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L'Uno e il molteplice nel giovane Palazzeschi. 1905-1915, Firenze, Società Editrice Fiorentina (SEF), 2011

Jan 10, 2023

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centro di studi «aldo palazzeschi»Università degli Studi di Firenze

Facoltà di Lettere e Filosofia

quaderni aldo palazzeschinuova serie

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La collana ospita ricerche di area italianisticacompiute da allievi della Facoltà di Lettere e Filosofia

dell’Università di Firenze, giudicate meritevoli di pubblicazionedal Consiglio Direttivo del Centro di Studi «Aldo Palazzeschi».

La Facoltà fiorentina intende in questo modo onorare la memoriae la patria sollecitudine di Aldo Palazzeschi, che l’ha costituita

erede del suo patrimonio ed esecutrice della sua volontà.

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Mimmo Cangiano

L’Uno e il molteplice nel giovane Palazzeschi

(1905-1915)

Editrice FiorentinaSocietà

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© 2011 Società Editrice Fiorentinavia Aretina, 298 - 50136 Firenze

tel. 055 [email protected]

isbn: 978-88-6032-141-1issn: 1721-8543

Proprietà letteraria riservataRiproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

In copertina: Palazzeschi con ombrellino, Marino Moretti e Miss Morrison sull’altana fiorentina (Foto Fondo Palazzeschi, Centro di Studi «Aldo Palazzeschi», Università di Firenze)

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INDICE

introduzione 11

i. gli esordi poetici: di alcune inaspettate ambiguità 15

1. L’incubo del divenire 15 2. La comunicazione sospesa: Palazzeschi crepuscolare? 18 3. Il tempo e il centro: un ossimoro 21 4. La ripetizione inutile 24 5. I simulacri: quando frana «il paradiso degli archetipi» 28 6. Lanterna: anomalie nella struttura 31 7. Le avventure della contaminazione 34 8. Parco umido (e un’idea di Sartre) 39 9. «Caduta a terra come una larva» 41

ii. :riflessi. fra identità e retorica 45

1. Le due parti di :riflessi 45 2. Unità e dissonanze 47 3. Nosce te ipsum 52 4. La svolta retorica 58

iii. poemi 65

1. Catene metonimiche di un cambiamento cromatico 65 2. Il supremo contraddittore 68 3. In fieri 70 4. Exempla ficta 74 5. Dal reale al “possibile” 77 6. Il doppio visualizzato 81

iv. pulci, frizzi, manifesti e ghiribizzi: il lato umoristico della crisi 85

1. Benedetto sia Copernico! 85

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2. Un Dio in tait 90 3. Farsi profondi: formare/deformare 93 4. Farsi profondi: amare ciò che è atroce 97 5. Il valore della differenza: Varietà 100 6. Il valore dell’agilità: Equilibrio 107

v. giocare a essere proteo: l’incendiario e le altre poesie 113

1. «il mondo gira» 113 2. Viandante nella contraddizione 117 3. La strategia dell’esclusione 125 4. La carne, il sole e un cavolo: territori del comico 131 5. La parola. Lo sguardo di Medusa 138

vi. in cerca di perelà 145

1. Preambolo sulla nemesi 145 2. L’inafferrabile Perelà 147 3. Immagini del potere e dell’amore 151 4. Il nome di Dio 156 5. I luoghi dello Stato 157 6. Villa Rosa 163 7. Imitazioni del negativo 166 8. Lo spazio rarefatto del pensiero: storia di una vendetta 169 9. «Vincitore di Dio e del nulla»: Il Codice di Perelà 173

vii. la piramide e l’interrogatorio: fra desiderio e rappresentazione 177

1. Sgambetti sull’orlo dell’Abgrund 177 2. Tertium non datur 178 3. L’io è gli altri: un soggetto prismatico 184 4. Il paradosso dell’irrealtà 188 5. Un desiderio contraddittorio 193 6. Il «succiainchiostro»: la sublimazione dialogica 197 7. Eros: un monologo performativo 201 8. L’attimo e le forme 203

Bibliografia 211

Indice dei nomi 217

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In ricordo di Guido Guglielmi

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Ringrazio anzitutto il prof. Gino Tellini che ha seguito con attenzione l’intero iter di questo lavoro nato come tesi di dottorato. Ringrazio poi i colleghi dotto-randi (sparsi ormai tra Firenze, Bologna, Roma, Trento, Parigi e Città del Messico) che, con consigli accorti e intelligenti, hanno sostenuto la mia ricerca. Un ringraziamento particolare va infine a Lodovica Nuzzo per l’ininterrotto colloquio di questi anni.

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introduzione

il paradiso è sbarrato e il cherubino è dietro di noi; dobbiamo fare il giro del mondo per ve-dere se non sia forse ancora aperto in qualche punto dall’altra parte, di dietro

Heinrich von Kleist, Sul teatro di marionette

In alcune pagine di Umano, troppo umano Nietzsche avvicina i con-cetti di crisi e di libertà1: l’avvenuta necessità di rapportarsi a un uni-verso rivelatosi improvvisamente anamorfico rivela delle possibilità inaspettate.

Quella che si prospetta è una concezione “critica” della storia (la stessa presentata in Sull’utilità e il danno della storia per la vita), una concezione in cui un presente mai eternato, ma sempre in divenire, ha il compito di trasformare incessantemente le calcificazioni (le for-mazioni) della verità.

È nell’ambito della grande crisi gnoseologica di fine ’800 che, in-dissolubilmente legata all’immagine di Proteo, l’attitudine critica sale alla ribalta ed esercita, su qualsiasi progetto unitario che miri alla ricomposizione della molteplicità, la propria azione disgregante. Ed è in seno a questa crisi che compaiono le “forme”, perché le for-

1 Cfr. Alberto Savinio, Fine dei modelli, in «La Fiera letteraria», 24 aprile, 1º mag-gio e 8 maggio 1947, ora in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Alberto De Maria, Milano, Bompiani, 1989, p. 485: «La disperazione non viene se non come conseguenza della fine dei modelli. Co-mincia ora. È cominciata. Quella disperazione che per ambizione letteraria si chia-ma angoscia. È nel nostro tempo, e precisamente in questo nostro secolo che per la prima volta si impone all’uomo la condizione di libertà. Finora si parlava di liber-tà, ma la condizione necessaria all’acquisto e alla pratica della libertà mancava. An-che l’uomo fisicamente più libero, metafisicamente era in qualche modo schiavo».

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12 l’uno e il molteplice nel giovane palazzeschi

me, che pure si oppongono al divenire, al contingente, non si dan-no senza questo: c’è bisogno che entri in crisi l’idea di totalità per-ché l’uomo possa avvertire il proprio “gesto” come un tentativo co-atto di immobilizzazione dell’esistenza.

Nella concezione critica della Storia non c’è una stazione che non nasconda l’inevitabilità di una nuova partenza. In essa niente è più disposto a lasciarsi immobilizzare e ordinare pacificamente, le cose non sono più simboli rimandanti a un principio unitario superiore che, magari anche facendo salva la loro contingenza, le giustifichi e le riempia di senso. L’uomo che costruisce forme avverte ora lo spet-tro dell’epochè gravitare sulle proprie costruzioni, ma lo spettro è ov-viamente all’interno, perché a essere minata è stata in primo luogo la certezza identitaria dell’Io. Il simbolo non può più allora riman-dare a un Universale, ma può solo sancire la propria nostalgia per la perdita di un referente in grado di conferirgli significato stabile: è a questo punto che il simbolo diventa forma.

Eppure, dovrà constatare quell’Io, è proprio ciò che alle forme si oppone a non poter esistere senza queste, perché la vita, nel suo far-si, dovrà necessariamente concretizzarsi nella sua antitesi (le forme) per essere realmente vita, e dovrà poi distruggerle sancendo nuova-mente il proprio status di transitorietà, di “possibilità”, perché la vita «crea da sé una forma che le è indispensabile ma che già solo per il fatto di essere forma è nemica del dinamismo così come dell’indivi-dualità della vita»2.

L’uomo che vede il prodursi delle forme ha per l’appunto supera-to, si potrebbe dire, il senso della realtà per quello della possibilità. Proprio quest’uomo, che è in grado di vedere la staticità della realtà, è colui che vive oltre questa staticità, è colui, cioè, che non assegna mai valenza di “essere” a ciò che sa accadere nel tempo, ed è proprio per questo che può vedere le forme. La sua libertà consiste nel “ne-gativo” che può estendere su qualsiasi opera. Per lui il reale ha perso qualsiasi ordinamento gerarchico, non vi è più il “gradino” platoni-co che separa l’ombra dalla statua, perché non vi è più la garanzia del Sole alla fine del viaggio: per lui sembra esserci solo il viaggio, per-ché quando l’illusione della meta non è più perfetta, la vita torna a

2 Georg Simmel, Sull’amore (1923), Milano, Anabasi, 1995, p. 91. Cfr. Péter Szon-di, Saggio sul tragico (1961), Torino, Einaudi, 1999, p. 59.

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introduzione 13

ogni approdo a reclamare i suoi diritti, e il tempo distrugge le forme in cui pure aveva trovato compimento.

E dunque

ecco l’uomo proiettarsi verso un avvenire, verso le cose e i momen-ti successivi di una sempre fuggente temporalità, che è illusione e delusione perpetua, perché nella chiusura di sempre nuove determi-nazioni invano si cerca di estinguere quella esigenza assoluta che ci costituisce, e che vuole un’assoluta totale risposta, incommensura-bilmente lontana dalla dispersione del finito3.

L’anima, per dirla col giovane Lukács, avverte il bisogno di una verità irreversibile, ma comprende al contempo di non essere salda, di essere precipitata e fusa nel tutto, si percepisce «conseguenza di migliaia e migliaia di onde»4:

Con la fine dei modelli e l’avvenuta autonomia della mente umana, il sentimento dell’universo è passato dal senso verticale al senso oriz zontale. Il nostro tempo vive sotto il segno dell’orizzontalità. Da qui il suo pessimismo5.

Da qui anche l’allegria palazzeschiana.

3 Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana: 1900-1943, Bari, Laterza, 1955, p. 37.

4 György Lukács, L’anima e le forme (1910), Milano, se, 2002, p. 45.5 Alberto Savinio, Fine dei modelli, in Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra

(1943-1952), cit., p. 492.

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i. gli esordi poetici: di alcune inaspettate ambiguità

i. l’incubo del divenire

Il tempo è l’organo della smentitaVladimir Jankélévitch, La menzogna e il malinteso

Comincia con un ostinato rifiuto del tempo la carriera letteraria di Al do Palazzeschi. Modulate «sulla ripetizione del piede ternario, del triplicatum trisillabum»1, secondo l’intuizione di Mengaldo, le 25 po-esie pubblicate nel 1905 riferiscono di un mondo in cui la peculiarità divenente del tempo è stata messa al bando. Non c’è sviluppo, non c’è storia, non c’è movimento nell’universo raggelato e favoloso di I cavalli bianchi2. L’assenza di temporalità è ciò che garantisce immobi-lità e stagnazione: è dalla mancanza di svolgimento che si sviluppa l’atmosfera mortifera e malsana di questo libro. L’inerzia, tematica-mente e stilisticamente congegnata da questa poesia, trova in un’eter-nità fiabesca il suo garante e spera, mediante questa, di aprirsi un var-co verso l’Essere, verso un Centro, verso un’unità impossibile a realiz-zarsi finché si resti sul terreno del divenire. Immutabilità e eternità sono concetti gemelli: escluso il tempo si schiude l’uscio all’immoto.

1 Giuliana Adamo, Metro e ritmo nel primo Palazzeschi, Roma, Salerno Editrice, 2003, pp. 59-60.

2 È ancora una volta opportuno ribadire la necessità di rifarsi alle edizioni originali delle opere di Palazzeschi al fine di evitare, come ben messo in luce da Luciano De Maria e riaffermato da altri, il voluto «gioco mistificatorio» messo in atto dall’auto-re nelle successive edizioni. Per meglio comprendere poi cosa sottintenda, a livello anti-normativo, questa accanita variantistica, rimandiamo al saggio di Gino Telli-ni, L’officina di Palazzeschi, in Le muse inquiete dei moderni, Roma, Edizioni di Sto-ria e Letteratura, 2006.

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16 l’uno e il molteplice nel giovane palazzeschi

Già Giovanni Getto nel 1940, mettendo in luce l’importanza che le forme geometriche assumono per questo Palazzeschi, aveva potu-to parlare di «una irreale fissità»3. Pressoché tutta la critica palazze-schiana si è trovata d’accordo su questo punto: Adele Dei ha parlato di un paesaggio immobilizzato e di «assenza di ogni sviluppo nar ra-tivo»4, Lepri di un’atmosfera «contrassegnata da una rarefazione del-la nozione di tempo»5 e di «eterno presente»6, Francesca Serra di «abo lizione della storia, nel senso di tempo storico, certo, ma anche di narrazione»7, Guglielmi di «uno spettacolo monotono, senza pos-sibile svolgimento»8, Bigongiari di un «battito di tempo senza tem-po»9, e questo solo per citarne alcuni.

Sui modelli, per ora determinanti, del Maeterlinck drammaturgo e delle Chanson10 e di un Pascoli11 defamiliarizzato e tenebroso, Palaz-zeschi costruisce un mondo gulliverizzato e orbicolare i cui elementi principali (viali, nebbia, cancelli, giardini, castelli, vecchi centenari e, più in generale, buona parte del repertorio liberty e decadente) con-corrono a evocare un’atmosfera straniante di attesa e di iterazione.

Impossibilitati all’azione, bloccati nel tempo infinito del presen-te non storico e del gerundio, i personaggi di I cavalli bianchi svilup-pano in grado estremo un’attitudine contemplativa. L’atto ossessivo del guardare, unica iniziativa di questo pubblico privo di nome, col-labora col ritmo cantilenante alla creazione di un vuoto oggettivo da cui sia bandita, col tempo e col movimento, la riflessione: ciò che può incrinare l’unità della coscienza.

3 Giovanni Getto, Palazzeschi poeta, in «Civiltà moderna», xiv, 3-4, maggio-ago-sto, 1942, p. 271.

4 Adele Dei, Giocare col fuoco, in Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, a cura e con in-troduzione di Adele Dei, Milano, Mondadori, 2002, p. xviii.

5 Laura Lepri, Il funambolo incosciente, Firenze, Olschki, 1991, p. 25.6 Ivi, p. 26.7 Francesca Serra, Galleria Palazzeschi, Firenze, Cadmo, 2005, p. 19.8 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta. Saggi su Palazzeschi e il Futurismo, Torino,

Einaudi, 1979, p. 97.9 Piero Bigongiari, Intervento alla tavola rotonda, nell’opera collettiva Palazzeschi

oggi, Atti del Convegno, Firenze, 6-8 Novembre 1976, a cura di Lanfranco Caretti, Milano, Il Saggiatore, 1978, p. 314.

10 Inevitabile il riferimento agli studi di François Livi in Dai simbolisti ai crepuscola-ri, Milano, Istituto propaganda libraria, 1974.

11 Numerose concordanze con i «luoghi topici» della poesia pascoliana sono state ri-levate da Paolo Febbraro in La tradizione di Palazzeschi, Roma, Gaffi, 2007.

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i. gli esordi poetici: di alcune inaspettate ambiguità 17

Mediante l’eliminazione di qualsiasi moto di sviluppo, Palazze-schi tenta di preservare se stesso dall’incubo del divenire (che è poi l’incubo del contingente). Da ciò l’invenzione di un miniaturizzato universo fiabesco e all’apparenza unidimensionale che non ammette, come Il castello dei fantocci, l’ingresso di elementi esterni che ne tur-berebbero la staticità. Questo mondo può sopravvivere solo a patto di una distanza di sicurezza dal reale e, quindi, dall’accidentalità del tempo che provoca variazioni e cambiamenti e non permette, dun-que, di prevedere (di dominare) ciò che accade, ciò che si sviluppa.

Questa la tesi che ora cercheremo di sviluppare: alla ricerca og-gettiva di un significato stabile, nel tempo circolare della fiaba e in quello eterno del mito (che sono assenza di tempo), lo scrittore ita-liano del Novecento che più ha amato la vita e la sua varietà, a ini-zio carriera ha provato a farla fuori.

È infatti la morte (la pulsione di morte che trova nel meccanismo della ripetizione la sua più sincera espressione) il vero elemento ri-corrente di questo libro: «assenza di materia, assenza di storia, assen-za d’età: tre aspetti dello stesso rifiuto, il rifiuto del tempo, del divenire»12. Mediante una letteratura separata dal movimento del-l’esistenza, Palazzeschi ha creduto, per la porta dell’atemporalità, di poter giungere a una separazione fra ciò che è definito, sicuro, e ciò che è inafferrabile: fra arte e vita13. Ma non troverà gioia e riposo in ciò. Una fiaba distorta dai suoi canoni14 e un mito ridotto a proto-collo incantato (il cui rito è più venerando perché, nietzschianamen-te, la sua origine è più lontana, più dimenticata), non fanno che ostentare un’angosciosa assenza di senso, «un processo di cruciale nichilismo»15 in cui un’oscura consapevolezza di marca pre-esisten-zialista spera di trovare in una sclerosi l’antidoto al tempo, al movi-

12 François Livi, Tra crepuscolarismo e futurismo: Govoni e Palazzeschi, Milano, Isti-tuto propaganda libraria, 1980, p. 215.

13 Fondamentale in questo senso il saggio di George Güntert, Poesia e vita in Palaz-zeschi, in «Il verri», 5-6, 1974, pp. 176-199. Guntert legge la creazione di un mondo fiabesco come volontà di un universo sottratto al tempo e alla storia e indica l’atem-poralità come sintomo di una rottura fra arte e vita, «fra ogni tipo di forma e l’in-forme inafferrabile della vita».

14 Cfr. Adele Dei, Giocare col fuoco, in Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. xviii: «I pallidi figli del re non compiono nessuna impresa, non conquistano reami, né liberano alcuna principessa, ma si consumano in un’inutile, eterna attesa».

15 Antonio Saccone, L’occhio narrante, Napoli, Liguori, 1987, p. 14.

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18 l’uno e il molteplice nel giovane palazzeschi

mento16. Ma questo, nello iato che si crea tra la fissità delle forme ge-ometriche e il difetto di significazione, si dimostrerà (per ora dolo-rosamente) più forte di ogni forma di barriera, di ogni Cancello, di ogni Diaframma (sempre più evanescente).

2. la comunicazione sospesa: palazzeschi crepuscolare?

Mi duole pertanto, osservare che, talvolta, la rievocazione di alcune imagini, la rappresentazione di alcuni gesti non corrisponde al sen-timento del lettore il quale indubbiamente ne vorrebbe trarre espres-sioni più vive e più impressionabili17.

Corazzini, pur designando come «fraterno» lo spirito di Palazzeschi, sottolineava «le sue riserve di crepuscolare nei confronti di una liri-ca che elude ogni situazione discorsiva legata al circolo mittente-ricevente»18. Benché a lungo si sia ritenuto di poter inserire la pri-missima produzione palazzeschiana in ciò che Piero Pieri ha defini-to «il luogo crepuscolare», motivando questa scelta su affinità tema-tiche e su quella che effettivamente è una comune tradizione anti-dannunziana19 e d’ascendenza fiamminga, negli ultimi anni questa etichetta si è pian piano sfaldata: numerose voci, per ragioni diverse, si sono levate contro questa classificazione generica:

Se crepuscolarismo significa riduzione dell’Io come modo di reagi-re all’inflazione che caratterizza l’Io romantico e d’annunziano […], se significa al contempo riduzione del mondo, degli oggetti, trascel-ti questa volta in ambiti modesti e quotidiani, se significa infine ri-

16 È da notare, secondo Saccone, come anche il moto assoluto, nel caso della poesia La lancia, sia sottoposto a una inflessibile invariabilità: il suo movimento infatti non indicherebbe progresso e avanzamento, ma solo ripetizione perenne di uno stesso atto. Lo stesso discorso può essere fatto per la poesia Il cancello dove la tem-poralità sì interviene, ma in modo del tutto “prevedibile” e ciclico: «Ogn’anno a quel grande cancello | s’aggiunge una nuova colonna di ferro». È dunque ipotizza-to un futuro della storia, ma si tratta di un futuro che non ammette deviazioni ri-spetto all’eterno presente narrato.

17 Sergio Corazzini, A traverso lo smeraldo, in «Sancio Panza. Quotidiano illustra-to», 11 Marzo 1906, poi in Filippo Donini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, Tori-no, De Silva, 1949, p. 141.

18 Piero Pieri, Ritratto del saltimbanco da giovane, Bologna, Patron, 1980, p. 35.19 Per primo Borgese parlò di «rimasugli di una sontuosa cena dannunziana», in Stu-

di di letterature moderne, Milano, Treves, 1915, p. 81.

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i. gli esordi poetici: di alcune inaspettate ambiguità 19

duzione della parola […], non vedo come si possa se non per qual-che aspetto esterno […], nel caso dei cavalli bianchi, parlare di un Palazzeschi crepuscolare20.

Contraddetta da un’elaboratissima partitura stilistica la dichiara-zione autoriale di una poesia ultra-semplice, I cavalli bianchi, pur mo dulando a loro modo il comune repertorio tardo simbolista, si di-stanziano radicalmente da quella corrente letteraria per tre principa-li motivi (che concorrono inoltre a spiegare il senso dell’intera ope-razione di questo Palazzeschi): anti-soggettivismo, assenza di un uso «psicologico-confessorio»21 del materiale crepuscolare, «opacità di significazione»22, vale a dire inafferrabilità cognitiva del tema narra-to, che tende a rafforzare nel lettore (mediante questa comunicazio-ne incompleta) la percezione di un significato (di un fine) vacante.

L’eliminazione della prima (e della seconda) persona si caratteriz-za come esclusione di una verità affermativa che però, in quanto in-dividuale, metterebbe da subito in mostra la propria parzialità. L’uti-lizzo di una strategia oggettiva e impersonale se da un lato estromet-te il tipico realismo finto-patetico e psicologico di marca crepusco-lare, dall’altro, esibendo un punto di vista che resta distante, contri-buisce a creare quell’atmosfera di congelamento e di assenza di tem-po di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. L’oggettività è insomma la strada obbligata per un libro come I cavalli bianchi: il ri-fiuto di una poesia che fa perno «sul rapporto psicologico-morale-estetico dell’Io con le cose a lui esterne»23, rapporto arbitrario e mu-tevole, permette la continua creazione di precise funzioni e ritualità dominate da un «demone della ripetizione»24 che, stante la premes-sa di una mancanza di senso, è per ora visto come un vero e proprio meccanismo terapeutico, una «mitoterapia»25 (e, insieme, una “stra-

20 Luciano De Maria, Palazzeschi e l’avanguardia, Milano, Scheiwiller, 1976, p. 11.21 Antonio Saccone, L’occhio narrante, cit., p. 16.22 Anthony Julian Tamburri, La poesia ossimorica di Palazzeschi, nell’opera colletti-

va La «difficile musa» di Aldo Palazzeschi. Indagini, accertamenti testuali, carte inedi-te, a cura di Gino Tellini, in «Studi italiani», xi, 1-2, gennaio-dicembre 1999, p. 81.

23 Piero Pieri, Ritratto del saltimbanco da giovane, cit., p. 28.24 Giuseppe Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, Palermo,

Flaccovio, 1979, p. 33.25 L’espressione viene usata da John Barth nel romanzo La fine della strada (1958),

Roma, Minimum Fax, 2004.

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20 l’uno e il molteplice nel giovane palazzeschi

tegia di contenimento”) che, eludendo nel proprio formarsi i movi-menti e le accidentalità del soggetto psicologico, spera di giungere alla conciliazione (conciliazione forzata?) del significato univoco, che inevitabilmente annullerà la molteplicità che riflessione e “pro-ble ma tizzazione”26 avrebbero portato in campo.

L’io scrivente non si pone su un piano diverso rispetto alle cose che narra, ed è proprio la conseguente mancanza di un momento va-lutativo e meditativo a creare un vuoto di significato e a escludere, dunque, la possibilità di una comunicazione referenziale. Lo sguar-do, unico strumento lasciato al lettore, non permette una cognizio-ne esauriente. Ci si trova così di fronte a delle «poesie iceberg»27, dove la parte emersa del testo non permette in ogni caso la compren-sione sicura di ciò che è rimasto non-scritto, non-visibile:

Tale opacità o, se si vuole, mancanza di comunicazione, è una stra-tegia narrativa […]. Ciò che appare come denominatore comune della prima poesia palazzeschiana è la sua ars narrandi inconcluden-te. […] Non offre […] tutte le informazioni necessarie […] che per-mettano al lettore di comprendere28.

E ci si trova dunque, diversamente rispetto ai crepuscolari, di fron te a una parola “insignificante”, lontana dal tessuto comunicati-vo ma non per questo potenziale (come sarà nel Palazzeschi succes-sivo), bensì vuota, relitto di se stessa (come vedremo nei paragrafi se-guenti). Se l’Io titanico del superuomo dannunziano era stato teso a fare del mondo espressione di sé, se il rimpicciolito Io crepuscolare aveva in sé recuperato le contraddizioni del soggetto borghese, rifiu-tandosi di fare dell’arte «il luogo consacrato del Bello e del Sublime attraverso il quale dotare una classe, economicamente violenta, di una trasfigurante aureola»29, l’esclusione dell’Io messa ora in atto da Palazzeschi è da definirsi come tentativo regressivo di superare le an-tinomie della propria “coscienza infelice”, tentativo che, in virtù del proprio esito fallimentare (di ciò che, ora vedremo, è l’incoerenza di

26 Utilizziamo questo termine nell’accezione impiegata da György Lukács in L’ani-ma e le forme.

27 François Livi, Tra crepuscolarismo e futurismo: Govoni e Palazzeschi, cit., p. 204.28 Anthony Julian Tamburri, La poesia ossimorica di Palazzeschi, nell’opera colletti-

va La «difficile musa» di Aldo Palazzeschi, cit., pp. 81-82.29 Piero Pieri, Ritratto del saltimbanco da giovane, cit., p. 10.

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questo libro), può essere letto come uno straordinario inno al rove-scio al movimento e alla differenza, all’Equilibrio e alla Varietà.

Questa comunicazione interrotta infatti, impedendo la facoltà interpretativa del lettore (ma soprattutto del personaggio), sospende la creazione di significato e, come la statua di Oro, Doro, Odoro, Do-doro, lascia un centro vuoto che una ripetizione, seppure infinita, è incapace di colmare: un centro vuoto che non ha da comunicare nulla se non la propria assenza.

3. il tempo e il centro: un ossimoro

I mistici pretendono di avere, nell’estasi, la rivelazioned’una camera circolare con un gran libro circolaredalla costola continua che fa il giro completo dellepareti; ma la loro testimonianza è sospetta; le loro

parole oscure. Questo libro ciclico è Dio.Jorge Luis Borges, Finzioni

La vasca è assai grandee l’acqua v’è fonda quattr’uomini almeno,si dice vi sono le anguille.Sta intorno nel giorno la gente a pescare a la canna.Son grosse le anguille,più grosse di un bimbo fasciato, si dice,sta intorno nel giorno la gente a pescare a la canna.Son buone le anguille,più buone del pane e del miele, si dice,sta intorno nel giorno la gente a pescare a la canna30.

La vasca delle anguille presenta una costruzione geometrica tipica del primo Palazzeschi. Regolata su un singolo verso ritornante che, da copione, sottolinea l’assenza di una narrazione in divenire (di un re-ale svolgimento dell’azione), la poesia viene giocata sulla coppia op-positiva dentro-fuori, interno-esterno. Abbiamo infatti da un lato la presenza di ben due circonferenze (la gente intorno alla vasca e la va-sca stessa), dall’altro la comparsa di un centro enigmatico e deside-rato che conterrebbe un oggetto di eccezionale valore (fiabescamen-

30 Aldo Palazzeschi, La vasca delle anguille, in I cavalli bianchi (1905), in Tutte le poe-sie, cit., p. 23.

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te un «tesoro») che gli uomini ardentemente bramano e che il solito impersonale «si dice» ha reso concretamente reale.

La presenza di un nucleo vuoto, vietato o comunque incompren-sibile è costante nella produzione giovanile di Palazzeschi: la croce della poesia eponima si trova a un «crocicchio»31 di vie; nella poesia Il cancello il castello che fa da centro è circondato dalla circonferen-za disegnata dal Signore nel suo giro sulla «carretta»32 («Lo portano attorno due monache nere | attorno al castello che è in mezzo al piazzale»33); La fonte del bene è al centro di un prato, circondata dal-la gente e adombrata dagli onnipresenti cipressi; in La voce dell’oro «il pozzo profondo»34 contenente il tesoro è anch’esso circondato da cipressi; il corpo de «la vecchia»35 di L’orto dei veleni è al centro del suddetto orto circondato da un muro, fiabescamente miniaturizzato in altezza di «tre spanne»36, e a sua volta circondato da una via; Ara, Mara, Amara le troviamo in un prato all’ombra dei soliti cipressi; in mezzo alla valle è Il tempio pagano; la nicchia dove si trovava la sta-tua centrale di Oro, Doro, Odoro, Dodoro è circondata dai quattro uomini e «cinta dagli alti cipressi»37; «lo spino fiorito»38 di Il manto è posto sotto una campana di vetro attorno alla quale «s’aggiran tre vecchie»39 a loro volta operanti in un Santuario «recinto da un muro rotondo»40.

Il centro in I cavalli bianchi ha in definitiva una funzione emi-nente: si caratterizza come luogo di un enigma che non troverà so-luzione. Di questo centro “impossibile” (e dell’ostacolo che quasi sempre c’è fra esso e l’occhio di chi guarda: un muro, un cancello, una finestra) si giova infatti, come già detto, l’interruzione del circo-lo comunicativo che, paralizzato in una inutile tautologia (formale, linguistica e temporale), non permette la formazione di una signifi-cativa risposta. Se una trascendenza, un atto di critica, è possibile

31 Id., La croce, ivi, p. 7.32 Id., Il cancello, ivi, p. 8.33 Ibidem.34 Aldo Palazzeschi, La voce dell’oro, ivi, p. 11.35 Id., L’orto dei veleni, ivi, p. 14.36 Ibidem.37 Aldo Palazzeschi, Oro, Doro, Odoro, Dodoro, ivi, p. 22.38 Id., Il manto, ivi, p. 25.39 Ibidem.40 Ibidem.

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per il lettore di I cavalli bianchi (in quanto costui, essere vivente nel tempo storico, necessariamente si distanzierà dalla forma chiusa del-l’opera d’arte), è impossibile per i personaggi di I cavalli bianchi. Questi infatti, sclerotizzati in un mondo in bilico fra una ostile «as-senza di centro»41 e una ripetizione costante (che infattibilmente, come vedremo nel prossimo paragrafo, cerca di surrogare questa as-senza, di trovare dunque un fine), continuano a rifiutare la soluzio-ne del paradosso (della contraddizione, del negativo) pur avverten-do (e l’impossibilità di un centro sta lì a dimostrarlo) che il mondo si è fatto plurale e che è proprio la ricerca dell’univoco, del definiti-vo, dell’incontrovertibile, del senza-tempo a produrre una tragica vacanza del significato:

In fondo al viale profondo è la nicchia gigantech’è cinta dagli alti cipressi.La statua fu tolta nei tempi lontani.La luna risplende sul bianco lucente del marmoche sembra poggiarsi sul nero profondodegli alti cipressi.Vi sono alla basequattr’uomini avvolti nei neri mantelli.Si guardan fra loro in silenzio,non muovono un dito42.

