa è stata la discussione in merito alla ripartizione

delle competenze tra il Presidente e il Primo ministro. Stando a quanto fissato dall’art. 5 della Costitu-zione, il capo dello Stato è responsabile dell’integrità del territorio e dell’indipendenza nazionale, men-tre, per quanto attiene alla difesa e alla sicurezza nazionale, gli competono, secondo quanto dettato dall’art. 15, il comando delle Forze armate nonché la facoltà di presiedere il Consiglio Supremo della Difesa. La stessa Costituzione però, in base all’art. 20 con il quale si afferma come il governo dispone delle Forze armate e dell’art. 21 in cui si attribuisce al Primo ministro la responsabilità della difesa na-zionale, delega all’esecutivo importanti competenze in materia militare. Ed è proprio sull’interpreta-zione di quanto disposto dal dettato costituzionale che, come ricordato più sopra, sono sorte le maggiori discussioni tra chi sosteneva il primato del ruolo presidenziale e chi invece, al contrario, considerava la responsabilità della difesa di competenza governativa. Se il testo della Costituzione della “Quinta Repubblica” lascia aperto il problema di chi, tra le due teste dell’esecutivo francese, abbia un potere preponderante in ambito militare, la pratica seguita dal 1958 a oggi dimostra invece come le prerogative presidenziali appaiano decisamente più rilevanti di quelle attribuite al governo.

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E sul ruolo determinante assunto dall’Eliseo in merito alla politica militare hanno sicuramente avuto un peso decisivo le vicende storiche che portarono alla nascita della “Quinta Repubblica”. La Francia di allora era un paese dove i politici avevano perso il controllo sulle Forze armate, come dimostrato dal tentativo in-surrezionale posto in atto in Algeria dal generale Salan, la cui azione avrà un peso determinante nella crisi istituzionale che porterà De Gaulle ad assumere il potere. Proprio la concezione politica che il Generale aveva del rapporto tra potere parlamentare e organi militari avrà un impatto determinante sull’assetto istituzionale della “Quinta Repubblica”. Secondo De Gaulle, tra i tanti effetti negativi prodotti dall’esasperato parlamen-tarismo della “Quarta Repubblica”, vi era anche quello per cui a ogni cambiamento di governo seguiva anche la sostituzione del titolare della Difesa il quale non di rado era espressione di un partito diverso da quello del predecessore, con il risultato che la politica militare finiva così per essere confusa e priva di un indirizzo pre-ciso. Ecco perché la responsabilità doveva essere attribuita unicamente al capo dello Stato che, forte del man-dato ricevuto direttamente dagli elettori, avrebbe gestito gli affari militari senza interferenze politiche e partitiche, mentre il governo si sarebbe dovuto limitare a eseguire le direttive presidenziali.

Sulla base di questa concezione, negli anni in cui rimase all’Eliseo, De Gaulle concentrerà quindi nelle sue mani tutte le prerogative riguardanti la difesa, tanto che le decisioni più importanti relative alla politica militare francese risulteranno essere esclusivamente di origine presidenziale, come dimostrano la scelta di porre fine al conflitto algerino nonché quelle di creare una “Force de Frappe” nucleare autonoma e di uscire dalla struttura

militare della NATO. E anche dopo l’uscita di scena di De Gaulle, la predominanza del ruolo dell’Eliseo ha trovato conferma nelle dichiara-zioni rilasciate prima da Giscard d’Estaing, secondo cui solo il Presi-dente aveva l’autorità di decidere o meno l’uso della forza nucleare francese, e successivamente da Mit-terrand, il quale in un’intervista te-levisiva affermò come il capo dello Stato costituiva il punto di riferi-mento della strategia di dissuasione nazionale.

E la preminenza dell’Eliseo è stata poi ribadita sia in occasione della partecipazione francese al-l’operazione Desert Storm del 1991, nella quale fu il Presidente a decidere in merito all’impiego delle Forze armate e a fissare gli obiettivi strategici mentre il Primo ministro si interessò esclusiva-mente degli aspetti non militari della missione, sia dalla decisione di Chirac, nell’estate del 1995, di riprendere gli esperimenti nucleari

LA CATENA DI COMANDO MILITARE IN FRANCIA

Presidente

Primo ministro

Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate (Chef d’État-Major des Armées)

Ministro della Difesa

Esercito (Chef d’État-Major de l’Armée de Terre)

Marina (Chef d’État-Major de la Marine)

Aeronautica (Chef d’État-Major de l’Armée de l’Air)

Gendarmeria (Directeur Générale de la Gendarmerie)

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in Polinesia francese. Di fatto quindi, nonostante tra i politologi non manchino quelli secondo cui la re-sponsabilità della difesa sia una prerogativa governativa e non presidenziale, la prassi consolidata, a partire dagli anni Sessanta, è che questa costituisca un “dominio riservato” dell’Eliseo, senza contare poi come il capo dello Stato, tramite il suo peso decisionale nella designazione dei titolari della Difesa e degli Esteri, viene ad assumere un forte controllo sull’attività governativa limitando così il raggio d’azione del Primo mi-nistro. Infine, anche se questa può non apparire una prerogativa politicamente meno rilevante delle altre, spetta al capo dello Stato il compito di presiedere le riunioni del Consiglio supremo di Difesa, organo che ha progressivamente assunto sempre maggiore importanza facendo passare in secondo piano gli altri comi-tati ministeriali e tecnici esistenti. Inoltre, stando a quanto stabilito dall’art. 13, compete sempre al Presi-dente il potere di nominare le personalità assegnate a ricoprire gli «incarichi militari dello Stato», una prerogativa che riveste un’importanza quanto mai rilevante dato che in questo modo l’Eliseo può attribuire alle personalità più vicine alla sua concezione di difesa le posizioni più importanti all’interno delle Forze armate francesi. E a favorire il maggiore ruolo assunto dall’Eliseo nella difesa durante la “Quinta Repub-blica” ha contribuito anche la stessa immagine formale del Presidente che viene ad assumere la funzione di garante dell’unità nazionale e del rispetto dei valori e dei principi dello Stato. Inoltre, le stesse prerogative del ministro della Difesa sono andate riducendosi, tanto che, secondo quanto stabilito dal Decreto emesso il 15 luglio 2009, non gli spettano più le competenze per l’esecuzione della politica militare che sono invece attribuite al capo di Stato Maggiore delle Forze armate (CEMA), disponendo così il titolare del dicastero solo della funzione di mettere in atto quanto deciso in materia militare dal Primo ministro. Di fatto, il mini-stro della Difesa, nonostante le sue prerogative siano formalmente quanto mai ampie, non dispone di alcuna competenza operativa che spetta al capo di Stato Maggiore delle Forze armate (Chef d’État-Major des Ar-mées). Tuttavia, anche il ruolo di quest’ultimo, pur se di primaria importanza e dotato di prerogative estre-mamente importanti nella gestione della difesa, viene a subire il ruolo predominante del Presidente in materia di politica militare, in quanto l’azione del capo dello Stato può entrare in contrasto con quella del capo dello Stato Maggiore essenzialmente su due questioni, quali l’organizzazione delle Forze armate stesse e la condotta delle operazioni militari (47).

Se difatti l’autorità di cui dispone il capo dello Stato Maggiore in materia di organizzazione e di pianifi-cazione delle operazioni militari è indiscutibilmente riconosciuta, il potere di dispiegare, o eventualmente ritirare le Forze militari francesi in operazioni all’estero o all’interno della NATO, spetta però esclusiva-mente al Presidente. Ma perché il Presidente possa esercitare in pieno il suo ruolo, è necessario che il Pre-mier sia espressione della stessa maggioranza presidenziale. Difatti nell’ipotesi della “coabitazione”, pur rimanendo considerevole il ruolo dell’Eliseo, la situazione tende a riequilibrarsi rendendosi necessario per le operazioni il consenso governativo, una circostanza questa che può portare anche all’emergere di contrasti politici tra l’esecutivo e la presidenza, come accaduto soprattutto nel corso di quelli tra Mitterrand e Chirac. E anche se l’esecutivo non mise mai apertamente in discussione la preminenza del ruolo presidenziale, visto che tutte le operazioni militari allora decise — quali l’intervento in Ciad a sostegno di Hissène Habré, l’invio dei paracadutisti in Togo in appoggio al presidente Eyadema e la missione in Libano sotto il mandato del-l’ONU — vennero attuate con l’approvazione di Mitterrand pur essendo di iniziativa governativa, in due oc-casioni sorsero degli evidenti dissidi tra il Presidente e il Primo ministro. Il primo avvenne nel settembre 1987 quando in tutta segretezza e senza informare l’Eliseo il governo mise a disposizione del presidente congolese Sassou Nguesso un Transall C130 per operazioni di ordine pubblico, mentre il secondo, assai più rilevante sul piano politico, si verificò nel 1988 in occasione delle operazioni attuate in Nuova Caledonia contro i separatisti locali (48).

Appare quindi evidente come non si possa escludere che la “coabitazione” possa portare a un vero “con-

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flitto” tra le due teste dell’esecutivo soprattutto in momenti di tensione internazionale. È vero che finora tutte le crisi diplomatiche e militari accadute durante le tre “coabitazioni” registratesi nel corso della “Quinta Repubblica” sono state gestite senza particolari difficoltà, ma è innegabile che in un simile contesto, tra il Presidente e il Primo ministro possa registrarsi una notevole diversità di vedute. Le tensioni esplose tra Mit-terrand e Chirac durante la prima “coabitazione”, nel corso della quale il Presidente, sotto le pressioni del Premier, dovette accettare una “co-direzione” della gestione della politica estera e militare, e in seguito quelle verificatesi tra Chirac e Jospin in occasione della terza “coabitazione” tra il 1997 e il 2002, scoppiati so-prattutto dopo le contestazioni subite dal Primo ministro nel corso del suo viaggio nei territori palestinesi davanti alle quali l’Eliseo dichiarò come, nelle scelte in materia internazionale, era il Presidente a disporre dell’ultima parola, dimostrano come la Costituzione non fissi regole definite per gestire il periodo di “coa-bitazione” lasciando così spazio a una loro diversa interpretazione che potrebbe provocare delle tensioni tra i due vertici istituzionali capaci di danneggiare, o quantomeno rendere meno efficiente, l’azione diplomatica francese. Spetta allora alle due “teste” dell’esecutivo trovare un terreno comune che renda “collaborativa” e non “conflittuale” la “coabitazione”. Non è un caso dunque che alcuni analisti abbiano prospettato come, dinanzi a un scontro aperto tra il Presidente ed il Primo ministro, in grado di paralizzare completamente la politica del paese, il capo dello Stato potrebbe decidere di assumere i “poteri eccezionali” previsti dall’art. 16 per risolvere la crisi. Se si può trarre una conclusione, appare chiaro come le prerogative presidenziali tendano ad ampliarsi in situazioni di emergenza o davanti a tensioni internazionali, riducendosi invece a van-taggio del Primo ministro nei momenti di normalità, quando il dibattito torna a incentrarsi su questioni più politiche come il bilancio o i programmi d’ammodernamento (49).

Va infine ricordato come spetti al Parlamento la prerogativa di dichiarare lo stato di guerra. In base a quanto previsto dall’art. 35 della Costituzione, nei tre giorni che seguono l’inizio delle operazioni militari, il governo trasmette un’informativa alle Camere le quali però, al termine del dibattito che segue le comunicazioni del-l’esecutivo, possono anche non esprimersi con un voto. Tuttavia, se l’impegno militare si protrae per oltre quattro mesi, il governo deve richiedere un’autorizzazione parlamentare per continuare le operazioni. È utile soffermarsi su questa procedura per inquadrare in maniera più chiara quale sia il ruolo del Parlamento nella situazione e come di conseguenza si inquadrino le missioni militari attuate dalla Francia all’estero — indicate con il nome di Opérations Extérieures (OPEX) — dagli anni Sessanta a oggi. Formalmente, l’ultima dichiara-zione di guerra francese risale al settembre 1939. Da allora, le diverse operazioni all’estero svolte da Parigi sono state attuate con il consenso dei governi degli Stati interessati, come avviene solitamente per le missioni nei paesi africani, oppure sotto il mandato dell’ONU, della NATO e dell’Unione europea (50). Un identico discorso si può fare per le competenze in materia di politica estera. Al Presidente spettano numerose prero-gative in merito alla ratifica e alla negoziazione dei trattati conclusi dalla Francia, mentre le stesse direttive per l’azione diplomatica di Parigi si concentrano nelle mani dell’Eliseo riducendo così le funzioni del Quai d’Orsay e del ministro degli Esteri a quelle di suoi “consiglieri tecnici”. Durante la “coabitazione”, tuttavia, il quadro potrebbe assumere un aspetto diverso, soprattutto se questa dovesse prendere una forma “conflit-tuale” come fu tra Mitterrand e Chirac, quando il governo tentò di assumere un ruolo predominate nella ge-stione degli affari esteri.

Difatti tra il 1986 e il 1988 l’esecutivo provò non solo a ridurre i mezzi a disposizione del Presidente limi-tando sia il flusso di informazioni trasmesso alla presidenza dalle diverse ambasciate francesi che i contatti del-l’Eliseo con i vertici dei servizi d’intelligence, ma gestì in assoluta autonomia alcune questioni internazionali — quali la vicenda degli ostaggi francesi in Libano e i rapporti con l’Iran — cercando anche di riorientare la po-sizione di Parigi riguardo al progetto della “Strategical Defense Initative” (SDI) avanzato da Reagan, sul quale Mitterrand aveva espresso forti dubbi nonché di modificare la politica estera francese nei confronti del Suda-

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frica, dell’Iran, della Turchia e del Nicaragua. Tuttavia, al contrario di quanto desiderato da Chirac, egli si do-vette accontentare di attuare alcuni cambiamenti di peso politico minore, dimostrando che anche in quella si-tuazione, dove l’esecutivo aveva limitato il margine di manovra dell’Eliseo, il peso del Presidente rimaneva comunque sempre rilevante. Apparve poi evidente come nel corso della “coabitazione” fosse stata attuata, di fatto, una ripartizione in sfere d’influenza tra l’Eliseo e Palazzo Matignon, in base alla quale, mentre al Presi-dente spettava il controllo della difesa e delle relazioni franco-tedesche, tutte le altre questioni, quali i rapporti con i paesi africani, i contatti con l’Iran, unitamente alla gestione degli affari mediorientali, visti i riflessi che questi potevano avere sulla sicurezza interna del paese, erano invece di competenza del governo (51).

I poteri nella gestione delle situazioni di emergenza

Nell’ordinamento francese sono previsti tre diversi livelli di emergenza e ognuno prevede un diverso tipo

di risposta da parte dell’esecutivo. Il più importante è sicuramente l’assunzione dei poteri eccezionali da parte del Presidente, una prerogativa che più fa emergere il fortissimo ruolo assegnato all’Eliseo nella “Quinta Repubblica” (52). In base all’art. 16 della Costituzione egli può assumerli, senza alcun limite di tempo,

Il presidente francese Emmanuel Macron. L’ordinamento francese attribuisce all’Eliseo

poteri eccezionali in caso di emergenza.

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quando siano minacciate l’indipendenza della nazione o la sua inte-grità, le istituzioni del paese, il regolare funzionamento degli organi costituzionali e, addirittura, nel caso di mancata esecuzione degli ob-blighi e dei trattati internazionali. Le ragioni che spinsero a concedere al capo dello Stato un potere di così vasta portata sono da ricondursi alla memoria dei drammatici eventi del giugno 1940 che portarono alla resa della Francia. Come ebbe a dire De Gaulle, «in mancanza di una tale prerogativa, invece di trasferirsi con il governo ad Algeri, il presidente Lebrun fu costretto a conferire l’incarico a Pétain aprendo così la strada alla capitolazione». Due condizioni giustificano l’assun-zione dei poteri eccezionali presidenziali: l’esistenza di una minaccia “grave e immediata” contro le istituzioni della Repubblica e l’indipen-denza nazionale e l’impossibilità da parte dei poteri costituzionali di funzionare regolarmente. La questione dibattuta è se sia necessario, per l’assunzione dei poteri da parte dell’Eliseo, l’esistenza di una “im-possibilità materiale” per gli organi dello Stato a svolgere le loro fun-zioni — per esempio che il governo, l’Assemblea nazionale e il Senato siano impossibilitati a riunirsi nelle loro sedi — oppure basti, come ammettono i sostenitori dell’interpretazione estensiva di questa pre-rogativa, una “crisi ipotetica”, i cui sviluppi potrebbero dar luogo a una grave minaccia per lo Stato. Per adottare queste misure — che nei fatti consegnano al capo dello Stato dei poteri “dittatoriali” — è ne-cessario, per il Presidente, il parere obbligatorio ma non vincolante del Primo ministro, del presidente dell’Assemblea nazionale, del pre-sidente del Senato e del Consiglio costituzionale, mentre la stessa pre-sidenza né da successivamente comunicazione al paese con un semplice messaggio radiotelevisivo.

Ma, mentre l’opinione del presidente dell’Assemblea nazionale e del Premier sono sostanzialmente formali, il ruolo del Consiglio co-stituzionale può divenire quello di un vero e proprio “controllore”, anche di fronte all’opinione pubblica, del Presidente. Pur rimanendo in funzione, l’Assemblea nazionale non solo non ha alcuna autorità nel revocare le misure d’emergenza decise dall’Eliseo, ma potrebbe anche vedere limitare diverse sue prerogative nel caso il Presidente decidesse di sospendere alcune garanzie costituzionali quali la libertà d’espressione o di riunione. Durante l’esercizio dei poteri straordinari il Presidente non solo viene a disporre di tutti i mezzi necessari per far fronte alle circostanze, ma assume nelle sue mani il potere legislativo e regolamentare, potendo arrivare a sostituirsi ai tribunali ordinari e a sospendere le libertà costituzionali, come fece De Gaulle durante il suo esercizio dei poteri straordinari quando, con due decreti, sospese prima le libertà pubbliche e poi l’inamo-vibilità dei magistrati di stanza in Algeria. Gli unici limiti che incontra sono quello di non poter dar luogo a procedimenti di revisione costituzionale e di non poter procedere alla dissoluzione dell’Assemblea nazionale. In una sola circostanza, fino a oggi, il capo dello Stato ha deciso di assumere i poteri eccezionali. Accadde il 23 aprile del 1961 quando De Gaulle, dandone comunicazione ai francesi con un messaggio televisivo, decise di ricorrere ai poteri straordinari per porre fine al tentativo di colpo di Stato operato da un gruppo di alti uf-

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ficiali in Algeria allo scopo di impedire l’accessione all’indipendenza della colonia francese. In quell’occasione il Presidente esercitò le funzioni previste dall’art. 16 per cinque mesi, fino al 29 settembre 1961. Proprio la mancanza di un limite all’esercizio dei poteri straordinari è stata il punto sui cui si sono concentrate le critiche delle opposizioni.

Durante la crisi algerina del 1961, nonostante le operazioni contro i quattro generali golpisti ebbero termine il 26 aprile, il Presidente continuò a far uso dei poteri eccezionali fino a settembre, mentre alcune misure erano ancora in vigore al luglio 1962 (53). Né il Parlamento né tantomeno lo stesso Consiglio costituzionale, che pure riveste in questa circostanza un ruolo non indifferente, furono in grado di constatare il venir meno delle condizioni necessarie per la “dittatura” presidenziale. Un altro problema che fu sollevato in più occasioni dai critici, era quello se il Presidente potesse decidere di far uso di queste prerogative in caso di una vittoria delle

Un momento della tradizionale parata del 14 luglio a Parigi.

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opposizioni. Come hanno sottolineato i costituzionalisti, una tale circostanza è decisamente da escludere, in quanto l’affermazione di una maggioranza ostile al Presidente non comporta nessuno dei rischi per la sicurezza nazionale enunciati all’interno dell’art. 16. Criticata da diverse parti per le sue caratteristiche repressive e li-berticide, la disposizione riguardante l’assunzione dei poteri eccezionali da parte del Presidente è stata oggetto negli anni di diverse proposte di riforma, come fu per la “Commissione Vedel” istituita nel 1992 da François Mitterrand che proponeva di fissare un termine al loro esercizio e di affidare al Consiglio costituzionale la valu-tazione se esistessero o meno le condizioni per la permanenza in vigore delle misure, oppure di abolizione; come avvenne nel 1993 con la proposta presentata dall’allora premier Bérégovoy, che però non trovò seguito

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Il sottomarino a propulsione nucleare francese LE TERRIBLE.

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visto il cambio di maggioranza parlamentare avvenuto dopo le elezioni legislative dello stesso anno.

A un livello inferiore nella scala delle emergenze è posto invece lo stato d’assedio. Secondo l’art. 36 della Costituzione, questo è dichia-rato dal governo in caso d’imminente pericolo di guerra o d’insurre-zione armata su una parte del territorio nazionale e comporta il trasferimento dei poteri dall’autorità civile a quella militare unita-mente alla limitazione di alcuni diritti e libertà costituzionali (54). In base a quanto previsto, questa misura, che non è stata mai invocata nel corso della “Quinta Repubblica”, ha una durata limitata a dodici giorni e può essere estesa solo con il consenso del Parlamento. Infine, per fronteggiare eventuali situazioni di pericolo per la sicurezza del paese, l’esecutivo dispone dello “stato d’emergenza”, che però, a dif-ferenza dell’assunzione dei poteri eccezionali da parte del Presidente e della proclamazione dello “stato d’assedio”, non è inserito nelle di-sposizioni costituzionali, ma regolato esclusivamente da una legge ordinaria (No 55-385) del 3 aprile 1955. I motivi per cui il governo dell’allora premier Edgar Faure spinse per l’approvazione di questo provvedimento, quando nell’ordinamento francese esisteva già la pos-sibilità di proclamare lo “stato d’assedio” come era già avvenuto nel 1914 e nel 1939, vanno ricercati nella grave situazione esistente in Algeria. Secondo quanto previsto dalle disposizioni sullo “stato d’as-sedio”, questo non può essere proclamato se non in caso di guerra o insurrezione armata in uno dei dipartimenti del territorio nazionale e di, conseguenza, se il governo lo avesse dichiarato, significava am-mettere o che la Francia fosse in conflitto con le Forze indipendenti-ste algerine oppure che in una parte del paese stesse avvenendo una rivolta armata. E il timore del governo era che, ammettendo di trovarsi di fatto in “stato di guerra” con i nazionalisti algerini, si sarebbe po-tuto internazionalizzare il problema portando così anche a un coin-volgimento delle Nazioni unite. Era quindi necessario approvare uno strumento legislativo che consentisse alle autorità di far fronte ai gravi disordini che stavano avvenendo in Algeria, ma che, allo stesso tempo, non contenesse alcun riferimento a un conflitto armato così da ren-dere la questione algerina un “affare interno” francese in cui nessuna istituzione od organismo internazionale avrebbe potuto intervenire.

E come ebbe a dire proprio lo stesso Primo ministro Faure, «…tra la proclamazione dello stato d’assedio e quella dello stato d’emergenza non vi è alcuna differenza sostanziale, solo il fatto che il primo riconduce a una situazione di guerra, termine che nella crisi algerina si doveva assolutamente evitare...». In base a quanto sta-bilito dal testo legislativo, lo “stato d’emergenza” è proclamato dal governo in caso di imminenti pericoli per l’ordine pubblico o in conseguenza di eventi che assumono le caratteristiche di grave calamità (55). Il provve-dimento può applicarsi a tutto il territorio nazionale o soltanto a una parte di esso e ha una durata di dodici giorni che può tuttavia essere estesa, con il consenso del Parlamento. Diversamente dallo “stato d’assedio”, che comporta un trasferimento dei poteri all’autorità militare, nel caso di proclamazione dello “stato d’emer-

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genza”, le autorità civili restano in funzione nella pienezza delle loro prerogative continuando ad avere il con-trollo delle Forze di polizia. L’attivazione della misura comporta delle limitazioni ai diritti e alle libertà dei cit-tadini assegnando ai prefetti la prerogativa di poter interdire la circolazione nei luoghi interessati al provvedimento e al ministro dell’Interno quella di attivare delle misure di sorveglianza e controllo sulle persone ritenute potenzialmente pericolose e di interrompere le comunicazioni via internet dei siti che incitano al ter-rorismo e alla violenza, mentre al Consiglio dei ministri è attribuito, tra l’altro, il potere di sciogliere le asso-ciazioni considerate pericolose per l’ordine pubblico nonché di interdire le riunioni giudicate pericolose per la sicurezza e di chiudere al pubblico le sale utilizzate per gli spettacoli. Inoltre, alle autorità di polizia è attri-buita la possibilità di eseguire perquisizioni sia in orario notturno sia diurno e di consultare gli archivi infor-matici restando comunque l’obbligo di informare la magistratura (56).

Come sottolineano però alcuni analisti, mentre la proclamazione dello “stato d’assedio” prende in consi-derazione situazioni ben delineate, le eventualità che portano il governo a decretare lo “stato d’emergenza” restano al contrario alquanto indefinite, potendo così portare al rischio che questa misura possa essere invocata in modo del tutto discrezionario dall’esecutivo (57). Contrariamente allo “stato d’assedio”, lo “stato d’emer-genza”, nel corso della “Quinta Repubblica”, è stato decretato in Francia in diverse occasioni, una prima volta nel 1961 in seguito al tentativo di colpo di Stato attuato in Algeria da un gruppo di Generali, poi nel 1995 a causa dei disordini esplosi nelle banlieus e infine nel novembre 2015 dopo gli attentati di matrice fondamen-talista islamica avvenuti a Parigi. Nell’oltremare, questa misura è stata invece applicata, prima nel 1985, in Nuova Caledonia a causa delle forti tensioni provocate dalle azioni degli indipendentisti locali kanak, poi nel 1986 sul territorio di Wallis et Futuna e nel 1987 in alcune isole della Polinesia francese.

Il potere di decidere l’uso della forza nucleare Come ricordato più sopra, il Presidente è il capo delle Forze armate e in questa funzione dispone del potere di

decidere l’uso della forza nucleare — la “Force de Frappe” — francese, una prerogativa, questa, fissata anche dal “Code de la Défense” che, dopo la revisione avvenuta nel 2009, stabilisce che il capo di Stato Maggiore delle Forze armate ha il compito di assicurarsi affinché l’ordine dato dal Presidente venga correttamente eseguito.

La decisione in merito all’utilizzo del dispositivo nucleare è di esclusiva competenza presidenziale non essendo richiesta nessuna consultazione con altre personalità politiche e militari, anche se all’interno del “Consiglio di difesa” è presente un Consiglio più ristretto incaricato delle questioni relative all’armamento atomico che nel-l’occasione potrebbe servire da organo consultivo per l’Eliseo. E come è stato sottolineato da quasi tutti i com-mentatori, il fatto che la decisione risieda esclusivamente nelle mani del capo dello Stato, il quale dopo la riforma del 1962 è eletto direttamente dai cittadini, rafforza sensibilmente la credibilità della forza di deterrenza francese. In merito alla procedura, questa prevede che il Capo di Stato Maggiore Particolare della Presidenza (Chef d’État-Major Particulier de la Presidence) autentichi l’ordine dato dal Capo dello Stato e che poi questo, per mezzo del Capo di Stato Maggiore delle Forze armate, venga trasmesso alle varie unità militari. In tutto il procedimento, il “controllo politico” è posto sotto l’autorità del Primo ministro, mentre l’“Ispettore generale delle Armi Nucleari” è incaricato di riferire al Presidente che la procedura sia correttamente rispettata ed eseguita.

Il ministro della Difesa è invece responsabile per l’organizzazione e le condizioni di uso della forza nucleare nonché della gestione delle infrastrutture e della loro sicurezza. In particolare, è di fondamentale importanza che l’ordine di attivare la forza nucleare sia impartito dalla legittima autorità istituzionale e che questo sia cor-rettamente eseguito dalle diverse unità militari interessate e in proposito, allo scopo di garantire il più stretto e rigoroso controllo, sono previste due “catene di sicurezza” autonome nelle quali un ruolo di fondamentale im-

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NOTE AL CAPITOLO II

(47) Vedi su questo Bita Heyeghe, «Le chef de l’État, chef des armées», apparso su Civitas Europa, No. 39, Anno 2017/2, pp. 129-159. (48) Il 22 Aprile 1988, poco prima del primo turno delle presidenziali, un gruppo di indipendentisti kanak tentò di occupare la stazione della Gendarmeria di Fayaoué sull’isola di Ouvea, un’azione a scopo politico conclusasi però con l’uccisione di quattro gendarmi e la presa in ostaggio di altri ventisette. Dopo giorni di tensione, la vicenda si risolse il 5 maggio, alla vigilia del ballottaggio, con l’attacco delle Forze francesi che portò

portanza è svolto da una speciale unità della Gendarmeria nazionale (GSAN) che riferisce direttamente al mini-stro della Difesa (58). In caso di scomparsa o dimissioni del capo dello Stato, le sue funzioni vengono provviso-riamente assunte dal Presidente del Senato, il quale durante la permanenza in carica dispone del controllo della forza nucleare e del potere di deciderne l’uso, unitamente alla prerogative di assumere i poteri eccezionali previsti dall’art. 16 (59). Restano infine segrete le disposizioni relative all’uso della “Force de Frappe” in caso di emergenza e di vacanza delle principali cariche istituzionali. In base alle disposizioni rese pubbliche nel 1960, era previsto che, in questo scenario, la responsabilità spettasse al Presidente e successivamente al Primo ministro e al ministro della Difesa, anche se oggi molti osservatori ritengono che quest’ultimo non costituisca più la terza personalità nell’ordine successorio. Difatti, secondo quanto stabilito dal “Code de la Défense”, in caso, il posto di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato e di Primo ministro fossero vacanti, la responsabilità passerebbe prima al ministro della Difesa e poi a un altro membro dell’esecutivo indicati secondo l’ordine ap-positamente redatto dal governo. È inoltre previsto che ogni Presidente possa poi designare un’autorità di “ul-tima istanza” incaricata di decidere sull’utilizzo della forza nucleare nazionale. Si tratta di una questione coperta dal segreto e nessun dettaglio è mai stato rilasciato in merito a questo argomento.