La mancanza dell’oggetto centrale impedisce una “conciliante” comprensione del testo, ciò però non provoca, come sarà per il Pa-lazzeschi successivo, una condizione di apertura (vale a dire una pro-liferazione di opinioni), ma una glaciazione dominata da una do-manda a cui non può esserci risposta. L’invocata assenza di tempo-ralità, questo il punto, non ci conduce realmente al tempo mitico delle certezze, ma a un mito ridotto a simulacro di se stesso (e di rito senza mito ha parlato Guglielmi).

È questa l’antinomia su cui si fondano I cavalli bianchi.Detto banalmente, se è il divenire a impedire la formazione di

una verità definitiva, di un centro, perché, una volta costretto il tem-po nella ripetizione eterna del presente e del gerundio, questo cen-tro continua a essere inammissibile?

41 Adele Dei, Giocare col fuoco, in Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. xviii.42 Aldo Palazzeschi, Oro, Doro, Odoro, Dodoro, ivi, p. 22.

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Ecco allora che questa mancata coerenza di I cavalli bianchi pro-duce una poesia ossimorica dove il costante tentativo di «ricondurre la vita alla morte»43, alla sicura immobilità, è in contrasto con la so-spensione del senso che l’assenza di un centro provoca: dove dovreb-be esserci solo una quieta risposta vi è un’ambigua domanda che fa rientrare il tempo44 (e la contraddizione) dalla porta di servizio. Det-to in altro modo: il riparo che Palazzeschi si è costruito è ben lungi dall’essere protettivo. L’impalcatura di questo riparo45, la ripetizione, è esorcismo vano contro la coscienza del divenire: «essere altro ri-spetto a se stessi, essere ciò che non si è»46.

4. la ripetizione inutile

La molteplicità […] è risorsa, apertura ma anche sfida, problema, con-flittualità…la sua dimensione al negativo non va trascurata perché può comportare vissuti drammatici47.

I cavalli bianchi sono un libro contro la molteplicità scritto in aper-tura del secolo per eccellenza molteplice? Come abbiamo visto sì e no. Perché se è pur vero che si tratta di un’opera tesa all’abolizione della varietà, è anche, a causa della contraddizione su cui è fondata, un recupero per vie traverse della possibilità di una pluralità48 (che si svilupperà infatti a partire dalla seconda parte di :riflessi).

La perdita di riferimenti stabili ha posto in crisi l’idea di una de-finizione univoca dell’identità del soggetto in luogo di «un’identità come realtà polimorfa»49. I cavalli bianchi, prima parte del palazze-

43 Giuseppe Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, cit., p. 36.44 Al tempo si lega per ora una vera e propria «cognizione del dolore», in quanto il tem-

po è ciò che nega la possibilità dell’affermazione-creazione di un “essere-valore”.45 È opportuno ribadire che l’idea di riparo, di sicurezza (il gaddiano “contenimento”),

è affine all’idea di “padroneggiamento”, finalizzata, freudianamente, all’assunzione di un ruolo attivo (demiurgico) da parte del soggetto nella regressione dell’arte.

46 Vladimir Jankélévitch, La menzogna e il malinteso (1940), Milano, Raffaello Cortina, 2000, p. 13.

47 Silvia Leonelli, Molteplicità. L’identità personale tra narrazione e costruzione, Bo-logna, clueb, 2003, p. 133.

48 La via che distrugge il campo delle definizioni per aprirlo a quello delle interpreta-zioni.

49 Silvia Leonelli, Molteplicità. L’identità personale tra narrazione e costruzione, cit., p. 18.

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schiano «romanzo familiare», vivono di quel bisogno primario di «solidità minimale»50 tracciato da Jervis. La scelta di un tempo miti-co, l’opzione a favore dell’oggettività, la coazione a ripetere che do-mina l’opera, remano tutte in questa direzione: sono proiettate alla costruzione di un monolite che, nell’esclusione di qualsiasi elemen-to proveniente dall’esterno, garantisca la stabilità, la staticità.

In particolare l’attitudine palazzeschiana alla ripetizione può es-sere considerata, come ha fatto Savoca sulla scorta di quel work in progress che è Al di là del principio del piacere, un vero e proprio mec-canismo teso, mediante il controllo sulle cose che la ripetizione com-porta, a salvaguardare le istanze immobilistiche della pulsione di morte51:

siamo stati sempre abituati a considerare la pulsione come un fatto-re che porta a mutamento e sviluppo, mentre ora dobbiamo ravvi-sarvi precisamente l’opposto, cioè l’espressione della natura conser-vatrice della sostanza vivente52.

La tendenza all’Unità è l’inclinazione propria del soggetto pri-mo-novecentesco, costretto a barcamenarsi fra la scomparsa dei pre-supposti che giustificavano il reale e la nostalgia dell’Assoluto che proprio la scomparsa di questi presupposti (di questi “modelli”) comporta53. Reazione a un vuoto ontologico che diventa dilemma

per tutti i simbolismi europei, in versi o in prosa che siano, di nuo-vo improvvisamente intrigati nella definizione dell’Assoluto, o al-meno in un avvicinamento ad esso per via estetica. Ma lo è, anche, per qualsiasi estetismo, per qualsiasi totalizzazione del bello che

50 Giovanni Jervis, La conquista dell’identità, Essere se stessi, essere diversi, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 33.

51 Anche la coazione a ripetere connaturata al “gioco” deve essere, a nostro giudizio, criticamente ascritta a una inconscia volontà di immobilizzazione: il piacere ricava-to dal gioco consiste infatti, secondo Freud, nel ritrovamento del già noto, consiste dunque (come ben spiega il «gioco del rocchetto») nel tentativo di farsi, per così dire, padroni della situazione al fine di eliminare la possibilità dell’imprevisto, al fine di creare un ordine le cui conseguenze siano prevedibili, al fine di abolire il do-minio del contingente.

52 Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere (1920), a cura di Alfredo Civita, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 91.

53 Non è venuta meno la realtà, dirà Baudrillard, è venuto meno ciò che giustificava la presenza della realtà.

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aspiri a diventare un sia pur precario principio di realtà; e lo è per ogni forma di protagonismo dell’io (…). Lo è infine per quasi tutti i tipi di opzione naturalistica, per quelle opzioni cioè che dietro la cancellazione del soggetto nascondono l’istituzione della realtà come valore, come principio sostanziale54.

Ma questa tensione all’Unità, questa tensione alla ricomposizio-ne, non è esattamente il tentativo di sentirsi nuovamente immobili, saldi? Non è dunque il mito di una ormai impossibile esperienza tra-gica finalizzata a realizzare la morte in vita? Finalizzata, freudiana-mente, al ripristino di uno stato anteriore a quello organico median-te la soppressione di ogni tensione energetica?55 Se è un principio di piacere a dominare questa scrittura palazzeschiana, esso, ci sembra, non può che identificarsi con quel principio di nirvana proposto da Barbara Low, vale a dire la tendenza a ridurre qualsiasi tensione in-terna, ma questa tendenza viene per l’appunto da Freud stesso attri-buita alle pulsioni di morte56.

Thanatos è riposo, ma è soprattutto certezza, è il disambiguo, è il senza-tempo, ed è, in vita, l’ipotetica condizione di immobilità che permette la conoscenza e la verità. Questa la realtà terribile che in quegli anni emerge, ad esempio, dai drammi di Ibsen: un’utopia di stabilità, dunque un desiderio di significato, è in fondo un’utopia di morte57.

54 Stefano Giovanardi, Pirandello e il decadentismo: un incontro preistorico, nell’ope-ra collettiva Pirandello e la cultura del suo tempo, a cura di Stefano Milioto e Enzo Scrivano, Milano, Mursia, 1984, p. 132.

55 In questo senso potremmo leggere anche la persistenza delle figure «bianche»: non un elemento di positività, ma un ulteriore indizio della liquidazione di Eros; figure positive solo in quanto allusive, come scrive Gianni Celati a proposito dei pierrot, a un «al di là delle passioni e dei colori delle passioni», in Finzioni Occidentali, To-rino, Einaudi, 1975, p. 75.

56 In seguito, rendendosi conto che questa concezione rischiava di far pendere terri-bilmente la psiche umana dal lato delle pulsioni di morte, Freud modificherà le sue ipotesi arrivando a considerare le pulsioni di morte come interne al principio del piacere, una momentanea narcotizzazione di quel principio (una “differenza” in esso), che definirà, per l’appunto, principio di nirvana. Ma questa nuova teoria non produrrebbe modifiche sostanziali ai fini del nostro discorso. Cfr. Camille Du-moulié, Il desiderio (1999), Torino, Einaudi, 2002, p. 108: «Freud deve riconoscere che la pulsione di morte è la più conforme all’essenza della pulsione, il cui ruolo è quello di ricondurre tutto a uno stato preesistente e il cui orizzonte temporale è la ripetizione».

57 Cfr. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina (1882), Milano,

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Le vicende di I cavalli bianchi, costruite sull’assenza di tempo narrativo, procedono «con una sorta di automatismo meccanico, se-condo leggi ignote, indotte forse dalla stessa inerzia della ripe ti zio-ne»58. Il loro svolgersi all’interno di un tempo mitico e ripetitivo conferisce ai gesti dei personaggi una durata eterna. Valga come esempio di quanto detto La casa di Mara:

La casa di Mara è una piccola stanza di legnoche a lato un cipresso l’adombranel mezzo del giorno.Davanti vi corrono i treni.Seduta nell’ombra dell’altro cipressosta Mara filando.La vecchia à cent’anni.E vive filando in quell’ombra.E i treni le corron veloci davantiportando la gente lontano.Ell’alza la testa un istantee presto il lavoro riprende.E i treni mugghiando s’incrociandinanzi a la casa di Mara volando.Ell’alza la testa un istantee presto il lavoro riprende59.

Impersonalità del narrato, ripetizione metrica scandita dalla «mensurazione trisillabica; contiguità di lessemi acusticamente simi-lari, richiamati fra loro per mezzi di nuclei fonematici particolar-mente insistiti; ripresa a distanza di sintagmi o di interi versi, orga-nizzati nella sigla del refrain»60: tutto concorre, nel principio della ri-petizione, a sottolineare l’assenza di movimento61 (fatta eccezione per quei movimenti a loro volta ciclici e ripetitivi).

Adelphi, 2005 p. 255: «Volontà di Verità – potrebbe essere un’occulta volontà di morte».

58 Adele Dei, Giocare col fuoco, in Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. xv.59 Aldo Palazzeschi, La casa di Mara, ivi, p. 30.60 Antonio Saccone, L’occhio narrante, cit., p. 21.61 Cfr. Giuseppe Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, cit., p.

24: «La paratassi, con le sue limitate varietà di inversioni e spostamenti all’interno di contesti sempre brevi, presiede a un mondo linguistico bloccato e chiuso, a cui i giochi delle ricorrenze foniche, ritmiche e lessicali sono incapaci di dare mobilità e vita, concorrendo anzi a un effetto di fissità assoluta».

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La reiterazione è, per questo Palazzeschi, un congegno regressivo che serve da meccanismo di difesa: essa concorre con la paralisi tem-porale (di cui è a un tempo causa e effetto) a produrre la sensazione di un mondo impermeabile alla differenza, saldamente chiuso nella sua ineluttabile inalterabilità, che dovrebbe essere, secondo quanto finora detto, garanzia di un inamovibile significato.

Eppure non c’è nessun senso, c’è anzi «un’impotenza del si gni-ficato»62. Il centro impossibile destabilizza infatti l’intera opera-zione palazzeschiana, rende vana la sua pretesa di certezza e fa di-ventare inutile, indifferente, qualsiasi ripetizione63: dove dovreb-be stagliarsi inattaccabile la verità vi è il riso beffardo della con-traddizione.

5. i simulacri: quando frana «il paradiso degli archetipi»64

È pericoloso smascherare le immagini, giacchédissimulano che dietro non c’è niente.Jean Baudrillard, Simulacri e impostura

Laddove le vie fan crocicchio,poggiata a un cipresso è la Croce.Sul nero del legno risplendono i numeri bianchi:ricordo del giorno.La gente passando si ferma un istantee sol con due dita toccando leggero quel legno,fa il Segno di Croce65.

La croce apre la raccolta sul motivo di una mancanza, di un abban-dono, rimanda forse a una remota assenza di Dio: ne resta il simu-lacro, decaduto e incongruo, istoriato da caratteri quasi cabalistici

62 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 95.63 Estremamente interessanti a questo proposito le riflessioni di Laura Lepri sull’uti-

lizzo del relativo “che” a proposito di testi come La ferita del silenzio, Il figlio di un re, La casa di Mara. Secondo la Lepri l’utilizzo del relativo non solo porterebbe alla destabilizzazione sintattica di luoghi e gerarchie logiche, ma inficerebbe la stessa immobilità temporale fondata sulla ripetizione. In Il funambolo incosciente, cit., pp. 26-27.

64 L’espressione viene utilizzata da Mircea Eliade in Il mito dell’eterno ritorno, Tori-no, Borla, 1968. Dello stesso autore si veda anche il saggio Il simbolismo del «Cen-tro», in Immagini e simboli (1952), Milano, Jaka Book, 1980.

65 Aldo Palazzeschi, La croce, in I cavalli bianchi, in Tutte le poesie, cit., p. 7.

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[…], e il segno della croce della gente è un frettoloso scongiuro ri-tuale66.

Feticci, maschere, apparenze larvali, fantocci, manichini, costru-zioni architettoniche fondate esclusivamente sulla propria auto-refe-renzialità, gesti stilizzati di cui da tempo immemorabile si è perso il contenuto semantico: ecco il cosmo di I cavalli bianchi.

Un mondo edificato sull’assenza di un referente, un mondo che si restituisce al lettore apparente compiuto in se stesso ma privo di un fine, non è un mondo che consiste nel proprio “essere”, ma solo il simulacro di un mondo, la ripetizione «di cose già avvenute infini-te volte»67.

I cavalli bianchi sono una simulazione che, manifestando l’assen-za di un ordine anteriore a sé68, manifestando dunque «l’oblio dei processi che la costituiscono»69, si auto-smaschera in quanto simula-zione.

Nel tempo dell’eterno presente del mito (e di quella sua variante attenuata che, secondo Lévi-Strauss, è la favola) il senso si palesa nel-la sua interezza, si dà come esperienza unificatrice, sacra e vera. Me-diante meccanismi come la soppressione del divenire e il congegno della ripetizione Palazzeschi si riappropria apparentemente di questo mondo unidimensionale, ma l’apparizione di un centro impossibile e la disseminazione (a tutti i livelli dell’opera, anche a quello lingui-stico70) di oggetti e segni che sottolineano la scomparsa dei propri referenti, rileva l’impossibilità di questa operazione:

Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo c’è rimasto? forse quello apparente?… Ma no! col mondo vero abbiamo elimina-to anche quello apparente!71

66 Adele Dei, Giocare col fuoco, in Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. xiv.67 Mario Perniola, Fenomeno e simulacro, in La società dei simulacri, Bologna, Cap-

pelli, 1980, p. 65.68 Cfr. Jean Baudrillard, Simulacri e impostura, Bologna, Cappelli, 1980, p. 18: «Un

ordine di simulacri si sostiene solo sull’alibi dell’ordine anteriore».69 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 54.70 Il ritmo stesso, lo stile derivato dal simbolismo, sono stereotipi, sono dunque

anch’essi simulacri. Così come simulacri sono le citazioni tratte da San Francesco e apprezzate da Corazzini: si tratta sempre di materiale desemantizzato, portato fuo-ri dai suoi binari di partenza.

71 Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (1888), Milano, Adelphi, 2008, p. 47.

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Cos’è infatti un simulacro? È una larva che si riappropria dell’ori-ginale, ma non assurge in ciò alla coscienza di sé, a un essere, ma ri-vela solo la propria nostalgia di un referente perduto. Simulare signi-fica sempre infatti rinviare a un’assenza, far finta di avere qualcosa che in realtà non si ha. E cos’è che non si ha più? Non si ha più «un livello assoluto del reale»72, vale a dire non si ha più un referente che giustifichi la presenza del reale, e se questo reale si dimostra ingiusti-ficabile (privo di significato), la stessa simulazione che da quel reale discende sarà vacante di senso.

Detto in altro modo, quando «Dio è morto» le cose che si vorreb-bero cogliere in se stesse, nella loro essenza, diventano copie di un mo-dello che si è ormai irrimediabilmente dissolto: «l’illusione non è più possibile, perché non è più possibile il reale»73, allora la simulazione diventa il palcoscenico di un significato desiderato ma inafferrabile.

Gli oggetti e le presenze di I cavalli bianchi sono oggetti e presen-ze di secondo grado, fanno riferimento a archetipi ormai dissolti, a un passato ormai fatalmente dimenticato: a che fine passeggiano Le fanciulle bianche «pel grande giardino»74? Cosa aveva da dirci «il folle»75 di Il pastello del sonno? Chi sta aspettando La figlia del sole? Non lo sapremo, perché è intimamente legata alla comparsa dei si-mulacri la sottrazione di un senso: è loro caratteristica, come detto, la messa a morte di ogni referente.

L’enigma di questo libro consiste allora nell’assenza di enigma (cioè nell’assenza di una soluzione veritiera di questo), c’è anzi addi-rittura una simulazione (un simulacro) dello stesso enigma. La di-stanza incolmabile dalle esperienze di un tempo mitico, quella di-stanza che fa emergere i simulacri, proclama la fine della Verità (non c’è infatti più nessun archetipo, nessun modello, a garantirla) e sot-tolinea dunque implicitamente il rientro di un tempo in divenire nell’opera (quel divenire che è l’inconscio stesso del testo).

Si può allora dire che Palazzeschi ha parodizzato il suo stesso pro-dotto artistico, lo ha parodizzato rendendolo ambiguo, incoerente. Probabilmente non volontariamente, sicuramente non per le stesse

72 Jean Baudrillard, Simulacri e impostura, cit., p. 69.73 Ibidem.74 Aldo Palazzeschi, Le fanciulle bianche, in I cavalli bianchi, in Tutte le poesie, cit.,

p. 27.75 Id., Il pastello del sonno, ivi, p. 19.

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ragioni per cui renderà non-univoche le opere che compariranno di qui a qualche anno: dalle ceneri degli archetipi e dei simulacri nasce-rà infatti la consapevolezza dell’umorista, la coscienza di chi sa di esistere nel tempo, nel luogo dove trionfano le antinomie.

6. lanterna: anomalie nella struttura

Si sviluppano fra continuità e innovazione le 15 poesie di Lanterna (1907). Permangono diverse tematiche proprie del libro precedente e alcuni testi sono in diretta correlazione con altri di I cavalli bian-chi (Festa grigia richiama ad esempio Il pastello del tedio, A palazzo Oro Ror rievoca Diaframma di evanescenze). Persiste il ritmo triadi-co, resta il meccanismo dei rimandi intratestuali, la ripetizione insi-stita di lessemi e interi versi. Resistono inoltre quelli che possiamo ormai riconoscere come tratti tematici distintivi di questo Palazze-schi: i personaggi bloccati in un incongruo cerimoniale privo di re-ferente semantico (si veda ad esempio La veglia delle tristi), la perdi-ta del contesto storico che permetterebbe di decifrare i gesti da ma-nichini di alcune figure (fatalmente avvinte alla costrizione di un ruolo), l’iterazione ossessiva e illogica di questi gesti, la presenza di un centro irraggiungibile o comunque incomprensibile.

Eppure Lanterna è un libro diverso dal suo antecedente, le novi-tà che l’autore introduce destabilizzano (in alcuni testi irrimediabil-mente) quella ieraticità all’apparenza inattaccabile propria di I caval-li bianchi.

La scenografia è più affollata, più fastose sono le decorazioni, gli arredi. Viene meno l’atmosfera rarefatta, tende a cedere quell’aura di inalterabilità fiabesca a tutto vantaggio di un “realismo” che, com-plice l’uso della rima e «della filastrocca infantile sotto la forma del-l’elenco»76, acquisisce tratti che aprono al grottesco. Si rafforza l’ele-mento narrativo, il crepuscolarismo viene ormai palesemente ironiz-zato (Il passo delle nazarene), l’introduzione di un dialogo che guar-da al teatro trasforma talvolta il silenzio della “gente” in «un nutrito fuoco d’imprecazioni, d’insulti, di beffe»77, elemento punitivo che sottintende lo spettro di una minaccia e di una colpa.

76 Giuseppe Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, cit., p. 49.77 François Livi, Tra crepuscolarismo e futurismo: Govoni e Palazzeschi, cit., p. 227.

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Il mondo chiuso di I cavalli bianchi appare in definitiva contami-nato dall’esterno, alcuni elementi, penetrandovi, ne hanno messo in crisi la struttura. Quel centro che avrebbe dovuto porsi come garan-zia di unità ha invece costretto, causa la propria vacuità, a un’inter-pretazione, aprendo dunque la strada al molteplice: l’assenza di sen-so si rivela nascita del polisenso. A questo proposito esemplare è una poesia come Torre burla:

È proprio nel mezzo alla valle,non alta, rotonda, nerissima,à piatta la cima:né porta né foro vi luce.La valle, grandissima valle,abonda di fango,i fiori, pochissimi,vi nascono grassi e sbiaditi,le ortiche vi crescono alte.Nel mezzo, non alta, rotonda,come ombra, padrona superba del pianola Torre rimane.La sera, ogni sera, al tramonto,ognuno s’appressa e n’ascolta il romore,romore che tutti ormai sanno:voltare di foglio,voltare leggero di foglio.Ognuno ne ascolta,la sera, il romore e si guarda.– Si legge là dentro!– Si legge una pagina al giorno!– Chi legge?– Qual libro?– È un vecchio che legge,un vecchio con barba bianchissima!Il libro racconta una storia…– La storia dev’essere lunga,da tanto è il voltare di foglio!– È un giovine invece che legge,un bimbo coll’ali dorate!La storia è assai breve,ma è scritta una sola parola ogni foglio!– Il Sole vi legge!È il libro del Sole!

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La sera al tramonto è il voltare di foglio.La sera col lieve spirare dell’ultimo raggio!E invece lo scritto è piccino e fittissimo,neppure le lenti potenti lo fanno capire! –Oh! È lunga la storia, assai lunga!Ognuno ne ascolta la sera il voltare di foglio78.

La situazione di partenza è tipica del Palazzeschi di I cavalli bian-chi: ci troviamo davanti a un centro, la Torre che è «proprio nel mezzo alla valle», un centro ermeticamente chiuso («né porta né foro vi luce»). L’idea di un centro inaccessibile presuppone come da copione l’impossibilità di svelare l’essenza, la verità che quel centro contiene, che quel centro è. Altro elemento ricorrente è natural-mente l’appressarsi della «gente» a quel centro. Abbiamo però due decisive novità rispetto al libro precedente: in primo luogo il pae-saggio in cui la Torre si staglia non è più un paesaggio asettico e mortifero, la valle, è detto chiaramente, «abonda di fango» (sull’im-portanza di questo fattore ritorneremo in seguito leggendo Parco umido, per ora diciamo soltanto che il fango, in quanto elemento vischioso, in quanto elemento transitorio fra lo stato liquido e lo stato solido, è qualcosa che tende a destabilizzare, a contaminare, le categorie precostituite), in secondo luogo i personaggi di Palazze-schi, dinnanzi a questo centro inconoscibile, escono dal loro impla-cabile silenzio. In questo modo cercano di riempire di senso quel centro il cui senso è, come abbiamo visto, ormai perduto. L’irruzio-ne di questi dialoghi teatrali spezza l’alone di mistero che gravava intorno ai simulacri di I cavalli bianchi: il rumore che proviene dal-la Torre viene identificato con lo sfogliare delle pagine di un libro (il libro dei giorni, il libro del tempo), si susseguono dunque varie ipo-tesi sulla natura del lettore e sul formato dello scritto. Possiamo dunque dire che con le loro parole i personaggi contaminano dal-l’esterno un mistero impenetrabile. Ora però queste voci si dimo-strano assolutamente incapaci di arrivare al fine ultimo dell’enigma che cela la Torre, i loro tentativi di dare una forma al non-conosci-bile, di approdare dunque alla Verità, si rivelano essere mere conget-ture, mere etichette in grado di dare solo l’illusione di essere perve-

78 Aldo Palazzeschi, Torre burla, in Lanterna (1907), in Tutte le poesie, cit., pp. 35-36.

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nuti all’essenza della co sa79: dove in I cavalli bianchi avevamo un si-lenzio impotente, abbiamo qui una serie di supposizioni che, a cau-sa del loro essere in contraddizione le une con le altre (e tutte ugual-mente valide), costringono inevitabilmente il lettore a una sospen-sione di giudizio su ciò che realmente accade nella Torre e su ciò che realmente la Torre significa.

Se l’impossibilità di giungere a un significato nel libro preceden-te era data per difetto, questa stessa impossibilità viene in Lanterna data per eccesso: il non-senso, l’abbiamo scritto, è apertura al poli-senso, alle voci discordanti e contraddittorie, comunque incapaci di illuminarci sul significato ultimo. Palazzeschi riempie il vuoto con dialoghi fra loro inconciliabili che altro non fanno che amplificare la presenza del vuoto.

Il sorgere delle ipotesi sottolinea però un più esplicito ingresso nel tempo storico, nel divenire, nella funzione umoristica delle con-traddizioni (ed ecco che la Torre si rivela una «burla»). La purezza che il centro ancora manteneva in I cavalli bianchi è qui corrotta, sporcata dalle voci della gente, immersa nel tempo, nel luogo della contingenza, dove possono svilupparsi le anomalie, dove l’ordine (formale, linguistico, tematico) deve fare i conti con le contamina-zioni, con ciò che eccede dall’ordine prestabilito.

7. le avventure della contaminazione

E noi abbiamo bisogno di ordine come dell’aria.Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità

Solo dove è presente un Sistema chiuso può darsi contaminazione, c’è infatti bisogno di un precedente e ben definito ordine concettua-le perché essa possa manifestarsi. Perché possano svilupparsi movi-mento, ambiguità, compromesso, è necessario possedere un’idea pre gressa di chiusura e di purezza: il mondo chiuso di I cavalli bian-chi si apre in Lanterna al caos delle contaminazioni.

Il fallimento del Sistema chiuso, il tentativo di evocare un uni-

79 Questa tendenza delle «voci» a dare all’Altro (un fatto o una persona) una forma stabile è presente in tutta l’opera giovanile di Palazzeschi. Si pensi alla seconda par-te di :riflessi, ma si pensi soprattutto all’arrivo in città di Perelà.

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verso dominato dal principio di non-contraddizione, rivela ora il proprio scacco, l’implicita antinomia su cui era fondato il libro pre-cedente qui prende forma, corpo e voce: l’impuro, l’anomalo, preme sui confini del “tempio”. Vi è «un sommovimento sotterraneo che rischia di destabilizzare l’identità in progress del poeta, il suo chiuso mondo fantastico»80, e questo sommovimento si esprime a tutti i li-velli del testo. Formalmente nell’ingresso di strutture narrative (Pa-lazzo Mirena, La storia di frate Puccio), nella coniugazione (contami-nazione) di registri poetici diversi (dal liberty al simbolismo), negli elementi teatrali, nell’uso della rima, nella entrata in scena del grot-tesco e dell’ironia, nella particolarissima impaginazione grafica di un testo come Rosario (su cui ritorneremo). A livello tematico le conta-minazioni appiano ancora più evidenti: il Tempio serrato dove è se-gregato il «Kinik» resterà chiuso fino all’esaurirsi della luce (non a caso un emblema di purezza), in seguito la gente ferma all’esterno, ai margini (sempre un elemento di insicurezza dal momento che «ogni struttura è vulnerabile ai suoi confini»81), avrà via libera. La contaminazione verbale che in Torre burla assumeva tratti umoristi-ci qui, facendosi contaminazione fisica, tende al grottesco. La rottu-ra dell’unità che il tempio, luogo sacro per eccellenza, rappresenta, presuppone, stante l’imminente contaminazione, una catastrofe. La mescolanza fra interno e esterno, inesistente in I cavalli bianchi, sot-tolinea lo spettro di un contagio, vale a dire lo spettro del disordine: ciò che rovina il modello, ciò che mette in crisi le categorie prestabi-lite. Col disordine, questo il punto, viene meno l’illusione dell’es-senza.

Anche la funzione dinamica rivendicata dalla «gente» è un’opera-zione contaminante: il suo intervento permette infatti l’irruzione di nuclei di recitazione che, come abbiamo visto, tendono a porre in termini relativi ciò che prima si dava come assoluto, consente inol-tre l’incursione di un linguaggio prima assente (quello del quotidia-no) e in ultimo, stigmatizzando i comportamenti pericolosi, cioè quei comportamenti non a caso ambigui, transitori, anticonformisti (Comare Coletta, La storia di frate Puccio), mostra per paradosso la propria paura nei confronti di ciò che è al limite, di ciò che eccede

80 Laura Lepri, Il funambolo incosciente, cit., p. 45.81 Mary Douglas, Purezza e pericolo (1970), Bologna, Il Mulino, 2003, p. 194.

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dalla sicurezza e dall’ordine di schemi mentali preordinati. Il confor-mismo si fa qui diga contro la contaminazione, contro ciò che infi-cia la possibilità di un’unità. Ma un’anomalia se ne porta dietro al-tre: nel tentativo di punire ciò che eccede dalla norma, la «gente» rompe il proprio silenzio e dà luogo a ulteriori contaminazioni, e ciò che la critica ha giustamente definito come l’attrazione di Palazze-schi per quel quid di demoniaco e di notturno di alcuni dei suoi per-sonaggi (Madama Mirena su tutti) non è altro, a nostro giudizio, che l’attrazione per ciò che è contaminante, per ciò che, direbbe Marcuse, eccede, per ciò che travalica il modello.

Lanterna mette in mostra i rischi del mondo di I cavalli bianchi, ed era possibile far questo solo non cambiando i postulati di parten-za di quel mondo: se Palazzeschi ci avesse dato un universo del tut-to diverso da quello precedente non avrebbe potuto riflettere su ciò che premeva ai confini di quel cosmo all’apparenza inattaccabile. Era solo nello stesso ordine che potevano essere mostrate le anoma-lie: solo un ordine chiuso poteva essere esposto ai pericoli della con-taminazione.

Emblematica la vicenda di frate Puccio: il vecchio religioso è por-tatore di una diversità nel contesto del suo convento, Palazzeschi de-finisce il suo sorriso «qual fiore scarlatto nel mazzo bianchissimo»82, «scarlatto» proprio come i fiori di Comare Coletta (il colore rosso di-venterà da Poemi il simbolo stesso di un processo contaminativo). Lo stesso sorriso viene poco dopo definito «soverchio», per l’appun-to eccedente rispetto a quelle che sono le compassate norme del con-vento.

La narrazione è divisa in tre parti, nella prima e nell’ultima tro-viamo due descrizioni antitetiche dell’anziano frate:

Col viso fiorito d’un gaio sorriso,con occhi ridenti,il vecchio s’andava e veniva leggeropel grande convento dei Bianchi.Il piccolo frate con braccio robustoportava le brocche.S’andava e veniva ridente, giulivo,

82 Aldo Palazzeschi, La storia di frate Puccio, in Lanterna, in Tutte le poesie, cit., p. 61.

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talvolta sostava un istante a la cella,posando le brocche a la soglia,sostava un istante ed usciva col gaio sorriso,più lesto s’andava, più snellele braccia reggevan le brocche83.

***Con viso emaciato, la bocca serrata,con occhio languente,pel grande convento dei Bianchiil vecchio si mena stentando.Il piccolo frate ricurvocon braccio stecchito trascina le brocche.Nemmeno un istante si sosta,con muovere stanco, sfinito,trascina le brocche pesanti84.

È evidente che si tratta di una descrizione per contrasto: tutti i tratti allegri della prima descrizione vengono nella seconda rovescia-ti (e si faccia in particolare attenzione alla coppia antitetica leggero-pesante che avrà estrema importanza nel Palazzeschi successivo). Fra le due descrizioni abbiamo la storia del frate che, trovato in posses-so di un fantoccio («figura profana di femmina»85), viene costretto a espiare la sua colpa, la sua macchia, bruciando l’oggetto del peccato «nel mezzo al cortile»86 fra gli sguardi dei suoi confratelli, di altri re-ligiosi, di «gente di popolo»87, di beghine.

Giudichiamo valida ma insufficiente un’interpretazione nei ter-mini del contrasto fra principio di piacere e principio di realtà, rite-niamo che ciò che «i Bianchi» del convento si preoccupano di cen-surare è sì un’eversione di desideri inibiti, ma è in primo luogo l’al-veo nel quale questi desideri possono formarsi, l’alveo della conta-minazione, sorto a sua volta a causa del rigido ordine normativo a cui il convento è sottoposto.

Abbiamo già accennato al contrasto fra lo scarlatto e il bianco e

83 Ibidem.84 Ivi, p. 64.85 Ivi, p. 62.86 Ivi, p. 64.87 Ivi, p. 62.

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al l’eccedenza del sorriso di frate Puccio, andando avanti nella lettu-ra noteremo che il ritrovamento del «fantoccio» è permesso da uno «spiro di luce»88 che travalica la cella del frate, il «fantoccio» stesso viene ritrovato, a ulteriore riprova che il suo peccato fondante è quello della contaminazione, «fra i libri dei Salmi»89. Le immagini sacre, rese impure dall’oggetto profano, vengono allora coperte «di tele violette»90 rimandanti a una condizione quaresimale. Su ordine del Padre, del priore (vera e propria figura di controllo che senza dubbio autorizza un’interpretazione freudiana), si organizza «un gran fuoco»91 (non elemento distruttivo ma simbolo di purezza e omogeneità92) al centro del cortile, ed ecco che il centro riacquista la sua funzione unificante: lo scopo non è solo quello di punire il frate colpevole, ma è anche quello di restituire al convento la sua integri-tà, il suo ordine, sporcato quest’ultimo dall’azione di Puccio che, non a caso, viene a identificarsi come una macchia (ordine vuol dire in primo luogo pulizia93), ovviamente rossa:

gli stracci scarlattispiccavan nel manto bianchissimosiccome una macchia di sangue94.

Non c’è bisogno di ricorrere a René Girard per capire che ci tro-viamo dinnanzi a un tipico meccanismo da «capro espiatorio». Me-diante la punizione inflitta al frate il convento riacquista la propria sacralità, il rito di castigo ripristina un modello simbolico infranto95: punire il trasgressore vuol dire punire il contaminatore, colui che ha portato il rosso fra i Bianchi, colui che ha mescolato il profano col sacro, colui che rideva… un po’ troppo.

88 Ibidem.89 Ibidem.90 Ibidem.91 Ibidem.92 Cfr. Gaston Bachelard, La psicanalisi del fuoco (1949), Bari, Dedalo, 1991.93 La pulizia sarà uno dei bersagli di Il controdolore.94 Aldo Palazzeschi, La storia di frate Puccio, in Lanterna, in Tutte le poesie, cit., p.

63.95 Come ha ben notato Paolo Febbraro (La tradizione di Palazzeschi, cit., p. 119) la

storia, che si era sviluppata all’imperfetto, si chiude al presente, cioè nel tempo osti-le al movimento, a significare «l’emblematica eternità di una condizione censu-rata».

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Il sogno della purezza, il sogno dell’ordine, è un sogno di censu-ra e di controllo: è il desiderio della non-contraddizione, la speran-za vana che la realtà non ecceda dalle norme, dalle forme, che ten-tiamo di imporle. L’atteggiamento di Palazzeschi è ancora ambiva-lente (dopo frate Puccio salirà alla ribalta la danza dionisiaca imba-stita da Kirò), oscillante fra la protezione che comunque il Sistema sembra offrire e l’embrionale presa di coscienza che solo nel rifiuto del definito (dello statico, dell’eterno) il contaminante (l’eccedente) potrà non creare più dolore, perché dove non c’è un ordine prede-terminato non può esserci contaminazione.

8. parco umido (e un’idea di sartre)

Comparso di sfuggita quale elemento del paesaggio che accerchiava la Torre burla, il fango diviene il protagonista della poesia Parco umi-do. Le «fanghiglie», ritornanti tre volte in versi similari, si fanno ele-mento preminente di un luogo privo di luce e dominato da una fit-tissima e decadente vegetazione:

Né un varco soltanto nel parco trasparené un foro vi luce,soltanto si posson le muffe cadentivedere, soltantole dense fanghiglie grondanti96.

L’hortus conclusus, tematicamente degradato a «parco», è qui e spressione di un malsano rigoglio di vita, è un luogo dove l’ecce-dente ha ormai preso il sopravvento: il paesaggio asettico, così caro al Palazzeschi precedente, ha lasciato il posto a una contaminata pie-nezza vitale in cui la presenza del fango la fa da padrone.

Il fango (non a caso sarà tanto odiato da Valentino Kore) è in una prospettiva psicanalitica simbolo di incertezza. Alimenta nei sogni sensazioni sgradevoli in quanto connesso alla frammentazione, alla separazione, alla mancanza di pulizia (di ordine), alla corruzione. È insomma un simbolo di contaminazione, espressione di rottura del-la forma, avvertenza di una crepa nel modello: sottolinea la presen-za dell’ambiguo, del non-ordinabile, del non-unificabile.

96 Aldo Palazzeschi, Parco umido, in Lanterna, in Tutte le poesie, cit., p. 57.

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Espressione della vita che eccede lo schema, elemento non asse-gnabile né all’etichetta di solido né a quella di liquido, il fango è un elemento vischioso.

Sartre ha dedicato, nella parte conclusiva di L’essere e il nulla, alcu-ne straordinarie pagine alle caratteristiche di questo stato transi torio:

il vischioso si rivela essenzialmente come ambiguo, perché l’esisten-za della sua fluidità è al rallentatore; esso è un impastamento della liquidità […]. La sua instabilità scoraggia il possesso97.

il vischioso, fin dal mio primo contatto intuitivo, mi appare ricco di una folla di significati oscuri e di rinvii che lo superano98.

Lo stato transitorio, potremmo ormai dire lo stato della vita pri-va di modelli, è un elemento di pericolo (per chi ai modelli non sa ri-nunciare) a causa della sua indefinibilità: scoraggiare il possesso vuol dire inficiare la possibilità di una conoscenza e, dunque, la possibili-tà di un controllo. Elemento vischioso, dunque di per sé anomalo, il fango non si adatta alla categorie ma eccede i confini di queste.

Il surplus di vita sorto nel «parco» è un prodotto di quella conta-minazione che, come abbiamo visto, opera a tutti i livelli di Lanter-na. Il motivo di questa contaminazione ormai realizzata potrebbe qui trovarsi nel «lutto» che indossano le tre donne che si aggirano nel parco: la morte di un uomo (di un padre), figura simbolica di or-dine e controllo, garanzia di “unificazione”, di eliminazione dell’ec-cedente (come il «Padre» di La storia di frate Puccio):

Fra l’ombre, fra l’ombre potentinel folto degli alberi grandisoltanto tre donne s’aggirano lento,bellissime donne: Regine Parenti.S’aggirano lento in silenzione l’ombre del parco serrato,pesante trascinano il manto di lutto, le Donne,coperte da un veloche appena il pallore del volto ne scopre99.

97 Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla (1943), Milano, Il Saggiatore, 1965, pp. 728-729.

98 Ivi, p. 734.99 Aldo Palazzeschi, Parco umido, in Lanterna, in Tutte le poesie, cit., pp. 57-58.

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Lanterna porta nel mondo di I cavalli bianchi i germi della con-taminazione, i germi della molteplicità che, a partire dalla seconda parte di :riflessi, prenderanno il sopravvento. Ma allora non saranno più anomalie di un Sistema, non ci sarà più infatti nessun fragile mondo «serrato» da preservare.

9. «caduta a terra come una larva»100

Quella condizione di simulacro (di cosa priva del proprio refe-rente), che nel libro precedente accomunava oggetti, presenze, gesti, si dilata in Lanterna fino a coinvolgere, in un testo come Rosario, la specificità stessa del linguaggio.

Ci troviamo di fronte a una «suite di ventuno piccoli componi-menti di tre versi»101 in cui svariati personaggi (alcuni rintracciabili in altri testi poetici di Palazzeschi), fra cui due pappagalli, si affaccia-no sulla scena e mantenendo un recitativo teatrale, modulato sul de-siderativo «vorrei» (altra spia di quel sommovimento sotterraneo in atto nella raccolta), si consegnano al pubblico nel punto culminan-te di un’aspirazione, di un vaticinio o di una condizione.

Il linguaggio, pur nell’apparente e infantile semplicità, è qui pie-gato al massimo verso quella «opacità di significazione» di cui ha parlato Tamburri. È una lingua distanziata dal suo oggetto, incapa-ce di afferrarlo. Può svilupparsi per rimandi fonici come nel caso di Erak, stregone:

Non valeper male ugualesalire con ale102.

Può adagiarsi in un ritmo da filastrocca:

Avvolta, attortosu fuso di tortoogni filo è corto103.

100 Aldo Palazzeschi, in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Ac-crocca, Venezia, Sodalizio del libro, 1960, p. 312.

101 Giuseppe Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, cit., p. 64.102 Aldo Palazzeschi, Rosario, in Lanterna, in Tutte le poesie, cit., p. 51.103 Ivi, p. 53.

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Può spingersi fino all’utilizzo delle onomatopee, (definite da Pe-dullà come «messaggeri dell’Altro»104):

Chi vuole Cucù?Cucù non c’è più!Cucurucucù105.

Approdando a una separazione fra suono e significato, avventu-randosi, come mai prima d’ora, sulla strada beffarda del nonsense, Pa lazzeschi fa delle parole, come già aveva fatto degli oggetti, dei “fossili”, dei simulacri privi di contenuto semantico. Incapaci di far-ci approdare a un’essenza le parole stesse sottolineano ora implicita-mente l’impossibilità di quell’essenza:

Mi pareva che la parola fosse prigioniera di una formula dalla qua-le bisognava liberarla, che si fosse svuotata di ogni forza espressiva, la vedevo caduta a terra come una larva, e mi pareva osservando un oggetto di non vederlo nella sua vera essenza, avrei voluto vederlo come nel paradiso terrestre lo vedevano Adamo ed Eva. E ricordo che una mattina mi recai sotto una villa che tanto mi piaceva, della quale conoscevo i proprietari e sapevo a puntino ogni particolare della sua esistenza. Vi andai come il pittore con la sua cassetta dei colori, col lapis e un quaderno per ritrarla con la parola. Non appe-na ebbi finito e lessi quanto avevo scritto, e al tempo stesso guardai l’oggetto che era davanti a me, ebbi un senso di vertigine: la villa sulla mia carta non aveva la più piccola parentela con quella da cui l’avevo ritratta, nulla combaciava nella sua presenza estetica come nella vita che all’interno vi si svolgeva. Al senso di vertigine suben-trò un senso di ebbrezza che mi fece camminare all’infinito, senza meta, nel mondo irreale della fantasia e della felicità106.

La separazione fra realtà e linguaggio viene, in questo ricordo di gioventù, chiaramente definita: la tentazione pascoliana e essenziali-stica di partenza, la condizione adamitica di conoscenza primigenia (e quindi vera!) nel contatto col reale, si rovescia, nell’esperienza, in

104 Walter Pedullà, Aldo Palazzeschi, da Perelà a Stefanino, in E lasciatemi divertire! Divagazioni su Palazzeschi e altre attualità, Lecce, Manni, 2006, p. 39.

105 Aldo Palazzeschi, Rosario, in Lanterna, in Tutte le poesie, cit., p. 52.106 Aldo Palazzeschi, in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Ac-

crocca, cit., p. 312.

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una presa d’atto della sua impossibilità. La letteratura, territorio del linguaggio e quindi sempre oggetto di secondo grado, si dichiara se-parata dalla vita, ma si noti come il passo citato presenti un preciso cammino da un contesto di sconforto a uno di allegria (lo stesso cammino narrato nella Premessa al compendio delle Opere giovanili): la condizione iniziale di frustrazione, frustrazione dettata da un im-prescindibile desiderio di Verità, si ribalta, nella presa d’atto di una condizione relativizzata, in uno «stato d’ebbrezza» (che, forse non a caso, dà luogo a un vagabondaggio senza meta: ottima definizione dell’umorismo).

La lingua, separata dalla realtà, rivela la sua natura di simulacro, ma la mancanza di un referente, la mancanza di un novum-essere-valore a cui essa possa fare riferimento, lungi dal provocare dolore e delusione provoca ora gioia. La condizione traballante e priva di punti di riferimento in cui l’artista viene a trovarsi si dimostra final-mente scevra dalla «nostalgia dell’Assoluto», il suo linguaggio, ora-mai privo di modelli, è atto, in questa raggiunta libertà, a farsi stru-mento ludico per trastulli, è cioè atto a non porsi più come Sistema chiuso, ma come strumento potenziale, non definito, produttore di differenza, simbolo “debole”, diremo a questo punto, di movimen-to. Solo un’arte come gioco, un’arte non proiettata al fondamento di valori stabili, potrà non tradire la fluidità della vita, solo in que-sto modo il simbolo senza archetipo (il simulacro) potrà non essere più dolorosa riflessione sulla perdita del senso, ma monumento iro-nico (dunque critico, dunque necessariamente ambivalente) a una vita che non può irrigidirsi in forme. In Palazzeschi all’autonomia del significante non corrisponde infatti una concezione di questo come produttore di senso, l’atomo, lasciato a se stesso, non è asso-lutizzato come possibile unificatore del reale, ma è bensì spia di una simbolica (dunque convenzionale, dunque già ironica) immedesi-mazione di se stesso nel «fluire frammentato e centrifugo delle cose»107.

L’apparenza non sarà allora un inganno, un errore. Separando re-altà e linguaggio Palazzeschi apre il suo sguardo su un mondo il cui unico referente è la contingenza dei materiali che lo compongono, ed è su questa strada che si prepara a diventare il «saltimbanco»:

107 Claudio Magris, L’anello di Clarisse (1984), Torino, Einaudi, 1999, p. 25.

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Il problema del commediante mi ha travagliato assai a lungo: ero nell’incertezza (e lo sono ancora di tanto in tanto), se non sia che soltanto prendendo le mosse da esso ci si possa accostare al perico-loso concetto di “artista” – un concetto fino a oggi trattato con im-perdonabile dabbenaggine. La falsità con buona coscienza, il piace-re della contraffazione nel suo prorompere come potenza che spin-ge da parte il cosiddetto “carattere”, inondandolo, talvolta soffocan-dolo; l’intimo desiderio di calare in una parte, in una maschera, in una parvenza; […] finché in conclusione tutta questa abilità, accu-mulata di generazione in generazione […] genera il commediante, l’“artista”, il buffone, il cantastorie, lo zanni, il giullare, il clown108.

108 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, cit., pp. 289-290.

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ii. :riflessi. fra identità e retorica

i. le due parti di :riflessi

Vi mando un piccolo libro, l’aborto di un romanzo che pubblicai un anno fa, può darsi che io ve l’abbia mandato allora, può darsi che io mi sia dimenticato, in ogni modo ci tengo che mi esaminia-te là dentro, quasi più che nella poesia1

La storia del principe Valentino Kore2 si configura come un iniziati-co cammino al cui termine dovrebbe trovarsi, secondo le speranze del protagonista, l’autocoscienza di sé. Quello che all’apparenza si offre come romanzo di formazione è tale (almeno nella prima parte) solo se siamo in grado di legare dialetticamente, e infine di unifica-re, l’idea di formazione con quella di “ritorno”. Il cammino di Va-lentino verso sé è infatti un cammino a ritroso, i suoi passi devono

1 Aldo Palazzeschi a Filippo Tommaso Marinetti, [maggio 1909], in Filippo Tomma-so Marinetti-Aldo Palazzeschi, Carteggio, con un’Appendice di altre lettere a Pa-lazzeschi (di Paolo Buzzi, Carlo Carrà, Auro d’Alba, Corrado Govoni, Gian Pietro Lucini, Giovanni Papini, Renzo Provinciali, Ardengo Soffici), a cura di Paolo Presti-giacomo, presentazione di Luciano De Maria, Milano, Mondadori, 1978, p. 5.

2 Questi, brevemente, i fatti: tornato dopo quindici anni di vita “sperelliana” a Villa Bemualda, il luogo teatro del suicidio, durante una festa, della giovane madre del protagonista, Valentino vi trascorre trenta giorni alla fine dei quali, decisosi a riat-tivare la temporalità del luogo, deciso cioè a riprendere la festa dal punto in cui era stata interrotta, svanisce nel nulla. I trenta giorni che passa inquieto nella Villa e negli immediati dintorni sono noti al lettore in virtù delle quotidiane lettere che Valentino spedisce al suo ex amante, il giovanissimo inglese John Mare. Sono gior-ni inquieti resi nel solco della tradizione, tematica e stilistica, del decadentismo e del tardo simbolismo (sono stati fatti a ragione i nomi di Wilde, Rodenbach, Ma-eterlink, Gide e, ovviamente, D’Annunzio). Terminata la parte epistolare dell’ope-ra il lettore viene catapultato nel pieno di una ridda di voci congetturanti, a vuoto, sul destino del principe.

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seguire le orme lasciate da qualcun altro: per essere realmente forma-tivo il suo percorso deve essere inverso e speculare, dal “riflesso” a ciò che, avendo prodotto il riflesso, può riempirlo di senso in quanto ne è causa e spiegazione. Possiamo dunque dire, riprendendo la termi-nologia finora utilizzata, che il riflesso mirante alla sua Origine è un simulacro impegnato nel tentativo di smettere di essere tale. Viene in mente il mito platonico della caverna: è una suggestione impor-tante, ma avremo modo di tornarci in seguito.

Una fruttuosa tradizione della critica palazzeschiana, risalente a Edoardo Sanguineti (ma con significativi prodromi in Borgese e Gargiulo), ha letto nella disarmonia fra le due parti del romanzo il momento del passaggio da una prima a una seconda fase della poe-tica palazzeschiana:

Un bel giorno […] scopre che quelle poesie […] diventano tollera-bili, semplicemente, se non vogliono riuscire involontariamente grottesche, in una lettura intenzionalmente, esplicitamente grotte-sca […] accettando l’inevitabile caduta nel buffonesco o nell’ironi-co come se fosse direttamente voluta e calcolata3.

E dunque la scoperta che «a un certo punto della storia, il subli-me non è più tollerabile in alcun modo, se non nella sua dimensio-ne rovesciata»4.

Si tratta di pagine estremamente note per chiunque si sia occupa-to di Palazzeschi, pagine fondamentali che mantengono intatta, a tanti anni di distanza, gran parte della propria forza. Questa teoria ben si adatta del resto a quanto Palazzeschi, riferendosi proprio a :ri-flessi, scrive di sé nella già menzionata Premessa al compendio delle Opere giovanili:

ho voluto che fosse compreso in questa raccolta perché, con una forma che risente in certo modo il gusto di quel tempo e che non doveva essere poi l’espressione giusta della mia personalità, rispec-chia fedelmente una giovinezza turbata e quasi disperata. E tale fu la mia fino al giorno che tale disperazione e turbamento come per un miracolo, come per virtù di un incantesimo del quale non saprei

3 Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo (1961), Milano, Mursia, 1990, p. 84.

4 Ivi, p. 85.

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io stesso spiegare il mistero (approfondita conoscenza della vita, de-gli altri e di me stesso?) si risolsero in allegria. E pur rimanendo un solitario fedele e geloso della mia solitudine, fui da quel giorno mol-to allegro. Poche persone in questo mondo risero quanto io ho riso, e tale ho saputo conservarmi fino alla vecchiezza5.

Eppure il passaggio «dal sublime al buffonesco», così come nar-rato da Sanguineti, esemplifica, a nostro parere, non (o almeno non solo) il tragitto dall’intollerabilità di una letteratura «alta» al suo ne-cessario rovesciamento caricaturale, bensì il tragitto dalla possibilità di un’arte in grado di «dominare la proliferazione del molteplice in una laconica unità di significato»6 a un’arte, dunque a un artista, dunque (dobbiamo dirlo?) a un soggetto, pronto già a dimostrare come il punto fermo posto alla fine della propria opera sia soltanto una convenzione, pronto dunque ad accettare come ormai decadu-to il proprio compito di supremo legislatore.

Cercheremo ora di chiarire perché la seconda parte di :riflessi non è un ironico rovesciamento della prima ma, nella dialettica fra vita e forma che Palazzeschi sta approntando (dove la forma sta, proprio come il soggetto, per assumere il ruolo di umoristica convenzione), la sua inevitabile conclusione.

2. unità e dissonanze

«Tu sai, tutto resterà al suo posto, e la polvere di quindici anni ri-marrà indisturbata»7.

Sotto il segno dell’immobilità e del tempo congelato8 si apre an-che il primo romanzo di Palazzeschi. Nella lettera del 1º novembre,

5 Aldo Palazzeschi, Premessa, in Opere giovanili, Milano, Mondadori, 1958, pp. 2-3.

6 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 4.7 Aldo Palazzeschi, :riflessi (1908), in Tutti i romanzi, i, a cura e con introduzione

di Gino Tellini e un saggio di Luigi Baldacci, Milano, Mondadori, 2004, p. 7.8 Cfr. Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica (1913), a cura di Sergio

Campailla, Milano, Adelphi, 2002, p. 52: «E nello stesso tempo le sue cose che lo attorniano e aspettano il suo futuro, sono l’unica realtà assoluta indiscutibile […]. Egli non dice: “questo è per me”, ma “questo è”; non dice “questo mi piace”, ma “è buono”: perché appunto l’io per cui la cosa è od è buona, è la sua coscienza, il suo piacere, la sua attualità, che per lui è ferma assoluta fuori del tempo».

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prima delle trenta inviate all’amato Johnny9, appaiono a più riprese i temi (strettamente correlati) della staticità, del desiderio di com-pletezza, della volontà di ridurre al grado zero la possibilità di con-dizionamenti esterni, della morte.

I primi aggettivi che Valentino Kore riferisce di sé (raccontando all’ex amante del suo arrivo alla villa di Bemualda) sono non a caso «assassinato» e «irrigidito»10 (e alla lettera del 4 novembre, parlando di sé e del suo rapporto con le vecchie custodi Imperia e Cammilla, dirà: «Esse lo vedono dunque come l’ombra de la morte qua den-tro?»11). Tutta la prima parte dell’opera vivrà infatti dei quattro temi che abbiamo elencato e dei quali la prima lettera costituisce un effi-cace compendio:

Ò paura di ogni mio movimento di ogni mio pensiero

È bello, è sublime il nostro ideato e non deve subire nessun cambia-mento […] tu mi scruterai nell’immobilità della mia posa […]

e sii sempre così

Tutte le finestre della villa sono chiuse e tutte rimarranno così […] nulla di umano, spero, mi infastidirà

E non è per la morte che si vive?12

Come avremo modo di vedere il desiderio di sepoltura sarà uno dei concetti portanti di tutto il romanzo epistolare (appena entrato in casa Valentino resta immobile per ore sul grande letto bianco). La pulsione di morte, indissolubilmente legata alla possibilità di una completezza, è ciò che ha decretato l’interruzione del rapporto amo-roso fra il protagonista e il destinatario delle sue lettere: «mi doman-davo perché la nostra attitudine fosse incompleta»13. Irresistibilmen-te attratto da tutto ciò che ha sentore di immutabilità, Valentino ha concesso il suo amore a un uomo che gli è apparso «divino di fred-

9 La tematica omosessuale attraversa, come ormai più volte ribadito dalla critica, pressoché l’intera opera palazzeschiana.

10 Aldo Palazzeschi, :riflessi (1908), in Tutti i romanzi, i, cit., p. 7.11 Ivi, p. 20.12 Ivi, pp. 7-10.13 Ivi, p. 9.

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dezza come il più bel marmo»14, ma, potremmo dire, un desiderio ben più grande di immutabilità lo ha spinto adesso ad abbandonare quel rapporto necessariamente incompleto15 (incompleto perché “in divenire”) per tornare, dopo quindici anni di «decadente» vita roma-na, al tentativo di ricomposizione dell’evento traumatico che ha ir-rimediabilmente segnato la sua psiche: il suicidio della madre. Il rap porto con Johnny, in quanto rapporto fra viventi, non poteva in-fatti essere slegato dall’azione disgregante del tempo, il rapporto con la madre avverrà invece, nelle intenzioni del protagonista, in un di-chiarato «tempo di oltrevita»16.

Valentino non ha alcuna fiducia nella vita come azione del tempo e, per questo, si è illuso di poter vivere intera la sua amicizia con John-ny estraendola dal tempo […] per poter poi dimenticarla in concre-to e liberarsene come di qualcosa di concluso e perfetto, eternamen-te fermo e presente in un assoluto ideale17.

Chiarito questo punto tutto il viaggio del protagonista deve con-figurarsi come risalita imitativa all’universo materno. La possibilità di una fusione con la madre morta (desiderio edipico di potenza ma, soprattutto, desiderio androgino di completezza, di unità) si fa così banco di prova sul quale il protagonista mette in gioco la sua stessa possibilità di stare al mondo, cioè di dire «Io».

Abbiamo già accennato al mito della caverna, è forse ora possibi-le sostenere che l’opzione alla quale Valentino si vota è un’opzione di tipo platonico: un ritorno dalla copia all’originale, un pellegrinaggio dal riflesso all’autentico. Nella prima parte del romanzo tutto infat-ti funziona per parallelismi e la figura della ripetizione, in forme te-matiche o stilistiche (geminazioni, anafore, epifore), mantiene, come nelle poesie, inalterata la sua importanza: «il discorso di :rifles-si si rifrange in un motivo perpetuo su se stesso, le immagini si rin-corrono in un gioco infinito di specchi»18.

14 Ivi, p. 8.15 Cfr. Giuseppe Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, cit., p.

93: «l’incontro con John è stato solo una tappa di avvicinamento al fantasma ma-terno».

16 Aldo Palazzeschi, :riflessi, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 9.17 Giorgio Pullini, Aldo Palazzeschi, Milano, Mursia, 1965, pp. 50-51.18 Massimo Fanfani, Parole di fumo: appunti sulla lingua dei romanzi straordinari,

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Il passaggio dalla tirannica oggettività delle poesie al soggettivi-smo iper-narcisistico del romanzo porta però alla nostra attenzione un elemento del tutto nuovo che, retroattivamente, va a investire di sé le stesse composizioni poetiche: quel tempo immobile, produtto-re di una forma di realtà ieratica, si svela essere (ora che nel roman-zo non è dato come già acquisito ma deve essere raggiunto) tempo della nevrosi. Questo perché quella contraddizione fra immobilità e assenza di significato, operante sotterraneamente, come abbiamo detto, in I cavalli bianchi, è qui direttamente esperita nella vicenda di Valentino. Se le poesie conservavano, nel loro illusorio tendere a una valenza mitica, l’apparenza di un significato stabile e autosuffi-ciente, la forma narrativa, nel suo essere progressiva (e mobile) co-struzione, pone solo alla fine di sé la possibilità dell’univocità del senso. :riflessi rende insomma esplicita l’antinomia su cui i due libri precedenti erano fondati: il tempo immobile è un obiettivo, non un dato già conseguito, ed è questo l’alveo in cui la nevrosi può render-si palese. Se la meta a cui Valentino tende è quella, come crediamo, di armonizzare il suo tempo a quello materno (che è assenza di tem-po!), ben si spiega quanto narrato nella lettera del 6 novembre:

l’orologio, il mio orologio era caduto a terra! […] L’idea di quel battito mi à inorridito, forse anche fracassato egli potrebbe ripren-dere irregolarmente il suo corso! Ò aperto con le unghie una fessu-ra nel damasco della mia poltrona ed ò pigiato, pigiato l’orologio facendogli a forza la fossa nel folto dell’imbottitura, così che se egli volesse riprender il suo ufficio io non lo udrei ugualmente sepolto là dentro19.

Il discorso fin qui fatto non riguarda però solo la problematica dimensione del divenire20: sono infatti molti i temi già visti in atto nelle opere poetiche che ricevono dal romanzo una luce chiarifican-te. Si pensi, ad esempio, al concetto della “contaminazione” così

nell’opera collettiva L’opera di Aldo Palazzeschi, Atti del Convegno Internazionale, Firenze, 22-24 febbraio 2001, a cura di Gino Tellini, Firenze, Olschki, 2002, p. 230.

19 Aldo Palazzeschi, :riflessi, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 27.20 Cfr. Marco Forti, Romanzi straordinari, nell’opera collettiva Palazzeschi oggi, cit.,

p. 113: «Valentino […] ritrova in ogni stanza qualche evento che ha voluto immo-bilizzare, pietrificare sul quadrante di un tempo congelatosi, anche materialmente, con la rottura e poi la volontaria perdita del suo orologio».

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come l’abbiamo visto operare in Lanterna: Valentino è letteralmen-te ossessionato dalla necessità di preservare l’integrità della sua soli-tudine (esce solo di notte, è terrorizzato dall’idea di incontrare uno degli ubriachi avventori della «bottega» posta nei pressi dell’ufficio postale, è infastidito dalle voci di questi, persino Imperia e Cammil-la sono per lunghi tratti tenute a debita distanza: «Cammilla mi ser-virà nella stanza attigua alla mia, io stesso attenderò alle cure della mia stanza dove la vecchia non dovrà penetrare»21).

Si pensi poi alla presenza ridondante del colore bianco (opposto al giallo e, talvolta, al rosso), contestualizzante, in maniera finalmen-te esplicita, tutto ciò che appare legato all’immobilità, alla inconta-minata purezza e, naturalmente, alla morte.

Abbiamo per ora fornito una serie di elementi che però, slegati da ciò che è il tema capitale, si badi bene, di entrambe le parti del ro-manzo (la ricerca prima e la scoperta poi dell’identità di Valentino, perché, come cercheremo di chiarire, con la parte conclusiva di :ri-flessi non si approda alla sparizione del soggetto, ma a una concezio-ne del tutto nuova di questo), rischiano di perdere la propria conno-tazione originaria in quanto separati dal loro retroterra generativo: una crisi gnoseologica in virtù della quale è venuta a mancare la pos-sibilità di poggiare la realtà su un fondamento stabile, la conseguen-te caduta dunque di ogni possibilità di ordinare sulla base di un or-dine gerarchico quella stessa realtà, il crollo dell’illusionistica oppor-tunità di operare su di essa una selezione formativa che abbia validi-tà universale. Ma anche (ed è ciò che segna il discrimine fra le due parti del romanzo e fa di Palazzeschi un unicum nella scena lettera-ria italiana di quegli anni) la comprensione che la vita è nell’arte li-mitata da una “compressione” coatta; che, parafrasando Nietzsche, la dissonanza prospettica è ciò che permette la vita stessa22; e infine che l’accettazione della varietà (e della differenza) è la via che per-mette il rifiuto della violenza insita nel tentativo di imporre al reale un significato esclusivo e, al contempo, la via che, nell’accettazione della contraddizione quale elemento inderogabile dell’esistere, in-

21 Aldo Palazzeschi, :riflessi, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 14.22 Cfr. Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886), Milano, Adelphi,

2003, p. 42: «Si voglia dunque confessare a se stessi quanto segue: che non ci sareb-be assolutamente vita, se non sulla base di valutazioni e di illusioni prospettiche».