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alla liberazione degli ostaggi e all’uccisione di diciannove sequestratori e due militari. Stando a quanto riportato dalle testimonianze, tutta l’opera-zione fu gestita dall’esecutivo, guidato da Jacques Chirac, che aveva sempre sostenuto una linea di fermezza contro i sequestratori, mentre al contrario il presidente Mitterrand, il quale invece si era sempre espresso per una soluzione negoziata, fu spesso tenuto all’oscuro dello svolgimento degli eventi. Dal punto di vista giuridico, va ricordato come le forze stanziate in Nuova Caledonia si trovavano sotto l’autorità del ministro per i Di-partimenti e i Territori d’Oltremare e del Primo ministro, che rendeva conto dell’azione al Presidente, il quale, in qualità di capo delle Forze Armate, era posto al vertice della catena di comando tra il ministro della Difesa e il generale Vidal, capo dei Reparti militari presenti nell’isola. (49) Sulla ripartizione delle competenze tra il Presidente e il Primo ministro nel campo della difesa vedi Thomas, Controverse sur la répartition constitutionnelle des compétences en matière de Défense, Association Française de Droit Constitutionnel, VIeme Congrès Français de Droit Constitutionnel, Atelier No.1: “Les controverses Constitutionnelles”, Montpelier, 9-11 giugno 2005. Il testo è consultabile al sito: www.droit-constitutionnel.org/congresmtp/textes1/THOMAS2.pdf. (50) La mappa dell’impegno militare francese sul territorio nazionale e all’estero è consultabile al sito www.defense.gouv.fr/operations/ru-briques_complementaires/carte-des-operations-et-missions-militaires, mentre, invece, sulle diverse missioni condotte dalla Francia dal 1981 a oggi vedi il sito www.vie-publique.fr/chronologie/chronos-thematiques/du-tchad-au-mali-interventions-armee-francaise-depuis-1981.html. (51) Riguardo al Sudafrica, Chirac decise di far ritornare a Pretoria l’ambasciatore francese richiamato a Parigi, Fabius, nel luglio 1985, mentre nei confronti dell’Iran, con cui la Francia aveva nel 1987 rotto le relazioni diplomatiche, il governo gestì la fase di disgelo che porterà l’anno seguente al ripristino dei rapporti favoriti anche dal rilascio degli ostaggi francesi in Libano. Sui rapporti tra Mitterrand e Chirac durante la “coabitazione” vedi Cohen, «La politique étrangère entre l'Elysée et Matignon», apparso su Politique étrangère, No 3, Vol. 54, Anno 1989, pp. 487-503. (52) Con la riforma costituzionale approvata il 23 luglio 2008, si è imposto un limite temporale all’esercizio dei poteri eccezionali allo scopo di introdurre un controllo più stringente sull’operato presidenziale. Secondo la modifica, al trentesimo giorno dopo l’entrata in vigore delle misure, il Consiglio costituzionale, attivato dai Presidenti dell’Assemblea nazionale e del Senato oppure da sessanta deputati o senatori, deve pronunciarsi e valutare se sussistono ancora le ragioni per la permanenza dei “poteri eccezionali”. Vedi su questo argomento il sito www.vie-publique.fr/decouverte-institutions/institutions/approfondissements/pouvoirs-exceptionnels-du-president. html. (53) Vanno ricordati alcuni episodi che aiutano a inquadrare le vicende dell’aprile 1961. Dal 1955, nel territorio algerino, erano iniziati gli attentati del “Fronte di Liberazione Nazionale”, che in poco tempo si estesero a tutta la colonia costringendo il governo di Parigi all’invio di un contingente militare incaricato di porre fine all’insurrezione. Arrivato alla presidenza, De Gaulle prese l’iniziativa di avviare dei colloqui con i rappresentanti del FLN nel tentativo di trovare una soluzione soddisfacente per entrambe le parti. I negoziati furono però osteggiati dai coloni francesi che si rivoltarono contro il loro stesso governo. Nacque, così, nel gennaio del 1961, l’OAS (Organisation Armée Secrèt), una formazione di estrema destra che si proponeva di difendere gli interessi francesi in Algeria. In questo scenario ebbe luogo, il 20 aprile 1961, l’insurrezione messa in atto da quattro generali dell’esercito francese — Challe, Jouhaud, Zeller e Salan — il cui tentativo fallì dopo pochi giorni. Gli attentati dell’OAS e i disordini continuarono comunque fino al 1962, anno in cui all’Algeria fu concessa l’indipendenza. Sui poteri eccezionali del Presidente vedi Mortati, Le forme di Governo, CEDAM, Padova 1973, pp. 254-255. (54) È previsto, inoltre, che i tribunali militari assumano la competenza per una serie di reati previsti dall’art. 2121-3 del codice della difesa, mentre sarebbero sempre prerogative delle autorità militari procedere a perquisizioni domiciliari, allontanare dalle aree sottoposte allo stato d’assedio tutte le persone con condanne penali passate in giudicato nonché di impedire le riunioni e le pubblicazioni nel caso queste compor-tassero un pericolo per la sicurezza nazionale. Su tutti gli aspetti e le misure previste in caso di proclamazione dello stato d’assedio vedi il testo Code de la Défense al sito www.legifrance.gouv.fr/affichCode.do;jsessionid=8A4420793A9DEB32B4155A0F31833DFF.tplgfr28s_3?cid-Texte=LEGITEXT000006071307&dateTexte=20200122. (55) Sullo “stato d’emergenza” e le sue disposizioni vedi Rousseau, «L’état d’urgence, un état vide de droits», apparso su Revue Projet, No. 291, 2/2016, pp. 19-26. (56) Sulle misure previste in caso di proclamazione dello “stato d’emergenza” vedi lo studio Le régime de l’état d’urgence, Sénat de la République Française, Direction de l’Initiative Parlamentaire et des Délegations, marzo 2016, pp. 5-10. (57) Dopo gli attentati del novembre 2015, l’allora presidente François Hollande chiese che lo “stato d’emergenza” venisse inserito nella Costituzione, all’interno del nuovo articolo 36-1 in modo che una legge ordinaria non sarebbe stata più in grado di interpretarne o definirne i termini, considerati appunto troppo vaghi, in ragione dei quali si poteva invocare questo provvedimento. Nel progetto di legge, si affermava che le misure potessero rimanere in vigore per sei mesi, anche se il provvedimento fosse stato revocato, in caso di pericolo latente per la si-curezza. Tuttavia, dopo che le versioni approvate dall’Assemblea nazionale e dal Senato sono state ritenute inconciliabili, il capo dello Stato ha deciso, nel marzo 2016, di far decadere il provvedimento. (58) Vedi sull’argomento, French nuclear deterrence policy, forces and future, Recherches & Documents, Fondation pour la Recherche Straté-gique, No. 1/2019, gennaio 2019. (59) Sulle personalità istituzionali a cui compete il potere di utilizzo della forza nucleare francese vedi Lewis/Tetrais, The Finger on the Button: The Authority to Use Nuclear Weapons in Nuclear-Armed States, James Martin Center for Nonproliferation Studies, Middlebury Institute for International Studies at Monterey, 2019, pp. 16-17.

Supplemento alla Rivista Marittima

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

IL SISTEMA DI COMANDO

Capitolo III

NEL REGNO UNITO

Ottobre 2020

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Uno dei sottomarini a propulsione nucleare classe «Vanguard» della flotta britannica. In ognuno di questi sottomarini è depositata una «Lettera di ultima istanza» (Letter of Last Resort) con le istruzioni da seguire nel caso in cui il paese fosse colpito da un attacco nucleare e non esistesse più alcuna autorità nazionale. Nella pagina precedente: il simbolo del ministero della Difesa del Regno Unito.

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A differenza che negli altri paesi, il Regno Unito non possiede una Costi-tuzione scritta che fissa la ripartizione di poteri tra l’esecutivo e il legi-slativo, di modo che tutto l’assetto istituzionale dello Stato risulta regolato

da leggi ordinarie, trattati internazionali, precedenti giuridici e norme consuetu-dinarie. Questo quadro particolare non può non avere riflessi anche nella struttura di comando delle Forze armate, la quale, come si vedrà in seguito, è stabilita dalla “Royal Prerogative” che permette tuttora al Premier di introdurre le Forze militari britanniche in situazioni di guerra anche senza il consenso del Parlamento.

I poteri del governo e del Primo ministro

In assenza di una costituzione scritta, la struttura istituzionale britannica si è evoluta tenendo conto non solo delle leggi e delle consuetudini che hanno mo-dificato l’assetto politico del paese, ma anche degli eventi che si sono via via suc-ceduti nel corso dei secoli. Formalmente, il Comandante in capo delle Forze armate è il Monarca del Regno Unito, al quale gli ufficiali giurano fedeltà al mo-mento di prendere servizio.

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50Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Dal punto di vista sostanziale, il potere decisionale sull’impiego delle Forze militari spetta però al Primo mi-nistro e al ministro della Difesa, i quali dispongono di questo ruolo in base a una “Royal Prerogative”. Si tratta questa di una particolarità che risente della particolare struttura istituzionale del paese, in quanto, alcuni poteri, quali appunto il comando delle Forze armate, risiedono nelle mani della Corona ma che oggi sono esercitati dal governo in nome del Monarca stesso.

È utile soffermarsi un momento su questo argomento per comprendere meglio il funzionamento delle “Royal Prerogatives” nel sistema istituzionale britannico. Queste sono solitamente divise in “Personal Prerogative Po-wers”, le quali includono la nomina del Primo ministro, a condizione però che la personalità indicata abbia le maggiori possibilità di ottenere la maggioranza alla Camera dei comuni, la convocazione del Parlamento nonché la sua eventuale proroga e la firma — il “Royal Assent” — delle leggi approvate dal Parlamento e le “General Pre-rogative Powers”, tra cui sono compresi i poteri relativi alla politica estera, quali la firma dei trattati internazionali e quelli riguardanti il dispiegamento e il controllo delle Forze armate (60). Difatti, in base a quanto stabilito dal “Bill of Rights” del 1689, l’esecutivo può prendere per conto della Corona ogni decisione riguardante le Forze armate e che, di conseguenza, in questa materia viene a disporre di un’assoluta libertà decisionale mentre all’op-posto, il Parlamento invece, non ha nessuno strumento legale per opporsi a quanto deciso dal governo. Per mezzo di questo sistema, i governi britannici nel corso della storia hanno potuto decidere l’impiego delle Forze militari senza tenere conto del parere del legislativo e quindi dei rappresentanti della popolazione del paese. Come è stato sottolineato da molti osservatori, questo particolare assetto, retaggio della struttura istituzionale dell’era medievale, per prima cosa risulta estraneo alla tradizione giuridica britannica che vede nella supremazia dello stato di diritto e del ruolo del Parlamento i cardini portanti della sua struttura politica, e inoltre contraddice aper-tamente la disposizione per cui i ministri del governo rispondono del loro operato davanti alle Camere, senza contare inoltre come la decisione di introdurre le Forze armate in operazioni di guerra non è sindacabile dalle corti del paese. È chiaro tuttavia che questa prerogativa non è però assoluta, in quanto la prassi generalmente seguita da ogni governo è stata sempre quella di informare il Parlamento di ogni eventuale azione militare, anche se questa si presenta diversa a seconda delle situazioni.

Se si esaminano le diverse operazioni attuate dal Regno Unito dal 1939 a oggi, si può notare come non vi sia stata alcuna approvazione parlamentare per le missioni riguardanti il Canale di Suez nel 1956, l’intervento contro l’Iraq nel 1991 nel quadro della missione Desert Storm, il dispiegamento della Royal Air Force in Bosnia-Erze-govina insieme ai raid effettuati in Kosovo nel 1999 e, infine, la partecipazione alla campagna in Afghanistan nel 2001 prima e, successivamente, all’invio di un contingente nella provincia di Helmand nel 2006, mentre, in oc-casione del conflitto contro l’Argentina per le Falkland nel 1982, l’allora premier Margareth Thatcher si limitò a presentare al Parlamento quattordici dichiarazioni e cinque aggiornamenti sugli sviluppi della situazione anche se nessuno di questi si concluse con un voto contrario da parte della Camera dei comuni. Per le altre operazioni militari invece si è avuto un coinvolgimento del Parlamento anche se a livelli differenti secondo i casi. Così, la decisione di entrare in guerra contro la Germania, presa il 3 settembre 1939, fu effettuata per mezzo di un an-nuncio fatto al Parlamento dal Primo ministro Neville Chamberlain, mentre la Camera dei comuni in precedenza aveva discusso solo su delle risoluzioni riguardanti le misure di emergenza da prendere nell’imminenza di un conflitto, ma non sull’avvio delle ostilità contro la Germania (61). Nel giugno 1950, al momento dell’esplosione del conflitto in Corea, il premier Clement Attlee rilasciò davanti alla Camera dei comuni una dichiarazione con la quale informava i parlamentari delle reazioni all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite avvenute in risposta all’attacco dei reparti nordcoreani contro la Repubblica di Corea a cui, il 28 giugno, seguì una nuova comunicazione con la quale si dichiarava che le Forze militari britanniche erano disponibili a schierarsi a fianco degli Stati Uniti in quel momento impegnati a costituire la missione internazionale votata tre giorni prima dalle Nazioni unite.

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51 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Poco dopo, il 5 luglio, la Camera dei comuni approvò senza divisioni partitiche una mozione con la quale si af-fermava il sostegno del governo britannico all’azione delle Nazioni unite in difesa della Repubblica di Corea. Più di recente, il Parlamento è stato chiamato in causa in occasione della crisi in Iraq. Il 24 settembre 2002 la Camera dei comuni fu richiamata in sessione per discutere della situazione esistente nel paese mediorientale e nei mesi seguenti vi furono due dibattitti e undici dichiarazioni, mentre il governo guidato dall’allora Primo ministro An-thony Blair, pur non essendo istituzionalmente obbligato, dichiarò che avrebbe richiesto un voto in merito al di-spiegamento di Forze britanniche in Iraq. Presentata il 18 marzo, la mozione del governo elencava il mancato rispetto da parte regime di Saddam Hussein di tutta una serie di risoluzioni delle Nazioni unite, unitamente all’ac-cusa che il suo regime stava proseguendo nella realizzazione del programma missilistico e nella costruzione di armi di distruzione di massa e fu approvata con 412 voti a favore e 149 contrari.

In questo caso, si trattava della prima volta nella storia del Regno Unito che il governo richiedeva l’approvazione preventiva del Parlamento prima di decidere un intervento militare, una scelta dettata anche dal fatto che, a diffe-renza delle operazioni decise in passato, per le quali vi era un consenso pressoché unanime tra le forze politiche e nell’opinione pubblica, quella in Iraq, al contrario, suscitava non poca contrarietà nel paese. Va detto però che molti osservatori sottolineano come il voto sia avvenuto solo la notte prima che l’invasione avesse inizio e con oltre quarantamila soldati britannici già dislocati sul terreno. Tuttavia era chiaro ormai come i cambiamenti intervenuti non solo nell’assetto politico interno ma anche nella scena politica internazionale rendevano ormai sempre più evidente l’anacronismo della “Royal Prerogative”. Per prima cosa, il Parlamento e la stessa opinione pubblica ap-parivano non più disponibili ad accettare l’idea che il governo avesse l’esclusivo potere di decidere la partecipazione del paese a un’operazione militare, in secondo luogo le modalità degli interventi armati erano quanto mai cambiate,

Il premier britannico Boris Johnson. Il potere decisionale sull’impiego delle Forze armate dal punto di vista sostanziale spetta al Premier e al ministro della Difesa.

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52Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

visto che, se si eccettua l’operazione contro l’Iraq del 2003, negli ultimi anni le azioni che comportavano l’invasione territoriale di uno Stato si erano fatte estremamente rare al pari dei conflitti che vedevano opposte due entità statali.

I nuovi interventi militari stavano assumendo sempre di più le caratteristiche di operazioni anti terrorismo o di missioni internazionali di carattere umanitario in “failed States” o in paesi con situazioni di guerra civile. Gli stessi mezzi d’informazione erano diventati poi più severi nel valutare se fosse o no il caso di impegnare dei reparti in operazioni militari, senza dimenticare che la stessa opinione pubblica seguiva più attentamente gli sviluppi ri-guardanti la partecipazione del paese in azioni al di fuori del territorio britannico e appariva assai poco disposta ad accettare delle perdite per missioni internazionali nelle quali non sembravano esserci dei rilevanti interessi nazionali. Infine, nel quadro delle moderne relazioni internazionali, un’importanza sempre più evidente hanno assunto le missioni attuate sotto l’egida delle Nazioni unite, della NATO e dell’Unione europea e, di conseguenza, una parte degli osservatori ha iniziato a sostenere come fosse opportuno che, prima di ogni dibattito in merito alla partecipazione in eventuali azioni militari, al Parlamento fosse presentato un parere sulla conformità o meno dell’operazione in esame rispetto al diritto internazionale. Va detto però che non tutti gli analisti tendevano a sopravvalutare il ruolo governativo nella condotta delle operazioni militari, in quanto una parte dei commentatori sottolineava come il Parlamento disponesse comunque di strumenti importanti per controllare le azioni dell’ese-cutivo, quali l’attività delle Commissioni, i dibattiti e le interrogazioni parlamentari e, in ultima istanza, anche il potere di presentare una mozione di sfiducia così da mettere in crisi il governo. Tuttavia in questo contesto ap-pariva chiaro che da più parti si richiedesse un sempre più stringente controllo sull’azione del governo sul piano interno e internazionale. Così, tra il 2003 e il 2007 furono presentate tre proposte di legge (Private Bill) per va-rare una riforma legislativa allo scopo di superare la procedura fissata dalla “Royal Prerogative”, delle quali però solo una fu dibattuta mentre le altre decaddero, senza mai esser prese in esame (62).

In seguito, nel luglio del 2006, la “House of Lords Constitution Committe” pubblicò un’inchiesta sulle prerogative del governo affermando come vi sarebbe dovuto essere un più marcato ruolo del Parlamento e sottolineando, inoltre, come l’uso delle “Royal Prerogatives” fosse ormai anacronistico e che, di conseguenza, questo non avrebbe dovuto più costituire lo strumento per dispiegare le Forze armate in operazioni militari al di fuori del territorio britannico. Appariva quindi evidente come per il governo fosse ormai difficile impegnare le Forze armate in missioni senza ri-cevere il consenso del Parlamento e così nel 2007, appena due mesi dopo essersi insediato alla guida dell’esecutivo in sostituzione di Anthony Blair, il nuovo Premier, Gordon Brown, annunciò un pacchetto di riforme istituzionali per rafforzare il ruolo del Parlamento e rinsaldare allo stesso tempo il rapporto tra l’esecutivo e l’opinione pubblica. Intitolato The Governance of Britain, il rapporto proponeva che spettasse alla Camera dei comuni di assumere la decisione finale su un’eventuale entrata in guerra del paese e che il governo dovesse richiederne il consenso per di-spiegare le Forze armate in missioni di carattere non ordinario senza che questo, tuttavia, pregiudicasse la prerogativa dell’esecutivo di agire nell’interesse della sicurezza nazionale e di garantire la necessaria sicurezza delle operazioni. Il progetto di riforme venne poi ulteriormente precisato in un ulteriore rapporto del governo intitolato War Making Powers and Treaties: Limiting Executive Powers, nel quale si poneva la questione se il ruolo di controllo del Parla-mento dovesse essere stabilito sulla base di una convenzione parlamentare, su quella di uno statuto o su una com-binazione di entrambi gli strumenti. L’anno seguente, l’esecutivo presenterà poi un Libro Bianco dal titolo The Governance of Britain – Constitutional Renewal in cui si affermava come al Parlamento dovesse essere assegnato un ruolo formale nella decisione di dispiegare le Forze armate in situazioni di potenziale conflitto e che questo ve-nisse fissato per mezzo di una risoluzione approvata dalla Camera dei comuni (63).

Più precisamente, il governo proponeva che in futuro il Premier avrebbe dovuto presentare al Parlamento un rapporto dettagliato in cui si spiegavano le ragioni che richiedevano il dispiegamento delle Forze armate e che questo fosse sottoposto al voto della Camera dei comuni, stabilendo inoltre che la Camera dei lord avrebbe tenuto in precedenza un dibattito dal valore non vincolante.

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53 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

La proposta evidenziava comunque come fosse opportuno che il governo conservasse la prerogativa di poter assu-mere delle decisioni di carattere immediato per assicurare la sicurezza nazionale e che per le operazioni riguardanti le Forze speciali non fosse richiesta alcuna autorizzazione parlamentare preventiva.

Veniva così convocata una “Joint Committe”, incaricata di esaminare il documento, la quale, nel luglio 2008, pre-sentò un rapporto affermando come vi fosse un largo sostegno per la proposta del governo di coinvolgere il Parlamento, ma che allo stesso tempo l’esecutivo doveva procedere a ulteriori precisazioni in merito al termine di “uso della forza” (Conflict Decision) presente nel Libro Bianco preparato dall’esecutivo. Tuttavia, pur essendo stato preparato e di-scusso, questo progetto di riforma non era ancora approvato quando il governo laburista di Gordon Brown aveva ce-duto il posto a quello conservatore guidato da David Cameron nel 2010, lasciando quindi inalterate le disposizioni fissate nelle “Royal Prerogatives” in merito al dispiegamento delle Forze armate (64). L’anno seguente, l’allora mi-nistro degli Esteri, William Hague, affermava comunque come il governo aveva l’intenzione di procedere così da sta-bilire quale dovesse essere il ruolo del Parlamento sotto il punto di vista legislativo, anche se, nei cinque anni seguenti nessun progetto è stato presentato dall’esecutivo, tanto che nel 2016 dichiarava che non avrebbe più avanzato pro-poste di riforma. Come sottolineato da molti analisti, è assai improbabile che la situazione possa cambiare in tempi recenti e, di conseguenza, il Parlamento continua a non avere un ruolo stabilito dal punto di vista legislativo sulle que-stioni riguardanti l’uso delle Forze armate (65). Nelle successive operazioni che hanno visto la partecipazione delle Forze militari britanniche, si è comunque seguita una prassi parlamentare, per cui il governo ha richiesto un voto di autorizzazione alla Camera dei comuni prima che i reparti iniziassero le operazioni. Nel caso del conflitto libico del 2011, la partecipazione britannica fu annunciata il 18 marzo e tre giorni dopo la Camera dei comuni si riuniva per votare una mozione del governo che autorizzava l’uso della forza per attuare la formazione di una “no fly zone” in base a quanto stabilito dalla “Risoluzione 1973” del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.

LA CATENA DI COMANDO MILITARE NEL REGNO UNITO

Sovrano

Primo ministro

Capo di Stato Maggiore della Difesa (Chief of Defence Staff)

Segretario di Stato alla Difesa

Marina (Chief of the Naval Staff & First Sea Lord)

Esercito (Chief of the General Staff)

Aeronautica (Chief of the Air Staff)

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54Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

FORMALI DICHIARAZIONI DI GUERRA PRONUNCIATE DAL REGNO UNITO

GUERRA DI CRIMEA

PRIMA GUERRA MONDIALE

SECONDA GUERRA MONDIALE

RUSSIA GERMANIA AUSTRIA- UNGHERIA IMPERO OTTOMANO BULGARIA GERMANIA ITALIA FINLANDIA UNGHERIA ROMANIA GIAPPONE BULGARIA THAILANDIA

28 MARZO 1854

4 AGOSTO 1914

12 AGOSTO 1914

5 NOVEMBRE 1914

15 OTTOBRE 1915

3 SETTEMBRE 1939

11 GIUGNO 1940

5 DICEMBRE 1941

5 DICEMBRE 1941

5 DICEMBRE 1941

8 DICEMBRE 1941

13 DICEMBRE 1941

25 GENNAIO 1942

VITTORIA

GIORGIO V

GIORGIO VI

G.H. GORDON, DUCA

DI ABERDEEN

H.H. ASQUITH

WINSTON CHURCHILL

CONFLITTO DATA SOVRANO PRIMO MINISTRO

Page 192: marittima - RIVISTA - Ministero della Difesa

Questa era approvata a larghissima maggioranza con 557 voti a favore e solo 13 contro. Anche in quest’occasione però, a una più attenta analisi, il ruolo del Parlamento appariva essere stato assolutamente secondario, in quanto le Forze britanniche sul terreno erano già pienamente operative e prima che il Parlamento approvasse la partecipazione militare del Regno Unito. Un’altra circostanza in cui il governo ha richiesto l’approvazione parlamentare è stata in occasione della crisi siriana dell’estate 2013. Allora, la Camera dei comuni fu riconvocata il 29 agosto per dibattere e votare sulla partecipazione britannica riguardo ad una possibile azione militare contro la Siria attuata in risposta al presunto utilizzo da parte del regime di Bashar al-Assad di armi chimiche contro la popolazione civile. L’allora Premier David Cameron davanti alla Camera dei comuni sostenne come le operazioni avrebbero avuto una durata limitata e assunto un carattere essenzialmente umanitario in risposta ai crimini di guerra commessi dal governo siriano. In questo caso però, a differenza che in passato, il Primo ministro si vide respingere, con 285 voti contrari e 275 favo-revoli, la mozione con cui richiedeva la partecipazione britannica a un’eventuale operazione militare in Siria (66). Più di recente, il governo ha richiesto l’approvazione parlamentare sia nel settembre 2014, quando la Camera dei comuni è stata chiamata a pronunciarsi sulla partecipazione britannica alle operazioni aeree in Iraq per contrastare l’azione dell’ISIS, che nel dicembre 2015, in cui si è invece espressa sulla richiesta di estendere tali azioni anche al territorio siriano. In entrambi i casi, le mozioni presentate dall’esecutivo sono state approvate.

Il potere di decidere l’uso della forza nucleare

Secondo quanto stabilito dai testi ufficiali, spetta solo al Premier il po-tere di decidere l’uso del dispositivo nucleare nazionale.

Come però è stato evidenziato in precedenza, essendo il Monarca bri-tannico formalmente il capo delle Forze armate, alcuni osservatori hanno sollevato la questione se il Primo ministro fosse tenuto a con-sultarlo nell’imminenza della deci-sione, ma la maggior parte dei costituzionalisti ritiene che non vi sia una prassi che operi in tal senso. Le disposizioni per l’uso della forza nucleare sarebbero trasmesse dal Premier dall’interno del “Nuclear Operation Targeting Centre” (NOTC) situato nei sotterranei del ministero della Difesa oppure da qualsiasi altra struttura attrezzata con adeguati sistemi di comunicazione e trasmissione, incluso lo stesso aereo usato dal Primo ministro, al “Permanent Joint Headquarters” (PJHQ) al centro di comando a Northwood, nel Hertfor-dshire, dove verrebbe ricevuto dal comandante della Task Force 345 che, entro quaranta minuti, lo trasmette-rebbe ai sommergibili (67).

Una caratteristica del sistema di comando della forza nucleare britannica è che in ognuno dei quattro sottomarini della flotta — il Regno Unito dispone solo di testate SLBM — è depositata una “Lettera di Ultima Istanza” (Letter of Last Resort) con le istruzioni da seguire nel caso il paese venisse colpito da un attacco nucleare e non esistesse più alcuna autorità istituzionale. Scritte personalmente dal Primo ministro e indirizzate a ognuno dei comandanti

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Il Premier con alcuni militari della Royal Navy.

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dei quattro sommergibili «Vanguard» della flotta, le lettere, che qualcuno ha indicato come «l’ultimo atto dello Stato britannico», vengono bruciate quando un Premier lascia l’incarico e sostituite con quelle preparate dal suc-cessore. Queste conterrebbero, secondo le indiscrezioni trapelate e il parere degli analisti, quattro opzioni che il comandante è chiamato a scegliere, ovvero porre il sommergibile sotto il comando della flotta statunitense, fare rotta verso l’Australia — sempre se questa esistesse ancora —, rispondere colpendo Mosca o la capitale del paese responsabile dell’attacco o infine decidere autonomamente secondo le proprie valutazioni. L’idea di dotare ognuno dei quattro sommergibili nucleari di istruzioni da seguire nell’eventualità che il paese fosse colpito da un attacco nucleare, venne presa durante gli anni della Guerra fredda soprattutto in considerazione della particolare posizione geografica del Regno Unito unitamente alle caratteristiche del suo territorio.

Difatti, secondo gli esperti, mentre l’ampia estensione degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica avrebbe pro-babilmente lasciato intatte ampie parti del loro territorio anche nel caso di un attacco massiccio e permesso così allo stesso tempo di ricostituire un centro nazionale di comando politico e militare incaricato di decidere il con-trattacco, nel caso del Regno Unito lo scenario si presentava, al contrario, in modo completamente diverso. Con un territorio di dimensioni ridotte, anche un attacco di portata limitata avrebbe probabilmente devastato l’intero paese e distrutto ogni centro di comando e controllo, mentre la relativa vicinanza con l’Unione Sovietica avrebbe fatto del Regno Unito un obiettivo facilmente raggiungibile per le forze nucleari sovietiche e lasciato ben poco

56Supplemento alla Rivista Marittima

La cerimonia del cambio della guardia a Buckingham Palace, residenza ufficiale della sovrana del Regno Unito. Accanto: lo stemma della Royal Air Force. A destra: defilamento di un reparto della Royal Navy.

Page 194: marittima - RIVISTA - Ministero della Difesa

tempo per trasferire le autorità politiche in un luogo sicuro. La procedura da seguire in una simile eventualità prevede che, nel caso l’equipaggio sia venuto a conoscenza di un attacco nucleare contro il Regno Unito, questo avvii una serie di controlli prima di decidere di aprire la lettera contenuta a bordo, quali il sintonizzarsi sulle sta-zioni radio della Marina e del ministero della Difesa e, in ultimo, sul Radio Canale 4 della BBC, in particolare sul notiziario BBC Today. E se nei giorni seguenti non vi fosse alcun riscontro positivo essendo così appurato che il governo e i centri di comando del paese non esistono più, si dovrà procedere all’apertura della lettera se-guendo le disposizioni indicate (68). Va ricordato che, a differenza degli Stati Uniti, nel Regno Unito non vi è poi un ordine di successione per ricoprire la carica di Premier nel caso questa rimanesse vacante, in quanto l’in-carico di vice Primo ministro è esclusivamente politico e privo di contenuti istituzionali (69).

Per ovviare a questa situazione, nel 2017 è stata presentata, da un deputato della Camera dei comuni, una proposta per fissare l’ordine di successione alla carica di Primo ministro, ma a oggi non vi sono stati progressi in tal senso, non riuscendosi a completare il suo esame durante l’ultima sessione parlamentare. Durante la Guerra fredda era inoltre previsto che il Premier potesse indicare tre ministri del governo — generalmente quello della Difesa, degli Esteri e degli Interni — che in sua assenza avrebbero assunto, in un ordine prestabilito, l’incarico e quindi il potere di decidere sull’uso della forza nucleare. Cancellate dopo la fine della “guerra fredda”, queste disposizioni, il cui contenuto rimane però segreto, sono entrate nuovamente in vigore nel 2001.