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forma di sé (e rende dunque possibile) quel passaggio dalla nevrosi al l’allegria che Palazzeschi ha in seguito raccontato.

3. nosce te ipsum

L’identità cioè l’unità adeguatamente compresa che, inquanto semplice, unifica originariamente, ed in questo

unificare individua.Martin Heidegger, Dell’essenza del fondamento

La costante platonica dominante in tutta la prima parte del roman-zo riguarda in primo luogo la questione dell’identità: Valentino av-verte il proprio io come incompleto, dimidiato, la propria indivi-dualità come incapace di conferire al mondo che la circonda un si-gnificato, una forma, stabile. Ecco perché tutto il suo cammino si definisce come tentativo di risalire alla fusione con l’identità mater-na. Considerare se stesso quale elemento di secondo grado (riflesso di un archetipo) è una strategia difensiva: il soggetto novecentesco (il soggetto nietzschiano), scoperto se stesso come una funzione e non come un’essenza, ha perso la propria capacità di uniformare in una sintesi superiore il particolarismo dei dati che gli provengono dal mondo. Ma il punto è che questi dati gli appaiono disgregati perché è esso stesso ad avvertirsi come frantumato: il mondo non può più essere reso in una totalità perché è proprio l’elemento che avrebbe dovuto mettere in atto questa operazione a scoprirsi scisso.

La vicenda del principe Kore è giocata sul crinale di questa crisi di un soggetto che si avverte in pericolosa dissolvenza, ma si dimostra per ora ancora incapace di rinunciare ai luminosi paradisi di una totalità ottocentesca. L’opzione legata alla metafisica platonico-cristiana fun-ziona in lui come schermo oltre il quale appare l’eventualità (per ora terribile) di scoprirsi quale mera apparenza “formata” di volta in volta, di attimo in attimo, dal flusso esterno delle interpretazioni in progress. Inoltre questo soggetto così configurato dovrebbe a malincuore abiu-rare anche alle proprie capacità di conferire stabilità al divenire (anco-ra «l’orologio»), di potere dunque decretare le cause per le quali gli eventi accadono, di farsi, in breve, creatore di significati definitivi23.

23 Cfr. Gianni Vattimo, Al di là del soggetto, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 25: «Come

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Le varie tappe del cammino di Valentino sono i momenti di un progressivo ancoraggio a un’Origine che, nella conclusiva fusione fra duplicato e modello, dovrebbe, nelle sue speranze, garantire la catar-si e la conseguente formazione di un’identità definitiva. Abbiamo già parlato di alcuni dei parallelismi in cui l’opera si sviluppa, ma dobbiamo ora dire che tutto nella vicenda del principe Kore è co-struito in modo da essere ricalco della vicenda materna: in alcune delle scene allo specchio24, ad esempio, Valentino vede sorgere in sé dei tratti nuovi:

Mi sono guardato tanto e mi sono anche sembrato un poco nuovo, e nuovo mi è infine apparso balbettante incerto invisibile fra labbro e labbro un debole velato sorriso che forse riviveva con circospezio-ne una risata forte interrotta repentinamente quindici anni fa25.

Siamo di fronte a dei veri e propri elementi di una trasfigurazio-ne identitaria in atto26. Nel suo movimento verso l’imago materna (ad esempio nel cominciare a trovare improvvisamente familiari stanze e oggetti) Valentino ritrova così anche quelle caratteristiche che, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, sono necessarie per la perfetta riuscita del suo viaggio:

Quando mi sono alzato mi sono guardato di subito nello specchio ovale, e mi sono domandato se il mio pallore, più intenso oggi, non sia divino, e senza sorridere mi sono grandemente compiaciuto del-l’immobilità del mio volto27.

ed io mi guardavo impassibile nello specchio polveroso come un bel ritratto ovale di un adolescente che sia per morire28.

L’accresciuto sentore di morte e di immobilità, lungi dall’avere

gli altri grandi errori della metafisica e della morale, anche la credenza nell’io risa-le, tramite la credenza nella causalità, alla volontà di trovare un responsabile dell’ac-cadere […], bisogno nevrotico di trovare una responsabilità del divenire».

24 È evidente che la presenza dello specchio sottolinea, oltre al consueto tema dei “ri-flessi”, l’incapacità di Valentino di giungere a una propria, ferma, identità.

25 Aldo Palazzeschi, :riflessi, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 13.26 Cfr. ivi, p. 32: «mi sembra di vivere di un’altra vita e sento sempre più sulla mia gra-

vare il peso di un passo che mi è sconosciuto».27 Ivi, p. 62.28 Ivi, p. 34.

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valenza negativa, è ciò che avvicina Valentino al modello della ma-dre. Anche il particolare attaccamento alla Villa, alle sue stanze e agli oggetti che queste contengono, ha valore metonimico: il protagoni-sta vi si lega, cioè vi ritrova se stesso, perché sono stati un tempo di-mora e proprietà della donna che Valentino vorrebbe per specchio.

La prima parte di :riflessi è davvero, come rilevato dalla critica, un’opera in stretta continuità con i due libri di poesie che la precedo-no, sia perché ne condivide l’immaginario scenografico, ma soprat-tutto perché partecipa dello stesso tentativo di acquisizione di una va-lenza mitica di verità (di identità) che coincida col grado zero della morte: solo nella morte infatti può sperare di attuarsi l’assurdo pro-posito del principe Kore, solo morendo Valentino avrà ricompiuto il percorso materno, e solo morendo avrà sottratto al fluire del tempo la propria esistenza e potrà finalmente fregiarsi di un’Identità stabile:

L’identità è spesso (quasi inevitabilmente) concepita come qualcosa che ha a che fare con il tempo, ma anche, e soprattutto, come qual-cosa che si sottrae al mutamento, che si salva dal tempo. L’identità di una persona, di un “Io”, è considerata come una struttura psichi-ca, come un “ciò che rimane” al di là del fluire delle vicende e delle circostanze29.

Le movenze psicanalitiche del romanzo rivestono di se stesse un problema epistemologico, perché è la crisi di un soggetto scopertosi privo di fondamento, dunque privo di punti di riferimento, a scate-nare la nevrosi identitaria del protagonista. È questa assenza di un fondamento conoscitivo (di sé e di conseguenza del mondo) a spin-gere Valentino nella regressione verso una «fantasmatica essenza per-duta […] nella quale realizzare la propria identificazione»30. La ricer-ca dell’Origine (la madre) è ancora una volta un sogno di fissità e come tale è un sogno di morte (in questo senso i riferimenti nel testo sono innumerevoli, si dica solo, a titolo di esempio, che il battito sul-la porta della sua stanza a Valentino sembra risuonare sul legno della cassa funebre e che, non a caso nel momento in cui avverte Johnny come definitivamente lontano da sé, si definisce «trapassato»31).

29 Francesco Remotti, Contro l’identità (1996), Milano, Feltrinelli, 2007, p. 4.30 Antonio Saccone, L’occhio narrante, cit., p. 41.31 Aldo Palazzeschi, :riflessi, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 33.

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Per Valentino la conoscenza di sé equivale all’identificazione con l’identità materna (fino alla morte), la sua concezione è, come abbia-mo detto, platonica e cristiana: si tratta di risalire da una copia che, in quanto immersa nella contingenza, è esposta ai pericoli della con-taminazione32, a un originale situato nel regno assoluto e inviolabile del fuori-tempo: non a caso quando Valentino vede il corpo della madre riposare sul proprio letto è preoccupato di contaminarlo33, inoltre non vuole che ella si desti, non vuole, si potrebbe dire, che prenda nuovamente parte alla vita (la stessa stanza dove la madre si è suicidata è esclusa dalla ricognizione che giorno dopo giorno Va-lentino compie attraverso le varie camere di Bemualda). Si può leg-gere in questo senso anche il famoso episodio dell’incendio dei pa-gliai: da un lato eliminazione di un elemento connesso alla volgari-tà del reale, ma dall’altro, dal momento che, come ha notato Savo-ca, i pagliai hanno una grande e ripugnante pancia, eliminazione di un elemento che ricorda al protagonista l’inevitabile “contaminazio-ne” dell’oggetto materno.

È ancora l’irruzione del contingente il problema che Palazzeschi sta affrontando: la costruzione di un’identità ha infatti come perno centrale la riduzione della molteplicità, poiché, essendo l’identità un’operazione di selezione e scelta di determinate caratteristiche fra tutte quelle possibili, è suo interesse l’eliminazione di tutte le possibilità alternative; per garantirsi “forte” l’identità deve soppri-mere ogni possibile alterità e serrarsi in un’unità che basti a se stes-sa. Il ritorno «androgino» alla madre morta diventa per Valentino la possibilità di una “vera” Identità e questa, sarà ormai chiaro, è l’unica garanzia connessa alla possibile formazione di una Verità. E un sogno di verità, l’abbiamo già detto, è in fondo un sogno di morte.

32 Cfr. Gérard Genette, Il complesso di Narciso, in Figure I: retorica e strutturalismo (1966), Torino, Einaudi, 1969, p. 21: «Prigioniero della propria immagine, Narciso si irrigidisce in una immobilità inquieta, poiché sa di essere alla mercè del più pic-colo spostamento che, sopprimendo il suo riflesso di cui non è più che una pallida dipendenza, distruggerebbe anche se stesso».

33 Cfr. Aldo Palazzeschi, :riflessi, in Tutti i romanzi, i, cit., pp. 88-89: «Qualun-que parola, per quanto Ella non l’udisse, dovrebbe contaminare la sua pura bel-lezza. […] e non mi coricherò più nel letto, come potrei pormi al sua fianco sen-za macchiarla?». (Il tema della «macchia» era già stato fondante in La storia di fra-te Puccio).

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Nell’ultima delle trenta lettere un Valentino finalmente sereno (che ha anche compiuto due giorni prima un vero e proprio cammi-no di purificazione ascetica) annuncia dunque a Johnny che quella festa di quindici anni prima, la festa interrotta dal suicidio della ma-dre, sta per ricominciare: qui termina la prima parte del romanzo.

Ci ritroviamo da questo punto catapultati in una girandola di voci a carattere giornalistico che, partite dalla perentoria notizia del suici-dio del principe, si aggrovigliano poi in un susseguirsi di dati, ipotesi e congetture su quanto accaduto. Si tratta, come vedremo nel para-grafo successivo, di un passaggio dal singolare al plurale: se nella pri-ma parte del romanzo l’unicità del punto di vista di Valentino gli consente una deriva essenzialistica nella costruzione della propria identità, il movimento verso la molteplicità delle voci esterne ci mo-stra ora quella stessa identità come costruzione in fieri soggetta al di-venire. L’assenza del soggetto che dice «io» permette il sorgere umori-stico di ipotesi contrastanti, l’affiancarsi di nuovi punti di vista a quel-lo del protagonista indebolisce fatalmente quest’ultimo, nel bru licare caotico delle affermazioni ogni visione particolaristica acquisisce pari diritti, ogni voce, questo il punto, forma un’identità per Valentino.

La nuova condizione di assenza del soggetto, lungi dal provocare un afasico silenzio, comporta l’irruzione della varietà. Ma il tema della costruzione dell’identità del protagonista non perde nulla del-la propria valenza: Valentino infatti resta apparenza, riflesso, ma l’originale da cui questo riflesso scaturisce non può più identificarsi in relazione a ciò che Valentino stesso aveva aprioristicamente pre-supposto come essere (l’identità materna), ma può solo relazionarsi specularmente e di volta in volta a una serie di “originali” (le voci della gente). Queste però, essendo plurime e fra loro contrastanti, si svelano subito come assenza di essere, in quanto produzione inter-pretativa subordinata al divenire.

Nello spazio della lacuna, dell’assenza di conoscenza, il soggetto affronta la propria sparizione34 e scopre come essa sia anche una mol-tiplicazione, ma la pluralità delle voci, tutte protese, si badi bene, nel

34 Cfr. Pierre Klossowski, Nietzsche, il politeismo e la parodia, in «Il verri», 39-40, p. 128: «Dio è morto non significa che con la divinità scompaia una spiegazione dell’esistenza, bensì che il garante assoluto dell’identità dell’io responsabile sparisce all’orizzonte della coscienza».

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tentativo di rinchiudere l’identità del principe Kore in una singola caratteristica, investono ironicamente (e umoristicamente) tutto il meccanismo della costruzione identitaria attuato nella prima parte del romanzo. Se infatti ogni procedimento di costruzione (ma pos-siamo dire anche di finzione) dell’identità comporta l’esclusione di tutta una serie di possibilità altre rispetto al modello prescelto, que-ste voci facendo leva, nella loro telegraficità, su di un singolo aspet-to, scherniscono a posteriori l’intero progetto originario di Valenti-no. È insomma il loro evidente palesarsi come mere ipotesi soggette al tempo a rivelarci la natura, anch’essa a questo punto totalmente arbitraria, della quête raccontata nella parte epistolare dell’opera.

Ecco dunque decadere di conseguenza quei motivi che avevamo visto alla base del progetto di Valentino: il tempo riconquista la sua natura progressiva e la sua capacità di produrre cambiamenti; il de-siderio di completezza è totalmente abiurato dal sistema aperto (e ipoteticamente infinito) che le voci congetturanti offrono; la conta-minazione non è più un elemento provocante nevrosi dal momento che non è più presente nessun sistema chiuso, nessun sogno di pu-rezza e integrità, da preservare; la morte, divenuta un’ipotesi fra le tante (e come ora vedremo palesemente ironizzata), è anch’essa ri-condotta nel flusso mobile delle interpretazioni: smette dunque di essere quel punto fermo garanzia di verità.

Ma il tema socratico-platonico del «conosci te stesso» non cessa di essere attivo, solo viene sarcasticamente rovesciato: la conoscenza di sé va a coincidere (come nel pensiero buddista35) con la consape-volezza di non esistere, cioè (per non dare adito a derive ingenua-mente scettiche) con la cognizione, naturalmente anti-essenzialisti-ca, di essere «un aggregato di aggregati, un flusso di eventi, una cor-rente di relazioni causali»36 vincolate alla temporalità.

35 Il pensiero buddista (già notata dalla critica la sua presenza in Palazzeschi) sostiene infatti la necessità di arrivare alla consapevolezza che l’io come essenza non esiste, ma è solo un’illusione, un’insieme di vari elementi. Mentre la tradizione occidenta-le ha sempre visto la causa del dolore nella disgregazione e frammentarietà dell’es-sere umano, il buddismo ha sostenuto esattamente la teoria opposta: dal momento che il dolore giunge all’io a causa del suo attaccamento alle cose, via maestra per la felicità è, per l’appunto, la dimostrazione della non esistenza (cioè della assoluta frammentarietà) dell’io.

36 Serge-Christophe Kolm, La teoria buddista della negazione dell’io, nell’opera col-lettiva L’io multiplo (1985), a cura di Jon Elster, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 277.

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Valentino Kore ritrova davvero la propria identità, perché l’uni-co possibile sé, liberato dal pathos dell’autenticità, è quello franto e polverizzato che emerge dalla seconda parte del romanzo: l’identità non era rintracciabile nell’ideale platonico, necessariamente nevroti-co, del rapporto con la madre, ma nella situazione pluriprospettica proveniente dalla rete di relazioni che scaturiscono nel momento in cui una cosa, un soggetto, si espone ai giudizi del mondo.

Decaduta la valenza legislatrice, e unificatrice, dell’io può final-mente giungere il regno della contraddizione, che è poi, come ora vedremo, il regno della retorica: «l’io, io! … Il più lurido di tutti i pronomi! …»37.

4. la svolta retorica

diritti uguali per tuttiFriedrich Nietzsche, Il caso Wagner

Di due diversi moniti filosofici (entrambi sconosciuti a Palazzeschi) la seconda parte di :riflessi costituisce paradossalmente una chiosa pregnante: l’avvertenza nietzschiana secondo cui non ci sono più fatti ma solo interpretazioni e l’auspicio di Deleuze a sostituire il predicato «è» con la congiunzione «e». Benché infatti le singole voci che si aggirano intorno all’evento della scomparsa del principe siano tutte (o quasi) perentorie nella loro affermatività, il loro paratattico accostamento ne provoca un reciproco indebolimento che ne svela la natura meramente ipotetica. Il vaticinante lancio dei dadi me-diante il quale Valentino aveva cercato, nella prima parte del roman-zo, lumi sul proprio futuro, trova adesso un’ironica risposta: la spa-rizione di colui che dice «io» dà luogo a una relativizzazione conti-nua che si nega a qualsiasi sintesi conclusiva (un procedimento che abbiamo già visto in atto, miniaturizzato, nella poesia Torre burla di Lanterna).

Mediante la figura dell’antitesi Palazzeschi inaugura la propria per-sonale (e paradossale) via alla leggerezza: «nulla è costante salvo l’in-stabilità stessa»38. Ogni frammento riportato si vuole infatti compiu-

37 Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Torino, Einaudi, 1963, p. 123.38 Gérard Genette, Il complesso di Narciso, in Figure I, cit., p. 24.

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to in se stesso, ed è in questo senso che ognuno di essi diviene parodia del tentativo essenzialistico e onnicomprensivo compiuto dal prota-gonista nella prima parte dell’opera. Ogni frammento, nella sua ora-colarità, vorrebbe darsi come irrelato sistema filosofico contenente, in piena evidenza, la sua piccola, ma compiuta e autoritaria, verità:

La scorsa notte, nella sua villa di Bemualda, in Toscana, si suicida-va il Principe Valentino Kore. La notizia si è presto divulgata per la città arrecando vivissima impressione39.

Egli tenne sempre vita solitaria e stravagante, possedeva una cultu-ra elevatissima e non amava circondarsi che di pochi intellettuali. Era violinista molto valente40.

Ora però quando queste voci cominciano a essere soggette sia al divenire, che modifica i dati di base e cambia dunque le congetture, sia al reciproco essere discordanti, ecco che il lettore, impossibilitato dall’assenza di ulteriori informazioni a parteggiare decisamente per l’una o per l’altra, avverte quelle stesse voci per ciò che realmente sono: interpretazioni41 o, detto in altro modo, costruzioni ideologi-che fondate ognuna sul proprio retroterra culturale o stereotipo di questo, e ciò è infatti chiaramente (e comicamente) evidenziato da-gli ultimi tre frammenti riportati:

Giornali Parigini si occupano diffusamente del fatto e con vivo in-teresse e fanno in proposito dello spirito molto «chic».

Anche giornali Americani si occupano del fatto, essi trattano di bla-soni e di gente di altri tempi, ma con molta cognizione e con qual-che esattezza.

È certo infine che un elegantissimo foglio Giapponese à potuto dire qualche cosa in proposito, con parole un pochino astruse ma mol-to notevoli42.

Le singole voci mostrano dunque l’inevitabilità di una «stilizza-

39 Aldo Palazzeschi, :riflessi, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 111.40 Ivi, p. 112.41 Cfr. Ian Richards, La filosofia della retorica (1936), Milano, Feltrinelli, 1967, p. 53:

«Deduzioni e congetture! E che altro è l’interpretazione?».42 Aldo Palazzeschi, :riflessi, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 130.

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zione interpretativa implicita in ogni comprensione della realtà»43, la forma di cui esse vogliono rivestire il reale non riesce però a produr-re l’inganno dell’essere, e si svela in quanto forma dal momento che ognuna di esse è immessa in un flusso dove tutte, se pur discordan-ti, hanno pari dignità.

L’equiparazione valoriale delle forme porta alla ribalta il princi-pio della contraddizione, il principio antitetico (e non sintetico) connesso alla dialettica. Modulandosi, nel regno del dialogo, su una contrapposizione continua l’idea di verità perde il carattere platoni-co di evidenza e si fa verità itinerante, il mito del “movimento”44 prende il posto del mito dell’immobilità: si tratta di una strategia connessa alla retorica45.

Radice di questa è infatti la consapevolezza che la realtà non sia esprimibile se non mediante una sua “selezione”: un concetto siffatto già esclude la possibilità di approdare alla verità all’interno del terri-torio del linguaggio, di conseguenza qualsiasi approccio conoscitivo a un fatto (in questo caso la scomparsa del principe Kore) non può che darsi come soluzione prospettica, orientamento di parte, valido ma necessariamente parziale, e dunque passibile di essere affiancato da un altro orientamento (ugualmente valido e ugualmente di parte) che dello stesso fatto dia un’interpretazione diametralmente opposta:

L’ultima notizia reca che il Principe Valentino Kore non sarebbe morto, egli verserebbe tuttavia in gravissime condizioni.

Si parla anche di incendio alla Villa di Bemualda. Il Principe sareb-be forse rimasto vittima di un incendio?

Giungono ancora notizie molto inesatte; taluno parla di suicidio per asfissia.

43 Paolo Valesio, Ascoltare il silenzio. La retorica come teoria, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 397.

44 Cfr. Grazia Livi, Palazzeschi. La mia ricetta della felicità, in «Epoca», xiv, 651, 17 marzo 1963, pp. 77-81: «La vita […] è movimento, cambiamento. E il cambiamen-to mi piace. […] Mi rendo conto che tutte le cose cambiano, che i colori della vita mutano. E questo è bello […]. Oggi […] c’è trasformazione, movimento. E que-sto, nonostante che io sia un povero vecchio, mi piace, oi come mi piace».

45 Cfr. Ezio Raimondi, La retorica d’oggi, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 22: «la retori-ca è il luogo del molteplice, della pluralità, delle differenze a confronto e in dialo-go, il luogo della molteplicità interrogativa, in cui si pongono problemi piuttosto che dare soluzioni».

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Il suicidio del Principe Valentino Kore sarebbe totalmente smen-tito!46

La coincidentia oppositorum che viene a innestarsi sulla forza mo-trice della contraddizione sottrae al lettore qualsiasi possibilità di ap-prodare a un giudizio sicuro: si comincia a sospettare, data l’inesisten-za della salma, che tutta la vicenda sia stata costruita dall’alienazione mentale di una delle due custodi della villa, si pensa «ad una piccola burla»47 messa in atto dallo stesso Valentino, il 9 dicembre si dice in modo fin troppo esplicito: «Si parla ancora molto del fatto, tutti vo-gliono vera la propria versione, la verità per adesso si na sconde»48.

Il quadro si completa quando l’inglese John Mare afferma di non aver ricevuto, nel mese di novembre, alcuna lettera di Valentino. Solo che, a questo punto, il lettore non può più fidarsi della parola di nessuno: come il protagonista potrebbe avergli mentito per tren-ta lettere, come quelle trenta lettere potrebbero addirittura non esi-stere, anche la parola di Johnny vale di conseguenza ben poco (vuo-le forse sviare da sé i sospetti per un possibile omicidio di Valenti-no?). Tutto è valido, ma niente è valido in modo assoluto. Per appro-dare a questa assolutezza dovremmo infatti essere capaci di porci ol-tre la retorica, ma ciò vorrebbe dire porsi oltre il linguaggio (oltre qualsiasi linguaggio).

Le voci della gente, nel loro caricaturale tentativo di approdare alla versione unica, si caratterizzano in quanto voci di “buffi”, nel loro essere ingenuamente garanti di un senso esclusivo, sottolineano la latitanza di questo senso, e nel loro essere poste su un palcosceni-co del tutto privo di una qualsiasi possibilità di ordine gerarchico si rivelano tutte in quanto riflesso49: l’invocata ricerca di un’essenza nel rapporto platonico-speculare fra la copia e l’originale, rapporto che aveva animato la prima parte del romanzo, si rovescia ora in un «mul-tiprospettivismo centrifugo»50 dove gli unici riflessi possibili sono

46 Aldo Palazzeschi, :riflessi, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 114.47 Ivi, p. 122.48 Ivi, p. 128.49 Cfr. Max Weber, La scienza come professione. La politica come professione (1919), To-

rino, Einaudi, 2004, p. 22: «Qui nella vita, in ciò che per Platone costituiva il gio-co d’ombra sulle pareti della caverna, pulsa la vera realtà».

50 Antonio Saccone, L’occhio narrante, cit., p. 66.

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quelli fra copie51. Nel rifiuto dell’illusione dell’essenza la crisi palaz-zeschiana giunge così a un’umoristica risoluzione: la decadenza del significato ha perso i sintomi della catastrofe, il passaggio dal singo-lare al plurale, dall’«è» all’«e», decreta la sfiducia nella possibilità di una ricerca (sempre nevrotica) della verità oggettiva: a essa si sostitu-isce ora la «volontà di aderire al ritmo contingente della vita»52. Chia-rito questo punto si chiarisce che per Palazzeschi, d’ora in avanti, qualsiasi pulsione immobilistica, qualsiasi tensione verso la forma, ad esempio qualsiasi pronuncia del termine «io», avrà valore ironico.

Quel giallo filosofico che è la seconda parte di :riflessi “riflette” sulla prima parte e così facendo la distanzia, ne svela cioè la natura di simulacro dichiarandosi essa stessa, ma senza più alcun rammari-co (in quanto aliena dal bisogno di verità), apparenza. La crisi gno-seologica viene così risolta ipostatizzandone gli stessi presupposti: la scelta retorica la rende evidente e ne offre una soluzione protesa in avanti.

In virtù della sua affinità con probabilità e verosimiglianza più che con certezza e valori assoluti, la retorica sembra comparire in perio-di di crisi, di caduta dei valori53.

«La posta del gioco è quella di portare il mondo davanti alla rap-presentazione della sua contingenza»54. L’abbandono del soggettivi-smo solipsistico coincide allora con l’ingresso nella rete relazionale del consorzio umano e, di conseguenza, con una nuova concezione pubblica, dunque retorica, della verità55. La diffidenza nei confronti del soggetto della moderna metafisica permette la comparsa di un uditorio attivo56 che formula, nel tempo, una serie di verità sulla

51 I segni, si potrebbe dire, non rimandano a un significato ma solo ad altri segni. Il tentativo di interpretazione, che pure il lettore deve svolgere, è destinato a cadere nel vuoto.

52 Gino Tellini, Introduzione, in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, i, cit., p. lxxxv.

53 Francesca Rigotti, La verità retorica, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 14.54 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 58.55 Cfr. Ezio Raimondi, La retorica d’oggi, cit., p. 86: «la retorica […] si ostina a cer-

care dei significati, ma al tempo stesso li mette in discussione, ne radicalizza le pos-sibilità, ne indica le debolezze».

56 La decadenza di un concetto universalistico della verità è, secondo Perelman, ine-vitabilmente connessa all’ingresso sulla scena di un pubblico.

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base dei rispettive paradigmi e delle rispettive precomprensioni57. L’accostamento di tutto un universo di “possibili” che Palazzeschi offre al lettore modifica radicalmente il precedente approccio onto-logico, minando, ermeneuticamente, qualsiasi tentazione (o deriva) assolutistica.

La nuova verità ermeneutica sarà dunque una verità fondamen-talmente retorica58, e «non la verità di un’essenza, bensì la finzione di una maschera»59, poiché, rivelato il carattere posticcio di una co-struzione identitaria che si voglia essenzialistica, l’indossare, di volta in volta, maschere identitarie, servirà a porre in risalto l’operazione irrinunciabile, ma artefatta, di dire «io». La pluralità connessa alla proliferazione delle maschere rende evidente la contingenza e l’arbi-trarietà correlate al tentativo ingenuamente identitario. L’operazione di secondo grado (la maschera) svela insomma l’inganno concatena-to all’operazione di primo grado (l’identità): il passaggio dal singo-lare al plurale, dall’Uno al molteplice, rende manifesto che l’appro-do all’Uno (pur inevitabile nell’esistenza umana) è solamente il frut-to di una selezione, di una “semplificazione”, dell’esclusione di ogni possibile alterità. Svelato questo procedimento quello che si credeva approdo a un essere si svela in quanto approdo a una forma (tenta-tivo coatto di immobilizzazione dell’esistenza), e come tale certa-mente passibile, nell’apologia della vita come varietà e contraddizio-ne che Palazzeschi sta approntando, «di un’omerica risata»60.

57 In questo modo ogni sentenza contiene implicitamente un’ironia su tutto ciò che è sentenzioso.

58 Cfr. Gianni Vattimo, La fine della modernità (1985), Milano, Garzanti, 1999, p. 143: «La verità ermeneutica, cioè l’esperienza di verità a cui l’ermeneutica si richiama e che essa vede esemplificata nell’esperienza dell’arte – è essenzialmente retorica».

59 Antonio Saccone, L’occhio narrante, cit., p. 64.60 Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano (1878), i, Milano, Adelphi, 2002,

p. 27.

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iii. poemi

1. catene metonimiche di un cambiamento cromatico

Il colore minaccia disordine, ma insieme promette libertà.David Batchelor, Cromofobia

Il principe vi manda queste rose,le vedete?Questo fascio di rose del più vivo colore,sangue e rubino, le vedete?Volete ch’io le posi attorno ai vostri piedi?Sono divini i vostri piedi bianchi.– Ditegli che i miei piedi non le vollero,n’ebbero orrore come d’immergersiin una pozza di sangue.[…]Egli vi domanda un bacio,un bacio per la sua felicità.– Non sa egli che le mie labbrasono fredde come quelledella morte?[…]– Come non sa egliche ad una principessa di marmonon è dato amare?1

Il cambiamento prospettico che i Poemi, nella loro bivalenza, esem-plificano, si materializza cromaticamente nel trapasso dal bianco al

1 Aldo Palazzeschi, La principessa bianca, in Poemi (1909), in Tutte le poesie, cit., pp. 120-121.

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rosso. L’opposta sequela metonimica che l’apparizione del rosso comporta modifica infatti radicalmente la poetica palazzeschiana.

Nella poesia citata (La principessa bianca) l’assenza del colore, di-cotomica al rosso erotico delle rose inviate dal principe, rimanda alla consueta serie semantica di immobilità, eterna ripetizione, morte2. Il rifiuto dell’offerta amorosa comporta l’esclusione del potere vita-le, dunque sovversivo, di Eros. Rifiutandosi all’amore la principessa (non a caso di marmo) si rifiuta al movimento, esclude l’eventualità del cambiamento e ipostatizza la propria “divinità” (altro elemento della catena semantica) rifiutando la contaminazione (come sottoli-neato dall’«orrore» che simbolicamente nasce in lei nell’accostamen-to del bianco dei piedi al rosso dei fiori).

Le catene metonimiche attivate dal bianco e dal rosso, qui inne-state nell’esemplificazione di un singolo testo, sono però incredibil-mente più complesse. Sarà allora necessario fare, sempre con l’oc-chio rivolto ai Poemi, una piccola digressione. Crediamo che in que-sto modo, quando ritorneremo al nostro tema centrale, tutto appa-rirà più chiaro.