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58Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

(60) Va comunque ricordato che tra il 2010 e il 2011 sono state approvate delle riforme che hanno modificato alcune delle “Royal Prerogatives” prima elencate. Così, in merito alla firma dei trattati, il “Constitutional Reform and Governance Act” del 2010 ha assegnato alla Camera dei comuni un diritto di veto stabilendo che, se nei ventuno giorni seguenti la presentazione davanti al Parlamento un trattato non è approvato, il go-verno non può procedere alla sua ratifica. Un’altra importante modifica si è avuta poi con l’approvazione del “Fixed-Terms Parliament Act” del 2011. Se in precedenza la decisione di procedere allo scioglimento anticipato rientrava formalmente tra le prerogative della Corona anche se questo veniva sempre richiesto dal Primo ministro, ora viene stabilito che il Monarca non dispone più di tale potere e che si può procedere alla dissoluzione della Camera dei comuni prima del termine del suo mandato quinquennale solo se i due terzi dei suoi membri votano una risoluzione per porre termine anticipatamente alla legislatura. Vedi sull’argomento, The Royal Prerogative, Briefing Paper 03861, House of Commons Li-brary, Londra, 17 agosto 2017. (61) Su quanto avvenuto all’interno del Parlamento nei giorni che vanno dal 1° al 3 settembre 1939 vedi il sito www.hansardsociety.org.uk/blog/parliament-and-the-declaration-of-war-in-september-1939. (62) Vedi in proposito, Young, «Britain Goes to War: An Analysis of the Developing Role of the House of Commons in Determining Whether HM Forces Should Be Deployed on Military Operations», pubblicato sulla Aberdeen Student Law Review, No. 6, dicembre 2015, pp. 57-90. (63) Vedi sull’argomento, Parliamentary Approval for Military Action, Briefing Paper CBP 7166, House of Commons Library, Londra, 8 maggio 2018. (64) Vedi sulle proposte di riforma, The Governance of Britain. War Powers and Treaties: Limiting Executive Powers, Ministry of Defence, Foreign & Commonwealth Office, Ministry of Justice, Consultation Paper CP26/07, 25 ottobre 2007. Sull’intero progetto di riforme presentato dal governo Brown vedi invece, The Governance of Britain, Presented to Parliament by the Secretary of State for Justice and Lord Chancellor by Command of Her Majesty, luglio 2007. (65) Su questo argomento vedi, Strong, «The war powers of the British parliament: What has been established and what remains unclear?», pubblicato su The British Journal of Politics and International Relations, Vol. 20, No 1, Anno 2018, pp. 19-34. (66) Sugli interventi britannici in Libia e Siria vedi, Mello, «Curbing the royal prerogative to use military force: the British House of Commons and the conflicts in Libya and Syria», apparso in West European Politics, Vol. 40. No 1, Anno 2017, pp. 80-100. (67) Sul sistema di comando delle forze nucleari britanniche vedi, Granholm/Rydqvist, Nuclear weapons in Europe: British and French deterrence forces, Swedish Defence Research Agency (FOI), aprile 2018, pp. 25-27. (68) Sulla procedura da seguire per l’apertura delle “Letters of Last Resort” vedi l’articolo «Theresa May’s grim first task: Preparing for nuclear armageddon», apparso su Politico il 15 luglio 2016. (69) Il problema della successione si è presentato in tutta la sua evidenza quando lo scorso aprile il premier Johnson è stato costretto al ricovero in ospedale perché contagiato dal Covid-19. In questo caso, le funzioni sono state trasmesse al ministro degli Esteri, Dominic Raab che, in quanto Primo segretario di Stato, era posto in posizione più alta rispetto agli altri membri del governo e poteva quindi assumerne provvisoriamente la guida. E in questo ruolo Raab sarebbe stato autorizzato anche a decidere un’azione militare. E qualora anch’esso fosse stato contagiato, le funzioni sarebbero state trasmesse al Primo segretario al Tesoro, poi al ministro degli Interni e infine al segretario per il Ducato di Lancaster in base al-l’ordine stabilito. Va comunque ricordato che nel Regno Unito questo non è istituzionalizzato ma fissato in base alle indicazioni del Primo ministro. Vedi in proposito, «Raab Steps into UK constitutional breach», Financial Times, 8 aprile 2020.

NOTE AL CAPITOLO III

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

IL SISTEMA DI COMANDO

Capitolo IV

IN GERMANIA

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Un reparto delle Forze armate tedesche (Bundeswehr). Nella pagina precedente: il simbolo della Bundeswehr.

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I l sistema di comando delle Forze armate della Germania si presenta quanto mai particolare, all’interno di una struttura costituzionale redatta sotto l’influenza degli eventi avvenuti nel Secondo conflitto mondiale. Per

comprendere le origini dell’attuale assetto istituzionale, si deve, però, prima di analizzare il funzionamento dello Stato e dell’apparato militare esistente du-rante l’età imperiale, la “Repubblica di Weimar” e il regime nazista, in quanto le tracce che hanno lasciato nelle vicende storiche tedesche dell’ultimo secolo sono estremamente importanti per capire le ragioni che nel dopoguerra spin-sero i costituenti della nuova Repubblica Federale di Germania ad adottare una “Legge Fondamentale” così articolata.

La struttura di comando durante l’Impero tedesco (1871-1918)

La Germania imperiale aveva una struttura istituzionale che rifletteva il parti-colare assetto dello Stato dove, anche dopo il conseguimento dell’unità, ognuna delle entità statali componenti aveva conservato un’ampia autonomia interna.

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Di tipo federale, l’Impero tedesco si componeva di venticinque Stati, di cui ventidue avevano un assetto di tipo monarchico mentre tre erano delle “Libere città re-pubblicane”, le quali, al momento della formazione dello Stato imperiale, avevano rinunciato alla loro sovranità ma non cessato di esistere come entità statali (70).

Secondo l’art. 4 della Costituzione, al governo impe-riale competeva tutta una serie di prerogative tra le quali vi erano incluse anche quelli riguardanti le questioni militari, mentre i singoli Stati disponevano di una pro-pria Costituzione, i cui principi non dovevano però es-

sere in contrasto con quella imperiale, nonché del controllo delle Forze di polizia e di un proprio bilancio finanziario. Con uno Stato che non era quindi di tipo unitario e i go-verni statali che conservavano importanti prerogative, il potere centrale si trovava nella condizione di dover dialo-gare costantemente con questi ultimi, anche perché, le amministrazione dei singoli Stati contribuivano con le loro imposte al bilancio e al tesoro nazionale. A capo dello Stato, vi era posto il Sovrano di Prussia che portava il titolo di Imperatore (Kaiser), mentre il governo nazionale, alla guida del quale vi era posto il Cancelliere, non costituiva un organo collegiale e non rispondeva al “Reichstag” (Dieta Imperiale), in quanto era nominato dall’Imperatore e sempre a quest’ultimo spettava di decidere se, nel caso, sostituirlo con un altro esecutivo. L’Assemblea legislativa non disponeva poi neanche della prerogativa di rimuovere un Ministro del gabinetto. Tuttavia il “Reichstag”, che era eletto per cinque anni a suffragio ristretto, aveva via via conquistato un’importanza crescente anche perché, tra i suoi compiti, vi era sia quello di approvare ogni cinque o sette anni il bilancio con cui si stanziavano i fondi per l’Esercito e la Marina, sia la prerogativa di concedere o meno i crediti in caso di guerra; un diritto questo che l’Assemblea esercitò il 4 agosto 1914. Ma nonostante le limitazioni che il “Reichstag” incontrava nella sua azione, per molti osservatori la Germania, agli inizi del Novecento, stava andando progressivamente ad assumere l’aspetto di un sistema di tipo parlamentare, anche se l’assenza di forze politiche organizzate — a eccezione del Partito So-cialdemocratico (SPD) — rendeva il quadro diverso da quello esistente negli altri paesi, quali per esempio il Regno Unito. Un altro organo di estrema importanza nella struttura istituzionale tedesca era poi costituito dal “Bundesrat” (Consiglio federale), il quale non possedeva le consuete prerogative generalmente attribuite alle Camere alte nel Parlamento degli altri Paesi (71).

Composto dai delegati dei diversi Stati i quali avevano un numero di membri pari a quello di cui disponevano nel plenum della “Dieta della Confederazione” (Deutscher Bund) precedente la formazione dell’Impero, il “Bun-desrat” aveva il compito di rappresentare gli interessi e le istanze delle entità statali costituenti l’Impero; una fun-zione che rendeva quest’organo forse il più importante nell’assetto costituzionale tedesco. Questa complicata struttura si rifletteva anche nell’organizzazione della difesa. In base al dettato costituzionale, l’Imperatore era il comandante dell’Esercito e della Marina e aveva la prerogativa di proclamare lo stato d’assedio e l’ordine di mobi-litazione nonché di nominare gli ufficiali superiori e inferiori in tutti gli Stati, a eccezione di Baviera, Sassonia e Württemberg che conservavano invece il diritto di designare questi ultimi. A una più attenta osservazione, come era già stato evidenziato a suo tempo dai commentatori, appariva però evidente come le Forze militari imperiali tedesche non costituivano un’istituzione unitaria, essendo formate dai contingenti dei diversi Stati dell’Impero. Difatti, al momento della formazione di quest’ultimo, le diverse entità statali disponevano di propri eserciti i quali erano stati messi a disposizione della Confederazione prima e dell’Impero poi per incrementarne la consistenza militare, ma che rimanevano comunque delle unità appartenenti ai singoli Stati, mentre la Marina, al contrario, aveva sempre avuto una struttura unitaria in quanto, a eccezione della Prussia, nessun altro Stato al momento di

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entrare nella “Confederazione della Germania setten-trionale” disponeva di una Forza navale. In questa situa-zione quindi, se da un lato i finanziamenti e ogni aspetto tecnico e legislativo riguardante l’Esercito erano di competenza dell’amministrazione centrale, dall’altro i reparti militari di ogni Stato costituente l’Impero erano posti sotto il comando dei rispettivi sovrani e a loro pre-stavano giuramento, anche se, formalmente, a capo dell’Esercito vi era posto l’Imperatore, al quale gli ef-fettivi, una volta entrati in servizio, dichiaravano fedeltà.

All’interno di questa struttura già di per se quanto mai articolata, esistevano poi delle particolarità che

rendevano il quadro ancora più complicato. Per esempio, la Baviera, anche dopo l’incorporazione nell’Impero, continuava a godere di una larga autonomia che aveva consentito a questo regno di conservare un proprio esercito, unitamente a un ministero della Guerra e a uno Stato Maggiore, nonché delle rappresentanze diplomatiche al-l’estero, mentre allo stesso modo, anche la Sassonia e il Württemberg disponevano di dicasteri a cui facevano capo le rispettive forze militari (72).

Riguardo agli altri Stati dell’Impero, tutti avevano, nel corso degli anni, sottoscritto delle convenzioni con la

Le navi della Marina imperiale. A sinistra: la bandiera dell’Impero.

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Prussia, in base alle quali i rispettivi sovrani avevano ceduto le loro prerogative in ambito militare e deciso quindi di incorporare le proprie unità all’interno dell’Esercito prussiano. Di conseguenza, si poteva affermare come l’Esercito imperiale tedesco era effettivamente formato non dai contingenti di venticinque Stati, ma da quattro di-stinte Forze militari, quelle della Prussia alle quali dovevano aggiungersi le unità della Baviera, della Sassonia e del Württemberg. Riguardo alla Marina, l’Imperatore ne era il Comandante, mentre sempre sottoposto all’autorità imperiale era pure lo “Stato Maggiore della Marina” (Admiralstaß der Marine), che aveva sede a Berlino ed era guidato da un capo di Stato Maggiore. Sotto il profilo organizzativo e amministrativo, la gestione era invece compito dell’“Ufficio della Marina Imperiale” (Reichmarineamt) a capo del quale era posto il segretario di Stato e che di-pendeva a sua volta dal Cancelliere. A differenza di quanto avveniva nell’Esercito, gli ufficiali prestavano giuramento di fedeltà esclusivamente all’Imperatore e non pure ai sovrani statali e sulle diverse unità della flotta era issata solo la bandiera imperiale e non quelle dei diversi Stati dell’Impero. Diversa era al contrario la struttura dell’Esercito

che risentiva, come accennato più sopra, degli eventi storici che portarono alla formazione dell’Impero.

Nel momento in cui si riunirono nella “Confedera-zione della Germania settentrionale” ognuno dei ven-tidue Stati disponeva di un proprio Esercito organizzato e strutturato secondo le proprie dispo-sizioni, le cui dimensioni però erano quanto mai ri-dotte rispetto a quello della Prussia, la cui estensione copriva almeno l’80% del territorio te-desco (73). E il ruolo preminente assunto dallo Stato prussiano apparve evidente al momento della formazione dell’Impero tedesco, tanto che all’art.

61 della Costituzione imperiale si affermava come la legislazione e i regolamenti militari della Prussia sarebbero stati estesi all’intero territorio imperiale tedesco, fatta eccezione per la Baviera (74). In merito al comando questo, in base all’art. 63 della Costituzione, attribuiva all’Imperatore il ruolo di “Comandante in capo” (Bundesfeldherr) delle Forze terrestri, mentre era sempre prerogativa imperiale quella di proclamare la legge marziale, la mobilitazione generale nonché ogni decisione riguardante il dislocamento dei reparti sul ter-ritorio nazionale, fatta eccezione, anche in questo caso, per gli Stati della Baviera, della Sassonia e del Württem-berg (75). La dichiarazione dello stato di guerra richiedeva invece il consenso del Cancelliere e del “Bundesrat”, mentre era invece di esclusiva prerogativa imperiale il diritto di concludere un accordo di pace, come avvenne con il Trattato di Francoforte del 10 maggio 1871 che pose termine al conflitto franco-prussiano. Nelle sue fun-zioni, l’Imperatore era assistito da tre istituzioni prussiane, quali il ministro della Guerra, cui spettavano le com-petenze in materia di stanziamenti ed equipaggiamenti militari, il “Gabinetto Militare” al quale era demandata la gestione del personale e lo “Stato Maggiore”, incaricato della pianificazione, e che rappresentava l’ufficio più prestigioso all’interno della struttura dell’Esercito. Quest’organismo, che dal momento della formazione dell’Impero era diventato responsabile per l’intera struttura militare del paese, si componeva di due uffici, uno posto su un piano di maggiore responsabilità (Großer General-staß) a cui erano affidate funzioni di supporto per l’Imperatore e un altro a cui invece spettava il compito di assistere i diversi comandi di divisione nelle loro funzioni di comando e addestramento. E nel corso dell’era imperiale lo Stato Maggiore andrà ad assumere un ruolo di sempre maggiore importanza, tanto che fin dal 1883 la posizione di capo di Stato Maggiore era stata equiparata a quella del ministero della Guerra e del “Gabinetto Militare” ve-dendosi anche attribuito il diritto di contattare direttamente l’Imperatore per illustrargli le sue posizioni. In tempo di pace, il capo di Stato Maggiore preparava i piani strategici, organizzava le manovre militari e valutava le infor-

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mazioni di intelligence unitamente a tutte le altre funzioni collegate alla normale attività dell’Esercito, mentre in tempo di guerra aveva il compito di dirigere la mobilitazione e di condurre le operazioni sul campo (76). Quest’organismo tecnico, sotto la guida prima di Helmut von Moltke Sr. e di Alfred von Schlieffen, poi, crebbe in dimensioni e prestigio, mentre sul piano prettamente istituzionale il suo ruolo assunse un’importanza via via crescente tanto da diventare la maggiore autorità strategica del paese, dato che le stesse forze politiche tedesche di fatto non presero mai parte alla pianificazione militare venendo solo informate riguardo ai piani preparati dai vertici dell’Esercito (77). Allo scoppio del Primo conflitto mondiale, la guida delle Forze militari fu assunta dal “Comando supremo” (Oberste Heeresleitung) che in breve tempo divenne l’organo con i poteri decisionali più importanti dell’apparato politico-militare tedesco, mentre lo stesso Imperatore, in ragione del suo ruolo di comandante dell’Esercito, si trasferì sul fronte stabilendosi nel castello di Coblenza, sul Reno. I suoi rapporti con gli alti vertici dell’Esercito non furono tuttavia facili e molti non mancarono di esprimere severe critiche sulla gestione della politica militare da parte del-l’Imperatore, tanto che nel 1915 il generale Karl von Einem, che aveva ricoperto il ruolo di ministro della Guerra in Prussia, si spinse ad affermare che «…in Germania non abbiamo avuto una testa pensante nell’ultimo quarto di secolo…». Con il prosieguo del conflitto, il ruolo dei vertici militari e del “Comando supremo” divenne sempre più decisionale anche sul piano politico, come dimostrano prima le pressioni sul cancelliere Theobald Bethmann-Hollweg in merito alla condotta delle operazioni da parte dei sommergibili e poi, nel 1918, la sostituzione di quest’ultimo alla guida del governo con Georg Michaelis, il quale godeva del favore dell’Alto comando dell’Esercito (78). Il 9 novembre 1918, davanti alla ormai evidente sconfitta, il generale Wilhelm Groener, che dal mese pre-

Lo Stato Maggiore dell’Esercito: il generale Paul von Hindenburg (a sinistra, nella foto) e il suo vice Eric Ludendorff (a destra), con il Kaiser Guglielmo II. Nella pagina accanto: la bandiera della Marina imperiale.

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cedente ricopriva la carica di capo dello Stato Maggiore, dichiarò all’Imperatore che questo non godeva più della fiducia dell’Esercito consigliandogli quindi di abdicare; scelta che Guglielmo II prese nello stesso giorno. In con-seguenza di quest’atto, la Germania diventava così una Repubblica.

La struttura di comando durante la “Repubblica di Weimar” (1918-1933)

La sconfitta nel Primo conflitto mondiale ebbe delle pesanti ripercussioni non solo sull’assetto territoriale ma anche sulla struttura politica e istituzionale della Germania. Il nuovo Stato repubblicano, indicato con il nome di “Repubblica di Weimar”, dalla città in cui l’Assemblea costituente si era riunita nel gennaio 1919 e dove il governo si era trasferito a causa dei gravi disordini e dei violenti scontri tra le forze rivoluzionarie “spartachiste” vicine al Partito Comunista e i reparti militari leali al governo provvisorio, che dalla fine di dicembre stavano sconvolgendo Berlino. La Costituzione di Weimar era di tipo “dualistico”, con un Parlamento e un Presidente che costituivano i più importanti centri d’autorità istituzionale.

Il capo dello Stato era eletto ogni 7 anni direttamente dai cittadini e non vi erano limiti alla sua rielezione, mentre era previsto che questo potesse essere rimosso dalla carica con una consultazione popolare convocata su iniziativa del “Reichstag” presa con un voto dei due terzi dei suoi membri. Il governo era guidato da un Cancelliere designato dal Presidente al pari degli altri ministri i quali dovevano avere la fiducia del “Reichstag”. Quest’ultimo, era eletto per 4 anni attraverso un sistema proporzionale, mentre la seconda Camera del Parlamento, il “Reichsrat”, era for-mata dai rappresentanti dei diversi Länder della Germania in un numero proporzionale alla loro popolazione e non disponeva della prerogativa di sfiduciare l’esecutivo. L’assetto statale prevedeva che i diversi Länder dispo-nessero di un’autonomia interna, con una struttura quindi che si configurava come un sistema decentralizzato ben diverso da quello federale esistente durante l’Impero dove i diversi Stati avevano conservato la propria sovranità (79). Con governi deboli e una struttura che risentirà prima dell’azione dei partiti anti sistema — rappresentati a destra dai nazionalisti monarchici del “Partito Nazionale Tedesco Popolare” (DNVP) e a sinistra dai comunisti — e poi dei pesanti effetti della crisi economica degli anni Trenta, la struttura di Weimar entrerà progressivamente in crisi e questo porterà a far assumere un ruolo sempre più preponderante al Presidente, che diventerà così la figura più importante dell’assetto istituzionale del paese. Dato che la Costituzione non richiedeva esplicitamente un voto di fiducia verso il governo ma solo che questo fosse obbligato a dimettersi nel caso di una mozione di sfi-ducia, gli esecutivi si presentavano davanti al “Reichstag” senza richiedere l’investitura che quindi si riteneva im-plicitamente concessa. Nel corso degli anni, nella “Repubblica di Weimar” si andrà così affermando la prassi dei “governi presidenziali” di minoranza che si reggevano esclusivamente grazie al sostegno del capo dello Stato, il quale, nel caso l’esecutivo fosse stato sfiduciato, aveva la prerogativa o di nominarne un altro oppure di procedere allo scioglimento del “Reichstag”.

Di conseguenza l’assetto costituzionale andrà quindi progressivamente ad assumere i tratti di un sistema semi presidenziale (80). Se la struttura politico-istituzionale rimase sempre debole e non riuscì mai, salvo che per un breve periodo, a diventare efficiente e conquistare il sostegno della popolazione, quella militare risentì ancor più profondamente degli effetti causati dalla disfatta nel Primo conflitto mondiale. Le modalità della sconfitta lasciarono difatti delle pesanti tracce tra gli alti ufficiali, per i quali gli eventi del novembre 1918 rappresentarono la cancel-lazione di quanto fatto da Bismarck per la grandezza della Germania e la distruzione di secoli di storia tedesca. E per comprendere la struttura istituzionale di comando in vigore nella “Repubblica di Weimar” e il ruolo che ebbero le Forze armate in quel periodo è opportuno soffermarsi un momento sulle vicende storiche accadute in Germania

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negli anni immediatamente seguiti alla Prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto, i sei milioni di effettivi che componevano l’Esercito imperiale non costituivano più una forza combattente, e molti di essi, al momento del ri-torno in Germania, subirono gli effetti della propaganda comunista e finirono per unirsi ai gruppi rivoluzionari che richiedevano il trasferimento dell’autorità dal “Comando supremo” a una “Commissione di controllo dei con-sigli”, la soppressione dei gradi sulle uniformi, l’elezione degli ufficiali da parte dei militari di truppa e la sostitu-zione dell’Esercito con una “Guardia civile”. Tra gli esponenti politici, queste richieste portarono ad accesa discussione su quali fossero le soluzioni da adottare per fronteggiare la rivolta all’interno delle Forze militari. Da-vanti a questa situazione sia il capo dello Stato Maggiore Wilhelm Groener che il maresciallo Paul von Hindenburg, proposero, per venire incontro alle richieste avanzate dai rivoltosi, che all’interno di ogni unità venissero eletti degli “uomini di fiducia” (Vertrauernsleute) con l’incarico di ascoltare e prendere in considerazione le istanze della truppa, però, solo in merito alle questioni non riguardanti l’ambito militare. Appariva evidente come le di-mostrazioni stessero ponendo un rischio per la stessa esistenza dell’Esercito e così il 9 novembre il capo di Stato Maggiore Groener telefonò al cancelliere Ebert dichiarando che l’Esercito avrebbe appoggiato il suo governo se questo avesse ripristinato l’ordine e contrastato le forze bolsceviche.

In questo scenario, nonostante la gran parte degli ufficiali fosse contraria ai socialisti essendo rimasta fedele alla Monarchia, l’Esercito accettò il nuovo esecutivo; un atto che contribuirà a dare ai militari un ruolo di primo piano nelle vicende politiche di Weimar e che verrà poi rafforzato anche dalla trionfale accoglienza offerta ai re-parti tornati dal fronte. Questi furono salutati come eroi dalla popolazione, mentre lo stesso Ebert, l’11 dicembre

L’Esercito durante la Repubblica di Weimar.

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1918 a Berlino, si rivolse ai reparti che ritornavano in Germania affermando «…io vi saluto, voi che tornate invitti dai campi di battaglia…»; tutte affermazioni che contribuirono a rafforzare l’immagine dell’Esercito davanti al-l’opinione pubblica e a creare il mito che la Germania fosse stata sconfitta da una “pugnalata alle spalle” inferta dai politici di sinistra alle Forze militari. Tuttavia, con la situazione dell’ordine pubblico sempre più deteriorata e la scarsa affidabilità dimostrata dalle Forze militari di fronte alle proteste, il governo decise di accettare la pro-posta del generale Kurt von Schleicher di istituire dei “Freikorps”, composti di ufficiali e soldati provenienti dall’ ex Esercito imperiale nonché da studenti universitari, i quali schiacciarono l’insurrezione “spartachista” a Ber-lino, le rivolte comuniste a Monaco e Brema prendendo poi parte anche ai combattimenti in Lettonia, dove fer-marono l’avanzata dell’“Armata Rossa” assumendo il controllo di Riga. Composti di almeno quattrocentomila effettivi, questi reparti risultavano generalmente indisposti ad accettare qualsiasi forma di disciplina, dato che le diverse unità tendevano a rispondere esclusivamente ai loro comandanti dando quindi a questa struttura più l’aspetto di una milizia mercenaria che non di una Forza militare regolare. In questo quadro caotico, il governo, proprio allo scopo di inserire la loro attività in una cornice istituzionale e legale, approvò il 6 marzo 1919, una legge con la quale si dissolveva l’Esercito imperiale e si formava un “Esercito tedesco provvisorio” (Vorläufiges Reichsheer), basato proprio sui “Freikorps”, i cui effettivi avrebbero però dovuto essere ridotti da quattrocento-mila a una più gestibile quota di duecentomila, unitamente a una “Marina tedesca provvisoria” (Vorläufiges Rei-chsmarine). A tutti i componenti era richiesto di prestare giuramento di fedeltà alle nuove istituzioni repubblicane.

Ma le pesanti condizioni imposte alla Germania dagli Alleati in base alle clausole del trattato di Versailles ebbero però un effetto considerevole sulle neocostituite Forze militari peggiorando significativamente il rapporto tra il governo repubblicano e i “Freikorps”, in quanto questi temevano che l’esecutivo, essendo obbligato a sottostare alle disposizioni imposte dal trattato di pace, avrebbe dovuto sensibilmente ridurre il numero dei componenti del nuovo Esercito tedesco. Allo stesso modo, le severe condizioni imposte dagli Alleati suscitarono il risentimento degli ufficiali di carriera, alcuni dei quali dichiararono di non essere più disposti a servire il nuovo governo repub-blicano data la sua disponibilità a sottostare alle disposizioni del trattato di pace, mentre altri, tra i quali il generale Erich von Gilsa, capo di gabinetto del ministro della Guerra Noske, si appellò a quest’ultimo perché rifiutasse le condizioni fissate dal trattato di Versailles per «…l’onore della Germania…» e affermando, poi, che se avesse pro-clamato una dittatura militare, l’Esercito lo avrebbe sostenuto. Apparve comunque evidente però come non vi fosse possibilità che il governo respingesse le condizioni avanzate dagli Alleati, in quanto l’Esercito non era in grado di opporre alcuna resistenza nel caso di una ripresa delle ostilità. La situazione quindi peggiorò ulteriormente con alcuni ufficiali che crearono o delle proprie unità di tendenza conservatrice e nazionalista, oppure iniziarono addirittura a reclutare degli effettivi di chiaro orientamento anti repubblicano. Si arrivò così al tentativo di colpo di Stato attuato nel marzo 1920 dal generale Walther von Lüttwitz e da Wolfgang Kapp, un alto funzionario del-l’amministrazione statale prussiana, che tuttavia fallì dato che solo poche unità si unirono ai rivoltosi rimanendo fedeli al governo. Davanti a questo scenario caotico, il governo nominò un’apposita commissione civile guidata dal generale Hans von Seekt che decise di procedere con severe sanzioni disciplinari congedando dodici Generali, unitamente a numerosi altri alti gradi (81).

Ed è proprio da questo momento che l’Esercito, con un corpo ufficiali di tendenza monarchica e poco propenso ad accettare le istituzioni repubblicane e il nuovo governo parlamentare, si organizzerà come uno “Stato nello Stato” svincolato dalla società e dalla politica; un ruolo, quello dei militari, che negli anni in cui il sistema funzionò con regolarità, indebolì le strutture democratiche tedesche, mentre durante il periodo dell’instabilità, nel quale si succederanno i “gabinetti presidenziali”, gli conferirà una funzione di primo piano nella gestione degli affari interni del paese (82). Con l’entrata in vigore delle disposizioni militari del trattato di Versailles, il 1° gennaio 1921, la nuova “Reichswehr” tedesca, composta dall’Esercito (Reichsheer) e dalla Marina (Reichsmarine), entrava formal-

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mente in funzione. Riguardo all’Esercito, questo doveva comporsi di centomila effettivi i quali avrebbero potuto restare in servizio non più di dodici anni e solo a quattromila ufficiali sarebbe stato consentito di rimanervi per venticinque anni. Non era prevista coscrizione obbligatoria e inoltre soltanto il 5% degli effettivi poteva essere so-stituito ogni anno, mentre riguardo all’equipaggiamento era stabilito che l’Esercito non disponesse di carri armati e armamenti offensivi, non potesse attuare alcuna mobilitazione e non dovesse importare gas tossici e materiali utilizzabili a scopo bellico. Allo stesso tempo, alla “Reichswehr” non era consentito di mantenere uno Stato Mag-giore e le stesse Accademie militari e le scuole di formazione dovevano poi essere abolite. Di fatto, l’Esercito veniva ridimensionato al ruolo di una Forza di polizia di dimensioni sufficienti a garantire l’ordine interno, ma comple-tamente incapacitato a porre un pericolo per gli Stati confinanti e quindi a condurre un nuovo conflitto. In merito invece alla Marina, questa vedeva i suoi componenti limitati ad appena quindicimila effettivi e non poteva disporre di sottomarini, ma solo di sei incrociatori leggeri e di altre unità la cui tipologia era strettamente indicata dalle clausole del trattato di pace, vedendosi così ridotta a una Forza di difesa costiera (83).

Alla Germania, veniva inoltre proibito di possedere una Forza aerea, cosa che portò alla dissoluzione della “Luft-streitkräften” la quale, durante il Primo conflitto costituiva l’aviazione dell’Esercito. Ma, paradossalmente, questa struttura imposta alle nuove Forze armate tedesche dal trattato di Versailles ebbe però la conseguenza che nessuna “democratizzazione” interna potesse essere applicata alla struttura militare del paese. Difatti, se da un lato proi-bendo la coscrizione obbligatoria si intendeva prevenire il ripetersi di quanto accaduto durante l’era imperiale in cui proprio il servizio di leva aveva contribuito alla formazione di un’ideologia militarista tra la popolazione, dal-l’altro però, creando un Esercito di dimensioni limitate e interamente professionale, nel quale entravano a farne parte unità provenienti dai “Freikorps” ma si escludevano gli elementi più moderati favorevoli al nuovo Stato re-pubblicano che invece avrebbero potuto esservi inclusi attraverso il servizio militare, si precludeva di fatto ogni possibile riforma democratica della “Reichsheer”, lasciando così che questa prendesse un linea politica fortemente nazionalista e orientata a destra. Sul piano istituzionale, il comando della “Reichswehr” era attribuito al Presidente della Repubblica, che aveva anche l’autorità di nominare e destituire gli ufficiali, anche se, di fatto, questo conser-vava pienamente la prerogativa di designazione solo per i Generali.

L’effettivo comando delle Forze armate era però affidato al ministero della Difesa il quale, a differenza di quanto accaduto durante l’Impero, era centralizzato, cosa che, di conseguenza, pose fine alle funzioni dei ministeri della Guerra fino ad allora esistenti in Prussia, Sassonia, Württemberg e Baviera, anche se il governo di quest’ultima conservava comunque ancora il diritto di nominare un Comandante a livello statale al quale spettava anche la guida del reggimento bavarese all’interno dell’Esercito. Questa sistema, stabilito dall’art. 47 della Costituzione, sanciva poi una differenziazione tra “autorità militare” e “comando”, in quanto, si riteneva che i politici non disponessero delle opportune conoscenze tecniche per guidare le Forze armate sul piano operativo. La scelta di introdurre un ministero della Difesa unitario era dettata poi anche dalla convinzione che, tanto più l’amministrazione statale fosse stata centralizzata, tanto più efficienti sarebbero state le Forze armate e la condotta della politica estera, così da poter consentire una più rapida ripresa della Germania e uno suo ritorno allo status di potenza continentale.

Tuttavia, in base alla legge militare del marzo 1921, veniva stabilito che l’Esercito costituisse una forza unificata nel rispetto però delle tradizioni regionali esistenti (84). L’amministrazione interna e la gestione degli affari militari erano di competenza dei rispettivi comandi dell’Esercito e della Marina, mentre dal punto di vista della struttura, non essendo consentita dalle condizioni del trattato di pace la presenza di uno “Stato Maggiore”, all’interno del-l’Esercito le funzioni di quest’ultimo erano di fatto esercitate dal “Truppenamt”, che tra i quattro uffici componenti il comando costituiva quindi il più importante. Ai Comandanti dell’Esercito e della Marina, era poi attribuita una particolare prerogativa (Immediaterecht) che gli consentiva di rivolgersi direttamente al capo dello Stato potendo quindi così scavalcare il ministro della Difesa.

Durante gli anni della “Repubblica di Weimar”, i rapporti tra l’Esercito e il potere politico furono difficili,

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70Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

con i vertici di quest’ultimo per i quali era essenziale che ai comandi fosse garantita la necessaria autonomia e autorità per svolgere le loro funzioni. In conclusione, si può dire che gli ufficiali delle Forze armate rimasero neutrali verso le istituzioni repubblicane servendole tuttavia con lealtà senza che vi fosse però un effettivo ap-prezzamento per il governo, dato che la stragrande maggioranza era di tendenza monarchica (85). Tuttavia, ve-nendo meno al principio di neutralità che avrebbe dovuto contraddistinguerne l’azione in un governo parlamentare, l’Esercito, andrà a svolgere all’inizio degli anni Trenta anche un importante ruolo politico che sarà una delle ragioni che favorirono l’arrivo al potere di Adolf Hitler.

La struttura di comando durante il regime nazista (1933-1945)

L’arrivo al governo del Partito

Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP) ebbe un ef-fetto quanto mai rilevante sull’as-setto istituzionale tedesco e, di riflesso, anche sulla struttura e il sistema di comando delle Forze armate. E come nel paragrafo precedente sulla “Repubblica di Weimar”, anche in questo caso è opportuno effettuare prima una breve disamina degli eventi che avvennero in Germania tra il 1933 e il 1935. Nominato can-celliere dal presidente Hinden-

burg il 30 gennaio 1933, Adolf Hitler guidò inizialmente un esecutivo di coalizione di cui faceva parte il Partito Nazionale Tedesco Popolare (DNVP), una formazione conservatrice fortemente orientata in senso nazionalista. Poco dopo aver assunto la guida del paese, il nuovo governo iniziò a introdurre una serie di provvedimenti che in breve tempo trasformarono in senso autoritario e dittatoriale l’assetto dello Stato tedesco. Il primo di questi fu in-trodotto il giorno successivo all’incendio del “Reichstag” avvenuto il 27 febbraio 1933, pochi giorni prima delle elezioni legislative. Il “Decreto sull’incendio del Reichstag” sospendeva una serie di articoli della Costituzione e introduceva delle limitazioni alla libertà di espressione, di stampa e di riunione autorizzando, inoltre, le forze di polizia a effettuare delle perquisizioni domiciliari oltre i limiti di legge imposti fino a quel momento.

Non accompagnato da indicazioni sulle modalità di attuazione, il decreto lasciava quindi una notevole discre-zionalità alle autorità che così si trovarono a disporre di un ampio margine di manovra da utilizzare nei confronti delle forze politiche e degli organi di stampa considerati “ostili” al nuovo governo. Dopo essersi affermato alle elezioni legislative del 5 marzo, nelle quali comunque, nonostante il clima d’intimidazione in cui si svolse la cam-pagna elettorale, il Partito Nazionalsocialista non ottenne la maggioranza assoluta conquistando solo il 43,91% dei consensi e 288 seggi, Hitler proseguì nell’azione di smantellamento della struttura costituzionale di Weimar e, con l’intento di istituire uno Stato autoritario dove il suo partito sarebbe stato la sola forza politica esistente,

Sfilata di un reparto delle SS.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

spinse il “Reichstag” ad approvare, il 24 marzo 1933, il “Decreto dei Pieni Poteri” che, composto di soli cinque articoli, autorizzava il governo a prendere tutte le misure legislative ritenute necessarie per il paese.

Tuttavia, dato che le disposizioni del decreto introducevano delle modifiche alla Costituzione le quali, per en-trare in vigore, dovevano ricevere il voto favorevole dei due terzi dei membri del “Reichstag”, Hitler aprì un nego-ziato con gli esponenti del Partito di Centro (Zentrum), una formazione moderata di ispirazione cattolica, così da riceverne il consenso per l’approvazione (86). In seguito, altri due provvedimenti, varati il 24 marzo e il 17 aprile, abolivano l’autonomia dei Länder ponendovi alla guida dei “Reggenti” (Reichstatthalter) nominati dal Presidente su proposta del Cancelliere, i quali avevano sostanzialmente il compito di mettere in atto a livello regionale le di-sposizioni dell’esecutivo; mentre il 14 luglio veniva anche introdotta la “legislazione popolare diretta” (Volkge-setze) con cui si autorizzava la convocazione di plebisciti popolari, uno strumento questo che negli anni successivi sarà utilizzato per far ratificare dalla popolazione le scelte adottate dal regime (87). Lo stesso mese, poi, con una legge, si riconosceva il Partito Nazionalsocialista come la sola formazione politica legale esistente in Germania, così che alle elezioni legislative del 12 novembre 1933 i membri eletti al “Reichstag” furono soltanto quelli ap-partenenti allo NSDAP insieme ai pochi indipendenti inseriti all’interno delle liste del partito. Poco dopo, il 1° dicembre 1933, con la “Legge sull’Unione tra lo Stato e il Partito”, si stabiliva il monopolio del Partito Nazional-socialista al quale erano concessi una vasta serie di privilegi, tra cui quella per cui i suoi tribunali interni venivano riconosciuti come uffici giudiziari statali, mentre sul territorio tedesco veniva a sovrapporsi la struttura organiz-zativa del partito che risultava divisa in province, distretti e unità locali.

Più tardi, il 30 gennaio 1934, con la “Legge sulla Ricostruzione del Reich”, il “Reichstag” conferiva al governo il potere costituente, anche se, sul piano strettamente formale, la Costituzione non sarà mai abolita, ma solo ma-terialmente abrogata, in quanto nessun nuovo testo costituzionale sarà introdotto dall’esecutivo. Inoltre, sempre con lo stesso provvedimento si aboliva il “Reichsrat”, ovvero la Camera Alta del Parlamento, e il “Consiglio Eco-nomico del Reich”, mentre in merito alla struttura dello Stato, si stabiliva come le prerogative dei Länder venissero trasferite allo Stato centrale, i governi regionali si trasformassero in agenzie dell’esecutivo nazionale e che i “Reg-genti” esistenti in ogni Länd sarebbero stati posti sotto il controllo del ministero degli Interni. Per effetto di questi provvedimenti, la Germania si trasformava così in uno Stato unitario dove i Länder si riducevano a semplici unità amministrative provinciali poste sotto il controllo del governo centrale. E l’anno seguente poi, con la “Legge sul Governo Municipale” si dichiarava che il compito delle amministrazioni comunali si doveva svolgere in conformità con gli obiettivi dell’esecutivo nazionale e che il sindaco non venisse più eletto ma nominato dal governo regionale del Länd. Infine, con la “Legge sulla Cittadinanza del Reich” del 14 novembre 1935, inserita all’interno delle “Leggi di Norimberga”, si affermava come in Germania esistesse una differenziazione tra “cittadinanza” e “nazio-nalità” e che solo alle persone rientranti nella prima tipologia erano garantiti i diritti politici, stabilendo inoltre come tutti gli abitanti di religione ebraica dovevano essere privati della cittadinanza, la quale poteva essere revocata anche ai tedeschi residenti all’estero se questi, con le loro azioni, avessero danneggiato l’immagine e gli interessi del paese o si fossero rifiutati di rientrare su richiesta delle autorità (88). La trasformazione dell’assetto istituzionale dello Stato interessò anche la struttura delle stesse Forze armate, che nei sei anni intercorsi tra l’arrivo al potere di Hitler e lo scoppio del Secondo conflitto mondiale andarono incontro a una profonda riorganizzazione interna. Il rapporto tra Hitler e i vertici militari fu però, almeno all’inizio, alquanto complesso.

Se da un lato Hitler aveva un profondo rispetto per le Forze armate, allo stesso modo però riteneva che, nel caso queste avessero assunto un ruolo troppo rilevante, lo avrebbero potuto usare per rovesciare un regime verso il quale non ponevano grande considerazione e sostituirlo con una “giunta militare” oppure restaurare la Mo-narchia. Nelle prime fasi del regime, le Forze armate erano comunque considerate come un alleato, anche alla luce dell’obiettivo più volte enunciato dallo stesso Hitler di restaurare la “sovranità militare” della Germania e pure gli stessi vertici militari si mostrarono pronti a dialogare con il governo, sia perché il capo dello Stato, ma-

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resciallo von Hindenburg, li aveva invitati a collaborare con il nuovo regime, ma anche per il fatto che, in questo modo, l’Esercito e la Marina avrebbero potuto proce-dere a un riarmamento ritenuto di fondamentale importanza. Ma se queste erano le motivazioni uffi-ciali che nelle fasi iniziali porta-rono le Forze armate a dialogare con il nuovo regime, molti tra gli ufficiali guardavano con favore a Hitler, anche per motivi di ambi-zione personale e di carriera (89). Con la scomparsa di Hindenburg, avvenuta il 2 agosto 1934, Hitler assunse anche le funzioni di Pre-sidente, divenendo così conte-stualmente anche capo delle

Forze armate, le quali non prestarono più giuramento di fedeltà alla Repubblica come fino ad allora prescritto, ma solo a Hitler, che da quel momento assunse quindi il titolo di “Führer”.

Pochi mesi più tardi, il 16 marzo 1935, una nuova legge dichiarava la “sovranità militare” della Germania rein-troducendo il servizio militare obbligatorio e incrementando gli effettivi dell’Esercito da centomila a cinquecen-tomila. A maggio, con la “Legge sulla Difesa del Reich”, che provvedeva alla riorganizzazione delle Forze armate, la “Reichswehr” cambiò la sua denominazione ufficiale trasformandosi in “Wehrmacht”, una trasformazione non solo di significato formale ma anche politico e militare, in quanto con le nuove disposizioni il “ministero della Di-fesa” si convertiva contestualmente in “ministero della Guerra” e, riguardo al comando dell’Esercito, questo passò dall’essere indicato come “Sezione dell’Esercito” (Heeresleitung) ad “Alto Comando dell’Esercito” (Oberkom-mando des Heeres) guidato da un “Comandante in capo dell’Esercito”.

La Marina invece diveniva “Marina da Guerra” (Deutsche Kriegmarine) e al vertice vi era posto il “capo del Co-mando navale”, mentre con il decreto segretamente emanato il 26 febbraio veniva nuovamente istituita l’Aeronau-tica (Reich Luftwaffe), al capo della quale veniva designato Hermann Goering. Per effetto di queste disposizioni, Hitler diventava così il “Comandante in capo” delle Forze armate con il ministro della Guerra posto in posizione subordinata. Alla guida di quest’ultimo rimaneva comunque il generale Werner von Blomberg, che nei due anni precedenti aveva già introdotto nella “Reichswehr” una serie di provvedimenti che andavano incontro alla linea politica del nuovo governo, come per esempio l’incorporazione della “svastica” nei simboli ufficiali delle Forze armate. Tuttavia, queste, pur nella sempre più evidente azione del regime tesa a eliminare le forme di dissenso presenti nel paese, nelle fasi iniziali, avevano ancora conservato una certa autonomia interna, come dimostrato dal rifiuto da parte di Hindenburg di procedere alla nomina a capo dell’Esercito del generale Walther von Reichenau, un esponente di chiara tendenza nazionalsocialista al quale fu preferito il generale Werner von Fritsch, di orien-tamento più conservatore. La vera svolta nei rapporti tra le Forze armate e il regime nazista avverrà però il 30 giugno 1934 in occasione della “notte dei lunghi coltelli” in cui fu eliminata la struttura delle “Sturmabteilung” (SA), comunemente indicate come “camice brune”, le quali costituivano l’originaria ala paramilitare del partito. Da tempo critici anche per il fatto che erano stati costretti a provvedere pure alla loro preparazione, i vertici militari

72Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Adolf Hitler passa in rassegna le sue truppe a Monaco.

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consideravano negativamente l’idea di incorporare questa milizia all’interno dell’Esercito, sostenuti in questo dai dirigenti del partito nazista che temevano un possibile colpo di Stato da parte delle “SA”, ma soprattutto dallo stesso Hindenburg, il quale si disse pronto a proclamare la legge marziale e ad affidare all’Esercito il compito di ripristinare l’ordine nel paese se il governo non fosse stato in grado di ridurre le tensioni (90). E anche Hitler, in un discorso tenuto il 28 febbraio 1934, aveva espresso le sue critiche verso le “SA”, affermando come solo l’Eser-cito avesse il ruolo di Forza nazionale, mentre invece quello della milizia di Röhm doveva essere limitato a compiti interni per la protezione delle frontiere e l’addestramento premilitare.

La partecipazione dei reparti dell’Esercito regolare alla sanguinosa epurazione delle “SA” ebbe quindi come conseguenza che da quel momento questo perse quella residua parte di autonomia che fino allora aveva conservato. Difatti, se la loro eliminazione accantonava l’idea di costituire una “milizia popolare rivoluzionaria”, dall’altro, però, questa permetteva alle “SS” di guadagnare sempre più peso all’interno della struttura militare, tanto che negli anni seguenti andranno ad assumere una forza cinque volte maggiore di quella avuta nel 1935 (91).

Ma saranno gli eventi accaduti nel 1938 che porteranno definitivamente le Forze armate ad allinearsi al regime nazista adattandosi alla sua ideologia e ai suoi programmi politici (92). I contrasti già da tempo esistenti tra Hitler e il ministro della Guerra von Blomberg, in merito non solo all’organizzazione delle Forze armate, ma anche ai piani politici e strategici della Germania, esplosero all’inizio del 1938 portando così alla rimozione del ministro della Guerra, la quale fu favorita anche in ragione di uno scandalo che provocò le dimissioni di von Fritsch dalla guida dell’Esercito (93). L’“affare Fritsch-Blomberg”, come fu indicato, venne, quindi, utilizzato dal regime per una completa ristrutturazione dell’apparato militare, con il ministero della Guerra abolito e le sue funzioni assunte da Hitler, mentre a capo dell’Esercito fu designato il più flessibile Walter von Brauchitsch. Inoltre, fu decisa l’istituzione di un “Alto comando delle Forze armate” (OKW, Oberkommando der Wehrmacht), di cui facevano parte i comandi dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, che tuttavia disponeva di un’autorità assai limitata sui vertici delle tre armi avendo essenzialmente il compito di rendere operativi sul piano militare i programmi e le direttive di Hitler.

73 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE IN GERMANIA DURANTE IL SECONDO CONFLITTO MONDIALE

Aiutanti in capo: Gen. SCHMUNDT dal 12/10/1944 Gen. BURGDORF

Alto Comando della Luftwaffe C. in c.: Maresciallo del Reich GÖRING

dal 25-27/4/1945 Gen. Feldm. VON GREIM

Alto Comando dell’Esercito C. in c.: Feldm. BRAUCHITSCH

dal 19/12/1941 HITLER

Alto Comando della Marina C. in c.: Gr. Amm. RAEDER

dal 30/1/1943 Gr. Amm. DÖNITZ dal 2/5/1945

Contramm. VON FRIEDBURG

Alto Comando della Wermacht

Capo: Feldm. KEITEL Capo di Stato Maggiore:

Col. Gen. JODL

Alto Comando della Wermacht

HITLER “Führer

e Cancelliere del Reich”

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Come evidenziato dagli esperti, questo sistema aveva fi-nito però, paradossalmente, per indebolire la struttura centraliz-zata di comando, in quanto l’OKW mancava delle necessarie dimensioni e competenze per co-ordinare le tre armi delle Forze armate ma, soprattutto, non di-sponeva dell’autorità che una si-mile funzione richiedeva.

Queste carenze emersero in tutta la loro evidenza nel mo-mento in cui le Forze armare te-desche avviarono le campagne militari decise da Hitler. Così, nei piani preparati per le operazioni in Austria e in Cecoslovacchia l’OKW non venne nemmeno con-

sultato, mentre l’azione contro la Polonia del settembre 1939 fu attuata con il coordinamento tra l’Esercito e l’Aeronautica ma senza quella dell’Alto comando. Allo stesso modo, anche nel corso della campagna contro la Francia del maggio 1940 tra l’OKW e il comando dell’Esercito vi fu poca collaborazione. Per tutta la durata del Secondo conflitto mondiale, l’OKW fu guidato dal feldmaresciallo Wilhelm Keitel, e i rapporti tra Hitler e l’Alto comando subirono gli effetti degli eventi militari. Difatti, se all’inizio Hitler non interferì nell’attività delle tre armi riconoscendo le qualità professionali dei loro comandanti ed esercitando sostanzialmente una funzione di mediatore nel caso fossero emersi dei contrasti, con il passare dei mesi il suo ruolo andrà invece sempre più au-mentando, portandolo prima ad assumere, nel 1941, il comando supremo dell’Esercito e poi a concentrare nelle sue mani ogni aspetto delle operazioni militari (94).

Il sistema di comando nell’attuale Repubblica Federale di Germania

In seguito alla disfatta seguita al Secondo conflitto mondiale, il territorio della Germania venne diviso in quattro zone d’occupazione amministrate ognuna dalle potenze vincitrici.

A differenza di quanto avvenne nel 1918 quando uno Stato tedesco autonomo e dotato di una propria ammini-strazione rimase in funzione anche dopo la sconfitta, nel 1945, invece, la gestione passò completamente nelle mani degli Alleati, e questo per tre ragioni (95). In primo luogo, la divisione del territorio in zone d’occupazione fu decisa in quanto si doveva far comprendere al popolo tedesco che anch’esso portava la responsabilità di quanto compiuto dal regime nazista, mentre un’altra risiedeva nel fatto che, in questo modo, il processo di denazificazione della società e dell’apparato statale tedesco si sarebbe potuto realizzare nella maniera più efficiente. Ma, il motivo principale era quello di impedire che in futuro la Germania potesse rappresentare un pericolo per la sicurezza eu-ropea e condurre così una guerra d’aggressione contro gli altri Stati. Tuttavia, dopo un primo periodo in cui il re-

74Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Hitler dal 1938 è capo supremo della Wehrmacht, le Forze armate tedesche.

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gime di occupazione fu estremamente severo, si cominciò a discutere della formazione di un nuovo Stato tedesco. Di conseguenza, nel gennaio 1947, le zone di occupazione britannica e americana si unirono nella gestione degli affari economici, unione alla quale si aggiunse poi, in seguito all’abbandono da parte sovietica della “Commissione Alleata di Controllo”, anche quella francese. L’anno seguente, nell’agosto 1948, i governi regionali della parte occidentale si riunirono a Herrenchiemsee per elaborare un progetto costituzionale per federare le diverse regioni, mentre il 1° settembre a Bonn si costituiva il “Consiglio Parlamentare”, eletto dalle assemblee legislative dei diversi Länder, incaricato di redigere il testo di una Costituzione provvisoria per il nuovo Stato tedesco. Questo fu preparato l’8 maggio 1949, poi approvato dai governatori militari alleati quattro giorni dopo e infine promulgato ufficialmente il 23 maggio. Per l’entrata in vigore era previsto che il testo fosse approvato dalle assemblee legislative dei diversi Länder, che nei dieci giorni successivi si pronunciarono tutte a favore, con la sola eccezione della Ba-viera. Sorgeva così la “Repubblica Federale di Germania” la cui capitale provvisoria era Bonn.

Il testo, indicato con il nome di “Legge Fondamentale” (Gründgesetz) proprio per sottolinearne la provvisorietà, in quanto la redazione di una Costituzione definitiva sarebbe stata realizzata solo dopo la riunificazione, stabiliva una serie di principi che intendevano rimarcare la differenza con il precedente assetto di Weimar, il quale era ri-tenuto una delle cause principali che portarono all’ascesa di Hitler.

La nuova struttura costituzionale era di tipo parlamentare con il Cancelliere posto alla guida del governo e un Parlamento di tipo bicamerale, composto da una “Dieta Federale” (Bundestag) con membri eletti ogni quattro

75 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

I nazisti imputati nel processo di Norimberga contro i crimini del regime.

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anni per metà con il maggioritario a turno unico e per l’altra attraverso un sistema proporzionale con voto di lista, e da un “Consiglio Federale” (Bundesrat) nel quale ognuno dei Länder era rappresentato da un numero di dele-gati proporzionale alla loro popolazione. A capo dello Stato vi era un Presidente eletto dall’“Assemblea Federale” e dotato di prerogative quanto mai ridotte rispetto a quelle attribuitegli durante la “Repubblica di Weimar” e a cui erano attribuite in sostanza solo funzioni di tipo cerimoniale. Nella “Legge Fondamentale” venivano poi anche enunciati tutta una serie di diritti civili e politici e reintrodotta la struttura federale con degli esecutivi re-gionali dotati di ampie prerogative e un territorio suddiviso in dieci Länder più la zona occidentale di Berlino, che però non era considerata parte integrante della Repubblica Federale disponendo di uno status giuridico par-ticolare (96). La formazione del nuovo Stato comportò pure l’avvio di una discussione riguardo al fatto se la Ger-mania dovesse dotarsi anche di una Forza militare.

Queste erano iniziate già nel 1946, ma le posizioni all’interno degli Alleati apparivano quanto mai divergenti, con il governo inglese che si dichiarava favorevole solo alla formazione di una Forza di polizia mobile mentre la Francia, al contrario, affermava che non avrebbe accettato in nessun caso il riarmo della Germania. Sarà tuttavia solo dal 1950 che le discussioni furono effettivamente avviate. Così, dopo il fallimento della conferenza di Berlino del 20 febbraio 1954 nella quale fu affrontato per la prima volta il tema della riunificazione, con la firma dell’ac-cordo di Parigi del 1954. Le tre potenze alleate occidentali ponevano termine al regime di occupazione resti-tuendo alla Germania lo status di Stato sovrano, mentre l’anno successivo venivano istituite le nuove Forze armate — la “Bundeswehr” — e Bonn entrava a far parte della NATO e dell’Unione europea occidentale (UEO). Tuttavia, la struttura militare si presentava comunque estremamente diversa rispetto a quella esistente in passato. Per prima cosa, avendo ancora presente il ricordo di quanto accaduto durante il regime nazista, i costituenti del nuovo Stato tedesco redassero un testo costituzionale di chiaro orientamento pacifista in cui un posto primario era riservato al rispetto dei diritti umani e nel quale si affermava come fosse compito del governo di reprimere gli atti tesi a di-sturbare i rapporti pacifici tra le nazioni o a preparare una guerra di aggressione. Riguardo alla “Bundeswehr”, era posta sotto uno stretto controllo parlamentare e i suoi effettivi sottoposti alla giurisdizione civile non essendo previsti dei tribunali militari (97). Era poi stabilita la coscrizione obbligatoria della durata di dodici mesi (98)

76Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

L’ex ministro della Difesa Ursula von der Leyen, incontra i militari della Bundeswehr.

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per tutti gli uomini dai dodici ai quarantacinque anni ma, allo stesso tempo, introdotta la disposizione che con-sentiva l’obiezione di coscienza, anche se gli obiettori dovevano presentarsi davanti a delle commissioni locali che erano incaricate di valutare la fondatezza delle ragioni esposte.

Infine, per il reclutamento si stabiliva un processo di valutazione civile per considerare l’arruolamento di ex ufficiali e sottufficiali che in passato avevano prestato servizio nella “Wehrmacht” e che la NATO sarebbe stata responsabile per la pianificazione in tempo di guerra e la direzione delle operazioni. Ma, aldilà di queste disposizioni, la politica di riarmamento, unitamente alla stessa esistenza della “Bundeswehr”, in Germania non incontrò, almeno nei primi anni, l’approvazione popolare, tanto che il numero dei volontari si attestò solo al 48% degli effettivi, quando invece il go-verno aveva pianificato una quota pari al 55%, rimanendo quindi al di sotto di quanto preventivato (99). La particolare struttura delle Forze armate tedesche è riscontrabile anche nel sistema istituzionale di comando e nel forte controllo civile e parlamentare cui è sottoposta la “Bundeswehr”. Secondo il dettato costituzionale, il Presidente non dispone neanche formalmente del ruolo di capo delle Forze armate, avendo solo la funzione di nominare gli ufficiali, una scelta questa dettata soprattutto dal fatto che si voleva evitare il ripetersi di quanto accaduto in passato e negli anni di Weimar. Così, il comando della “Bundeswehr” è, in tempo di pace, affidato al ministro della Difesa, venendo, solo in situazioni di emergenza, attribuito al Cancelliere, mentre alla “Commissione Difesa” del “Bundestag”, secondo quanto stabilito dall’art. 45/a della “Legge Fonda-mentale”, è attribuita anche la funzione di indagine su specifiche questioni riguardanti l’ambito militare. Inoltre, la Repubblica Federale è il solo paese nel quale il ruolo del garante dei diritti (Ombudsperson) degli appartenenti alle Forze armate è stabilito a li-vello costituzionale. Il “Commissario parlamentare per le Forze armate”, che non è né un deputato né un funzionario dell’amministrazione civile, secondo quanto fissato dall’art. 45/b, è eletto dal “Bunde-stag” a scrutinio segreto con un mandato di cinque anni e ha il compito di assistere il Parlamento nel-l’attività di controllo nonché di tutelare i diritti dei militari e di indagare se nei confronti di quest’ultimi siano stati commessi abusi, discriminazioni e ille-gittime restrizioni della libertà di espressione e di altri diritti (100).

E la stessa organizzazione interna della “Bunde-swehr” riflette l’unicità del modello difensivo tede-sco. Così, non essendo permesso alla Germania di mantenere uno “Stato Maggiore” in quanto simbolo della politica militarista dei passati regimi, il capo delle Forze armate è indicato con il nome di “Ispet-tore generale della Bundeswehr” (Generalinspek-teur der Bundeswehr), il quale costituisce il più importante consigliere militare del ministro della Difesa e da cui dipendono gli “Ispettori generali” dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica.

77 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

LA CATENA DI COMANDO MILITARE NELLA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA

Ministro della Difesa (in tempo di pace)

Cancelliere

(in tempo di guerra)

Ispettore generale delle Forze armate

(General Inspekteur der Bundeswehr)

Ispettore dell'Esercito (Inspekteur des Heeres)

Ispettore dell'Aeronautica (Inspekteur der Luftwaffe)

Ispettore della Marina (Inspekteur der Marine)

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E sempre in ragione di queste particolarità, agli ef-fettivi della “Bundeswehr” è consentito di esercitare un diritto sconosciuto agli appartenenti alle Forze ar-mate degli altri paesi, ovvero quello di poter disubbi-dire a un ordine impartito se questo è ritenuto illegale, contrario alle disposizioni della “Legge Fondamen-tale” oppure se considerato in grado di poter, anche indirettamente, causare una guerra o, addirittura, se il contenuto contrasta con i dettami della loro coscienza (101). Dal lato operativo, la “Bundeswehr” è stata poi soggetta anche a significative limitazioni imposte dalla “Legge Fondamentale” che hanno ridotto sensibil-mente le sue capacità d’azione. Il ricordo di quanto ac-caduto nei due conflitti mondiali aveva difatti spinto i costituenti a inserire delle clausole stringenti in merito all’impiego delle Forze armate.

In base all’art. 87/a della “Legge Fondamentale”, alla “Bundeswehr” era affidato essenzialmente il com-pito di difendere il territorio tedesco e quello dell’Al-leanza atlantica, potendo essere dispiegata solo in rispetto a quanto fissato dalle disposizioni costituzio-nali. Con la riunificazione e il conseguente cambia-mento del quadro geopolitico, le limitazioni riguardanti l’impiego delle Forze armate hanno ini-ziato però ad apparire anacronistiche e non più attuali (102). E così, quando i reparti militari tedeschi, inte-grati alle unità della NATO, furono impegnati nelle missioni di controllo sul rispetto della no fly zone isti-tuita in Bosnia-Erzegovina e nel pattugliamento del mare Adriatico per l’attuazione dell’embargo deciso nei confronti della Federazione della Jugoslavia non-ché nelle operazioni di supporto logistico in Somalia all’interno della missione umanitaria “UNOSOM II” delle Nazioni unite, il “Tribunale Costituzionale Federale”, al quale si erano rivolti i Socialdemocratici e i Liberali, in quanto ritenevano la partecipazione tedesca contraria ai dettami della “Legge Fondamentale”, nel 1994, stabilì che le clausole del protocollo di accessione alla NATO del 1955 autorizzavano l’incorporazione delle unità militari in un comando integrato in operazioni condotte direttamente dall’Alleanza atlantica oppure attuate sotto il suo comando (103).

Tuttavia, proprio per evitare che il governo potesse prendere in completa autonomia la decisione di dispiegare dei reparti militari, lo stesso “Tribunale Costituzionale Federale” dichiarò come ogni missione dovesse ricevere l’approvazione del “Bundestag”, confermando quindi come la “Bundeswehr” costituiva una “Forza armata Parla-mentare” che poteva prendere parte a operazioni al di fuori dei confini nazionali solo se vi fosse stata una copertura internazionale e un’autorizzazione parlamentare (104). Un’altra accesa discussione si verificò poi nel 1999 in oc-casione dell’azione decisa dalla NATO contro la Serbia in risposta alle violazioni commesse da Belgrado contro la popolazione albanese in Kosovo. Fin dal suo insediamento, il nuovo cancelliere, Gerhard Schröder, affermò come

78Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Militari della Bundeswehr in missione.

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fosse giunto il momento per la Germania di assumersi una maggiore responsabilità sul piano internazionale, po-nendo così fine alle esitazioni in merito al dispiegamento all’estero delle unità militari della “Bundeswehr”. E quando la crisi kosovara esplose nel 1999, il governo di Berlino dichiarò come la partecipazione tedesca alla “Ope-ration Allied Force” era dettata sia dal fatto che si doveva impedire a Milosevic di continuare la sua politica di re-pressione ma anche perché in questo modo la Germania intendeva dimostrare come, essendo diventata ormai un partner primario della NATO, il suo coinvolgimento fosse di importanza fondamentale nonché un modo per fare ammenda degli errori passati (105).