Una breve storia del rapporto dell’Occidente col “bianco” (e di conseguenza col colore) è stata tracciata da David Batchelor nel già citato Cromofobia. Mediante una complessa rete di riferimenti lo stu dioso inglese formula la teoria secondo cui all’apparizione del co-lore bianco sono connesse una serie di idee aventi come vettore il ri-fiuto dell’instabile, del parziale, del relativo. Definisce il bianco come «uno sguardo di morte nella vita»3, espressione di una pienezza divi-na la cui vita interna è nascosta e in cui qualsiasi rapporto con l’ester-no è escluso, qualsiasi movimento bandito. Secondo Batchelor nel bianco tutto è ordine e dunque tutto è esclusione-repressione: qual-siasi imperfezione va rifiutata al fine di evitare la corruzione. Per i so-stenitori del bianco (si pensi al neoclassicismo) il colore o va espun-to in quanto «considerato come proprietà di un qualche corpo “estraneo”»4 (il femminile, l’orientale, il primitivo, l’infantile, ecc.),

2 Cfr. Giuseppe Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, cit., p. 179: «Assumere la ripetizione dell’identico come modo di vita è fare una scelta di morte».

3 David Batchelor, Cromofobia (2000), Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 11.4 Ivi, p. 19.

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o va relegato al regno dell’inessenziale, del superficiale: «Il colore è pericoloso, è banale, o l’una e l’altra cosa insieme»5. Il colore è dun-que corruzione, simbolo di una Caduta dalla Grazia, manifestazio-ne dell’accidentalità della carne di contro alla perfezione immobile delle Idee. Il colore è dunque proprio della sfera corporale e grotte-sca, «il colore è insieme secondario e pericoloso; in effetti, è perico-loso perché secondario»6, espressione, diremo, di ciò che eccede dal-la forma travalicandone il Sistema. Il colore è l’Altro, ed è dunque in questo senso minaccia all’identità monolitica dell’Io, espressione di ciò che non può essere contenuto, ma che va contenuto al fine di sal-vaguardare una visione circoscritta, dunque comprensibile, della re-altà. Dove il bianco esprime pulizia, chiarezza, sanità, razionalità co-struttiva, padronanza, purezza, verità, il colore è caos, confusione, disordine, disonestà, ambiguità, sporcizia. Il colore inficia la validità del “codice”, mette in mostra che la purezza-verità (si ricordi La sto-ria di Frate Puccio) è stata da questo ottenuta mediante l’eliminazio-ne coatta di tutto ciò che eccedeva dai suoi presupposti di partenza. Il colore costringe dunque la catena metonimica originata dal bian-co a fare i conti con gli aspetti dell’esistenza che questa ritiene, per meccanismo difensivo, pericolosi o superficiali (e non è un caso che l’opposizione platonica fra filosofia e retorica, quella retorica che sappiamo cosa comporta, «fu rimaneggiata nell’estetica aristotelica come opposizione fra linea e colore»7). Il colore esalta le componen-ti casuali e indeterminate, sottrae fondamento alle cose perché le mostra parti di una rete di relazioni; è espressione del desiderio, con esso arriva «la disgregazione, la discontinuità, la confusione, la pas-sione e, soprattutto, il sesso»8.

Il bianco si caratterizza invece come impulso al dominio, l’evi-denza che la sua verità propugna «pretende di risolvere e cancellare nella sua unità le contraddizioni del reale»9. Funzione del bianco è sottomettere a una normalizzazione la pluralità della vita. In questa dicotomia il colore rappresenta invece la possibilità di una “critica”:

5 Ibidem.6 Ivi, p. 31.7 Ivi, p. 60.8 Ivi, p. 80.9 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 5.

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con esso tutto ciò che dal bianco era escluso torna a reclamare pari-tà di diritti.

Il colore ha un atteggiamento smascherante e distruttivo, nel suo essere critica si assume il compito di modificare ciò che si riteneva Verità, la sua possibilità eversiva consiste nel mettere in collegamen-to con l’esterno un mondo che si riteneva irrelato, e in questo movi-mento straniarlo, renderlo “problematico”, renderlo, da immobile che era, in divenire: in questo modo il principio della contaminazio-ne-corruzione si fa assioma di una nuova concezione storica fonda-ta sull’indebolimento delle categorie, luogo deputato dell’instabile, del dinamico, del mutevole, nonché luogo di un ritorno (negativo e analitico) al materiale precedente (è forse addirittura superfluo fare a questo punto il nome di Bachtin10).

Fermiamoci qui, alle soglie di una concezione umoristica: questa concezione non troverà in Poemi la sua piena applicazione (bisogne-rà aspettare L’Incendiario e soprattutto Il Codice di Perelà), ma se ne vedranno nascere, seguendo le catene metonimiche del bianco e del colore, i necessari prodromi.

2. il supremo contraddittore

La persistenza in Poemi di alcuni dei temi sviluppati nei due prece-denti libri di versi, lungi dal voler indicare movenze speculari, ne opera un rovesciamento attraverso il filtro della ri-lettura. L’apertu-ra con la celebre Chi sono?, comportante tanto la presa d’atto di una

10 Si metta in relazione quanto detto con la descrizione del corpus classico data dal fi-lologo russo. Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979, p. 350: «un corpo perfettamente dato, formato, rigorosamente deli-mitato, chiuso, mostrato dall’esterno, omogeneo ed espressivo nella sua individua-lità. Tutto quello che esce, che sbuca fuori dal corpo, qualsiasi protuberanza, escre-scenza e diramazione, cioè tutto ciò con cui il corpo esce dai suoi limiti e comincia a formare un altro corpo, si stacca, si elimina, si chiude, si rammollisce. E allo stes-so modo si chiudono tutti gli orifizi che danno accesso al corpo. Alla base di que-sta immagine sta la massa del corpo, individuale e rigorosamente delimitata, la sua facciata massiccia e cieca. La superficie cieca, la piattezza del corpo, acquistano un’importanza primaria come frontiera di un’individualità chiusa, che non si me-scola con gli altri corpi e col mondo. Tutti i segni che denotano l’incompiutezza e l’imperfezione sono scrupolosamente eliminati, così come lo sono tutte le manife-stazioni esterne della sua vita all’interno».

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iii. poemi 69

distanza dal repertorio crepuscolare11, quanto l’attuazione di un meccanismo di reificazione («Son dunque…che cosa?»12) che inficia auto-ironicamente la valenza identitaria dell’Io, modifica inevitabil-mente il codice di lettura per i testi successivi.

È certo giusto considerare la poetica del saltimbanco come la ri-sposta ironica e semi-parodica che l’artista oppone «allo svilimento di un secolo ormai in preda al potere del denaro»13, ma va aggiunto che lo strumento derisorio che il clown oppone al reale non è neces-sariamente finalizzato, con intento sarcastico, al proporsi di mostra-re al «mondo malato»14 il suo ordine autentico, il suo fondamento perduto; ma può essere teso, nietzschianamente, alla compartecipe derisione di chi continua ad affidarsi a fondamenti15 («modelli», avrebbe detto Savinio) in realtà inesistenti. In termini più semplici il ruolo del saltimbanco può sì essere quello di riportare il reale dall’alienazione all’autenticità, ma può essere anche quello di addi-tare al mondo l’inesistenza di tutto ciò che esso considera autentico, non per proporre un nuovo ordine, ma per prefiggere un permanen-te disordine.

Un pagliaccio così inteso, definitivamente separato dalla sua componente mortuaria, si proietterà oltre i clown baudelairiani e i pierrot simbolisti «mimando l’incontenibile momento sorgivo della vita»16. Espressione libera di non-senso avrà assunto il compito di mettere in dubbio qualsiasi calcificazione del senso. Armato della contraddizione umoristica additerà alla folla il vuoto su cui i signifi-cati poggiano, ma non per condurla a un nichilismo del senso, ma a una plurivalenza di questo:

La missione dei saltimbanchi è quella di far conoscere agli uomini

11 Cfr. Piero Pieri, Ritratto del saltimbanco da giovane, cit., pp. 13-39.12 Aldo Palazzeschi, Chi sono?, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 71.13 Jean Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco (1970), Torino, Bollati Borin-

ghieri, 2002, p. 61.14 Ivi, p. 131.15 Cfr. Martin Heidegger, Dell’essenza del fondamento, Milano, Bocca, 1952, p. 19:

«La “verità” cioè i giudizi veri, traggono la loro natura dal rapporto con qualcosa sul fondamento del quale possono accordarsi […] La verità porta quindi sempre con sé un essenziale legame con qualcosa come un “fondamento”. Ecco perché il pro-blema della verità porta necessariamente nelle vicinanze del problema del fonda-mento».

16 Jean Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, cit., p. 139.

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l’eterno ruotare del mondo, l’instabilità e la mutevolezza di ogni cosa umana;

essi esprimono:

la coscienza dell’assurdo dell’esistenza, di una vita senza finalità e scopo, insomma del tramonto delle rassicuranti certezze e delle fal-se verità a cui l’uomo si teneva ancorato17.

Ecco allora che la sentenza auto-ironica di un poeta che rifiuta di definirsi tale, invita il lettore a sottrarre concretezza a qualsiasi sen-tenza, a introiettare il “negativo” in qualsiasi giudizio. La nuova po-etica del saltimbanco comporterà dunque una modificazione dei temi canonici palazzeschiani e insieme l’apparizione di motivi del tutto nuovi.

3. in fieri

Veicolate dalla presenza massiccia delle rime e delle quasi rime, da un utilizzo più insistito di figure come l’onomatopea18, dall’adozio-ne dei «moduli di una metrica più libera»19, le nuove poesie di Palaz-zeschi ritornano sulle situazioni consuete operando, su un reperto-rio configuratosi ormai alla stregua di un magazzino tematico, deci-sivi spostamenti di senso.

La tradizionale costruzione geometrica chiusa, ad esempio, è condotta verso un parossismo che introduce nel lettore il sospetto (almeno in alcuni casi) di una parodia in atto20: l’accentuarsi della regolarità geometrica non comporta infatti, come sarebbe lecito at-tendersi, un accentuarsi di quella valenza mitica esperita in I cavalli

17 Marta Barbaro, Il saltimbanco di Palazzeschi: dalla coscienza infelice alla fiera car-nevalesca, nell’opera collettiva Palazzeschi e i territori del comico, Atti del Convegno, Bergamo, 9-11 dicembre 2004, a cura di Matilde Dillon Wanke e Gino Tellini, Fi-renze, Società Editrice Fiorentina, 2006, pp. 201-202.

18 Si pensi alla celeberrima La fontana malata. Si guardi l’interpretazione che ne ha dato Piero Pieri in Paradossi dell’intertestualità, Ravenna, Allori, 2004, pp. 55-82.

19 Giuliana Adamo, Metro e ritmo nel primo Palazzeschi, cit., p. 67.20 Cfr. Jole Soldateschi, Da «:riflessi» ad «Allegoria di novembre», in Il laboratorio

della prosa. Pratesi – Palazzeschi – Cicognani, Firenze, Vallecchi, 1986, p. 92: «Palaz-zeschi opera il rovesciamento delle proprie tensioni nevrotiche, esasperando la de-finizione geometrica dei luoghi».

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bianchi, bensì un capovolgimento comico avente per bersaglio pro-prio quell’interno della struttura ritenuto in precedenza determi-nante. Si legga ad esempio il IV Prato di Gesù:

Lunghissimo, profondo,non si può girare in tondo,solo da un lato, ad unacomodissima balaustrata,la gente si può fermarefinché vuole per guardare inginocchiata.Proprio in fondo al prato,accuratissimamente distesa,c’è una camicia bianca di bucato21.

Nel V Prato, invece, l’ipnotico girare della gente attorno alla ca-nonica struttura geometrica viene addirittura equiparato a un noto passatempo infantile, e riportato dunque alla dinamica del gioco:

giro giro, tondo tondo,da che mondo è mondo22.

L’eterno ripetersi dell’identico (elemento che, come vedremo, verrà a breve posto definitivamente sotto una luce ostile) è qui paro-disticamente inficiato dal richiamo semantico dei due versi alla po-polare filastrocca «giro giro tondo, casca il mondo»23.

Inoltre la consueta, ma esasperata, insistenza nelle rappresenta-zioni di rituali a carattere liturgico, destinati, come da copione, a concludersi in una sospensione che non ne rivela il senso, accen-tua quella prospettiva di «rito senza mito» a cui già si è fatto rife-rimento: «tutto il cerimoniale pende verso un’implicita nullifica-zione»24.

I vecchi schemi sono poi spesso portati a consunzione mediante un meccanismo iperbolico (figura chiave di Poemi) che ne invalida, in direzione chiaramente autoparodica, l’antico retaggio mitico-fia-

21 Aldo Palazzeschi, I prati di Gesù, IV, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 83.22 Id., I prati di Gesù, V, ivi, p. 84.23 Bisogna aggiungere che il VII Prato di Gesù vedrà apparire direttamente la compar-

sa di un «girotondo».24 Adele Dei, Giocare col fuoco, in Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. xxviii.

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besco: è ovviamente il caso famoso delle «settecentomila beghine»25 che appaiono nel IX Prato di Gesù.

L’eversione comica, pur prevalente sul registro serio, non è però assolutamente totalizzante. Nonostante la particolare chiave di let-tura che la poesia Chi sono? autorizza a proiettare sulla tonalità di tutti i testi, Poemi resta un libro ambiguo e ambivalente.

Le catene metonimiche in precedenza individuate, già operanti implicitamente (come si sarà inteso) nei Prati di Gesù, acquistano valenza esplicita a partire dal testo che apre la sezione Marine:

mar rosso

Non è un ampissimo mare,si vedono bene i confini e i contorni,la forma che à, à forma di cuore.Son l’acque d’un rosso assai cupo,ma vivo fremente.[…]Padrone del mare,è un giovane Principe,biondo bellissimo.[…]Padrone assoluto, egli giratraversa percorre inegualein tutti i possibili sensi.La punta acutissimadi quella terribile lanciatrafigge, trapassa, traforal’ammasso rossastro dell’acque,ne balzano alti gli spruzzi,in gorghi ed in fiottis’innalzano l’acque al passaredi quella terribile lancia.Il Principe, in piedi, impassibile,neanche un istanterallenta il suo corso,neppure uno spruzzo lo bagna,la veste sua biancanon porta neppure un puntinodel rosso dell’acque.

25 Aldo Palazzeschi, I prati di Gesù, IX, ivi, p. 89.

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[…]Un gemito, un fremito,che sembra l’affannod’eterno ed uguale dolore,vien su da quel mareche à forma di cuore26.

Rispetto alle peculiarità del rosso e del bianco prima individuate, questa poesia si presenta quasi didascalica: ci troviamo infatti di fronte alla consueta costruzione geometrica chiusa, invasa stavolta da un colore che incute timore (è definito «cupo»), ma che si presen-ta insieme «vivo, fremente». La familiare figura principesca (bianca e bloccata in un moto indicante eterna ripetizione27) è dominatrice di queste acque e al contempo interamente separata da queste: la contaminazione, è detto chiaramente, non si verifica.

La valenza autoritaria (segnalata tre volte dal sostantivo «Padro-ne») permette la differenziazione stagna dei due mondi, la separazio-ne delle due catene metonimiche: al prezzo del «dolore», richiamato nel finale del testo, il Principe contiene la valenza eversiva delle ac-que, salvaguardando, in questo modo, la propria purezza-immobili-tà-ripetizione. Come già accaduto nel romanzo :riflessi Palazzeschi svela ora il meccanismo nevrotico sotteso al “faticoso” mantenimen-to di un universo che si vuole ordinato e gerarchico.

Nel testo successivo (Mar giallo) il contatto fra la «gente» e le ac-que, pur desiderato, verrà infatti congiunto indissolubilmente a un meccanismo punitivo (dunque anti-contaminativo) tipico delle mo-venze di un Super-Io smisuratamente esteso:

Nessuno azzarda però di toccarequell’acqua, la legge lo proibisce,se uno vi intinge un dito talora,il dito resta di giallo tinto,e la legge lo punisce28.

26 Id., Mar Rosso, ivi, pp. 93-94.27 Si ricordi la poesia La lancia di I cavalli bianchi.28 Aldo Palazzeschi, Mar Giallo, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 95. Estrema-

mente interessante il fatto che in questo testo al colore delle acque si leghi anche il rischio di danneggiamento degli occhi. Tematica che ovviamente richiama il mec-canismo dell’Edipo.

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4. exempla ficta

Le figure che Palazzeschi allinea, a partire dalla sezione Ritratti, por-tano sulla scena tematiche nuove che si affiancano alle precedenti.

Testi come La matrigna, la serie delle Regine, Corinna Spiga, Le finestre di Borgo Tramontano, La cena degli infelici, ecc., richiamano i consueti meccanismi legati alla catena metonimica del bianco (an-che se non mancano elementi che prospettano un cambiamento in atto29): si pensi all’«aureola di purità»30 che attornia Regina Paolina; all’eterna ripetizione dei gesti a cui è condannata Regina Carlotta31 (ripetizione che coinvolge anche il geometrico paese di Borgo Tra-montano); si pensi poi al consueto meccanismo di trasgressione-pu-nizione che blocca gli avventori di La cena degli infelici32 (meccani-smo tanto più interessante perché coinvolge la sfera eminentemente corporale del cibo). Il legame fra immobilità e morte viene poi chia-ramente delineato in La porta:

Dinanzi alla mia portasi fermano i passanti per guardare,taluno a mormorare:là dentro quella casala gente è tutta morta,non s’apre mai quella porta,mai mai mai33.

Accanto a questi esempi (di certo più numerosi di quelli da noi riportati) se ne affiancano però altri che modificano irrimediabil-mente il precedente modo di operare.

La comparsa di una tematica fondante come quella del “buffo” (si guardi ad esempio Lord Mailor) sottolinea di un più esplicito in-gresso in un mondo improvvisamente alleggerito: il libertino invec-

29 Ad esempio la trasfigurazione di Regina Carmela in «una lingua di fuoco», ma fuo-co, si badi bene, costretto alla segregazione e all’immobilità.

30 Aldo Palazzeschi, Regina Paolina, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 110.31 Cfr. Id., Regina Carlotta, ivi, p. 115: «sempre quel passo | sempre quell’eterno giro |

attorno al suo castello, | e il giro dura un giorno».32 Cfr. id., La cena degli infelici, ivi, p. 138: «Non toccano cibo gli undici, | immobili

guardan di scorcio | il passare veloce | dei piatti davanti. | Legumi degli orti proi-biti».

33 Id., La porta, ivi, p. 145.

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chiato, ossessionato dai ricordi della sua giovinezza e incapace di esi-stere al di fuori di questa, è senza dubbio una figura comica. Impos-sibilitato a proiettarsi al di là della sua idea fissa, inetto a svelarla come priva di fondamento, viene in virtù di ciò punito. Il senso uni-voco di cui egli riveste la realtà, e così facendo la immobilizza, lo condanna alla degradazione umoristica. Il buffo infatti non coinci-de con l’umorismo, ma può esserne un momento interno: il suo sco-po è quello di mostrare un personaggio incapace di andare al di là di un’unica lettura del reale. Il fallimento che da ciò consegue serve ap-punto a mettere in risalto la possibilità (la necessità) di una lettura altra delle cose. Se l’umorismo ha il compito di ostentare la natura pluriprospettica della realtà, il buffo ha la funzione di esibire la con-danna di chi a questa caparbiamente si oppone34.

Testi come Lo sconosciuto e Il principe scomparso permettono poi di riprendere il discorso avviato nell’analisi di :riflessi. L’inco-noscibilità e l’assenza del protagonista (anche qui correlate a una ridda di voci esterne, per lo più interrogative dirette tese a sottoli-neare il nuovo valore dell’incompiutezza) riproducono infatti, in piccolo, quel meccanismo legato a una formazione impossibile del l’identità:

– Di dove egli viene?– Ma dove si sosta?– A quale capanna?– A quale palazzo?35

L’assenza, correlata come in :riflessi all’impossibilità di una defi-nizione, acquista così anche valore di fuga: evasione-emancipazione dal mondo bianco del “sempre uguale”. Fuga che troverà infatti voce in Habel Nassab, dove il meccanismo proiettivo del doppio (su cui torneremo a breve) permette la visualizzazione della coppia opposi-tiva desiderio-paura:

Vogl’ire! Vogl’ire lontano!La vo’ far finita l’orribile vita!

34 Cfr. Guido Guglielmi, La prosa italiana del novecento, vol. 2, Torino, Einaudi, 1998, pp. 3-21. Sul valore del «buffo» in Palazzeschi avremo ovviamente modo di ri-tornare.

35 Aldo Palazzeschi, Lo sconosciuto, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 107.

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Aprire la sudicia porta,[…]vogl’ire nel mondo, nel mezzo a la vita,vogl’essere uomo, amante, guerriero,vogl’ire lontano a gioire![…]No Habel, non pianger,ritorna la calma, sta’ certo,lo sai… rimango, rimango36.

Poemi non smette insomma di mettere in mostra la sua natura indefinibile37, affianca sezioni come Caricature, a evidente valenza comica:

il sindaco di terrazza

Tutto il giorno se la gira per la piazza,facendo giuochi in aria con la propria mazza,si ferma quando passa una bella ragazza38.

a testi come Ore sole dove, nella canonica e ripetitiva scansione del tempo (pur vivificata da un ritornello con sapore di filastrocca39), il protagonista riflette sulla inevitabile immobilità della propria vi-cenda.

Un testo come Il convento delle nazarene vede la palese parodizza-zione del materiale di marca crepuscolare precedente utilizzato:

Nazarene settecentotutte chiuse in un convento,senza luci e senza grateper le suore rinserrate.Ma ve le figuratetutte quelle monachecon quell’enormi tonache,là dentro rinserrate?40

36 Id., Habel Nassab, ivi, pp. 150-151.37 Una indefinibilità, è chiaro, ben diversa da quella di I cavalli bianchi.38 Aldo Palazzeschi, Il sindaco di Terrazza, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 128.39 Cfr. Id., Ore sole, ivi, p. 141: «Ore sole come solo pane, | per oggi e per dimane, | e

per tutti i giorni | di tutte le settimane».40 Id., Il convento delle nazarene, ivi, p. 135.

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Ma in seguito, proprio in Ore sole, il destino di quelle religiose sarà in qualche modo, non senza una sarcastica ironia, equiparato a quello del poeta:

Vien da qui pressospampanato il corodell’antico conventodelle Nazarene,sfogano in coro le loro penea tutte l’ore,anche per esse l’ore son sole41.

La componente di ambiguità persiste, in conclusione, a tutti i li-velli dell’opera: le varie sezioni e i singoli componimenti sembrano impegnati in un complicato gioco intratestuale di rimandi com-prendenti conferme e smentite. L’impressione è quella di una conte-sa in atto fra due opposti orizzonti interpretativi, due divergenti, per dirla grossolanamente, concezioni dell’esistenza: niente di strano dunque che si profili, nelle tre poesie conclusive, il “riflesso” del dop-pelgänger.

5. dal reale al “possibile”

L’avvenire è l’altro.Emmanuel Lévinas, Il Tempo e l’Altro

Dinnanzi allo Specchio Palazzeschi esperisce l’incontro con quel pro-prio «alter ego irregolare e igneo»42 che abbiamo visto aggirarsi fra le pagine di Poemi:

Cosa mi guardi, brutto sfacciato di uno specchio?Cosa mi guardi? Cosa ti credich’io abbia paura di te,sudicissimo indumento vecchio?43

La situazione di partenza presenta il tipico meccanismo pertur-

41 Id., Ore sole, ivi, p. 141.42 Adele Dei, Giocare col fuoco, in Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. xxxii.43 Aldo Palazzeschi, Lo specchio, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 165.

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bante44 connesso all’apparizione del doppio (meccanismo che mette in crisi l’identità monolitica dell’Io proiettando all’esterno il rimos-so). La condizione di amore-odio, desiderio-paura, viene però con-tinuamente rovesciata: la valenza positiva della catena metonimica precedentemente legata al bianco è infatti trasportata ai confini di un giudizio chiaramente negativo:

T’odio! e talora, ahimè, t’amo,con tutto l’odio mio!E t’avvicino, vincendola stomachevole ripugnanzadella presenza oscenache vuoi tenere dentro la mia stanza.[…]Di’, mi rifletti o mi rigetti?Tu mi fai vedere un uomoche mi fa pietà!Che faccia bianca!Tutto uguale il volto!Se chiudo gli occhiquell’uomo costàmi sembra morto45.

La condizione di uguaglianza fra il protagonista e l’immagine ri-flessa viene però improvvisamente sovvertita: il bianco che ne copri-va il volto si rivela un belletto. L’emergere, nello specchio, di tratti estranei all’Io qualifica la figura di secondo grado come figura altra, ripetizione differente non a caso legata alla catena metonimica del rosso:

Sotto l’occhio sinistroil palpito si veded’una stella rossa,

44 Cfr. Sigmund Freud, Il perturbante (1919), in Saggi sull’arte, la letteratura e il lin-guaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 270, 275 e 294: «il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». «Unheimlich […] è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato». «un qualcosa di familiare alla vita psichica fin da tempi antichissimi, che le è diventato estraneo soltanto per via del processo di ri-mozione».

45 Aldo Palazzeschi, Lo specchio, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., pp. 165-166.

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che per la sua vivacitàsembra continuamente mossa.[…]Quei capelli rossi,rossi e ricciuti!L’attaccatura alla frontenon potrebbe essere più bella,ogni ciocca si parteper una via a capriccioe finisce in un’anellao in un ricco46.

Le caratteristiche del nuovo personaggio sono dunque presenta-te nei termini di movimento e irregolarità: la divergenza con i requi-siti di immobilità e uniformità che caratterizzano il protagonista non potrebbe essere più netta. Ecco dunque, stante la coscienza del vincolo identitario che accomuna le due figure, esplodere la crisi connessa alla visione del rimosso:

Quell’enorme mantellorosso mi abbaglia gli occhi,ò paura, t’odio specchio vile,cosa mi fai vedere?Un uomo che mi fapaura, un uomotutto rosso, che orrore!47

Il successivo superamento del disagio conduce a un riavvicina-mento che prospetta una riflessione filosofica connessa alla scoperta di un’alterità al proprio interno:

No guarda,voglio ravvicinarmi a te,voglio vincere l’orrore,[…]Perché mi fai vedere un uomoche mi mette paura?Perché lo fai?

46 Ivi, p. 166.47 Ivi, pp. 166-167.

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Io non ti guardo per veder me sai,io ti guardo per veder te.[…]Perché non mi dici allorase quello che tu mi fai vedereson veramente io?48

L’attraversamento della situazione perturbante ci conduce a un’in terrogativa a cui, almeno per il momento, non viene data ri-sposta. Eppure l’avvenuto accostamento delle due figure, l’avvenuto accostamento delle due opposte catene metonimiche, costituisce implicitamente una condanna nei confronti delle fedi identitarie, una condanna del bianco e, di conseguenza, una condanna del pre-cedente modo di intendere le cose, quel modo che comportava, fra l’altro, l’equazione Negatività-Trasgressione.

Infatti, quando l’unità si riconosce duplice, la logica secondo cui leggiamo il mondo alla luce dei «principi aristotelici di identità e non contraddizione»49 risulta necessariamente compromessa. Il va-lore assegnato al simulacro costituito dall’Io-altro decostruisce la condanna platonica dell’apparenza: quest’ultima non viene più in-quadrata nei termini di illusione, ma nei termini di “possibilità”. Al sosia si connette un nuovo livello di realtà che fa del possibile, e non del verosimile, il suo punto di forza.

E una realtà così intesa vivrà necessariamente della catena meto-nimica del rosso, in quanto sarà espressione di «tutte le virtualità non vissute dall’io»50, sarà espressione, possiamo dire, del crollo di una razionalità logica a favore di una razionalità “retorica” capace di considerare l’universo «in chiave di instabilità e di fluidità, di meta-morfosi e di movimento»51. La presa di coscienza di un Io (dunque di una realtà) come continuo equilibrio di forze opposte avrà reso

48 Ivi, p. 167.49 Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova

Italia, 1998, p. 12.50 Ivi, pp. 300-301. Cfr. Sigmund Freud, Il perturbante, cit., pp. 287-288: «Il sosia

[…] può immedesimare anche tutte le possibilità non realizzate che il destino ter-rebbe in serbo, alle quali la fantasia vuole ancora aggrapparsi, e tutte le aspirazioni dell’Io che, per sfavorevoli circostanze esterne, non riuscirono ad attuarsi, così come tutte le decisioni della volontà represse, che diedero luogo all’illusione del li-bero arbitrio».

51 Massimo Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, cit., p. 189.

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nulla la paura connessa al non-esserci, in quanto avrà rivelato l’esser-ci come condizione multiforme e in divenire, non categorizzabile, dunque non immobilizzabile. In questo modo il doppio palazze-schiano non si fa annunciatore di morte, bensì, in quanto spia di moltiplicazione, annunciatore di vita, di continua “possibilità”: Pa-lazzeschi la chiamerà «fantasia».

6. il doppio visualizzato

È attraverso il riconoscimento del doppio che il poeta vede il lega-me della ripetizione con la morte, con il sempre uguale52

Le due figure che animano Lo specchio (e che, si può ipotizzare, ritro-veremo nel poemetto L’Incendiario) paiono separarsi nei due com-ponimenti di chiusura del volume: La finestra terrena e Il frate rosso.

Il protagonista del primo testo «si limita […] a guardare dalla fi-nestra del suo palazzo-prigione lo spettacolo grottesco della gente di fuori»53. Posto in una condizione di chiusura e di immobilità, sem-bra impegnato a sottolineare, non senza un evidente rammarico, la propria estraneità al mondo:

Discendo le scale,traverso le sale,apro le portedelle sale morte,e dietro delle grate,delle oscure vetrate,m’appiatto per guardareil mondo camminare.E guardo delle ore nell’immobilità54

La sequenza semantica connessa al restare al di qua della fine-stra55 costringe il personaggio in un circolo chiuso, indissolubilmen-

52 Giuseppe Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, cit., pp. 157-158.

53 Adele Dei, Giocare col fuoco, in Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. xxxii.54 Aldo Palazzeschi, La finestra terrena, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 168.55 Sul valore della finestra per Palazzeschi si confronti quanto scritto nel “ricordo”

Una casa per me, ora in Il piacere della memoria, Milano, Mondadori, 1964, p. 14: «Che cosa a quell’età potesse rappresentare la finestra non è facile a dirsi. Uno spet-

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te legato, come ribadito dalla struttura circolare della poesia, alla diade ripetizione-morte:

imbruna e io ritorno.Traverso le salerichiudo le portedelle sale morte,risalgo le scale56.

Il passaggio a Il frate rosso modifica radicalmente le regole del gio-co: non a caso il protagonista è posto fuori dalla scena; come nella seconda parte di :riflessi sappiamo di lui esclusivamente ciò che vie-ne detto dal coro polifonico di voci esterne. Il consueto meccanismo retorico fa in modo che sin dall’inizio la figura del frate venga pre-sentata con i caratteri dell’indefinibilità, dell’assenza di forma. Palaz-zeschi si preoccupa addirittura di sviare, umoristicamente, possibili sospetti formativi:

Chi lo dice un bellissimo frate,chi lo dice un bruttissimo frate.Chi lo dice un frate alla moda,chi lo dice fuori di moda.[…]Statemi bene a sentire,non mi dovete contraddire,non mi dovete poi direche questo è il frate dell’avvenire;quello dell’avvenireè di un altro colore57.

Ma a differenza di Valentino Kore e di Frate Puccio (la figura po-etica che ne costituisce l’antecedente) il nuovo personaggio si pre-senta addirittura privo di un nome:

Qual nome à il Frate Rosso?Qual nome?Che forse non avrebbe un nome?

tacolo architettonico che soltanto oggi posso comprendere? L’aria, la luce, la liber-tà, il mondo, la vita?».