Da allora la situazione si è profondamente modificata tanto che, dopo la partecipazione alla missione NATO ISAF (International Security Assistance Force) attuata in Afghanistan nel 2001, i reparti militari tedeschi sono stati, negli anni successivi, impegnati in diverse operazioni internazionali (106). Un discorso a parte va fatto infine, come accennato prima, sul sistema di comando delle Forze armate in situazioni di emergenza. Inizialmente, nel testo della “Legge Fondamentale” non fu inserita nessuna disposizione per fronteggiare le eventuali situazioni di

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(70) Per la precisione, dei ventidue Stati di tipo monarchico quattro erano dei regni, sei dei granducati, sei dei ducati mentre sette infine co-stituivano dei principati. Va ricordato infine che l’Alsazia e la Lorena avevano lo status di “Terre imperiali” essendo governate direttamente dal governo centrale. (71) Sulla struttura politica dell’Impero tedesco vedi Kruger, Government and Politics of German Empire, World Book Company, New York 1915, pp. 33-167. (72) La “Reservatrechte”, siglata nel novembre 1870 tra la “Confederazione della Germania settentrionale” e la Baviera, la Sassonia e il Wür-ttemberg, consentiva a questi tre Stati, unitamente alla Prussia, di disporre di un proprio ministero della Guerra e del controllo delle proprie Forze militari. (73) Sulla struttura istituzionale della Germania imperiale e il suo sistema di comando dell’Esercito e della Marina vedi, Howard, The German Empire, The Macmillan Company, Londra/New York 1913, pp. 320-402. (74) Per esempio, le ordinanze emesse non in nome dell’Impero venivano controfirmate solo dal ministro della Guerra di Prussia e solo nel caso queste avessero contenuto delle disposizioni di interesse nazionale riportavano anche la firma del Cancelliere. (75) Anche se non riportato nella Costituzione, l’Imperatore era generalmente indicato con il nome di “Supremo signore della guerra” (Oberster Kriegsherr) e con questo termine gli ufficiali e la truppa prestavano giuramento di fedeltà al Sovrano. (76) Sul sistema di comando e il ruolo dello Stato Maggiore tedesco vedi, Herwig, «Through the Looking Glass: German Strategic Plan before 1914», pubblicato su The Historian, Vol. 77, No 2, Anno 2015, pp. 290-314. (77) Vedi su questo, lo studio Understanding the Prussian General Staff System, Strategic Studies Institute (SSI), U.S. Army War College, Carlisle, 20 marzo 1992. (78) Sulla struttura del comando supremo tedesco durante il conflitto vedi 1914-1918 Online International Encyclopedia of the First World War al sito https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/oberste_heeresleitung_ohl, mentre sui rapporti con gli esponenti politici vedi https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/governments_parliaments_and_parties_germany. (79) La Repubblica di Weimar si componeva inizialmente di ventuno Länder, i quali avevano assunto un assetto repubblicano, e delle tre “Città libere e anseatiche” di Amburgo, Brema e Lubecca. Tuttavia, nel corso degli anni alcuni Stati si unirono ad altri e così nel 1933 il numero dei Länder si ridusse a quindici.

NOTE AL CAPITOLO IV

emergenza che si fossero presentate, in quanto in questo modo si intendeva evitare quanto accaduto durante l’era di Weimar, dove l’art. 48 della Costituzione autorizzava il Presidente a prendere tutte le misure necessarie per ri-stabilire l’ordine pubblico compresa la sospensione delle garanzie costituzionali. Tuttavia, a causa prima dell’esplo-sione del conflitto in Corea nel 1950, poi per le tensioni legate alla Guerra fredda e, infine, per l’emergere delle proteste studentesche nel 1968, anche in Germania si iniziò a discutere della possibilità di introdurre delle di-sposizioni di emergenza all’interno della “Legge Fondamentale”. Così, proprio nel 1968, furono approvate le mi-sure che autorizzavano il governo a gestire le eventuali situazioni emergenziali che si fossero presentate nel paese. Indicate con il nome di “Costituzione d’Emergenza”, queste disposizioni aggiungevano undici articoli alla “Legge Fondamentale” sotto il titolo di “stato di difesa” e stabilivano la procedura da seguire qualora una grave crisi in-ternazionale avesse posto la Germania davanti al rischio di un attacco esterno (107).

Secondo l’art. 115/a della “Legge Fondamentale”, la proclamazione dello “stato di difesa” deve essere effet-tuata, dietro richiesta del governo, dal “Bundestag” con il consenso del “Bundesrat” attraverso un voto ottenuto con la maggioranza dei due terzi dei membri, mentre nel caso il Parlamento federale fosse impossibilitato a riunirsi, la decisione spetterebbe alla “Commissione Comune” (Gemeinsamer Ausschuss), un organismo composto per due terzi da deputati del “Bundestag” e per un terzo da rappresentanti del “Bundesrat” designati dai diversi Länder che, nelle intenzioni dei costituenti, in caso di emergenza sarebbe stato in grado di riunirsi in poco tempo e in una località protetta nei pressi della capitale Bonn. In questa situazione, la “Commissione Comune” avrebbe agito quindi come una sorta di “piccolo Parlamento” con il compito di controllare anche l’azione del governo. E nel caso di proclamazione dello “stato di difesa” — che comunque non è mai stato dichiarato dopo la sua introduzione — il comando delle Forze armate passa dal ministro della Difesa al Cancelliere.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

(80) Sulla struttura istituzionale di Weimar vedi, Mortati, Le forme di Governo, CEDAM, Padova 1973, pp. 199-226. (81) Sulle vicende politiche accadute in Germania dal 1918 al 1920 e il loro impatto sulle Forze militari vedi, Kane, Disobedience and Con-spiracy in the German Army 1918-1945, McFarland Publishing, Jefferson/Londra 2002, pp. 40-68. (82) Sul ruolo dell’Esercito negli anni di Weimar vedi, Kolb, The Weimar Republic, 2a Ed., Routledge, Londra/New York 1990, p. 172. (83) Vedi in proposito, Zabecki, Germany at War: 400 Years of Military History, ABC Clio, Santa Barbara 2014, p. 488. (84) Su questo argomento vedi, «Civil-Military Relations in the Early Weimar Republic», pubblicato in The Historical Journal, Vol. 45, No 4, dicembre 2002, pp. 819-841. (85) Sulla struttura istituzionale di comando delle Forze armate tedesche vedi, Hiden, The Weimar Republic, 2a Ed., Routledge, Londra/New York 2016, pp. 50-57. (86) Al Partito di Centro venne garantito che gli organi della Costituzione avrebbero continuato a restare in funzione e l’autonomia dei Länder non venisse limitata. Inoltre, si prometteva che i diritti della Chiesa cattolica sarebbero stati rispettati e che un’apposita commissione parla-mentare avrebbe esaminato i provvedimenti emanati dal governo. Infine, si prospettava la possibilità che un Concordato con la Santa Sede sa-rebbe potuto essere firmato in breve tempo. Tuttavia, la stragrande maggioranza di questi impegni non fu mantenuta. Il “Decreto dei Pieni Poteri” sarà poi approvato con 444 voti a favore e 94 contro, questi ultimi espressi tutti dal Partito Socialdemocratico (SPD) di cui ventisei parlamentari erano però già stati arrestati o costretti alla fuga, mentre i membri del Partito Comunista non parteciparono essendo stato il KPD dichiarato fuorilegge. Inizialmente introdotto per una durata di quattro anni, il decreto sarà poi esteso nel 1937, 1939 e 1943 per essere abolito dal “Consiglio Alleato di Controllo” il 20 settembre 1945. (87) Sui decreti e i provvedimenti introdotti in Germania dal governo nazionalsocialista tra il 1933 e il 1934 vedi, Biscaretti di Ruffia, Intro-duziuone al Diritto Costituzionale Comparato, VI Ed., Giuffrè, Milano 1988, pp. 569-576. (88) Sul contenuto dei provvedimenti legislativi approvati dal regime nazista tra il 1933 e il 1937 vedi, Loewenstein, «Dictatorship and the German Constitution: 1933-1937», pubblicato su The University of Chicago Law Review, Vol. 4, No 4, giugno 1937, pp. 537-574. (89) Sui rapporti tra Hitler e i militari nelle prime fasi del regime nazista vedi, Wheeler-Bennet, The Nemesis of Power. The Germany Army in Politics 1918-1945, The Macmillan Press, Londra/Basingstoke 1980, pp. 289-294. (90) Alcuni esponenti del partito nazista come Himmler erano critici verso le “Sturmabteilung” ma perché intendevano sostituire il loro ruolo all’interno dell’Esercito con le più affidabili “SS”. Vedi su questo, Wheeler-Bennett, op. cit., pp. 317-320. (91) Su questo vedi, Müller, Hitler's Wehrmacht, 1935-1945, University Press of Kentucky, Lexington 2016, pp. 7-10. (92) Vedi, sui rapporti tra le Forze armate e il regime, Post, «Exploring Political–Military Relations: Nazi Germany», in Marston/Leahy (a cura di) War, Strategy and History. Essays in Honour of Professor Robert O’Neill, Australian National University, Canberra 2016, pp.1-13. (93) Nel gennaio 1938 von Blomberg si era sposato con Erna Gruhn, una pregiudicata che in passato aveva pure posato per servizi fotografici pornografici, un fatto ritenuto inaccettabile dagli alti vertici militari che chiesero quindi la destituzione del ministro della Guerra. Riguardo a von Fritsch invece, anche lui considerato non allineato alle posizioni del regime, fu costretto ad abbandonare l’incarico di “Comandante in capo” dell’Esercito dopo che Himmler e Goering avevano preparato un rapporto falso in cui si affermava che era di tendenze omosessuali. (94) Vedi, sui rapporti tra Hitler e l’OKW tra il 1938 e 1941 Nolen, «JCS Reform and the Lessons of German History», apparso su Parameters. Journal of the US Army War College, Vol. XIX, No 3, autunno 1984, pp. 12-19. (95) La “Wehrmacht” e le altre forze paramilitari furono formalmente dissolte il 12 novembre 1945. «Control Council, Directive No 18, For Disbandment and Dissolution of the German Armed Forces», contenuto in Enactments and Approved Papers of the Control Council and Co-ordinating Committee, Allied Authority Control Germany, Vol. I, 1945, pp. 188-190, Legal Division, Office of Military Government for Ger-many (US) - (declassificato). (96) Dal punto di vista giuridico lo status di Berlino era estremamente complesso. Anche se la parte occidentale era considerata dal governo di Bonn come un Länd della Repubblica Federale, le autorità alleate non riconobbero questa posizione anche per non danneggiare i rapporti con Mosca, considerando formalmente la città come un territorio occupato. Di conseguenza, ogni provvedimento legislativo approvato dal Parla-mento di Bonn che conteneva disposizioni riguardanti Berlino, per entrare in vigore nella parte occidentale doveva essere prima approvato dal “Senat” della città e poi firmato dai tre comandanti alleati. Tuttavia, con gli anni la procedura divenne meno formale, sia perché le leggi conte-nevano solo implicitamente riferimenti a Berlino in modo da evitare questa lunga procedura, ma anche per il fatto che i negoziati preliminari informali con le autorità alleate consentirono ai provvedimenti di essere approvati senza richieste di modifica. Va comunque ricordato che i voti dei deputati berlinesi al “Bundestag” non potevano risultare determinanti, mentre gli abitanti della parte occidentale non erano chiamati a prestare servizio militare nella “Bundeswehr” e le unità dell’Esercito tedesco non potevano essere dislocate nella città. Vedi su questo, West Berlin’s Legal Ties with Bonn, Current Intelligence Weekly Summary, Central Intelligence Agency, 21 gennaio 1960 (declassificato). (97) Solo in caso di proclamazione dello “stato di difesa”, per i militari in servizio all’estero o a bordo di unità navali è prevista l’istituzione di tribunali militari. In tempo di pace, le violazioni disciplinari erano regolate dal “Codice di Disciplina Militare” e dibattute all’interno di apposite corti istituite presso il ministero della Difesa composte da due magistrati civili e due ufficiali in qualità di giudici onorari. (98) La durata del servizio militare fu portata a diciotto mesi, nel 1961, durante la crisi di Berlino per poi ridursi a quindici nel 1972. La co-scrizione obbligatoria fu in seguito abolita nel 2001.

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(99) Sulla formazione della “Bundeswehr” vedi, Zabecki, op. cit., pp. 484-487. (100) Sul ruolo e le funzioni attribuite al “Commissario parlamentare per le Forze armate” vedi il sito www.bundestag.de/en/parliament/com-missioner. (101) Vedi su questo, «A soldier right to disobey», apparso su The Week, 1° gennaio 2007. (102) Dopo il conflitto nel Golfo del 1991, reparti militari tedeschi parteciparono ad alcune missioni all’estero, anche se si trattava comunque di unità non armate o equipaggiate con armamento leggero. Queste missioni rappresentarono un primo passo nel rafforzamento del ruolo in-ternazionale della “Bundeswehr”. Decise dal governo Kohl, le operazioni furono però oggetto di contestazione in quanto si riteneva che l’ese-cutivo fosse andato oltre i dettami costituzionali. Sulle missioni militari che dal 1991 al 1993 videro la partecipazione tedesca vedi, Kamp, «The German Bundeswehr in Out-of-Area Operations: To Engage or Not to Engage?», apparso su The World Today, Vol. 49, No 8/9, anno 1993, pp. 165-168. (103) Vedi su questo, Miller, «Germany's Basic Law and the Use of Force», apparso su Indiana Journal of Global Legal Studies, Vol. 17, No 2, estate 2010, pp. 197-206. (104) Sulla questione del dispiegamento delle unità militari tedesche vedi, Peters, «Between military deployment and democracy: use of force under the German constitution», pubblicato in Journal on the Use of Force and International Law, Vol. 5, No 2, anno 2018, pp. 246-294. (105) Il dibattito politico sulla partecipazione provocò fortissime tensioni all’interno della coalizione governativa formata da Socialdemocratici e Verdi. E proprio tra questi vi furono numerosi esponenti che andarono contro la linea espressa dal ministro degli Esteri Fischer, che del partito era anche il leader, per il quale la partecipazione tedesca veniva attuata per ragioni umanitarie. E nel dibattito che seguì al “Bundestag” solo gli esponenti del PDS, la formazione erede della SED tedesco-orientale, si espressero contro la partecipazione tedesca. Tuttavia, il go-verno di Berlino informò la NATO che non avrebbe comunque partecipato a operazioni militari terrestri in quanto in questo caso sarebbe stato impossibile ottenere l’approvazione parlamentare. E in quell’occasione il “Tribunale Costituzionale Federale” non ritenne la parteci-pazione tedesca incostituzionale, pur se la missione non era difensiva né tantomeno attuata all’interno del territorio della NATO. Vedi su questo argomento, Miskimmon, «Falling into Line? Kosovo and the Course of German Foreign Policy», apparso su International Affairs, Vol. 85, No 3, The War over Kosovo: Ten Years Later, Maggio 2009, pp. 561-573. (106) Sulla partecipazione della “Bundeswehr” alle missioni delle Nazioni unite vedi, UN peace missions and Germany’s engagement al sito www.auswaertiges-amt.de/en/aussenpolitik/internationale-organisationen/vereintenationen/germanys-engagement-un-peace-missions/229116. Sul numero degli effettivi impegnati in tutte le operazioni militari internazionali vedi, invece, Number of German soldiers participating in international operations, as of January 13, 2020, consultabile al sito www.statista.com/statistics/265883/number-of-sol-diers-of-the-bundeswehr-abroad. (107) Secondo alcuni costituzionalisti, le disposizioni dello “stato di difesa” non fissano chiaramente una distinzione tra il pericolo di un attacco imminente, un’invasione già in corso e il fatto che l’esistenza di una situazione di pericolo possa essere dichiarata da un’alleanza militare — ovvero la NATO — della quale la Germania è membro. Questo lascerebbe quindi ampio margine di discrezione al governo per invocare lo “stato di difesa”. Sulle misure di emergenza in Germania vedi, Schweitzer, «Emergency Powers in the Federal Republic of Germany», apparso in Western Political Quartertly, Vol. 22, No 1, marzo 1969, pp. 112-121.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

IL SISTEMA DI COMANDO

Capitolo V

IN RUSSIA

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Defilamento sulla Piazza Rossa di una colonna di carri armati russi T 90M. Nella pagina precedente: lo stemma del Comandante delle Forze armate russe.

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P aese dall’apparato di comando militare centralizzato, la Russia, dopo un periodo di profonda crisi politica ed economica seguita alla dissoluzione dell’Unione Sovie-

tica, sta ritornando ad assumere un ruolo importante sulla scena internazionale, sostenuta in questo anche da una linea diploma-tica più assertiva che in passato. E per comprendere il funzio-namento dell’attuale sistema di comando russo nei suoi diversi aspetti, è opportuno però osservare prima come era strutturato il sistema politico-istituzionale del regime sovietico.

L’assetto istituzionale e il sistema di comando nell’Unione Sovietica

(1917-1991)

Con il rovesciamento avvenuto nell’ottobre 1917 del “go-verno provvisorio”, che nel febbraio dello stesso anno si era sostituito al regime zarista crollato in seguito alle proteste po-polari sorte a causa della cattiva gestione della guerra da parte dell’esecutivo imperiale, le forze rivoluzionarie assunsero il potere nel territorio dell’ex Impero russo.

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Formata ufficialmente nel 1922, l’Unione Sovietica, nel corso della sua storia, è stata retta da tre testi costi-tuzionali approvati tra il 1924 e il 1977, rispettivamente la “Prima costituzione federale dell’Unione Sovietica” redatta il 31 gennaio 1924 nella quale ancora si evidenziavano le tendenze universalistiche della rivoluzione, cui seguirono la “Seconda costituzione dell’Unione Sovietica”, varata il 25 novembre 1936 da Stalin, in cui si sanciva la realizzazione degli obiettivi dello Stato socialista e poi la “Terza costituzione dell’Unione Sovietica”, approvata il 7 ottobre 1977 durante l’era Brezhnev, dove si dichiarava come il paese fosse arrivato a uno Stato di “socialismo avanzato” in attesa di giungere all’effettiva “società comunista”.

E quindi opportuno descrivere il funzionamento della struttura costituzionale e politica sovietica proprio per meglio comprendere il suo sistema di comando militare. La Costituzione sovietica del 1977 fissava alcuni principi guida dell’ordinamento dello Stato i quali erano espressi in diversi articoli del testo costituzionale. Tra questi, all’art. 2 si enunciava il “principio dell’unità del potere statale” in base al quale, a ogni livello, tutto il potere era conferito al “Soviet”, all’art. 3 invece, quello del “centralismo democratico”, per cui gli organi elettivi inferiori erano subordinati alle decisioni prese da quelli posti in posizione più elevata, e infine all’art. 6 dove si affermava il principio della preminente funzione direttiva attribuita al Partito Comunista (PCUS) il quale costituiva la forza incaricata di dirigere la società sovietica. Uno dei tratti salienti dell’assetto costituzionale dell’Unione Sovietica era proprio la “sovrapposizione” tra la struttura istituzionale dello Stato e quella del Partito Comunista che, pro-prio al suo ruolo politico egemone, veniva a controllare tutti gli organismi del sistema. Formalmente, al vertice della struttura vi era posto il “Soviet Supremo dell’Unione Sovietica” che rappresentava l’organo più importante ed era suddiviso in due camere, il “Soviet dell’Unione”, eletto ogni quattro anni a suffragio universale, e il “Soviet delle Nazionalità” che si componeva dei delegati designati da ognuna delle quindici “Repubbliche Socialiste So-vietiche (RSS) e dalle venti “Repubbliche Socialiste Sovietiche Autonome” (RSSA), nonché da quelli delle “Re-gioni Autonome” e dei “Circondari Nazionali”. Al “Soviet Supremo dell’Unione Sovietica” spettava il compito di approvare le leggi, designare il Consiglio dei ministri ed eleggere i giudici della Corte suprema (108), il Pro-curatore generale, unitamente ai componenti del “Praesidium del Soviet Supremo” il quale, pur essendo formal-mente responsabile davanti al “Soviet Supremo”, per le sue funzioni veniva a costituire l’organo più importante della struttura statale sovietica.

Difatti, dato che il “Soviet Supremo” era, di fatto, solo un organo chiamato a ratificare le decisioni prese dal PCUS e quindi non era convocato per lunghi periodi di tempo, quando questo non si trovava in sessione, le sue funzioni venivano esercitate proprio dal “Praesidium” il cui Presidente esercitava le funzioni di capo di Stato dell’Unione Sovietica disponendo anche di tutta una serie di prerogative formali. Riguardo al potere esecutivo, l’organo posto in posizione più elevata era il Consiglio dei ministri, il cui Presidente era indicato dal “Soviet Su-premo” e aveva l’incarico di designare i membri del governo i quali avrebbero poi ricevuto l’approvazione di quest’ultimo. L’Unione Sovietica era uno Stato di tipo federale suddiviso in quindici “Repubbliche Socialiste Sovietiche”, venti “Repubbliche Autonome” — sedici delle quali si trovavamo all’interno della RSFS (Repubblica Socialista Federativa Sovietica) russa, due nella Georgia e una rispettivamente nell’Azerbaigian e nell’Uzbekistan — sette “Province Autonome” e dieci “Circondari Nazionali”, quest’ultimi situati tutti all’interno della RSFS russa (109). Ognuna delle prime due entità statali disponeva di una propria Costituzione il cui testo doveva essere approvato dal governo nazionale con un’organizzazione che doveva riprendere i principi di quella degli organi statali centrali. Questa aveva al vertice un “Soviet Supremo” unicamerale eletto a suffragio universale ogni due anni e mezzo e che a sua volta designava i componenti del “Preaesidium” unitamente al Presidente del Consiglio dei ministri e agli altri ministri del governo. Ma la particolarità del sistema istituzionale sovietico stava appunto nella sovrapposizione esistente tra la struttura costituzionale statale e quella del Partito Comunista, il quale di-sponeva di un ruolo politico e sociale egemone, dato che, come fissato dall’art. 100 della Costituzione, il compito di presentare le candidature per i deputati spettava solo al PCUS, ai sindacati, all’organizzazione giovanile del

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partito (Komsomol) e a tutte le altre associazioni collegate. In questo modo gli elettori, al momento delle elezioni, si trovavano sulla scheda il nome di un solo candidato il quale, non essendo il voto né libero né segreto, veniva a ricevere un’approvazione unanime (110).

Inoltre, tutte le alte cariche dello Stato erano effettivamente proposte dal PCUS con nominativi tratti da elenchi redatti dallo stesso partito che li teneva continuamente aggiornati. In base allo statuto organizzativo del partito, questo era strutturato con un sistema piramidale, dove solo gli organismi al livello più basso, quali le “Sezioni” e le “Unità”, risultavano eletti dagli iscritti, mentre per quelli in posizione immediatamente superiore, a partire dalle “Conferenze di Distretto”, le regole prevedevano che questi provvedessero a designare i rappresentanti delle assemblee di importanza più elevata fino ad arrivare al “Congresso del PCUS” che ne costituiva la struttura di grado più alta.

Questo, a sua volta designava un “Comitato Centrale” il quale nominava sia l’“Ufficio politico” (Politburo) che il “Segretariato” al vertice del quale vi era il “Segretario generale” che, di conseguenza, costituiva la figura più importante dell’intera struttura politica sovietica (111). Difatti, tutte le decisioni riguardanti la politica e l’eco-nomia erano prese all’interno degli organi direttivi del PCUS e poi in seguito trasmesse per l’approvazione ai com-

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Sopra, e nell’immagine delle pagine successive: schieramenti di reparti dell’Esercito russo.

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petenti organi statali, mentre non di rado, quelle più im-portanti erano delineate in riunioni congiunte tra il “Co-mitato Centrale” del Partito Comunista, il Consiglio dei ministri e il “Praesidium del Soviet Supremo” (112).

L’assetto costituzionale sovietico, dopo l’arrivo di Michail Gorbačëv al vertice del PCUS, andava incontro nel 1989 a una ristrutturazione in base alla quale era istituito un “Congresso dei deputati del popolo del-l’Unione Sovietica” composto da 2.250 membri eletti direttamente dai cittadini che avrebbero poi designato i 542 deputati del “Soviet Supremo” cui sarebbe spettato il compito di eleggere il Presidente dell’Unione Sovie-tica (113). Secondo le intenzioni di Gorbačëv, raffor-zando il ruolo presidenziale questo sarebbe stato dotato di prerogative e poteri ben più ampi di quelli largamente cerimoniali attribuiti al Presidente del “Praesidium” che esercitava le funzioni di capo dello Stato, mentre con la riforma il “Soviet Supremo” si sarebbe trasformato in un’Assemblea legislativa permanente e il “Soviet delle Nazionalità” avrebbe così dato più spazio agli interessi delle varie componenti della Federazione in modo da ri-durne le spinte separatiste e indipendentiste (114). E il particolare assetto istituzionale sovietico, con la sua in-tersezione tra gli organismi statali e quelli del Partito Comunista, si rifletteva anche nella struttura di comando dell’apparato militare.

In base al dettato costituzionale, il controllo delle Forze armate era attribuito sia al Partito Comunista sia ai due organi dello Stato più importanti, il “Praesidium del Soviet Supremo” e il Consiglio dei ministri. Sul piano effettivo però era il PCUS a esercitare il controllo sull’apparato militare, dato che le più importanti deci-sioni riguardanti la difesa nazionale erano prese dal “Politburo”, mentre la posizione preminente del Partito Comunista veniva poi rafforzata dal ruolo del “Consiglio di difesa”, il quale era composto dai più alti esponenti politici, militari e del PCUS, e a cui spettava inoltre il com-pito di fissare le linee guida della difesa nazionale (115). E dato che il “Consiglio di difesa” era presieduto dal “Segretario generale” del PCUS, questo veniva quindi a ricoprire il ruolo di “Comandante in capo” delle Forze armate sovietiche.

Immediatamente posto sotto il “Consiglio di difesa” si situava poi il “Consiglio militare del ministero della Di-fesa” alla cui guida vi era il ministro della Difesa, e al quale prendevano parte anche il “capo dello Stato Maggiore” e il comandante delle Forze del “Patto di Varsavia”, che serviva come organo consultivo incaricato in tempo di pace di pianificare la strategia delle Forze armate (116). In caso di guerra, il “Consiglio di difesa” si sarebbe tra-sformato nell’“Alto comando supremo” (VGK), il quale sarebbe stato guidato dal “Segretario generale” del PCUS che avrebbe quindi assunto le funzioni di “Supremo Comandante in capo”. E in questa situazione lo stesso “Se-

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gretario generale” avrebbe diretto il “Comando centrale generale” (Stavka) dell’“Alto comando supremo” che avrebbe avuto il compito di dirigere e pianificare le operazioni militari.

Con ogni probabilità poi, nell’eventualità di un conflitto, i dirigenti sovietici avrebbero anche reinsediato il “Co-mitato per la difesa dello Stato”, un organismo già operativo nel Secondo conflitto mondiale, del quale avrebbero fatto parte i membri più importanti del “Politburo” e cui sarebbe spettato il compito di coordinare l’intera organiz-zazione bellica (117). Per mantenere il controllo sull’apparato militare, il Partito Comunista disponeva inoltre del “Direttorato politico per l’Esercito e la Marina sovietica” il quale era incaricato di assicurarsi che le Forze armate seguissero le direttive emanante dal PCUS nonché di dirigere l’attività degli “ufficiali politici” presenti nelle diverse unità cui spettava il compito di indottrinare e di controllare che il personale fosse politicamente allineato (118).

E sempre al PCUS competeva, poi, assegnare le risorse finanziarie per la difesa, proporre le designazioni per gli ufficiali e i vertici militari unitamente alla determinazione della dottrina che poi lo Stato Maggiore avrebbe

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avuto il compito di mettere in pratica. Sul piano amministrativo, la gestione dell’apparato militare spettava invece al ministero della Difesa, il quale era incaricato del reclutamento, dell’equipaggiamento dei reparti e dello svi-luppo delle strategie nonché di assicurare che le Forze armate fossero politicamente fedeli e allineate al PCUS.

Dal lato organizzativo, il ministro della Difesa era affiancato da tre primi vice Ministri e da undici vice Ministri, cinque dei quali erano rappresentati dai Comandanti dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica, delle Forze di difesa antiaerea e delle Forze missilistiche strategiche. All’interno del ministero della Difesa, l’organo più im-portante era costituito dallo “Stato Maggiore”, il quale in tempo di pace aveva la funzione di pianificare le strategie militari da sottoporre al “Consiglio di difesa” nonché di assicurare che le Forze armate fossero sempre al più alto grado di efficienza, mentre in tempo di guerra gli sarebbe spettato il compito di rendere operativi gli ordini e le direttive impartite dall’“Alto comando supremo” (119). Composto di alti ufficiali selezionati direttamente dal “Dipartimento degli organi amministrativi” del PCUS proprio per il prestigio e l’importanza del loro incarico, lo “Stato Maggiore” era diretto da una personalità dotata di prerogative maggiori rispetto a quelle attribuite al suo omologo statunitense, dato che il “capo di Stato Maggiore” sovietico occupava la seconda posizione più im-portante dietro al comandante delle Forze armate ed era autorizzato a impartire, in suo nome, gli ordini alle di-verse unità militari (120).

Tuttavia, nonostante l’importanza e la considerazione che i militari ricoprivano nell’apparato statale, si può co-munque affermare come in Unione Sovietica il controllo delle Forze armate sia stato sempre nelle mani delle au-torità civili, dato che i dirigenti del PCUS in più occasioni hanno provveduto a rimuovere alti ufficiali la cui condotta era ritenuta inaccettabile oppure perché considerati un potenziale rischio politico per il sistema (121). Più sfumata si presentava la questione in merito al potere decisionale sull’uso della forza nucleare sovietica. Anche se ufficial-mente nessuna indicazione in proposito era riportata nei documenti ufficiali o nella stessa Costituzione sovietica; era opinione degli analisti che quest’autorità spettasse al “Politburo” del PCUS. Ed essendo l’organo guidato dal “Segretario generale” del Partito Comunista, era quindi a quest’ultimo che era attribuito il potere decisionale di utilizzo (122). Il quadro divenne più complesso però quando, a metà degli anni Ottanta, durante l’era di Yuri An-dropov, il regime sovietico decise di dotare le personalità poste al vertice della struttura istituzionale e dell’apparato militare di una “valigetta” con cui decidere l’uso della forza nucleare. Creato nel timore che in caso di un attacco non vi fosse il tempo necessario per attuare una risposta, questo sistema prevedeva che la “Cheget” — come è de-nominata la “valigetta” nucleare —, fosse in possesso del “Segretario generale” del PCUS, del ministro della Difesa e del “capo di Stato Maggiore” e avesse un particolare sistema per procedere all’autorizzazione del lancio delle testate. In caso di attivazione, la procedura stabiliva che il “Segretario generale” e il ministro della Difesa inviassero i codici per mezzo di un apposito sistema di comunicazione che li avrebbe convalidati e poi trasmessi a un altro di-spositivo dove questi sarebbero stati integrati con quelli digitati dal “capo di Stato Maggiore” e successivamente indirizzati ai comandi delle Forze strategiche per procedere al lancio (123).

E in caso di emergenza, il governo sovietico, negli anni Ottanta, aveva anche programmato un dispositivo per consentire alla forza nucleare di attivarsi in maniera semi automatica. Nell’imminenza di un attacco nucleare, i vertici del regime si sarebbero trovati, infatti, davanti a tre opzioni quali, o lanciare un attacco preventivo contro gli Stati Uniti o rispondere nel momento in cui il lancio dei missili sarebbe stato confermato oppure decidere un contrattacco di rappresaglia dopo che le testate statunitense avrebbero raggiunto e colpito il territorio sovietico.

Ma nell’eventualità che la leadership del regime fosse stata eliminata da un “decapitation strike” con un lancio attuato da un sommergibile oppure che il segretario generale del PCUS, Konstantin Chernenko, fosse stato im-possibilitato a prendere una decisione date le sue cattive condizioni di salute, nessuno sarebbe stato in grado di impartire l’ordine di contrattaccare. E in questa eventualità il controllo sarebbe passato a un apparato semi au-tomatico che avrebbe assicurato la risposta. Denominato “Perimetr”, con questo sistema, nell’imminenza di una crisi, i dirigenti sovietici potevano trasmettere le funzioni a un gruppo di alti ufficiali installati all’interno di un

90Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

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bunker ultra protetto. Così, se i vertici del regime fossero stati impossibilitati a trasmettere e a ricevere ogni co-municazione, una volta che i sistemi d’avvistamento avessero confermato l’attacco, con un apposito ordine im-partito si sarebbero attivati dei missili dotati di radio sensori i quali avrebbero trasmesso degli appositi segnali agli ICBM rimasti in funzione per consentirne il lancio contro gli Stati Uniti (124). Un discorso a parte va fatto poi per l’apparato di sicurezza interna che ricopriva un ruolo primario nel sistema di governo sovietico. Con una lunga storia di polizie segrete che in Russia pre-datavano l’era sovietica e risalivano al regime zarista, il governo bolscevico, fin dall’inizio, avviò la costruzione di una forte struttura incaricata dell’ordine interno, la quale si di-mostrerà da subito assai più efficiente di quella attiva durante l’era imperiale.

91 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

LA CATENA DI COMANDO MILITARE IN URSS IN TEMPO DI PACE

LA CATENA DI COMANDO MILITARE IN URSS IN TEMPO DI GUERRA

Politburo del PCUS Segretario generale del PCUS

Consiglio di Difesa

Ministero degli Interni

Stato Maggiore

Forze missilistiche strategiche

Marina

Esercito

Aeronautica

Forze di Difesa antiaerea

Ministero della Difesa

Consiglio Militare

Commissione per la sicurezza

dello Stato (KGB)

Politburo del PCUS Segretario generale del PCUS

Commissione per la Difesa dello Stato

Comando Centrale Generale (Stavka) Alto Comando Supremo (VGK)

Forze del Ministero degli Interni

Stato Maggiore

Forze missilistiche strategiche

Marina

Esercito

Aeronautica

Forze di Difesa antiaerea

Forze della Commissione

per la sicurezza dello Stato

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Tralasciando una descrizione dettagliata delle diverse Forze di polizia presenti dal momento dell’instaurazione del regime sovietico alla sua dissoluzione, la formazione dell’apparato di ordine pubblico e di sicurezza interna nella struttura rimasta in funzione fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica si può far risalire all’era Kruscev, quando il nuovo “Segretario generale” del PCUS avviò un ampio programma di riforme per riorganizzare l’apparato formato durante l’era staliniana. Seguendo la relazione dell’allora ministro dell’Interno, Kruglov, in cui si affermava come la struttura del dicastero non fosse in grado di fornire un’adeguata attività di sicurezza, veniva quindi istituita una “Commissione per la sicurezza di Stato” — ovvero il “KGB” — all’interno del Consiglio dei ministri, la quale era organizzata in dieci direttorati e incaricata del controspionaggio, del controllo dei cittadini sovietici e della protezione dei quadri dirigenti dell’apparato statale e del PCUS, svolgendo quindi sia un’attività di polizia politica che d’intelligence. L’ampiezza dei poteri del KGB si è modificata nel corso degli anni, passando dal disporre di prerogative relativamente più circoscritte e con un’azione repressiva più moderata come avvenne durante l’era Kruscev, ad avere al contrario, un ruolo più ampio negli anni di Brezhnev, quando le sue funzioni investigative vennero ampliate fino a includere alcuni reati di natura economica e la sua azione contro la dissidenza interna sen-sibilmente rafforzata, tanto che anche sul piano istituzionale venne stabilito che il capo del KGB diventasse di diritto membro del Consiglio dei ministri. E questo ruolo preminente del KGB nella repressione interna fu ribadito, dopo la scomparsa di Brezhnev, sia dal suo successore Yuri Andropov, il quale si servì dei documenti dell’agenzia per eliminare gli elementi brezneviani all’interno del PCUS, che da Konstantin Chernenko, il quale ricoprì la carica di “Segretario generale” dal 1984 al 1985. Più complessi furono invece i rapporti durante l’era Gorbačëv, dato che prima questo si appoggiò al KGB per portare avanti la lotta alla corruzione, ma poi si trovò a fronteggiarne l’aperta ostilità quando decise di procedere nel programma di aperture e di democratizzazione del regime, dato che i vertici avevano apertamente espresso la loro opposizione alle riforme.

Guidato da una personalità formalmente nominata dal “Soviet Supremo” ma effettivamente scelta dal “Polit-buro”, il KGB istituzionalmente era posto sotto l’autorità del Consiglio dei ministri ma in realtà era controllato

92Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Il presidente russo Vladimir Putin con il ministro della Difesa Sergei Shoigu (in primo piano) e il capo di

Stato Maggiore delle Forze armate russe Valery Gerasimov, assistono alle esercitazioni militari di Vostok-2018

presso il campo di addestramento di Tsugol.

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dal PCUS, che lo considerava uno strumento di fondamentale importanza per garantire la sicurezza e il controllo del paese. Dal lato organizzativo, dopo l’istituzione del “Comitato per la sicurezza di Stato” deciso appunto nel 1954, l’apparato di sicurezza interna era stato diviso con, da una parte il KGB e dall’altra il ministero degli Interni (MVD), che era stato fondato nel 1917 come “Commissariato del popolo per gli affari interni” (NKVD) e che nel corso degli anni andrà incontro a numerose riorganizzazioni e ridenominazioni. Sul piano delle competenze il mi-nistero degli Interni, dal quale dipendevano le normali Forze di polizia, era incaricato del mantenimento dell’ordine pubblico, del rilascio dei passaporti interni, dell’investigazione sui crimini comuni e della gestione del sistema pe-nitenziario, mentre sul piano politico il controllo del PCUS sul dicastero era esercitato attraverso il “Dipartimento legale” del “Segretariato” che era preposto alla selezione e valutazione del personale (125).

L’assetto istituzionale e il sistema di comando nella Federazione Russa

L’8 dicembre 1991 i Presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina, riunitisi a Minsk, dichiaravano che l’Unione So-

vietica come «soggetto di diritto internazionale e realtà geopolitica» cessava di esistere, mentre il 21 dicembre, con la “Dichiarazione di Alma Ata” i leader delle altre Repubbliche, a eccezione di quelli di Estonia, Lettonia, Lituania e Georgia, affermavano che, con la contemporanea dissoluzione dell’Unione Sovietica, veniva istituita una “Comunità di Stati Indipendenti” (CSI). Questa struttura non aveva le caratteristiche di uno Stato né di un’istituzione sovrana-zionale, ma disponeva comunque di organi comuni per coordinare la cooperazione in campo politico ed economico.

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica erano dunque sorti quindici Stati indipendenti, il più importante dei quali, per storia, economia ed estensione territoriale, era costituito dalla Federazione Russa. Tuttavia, all’interno del sistema politico russo, i rapporti tra il presidente Boris Eltsin e il “Congresso” si dimostrarono fin dall’inizio segnati da tensioni che culminarono il 21 settembre 1993 con l’emanazione da parte dello stesso Eltsin, di un editto (Ukaz) che poneva termine alle funzioni del legislativo, fissava l’elezione di una nuova Assemblea e la predisposizione di un nuovo testo costituzionale. A questa decisione il “Congresso” rispose dichiarando decaduto il Presidente, mentre da parte sua Eltsin decise di ricorrere all’Esercito il quale prese possesso dell’Assemblea legislativa il 3 ottobre 1993. Due mesi più tardi, il 12 dicembre, in contemporanea con le elezioni della “Duma”, si teneva anche un referendum sulla nuova Costituzione, che vide la partecipazione del 54,8% degli elettori che approvarono il nuovo testo costitu-zionale con il 58,4% dei voti favorevoli. In merito alla sua struttura, questo pone al vertice il Presidente, che è eletto direttamente dai cittadini ogni quattro anni ed è rieleggibile solo per un secondo mandato e che dispone di un’ampia serie di prerogative. Riguardo al governo, questo si trova in posizione subordinata rispetto al capo dello Stato, in quanto spetta a quest’ultimo il potere di nominare il Primo ministro, mentre la “Duma” può non concedere la fiducia al Premier, anche se il Presidente dispone della prerogativa di dissolverla se per tre volte respinge il nome indicato dalla presidenza. Allo stesso modo, se la “Duma” sfiducia l’esecutivo e il voto negativo viene confermato una seconda volta dopo tre mesi, spetta al Presidente decidere se dimettere il governo o procedere a elezioni anticipate. Riguardo al legislativo, questo è di tipo bicamerale, con una “Duma” composta da 450 membri eletti ogni quattro anni, per metà con un sistema proporzionale e per l’altra attraverso dei collegi uninominali (126) con il maggioritario a turno unico e da un “Consiglio della Federazione” formata dai rappresentanti delle diverse entità della Federazione.

L’assetto federale dello Stato è rimasto, con una struttura composta da ventuno Repubbliche, sei Territori, quaran-tanove Regioni, dieci Circondari autonomi, due città di importanza federale — Mosca e San Pietroburgo — e la “Regione autonoma degli Ebrei”, l’entità istituita nel 1928 per consentire ai lavoratori ebrei di stabilirvisi, ma che nel corso degli anni ha visto il loro numero ridursi ad appena il migliaio di oggi (127). In merito alla struttura istituzionale, va ricordato

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

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che, con la riforma costituzionale approvata nel 2008, la durata del mandato presidenziale, dalle elezioni del 2012, è stata estesa da quattro a sei anni, mentre quella della “Duma” è stata portata da quattro a cinque anni.

Quest’anno poi, è stata avanzata una nuova proposta di modifica che consentirebbe a Putin di poter essere rieletto per ulteriori due mandati restando così in carica come Presidente fino al 2036. Riguardo al sistema di comando delle Forze armate, in Russia è altamente centralizzato con il Presidente che dispone di un ruolo predominante su tutte le questioni riguardanti la difesa e la sicurezza nazionale. Al capo dello Stato spetta anche il compito di indicare le linee guida per la politica interna ed estera del paese, presiedere il “Consiglio di sicurezza” e definire la dottrina militare nazionale. In base al dettato costituzionale, il Presidente costituisce quindi il “Supremo Comandante in capo delle Forze armate” disponendo, in caso di emergenza, del potere di proclamare la legge marziale. In posizione immedia-tamente subordinata nella catena di comando è posto il ministro della Difesa, il quale è incaricato di porre in atto le direttive presidenziali e di supervisionare la preparazione delle Forze armate, disponendo inoltre dell’autorità di di-rigere le operazioni dello “Stato Maggiore”. La funzione di quest’ultimo è di garantire la sicurezza militare del paese e di proteggere gli interessi vitali dello Stato, mentre compete sempre allo “Stato Maggiore” il compito di valutare gli eventuali pericoli esterni e interni unitamente a quello di sviluppare i piani e le strategie e le modalità d’impiego delle Forze armate. Diretta da un “capo di Stato Maggiore” designato dal Presidente, l’organo è strutturato in diverse sezioni delle quali la più importante è il “Direttorato principale delle operazioni”, che ha il controllo operativo delle Forze armate, provvede all’organizzazione strategica, alla pianificazione e allo svolgimento delle esercitazioni ed è inoltre incaricato di mantenere i contatti con le organizzazioni internazionali militari di cui la Russia fa parte, nonché di operare in stretta collaborazione con il “Comitato militare-scientifico dello Stato Maggiore” nel definire il pro-gramma di armamenti da stanziare per le Forze armate. Degli uffici che compongono lo “Stato Maggiore”, un’im-portanza di primo piano è rivestita poi dal “Direttorato per l’intelligence” (GRU), il quale è incaricato dell’intelligence militare e cibernetica nonché di proteggere la struttura tecnologica e industriale del paese.

94Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

IL SISTEMA DI COMANDO MILITARE NELLA FEDERAZIONE RUSSA

Presidente

Ministro della Difesa

Stato Maggiore delle Forze armate Capo dello Stato maggiore

Comando Forze terrestri

Comando Forze navali

Direttorato Operazioni principali

Commissione Militare-

scientifica

Direttorato Intelligence

militare

Comando Forze aeree

Comando Forze Difesa antiaerea

Comando Missili Forze strategiche

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Le caratteristiche della struttura delle Forze armate russe sembrano quindi essere per prima cosa la stretta centra-lizzazione per cui il Presidente, come “Comandante in capo”, può assumere direttamente le funzioni di comando e controllo in momenti di crisi o qualora venisse dichiarata la legge marziale impartendo le direttive attraverso il ministro della Difesa e il “capo dello Stato Maggiore”.

In secondo luogo, un altro tratto dell’apparato militare russo è la dispersione geografica delle strutture di co-mando e controllo, un aspetto questo estremamente importante in quanto, in questo modo, il sistema potrebbe resistere impedendone così il completo collasso. Il terzo, e probabilmente più importante aspetto della struttura delle Forze armate della Federazione Russa, è che questo è costruito per resistere anche nel caso si verificasse lo scenario più catastrofico. Difatti, in caso di attacco nucleare, il contrattacco potrebbe essere ordinato per mezzo dei molteplici centri di comando e controllo dislocati nel paese. E allo scopo di rendere più efficiente l’apparato militare della federazione, il governo di Mosca ha provveduto a riorganizzare la stessa struttura difensiva presente sul territorio, istituendo un “Comando strategico congiunto” (OSK), da cui dipendono cinque distretti che, in tempo di pace e guerra, hanno il controllo di tutte le Forze militari dislocate nella loro area; una riforma che ha semplificato la catena di comando così da renderla anche più agile (128).

Oltre che l’apparato militare, negli ultimi anni Putin ha provveduto a rafforzare anche le forze di sicurezza in-terna, come dimostra la formazione della “Guardia nazionale della Federazione Russa” avvenuta quattro anni fa. Istituita con un decreto presidenziale emanato il 6 aprile 2016 e da una legge approvata dal Parlamento il 22 giugno dello stesso anno, la “Guardia nazionale della Federazione Russa” è una forza paramilitare che riunisce diversi reparti di sicurezza interna che possono essere impiegati in molteplici compiti, tra i quali i più importanti sono, il contrasto al terrorismo e la sicurezza del Presidente. Inoltre, secondo gli analisti, è autorizzata a operare sia all’interno del territorio russo che al di fuori dei suoi confini conducendo operazioni separate dalle altre Forze militari e di sicurezza, è equipaggiata con armi pesanti di tipo militare e risponde direttamente al Cremlino senza riferire agli altri ministri del governo (129).

E nel programma di riorganizzazione dell’apparato di sicurezza interna, va ricordato come nel 2011, l’allora presidente Dmitry Medvedev, ha varato una riforma in base alla quale le forze incaricate dell’ordine pubblico non portano più il vecchio nome di “Milizia” risalente all’era sovietica, ma quello di “Polizia”, mentre il sistema è stato centralizzato e posto interamente sotto il controllo del ministero degli Interni federale. Dopo la dissoluzione del-l’Unione Sovietica, un’analoga ristrutturazione ha interessato anche i servizi d’intelligence e di sicurezza. Se in precedenza si è detto della funzione svolta in ambito militare dal GRU che operava anche durante l’era sovietica, in merito al KGB invece, questo è stato ufficialmente dissolto dopo il 1991 e i suoi compiti trasferiti, per quel che riguarda l’attività di controspionaggio interno, al “Servizio di Sicurezza federale” (FSB), mentre per quello esterno al “Foreign Intelligence Service” (SVR). Le funzioni del FSB includono però anche il controllo delle frontiere na-zionali e delle acque territoriali e interne del paese nonché le attività anti terrorismo e di raccolta di informazioni concernenti la sicurezza nazionale, tanto che, per alcuni analisti, i suoi compiti sarebbero oggi molto simili a quelli del dissolto KGB (130).

Il potere di decidere l’uso della forza nucleare

In base a quanto stabilito dall’art. 87.1 della Costituzione russa, il Presidente è il capo delle Forze Armate e se-condo la dottrina militare corrente è sempre a questo che spetta il potere di decidere l’uso della forza nucleare na-zionale. Riguardo alla procedura per l’attivazione, questa riprende quanto esistente in Unione Sovietica, dove nel 1985 fu messo in funzione il sistema per regolare gli eventuali ordini di lancio delle testate nucleari.

Anche se il funzionamento e la procedura rimangono in gran parte tuttora sconosciuti, il sistema prevede che

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

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la “valigetta” — la “Cheget” come viene indicata — sia in possesso del Presidente, del ministro della Difesa e del “capo di Stato Maggiore” e che, in caso di allarme per l’individuazione di un attacco, questo sia trasmesso, per mezzo di un apposito terminale denominato “Krokus”, alle più alte cariche dello Stato. Successiva-mente, gli ordini verrebbero impartiti per mezzo di un sistema di controllo — in-dicato con il nome di “Kazbek” — attraverso una particolare rete di comunicazioni chiamata “Kavkaz”, che costituisce un network di trasmissioni via cavo, radio e satellite in grado di resistere anche in caso di attacco in situazioni critiche e che consente alle personalità incaricate di decidere l’eventuale uso del dispositivo nu-cleare di restare in contatto pure se queste non fossero riunite tutte nello stesso luogo (131). Riguardo alla procedura per l’attivazione della forza nucleare, va chiarito come in Russia la “Cheget” non consente di impartire direttamente l’or-dine di lancio delle testate. Questa difatti stabilisce che il Presidente e il ministro della Difesa trasmettano l’ordine, ma che poi sia il “capo di Stato Maggiore” a impartire i codici e il conseguente ordine di lancio per mezzo di un sistema di comunicazione diverso per le forze missilistiche e per quelle navali e aeree. Di conseguenza, in Russia l’attivazione della forza nucleare non può avvenire senza il consenso dei vertici militari, avendo l’ordine del Presidente solo la funzione di autorizzare il lancio, il quale è effettivamente attuato, però, solo dopo che il “capo dello Stato Maggiore” ha inserito i codici in suo possesso (132). E come sottolineano, quindi, alcuni analisti, in questa procedura il ruolo della autorità civili, quale è appunto il Presidente, viene ad as-sumere una posizione non determinante, cosa che renderebbe il sistema di controllo inadeguato e lontano dagli standard dei paesi democratici.

Ma, vi è anche chi ritiene come la partecipazione del “capo di Stato Maggiore” e del ministro della Difesa alla procedura di attivazione impedirebbe che un Presidente possa decidere autonomamente, oppure con un atto

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La cerimonia del passaggio della valigetta nucleare denominata “Cheget” a Vladimir Putin nel 2012 (Fonte: en.wikipedia.org).

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

sconsiderato, di ordinare il lancio delle testate, anche se, va detto, altri sostengono come questa procedura non sia però in grado di prevenire che una tale azione possa essere attuata invece dai vertici militari (133). Si deve poi ricordare come in Russia sia ancora attivo il sistema di emergenza “Perimetr”, un apparato semi automatico istituito durante l’era sovietica e attivabile in caso un attacco nucleare rendesse impossibili le comunicazioni tra le autorità civili e militari. E non sono mancate poi anche situazioni in cui il sistema di comando abbia rischiato di entrare in crisi. La più importante di queste avvenne nell’agosto 1991 quando, in occasione del tentativo di colpo di Stato operato da un gruppo di alti esponenti del regime sovietico, al segretario generale del PCUS, Mi-khail Gorbačëv, fu sottratta la sua “valigetta” quando si trovava nella sua residenza in Crimea, mentre il ministro della Difesa, Dmitry Yazov, coinvolto nell’azione per il rovesciamento dello stesso Gorbačëv, nella confusione di quei momenti perse la sua “Cheget”.

Vladimir Putin stringe la mano al ministro della Difesa, Sergei Shoigu durante un incontro ufficiale a Sochi (2014).

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Tuttavia, il controllo delle forze nucleari rimase comunque nelle mani dello “Stato Maggiore” che ne assicurò quindi la normalità. Un altro incidente, dovuto però questa volta al malfunzionamento dei sistemi di rilevamento, si verificò il 25 gennaio 1995, quando un vettore scientifico lanciato dalle coste della Norvegia venne scambiato dai radar russi per un missile nucleare di un sommergibile statunitense, cosa che provocò l’attivazione della “va-ligetta” in mano all’allora presidente Boris Eltsin. L’allarme rientrò dopo pochi minuti, ma dimostrò quanto si fosse deteriorato l’apparato di controllo di Mosca dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e come questo non fosse in grado di distinguere tra un missile civile e uno militare (134).

Nel caso il Presidente fosse impossibilitato a svolgere le sue funzioni, in base a quanto previsto dall’art. 92.3 della Costituzione, queste sarebbero trasmesse al Primo ministro che agirebbe come capo dello Stato ad interim, cosa che implicitamente comporta anche la prerogativa di decidere l’uso della forza nucleare. Va tuttavia sottolineato però come il Premier, pur costituendo la personalità incaricata di assumere le funzioni presidenziali, non dispone della “valigetta” nucleare; un particolare questo che ha suscitato diversi dubbi su come è definito l’ordine successorio in Russia. E proprio per meglio definire la questione, tra il 2002 e il 2003 la “Duma” aveva provato a presentare un di-segno di legge che stabilisse un elenco delle personalità preposte ad assumere l’incarico presidenziale unitamente alle funzioni di “Comandante supremo”, ma il progetto però non si è concretizzato.

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Missile balistico intercontinentale SS-27 equipaggiato con testate multiple termonucleari.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

(108) Formalmente, tutte le corti erano indipendenti dal governo e subordinate solo a quelle di livello più alto. In realtà il loro ruolo era estre-mamente limitato, tanto che la stessa Corte suprema non disponeva della prerogativa di dichiarare incostituzionale una legge approvata. (109) Unione Sovietica, Calendario Atlante De Agostini, 1988. (110) Per una visione sintetica dell’assetto istituzionale sovietico vedi Government Structure of USSR, Central Intelligence Agency (CIA), 3 dicembre 1953 (declassificato). (111) Formalmente l’“Ufficio politico” del PCUS costituiva l’organo più importante in quanto gli spettava il compito di gestire la politica estera e interna del paese, mentre al “Segretariato” competeva quello di gestire tutta la struttura organizzativa del partito. (112) Sulla struttura costituzionale sovietica e l’apparato organizzativo del PCUS vedi, Biscaretti di Ruffia, op. cit., pp. 378-451. (113) Stando alla riforma, il Presidente avrebbe avuto la prerogativa di designare il Primo ministro, il Procuratore generale e il Presidente della Corte suprema nonchè di negoziare e firmare i trattati internazionali e di presiedere il “Consiglio di Difesa”. Vedi su questo argomento, Gorbachev’s Reform of the State Institution: Toward a Parliamentary System? A Research Paper, Central Intelligence Agency (CIA), Direc-torate of Intelligence, marzo 1989 (declassificato). (114) Tra il 1989 e il 1990 vennero introdotte tre ulteriori riforme: la prima, varata nel dicembre 1989, intendeva consentire un più ampio numero di candidature indipendenti abolendo nello stesso tempo la quota di un terzo riservata alle “organizzazioni sociali”, mentre la se-conda, approvata nel 1990, intendeva introdurre una sorta di “voto di fiducia” da parte del “Soviet Supremo” verso il Governo, superando così la vecchia concezione sovietica per cui il potere esecutivo si trovava in posizione preminente rispetto al legislativo. La terza infine, votata nel dicembre 1990, collocava il Presidente al vertice del potere esecutivo con un governo a lui sottoposto ma che doveva appunto ri-cevere la fiducia del “Soviet Supremo”. (115) Un analogo discorso va fatto anche riguardo al potere di dichiarare la guerra. Formalmente, questo spettava al “Praesidium” del “Soviet Supremo”, ma in realtà era prerogativa del “Politburo”, il quale aveva anche il potere di decidere l’invio di Forze militari per azioni all’estero, come fu in occasione dell’intervento attuato in Cecoslovacchia nel 1968. (116) Vedi sulla struttura del ministero della Difesa sovietico, Key Personnel and Organizations of the Soviet Military High Command, A Rand Note Prepared for U.S. Air Force, RAND Corporation, Santa Monica, aprile 1987. (117) Sull’organizzazione e la struttura delle Forze armate sovietiche vedi, Soviet Military Power, Central Intelligence Agency (CIA), IVth Edition, aprile 1985 (declassificato). (118) I primi “commissari sovietici” nelle unità militari vennero istituiti nel novembre 1917 per il “mantenimento dell’ordine rivoluzionario” al fronte e rimuovere gli ufficiali “reazionari” fino a quel momento rimasti in servizio. Con lo scoppio della guerra civile, il governo decise di nominare dei “commissari militari” all’interno dell’“Armata Rossa” allo scopo di rafforzare l’autorità del regime tra i reparti militari, tanto che nelle unità nessun ordine poteva essere eseguito se non era controfirmato da loro. Il loro compito era essenzialmente quello di servire gli interessi del partito e di indottrinare i reparti. In seguito, se prima era stato stabilito che gli ufficiali di carriera avevano l’autorità su tutte le questioni che non fossero di carattere politico, dopo il 1935, in conseguenza delle “purghe” staliniane, il ruolo degli “ufficiali politici” fu nuovamente equiparato a quello dei comandanti militari per venire poi ulteriormente rafforzato durante i regimi di Kruscev e Brezhnev. Va ricordato inoltre come gli “ufficiali politici”, pur vestendo la stessa uniforme, non seguivano la carriera di quelli militari, essendo formati in apposite scuole ed essendo nominati dal ministero della Difesa e dal PCUS che controllavano la loro selezione. Sulla funzione degli “ufficiali politici” vedi Brzezinski, «Party Controls in the Soviet Army», apparso su The Journal of Politics, Vol. 14, No 4, novembre 1952, pp. 565-591. In proposito, vedi anche l’analisi di K. J. Goff, The Political Officer (Zampolit) in the Soviet Army, consultabile al sito www.mvep.org/zampolit.htm. (119) Sul sistema di comando delle Forze armate sovietiche e il ruolo del PCUS nella struttura militare vedi, USSR Handbook, Central Intelli-gence Agency (CIA), marzo 1972 (declassificato). (120) Sulla struttura dello Stato Maggiore nell’Unione Sovietica vedi, The Soviet General Staff: A Command Structure for Military Planning and Operations, A Research Paper, Central Intelligence Agency (CIA), Directorate of Intelligence, marzo 1982 (declassificato). (121) Vedi in proposito, E.L. Warner III, Defense Policy of the Soviet Union, A Rand Note for U.S. Air Force, RAND Corporation, Santa Monica, agosto 1989. (122) Authority to Order the Use of Nuclear Weapons (United States, United Kingdom, France, Soviet Union, People’s Republic of China), Pre-pared for Subcommittee on International Security and Scientific Affairs of the Committee on International Affairs, 94th Congress, 1st Session, Library of Congress, Washington D.C., 1o dicembre 1975, pp. 72-74. (123) Vedi in proposito, The Soviet Nuclear Weapon Legacy, Research Paper No 10, Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), Stoccolma 1995, pp. 29-30.

NOTE AL CAPITOLO V

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RODOLFO BASTIANELLI

(124) I dirigenti sovietici avevano anche ipotizzato di passare a un sistema completamente automatizzato — indicato con il nome di “Dead Hand” dagli osservatori — attraverso il quale un computer avrebbe ordinato il lancio delle testate inviando alle unità dei codici precedentemente inseriti dal “capo di Stato Maggiore”. Questo sistema non venne, però, mai realizzato. Vedi in proposito su quest’argomento, Mcdonnell, «The dead hand: Reagan, Gorbachev and the untold story of the Cold War arms race (Book Review)», pubblicato su Cold War History, Vol. 12, No

2, Anno 2012, pp. 373-374. (125) Sulla struttura e l’organizzazione dell’apparato di sicurezza interna sovietico vedi, Soviet Union. A Country Study, Chapter 19: Internal Security, U.S. Department of Army, Federal Research Division, Library of Congress, Washington D.C., maggio 1989, pp. 753-795. (126) Con la riforma introdotta nel 2005 si è stabilito che tutti i membri della “Duma” vengano eletti attraverso il sistema proporzionale con uno sbarramento del 7%. (127) Sulla struttura costituzionale della Federazione russa vedi, Biscaretti di Ruffia (a cura di), Costituzioni straniere contemporanee. Le Co-stituzioni di sette Stati di recente ristrutturazione, Giuffré, Milano 1996, pp. 205-253. (128) Sulla struttura di comando delle Forze armate russe vedi, Russia Military Power. Building a Military to Support Great Power Aspirations, Defense Intelligence Agency (DIA), Washington D.C., luglio 2017, pp. 23-28. (129) Sul ruolo e l’organizzazione della “Guardia nazionale della Federazione Russa” vedi, The Russian National Guard. An Asset for Putin at Home and Abroad, American Security Project (ASP), Washington D.C., dicembre 2017. (130) Sui servizi d’intelligence e di sicurezza russi vedi, Smith, Russian Intelligence Services and Special Forces, Briefing Paper No CBP 8430, House of Commons Library, Londra, 30 ottobre 2018. (131) È presumibile infatti che l’ordine possa essere trasmesso dal Presidente anche se si trovasse a bordo del Tupolev-214 appositamente modificato e operativo dal 2008. (132) Sul sistema di controllo delle forze nucleari russe e il funzionamento delle procedura di lancio vedi, Born/Gill/Hänggi (a cura di), Go-verning the Bomb. Civilian Control and Democratic Accountability of Nuclear Weapons, Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), Stoccolma 2010, pp. 51-76. (133) Sull’organizzazione del sistema di controllo della forza nucleare in Russia vedi, V.E Yarynich, C3: Nuclear Command, Control and Coo-peration, Center for Defense Information (CDI), Washington D.C., maggio 2003, pp. 150-151. (134) Vedi su questo episodio, Russia Strategic Control and Command, Federation of American Scientists, al sito https://fas.org/nuke/guide/russia/c3i/.

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101 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

IL SISTEMA DI COMANDO

Capitolo VI

IN CINA

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Navi da guerra della Marina dell’Esercito popolare di liberazione cinese (PLAN - People’s Liberation Army Navy) durante un’esercitazione al largo di Quingdao, nella provincia di Shandong (Cina orientale). Nella pagina precedente: lo stemma della Polizia armata del popolo cinese.