56 Aldo Palazzeschi, La finestra terrena, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 170.57 Id., Il frate rosso, ivi, pp. 173-174.

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O come,un frate senza nome?58

Elemento questo che ne sancisce apriori la valenza di figura pu-ramente potenziale, “eccedente”, perché priva di quell’identità fissa connessa all’utilizzo del nome.

L’impossibilità di classificare lo «stranissimo frate»59 ne accentua poi di conseguenza le valenze eversive, cioè contaminative:

Com’è strano vederefra le colonne bianche di un tempiolentamente andare,sul marmoreo scalinod’un altare inginocchiarsiun frate rosso60.

La presenza del rosso nel bianco sottolinea l’esistenza di un crepa nel “modello”. Il principio di disordine che il frate immette nella norma, l’infrazione che esso rappresenta, gli attira pertanto gli strali della vox populi (viene demonicamente definito «un frate colla coda»61), e l’ingresso sulla scena delle voci delle beghine ne sottoline-ano al contempo il carattere evidente di trasgressione sessuale:

Frate Rosso,se ti guardopiù non possoil mio sguardoriposare sull’altare62

«Al contatto con il massimo della repressione e del conformismo»63 (un frate, una chiesa, ecc.) i germi della contaminazione producono la deflagrazione del Sistema chiuso fatto di Immobilità, Ordine, Uniformità.

58 Ivi, p. 174.59 Ivi, p. 173.60 Ivi, p. 174. Cfr. Aldo Palazzeschi, Il piacere della memoria, cit., p. 85: «ma il ros-

so: ohibò! non aveva corso legale, non era un colore perbene, rappresentava la vol-garità e se lo davano soltanto le donne di malaffare, le cocottes di basso bordo».

61 Id., Il frate rosso, in Poemi, in Tutte le poesie, cit., p. 174.62 Ivi, pp. 175-176.63 Adele Dei, Giocare col fuoco, in Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., p. xxxii.

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Il fuoco che brucia l’altare (fuoco liberatorio e non mondante) separa definitivamente il protagonista dalla sua funzione: alla costri-zione di un ruolo “reale” si sovrappongono le opportunità dei ruoli “possibili”.

Le Riflessioni conclusive, prive ovviamente di qualsiasi apologo morale, si chiudono con una serie di domande sul destino del frate:

Dove anderà ora il Frate Rosso?Dove anderà?Fra tutta la gente vestitadi colore indeciso,lui, tutto rosso,con quel suo strano viso…Se lo mettessero in prigione?64

Lo ritroveremo effettivamente in gabbia nel componimento che apre la raccolta successiva: sarà liberato dal «Poeta», a sottolineare che la vanificazione del conferimento di malvagità al proprio doppio sta a significare l’accettazione della diversità, dell’alterità, all’interno di sé.

Ma prima forse, per meglio comprendere le opere che Palazzeschi produrrà a partire da questo momento, sarà il caso di fare un picco-lo salto in avanti.

64 Aldo Palazzeschi, Il frate rosso, ivi, p. 178.

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iv. pulci, frizzi, manifesti e ghiribizzi: il lato umoristico della crisi

1. benedetto sia copernico!

Quand’anche soltanto alla temporalità, alla successionee contingenza delle esperienze che conosciamo, si voglia

negare l’epiteto laudativo di “reale”, resta il fatto chetutta l’esistenza sperimentata è successiva e contingente,

ed è, per prima ipotesi, antitetica a ciò che è eternoe sempre compiuto.

Arthur Oncken Lovejoy, La Grande Catena dell’Essere

Il 5° giorno Dio creò tutti gli animali viventi il 6° creò l’uomo. Che orgoglioso eh, questo benedetto uomo? Un giorno tutto per sé! Non può darsi che nelle sacre scritture delle pulci si legga presso a poco così: il 5° giorno creò tutti gli animali viventi (uomo compre-so) il 6° creò la pulce (solamente lei)1.

Il rifiuto dell’illusione antropocentrica (e il corollario relativistico che tale rifiuto comporta) è il palcoscenico privilegiato delle prose lacer-biane di Palazzeschi. Il controdolore, Varietà, Equilibrio, la rubrica Spazzatura e i Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi (usciti solo nel 1956) vanno a costituire l’intelaiatura teorica della poetica palazze-schiana. Una teoria, è evidente sin dai titoli, «leggera leggera», vissuta programmaticamente sul crinale della propria dissolvenza e, proprio in virtù di ciò (ed è il primo punto che ci preme chiarire), legata a quel movimento specifico dell’umorismo che, lungi dall’optare per l’irra-zionale contro il reale, tenta invece di accordarsi alla natura pluripro-

1 Aldo Palazzeschi, Spazzatura (1915), in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1345.

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spettica di questo e, in tale operazione, presuppone sin dalla partenza il proprio fallimento e di questo si fa forte: lavora a servizio della vita, non della “morte”; difende il movimento e può dunque solo indicare la strada verso questo, non può definirlo una volta per tutte, finireb-be in una contraddizione: renderebbe il movimento immobile. Ma è pur vero che l’umorista non si preoccupa delle contraddizioni, anzi le saluta come la conferma di essere nel “giusto”: nell’incompiuto.

In una poesia di Via delle cento stelle (1972) intitolata Realtà o fan-tasia? l’anziano Palazzeschi scriverà:

Come possiamo amaredue cosein perfetta contraddizione fra loroe che si escludono a vicenda?Io le ho amate tutte e dueper amore della vita2.

Il primato assegnato alla «fantasia» non è però da identificare col rifiuto della «realtà», bensì con l’accettazione totale di questa, che vuol poi dire rinuncia a qualsiasi visione uniprospettica del mondo, al fine di salvaguardare sempre, da buon umorista, «l’altro senso del-le cose»3, ossia la possibilità infinita che la vita prospetta e che il pre-giudizio di realtà, la precomprensione di questa, tenta invano di mortificare. Quando parla di «fantasia» Palazzeschi si inabissa nella realtà, la “approfondisce” (termine chiave degli scritti lacerbiani), ne svela la natura eminentemente mobile e temporale, la fa di fumo, così restia ad adagiarsi nella presa sicura che gli uomini tentano di imporle e, in qualche modo, sempre al di là di questa. Il reale è il “possibile” perché è il divenire, non l’essere, la sua condizione:

Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe ugualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è […]. Questi possibilisti vivono, si potrebbe dire, in una tes-situra più sottile, una tessitura di fumo, immaginazioni, fantasti-cherie, congiuntivi4.

2 Id., Realtà o fantasia?, in Via delle cento stelle (1972), in Tutte le poesie, cit., p. 870.3 Guido Guglielmi, La prosa italiana del novecento, vol. 2, cit., p. 16.4 Robert Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 12.

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Nel saggio del 1927 Freud, pur collegando indissolubilmente umorismo e principio di piacere, rilegava il primo (istanza di un Su-per-Io bonario5) al servizio di un’illusione: mediante la strategia umoristica «L’Io rifiuta di lasciarsi affliggere dalle ragioni della realtà»6. Niente di più lontano, torniamo a dire, dal disegno palazze-schiano, dove l’umorismo rappresenta uno scavo nella realtà, un’ana-lisi che permette di colpire non il reale, ma le calcificazioni di questo prodotte dagli uomini: i pregiudizi, il senso comune, la metafisica.

La tecnica insistita della deformazione e del paradosso7 funge da grimaldello perché permette la creazione di livelli molteplici di real-tà: il plurale, sostituendosi all’univoco, mostra l’inaffidabilità di quest’ultimo. Il reale deve essere straniato e contraddetto al fine di restituirgli vitalità, movimento. La modificazione (continua) del punto di vista mette in crisi il quadro, semplice e chiaro, che ci era-vamo fatti del mondo. Mediante il procedimento dello «straniamen-to», insegna Šklovskij, l’oggetto viene reso al fruitore nel suo diveni-re, non nella sua compiutezza: non la forma di questo, ma la sua for-ma indissolubilmente legata all’infrazione, alla contraddizione, all’oltre-la-forma, ossia, possiamo dire, la forma inserita nella tem-poralità:

La falsa coscienza reifica la vita, le impone delle forme (in senso pi-randelliano), le comanda l’oblio di se stessa; l’iniziativa del soggetto (il comico), nella poetica di Palazzeschi, la richiama al senso del suo passare8.

L’umorismo palazzeschiano nasce dalla crisi e fa proprio il movi-mento destruens di questa, ne accoglie le istanze critiche rivolgendo-le contro qualsiasi cognizione che si voglia data una volta e per sem-pre, e in questa operazione non risparmia se stesso, perché pone il proprio cammino al di fuori dell’idea comune di Verità. Di Palazze-

5 Cfr. Sigmund Freud, L’umorismo (1927), in Saggi sull’arte, la letteratura e il lin-guaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 319: «L’umorismo vuol dire: “Guarda, così è il mondo che sembra tanto pericoloso. Un gioco infantile, buono appena per scherzarci sopra!”».

6 Ivi, p. 315.7 Cfr. Gregory Bateson, L’umorismo nella comunicazione umana (1953), Milano,

Raffaello Cortina, 1956.8 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 122.

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schi si può forse dire (e lo vedremo analizzando Equilibrio) quello che Nietzsche9 disse di Sterne:

È da dare per perso il lettore che voglia sapere ogni volta esattamen-te che cosa Sterne veramente pensi su una cosa e se di fronte ad essa egli faccia un viso serio o sorridente: giacché egli sa farli entrambi con una sola piega del suo viso; egli sa altrettanto, e anzi vuole, ave-re nello stesso tempo ragione e torto, intrecciare la profondità con la buffoneria10.

Per Palazzeschi le definizioni non chiudono il discorso, lo rilan-ciano (si pensi alla seconda parte di :riflessi): il rovesciamento del senso comune che la deformazione umoristica permette non si ada-gia nella nuova visione del mondo a cui è approdato, ma di quella iperbolicamente si serve per attivare un programma di ridefinizione virtualmente infinito. Si legge infatti in L’antidolore11:

Il sole sarà, a mo’ d’esempio, il suo giuoco preferito […]. La luna uno specchio comico, ironico, romantico, sentimentale […]. E se al contrario fossero tutt’altra cosa di quanto ho detto, ciò non turba minimamente la nostra meditazione12.

Ciò che viene espresso delle cose non è il loro possesso, vale a dire la loro delimitazione, ma è invece la loro possibilità, la loro insignifi-cabilità essenzialistica: la nuova lettura del mondo non mira a sosti-tuirsi alle precedenti ma, sul filo della contingenza e della temporali-tà, si propone di mostrare il “nulla” da cui qualsiasi teoria è abitata, al fine di approdare a una salutare e terapeutica vacanza del significato:

9 Non ci occuperemo in questa sede (o almeno non direttamente) della “presenza” di Nietzsche in Palazzeschi. La lettura da parte del fiorentino del filosofo di Roecken sembra ormai provata: concorrono in questa tesi le dichiarazione autoriali, la lettu-ra comparata fatta da Piero Pieri fra un passo di Il controdolore e l’aforisma 14 di Il viandante e la sua ombra, la pubblicazione, a cura di Simone Magherini, di La bi-blioteca di Palazzeschi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004.

10 Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano (1878), vol. 2, Milano, Adelphi, 2002, p. 46.

11 Il titolo originale di Il controdolore era per l’appunto questo, il testo subì poi, come è ampiamente noto, un rimaneggiamento (su cui ritorneremo) a causa dell’inter-vento di Marinetti. L’antidolore originale sarà pubblicato da Palazzeschi nel volume Scherzi di gioventù, Milano, Ricciardi, 1956.

12 Aldo Palazzeschi, L’antidolore (1956), in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1235.

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A proposito di conclusioni.Caro De Robertis, lei mi fa fare per la prima volta una cosa in vita mia: da cavaliere con una signora. Nel 1° numero di La Voce ella si lamentò di una signorina che avrebbe impiegato molta carta per non concluder nulla. Ma lei è proprio sicuro della sua affermazio-ne? Dov’è quel libro? Quelle pagine potrebbero essere la mia bibbia. Io non leggo più libri per le tante conclusioni che tutti vogliono trarre, e sto almanaccando disperatamente per scriverne uno pro-prio come quella signorina, senza concluder nulla. Ella avrebbe dunque operato prima di me questo miracolo?13

Sui libri “impossibilitati” a concludere la critica novecentesca avrebbe prodotto qualche biblioteca, l’autore del più famoso fra questi, Robert Musil, annota nei suoi Diari:

Finché si pensa in frasi con il punto finale certe cose non si lasciano dire; l’intero, rispecchiato dalla totalità conclusa del periodo, impe-disce che la pluralità del reale emerga nella sua inesauribile fram-mentarietà14.

Sarà anteponendo umoristicamente l’idea di una realtà come possibilità e gioco15 all’idea di una realtà come precomprensione che Palazzeschi proverà a uscire da questa impasse. Il valore primario, se di valore si può ancora parlare, sarà allora, nietzschianamente, quel-lo del viaggio, non quello della meta16; la valenza retorica dell’umo-rismo dichiara, nel divenire, la predilezione per ciò che resta in con-

13 Id., Spazzatura, in Tutti i romanzi, i, cit., pp. 1309-1310.14 Robert Musil, Diari: 1899-1941, Torino, Einaudi, 1980, p. 53.15 Cfr. Luca Casadio, L’umorismo. Il lato comico della conoscenza, Milano, Franco

Angeli, 2006, p. 149: «Chi gioca sente che le emozioni, le relazioni e le identità non obbediscono a regole fisse, ma sono “bussole mobili” che ci orientano, senza “fon-darci”. Giocare vuol dire sentire l’identità, la relazione e la “verità” come passi prov-visori».

16 Si veda a tal proposito il testo Vagabondaggio umoristico (1978) di Vladimir Janké-levitch, ora nell’opera collettiva Ridere la verità, a cura di Rossella Prezzo, Milano, Raffaello Cortina, 1994, pp. 176-183. Ne riportiamo un breve passo: «Perché l’umo-rismo è per strada, non è mai arrivato, va altrove, sempre al di là. Un ebreo incon-tra un giorno un mugìk sulla strada. “Dove vai?” domanda il mugìk all’ebreo. “Vado a Kiev”, risponde l’ebreo. “Cosa?! Tu vai a Kiev?” si stupisce il mugìk. “Ma tu sai che Kiev è a trenta verste e tu sei solo, a piedi, sulla strada… E che cosa vai a fare a Kiev?” “Oh, niente”, risponde l’ebreo, “non ho niente da fare laggiù, ma vi troverò ben qualcuno che mi riporti indietro…”».

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tinuo movimento e, in ciò, necessariamente ambiguo. «La vita è come l’acqua, deve correre, guai se si ferma, baca»17.

2. un dio in tait

Questo annuncio non è l’enunciazione metafisica dellanon-esistenza di Dio; vuol essere la vera presa d’atto di un

“evento”, giacché la morte di Dio è proprio, prima di tutto,la fine della struttura stabile dell’essere, dunque anche diogni possibilità di enunciare che Dio esiste o non esiste.

Gianni Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole

E falsa sia per noi ogni verità, che non sia stataaccompagnata da una risata!

Friedrich Nietsche, Così parlò Zarathustra

Per Palazzeschi costruire manifesti vuol sempre dire costruire anti-manifesti, proposte normative all’interno delle quali ogni assioma concorre a mettere in ridicolo l’idea stessa di assioma18. È l’esperien-za del franare (del passare) del soggetto e dell’oggetto il tema princi-pale degli scritti lacerbiani che, come tali, cooperano sempre ad af-fermare nella forma l’ironia implicita da cui questa è accompagnata. Il controdolore, Varietà ed Equilibrio vengono edificati in una pro-spettiva teorica che ne sancisce il valore provvisorio e li rivolge con-tro se stessi19, contro ciò che rappresentano, rendendoli al contem-po cura e

sintomi di una crisi culturale che vedeva messe apertamente in dub-bio le due correnti complementari del pensiero ottocentesco, la ra-

17 Aldo Palazzeschi, Vita, in Tutti i romanzi, ii, a cura e con introduzione di Gino Tellini, Milano, Mondadori, 2005, p. 1253.

18 Cfr. Giuseppe Conte, Sperimentalismo e utopia nell’«Allegria» di Palazzeschi, in «Il verri», 5-6, 1974, p. 49: «uno spirito risolutamente teso a porsi sempre e dovunque al di qua – polemicamente – di ciò che si afferma».

19 L’intervento normativo “imposto” da Marinetti a Il controdolore non riesce infatti a smorzarne l’efficacia, si può forse addirittura dire che ne aumenti la carica ironica. Che un tale scritto, imperniato sul valore supremo della “mobilità”, si concluda con 12 punti fissi di azione, concorre infatti a mettere in guardia, con un sorriso arioste-sco, dal rischio continuo dell’immobilità.

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zionalità dei fini e la razionalità dei valori, secondo la caratterizza-zione fattane […] da Max Weber20.

Abitare la contraddizione tragica della vita, il movimento di que-sta che crea le forme al fine di distruggerle per poter continuare a es-sere vita. Fare dunque, in partenza, del principio immobile per ec-cellenza, Dio, «un pattern formale della contraddizione»21:

Se uomo volete raffigurarvelo per comodità del vostro cervello […] dunque pensate addirittura ad un uomo come voi e sarete al vostro posto. Perché in peplo e non in tait? Perché in coturno e non con un comune paio di scarpe walk-over? […] Se io me lo figuro uomo, non lo vedo né più grande né più piccino di me. Un omettino di sempre media statura, di sempre media età, di sempre medie pro-porzioni, che mi stupisce per una cosa soltanto: che mentre io lo considero titubante e spaventato, egli mi guarda ridendo a crepa-pelle22.

L’universo viene umoristicamente accentrato da Palazzeschi in una “Causa” abitata da un riso23 che vanifica le immagini tradiziona-li del mondo, facendosi, in tale operazione, principio di mutevolez-za e contingenza. L’idea, di tradizione platonica, di un mondo eter-no e invisibile, di cui quello visibile non è che una pallida e imper-fetta copia, viene drasticamente rovesciata: sarà infatti proprio me-diante l’accettazione degli aspetti incongrui e ambigui dell’esistenza che l’uomo si farà simile a Dio: «La verità palazzeschiana è insieme negativa e “comica”. Già la prima proposizione del Controdolore è una definizione negativa di Dio (della verità)»24.

È un’intera tradizione che viene posta sotto attacco: quella che tende a fondare il nostro mondo contingente all’esterno di esso, in una sfera assoluta di positività da cui la nostra realtà possa trarre si-

20 Winfried Whele, Nel regno dell’intrascendenza, nell’opera collettiva Palazzeschi europeo, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Bonn-Colonia, 30-31 maggio 2005, a cura di Willi Jung e Gino Tellini, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2007, p. 69.

21 Renato Barilli, L’antidolore, nell’opera collettiva Palazzeschi Oggi, cit., p. 83.22 Aldo Palazzeschi, Il controdolore (1914), in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1221.23 Cfr. ivi, p. 1223: «quei pochissimi che vivono ridendo, protetti dal loro signore che

al centro di tutte le cose ride più di loro».24 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 110.

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gnificato. Il Dio di Palazzeschi, il Dio che ha creato il mondo per di-vertirsi, è invece permanente “negatività”, risata liberatoria che si propaga contro tutto ciò che pretende di essere, di erigersi a struttu-ra atemporale, ed è dunque il Dio del possibile (colui che ama riflet-tersi nella luce bitorzoluta della luna per «vedervisi nelle più ridico-le maniere»25).

Alla luce di una tale divinità lo schema platonico risulta definiti-vamente capovolto: il Dio situatosi nel possibile, situatosi nel dive-nire (e dunque a continua difesa, mediante il riso, di questo) tende la sua equazione fra contraddizione e principio di piacere, e indica quindi, nella prospettiva filosofica dell’umorismo (che è modifica-zione continua del punto di vista, esistenza in un reale che è possibi-lità perenne), la via per superare la «macchia di marruche, spini, pruni, pungiglioni»26 che separa gli uomini dalla gioia eterna:

La gioia di cui discorre Palazzeschi sta appunto nel carattere incon-gruo degli aspetti della vita […] che sfidano e vanificano le imma-gini culturali e razionali che di essi si possono dare27.

Dio allegorico (e non simbolico), pronto a richiamare, ridendo alle miserie umane, il carattere possibile (e dunque infinito) della re-altà rappresentata da se stesso, quello di Palazzeschi è un nume la cui carica comica colpisce identità e omogeneità, esaltando il valore del-la differenza come frutto della temporalità28. Glorificatore della va-rietà (dunque vario a sua volta) non fa del suo riso uno strumento di normatività, ma ne fa il grimaldello che scardina tutto ciò che si vuole e si pretende uniforme.

La sua funzione, proprio come quella del manifesto, consiste nell’indicare la via rinnegando se stesso: mostrare la valenza terapeu-tica del riso dopo (la sua descrizione sta lì a dimostrarlo) esserne sta-to bersaglio. Custode e immagine della contingenza, mito di gioia che per essere tale va sorpreso nell’atto della sua demitizzazione.

Un tale “centro”, così diverso da quello visto all’opera in I caval-

25 Aldo Palazzeschi, Il controdolore, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1221.26 Ivi, p. 1222.27 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 108.28 Cfr. Paul De Man, La retorica della temporalità, in Cecità e visione (1971), Napoli,

Liguori, 1975, pp. 237-293.

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li bianchi, lungi dall’essere garante di un mondo che mira alla totali-tät, si fa custode di un’ironia che pretende sempre il secondo grado di se stessa, poiché nessuna ironia può mai lasciare vivere «troppo a lungo la propria illusione»29. La strada (anch’essa umoristica) che conduce al farsi simili a Dio sarà allora quella della deformazione continua, della rivoluzione permanente: una deformazione che, nel suo sembrare irrazionale, avrà invece assunto i tratti più “veri” del reale, quelli dell’instabilità, della mutevolezza:

che la natura dell’essere non posso venire ricondotta a una causa pri-ma, che il mondo non sia, né come sensorium, né come “spirito”, una unità, tutto ciò soltanto è la grande liberazione – con ciò soltan-to è nuovamente ristabilita l’innocenza del divenire. Il concetto di “Dio” è stato fino a oggi la più grande obiezione contro l’esistenza… Noi neghiamo Dio, neghiamo in Dio, la responsabilità: soltanto in questo modo noi redimiamo il mondo30.

3. farsi profondi: formare/deformare

Ordine e norma sono legati; l’ordine è misura.George Balandier, Il disordine. Elogio del movimento

Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui attualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride31.

Il riso invocato in Il controdolore mira a colpire le strutture formali che si pretendono essere al di là del divenire. Modulandosi sulla cre-azione di un mondo altro, l’eversione “controdoloristica” sceglie a proprio bersaglio l’ordine che coattamente viene imposto alla realtà. Immedesimandosi nel trickster, nel dionisiaco briccone divino32, Pa-lazzeschi oppone alla logica gerarchica quella della contraddizione e dell’incertezza: il rovesciamento operato, l’opzione per le immagini “basse”, colpisce le strutture oggettivanti ribaltandone la scala di va-

29 Vladimir Jankélevitch, L’ironia (1936), Genova, Il melangolo, 1997, p. 62.30 Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 65.31 Aldo Palazzeschi, Il controdolore, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1224.32 Cfr. Id., L’antidolore, ivi, p. 1236: «Questo è il giuoco del Divino adulto dalla gioia

infantile».

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lori: il fine è quello di proclamare il regno dell’uguaglianza («diritti uguali per tutti»), perché restare nell’uguaglianza degli aspetti della vita vuol dire abitare realmente la vita.

Se è «l’eccesso ad indicare la presenza del disordine o il rischio della sua irruzione»33, fondamentale sarà l’edificazione di un mondo che è continua eccedenza e continuo paradosso: «Io affermo essere nell’uomo che piange, nell’uomo che muore, le massime sorgenti della gioia umana»34.

La deformazione che non può arrestarsi (pena il trasformarsi in valenza fondata positivamente, in forma) si fa allora protagonista di una decostruzione permanente che guarda alla logica del Witz per sottrarsi a qualsiasi rischio ri-costruttivo. La deformazione, che non è cambiamento del mondo ma cambiamento del nostro atteggia-mento verso il mondo, si porrà allora come avvertimento della pos-sibilità di una modificazione continua del senso, spia, dunque, dell’assenza di senso. Il movimento, la nuova e umoristica logica del mondo, renderà vulnerabile qualsiasi Struttura, e inglobando in sé anche la supposta coerenza del Significato trasformerà quest’ultimo in un’erranza:

Il soliloquio di Amleto, la gelosia di Otello, la pazzia di Lear, le fu-rie di Oreste, la fine di Margherita Gautier, i gemiti di Osvaldo, veduti e ascoltati da un pubblico intelligente devono suscitare le più clamorose risate35.

Il riso si specchia nel movimento e invita al gioco con tutti i si-gnificati: le anomalie proposte dalla logica interna del manifesto ci introducono nell’anamorfismo dell’esistenza, nel «regno dell’al le-gria»36.

La concezione ateleologica sarà la ricompensa data agli uomini “profondi”: se nella società tradizionale l’apparizione del disordine (si ricordi quanto detto per Lanterna) provocava il rovesciamento della struttura formale (e ciò veniva vissuto negativamente), ora il

33 George Balandier, Il disordine. Elogio del movimento (1988), Bari, Dedalo, 1996, p. 48.

34 Aldo Palazzeschi, Il controdolore, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1226.35 Ivi, p. 1225.36 Aldo Palazzeschi, L’antidolore, ivi, p. 1253.

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disordine si fa immanenza del mondo, e la capacità di restare all’in-terno di esso, di vivere all’interno di esso, si fa discrimine fra il dolo-re e la gioia.

Ma Palazzeschi non ha dimenticato i “fantasmi” che lo avevano attanagliato qualche anno prima. Se infatti «l’uomo si scopre […] spaesato in un mondo di cui l’ordine, l’unità e il senso gli sembrano oscurati»37, una paradossale educazione dovrà accorrere in suo aiuto:

Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più inso-lente, al coraggio di ridere rumorosamente non appena ne sentano la necessità, all’abitudine di approfondire tutti i fantasmi, tutte le apparenze funebri e dolorose della loro infanzia, alla capacità di ser-virsene per la loro gioia38.

Fattosi il senso del mondo, da solido e coerente che era, effimero e leggero, bisognerà educare le nuove generazioni ad abitare questa leggerezza, e sarà possibile fare ciò attraverso il deforme, attraverso, diremo, ciò che mette in crisi la norma e con essa tutto ciò che si pretende normativo, misurato: «Gli forniremo giuocattoli educativi, fantocci gobbi, ciechi, cancrenosi, sciancati, etici, sifilitici, che mec-canicamente piangano gridino e si lamentino»39.

Movimento e disordine dovranno ovviamente coinvolgere i luo-ghi (e i concetti) per eccellenza ordinati:

Si faranno nel cortile della scuola falsi funerali: le bare verranno, dopo l’estrema benedizione del cadavere, scoperte e trovate piene di dolciumi o di figurine per i più piccoli, o partiranno da esse centi-naia di topolini prima bianchi poi grigi poi neri, o il cadavere sarà di pasta frolla per i più grandi, di cioccolata per i piccoli ed essi se ne contenderanno allegramente le membra. […] Oh! I baccanali dei nuovi funerali! I ritorni dai cimiteri, nuovi carnevali, gli spetta-coli negli ospedali, teatri delle nuove generazioni!40

La deformazione41 si configurerà, mediante il proposito contami-nante che intende instaurare, come punta estrema di una critica a

37 George Balandier, Il disordine. Elogio del movimento, cit., p. 220.38 Aldo Palazzeschi, Il controdolore, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1226.39 Ibidem.40 Ivi, pp. 1227-1228.41 Deformazione, naturalmente, coinvolgente anche i procedimenti poetici e narrativi.

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qualsiasi mortificazione ideologica o idealistica (compreso quelle provenienti dal testo medesimo):

Combattiamo dunque una educazione falsa e sbagliata, il rispetto umano, la compostezza, la linea, la bellezza, la giovinezza, la ric-chezza, la libertà! Cioè approfondiamo queste cose e troveremo in esse la loro ultima sostanza, il vero42.

Il proposito di una vita come «serie interminabile di sgambetti»43 si fa così lascito ironico che, nella pretesa di sfuggire a qualsiasi cen-trismo unilaterale, dichiara, tramite l’approfondimento, la modifi-cazione continua del punto di vista che la deformazione aveva atti-vato: «Sganasciata sia la mobilia della vostra casa; sedie, letti, tavoli-ni che cadono, che si rovesciano, che s’infrangono»44.

Guardando al finale di L’antidolore possiamo dire che il Dio45 di Palazzeschi è una divinità che abolisce le separazioni gettando lega-mi e mettendo in comunicazione ciò che l’ordine, per preservarsi, doveva necessariamente mantenere separato:

Oh! quando i cinque piani della tua casa diverranno un piano solo con una poderosa scossa. La beghina riceverà la cocotte fra le sue braccia, o la cocotte la beghina, dopo che per vent’anni non s’erano scambiate un saluto incontrandosi lungo la scala. E il proletario si troverà fra le braccia del capitalista, e la loro mobilia, così diversa di qualità, nel più allegro pandemonio, fraternamente mescolata46.

Innalzare sistematicamente l’anomalia (e l’anomalia dell’anoma-lia), farne tragitto privilegiato della via alla gioia, al piacere, renden-do contemporaneamente omaggio alla vita nella sua trasmutabilità:

contro ogni progetto unitario della ragione e della volontà, contro ogni tentativo di imporre un’unità di senso e di valore, e quindi un ordine, alla molteplicità e all’indeterminatezza della vita, contro ogni tentativo di costringere l’informe illimitatezza di quest’ultima in un intero dai precisi confini47.

42 Aldo Palazzeschi, Il controdolore, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1228.43 Ivi, p. 1229.44 Ivi, p. 1230.45 Vale a dire il “programma”.46 Aldo Palazzeschi, L’antidolore, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1253.47 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 213.

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La prospettiva di un ordine che sia sempre altro rispetto a quello raggiunto modifica irrimediabilmente la propensione verso il “for-mato”. Il movimento verso il grottesco si rivolge a ciò che esula dai confini precisi della forma, rivelandosi invece in continuo divenire, ed è il divenire, stante lo strumento del riso48, a farsi eversione, in quanto è il divenire che mette in luce la base “possibilistica” di tutto il nostro pensiero, e con esso della realtà stessa.

Quella di Palazzeschi è allora un’avventura della differenza, pron-ta a sostituire il gioco alla realtà solo in quanto una realtà priva di gioco, priva cioè del suo lato “possibile”, ricadrebbe fra le grinfie an-ti-contaminative e anti-deformanti tese a definirla, a darle un nome. All’uomo che non vuole nominare le cose49 si rivolge, umoristica-mente, Il controdolore, all’uomo che non vuole creare gerarchie e ascesi. Un tale uomo, liberato dal pathos metafisico della «nostalgia dell’assoluto», si fa strumento critico verso qualsiasi essere che non intenda dileguarsi al momento stesso della sua apparizione: quest’uo-mo volge la sofferenza in gioia perché approfondendo il dolore si scopre essere nel tempo.

4. farsi profondi: amare ciò che è atroce

Tutto ciò che è provvisorio […] emana già una speciedi ironia metafisica.

Vladimir Jankélévitch, L’ironia

Fatto sta che la sorgente del comico palazzeschiano è il dolore e che Il controdolore trova il suo scatto genetico in una forma di terapia personale50.