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I l sistema di comando militare in Cina riflette il particolare assetto costituzionale del paese dove la struttura statale si sovrappone a quella del Partito Comunista Cinese (PCC) tanto che, sotto molteplici aspetti, viene ad assomigliare a quella a suo tempo esistente in Unione Sovietica. Difatti, la Cina costituisce oggi

il solo paese del gruppo dei “G-20” in cui il Partito Comunista conserva ancora il monopolio sullo Stato e la società, anche se diversi analisti ritengono, tuttavia, come il ruolo del partito nel sistema cinese sia assai meno monolitico di quello che sembra. Per comprendere meglio come siano organizzate le Forze armate della Re-pubblica Popolare Cinese, è quindi opportuno soffermarsi prima sulla struttura istituzionale del paese, per ve-dere come questa si rifletta appunto sul sistema militare e come questo si sia trasformato negli ultimi anni.

La struttura istituzionale e la forma di governo esistente in Cina

In base alla Costituzione approvata nel 1982, l’organo più importante è rappresentato dall’“Assemblea na-

zionale del popolo”, il quale costituisce la legislatura unicamerale del paese e a cui formalmente spetta il compito di designare e porre in stato d’accusa i membri di più alto grado dell’apparato statale e giudiziario, approvare i provvedimenti legislativi e i piani economici unitamente al potere di ratificare e abrogare i trattati internazio-nali. Composto di circa tremila membri, l’“Assemblea nazionale del popolo” è eletta per cinque anni ma non ha il compito di approvare le leggi di spesa, avendo solo la funzione di votare il bilancio statale proposto dal ministro delle Finanze. In realtà, come accadeva in Unione Sovietica con il “Soviet Supremo”, quest’organo è semplicemente chiamato a ratificare quanto deciso dai vertici del Partito Comunista (PCC) al quale spetta inoltre anche il diritto di nominare tra il 20 e il 50% dei componenti l’“Assemblea nazionale del popolo”, men-tre alle Forze armate (PLA, People’s Liberation Army) e ai rappresentanti delle assemblee legislative provinciali compete di designare i membri appartenenti alle loro circoscrizioni elettorali.

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104Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Di fatto, oltre l’85% dei componenti dell’“Assemblea nazionale del popolo” detiene, quindi, degli incarichi all’in-terno del PCC e, dato che questa generalmente si riunisce per non più di dieci giorni all’anno, a rafforzare il ruolo del Partito Comunista nel legislativo contribuisce anche la disposizione che attribuisce a un membro dell’“Ufficio politico” (Politburo) del partito stesso il compito di presiedere la “Commissione permanente” (Praesidium) della stessa assemblea legislativa che si compone di 161 membri (135). Lo stesso sistema elettorale è del tutto particolare, in quanto i com-ponenti dell’“Assemblea nazionale del popolo” vengono designati dalle “Assemblee provinciali del popolo” i cui mem-bri sono eletti a loro volta a quelle legislative di grado inferiore (136). Di conseguenza, solo le assemblee al livello più basso risultano essere direttamente elette in votazioni nelle quali, però, non vi è campagna elettorale, dato che, se pure in questi ultimi anni degli esponenti indipendenti dal PCC si sono presentati nelle consultazioni cittadine e municipali, la loro candidatura è stata tuttavia ostacolata e repressa dalle autorità. In posizione immediatamente subordinata al po-tere legislativo, è posto l’apparato statale. Nei primi anni della Repubblica Popolare Cinese, il PCC e gli organi dello Stato erano considerati come una forza unica sotto la leadership del Partito Comunista, ma dai tardi anni Settanta que-st’ultimo ha iniziato ad avviare un processo di separazione tra le istituzioni e l’apparato dei partiti.

STRUTTURA ISTITUZIONALE CINESE COME EFFETTIVAMENTE IMPLEMENTATA CON IL RUOLO DEL PCC IN POSIZIONE DOMINANTE

Partito comunista (PCC)

Presidente Vice presidente

Commissione militare centrale dello Stato

Commissione militare

centrale del Partito comunista

Consiglio di Stato

Assemblea nazionale del popolo

Ufficio del Procuratore

generale

Corte suprema

STRUTTURA ISTITUZIONALE CINESE COME FORMALMENTE DEFINITA DALLA COSTITUZIONE

Assemblea nazionale del popolo

Presidente Vice presidente

Consiglio di Stato

Commissione militare centrale

Ufficio del Procuratore

generale

Corte suprema

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105 Ottobre 2020

Al vertice della struttura statale si trova il Presidente della Repubblica, i cui com-piti però sono essenzialmente di ordine cerimoniale e protocollare, essendo i po-teri effettivi attribuiti al “Segretario generale” del Partito Comunista, il quale viene eletto dall’“Assemblea nazionale del popolo” dopo che la sua candidatura è stata proposta dal PCC. Se i massimi esponenti politici cinesi dal 1993 hanno quindi ricoperto quest’ufficio, che nella struttura istituzionale cinese non dispone di effettive prerogative, è soltanto perché nella veste di capo dello Stato hanno po-tuto incontrare i loro omologhi internazionali, in quanto negli altri paesi non esiste una figura le cui fun-zioni sono paragonabili per importanza a quella del “Segre-tario generale” del PCC. Dal lato formale, la posizione più importante dell’apparato di governo statale spetta però al “Consiglio di Stato”, le cui funzioni sono paragonabili a quelle del “Consiglio dei ministri” degli altri paesi, organo che è guidato da un Premier designato dal Presidente della Repubblica, il quale è allo stesso tempo membro della “Commissione permanente dell’ufficio po-litico” del PCC. Tutti i titolari dei dicasteri riferiscono al Pre-mier e al “Consiglio di Stato”, anche se i Ministri della Pubblica sicurezza, della Difesa nazionale, della Cultura e della Sicurezza di Stato riportano direttamente al Partito Comunista che supervisiona la loro attività. Al livello infe-riore del “Consiglio di Stato” sono poste quattro sezioni, tra le quali le più importanti sono: l’“Ufficio per gli affari legislativi del Consiglio di Stato”, incaricato di redigere i disegni di legge e definire l’agenda dei lavori dell’esecutivo e il “Consiglio di Stato per gli Affari di Hong Kong e Macao” al quale spetta il compito di fornire alle personalità politiche le informazioni riguardanti le due ex colonie ritornate sotto sovranità cinese tra il 1997 e il 1999. Come accennato prima, il centro effettivo del potere politico del sistema è costituito dal Partito Comunista Cinese, un’isti-tuzione forte di oltre ottantadue milioni di iscritti — pari quindi al 6% della popolazione del paese — e alla quale ogni anno diversi milioni di persone al di sopra dei 18 anni d’età presentano domanda d’iscrizione, anche se appena il 15% di queste viene accettato. Alla base della struttura del PCC è posto il “Congresso nazionale”, un organo formato da duemila delegati a cui spetta il compito di tracciare il programma del partito per i cinque anni in cui questo rimane in carica nonché di eleggere i membri del “Comitato centrale” che a loro volta designano i componenti dell’“Ufficio politico” e della “Commissione permanente dell’ufficio politico”.

Riguardo all’“Ufficio politico”, quest’organo, pur essendo ai vertici della struttura del PCC, non è tuttavia im-pegnato nella gestione dell’attività del partito, in quanto le sue dimensioni — l’ufficio si compone di venticinque membri — e la diversa provenienza geografica dei membri rendono poco pratica la sua convocazione. Al vertice della struttura del Partito Comunista vengono a trovarsi quindi la “Commissione permanente dell’ufficio politico”, della quale fanno parte sette membri, tutti con incarichi di primo piano negli organi istituzionali statali, mentre alla guida del PCC è posto il “Segretario generale” che, di conseguenza, è la personalità politica più influente del paese. Una posizione importante all’interno del partito è ricoperta poi dai dirigenti provinciali, sei dei quali sono membri dell’“Ufficio politico”, mentre la struttura dei diversi governi locali riprende, a livello di organizzazione istituzionale e di partito, quella esistente a livello nazionale (137). Un peso fondamentale nella struttura politica del paese è poi esercitato dall’apparato burocratico del PCC che, al pari di quanto avveniva in Unione Sovietica, dispone di un ruolo fondamentale nella selezione della classe dirigente cinese. Tra questi uffici, vanno ricordati, per la loro importanza, il “Dipartimento per l’organizzazione” responsabile della formazione dei quadri, della loro progressione nella car-

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Lo stemma dell’Esercito popolare

di liberazione (nome ufficiale

delle Forze armate della Repubblica popolare cinese.

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riera nonché nell’assegnazione degli incarichi nelle imprese statali e nelle università, il “Dipartimento per la pro-paganda”, incaricato di diffondere i messaggi del PCC agli organi d’informazione e comunicazione nonché sulla radio, televisione e cinema e, infine, la “Commissione centrale per la legge e la politica” alla quale spetta la funzione di assicurare il controllo del Partito Comunista Cinese sull’apparato giudiziario e le forze di sicurezza interna.

Oltre al Partito Comunista e al “Consiglio di Stato”, l’altro dei tre pilastri su cui si basa l’assetto politico cinese è costituito dall’“Armata Popolare di Liberazione” (PLA) che conta oltre due milioni di effettivi e risponde alla “Com-missione militare centrale” (CMC) — la cui importante funzione verrà trattata più avanti — del PCC e del “Consiglio di Stato” che hanno la medesima composizione. Si è molto discusso di quanto sia significativo oggi il peso delle Forze armate nel sistema cinese, dato che negli ultimi anni il Partito Comunista ha cercato di limitarne il ruolo trasformando la PLA in una forza professionale-militare svincolata dal sistema politico. E a conferma di questo, si riporta come al-

l’interno della “Commissione permanente” del PCC non vi siano più dei membri delle Forze armate dal 1997 e che i militari costi-tuiscono appena il 2% dei componenti del “Comitato centrale”, anche se comunque non si può negare come alti ufficiali della PLA si siano recentemente distinti per le loro posizioni intransigenti in politica estera, la maggior parte dei quali si è for-mata nell’“Accademia di scienze militari” (AMS) o nella “National Defense Univer-sity” che prepara e forma i vertici della Forze armate cinesi (138). Tuttavia, a detta di molti analisti, nonostante il processo di professionalizzazione avviato, il ruolo della

PLA appare comunque ancora strettamente connesso con quello del Partito Comunista. E in proposito, va ricordato come nel 2004 l’allora segretario generale del PCC, Hu Jintao, in merito alla funzione delle Forze armate affermò come la PLA all’interno del paese avesse il compito di assicurare il ruolo egemone del PCC, mentre all’estero questo doveva promuovere e difendere gli interessi cinesi sul piano politico e militare. Sul piano interno quindi, il peso delle Forze armate e dell’apparato militare continua a rimanere intrecciato a quello politico, mentre a rafforzare l’importanza delle Forze armate all’interno della Cina contribuiscono altri due fattori, quali l’azione svolta dai militari nei programmi di sviluppo sociale e nei compiti di protezione civile.

I reparti stanziati nelle province meno sviluppate provvedono infatti a mettere in pratica i programmi di assistenza e sviluppo dei governi locali provvedendo inoltre con il necessario supporto logistico a distribuire i prodotti alimentari, mentre in quelle più remote, l’ufficio politico della PLA è coinvolto nei piani di fornitura dell’energia elettrica e di ri-parazione della rete stradale. Va tuttavia sottolineato come la partecipazione della PLA in attività economiche e com-merciali dalla fine del regime di Mao Tse-tung si sia sensibilmente ridotta, anche se oggi alcune di queste restano comunque attive soprattutto a livello locale. Non va inoltre dimenticato il ruolo che le Forze armate cinesi svolgono sul piano internazionale partecipando a diverse operazioni di peacekeeping delle Nazioni unite, in particolare in Africa, un elemento questo che ha fatto di Pechino il più importante contributore per le missioni tra i cinque membri perma-nenti del “Consiglio di sicurezza” dell’ONU (139). Tuttavia, nonostante i progetti tesi a rafforzare la professionaliz-zazione delle Forze armate, resta il fatto che in Cina la PLA è tuttora considerata come l’“ala armata” del PCC in quanto il suo compito principale è quello di assicurare l’esistenza del regime comunista, relegando così in secondo piano la funzione di difesa del paese che negli altri Stati costituisce invece la missione primaria delle Forze militari.

106Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Il presidente Xi Jinping alle celebrazioni per il 70o anniversario della Marina dell’Esercito popolare di liberazione cinese.

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Il sistema di comando militare Allo stesso modo dell’assetto istituzionale, anche il sistema di comando delle Forze armate si basa sull’intersezione

tra organi dello Stato e del Partito Comunista, che di fatto viene così ad assumere il controllo dell’apparato militare cinese. Al vertice della struttura è posta la “Commissione militare centrale” (CMC), i cui componenti sono eletti per cinque anni dall’“Assemblea nazionale del popolo”, a cui spetta la prerogativa di dichiarare la guerra e la fine delle ostilità unitamente a tutte le altre funzioni inerenti alla difesa nazionale. Nel periodo in cui la CMC non è in sessione, i suoi compiti vengono esercitati dalla “Commissione permanente” del “Politburo” del PCC (140).

Alla testa dell’organo vi è il “Segretario generale” del Partito Comunista il quale, in conseguenza di questo assetto, viene quindi ad assumere il ruolo il Comandante in capo delle Forze armate cinesi.

In seguito alle riforme implementate tra il 2015 e il 2016 da Xi Jinping, la struttura della “Commissione militare centrale”, il cui numero di componenti non è stabilito da alcuna disposizione costituzionale ed è andata incontro a una profonda riorganizzazione interna. In precedenza, l’organo era formato dai direttori di quattro dipartimenti della PLA — “Dipartimento dello Stato Maggiore”, “Dipartimento politico generale”, “Dipartimento generale della logi-stica” e “Dipartimento generale degli armamenti” — e dai Comandanti dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica e delle forze missilistiche dell’Esercito. In base a questa struttura, erano previsti due differenti sistemi di comando, uno che partiva dai diversi comandi regionali per poi successivamente diramarsi prima al “Dipartimento dello Stato Maggiore” della PLA per poi giungere alla “Commissione militare centrale” che ne rappresentava il vertice istituzio-nale, e un altro in base al quale la scala andava dalle unità operative ai comandi dell’Esercito, della Marina e dell’Ae-ronautica che operavano come centri di controllo funzionali. Così, come sottolineato dagli osservatori, stando a questo sistema, ritenuto troppo complesso e inefficiente, un’unità delle Forze navali o aeronautiche era soggetta sia agli ordini impartiti dai comandi regionali da cui dipendevano che a quelli dell’arma alla quale appartenevano, mentre lo stesso Esercito non disponeva di un proprio vertice in quanto questa funzione era esercitata dal “Dipartimento dello Stato Maggiore”, dove però i suoi ufficiali erano in numero preponderante. In base alla nuova riforma, l’intera struttura è stata così riorganizzata e resa più snella ed efficiente, con il numero dei componenti della “Commissione militare

107 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

COMPONENTI DELLA COMMISSIONE MILITARE CENTRALE

PRESIDENTE Xi Jinping

(Segretario del PCC e Presidente della Repubblica)

MEMBRI

VICEPRESIDENTE Generale Zhang Youxia

(Membro del Politburo del PCC)

Generale Wei Fenghe Ministro della Difesa

Generale Li Zuocheng Capo di Stato Maggiore

della PLA

Ammiraglio Miao Hua Direttore Dipartimento per le attività politiche

Generale Zhang Shengmin Direttore Ufficio

ispezione e disciplina

VICEPRESIDENTE Generale Xu Qiliang

(Membro del Politburo del PCC)

Fonte: J. Mulvenon, And Then There Were Seven: The New, Slimmed-Down Central Military Commission, Chinese Leadership Monitor No 56, Hoover Institution, primavera 2018.

Page 245: marittima - RIVISTA - Ministero della Difesa

centrale” passato da undici a sette i quali, a eccezione del Presidente, sono tutti ufficiali della PLA. Allo stesso modo, i quattro dipartimenti generali prima esistenti sono stati aboliti e le loro funzioni trasferite a quindici nuovi uffici tra i quali sono compresi, un comando per l’Esercito, la Marina, l’Aeronautica e le Forze Missilistiche più uno, il “Sup-porto per le Forze strategiche”, incaricato della guerra elettronica e cibernetica e delle missioni spaziali; mentre sul piano organizzativo, il ruolo più importante spetta al “Dipartimento dello Stato Maggiore”, al quale spetta una fun-zione di collegamento tra la “Commissione militare centrale” e i comandi dei cinque teatri delle operazioni militari.

Questi ultimi hanno sostituito le sette regioni militari in cui era suddiviso il territorio cinese, tanto che, dopo queste riforme, a detta degli analisti, il sistema di comando militare cinese si è avvicinato a quello degli Stati Uniti, con le nuove sezioni della “Commissione militare centrale” che agirebbero come gli “Stati Maggiori Riuniti” delle Forze armate di Washington, mentre i comandi di teatro cinesi funzionerebbero nella stessa maniera dei “Combatant Command” sta-tunitensi operanti nelle varie zone di attività (141). Sul piano pratico quindi, dopo questa ristrutturazione, la “Com-missione militare centrale” dispone del controllo diretto sui “Comandi di teatro” e sulle cinque armi che compongono la PLA, ovvero l’Esercito, la Marina, l’Aeronautica, le forze missilistiche e quelle di supporto strategico. Inol-tre, il controllo della CMC sulle Forze armate è stato rafforzato anche dalla formazione di tre nuovi uffici in-terni, quali la “Commissione centrale di disciplina e ispezione”, la “Commissione per la politica e gli affari legali” e l’“Ufficio di controllo contabile”, i quali ope-rano rispettivamente come organi decisionali, esecutivi e di controllo, e questo sia allo scopo di rafforzare il peso del PCC sull’apparato militare sia di contrastare la corruzione esistente al suo interno. Istituita nel di-cembre 2015 e in precedenza compresa all’interno del “Dipartimento di politica generale”, la “Commissione centrale di disciplina e ispezione” della CMC svolge le stesse funzioni della sua omologa presente all’interno della “Commissione permanente dell’ufficio politico” del PCC e, come quest’ultima, ha il compito di portare avanti la lotta alla corruzione nelle istituzioni, che co-stituisce uno dei punti fondamentali della politica di Xi Jinping. In proposito, in occasione del “Festival di pri-mavera” del 2016, quest’organo ha attivato un numero al quale si possono denunciare comportamenti che non corrispondono alle disposizioni del Partito Comunista unitamente ad azioni rientranti nei “quattro stili di la-voro indesiderabili”, ovvero burocratismo, strava-ganza, edonismo e formalismo.

Riguardo invece alla “Commissione per la politica e gli affari legali” della CMC, essa ha gli stessi compiti di quella presente all’interno della “Commissione per-manente dell’ufficio politico” del PCC che svolge l’im-portante funzione di controllare l’apparato giudiziario e di sicurezza del paese.

108Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

LA CATENA DI COMANDO MILITARE NELLA CINA POPOLARE

Commissione militare centrale

Dipartimento dello Stato Maggiore

Commissione centrale di disciplina e ispezione

Commissione per la politica e gli affari legali

Ministro della Difesa nazionale

Consiglio di Stato

Armata popolare di liberazione

(PLA)

Comandi di teatro

Ufficio di controllo contabile

Page 246: marittima - RIVISTA - Ministero della Difesa

E in modo analogo, anche la sua omologa, esistente nella “Commissione militare centrale” è incaricata di ammi-nistrare a ogni livello la giustizia militare. Infine, l’“Ufficio di controllo contabile” è responsabile del controllo fi-nanziario e dei bilanci nonché di procedere a una riforma che renda più efficiente queste procedure di verifica. Come è stato sottolineato dai commentatori, tutti questi programmi rientrano nei progetti espressi da Xi Jinping di «am-ministrare le istituzioni del paese attraverso la legge», un’affermazione che però non deve intendersi come l’avvio di un percorso verso l’introduzione dello “stato di diritto” inteso nel senso occidentale del termine, ma piuttosto come l’osservanza da parte di tutti gli organi dello Stato della “legge del Partito Comunista”. E secondo le intenzioni dei dirigenti politici di Pechino, questo rappresenterebbe lo strumento migliore per contrastare la mancanza di ideologia e disciplina presenti all’interno delle Forze armate, le quali dopo l’introduzione delle riforme dovranno, invece, operare e comportarsi rispettando le imposizioni impartite dal PCC (142). E a rafforzare il ruolo che il Partito Comunista esercita sulle Forze armate contribuisce anche l’azione esercitata nelle diverse unità dai “Com-missari politici”, i quali sono responsabili della disciplina, del morale e dell’educazione politica del personale mili-tare, e operano sotto il controllo del “Dipartimento delle attività politiche” della “Commissione militare centrale”, unitamente a quella dei “Comitati di partito”, dipendenti dal “Dipartimento delle attività politiche” e presenti in tutti i livelli di comando, i quali sono incaricati di assicurare che i vertici siano allineati alle direttive del PCC (143). In base a questa struttura, emerge come il ministro della Difesa in Cina non sia parte del sistema di comando e le sue prerogative quindi molto più limitate di quelle attribuite ai suoi omologhi europei e degli Stati Uniti, disponendo quindi solo di un ruolo con funzioni di tipo cerimoniale e protocollare.

La riorganizzazione attuata in questi ultimi quattro anni ha comunque profondamente modificato la struttura e i compiti che la PLA andrà a svolgere in futuro secondo la visione strategica concepita da Xi Jinping. Stando agli osservatori, appare evidente come nella ristrutturazione l’Esercito abbia perso molto della sua importanza, in quanto, nella nuova dottrina, si è passato da una visione in cui si attribuiva un’importanza fondamentale alle Forze

109 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Schieramento di un reparto della Marina dell’Esercito popolare di liberazione cinese.

Page 247: marittima - RIVISTA - Ministero della Difesa

terrestri, dato il loro ruolo nella difesa del territorio nazionale e dell’ordine interno, a uno invece in cui la funzione primaria è assegnata alla Marina e all’Aeronautica, in quanto in grado di tutelare gli interessi cinesi oltre i confini del paese. Appare così evidente come i rischi posti dalle tensioni interne in aree come il Tibet o il Sinkiang/Uighur oppure dal verificarsi di eventuali scontri di frontiera con l’India per le dispute confinarie sono poste in posizione subordinata rispetto al ruolo internazionale che la nuovo dirigenza vuole attribuire alla Cina. E un altro segnale che le Forze terrestri abbiano perso prestigio viene dal fatto che nel nuovo “Dipartimento dello Stato Maggiore” l’Esercito è posto su un piano paritario rispetto alle altre armi della PLA, mentre lo stesso numero di effettivi di cui questo disponeva è stato sensibilmente ridotto. Ma la decisione di limitare il peso dell’Esercito nella struttura militare è dovuta non solo a considerazioni di ordine strategico ma anche politico, in quanto in questo modo Xi Jinping intenderebbe sanzionare la resistenza alle riforme dimostrata dai vertici delle Forze terrestri nonché sra-dicare la pesante consistenza al loro interno e ridurre la partecipazione alle attività economiche in cui molti ufficiali sono coinvolti. Tuttavia, molti ritengono però che il peso dell’Esercito sia ancora rilevante, come dimostrato dal fatto che, dei cinque comandanti di teatro, quattro vengono proprio dai ranghi delle Forze terrestri, essendo solo quello della regione meridionale guidata da un vice ammiraglio della Marina (144).

110Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Velivoli della Forza aerea della Cina (PLAAF - People’s Liberation Army Air Force) impegnati

in esercitazioni sul Mar Cinese Meridionale.

Page 248: marittima - RIVISTA - Ministero della Difesa

L’apparato di sicurezza interna cinese e le forze paramilitari

Le forze di sicurezza interna rivestono un’importanza fondamentale dato il loro ruolo nel mantenimento dell’ordine

pubblico e, di conseguenza, nel garantire la stabilità del regime. Tra queste, una posizione di primo piano è stata re-centemente assunta dalla “Guardia costiera” la quale, prima del 2013, costituiva la sezione marittima della “Polizia armata del popolo” (PAP) ed era posta sotto il comando del ministero della Pubblica Sicurezza, ma in seguito è passata prima sotto l’autorità della “State Oceanic Administration” e poi, dal 2018, è ritornata nuovamente alle dipendenze della PAP, quindi sotto il controllo della “Commissione militare centrale”. Dotata di equipaggiamenti di buon livello, la “Guardia costiera” ha assunto un ruolo di primo piano da quando Pechino ha deciso di rivendicare in modo sempre più assertivo i suoi interessi nelle dispute marittime esistenti con il Giappone, le Filippine, l’Indonesia e il Vietnam, tanto che per molti quest’Arma costituirebbe ormai una sorta di “seconda Marina Militare” all’interno delle Forze armate cinesi. Inoltre, in quest’azione di rivendicazione nelle dispute marittime, il governo di Pechino, oltre che della “Guardia costiera”, è solito ricorrere anche all’appoggio di pescherecci e unità navali mercantili che, sostenuti dai reparti militari, contribuiscono a rafforzare la posizione cinese nei contenziosi aperti con gli altri paesi (145). Il ruolo più importante compete però alla (PAP), una Forza costituita nel 1982 che da allora è andata incontro a una serie di riorganizzazioni. Fino a pochi anni fa, questa Forza paramilitare era posta sotto il controllo sia del “Consiglio di Stato” — ovvero del governo — che della “Commissione militare centrale”, operando come reparto di protezione civile nella gestione delle situazioni di emergenza nazionale e quale riserva di fanteria nell’eventualità di un conflitto.

I reparti della PAP erano quindi impegnati in compiti di sicurezza interna e in altre funzioni specializzate, quali il controllo delle miniere aurifere, foreste, impianti idroelettrici, infrastrutture — in particolare quelle militari — e della rete dei trasporti, mentre altre unità operavano nel controllo delle frontiere e in compiti di difesa aerea, in col-laborazione con le Forze aeronautiche, navali e terrestri (146). Tra il 2017 e il 2018 la PAP è però andata incontro a una profonda ristrutturazione.

111 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

STRUTTURA DELL’APPARATO DI SICUREZZA INTERNA CINESE

Consiglio di Stato Consiglio di Stato

Guardia costiera Polizia

Ministero della Sicurezza di Stato

Polizia armata del popolo (PAP)

Ministero della Pubblica sicurezza

Commissione militare centrale

Page 249: marittima - RIVISTA - Ministero della Difesa

In base a questa riforma, la PAP è stata demansionata dei suoi precedenti compiti che prevedevano il controllo delle frontiere, infrastrutture e delle risorse naturali, per svolgere esclusivamente funzioni di forza di sicurezza interna e marittima nonché di supporto alla PLA in caso di conflitto (147).

In precedenza sottoposta a un controllo civile e militare in quanto dipendente sia dal “Consiglio di Stato” sia dalla “Commissione militare centrale”, in seguito alla riorganizzazione, la PAP è stata posta esclusivamente sotto l’autorità di quest’ultima, venendo così a rafforzare ulteriormente la posizione di Xi Jinping. E di conse-guenza, essendo il Segretario del PCC alla guida della “Commissione militare centrale” e avendo la PAP già in-tegrato le unità della “Guardia costiera”, per effetto della ristrutturazione Xi Jinping è venuto così a disporre di tutte le forze incaricate della sicurezza interna. Inoltre, dato che la decisione di dispiegare i reparti della PAP non è più prerogativa dei dirigenti regionali e locali del PCC, Xi Jinping, con la centralizzazione del controllo, ha conseguito un ulteriore risultato politico, ovvero quello di ridurre il potere degli esponenti locali del Partito Comunista.

Sul piano operativo la PAP, dopo che alcune funzioni di cui era in precedenza delegata sono state trasferite a ministeri civili e autorità locali, è attualmente incaricata essenzialmente della sicurezza interna, del controllo delle aree marittime in cui la Cina rivendica la propria sovranità e di svolgere un ruolo di supporto alla PLA nel corso di eventuali operazioni di guerra, mentre riguardo alla dislocazione geografica dei suoi reparti, questi, se-condo quanto riportato dagli analisti, sono nella maggior parte dispiegati nelle parte occidentale del paese in modo da poter essere utilizzati per compiere operazioni di repressione nelle regioni del Tibet e del Sinkiang/Ui-ghur (148). In merito invece agli altri organi incaricati della sicurezza interna, sia il ministero della Sicurezza di

112Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

Nell’immagine e in quella della pagina accanto: schieramento di reparti della Polizia armata del popolo.

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Stato sia il ministero della Pubblica Sicurezza, operano invece sotto il controllo del “Consiglio di Stato”, svol-gendo però delle funzioni di tipo diverso.

Riguardo al ministero della Sicurezza di Stato, questo è incaricato delle operazioni di spionaggio e contro-spionaggio all’interno e all’estero per mezzo di agenti operanti sotto copertura, di proteggere la sicurezza na-zionale e di assicurare la stabilità politica e sociale nonché di investigare su organizzazioni e persone residenti sul territorio nazionale cinese le cui attività sono ritenute pericolose per il paese.

Dal ministero della Pubblica Sicurezza dipendono invece le Forze di polizia — da non confondersi con la PAP —, le quali sono incaricate del mantenimento dell’ordine pubblico, delle funzioni investigative e delle operazioni contro il terrorismo e i gruppi criminali, disponendo anche di unità anti sommossa presenti nelle maggiori città (149).

Il potere di decidere l’uso della forza nucleare Nel sistema politico della Cina Popolare, la personalità più importante del paese ricopre usualmente tre incarichi,

quello di “Segretario generale” del PCC, di Presidente della Repubblica e di capo della “Commissione militare centrale”. Ed è proprio a quest’organo che, in base a quanto riportato dai documenti ufficiali di Pechino e dal “Libro Bianco” del ministero della Difesa nazionale, spetta l’autorità di decidere l’eventuale uso della forza nu-cleare. Con un dispositivo che fino a pochi anni fa era formato solo da forze nucleari poste su missili interconti-

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nentali terrestri (ICBM), la procedura tuttora in vigore prevede che l’ordine di attivazione sia impartito dalla “Com-missione militare centrale”, passi poi per il “Dipartimento dello Stato Maggiore” che a sua volta lo trasmetterebbe al comando delle forze missilistiche — il quale ha sostituito il precedente “Secondo Corpo d’artiglieria” — e infine da questo comunicato alle brigate e alle unità incaricate di procedere al lancio delle testate (150).

Tuttavia, stando a quanto asserito da analisti statunitensi, nel caso la situazione lo richiedesse, il “Dipartimento dello Stato Maggiore” assumerebbe il controllo delle comunicazioni tra la “Commissione militare centrale” e le diverse unità, con il comando delle forze missilistiche che in questo scenario verrebbe collocato all’interno del “Dipartimento dello Stato Maggiore”. Le stesse forze missilistiche inoltre mantengono in funzione una procedura che consente di accelerare i tempi di lancio permettendo ai reparti di più alto livello di bypassare quelli posti in posizione intermedia e comunicare così direttamente con le unità cui sarebbero impartiti gli ordini. Più complesso appare invece il sistema di comando per le testate nucleari della Marina dislocate sui sommergibili (SLBM). Stando a quanto previsto dalla dottrina militare cinese, la “Commissione militare centrale” non consente che in tempo di pace le testate nucleari siano installate a bordo dei sommergibili. Di conseguenza, procedere a una revisione ri-chiederebbe un completo esame di tutte le regole finora utilizzate. Come sottolineano gli esperti, dispiegare le testate a bordo non solo conferirebbe ai comandanti delle unità una maggiore e più alta responsabilità di quella

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cui attualmente dispongono, ma allo stesso tempo ridurrebbe sensi-bilmente lo stretto controllo che i dirigenti cinesi hanno sempre eser-citato sui dispositivi nucleari. E qualora i sommergibili dovessero essere impegnati in navigazione, appare evidente come sia di fatto im-possibile che le testate non siano caricate nei missili in dotazione alle unità. E in questo caso, per gli analisti, le soluzioni praticabili sareb-bero che la Marina conserverebbe il comando operativo dei dispositivi nucleari trasportati sui sommergibili o al contrario che siano le forze missilistiche ad assumerne il controllo; soluzione questa ritenuta la più verosimile dai commentatori cinesi, oppure, infine, che si introduca un sistema ibrido dove la Marina disporrebbe dell’autorità sui sommer-gibili ma le testate verrebbero però poste sotto il comando delle forze missilistiche (151).