48 Cfr. Maria Carla Papini, Bestia, Buffo, Re: il personaggio delle novelle, nell’opera collettiva L’arte del saltimbanco. Aldo Palazzeschi tra due avanguardie, Atti del Con-vegno Internazionale di Studi, Toronto, 29-30 settembre 2006, a cura di Luca So-migli e Gino Tellini, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2008, p. 131: «La funzio-ne dirompente e insieme catartica del riso vale così a prospettare un mondo che proprio nella sua irriducibilità ai termini di ogni categorizzazione afferma la pro-pria diversità, la propria autonoma e originale alterità rispetto a quello convenzio-nalmente prefigurato e di cui intenzionalmente si ribalta, si degrada o si esaspera la parzialità dell’immagine».

49 All’uomo che vive senza drammi la iato fra la realtà e il linguaggio.50 Gino Tellini, Sul comico palazzeschiano, nell’opera collettiva Palazzeschi e i terri-

tori del comico, cit., p. 16.

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Nel 1910, in un saggio destinato a divenire celeberrimo, Lukács (riferendosi alla relazione amorosa fra Kierkeegard e Regina Olsen) descrisse un’ambivalenza psicologica destinata a informare di sé l’in-tero novecento:

Kierkeegard diceva che la realtà non ha alcuna relazione con le cose possibili e tuttavia costruì tutta la sua vita su un gesto. […] Perché lo fece? Come riuscì a farlo? Proprio lui, che vide più acutamente di tutti l’infinita molteplicità, l’infinita mutevolezza di ogni situazio-ne; che vide con tanta lucidità come ogni cosa si tramuta nell’altra e nel suo opposto, che ci insegnò che, a guardar bene la realtà, si scoprono degli abissi invalicabili in mezzo alla fittissima rete delle mediazioni. Perché lo fece? Forse perché il gesto è un bisogno ele-mentare della vita; forse perché l’uomo che vuole essere «autentico» (uno dei termini che ricorrono con maggior frequenza in Kierkee-gard) deve strappare alla vita la coerenza, deve afferrare così forte questo Proteo eternamente mutevole, affinché esso non posso più liberarsi quando gli viene rivelata la formula magica. Forse il gesto è – per usare la dialettica di Kierkeegard – il paradosso; il punto in cui realtà e possibilità si scindono, materia e spirito, finito e infini-to, forma e vita. […] il salto con cui l’anima perviene da una cosa all’altra, il salto con cui abbandona i dati sempre relativi della real-tà e raggiunge l’eterna certezza delle forme. In una parola, il gesto è quell’unico salto con cui nella vita l’assoluto si tramuta in possibile. […]E chi non si limita a giocare con la vita ha bisogno del gesto affinché la sua vita diventi più reale di un gioco multiforme e girevole…Ma esiste veramente un gesto nei confronti della vita?51

La forma, lo si capirà con chiarezza alla fine del saggio, non è l’as-soluto, ma è il tentativo di questo compiuto nel divenire: è la consa-pevolezza del “gesto” a mutare le cose. La cognizione del dolore na-sce nell’alveo del tramonto del simbolico e si proietta fra i due estre-mi (strettamente correlati) della relatività delle realtà oggettive e del-la coscienza che, come intuito da Pirandello, introietta la riflessione che «viene a turbare, a interrompere il movimento spontaneo che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa»52.

Palazzeschi aveva già provato a estromettere il tempo, aveva ricer-

51 György Lukács, L’anima e le forme, cit., pp. 55-56.52 Luigi Pirandello, L’umorismo (1908), Milano, Mondadori, 2005, p. 132.

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cato “l’autentico” conferendo valenza mitica alle cose, aveva annul-lato la temporalità del soggetto nel tentativo di identificazione di questo con un Io defunto, immobile, oltre il tempo. Il gioco con la vita che i “manifesti”, nella loro esaltazione del possibile, prospetta-no, diventa allora ipostatizzazione di una realtà umoristica nata da uno scavo nella disperazione e, come tale, preoccupata in primo luo-go di ribadire la natura «errata» e superficiale del dolore: «Scorteccia-te, e troverete la felicità»53.

Amare ciò che è atroce vuol dire dunque approfondire la realtà, rivelare la sua autenticità nel relativo, non nell’universale: esorcizza-re l’ansia rassicuratrice dell’immobile (del Vero, dell’Assoluto), an-nunciando che è in questa ansia la sorgente del dolore:

Che il riso (gioia) è più profondo del pianto (dolore), ce lo dimo-stra il fatto che l’uomo appena nato, quando è ancora incapace di tutto, è però abilissimo di lunghi interminabili piagnistei. Prima che possa pagarsi il lusso di una bella risata avrà dovuto seguire una buona maturazione54.

«Pagarsi il lusso di una bella risata», imparare a considerare l’esi-stenza quale sistema concatenato di apparenze. Impossibile non ri-conoscere in questo periodo il percorso intellettuale (e biografico) dello stesso Palazzeschi:

Schivare il dolore, fermarsi inorriditi alle sue soglie, è da vili.Entrarci e rimanervi impantanati fino al collo senza la forza per uscirne, è da deboli e poltroni. Entrarci e risolutamente andare, fla-gellando la propria anima senza pietà, farle versare il sangue fino all’ultima gocciola, sanarle bruciandole tutte le piaghe, pescare il punto luminoso nelle tenebre, la perla, è eroismo grande. Uscirne carbonizzato e guarito, con questo superbo fiore all’occhiello e un garbato sorriso sulle labbra. Sublime filtro: ironia55.

Il cammino verso il molteplice svela così anche i tratti della tra-gedia (di marca esistenzialista) che Palazzeschi ha dovuto attraversa-re. La parodia prende sulle sue spalle il carico di una trasformazione

53 Aldo Palazzeschi, Il controdolore, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1224.54 Ibidem.55 Aldo Palazzeschi, Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi (1956), in Tutti i ro-

manzi, i, cit., p. 1351.

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(deformazione): il transito «nel buio del dolore»56 innesta un mec-canismo destinato a generare un surplus di consapevolezza che, me-diante il cavallo di Troia del grottesco, fa approdare lo scrittore (e chi vorrà seguirlo) all’umorismo, all’immersione nella contraddizione.

Il percorso che ha prodotto la possibilità di un’esistenza rischia-rata nella sua dignità temporale, nella sua permanente incompiutez-za, saprà mantenersi tale solo nella incancellabile memoria delle tap-pe che compongono tale percorso, nel perenne e continuo “passare” di quelle tappe:

Quelli che cadono nel fondo non comunicano più che con quelli caduti nel fondo, come loro.Chi è a galla se ne infischia, dà calci all’ingiù e solo si cura di rima-nervi, comunicando con quelli che ancora si tengono a galla.Bisogna saper restare a galla e senza che nessuno se ne avveda pesca-re pian pianino giù, giù, più giù che sia possibile con le grinfie aguz-ze dell’anima. Portare alla superficie, mostrandoli elegantemente fra le dita, i coralli della disperazione57.

5. il valore della differenza: varietà

Quando percepiamo noi costruiamo, prendiamo alcuni pezzie ne scartiamo altri. I pezzi migliori sono quelli che più

facilmente si inseriscono nel modello che stiamo costruendo.[…] quelli discordanti tendono ad essere scartati.

Mary Douglas, Purezza e pericolo

L’oggetto della teoria ironica è la teoria metafisica.Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia

La perfezione, sinonimo di compiutezza e di immobilità, analizzata in ambito sociale sotto l’etichetta di “conformismo”, è il bersaglio privilegiato di Varietà, manifesto apparso su «Lacerba» nel gennaio 1915.

A trovarsi sotto attacco è qui quel senso di piacere (e di potere) che gli uomini provano trionfando «sulle conturbanti fatture e dis-

56 Id., Il controdolore, ivi, p. 1231.57 Id., Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi, ivi, pp. 1351-1352.

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sociazioni delle cose»58. Il pathos metafisico, declinato da Palazzeschi nel versante antiplatonico, è smontato da un congegno umoristico teso a mostrare la contraddizione fra le attitudini creative dell’uomo e quelle della natura:

Io sono arcisicuro che se avessero detto all’uomo: vai, fai il mondo, esso ci avrebbe dato fuori una piattaforma talmente pari, talmente liscia e tirata a pulimento da non poterci star ritti nemmeno i gomi-toli.Dove mette la mano questo benedetto uomo, sedicente creatore, agisce con un principio che è esattamente opposto a quello della creazione, a quello che è il principio fondamentale di essa59.

A divenire oggetto di condanna è l’inclinazione metafisica pro-pria dell’uomo: quel «piacere estetico che ci è dato dalla semplice idea astratta dell’immutabilità»60.

La techné umana (nel suo proposito fallace di inseguire una crea-zione naturale che, per soddisfare il proprio pathos di eternità-immu-tabilità-unità, si è finta uniformante) tende ad assoggettare a ugua-glianza ciò che in realtà si propone come continua differenza. L’ugua-glianza infatti, soddisfacendo un’ansia definitoria e identitaria, per-metterebbe la visione di un mondo facilmente interpretabile secon-do schemi di chiarezza, semplicità e Verità.

Palazzeschi, chiudendo i suoi conti con la tradizione ultramonda-na della filosofia, richiama i suoi simili a un proposito di fedeltà alla Terra, luogo del contingente definitivamente separato dal suo fonda-mento iperuranico e, quindi, inderogabilmente sottratto a quel prin-cipio immobile dell’essere e al gruppo di idee da esso sottintese o de-rivate: perfezione, eternità, stabilità, chiusura, identità, ecc.

La violenza insita in un pensiero (dunque in un’azione) che si vo-glia uniformante e generalizzante, viene ricondotta nell’alveo di una nevrosi proiettata a trasformare il mondo secondo criteri divergenti dalla natura di questo, criteri di ordine e regolarità che permettereb-bero, assegnando al reale una forma stabile, un’esistenza al riparo dal principio di casualità:

58 Arthur Oncken Lovejoy, La Grande Catena dell’Essere (1936), Milano, Feltrinel-li, 1981, p. 20.

59 Aldo Palazzeschi, Varietà (1915), in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1257.60 Arthur Oncken Lovejoy, La Grande Catena dell’Essere, cit., p. 19.

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Ero fermo davanti al cancello della principessa Pantìno Zucco del Codè. Che bel parco quella sua villa! E che bella villa! Dal cancello si partono due lunghe file di cipressi disposti uno vicino all’altro ad uguale distanza. Probabilmente dovrebbero essere anche grossi ed alti uguali nelle intenzioni di quella principessa, ma essi lo sono so-lamente presso a poco, le loro pance non sono ugualmente rotonde e le loro punte segnano due zig-zag nello sfondo del cielo. Alle sie-pi del giardino la signora principessa à messo riparo a tale sconcio. Il bravo giardiniere con ottime cesoie ripara a far sì che i cipressi formino un tutto omogeneo. Dove sono i tronchi? Le pance? Le vette? Mistero61.

Ma la «morte di Dio», ossia l’avvenuta separazione fra il nostro mondo e ciò che al nostro mondo dava fondamento stabile, opera, in colui che ha saputo affrancarsi dai “modelli” (modelli, si capisce, di perfezione, regolarità e verticalità), la presa d’atto di trovarsi in una realtà il cui unico valore immanente è proprio quello dell’im-perfezione:

Più tardi, aprendo una scatola di fiammiferi, mi accorsi subito ch’es-si, nella presunzione di quel 100 che portavano in palma di mano mi facevano questa smargiassa dichiarazione: eccoci qua, siamo cento tutti uguali. Se avessi sottoposti quei cento signori ad un buon microscopio avrebbero certo passato un brutto quarto d’ora, io avrei potuto accertarmi che erano cento tutti differenti62.

La dimensione in cui Palazzeschi opera si configura allora quale dimensione “critica”: questo punto risulta fondamentale, non com-prenderlo corrisponderebbe a fare della poetica palazzeschiana il mero correlativo di un’apologia della vita nel suo status quo. La spa-rizione del senso di colpa connesso al fallimento della possibilità di instaurare valori stabili, non si rovescia nell’esaltazione acritica dell’esistenza quale già realizzato paradiso del non-essere (ciò po-trebbe condurre solo a impiantare una nuova metafisica sulle rovine delle vecchie). Analizzando la crisi del senso Palazzeschi non appro-da all’inerte beatitudine di chi crede il mondo liberato dai conflitti. Estraneo a qualsiasi epica (anche all’epica dell’indifferenza), estraneo

61 Aldo Palazzeschi, Varietà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1257.62 Ivi, p. 1256.

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a qualsiasi mistica (anche a quella dell’allegria), estraneo a qualsiasi arcadia (anche a quella del nichilismo), Palazzeschi non si adagia nell’abolizione del senso per dichiarare, in una veduta dall’alto, la fine delle ostilità, l’avvento di un’anarchia pronta già a prendere le movenze di un nuovo classicismo, pronta già a mostrare i tratti on-nicomprensivi e unidimensionali di un nuovo Assoluto. Il suo pro-posito, il proposito, torniamo a dire, di mantenere sempre vivo l’al-tro senso delle cose, è anzi geneticamente opposto a tale scenario, e questo perché «l’allegria» palazzeschiana (e lo vedremo analizzando Il Codice di Perelà) non può mai darsi come condizione realizzata, ma solo come meta, traguardo a cui tendere, punto d’arrivo da non raggiungere. Il regno della “fantasia”, il regno della possibilità, essen-do un regno dominato (per sua stessa conformazione) dall’attitudi-ne critica, non può mai darsi positivamente: quel paradiso che Pa-lazzeschi ha eletto a fine della sua Weltanschaung, il luogo dove il Contingente si è fatto assoluto, è polo universale di una concezione etica che se da un lato tende a quel luogo, dall’altro lo rifiuta perché intravede in esso il proprio opposto: l’immobilizzazione, il positivo. È qui che critica e utopia si legano insieme, dichiarando il persistere dell’intenzione utopica proprio nella sua inattuabilità, esprimendo, al contempo, la volontà di identificazione con la Vita e la rinuncia a ciò. L’esaltazione del mondo come teatro63, l’esaltazione del mondo come apparenza, mantiene fuori tiro la totalità sistematica delle me-tafisiche e parallelamente si sottrae all’uniformità che pure la sua re-alizzazione comporterebbe. Dichiarando ad esempio l’eguaglianza delle interpretazioni non considera questa uguaglianza raggiunta, ma si serve strategicamente di questo presupposto per criticare chi pretende una struttura gerarchica della realtà; esponendo lo iato fra realtà e linguaggio non dichiara quest’ultimo “falso”, ma utilizza tale ipotesi per mettere in discussione le granitiche certezze di chi crede a una ingenua corrispondenza; esaltando il simulacro non denuncia nulla la realtà, ma la alleggerisce dalle interpretazioni univoche pro-

63 Cfr. Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 125: «Il teatro è il luogo in cui si è autorizzati a quella finzione e a quell’inautenticità che contrassegnano l’individuo moderno e gli infondono, nella vita, l’angoscia dell’inesistenza. […] Nel teatro l’uomo scisso, sdoppiato e incerto di sé trasforma gli attentati alla sua identità in elementi costitutivi di quest’ultima: egli basa la sua identità sulla sua differenza ra-dicale».

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prie di chi cede al «pregiudizio di realtà». Fa della critica un princi-pio anti-autoritario infinitamente teso, per sua stessa natura, a rea-lizzare una sintesi impossibile. E con la leggerezza di chi danza fra il nulla e la totalität si incammina in direzione di un pluralismo che sa sempre manchevole.

L’obiezione costante mossa a un modo di agire che si pretende naturale viene obbligata, è proprio il caso di dire, al microscopio che ne rivela la contraddizione (e insieme il fallimento):

Il giorno dopo incontrai per una via molti uomini vestiti dello stes-so colore, con identiche scarpe e berretto, ugual numero di uguali bottoni all’identica giubba. Camminavano serrati l’uno all’altro con un certo modo di fare i loro passi ad un tempo come fossero stati un uomo solo. Non ci riuscivano ma quella era la loro mira, si capiva benissimo.– Che cosa sono? – domandai ad uno che come me si era fermato a guardarli.– Sono soldati. – Mi rispose quello con molta disinvoltura.– Ah! Soldati.– Sicuro.Se il mio più intimo amico fosse stato fra quegli uomini e non mi fosse corso incontro certo io avrei dovuto faticare per ritrovarlo64.

La critica al meccanismo omologante si lega così alla posizione anti-interventista difesa da Palazzeschi proprio sulle pagine di «La-cerba». L’«ideale di risolutezza e di combattività»65 (che è poi sempre un atteggiamento acritico) necessario all’opzione interventista, è di-rettamente apparentato al procedimento anti-relativistico adottato dagli uomini nei confronti della realtà:

Quasi sempre taccio. I miei lunghi silenzi, mentre gli altri si arro-ventano in un ideale di risolutezza e di combattività, dimostrano as-sai bene la mia freddezza. Che cosa debbo fare? Debbo dimostrare quello che non sento? Debbo mettermi a sbraitare per non udire più questo mio io che in quest’ora è più scettico, più ironico, più amaro?66

64 Aldo Palazzeschi, Varietà, in Tutti i romanzi, i, cit., pp. 1256-1257.65 Id., Spazzatura, ivi, p. 1311.66 Ibidem. È in quest’ottica che va, a mio giudizio, interpretata quella lettera incentra-

ta sulla morte di Renato Serra (lettera così poco palazzeschiana nei toni) inviata a

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Il silenzio di Palazzeschi si configura anch’esso dunque come op-zione critica, opposizione all’affrettarsi degli uomini dietro i valori astratti, al seguito di ideali che, come quelli tracciati in Varietà, na-scondono sempre un’ansia semplificatrice e dunque identitaria. È contro questa volontà tesa a serrare le fila di valori in realtà inesisten-ti che Palazzeschi muove il proprio inno alla differenza, facendosi al-fiere di una visione tutta terrena del mondo, e dunque priva di gab-bie calanti dall’alto e pretendenti, inglobando solo ciò che si piega all’apriorismo di cui sono portatrici, di dare del mondo una lettura integrale. In questa prospettiva Palazzeschi si fa simile all’oltreuomo nietzschiano, colui che, è bene ricordarlo, è più forte perché più mo-derato, perché non ha bisogno di principi di fede estrema e ammet-te nella vita, anzi ama, una buona parte di caso.

La varietà si prospetta dunque come correlativo di quel disordi-ne che abbiamo visto operare in Il controdolore. Dove quello mette-va irrimediabilmente in crisi le categorie costruite dagli uomini, la loro precomprensione della realtà, questa sancisce l’innaturalezza in-sita nei loro atti creativi (specchio dell’innaturalezza dei loro atti co-noscitivi):

Avete mai trovato, voi che faceste il giro del mondo, una creatura uguale a voi? Che si muovesse, parlasse come voi e al tempo stesso? Nel momento che io mi metto un dito nel naso il mio amico se lo mette in un orecchio, l’altro nel taschino, un altro ancora in una scarpa. E se anche uno dei miei amici, se lo mettesse anche lui nel naso come me, state sicuri che lo farebbe in tutt’altra maniera. […] Vedeste mai nascere per i boschi gli alberi in fila come i soldati? Due alberi uguali?67

La proposizione continua della diversità, della differenza, che la natura propone si trasforma allora nell’elogio culturale dell’Altro,

De Robertis il 18 settembre 1915: «E della sua prematura perdita che debbo dire? Per conto mio questo bravo giovinotto sarebbe ancora vivo non sono fra quelli che debbono battersi il petto» (la lettera si può leggere in Gino Tellini, Lo scrittore e il suo interprete, nell’opera collettiva La «difficile musa» di Aldo Palazzeschi, cit., p. 51). In qualche modo crediamo che ciò che Palazzeschi non può perdonare a Serra, in quei giorni così concitati, sia proprio la perdita dell’ironia, e la conseguente scelta, risoluta, di andare a cercare, nella battaglia che permette la semplificazione della re-altà, una risposta.

67 Aldo Palazzeschi, Varietà, in Tutti i romanzi, i, cit., pp. 1257-1258.

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vale a dire della struttura Altra dell’esistenza, esaltata da un’apoteosi dell’eccezione che, lungi dal confermare la regola, ne decreta la tota-le vanità. Il movimento verso la contingenza non conduce alla pas-sività nei confronti del reale, ma a un’attitudine ipercritica tesa ad additare i tentativi di ridurre questa complessità:

E quando vengo per le vostre case trovo che avete le finestre le por-te tutte compagne, le seggiole le chicchere, i bicchieri, i piatti, le forchette. Se vi dico che uno di essi à un bugnolo o una piccola ve-natura, mi fate il broncio come se v’avessi scoperto una magagna68.

La «piccola venatura» diventa allora emblema di un mondo re-stio a farsi contenere in prigioni concettuali la cui ansia di perfezio-ne si rivela ansia di semplificazione: tentativo di immortalare l’infor-me complessità della vita.

Il proposito pedagogico che, nel finale del brano, Palazzeschi mette in atto, va dunque ad attaccare implicitamente il modello “se-condo” di realtà (o di seconda realtà) che gli uomini cercano invano di sovrapporre al primo, e lo denuncia come un’illusione:

Se la creazione à per risultato la varietà, come ci possiamo facilmen-te accorgere, credetemi, lo à per principio, e voi che vi mettete a crea re come potete proporvi il principio opposto?69

Fattasi la contingenza (cioè la possibilità) forma filosofica dell’esi-stere, bisognerà liberare gli uomini da quel procedimento violento (e contrario alla creazione) teso a produrre, nell’illusione dell’essere, classificazioni e identificazioni:

Quando una cosa è bella e fatta bene e vi piace prima cosa da fare sarebbe di fuggirla per farne una differente se aveste davvero in cor-po lo spirito della creazione, miei egregi signori70.

Decretata umoristicamente la decostruzione di qualsiasi pretesa standardizzante, persino il messaggio del Cristo si trasformerà in un terapeutico invito alla dissonanza:

68 Ivi, p. 1258.69 Ivi, p. 1259.70 Ivi, p. 1261.

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Quando Cristo disse: ama chi ti odia, egli disse una cosa così oppo-sta a tutti gli istinti umani, a tutti gli umani dirizzoni da doversi do-mandare proprio sul serio se in quel momento fosse uomo. E non per il gusto di lisciar la pelle a chi ve la fece frizzare, ma per fare una cosa diversa dall’altro71.

Infine, dopo aver analizzato il conformismo insito nella moda72, l’humour palazzeschiano rivela, un attimo prima della chiusura leg-gera73, il suo doloroso sottotesto: «Vorrei ridere ma ò paura. Vi state legando delle grosse catene ai piedi»74. Il rischio della fedeltà ai mo-delli si rivela così, ancora una volta, severa prigionia della nevrosi: la pulsione erotica produttrice di differenza non riesce a espungere il bisogno umano di “definitivà”, di definizione. La gabbia offre anco-ra quella sicurezza che la libertà, ovviamente, non può dare.

6. il valore dell’agilità: equilibrio

Come fa un insieme (un qualunque sistema, una società,un individuo) a imbarcare molteplicità senza mettere

a repentaglio la propria identità? Ciò che va di mezzo èinfatti la coerenza, molto più facilmente raggiungibile

se si riduce drasticamente la molteplicità.Francesco Remotti, Contro l’identità

Stabilito che il giuoco della creazione altro non era che un giuoco di bussolotti non rimane che tentare di risollevarci da questo abbatti-mento. Oh! nessuno meglio di me può comprendervi miei poveri amici, il colpo è stato terribile, lo so, ma come risparmiarvelo, come continuare a lasciarvi vivere in un’illusione di questo genere? Cre-dendo a un fantasma75.

Equilibrio opera in stretta correlazione con Varietà, tratta il medesimo problema spostandosi dalla sfera dell’oggettività a quella del soggetto

71 Ibidem.72 Cfr. ivi, p. 1262: «Io non esiterei a dichiarare la moda come la più grande e rapida

infezione di uguaglianza».73 Cfr. ivi, p. 1263: «Come si fa a resistere? Uhm… credo che avreste fatto meglio a

buttar via la giacchetta».74 Ibidem.75 Aldo Palazzeschi, Equilibrio (1915), in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1275.

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e, mediante una riconsiderazione delle capacità metamorfiche di que-sto, delinea, rifiutandosi alla prospettiva del valore identitario, un elo-gio del movimento “interno” innalzando la polisemia a sistema.

La capacità del soggetto di «vivere il doppio»76 si fa attitudine ad abitare i contrari come possibilità continua dell’esistere77. Il cambia-mento di carattere che il soggetto mette stabilmente in atto si confi-gura, sotto l’egida del principio di piacere, come risposta alla perdi-ta di forma della realtà:

E non mi venite a sgonfiare che è nella natura dell’uomo, l’attitudi-ne a divenire l’una piuttosto che l’altra cosa, nella natura dell’uomo sono tutte le possibilità se l’umanità le comprende tutte, basta sa-persi serbare l’agilità necessaria per sfruttarle tutte78.

Dinnanzi a un reale che si è fatto proteiforme, l’individuo attua una strategia dissimulativa tesa a seguirne il movimento inafferrabi-le. Muove la propria mutevolezza contro il tentativo (quanto siamo vicini a Pirandello) di sottometterlo a una cella identitaria. Le ma-schere che di volta in volta indossa diventano così esaltazione delle sue infinite possibilità e lo rendono, in ciò, pulsione di vita. Di con-tro al pregiudizio di realtà, teso a immobilizzarlo in una forma sta-bile, tale soggetto attiva il valore del gioco che spiazza i tentativi di definizione e inficia alle radici la possibilità di un senso univoco di quella realtà:

Lei signore è sentimentale? Benissimo. Sentimentale fino all’ecces-so? Meglio! Il suo è un gusto altamente rispettabile. Però, se voglio due gocce di cinismo, debbo suonare all’uscio in faccia, lei non mi può in alcun modo servire. Male, malissimo.Lei invece è… un uomo indifferente, addirittura un cinico? Beno-ne! […]Mi viene una voglia: provarli tutti e due gli spassi di questi rispetta-bili signori! Essere una volta l’uno una volta quell’altro, vivere il doppio79.

76 Ivi, p. 1277.77 Si ricordi la novella L’amico Galletti, in Aldo Palazzeschi, Tutte le novelle, a cura

di Luciano De Maria, prefazione di Giansiro Ferrata, Milano, Mondadori, 1975, pp. 787-811.

78 Id., Equilibrio, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1277.79 Ibidem.

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La trasformazione del mondo in teatro toglie stabilità al mondo: la lettura del reale come metamorfico regno del possibile invalida tutti ciò che tende a proporsi come evidenza.

Quella retorica che in :riflessi era attivata dalla comunità sociale (ridicolizzata nel tentativo di spiegare chi realmente fosse Valentino Kore), diventa ora procedimento del soggetto stesso che la interio-rizza come cifra più profonda del suo essere, cioè del suo divenire. Rivelata l’identità come costruzione artificiosa a cui il soggetto vie-ne obbligato (o addirittura si obbliga) mediante un’operazione di ri-duzione di tutte le sue possibilità alternative, il proposito del gioco “mascherante” produce l’uscita dalla logica funzionale delle peculia-rità, e innesta, esaltando la pluralità del carattere, una critica conti-nua nei confronti di qualsiasi tentativo di immobilizzazione: «Lei à un carattere? Io ne ò due, quattro, otto, sedici, tutti, ma nessuno come punto di partenza»80.

L’Io, fattosi viandante in se stesso, esalta la propria natura finzio-nale dichiarandola apertamente: le maschere dell’alterità che ripetu-tamente veste assumono il compito di porre continuamente in crisi la violenza essenzialistica che l’esterno cerca di imporgli: «Non vi ac-capigliate miei buoni amici, le vostre partite sono pari pari, voi po-tete ora proprio dire che io sono un gran bravo ragazzo, ma anche un gran… cochon»81.

L’abisso di infondatezza in cui il soggetto si auto-precipita cele-bra la componente di fumo del mondo, magnifica l’apparenza (la consapevolezza dell’apparenza) quale spazio delle possibilità infinite: «Tutti i raggi, tutte le possibilità saranno dinnanzi a noi»82.

Esaltandosi in quanto simulacro questo soggetto, liberato dal peso dell’identità durevole, si fa celebrazione della vita nel suo valo-re più profondo: il movimento. Legando indissolubilmente morte, immobilità e essenza celebra il cambiamento facendone l’apologia:

Io so, signore, che voi siete intelligente, geniale, lo sappiamo ormai tutti […] e ve lo ripetiamo ogni giorno tante volte. Che dolcissima cosa non è vero sentirselo dire? Specialmente sui primi tempi! […] Voi però ci avete fatto talmente l’abitudine che fate senza accorger-

80 Ivi, p. 1278.81 Ivi, p. 1281.82 Ivi, p. 1283.

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vene da venti anni il solito sorriso bonario e il solito gesto di parata colla mano. Arriva uno e vi dice sul muso: voi siete il più grande baggiano di questa terra! Io vedo la vostra faccia fare contrazioni nuove, le vostre labbra aprirsi a parole che non avrei giudicate a vo-stra disposizione […] però domani mandate un piccolo presente a quel signore, e siate generoso nella scelta. Voi eravate morto da ven-ti anni egli vi à risuscitato83.

Quella «categoria del provvisorio»84 chiamata in causa da Luigi Baldacci si configura allora quale esercizio alla provvisorietà, vale a dire capacità di farsi contingente:

Facciamoci di questo un esercizio quotidiano e troveremo l’agilità necessaria per risparmiare tanta energia e centuplicare la nostra vita. Noi saremmo davvero degli stupidelli a rimanere atei quando ab-biamo a nostra disposizione dozzine di religioni. Dobbiamo poter cambiar religione almeno due volte al giorno, partito politico non ne se ne parla nemmeno85.

Il proposito pedagogico mira a indicare ai propri simili la via per un’esistenza più autentica, ma più autentica perché non gravata da quel principio formativo che, immobilizzando la realtà, la trasforma in uno schema di pensiero:

Se vi dissero «serio» non farete mai più capriole o piruette sulla pub-blica via, se vi dissero buffone dovete rinunziare a sentirvi dire uomo serio. Che cosa ne dite di uno che si fosse fatto suonare per tutta la vita quattro volte al giorno l’«ave maria» di Gounod? O che avesse guardato sempre una parete gialla? […] Perché foste al bordello non potete stare al chiostro o viceversa. Voi dovete stare una settimana nel primo, una nel secondo posto. […] C’è un po’ di bordello al chiostro, come c’è un po’ di chiostro nel bordello. Cosicché noi non possiamo avere né il primo né il secondo nella loro vera essenza86.

La liquidazione dell’essenza rivela l’assurdo della concezione fini-ta e individuale che si attribuisce alla singola persona. La spinta in-

83 Ibidem.84 Luigi Baldacci, Uno scrittore in libertà, in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, i,

cit., p. xxvi.85 Aldo Palazzeschi, Equilibrio, ivi, p. 1285.86 Ivi, p. 1286.

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staurata dalla contraddizione umoristica proietta invece l’identità al di fuori di sé e ne fa, in quanto parte integrante di una realtà relazio-nale, apertura continua, carica erotica e critica tesa a travolgere qual-siasi mortuaria calcificazione del significato: «Varietà ed Equilibrio […] cooperano insieme nell’apologia dell’anti-assoluto, del relativo, della diversità, della disuguaglianza, del divenire»87.

L’unicità del singolo punto di vista, la prospettiva immobile ten-dente alla forma, è rifiutata nelle ragioni di un godimento che vuol farsi infinito: «Si è detto che il mondo è come un’arancia. Giustissi-mo. E tu ti contenti di mangiartene uno spicchio? Cucù! A me fa gola tutta»88.