Va poi sottolineato come in Cina, a differenza di quanto previsto negli Stati Uniti nonché in Francia e, sotto certi aspetti, in Gran Bretagna, non vi è un ordine costituzionale che regola la successione e la trasmissione dei poteri all’autorità incaricata di ordinare l’uso della forza nucleare, in quanto la personalità politica di grado più alto dopo Xi Jinping è rappresentata dal premier Li Keqiang, il quale però non è membro della “Commissione militare centrale”. E quindi, nel caso in cui il capo di quest’ultima si trovasse impossibilitato a svolgere le sue funzioni, molto probabilmente si aprirebbe una crisi istituzionale ri-guardo alla successione ai vertici dell’apparato militare e statale.

Il presidente Xi Jinping alle celebrazioni per il 70o anniversario della Marina dell’Esercito

popolare di liberazione cinese.

(135) La struttura politica include anche un altro organo, i cui poteri sono però alquanto limitati. Si tratta della “Conferenza politica consultiva del popolo”, la cui struttura più importante è costituita dal “Comitato nazionale della conferenza politica consultiva del Popolo Cinese” con il quale il partito comunista e le istituzioni statali si “consultano” sulle diverse questioni politiche. (136) Le circoscrizioni elettorali sono trentacinque, rappresentate dalle assemblee delle ventidue province, delle cinque regioni auto-nome e dalle quattro città provinciali. A queste si devono aggiungere gli eletti in rappresentanza dei consigli dell’“Armata Popolare di

NOTE AL CAPITOLO VI

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Liberazione” (PLA), delle “Regioni amministrative speciali” (SAR) di Hong Kong e Macao e dai “compatrioti” di Taiwan, che per Pechino costituisce la ventitreesima provincia del Paese. (137) Nella struttura di governo locale, al primo livello sono situate le 34 amministrazioni provinciali che includono le ventitré province del Paese — inclusa Taiwan che Pechino considera una sua provincia —, le cinque “regioni autonome” dove risiedono consistenti mino-ranze nazionali, le quattro municipalità che riportano direttamente al governo e infine le due “Regioni amministrative speciali” di Hong Kong e Macao. Al secondo livello sono collocate le trecento amministrazioni prefetturali, al terzo invece le tremila contee e al quarto, infine, le quarantamila città e municipalità. In merito all’organizzazione, quella delle unità amministrative di primo, terzo e quarto livello riprende quella esistente sul piano statale. (138) Sull’assetto istituzionale cinese vedi, Understanding China’s Political System, Congressional Research Service, Washington D.C., 20 marzo 2013. (139) Sull’argomento vedi J.Genevaz, China People’s Liberation Army. The Political – Military Nexus, European Institute for Security Studies, Brief Issues, No 5/2015 (140) Va però ricordato come, formalmente, esistono due “Commissioni militari centrali”: la prima costituisce una struttura del Partito Comunista ed è posta sotto la direzione del “Comitato centrale” del PCC, la seconda invece è un organo del “Consiglio di Stato”, ovvero del governo. Le due CMC comunque hanno le stesse identiche funzioni e composizione. Tuttavia, anche se i compiti e i membri sono praticamente identici, in due occasioni, nella composizione dei due organi, si sono registrate delle divergenze. Per esempio nel 1989 Deng Xiaoping lasciò a Jiang Zemin la presidenza della “Commissione militare centrale” del partito nel 1989 e di quella del governo nel 1990, mentre nel 2003 lo stesso Jiang Zemin, pur ritirandosi dalla carica di capo dello Stato e di “Segretario generale” del PCC, continuò a restare a capo di entrambe le “Commissioni militari centrali” cedendo il controllo di quella del partito, nel settembre 2004, e poi della governativa nel marzo 2005. Vedi su questo, A. Hong/Yang Cheng-Wang, «The Military Decision-Making Process in Beijing and its Implications for the PLA’s Evolution», pubblicato su The Korean Journal of Defense Analysis, Vol. 21, No 2, giugno 2009, pp. 169-181. (141) Sulla riorganizzazione della “Commissione militare centrale” in seguito alle riforme approvate nel 2015 e 2016 vedi, J. Mulvenon, China’s “Goldwater-Nichols”? The Long-Awaited PLA Reorganization Has Finally Arrived, Chinese Leadership Monitor No 49, Hoover Institution, inverno 2016. (142) Sulle riforme avviate all’interno delle Forze armate cinesi in questi ultimi quattro anni vedi, M. Julienne, The PLA reforms: Ti-ghtening control over the military, European Council on Foreign Relations, ECFR/164, marzo 2016. (143) Sull’organizzazione e la struttura militare della Cina vedi, China Military Power. Modernizing a Force to Fight and Win, Defense Intelligence Agency (DIA), Washington D.C., gennaio 2019, pp. 7-22. (144) Vedi sull’argomento, B.Gill/A.Ni, «China’s Sweeping Military Reforms Implications for Australia», pubblicato in Security Chal-lenges, Vol. 15, No 1, anno 2019, pp. 33-46. (145) Le unità mercantili attive in queste operazioni sono gestite dalla PLA e controllate dai governi regionali. Sul piano politico, l’uso di questo naviglio consente poi a Pechino di poter compiere azioni a tutela delle sue rivendicazioni senza però ammettere il coinvolgi-mento cinese, contando inoltre sul fatto che, in base alle regole d’ingaggio, le unità della Marina statunitense operanti nelle aree inte-ressate alle dispute non possono intraprendere operazioni nei confronti di navi civili. (146) Vedi sul ruolo delle Forze paramilitari e di sicurezza interna, A.H. Cordesman, China Military Organization and Reform, Burke Chair in Strategy/Center for Strategic and International Studies (CSIS), Washington D.C., 1o agosto 2016, pp. 26-29. (147) Vedi in proposito, China’s People’s Armed Police: reorganised and Refocused, Military Balance Blog, International Institute for Strategic Studies (IISS), Londra, 21 giugno 2019. (148) Sul ruolo e l’organizzazione della PAP vedi, J.Wuthnow, China’s Other Army: The People’s Armed Police in an Era of Reform, China Strategic Perspectives No 14, Center for the Study of Chinese Military Affairs, Institute for National Strategic Studies (INSS), Na-tional Defense University Press, Washington D.C., aprile 2019. (149) Sull’organizzazione di questi due ministeri vedi, Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China 2019, U.S. Department of Defense, Annual Report to Congress, Washington D.C., maggio 2019, p. 5. (150) Stando all’organizzazione esistente prima delle riforme attuate tra il 2015 e il 2016, il comando del “Secondo Corpo d’artiglieria” disponeva di una relativa autonomia all’interno della PLA, mentre in seguito all’implementazione della nuova struttura il sistema di co-mando delle forze convenzionali e nucleari risulta essere stato centralizzato, tanto che nei documenti ufficiali si riferisce alle forze mis-silistiche come a delle unità «…poste sotto l’autorità del Comitato centrale del PCC, della Commissione militare centrale e del Segretario del Partito Comunista, Xi Jinping…». Vedi su questo, D. Logan, «PLA Reforms and China’s Nuclear Forces», apparso su Joint Force Quarterly, National Defense University Press, No 83, ottobre 2016. (151) Sul sistema di comando delle forze nucleari cinesi e sulle procedure di controllo, vedi A.H. Cordesman/J.Kendall/S.Colley, China’s Nuclear Forcesand Weapons Mass Destruction, Burke Chair in Strategy/Center for Strategic and International Studies (CSIS), Washington D.C., 21 luglio 2016.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

IL SISTEMA DI COMANDO

Capitolo VII

IN ISRAELE

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Il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu visita la base aerea di Tel Nof, in Israele, in occasione di una conferenza internazionale dei comandanti dell’Aeronautica Militare (2018). Nella pagina precedente: l’emblema delle Israeli Defense Forces (IDF).

P aese che dalla sua fondazione si è trovato a combattere ben quattro conflitti con gli Stati arabi confinanti e a dover attuare numerose altre operazioni militari per difendere il territorio na-zionale oppure per contrastare i rischi posti dalle azioni attuate dai gruppi terroristici, Israele,

come pochi altri paesi, non dispone di un testo costituzionale e, di conseguenza, la struttura istitu-zionale e il sistema di comando delle Forze armate sono stabilite da diverse “Leggi fondamentali” (Basic Laws) che nel corso degli anni hanno regolato l’assetto politico e amministrativo nazionale.

La forma di governo israeliana Privo di una carta costituzionale, Israele costituisce una Repubblica di tipo parlamentare, dove

al governo spetta il compito di dirigere la politica del paese sul piano interno, inclusa quindi la di-fesa, e internazionale. L’esecutivo è guidato dal Primo ministro e composto da numerosi altri mi-nistri ed è responsabile davanti alla “Knesset” (152) — il Parlamento unicamerale del paese — la quale si compone di 120 membri eletti ogni quattro anni con il sistema proporzionale con una soglia di sbarramento che, nelle ultime tre consultazioni, è stata fissata al 3,25% dei voti. Alle elezioni partecipano tutti i cittadini israeliani dai 18 anni, inclusi quelli di origine araba e che nell’assemblea legislativa sono rappresentati dai loro partiti i quali possono presentarsi alle elezioni singolarmente o raggruppati in un cartello elettorale.

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E dato che il sistema elettorale non permette a nessuna formazione di conseguire la maggioranza assoluta di 61 seggi, gli esecutivi risultano sempre formati da coalizioni di più partiti ma, poiché questo spesso produce dei contrasti tra le diverse componenti della maggioranza, è assai frequente che i governi non completino il loro man-dato e si convochino elezioni anticipate (153). Resta comunque prerogativa della “Knesset” di presentare una mozione di sfiducia contro l’esecutivo che, se approvata, porta alle sue dimissioni e a nuove consultazioni legi-slative. E sempre alla “Knesset” compete l’elezione, a maggioranza assoluta dei suoi membri, del capo dello Stato, il quale fino al 2000 aveva un mandato di cinque anni ed era rieleggibile una seconda volta, mentre da allora è stato stabilito, invece, che rimanga in carica per sette anni e possa ricoprire un solo mandato. Dotato di funzioni cerimoniali, al capo dello Stato spetta tuttavia il compito di indicare a quale personalità affidare la formazione del governo. L’assetto istituzionale del paese è fissato da diverse “Leggi fondamentali” le quali hanno valore co-stituzionale regolando gli aspetti politici, militari, giuridici e amministrativi dello Stato (154).

Il sistema di comando delle Forze armate Con l’introduzione della “Law and Administration Ordinance” del 1948, si autorizzava il governo provvisorio a

formare delle Forze armate regolari. In seguito l’esecutivo, proprio in ragione di questo provvedimento, approvò nello stesso anno l’“Israeli Defense Force Ordinance” con cui si stabiliva che le “Israeli Defense Forces” (IDF) sareb-bero state composte da unità terrestri, marine e aeronautiche e avrebbero costituito le sole Forze militari del paese sostituendo quelle paramilitari attive prima dell’indipendenza. Sul piano legislativo, l’intera struttura militare israeliana è regolata dalla “Legge fondamentale” del 1976, (Basic Law: The Military) la quale stabilisce come le Forze armate sono soggette all’autorità del governo, che il ministro responsabile per la gestione delle questioni militari è il ministro della Difesa e infine che il “capo di Stato Maggiore” è nominato dal Primo ministro su indicazione del responsabile della difesa ed è soggetto all’autorità dell’esecutivo (155). La struttura dell’apparato di difesa israeliano è organizzata comunque in maniera che le autorità militari e civili operino in concerto collaborando anche con i servizi d’intelligence e le aziende più importanti impegnate nel settore (156). Con un ruolo istituzionale che lo pone nella posizione di comandante delle Forze militari israeliane, al ministro della Difesa spetta inoltre anche la funzione di coordinare l’at-tività delle industrie del settore militare e i loro programmi di ricerca tecnologica, unitamente a quella di mantenere i rapporti con i suoi omologhi stranieri. Com’è stato sottolineato dagli esperti, la posizione del ministero della Difesa è quella di amministrare la parte tecnica e amministrativa dell’apparato, lasciando alle Forze armate il compito di con-centrarsi esclusivamente sugli aspetti relativi alla condotta delle operazioni militari (157).

In merito invece all’organizzazione dello “Stato Maggiore”, questo opera come un comando unificato che in-clude tutte le armi delle Forze armate israeliane — Esercito, Marina, Aeronautica — e i comandanti delle quattro aree militari in cui è suddiviso il paese (158), mentre il “capo dello Stato Maggiore” si trova al vertice della strut-tura militare esercitando le funzioni di comandante delle “Forze di difesa israeliane” e svolgendo un ruolo di co-ordinamento con i comandanti delle diverse unità durante le operazioni militari. E compete sempre al “capo di Stato Maggiore” di determinare le modalità con cui portare a termine le missioni pianificate.

Sottoposto all’autorità dell’esecutivo, il “capo di Stato Maggiore”, qualora dovessero sorgere dei contrasti tra il ministro della Difesa e il governo, è tenuto a obbedire a quest’ultimo, anche se la struttura di comando delle Forze armate in Israele presenta delle particolarità soprattutto riguardo ai poteri decisionali di cui dispone il Primo ministro. Inoltre il “capo di Stato Maggiore”, in ragione delle sue funzioni, costituisce l’unica personalità delle Forze armate israeliane che dispone della prerogativa di essere in contatto permanente con le autorità po-litiche, avendo il compito di trasmettere le direttive del governo alle unità militari (159). Una funzione di primo piano nel sistema di difesa israeliano è poi ricoperta dal “National Security Council” (NSC), un organo istituito

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RODOLFO BASTIANELLI

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nel 1999 e incluso all’interno dell’“Ufficio del Primo ministro” (160), il quale svolge una funzione consultiva preparando analisi e valutazioni sulle questioni riguardanti le politiche di sicurezza e indirizzando raccomanda-zioni al Premier. Guidato da un direttore designato dal Primo ministro con il consenso dell’esecutivo, al NSC spetta poi il compito di esprimersi sugli stanziamenti per la difesa inclusi nella legge di bilancio. Tuttavia, tra gli osservatori non mancano quelli che sostengono però come il peso del NSC sia invece alquanto limitato e con un impatto assai poco rilevante sulle scelte dell’esecutivo, assai meno rilevante quindi di quello di cui dispone lo stesso organo presente negli Stati Uniti.

Ma, all’interno della struttura militare israeliana il ruolo forse più significativo è attribuito ai tre servizi d’in-telligence di cui dispone il paese. Di questi, l’“Aman” costituisce quello militare ed è incaricato delle valutazioni d’intelligence che vengono utilizzate per definire la politica di sicurezza del governo, il “General Security Service”, meglio conosciuto come “Shabak” oppure “Shin Beth”, è incaricato della sicurezza interna, della protezione delle personalità politiche e delle strutture di fondamentale importanza e, infine, il “Mossad”, cui invece compete il controspionaggio esterno, la raccolta di informazioni d’intelligence provenienti da fonti clandestine e il com-pimento di operazioni speciali al di fuori dei confini nazionali.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Militari dell’IDF (Israeli defense force)

in addestramento (Fonte: Flickr.com/

Bill Chilstrom).

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Sia il “Mossad” sia il “General Security Service” rispondono al Primo ministro, mentre l’“Aman” è indipendente. In merito al sistema di comando esi-stente in Israele, la questione si presenta quanto mai complessa, in quanto le due “Leggi fondamen-tali” che regolano la struttura delle Forze armate e del governo — la prima citata, “Basic Law: The Mi-litary” del 1976 e poi la “Basic Law: The Gover-nment” del 2001 — lasciano indefiniti molti punti. Il contenuto dei due testi legislativi non stabilisce un comando civile per le Forze armate né tanto-meno definisce le prerogative del Primo ministro in materia di sicurezza nazionale.

Difatti, nella “Legge fondamentale” del 2001, riguardante l’organizzazione del governo, si indica solo come il Premier presiede il “Security Cabi-net”, del quale fanno parte anche il vice Primo mi-nistro unitamente ai ministri degli Esteri, della Difesa, della Giustizia, della Sicurezza interna e delle Finanze e a cui possono regolarmente pren-dere parte alle riunioni anche il “capo di Stato Maggiore”, i direttori dei servizi d’intelligence e del “National Security Council” insieme al “Pro-curatore generale” dello Stato, e che al governo spetti la prerogativa di dichiarare la guerra (161).

E se alcuni giuristi, in base a questo sistema, affermano come non sarebbe, quindi il Premier, a disporre del-l’autorità sulle Forze armate ma il ministro della Difesa che la eserciterebbe per conto dell’intero governo, altri, al contrario, sostengono invece come si sia consolidata la prassi che il “Security Cabinet” disponga della prero-gativa di ordinare delle azioni militari di portata limitata in risposta a pericoli immediati per il paese. Lo stesso ruolo della “Knesset” appare poi alquanto ridotto, esercitando esclusivamente una funzione di controllo suc-cessiva alle decisioni prese dall’esecutivo. In base alla legge, il governo è tenuto soltanto a comunicare «nel più breve tempo possibile» alle commissioni parlamentare per la difesa e gli affari esteri la decisione di entrare in guerra e notificare all’assemblea della “Knesset” la dichiarazione di apertura delle ostilità. E a conferma della posizione defilata di cui dispone il legislativo, va sottolineato come è sempre prerogativa dell’esecutivo di pro-clamare lo stato d’emergenza senza richiedere l’approvazione parlamentare nonché di varare tutte le disposizioni necessarie per fronteggiare le situazioni più critiche, spettando alla “Knesset” e alle commissioni parlamentari solo il compito di controllare le azioni del governo (162).

Tuttavia, il deteriorarsi della situazione in Siria, con il progressivo coinvolgimento di Israele nel conflitto e il sempre più marcato pericolo posto dal programma nucleare iraniano alla sicurezza nazionale, ha spinto per una ridefinizione della legge che regola le prerogative del governo in merito alle operazioni militari. Così, nel maggio 2018, la “Knesset” ha votato un emendamento alla “Legge fondamentale” del 2001 sull’organizzazione del go-verno in base alla quale si stabiliva che la decisione di entrare in guerra, o di intraprendere azioni militari che, per la loro importanza, si sarebbero potute trasformare in un aperto conflitto, non spettasse più all’intero governo, ma potesse essere presa con il consenso della metà dei membri del “Security Cabinet”, mentre, nel caso le circo-

122Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

LA CATENA DI COMANDO MILITARE IN ISRAELE

Ministro della Difesa

Capo di Stato Maggiore

Comandante Esercito

Comandante Aeronautica

Comandante Marina

Comandanti Regioni Militari

Direttore Intelligence Militare (Aman)

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stanze lo avessero richiesto, questa avrebbe potuto essere assunta solo dal Primo ministro e dal ministro della Difesa. Approvato con 62 voti favorevoli e 41 contrari, il provvedimento ha suscitato, però, forti discussioni tra chi lo considerava opportuno e chi, al contrario, lo riteneva apertamente incostituzionale. Se per i sostenitori, la decisione di trasferire il potere di avviare delle azioni militari al “Security Cabinet” aveva la funzione di rendere più efficiente il sistema in quanto affidare al governo, nel suo insieme, decisioni di una tale rilevanza non era più proponibile dato l’ampio numero di membri componenti l’esecutivo che avrebbe rallentato ogni procedura, dal-l’altro, i critici sottolineavano come la legge non solo non chiariva quali erano le «estreme circostanze» per le quali sarebbe spettato solo al Premier e al ministro della Difesa di decidere le azioni militari, ma che comunque il provvedimento aveva un impatto limitato sul piano pratico, dato che nessun Primo ministro poteva condurre il paese in un conflitto senza il consenso della popolazione, delle Forze armate e dei servizi d’intelligence (163). Appena due mesi dopo però la “Knesset”, accogliendo le argomentazioni proprio di chi sosteneva come la legge

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Carri armati israeliani nei pressi del confine tra Israele e la Striscia di Gaza.

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poneva nelle mani di una sola persona il potere di decidere se entrare in guerra, aboliva il provvedimento resti-tuendo, così, all’intero governo la prerogativa di decidere in merito a un intervento militare (164).

Riguardo alle Forze armate israeliane, è infine utile anche descrivere il particolare sistema di reclutamento in vigore nel paese.

Stando alla “Defense Service Law” del 1986, le autorità militari sono autorizzate a procedere all’arruolamento di tutti i cittadini israeliani — sia di sesso maschile sia femminile — dai diciotto anni, per un periodo di ferma che varia dai ventiquattro ai trentadue mesi. Questa disposizione incontra tuttavia alcune eccezioni, quali i cittadini israeliani di origine araba, quelli di fede cristiana, i beduini e, soprattutto, gli “Haredi”, ovvero gli ebrei ultraor-todossi. Pur non essendo l’esenzione stabilita da una legge, i cittadini israeliani di origine araba, nonché quelli di religione cristiana, possono arruolarsi solo su base volontaria (165), in quanto, era opinione dei giuristi, si ri-teneva pericoloso, per la sicurezza nazionale e contrario ai principi umanitari, arruolare dei cittadini di fede mu-sulmana che così sarebbero stati obbligati a prestare servizio militare nelle Forze armate di un paese formalmente in guerra con gli Stati arabi e in impegnato in operazioni di polizia nei confronti della popolazione palestinese all’interno dei territori occupati dopo il conflitto del 1967. Ma è soprattutto sulla questione dell’arruolamento degli ebrei ultraortodossi che negli ultimi anni si sono sollevate delle obiezioni all’interno delle forze politiche israeliane. Stando alle ultime rilevazioni, gli “Haredi” costituiscono il 10,1% della popolazione e, in base a un accordo siglato nel 1948 con l’allora primo ministro David Ben Gurion, gli è concesso il diritto di differire il ser-vizio militare; un rinvio che, di fatto, si trasforma in una completa esenzione. Se allora la decisione aveva l’obiettivo di preservare le yeshivah — ovvero le scuole religiose ebraiche — la cui esistenza sarebbe stata posta in pericolo se i giovani fossero stati chiamati a prestare servizio militare, nel 1998 una sentenza della “Corte suprema” di-chiarava però come ormai questo rischio non esistesse più e quindi gli “Haredi” sarebbero dovuti essere rego-larmente arruolati. In conseguenza di questa pronuncia, la “Knesset”, tra il 2002 e il 2015, ha approvato diversi provvedimenti che fissavano da tre a cinque anni il periodo di differimento del servizio militare per i cittadini ul-traortodossi, indicando nel 2020 la data in cui lo status degli “Haredi” sarebbe dovuto essere definito da un’ap-posita legge (166).

I provvedimenti sono stati però dichiarati incostituzionali dalla “Corte suprema”, mentre la questione ha pro-vocato anche una grave crisi politica nel paese. Dopo le elezioni dell’aprile dello scorso anno, il partito Israel Beitenu di Avigdor Lieberman, favorevole ad alzare la quota degli “Haredi” arruolati nelle Forze armate dai tremila attuali — su una popolazione di ebrei ultraortodossi di trentamila persone — a seimila, su questo tema, ha rotto i negoziati per la formazione del governo portando così Israele a nuove elezioni.

Il potere di decidere l’uso della forza nucleare Anche se formalmente non ha mai ammesso di possedere armi nucleari e né firmato il “Trattato di non proli-

ferazione” (TNP), è opinione condivisa dagli analisti che Israele disponga di duecento o trecento testate nucleari. Allo stesso modo, permane il massimo riserbo su quali sistemi possano essere utilizzati per il loro eventuale lancio. Le Forze armate israeliane dispongono di aerei F-15 ed F-16 con un raggio d’azione rispettivamente di 3.500 e 1.600 km, di sei sottomarini della classe «Dolphin» e di missili «Jericho II» e «Jericho III» con una portata di 1.500 e 4.000 km e tutti ritenuti in grado di poter essere utilizzati per il lancio, anche se è incerto se siano stati modificati per renderli adatti a trasportare dispositivi nucleari (167).

Dal lato istituzionale, la forza nucleare israeliana è sottoposta a uno stretto controllo civile sotto l’autorità del Primo ministro, mentre riguardo alla “Knesset”, solo negli anni Settanta la “Commissione per gli affari esteri e la difesa” istituì una sotto commissione incaricata di trattare la questione dell’armamento nucleare del paese,

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RODOLFO BASTIANELLI

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anche se il ruolo del legislativo risulta comunque essere alquanto limitato. Inoltre, lo stretto riserbo e la censura esercitata dalle autorità militari rende quanto mai difficile ogni discussione pubblica sulla questione dell’arma-mento nucleare (168).

Riguardo al potere decisionale, la direttiva emanata nel 1967 prevede come l’ordine, oltre che dal Primo mi-nistro, debba essere impartito anche da un’altra personalità politica, rappresentata molto probabilmente dal mi-nistro della Difesa. E nel suo saggio The Samson Option: Israel Nuclear Arsenal and American Foreign Policy, il giornalista statunitense Seymour Hersh afferma come nessun ordine di lancio delle testate può avvenire senza l’autorizzazione del Premier, del ministro della Difesa e del comandante dell’Esercito, aggiungendo che nel 1991 a questo elenco sarebbe stato poi aggiunto anche il comandante dell’Aeronautica. Resta comunque il fatto che, sulla procedura per l’autorizzazione all’uso della forza nucleare, le autorità israeliane non hanno mai rilasciato alcun dettaglio o informazione. Infine, in base alla “Legge fondamentale”, nel caso il Primo ministro fosse im-possibilitato a svolgere le sue funzioni, questo verrebbe sostituto da un Premier ad interim che deve essere mem-bro della “Knesset”.

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IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

Un sottomarino classe «Dolphin» (Fonte: twitter.com).

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126Supplemento alla Rivista Marittima

RODOLFO BASTIANELLI

(152) Il nome deriva dalla “Grande assemblea” (Knesset ha Gedolah), l’organo che, secondo la tradizione ebraica, costituiva nell’era dei profeti biblici la sede in cui si riunivano i saggi e gli esperti. (153) Si deve però ricordare come tra il 1996 e il 2001 il Primo ministro veniva eletto direttamente dagli elettori in una consultazione in cui era previsto che, se nessuno dei candidati non otteneva al primo turno la maggioranza assoluta dei consensi, si procedeva a un ballot-taggio tra i due che avevano ricevuto il maggior numero di voti. (154) Tra queste, vanno citate per la loro importanza, la “Legge fondamentale” sull’organizzazione dell’Esercito approvata nel 1976, quella del 1980 con cui si è proclamata Gerusalemme capitale indivisibile dello Stato e, infine l’ultima, varata nel luglio 2018, con cui si definisce Israele lo «Stato nazionale del popolo ebraico nel quale questo può realizzare il suo diritto naturale, storico, religioso e culturale all’autodeterminazione». Approvate dalla “Knesset” con votazioni prese a maggioranza assoluta, le “Leggi fondamentali”, secondo quanto espresso dalla “Corte suprema” israeliana nel 1995, rappresentano la Costituzione del paese e hanno quindi un valore giuridico superiore a quello delle leggi ordinarie. (155) Vedi il sito www.knesset.gov.il/laws/special/eng/basic11_eng.htm. (156) Di queste vanno citate per il loro ruolo la “Israel Military Industries Ltd.”, diventata una compagnia governativa nel 1990 e che opera nel settore della ricerca tecnologica, la “Israel Aerospace Industries” fondata nel 1953, la quale conta oltre sedicimila dipendenti e infine la “Rafael Advanced Defence System Ltd.”, impegnata nei programmi di sviluppo e nell’ingegneristica. (157) Vedi su questo, M.J. Green, The Israeli Defense Forces: An Organizational Perspective, Naval Postgraduate School, Monterey, marzo 1990, pp. 116-117. (158) Ovvero, i comandanti della zona centrale, meridionale e settentrionale unitamente a quello dell’“Home Front” che è incaricato della difesa civile. (159) Sul ruolo del “capo dello Stato Maggiore” in Israele vedi, Deterring Terror. How Israel Confronts the Next Generation of Threat, Harvard Kennedy School/Belfer Center for Science and International Affairs, Special Report, agosto 2016, pp. 29-31. (160) Si tratta di uno degli organi che più ha assunto importanza e di cui i Premier si servono nella gestione dell’attività di governo. Guidato da un “Direttore generale” (General Director), si compone di diversi uffici, tra i quali una particolare rilevanza ricoprono il “Na-tional Cyber Staff” e la “National Agency for Cyber Defense”, mentre, tra le figure al suo interno, una posizione di primo piano spetta al “Government Secretary”, che ha il compito di mantenere le relazioni tra il governo e la “Knesset”, preparare l’ordine del giorno dei lavori e implementare le decisioni prese dall’esecutivo. Infine, un ruolo importante è attribuito anche al “Military Secretary” che ha una funzione di collegamento tra il Premier e le Forze armate. (161) Sull’apparato di sicurezza israeliano vedi, J. Krasna, A Guide for the Perplexed: The Israeli National Security Constellation and its Effect on Policymaking, The Phildelphia Papers, No 17, Foreign Policy Research Institute, febbraio 2018. (162) Sulla struttura di comando delle Forze armate israeliane vedi, Security Reigns Supreme, in I. Galnoor/D.Blander, The Handbook of Israel’s Political System, Cambridge University Press, Cambridge 2018, pp. 533-619. (163) Vedi su questo, Who Can Declare War on Behalf of the Israeli People?, The Israeli Democracy Institute, 6 maggio 2018. (164) «Knesset rescinds ability of PM to declare war without cabinet approval», The Times of Israel, 17 luglio 2018. (165) Va ricordato però come i drusi, i circassi e gli appartenenti ad altre piccole minoranze sono tenuti comunque a prestare servizio militare. (166) Vedi sulla questione dell’arruolamento degli ebrei ultraortodossi e dei cittadini arabi e cristiani, Israel: Military Draft Law and Enforcement, Law Library of Congress, Library of Congress, Washington D.C., 25 novembre 2019. (167) Vedi su questo il sito https://armscontrolcenter.org/fact-sheet-israels-nuclear-arsenal/. (168) Vedi in proposito, Born, National Governance of Nuclear Weapons: Opportunities and Constraints, Geneva Centre for the Demo-cratic Control of Armed Forces (DCAF), Policy Paper No 15, anno 2007, pp. 11-12.

NOTE AL CAPITOLO VII

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127 Ottobre 2020

IL SISTEMA DI COMANDO DELLE FORZE ARMATE

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