Ragioni che, dobbiamo in conclusione ammettere, in Palazzeschi sono strettamente collegate (come nell’amatissimo Stendhal89) alla necessità difensiva (si perdoni lo psicologismo) di giocare d’anticipo sul mondo:

Venire da te, mio buon amico, e sapere che sei vestito di verde, mi pare una gita inutile. Io conosco ormai ogni piega del tuo abito. Tu invece, quando vieni da me, devi passarti il lusso di domandarti per le mie scale: sa Cristo di che colore si è vestito quell’animale. Io sono per te un recipiente tutto chiuso, imprendibile impenetrabile, che ti mette fuori il proprio manico solamente quando è dalla par-te che gli piace90.

La lettura degli scritti lacerbiani ci ha permesso l’analisi dell’ap-prodo teorico della poetica del giovane Palazzeschi. Tornando ora al 1910 seguiremo quella poetica retrospettivamente, così come viene formandosi nella produzione in versi e in quella in prosa.

87 Gino Tellini, L’officina di Palazzeschi, in Le muse inquiete dei moderni, cit., p. 156.

88 Aldo Palazzeschi, Equilibrio, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1288.89 Si pensi al saggio Sthendhal pseudonimo di Jean Starobinski, in L’occhio vivente

(1961), Torino, Einaudi, 1975, pp. 159-200.90 Aldo Palazzeschi, Equilibrio, in Tutti i romanzi, i, cit., pp. 1287-1288.

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v. giocare a essere proteo: l’incendiario e le altre poesie

i. «il mondo gira»1

L’esistenza contemporanea non è minacciata dall’imprevedibilelicenza di Proteo, ma dalla sua scontata cattività

Claudio Magris, Dietro le parole

Descrivendo in La fiera dei morti un paradossale cimitero, Palazze-schi approda, nell’ultima parte del testo, a una figurazione di tipo metaforico che coinvolge il campo semantico del teatro:

Che poco posto occupano i morti,meno assai del naturale.[…]Quelle alte pareticon tutte quelle teste fitte fitte,nell’immobilità,sembrano quelle di un loggioneper una straordinaria rappresentazione2.

L’immobilità esemplare che caratterizza i defunti si contrappone all’indefinibilità di coloro che sono vivi, cioè di coloro che, teatral-mente, prendono parte alla rappresentazione. Se da un lato il mon-do come teatro viene narrato nella sua componente di inconoscibi-lità (cioè, come si è finora detto, di possibilità), l’universo di coloro che sono morti è invece facilmente definibile, addirittura richiudi-

1 Aldo Palazzeschi, La fiera dei morti, in L’Incendiario (1910), in Tutte le poesie, cit., p. 194.

2 Ivi, p. 197.

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bile (si ricordi quanto detto per :riflessi) in una singola qualità spe-cifica:

Sulla pelle della loro faccia marmifica,meglio assai che sui vivi,si qualifica la fisionomiacaratteristica.«Qui riposa«l’uomo dalle rare virtù:«Telemaco Tessuto«d’anni cinquantatre,«padre e marito esemplare.»Se t’avessimo incontrato vivo,chi l’avrebbe saputo?3

Parallelamente all’impossibilità della costruzione identitaria che costringe i viventi nell’ambiguità4 (di contro alla franchezza essen-zialistica dei morti), Palazzeschi introduce un’altra specifica contrap-posizione: solo ai defunti è concessa una reale funzione comunicati-va, in quanto estranei all’incertezza solo i deceduti sono in possesso di una capacità discorsiva (le scritte sulle lapidi e la marmoreità dei volti) atta a porsi al di là del bailamme interpretativo che caratteriz-za l’equivocità della condizione “vita”:

I vivi àn delle facce,che per quanto espressive, sono mute,e una faccia per benela possono avere anche i mascalzoni,invece le facce dei mortisono piene d’ottime informazioni5.

L’equivocità (modulata nella struttura parodistica e carnevalesca che caratterizza questo testo) si fa così, attraverso la strategia umori-stica, custode di una tattica critica a doppio livello: mira da un lato all’esaltazione burlesca dell’inafferrabile (in quanto modo di essere

3 Ivi, p. 196.4 Si noti, ricordando quanto detto per Parco umido, la presenza massiccia del fango

all’interno del cimitero.5 Aldo Palazzeschi, La fiera dei morti, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p.

197.

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v. giocare a essere proteo: l’incendiario e le altre poesie 115

della vita), e dall’altro assegna valore “mortuario” ai tentativi di cate-gorizzazione del senso.

Esaltandosi nel rapporto “potenziale” che l’arte instaura con la realtà, il testo si schiera contemporaneamente a favore del reale e contro di questo: ne esalta il valore immanente di paradossalità che concede e ne critica, con leggerezza, le finte totalità di senso che per-mette. La verità assegnata ai morti (al loro linguaggio e alle loro fat-tezze) si risolve infatti nella farsesca mercificazione finale dei teschi che quella verità rappresentano6: mediante la loro dissacrazione Pa-lazzeschi dissacra così la monumentalità delle immagini indeforma-bili e ribadisce l’intento operativo del saltimbanco invocato all’inizio della poesia:

Le solite baracche dei saltimbanchifuori dei cancelli;quella classe sociale che à per miradi far conoscere agli uomini,meglio assai degli astronomi,che il mondo gira7.

Il saltimbanco, colui che nel finale di Poemi ha abiurato la presun-ta struttura unitaria dell’individuo, opera adesso contro ciò che «com-prime le dissonanze e le diversità del mondo nella compatta armonia della forma e del significato»8 e, rifiutando dalla posizione liminare dell’escluso (posizione strategica, come vedremo, che, in quanto luo-go da cui operare una sovversione del senso, custodisce e permette la differenza del poeta), rifiutando, dicevamo, la deriva inerte che con-siste nell’abbandono all’indifferenziato, esalta e favorisce l’apertura di crepe nella struttura di una realtà che si era creduta chiusa.

6 Cfr. Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 47: «Palazzeschi toglie la verità ai vivi e l’assegna ai morti».

7 Aldo Palazzeschi, La fiera dei morti, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p. 194. La contrapposizione con i «giri» eterni e ripetitivi che avevano caratterizzato la pro-duzione poetica palazzeschiana ai suoi esordi non potrebbe essere più netta. Que-sta tipologia di movimento (ma meglio sarebbe dire di anti-movimento) continue-rà infatti anche in L’Incendiario a caratterizzare alcuni personaggi, ma si ritroverà palesemente ironizzata, e sarà propria di quelle figure (o di quella massa indistinta di persone) bloccate nel meccanismo pirandelliano della «fissità di giudizio», lega-te indissolubilmente al mito della sua stimata perfezione e finitezza.

8 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 165.

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Nella vocazione clownesca sviluppata dal poeta, vocazione che è primariamente attitudine umoristica al contraddittorio, si inserirà coerentemente la visione egualitaria degli aspetti della vita (propen-sione critica, come spiegato nel capitolo precedente, e non “positi-va”), e con essa la crisi (magistralmente interpretata in E lasciatemi divertire!) del valore autoritario (dunque gerarchico) del linguaggio. L’infrazione del Logos classificatorio, che imponendo un ordine fit-tizio sviluppa un senso che mortifica la vita9, denuncia infatti l’avve-nuta impossibilità connettiva fra la realtà e il sistema di segni a essa collegato: la possibilità di una fondazione coattamente sintetica che ne possa esprimere la totalità significante viene ironicamente riget-tata quale illusione “violenta”, insieme espressione e regolarizzazione di quell’ordine borghese10 teso, contro Proteo, al mantenimento di un ordine del mondo retto su fittizie unità definite e, di conseguen-za, su fittizie autorità definite.

L’eversione ludica permessa dall’esclusione del poeta (esclusione, come sottolinea un testo come Postille, non più costrittiva) si confi-gura allora in contrapposizione alla devozione al principio di realtà e, in una paradossale infrazione anarchica, descrive programmatica-mente il reale sotto specie “anomalia”, incamminandosi in ciò con decisione verso i territori della comicità (che sono, come vedremo in seguito, i territori umoristici dell’alterità, della possibilità):

E sui banchi, ammassata,oppure tortuosamente attaccata,chilometri di salsiccia,che sembra l’ammasso degli intestini malatidi tutti i morti.I salumai ànno appesii salamini nuovi, cotechini,zamponi, mortadelle;

9 Cfr. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, ii, cit., p. 165: «Ogni parola è un pregiudizio». Si veda anche Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophi-cus (1921), a cura di Amedeo Conte, Torino, Einaudi, 1998, p. 43: «La proposizione è un’immagine della realtà. La proposizione è un modello della realtà quale noi la pensiamo».

10 Cfr. Laura Mancinelli, Il messaggio razionale dell’avanguardia, Torino, Einaudi, 1978, pp. 23-24: «non si potrà non vedere nell’ordine di un linguaggio un riflesso dell’ordine secondo il quale si organizzano le esperienze. La struttura di una lingua è la struttura della cultura di un popolo».

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e viene fino sulla stradaun odore stuzzicantedi lepre e di pappardelle.Tutti si riversano a mangiarea crepapelle11.

Su questa strada la vicenda del Palazzeschi approdato al Futuri-smo marinettiano non potrà che definirsi anch’essa sotto il segno dell’ambiguità. Il luogo dell’esclusione-differenza che il poeta asse-gna al suo simulacro di inchiostro si riverbera esemplarmente sull’au-tore stesso che, oscillante fra ansia partecipativa e rivendicazione di una diversità, si ritrova tragicamente a giocare… al futurista: da una posizione che vuole variabile e incerta si spinge fino al contatto col movimento di Marinetti e ne attiva, instaurando nel suo seno una contrapposizione di codici diversi, una potenzialità che si voleva inespressa, quella del fraintendimento. Spingendosi, nel poemetto eponimo che apre la raccolta, fino alle soglie del rischio dell’univo-cità, Palazzeschi stabilisce una contiguità con la poetica futurista de-stinata a fare esplodere le contraddizioni di questa e, contemporane-amente, le contraddizioni dello stesso Palazzeschi. Ma per lui, si sarà ormai capito, le contraddizioni, costituendo il sostrato della vita, ostentano il principio anti-autoritario che è sotteso alla sua esperien-za artistica (almeno in questi anni). Instaurare un contatto non vuol dire dunque cedere al “monologismo” di una poetica necessariamen-te ideologica (una poetica che non concepisce il proprio stesso cano-ne come «soggetto a mutamenti o laceranti trasformazioni»12), ma far irrompere in essa la possibilità di una differenza: un cortocircui-to, una voce che, professando incertezza, dissemina dubbi, sviluppa titubanze. In entrambe le direzioni.

2. viandante nella contraddizione

Spero tanto in te! E che il tuo futurismo mi entri proprio nel midol-lo delle ossa oltre che nel cervello13.

11 Aldo Palazzeschi, La fiera dei morti, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p. 195.12 Piero Pieri, Futurismo milanese/Futurismo fiorentino, Ravenna, Allori, 2005, p. 10.13 Aldo Palazzeschi a Filippo Tommaso Marinetti, [luglio 1910], in Filippo Tommaso

Marinetti-Aldo Palazzeschi, Carteggio, cit., p. 19.

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118 l’uno e il molteplice nel giovane palazzeschi

Il rifiuto di un contatto con la realtà di tipo passivo e massificante (rifiuto formatosi sulle rovine artistiche dell’impressionismo e su quelle filosofiche del positivismo) testimonia dell’opposizione che i movimenti avanguardistici di inizio novecento innalzano contro il principio epistemologico che risiedeva nella smisurata fiducia otto-centesca di poter strappare alla natura il proprio velo. La capacità co-noscitiva, scaturente dalla fede nella possibilità di un contatto inge-nuo e diretto col reale, viene adesso smascherata in quanto paralisi conoscitiva: l’innocenza del rapporto soggetto-mondo si rovescia nella crisi che svela l’uomo come mero ricettore della realtà, incapa-ce di operare in essa un’azione trasformativa. Questo soggetto, im-mobile nelle proprie certezze, scopre ora che il proprio punto di vi-sta privilegiato altro non è che il luogo da cui subire apaticamente il reale come “dato di fatto”, e scopre altresì che l’operazione di selezio-ne e scelta, permessa al kantiano soggetto impressionistico, era in re-altà un inganno perpetrato ai danni di se stesso, ossia ai danni della propria capacità conoscitiva.

La certezza delle capacità razionali, quella certezza che l’illumini-smo prima e il positivismo poi avevano messo a disposizione dell’uo-mo, viene così rivolta contro la degenerazione, fintamente raziona-le, del positivismo stesso14: la fiducia nella possibilità di elaborare “sistemi” in grado di comprendere la realtà nella sua interezza, viene passata al vaglio di quella stessa razionalità critica che quei sistemi aveva elaborato. In questo modo viene svelato il diritto che il positi-vismo si era metafisicamente arrogato: la possibilità di stabile i crite-ri di giudizio, «e in particolare il giudizio di vero e falso»15, è a que-sto punto che scatta la ribellione, ed è a questo punto che compare il «viandante» nietzschiano:

Chi anche solo in una certa misura è giunto alla liberta della ragio-ne, non può poi sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante – per quanto non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste. […] non potrà legare il suo cuore troppo salda-mente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualco-

14 Cfr. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 260: «Per alcuni la metafisica è ancora necessaria; però anche quell’irruente anelito di certezza, che oggi in grande misura trova uno sfogo scientifico-positivistico».

15 Laura Mancinelli, Il messaggio razionale dell’avanguardia, cit., p. 27.

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v. giocare a essere proteo: l’incendiario e le altre poesie 119

sa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transito-rietà16.

Tale viandante (del tutto estraneo alla fede nel soggetto quale su-premo legislatore) nega la possibilità di una sintesi dialettica tra sog-getto e sistema, ma si pone anche al di là di un uso strumentale del-la razionalità critica (tratto invece comune alle avanguardie “vitali-stiche”), proietta bensì la propria contraddizione anche su stesso e, rivelandosi in quanto soggetto in movimento, fonda la propria ne-cessità proprio sul ritirarsi della verità, e questo perché definisce ve-rità «il processo che ci rende finalmente formulabile un mondo»17, riportandola dunque nell’alveo di una sistematica falsificante, cioè nell’alveo di un procedimento di appropriazione indebita (e violen-ta) del mondo.

La realtà caotica, nella quale l’individuo non può trovare risposta alle sue domande, non può essere ordinata con violenza sistemica al fine di farla parlare: la verità che ci rivelerebbe sarebbe in tal caso frutto di un’operazione di riduzione delle sue possibilità virtualmen-te infinite. Ma neppure si può sperare che la risposta coincida con l’assenza di una risposta, con l’esaltazione mistica del labirinto. Per-ché se è vero che il concetto di Verità è, nietzschianamente, un mo-dello che pretende di sottomettere il particolare, di sottomettere le diversità della vita (di ricondurre il diverso all’identico, il molteplice all’Uno), il pensiero negativo che distrugge le forme non può non postulare una verità, anch’essa negativa, alla fine del suo viaggio: l’esaltazione del relativo diverrebbe altrimenti esaltazione dello status quo, abbandono del mondo ai rapporti di forza che lo sovrastano:

In Nietzsche il “pensiero negativo” ha attraversato tutto lo spazio del nihilismo e ne ha interpretato fino in fondo l’annuncio: le pure forme si rovesciano in positivo potere, il crollo dell’a priori è razio-nalizzazione, l’ascesi è, alla fine, definizione della struttura logica del mondo – sulla differenza radicale e la mera convenzionalità si fon-da il valore della forma logica che ci rende la realtà formulabile. E tutto questo: senza nessuna conciliazione. Accordare-sintetizzare sa-rebbe ricadere nell’impotenza assoluta del nihilismo18.

16 Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, i, cit., p. 304.17 Massimo Cacciari, Krisis (1976), Milano, Feltrinelli, 1982, p. 63.18 Ivi, p. 69.

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120 l’uno e il molteplice nel giovane palazzeschi

Il movimento, che sempre si nega a una sintesi, diviene allora ca-pacità critica in divenire, che rifiuta la propria divinizzazione e, muovendosi fra le Verità ridotte a forme (in primo luogo linguaggi e ideologie), comincia a “giocare” fra queste: a mantenerle sempre in movimento.

Se «è Palazzeschi che realizza la verità dell’avanguardia»19, ciò av-viene perché il «carissimo Aldo» è stato in grado, rifiutando l’illusio-ne della Verità e rifiutando altresì l’abbandono al flusso vitalistico dell’esperienza, di instaurare un polo dialogico con entrambi. In-staurando una differenza fra sé e il Futurismo marinettiano ha sapu-to mantenersi in perenne contraddizione, ma senza sfociare nel cul-to mistico di quest’ultima. Ha dialogato con la nuova Verità che il Futurismo portava sulla scena insinuando in essa il proprio opposto (l’elogio della realtà come apparenza), ma contemporaneamente ha saputo non asservire il proprio gioco «a un accrescimento di vitalità estraniata»20, poiché ha saputo mantenere il proprio rapporto con la realtà (con la realtà come apparenza e con la realtà come Verità) sem-pre in un’accezione negativa. Se il Futurismo era pronto a trasfigu-rare la violenza del mondo in una scelta soggettiva (nell’illusione di gestirla), Palazzeschi, che i propri conti con il “Soggetto” li aveva già fatti, si nega alla complicità col reale ponendosi, anarchicamente, nella dimensione irreale (cioè possibile) della realtà.

Se l’argomentazione futurista era tesa a dare «l’aspetto della veri-tà a ciò che ne è privo»21 (inserendosi dunque in una prospettiva for-malistica), Palazzeschi fonda sul nulla la propria strategia artistica, e riempie poi questo nulla di un movimento dialogico (in primo luo-go col Futurismo stesso) teso a mettere in crisi, in movimento, tan-to l’apoteosi della Verità quanto l’apoteosi del nulla. Salvaguardan-do il carattere negativo della propria protesta prende le distanze da tutto ciò (la realtà in primo luogo) con cui pure instaura un contat-to. Dichiarando nullo il fondamento metafisico del mondo non si rifiuta alle sue forme, e dichiarando forme quelle che alcuni vorreb-bero contrabbandare per Verità pure non si nega al rischio di avvici-narsi a esse.

19 Guido Guglielmi, Ironia e negazione, Torino, Einaudi, 1974, p. 187.20 Ivi, p. 188.21 Ivi, p. 183.

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Il nichilismo funziona in lui come difesa dall’univocità, il contat-to (che va necessariamente portato avanti fino al rischio dell’assimi-lazione) come argine da contrapporre alla teologia del flusso vitali-stico che, realizzato, acquisterebbe i tratti di un nuovo Assoluto, del tutto estraneo a quell’incedere del “contraddittorio” da cui pure ave-va preso le mosse.

Ecco allora che il poeta va a trovare il piromane:

In mezzo alla piazza centraledel paese,è stata posta la gabbia di ferrocon l’incendiario.Vi rimarrà tre giorniperché tutti lo possano vedere.Tutti si aggirano torno tornoall’enorme gabbione,durante tutto il giorno,centinaia di persone22.

Partendo dal consueto meccanismo teso a contrapporre un «cen-tro» al girotondo della gente intorno a quel centro, Palazzeschi ribal-ta le modalità espositive precedenti: il centro si presenta infatti rag-giungibile e la gente è estranea alla catatonia che la caratterizzava nei primi libri di versi:

– Io lo farei volentieri a pezzetti.– Buttatelo nel fosso!– Io gli voglio sputareun’altra volta addosso!23

Il linguaggio “esclamativo” della gente si raddoppia nel dettato del «poeta» che, venuto «di lontano»24, eleva, «con parole molto ‘Ubermensch’»25, il suo inno al piromane rinchiuso, cristomorfiz-zandolo26 e procedendo (dopo averne preso, come vedremo, le debi-te distanze) alla sua liberazione:

22 Aldo Palazzeschi, L’Incendiario, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p. 181.23 Ivi, p. 183.24 Ibidem.25 Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, cit., p. 94.26 Cfr. Aldo Palazzeschi, L’Incendiario, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p.

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Va’, passa fratello, corri, a riscaldarela gelida carcassadi questo vecchio mondo!27

Una nutrita schiera di critici palazzeschiani ha visto in questo te-sto (con ragione) il momento di massimo contatto fra Palazzeschi e il Futurismo marinettiano (contatto in seguito abiurato con l’esclu-sione di questa poesia, e con la sua ripresa solo in una breve epigra-fe, nella seconda edizione di L’Incendiario28 datata 1913):

È ovvio […] che lo respinga perché un componimento di quel sia pure espressionistico liberty gli appare, nel suo manierismo rettori-co, del tutto inaccettabile. È uno di quei residui, non abbastanza suscettibili di deformazione ironica e grottesca, […] una poesia ri-masta troppo diritta per tollerare una buona lettura integralmente rovesciata29.

Il culto palazzeschiano dell’anti-sublime è certo inconciliabile col sublime tecnologico che il Futurismo pretende di instaurare, ma per Palazzeschi ciò che ora conta è la possibilità di istituire un dialogo fra sé e Marinetti, un dialogo che per essere realmente tale deve ap-punto spingersi fino al rischio dell’unificazione. L’intero libro vive inevitabilmente di questo rapporto30 (è preceduto dalle 57 pagine del Rapporto sulla vittoria del Futurismo a Trieste e il titolo stesso è di marca marinettiana31). Considerare dunque questo testo come una sorta di corpo estraneo alla produzione palazzeschiana è un discorso semplificante, teso a sopprimere quello che fu un preciso momento della strategia complessiva del suo autore32: consistente nella possi-bilità programmatica di impostare un rapporto dialogico con qual-

184: «Inginocchiatevi tutti! | Io sono il sacerdote, | questa gabbia è l’altare, | quell’uo-mo è il Signore!»

27 Ivi, p. 188.28 Si confronti anche il brano Incendiario di Stampe dell’800, ora inserito in Il piacere

della memoria, cit., pp. 97-102.29 Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, cit., p. 97.30 Cfr. Giuseppe Nicoletti, L’azzardo negato dell’Incendiario, nell’opera collettiva

L’opera di Aldo Palazzeschi, cit., pp. 89-114.31 L’appello futurista ai «poeti incendiari» si trova nel manifesto Uccidiamo il chiaro di

luna.32 E non possiamo certo dimenticare, come ha insegnato Genette, che la traccia epi-

grafica liminare (usata da Palazzeschi nel ’13) serve da «stemma» di un’opera.

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siasi posizione (estetica e ideologica), quello stesso rapporto dialogi-co destinato a far emergere, da ambo i lati, le contraddizioni.

Il «poeta» del testo infatti accoglie le istanze del piromane per re-stituircele rovesciate: la relazione che si instaura fra i due mette in crisi il culto nichilista palazzeschiano e, contemporaneamente, pre-senta al lettore una versione indebolita dell’ideologia “incendiaria”. Se l’avvicinamento al Futurismo ci restituisce un poeta stranamente (e socialmente) aggressivo, rigidamente avverso al conformismo bor-ghese della gente; un «io» che rivendica con forza la propria identità «attraverso un recitativo palesemente mutuato, sul piano lessicale e sintattico, dall’intonazione imperativa e declamatoria del linguaggio futurista»33, ci restituisce anche la possibilità di una visione altra ri-spetto, ad esempio, all’ipostatizzazione dell’azione futurista, un atti-vismo del tutto sui generis:

Anch’io sai, sono un incendiario,un povero incendiario che non può bruciare,[…]Là sopra il mio banco ove nacque,il mio libro, come per benedizioneio brucio il primo esemplare,e guardo avido quella fiamma,e godo, e mi ravvivo,e sento salirmi il calore alla testacome se bruciasse il mio cervello34.

Trasportando il Futurismo in un universo pluriprospettico e pri-vo di fondamenti, Palazzeschi prova a metterne in crisi la struttura “monologica”: lo stesso «poeta» del poemetto dovrà poi infatti esse-re messo in rapporto con tutte le altre maschere che l’autore assume nel corso del libro, e che andranno necessariamente a inficiare la possibilità identitaria che pure, nel testo di apertura, viene presa, stante le movenze dialogiche, in considerazione.

L’attraversamento di «rupi di spine»35 (che richiama appunto l’at-traversamento della «siepe» in Il controdolore) si configura allora pro-

33 Antonio Saccone, «La trincea avanzata» e «La città dei conquistatori». Futurismo e modernità, Napoli, Liguori, 2000, p. 74.

34 Aldo Palazzeschi, L’Incendiario, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p. 186.35 Ivi, p. 184.

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prio come approdo alla contraddizione, vale a dire all’apertura, pe-rennemente rinnovabile, verso posizioni altre, differenti36. Il post-nichilismo di Palazzeschi esce rafforzato dal passaggio nei territori del Futurismo, e ciò perché, criticando il Futurismo (instaurandovi una comunicazione), mette in crisi anche se stesso. Non si tratta di un momento utopico da contrapporre a un momento più rigida-mente critico, qui critica e utopia coincidono: la critica è la realizza-zione di un’utopia che per essere tale deve necessariamente darsi come struttura negativa, deve cioè, nietzschianamente, comprende-re la critica di se stessa. L’incendio invocato nel poemetto d’apertu-ra verrà infatti comicamente rovesciato nel componimento finale del libro: la movenza identitaria, esclamativa e superomistica del poeta nei confronti di un «Americano… babbeo!»37 si rivolgerà allora, sot-to forma di “riflessione”, contro il poeta stesso:

Io rimasi confuso,e pensai d’essermi riscaldato invano38.

La trasposizione ironica dell’incendio del piromane in un «esser-mi riscaldato invano» sottolinea del recupero di un progetto real-mente avanguardistico, teso cioè contro le regole (anche le proprie regole) nella loro natura di indiscutibilità e immutabilità: le regole del gioco si modificano giocando.

Se il positivismo aveva istituzionalizzato i concetti di “vero” e “falso” in base a un principio che era l’espressione di chi deteneva il potere all’interno della società39, privilegiando così la logica mate-matica al fine di poter ridurre «ogni manifestazione umana in rigidi schemi consequenziali, che non lasciassero adito a variazioni»40 (e chiudendo ciò che in questi schemi non rientrava in concetti come

36 Cfr. Gino Tellini, La poetica dello «scazzabubbolo», nell’opera collettiva L’arte del saltimbanco. Aldo Palazzeschi tra due avanguardie, cit., pp. 14-15: «Adotta, in questo modo, un punto di vista aperto alla dialettica del diverso, dell’escluso e del non in-tegrato, secondo un “codice” non monocentrico ma flessibile e relativistico».

37 Aldo Palazzeschi, La visita di Mr. Chaff, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p. 288.

38 Ivi, p. 289.39 E l’estetismo, assegnando l’essere all’arte, altro non aveva fatto che presupporre l’ar-

te come essere.40 Laura Mancinelli, Il messaggio razionale dell’avanguardia, cit., p. 26.

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quello di “pazzia”), l’avanguardia, approfondendo razionalmente questi schemi, li mobilita contro il positivismo stesso, attivando nel linguaggio, che è espressione di un’intera cultura, i germi della pro-pria ribellione.

Palazzeschi conduce l’avanguardia alla visione del rischio del pro-prio fallimento, fa intervenire la sua poetica, la sua “avanguardia”, attivando in seno al Futurismo ciò che questo aveva, positivistica-mente, rimosso: l’equivoco, il possibile. Fondando sulla differenza una nuova razionalità mira a un contingentismo-assoluto che, alie-no alla propria sintesi, si svela, mediante il meccanismo dialogico che incessantemente instaura con ciò che è altro da sé, continua-mente contraddittorio rispetto a se stesso, dunque non-assoluto. Mo dulandosi (come ora vedremo) nella tematica dell’escluso, nella critica del linguaggio, nell’approdo ai territori del comico, sottolinea la mancanza di un Dio (di un principio unificatore) capace di strap-pare l’identità (la verità) al caso, di individuarla, e (preservando sem-pre il valore antinomico di questa operazione) la restituisce come pluralità in potenza.

3. la strategia dell’esclusione

niente ci fa più bene del berretto a sonagliFriedrich Nietzsche, La gaia scienza

Non sogno più castelli rovinati,decrepite ville abbandonate,dalle mura tutte crepatedove ci passa il sole.Non palazzi provincialidisabitati,dalle porte polverose,[…]Io sogno una casina di cristalloproprio nel mezzo della città,nel folto dell’abitato.Una casina semplice e modesta,piccolina piccolina,tre stanzette e la cucina.Una casinacome un qualunque mortale

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può possedere,che di straordinario non abbia niente,ma che sia tutta trasparente,di cristallo.Che si veda bene dai quattro lati la via,e di sopra bene il cielo,e che sia tutta mia.L’antico solitario nascostonon nasconderà più nientealla gente41.

Se nella prima parte del testo Palazzeschi presenta il rifiuto del tipi-co catalogo di luoghi liberty, nella seconda parte il consueto mecca-nismo invocante la ricerca della solitudine (meccanismo che aveva informato gran parte di Poemi e l’intera sezione di L’Incendiario in-titolata Al mio bel castello) viene sottoposto a un processo di strania-mento teso ad assegnargli i caratteri del paradosso. Se la «casina» mantiene infatti da un lato tutti gli elementi di un interno piccolo-borghese, dall’altro lato, mediante l’instaurazione di un ordine altro rispetto a quello della realtà (è una casa trasparente), funziona come attivazione di un codice “differente” utilizzato al fine di mettere in crisi quello dominante. Il contatto dialogico che si viene a instaura-re fra il mondo reale e la «casina» del poeta, provocando fraintendi-menti, ha lo scopo di mostrare alla realtà la “possibilità” che essa ave-va voluto sospendere ma che pure conteneva42:

Il nuovo e lo strano mettono in libertà i significati, li dotano di mo-bilità, li distribuiscono in serie aperte, prive di direzione; mentre lo choc della contraddizione colpisce le gerarchie dei luoghi culturali e, perciò, la base dell’intendersi e del riconoscersi43.

La vicinanza-contiguità fra il mondo instaurato dal poeta e il mondo della «gente», avviando una pluralità prima assente, innesca disordine e eversione all’interno di quella che si presentava come re-

41 Aldo Palazzeschi, Una casina di cristallo (congedo), in [Poesie 1910-1915], in Tutte le poesie, cit., pp. 316-317. La poesia Una casina di cristallo apparve su «Lacerba» il 15 marzo 1913, fu poi accolta nella seconda edizione di L’Incendiario.

42 Non a caso la «casina» provoca contraddizioni anche fra la stessa gente: «– È una gran puttanata! | – È una bella trovata!»

43 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 33.

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altà unidimensionale. Il crollo di una gerarchia in grado di stabilire la supremazia del mondo vero su quello possibile scatena, di conse-guenza, la crisi di qualsiasi ordine gerarchico, anche di quello topo-logico della Poesia (si noti la rima sogni | bisogni).

Se prima di L’Incendiario l’allontanamento del poeta dal mondo si caratterizzava come scelta difensiva, quello stesso allontanamento viene ora a qualificarsi come sistema d’attacco: il poeta, ritirandosi, edifica una realtà differente (un simulacro di realtà) da mettere in comunicazione con la prima, sconvolgendo in ciò le “corrette” e im-mutabili regole di funzionamento di quella, e rivelando anche quel-la in quanto simulacro.

Come l’apologia del deforme e del laido in Il controdolore suscita l’emersione di una struttura alternativa dell’esistenza, il proposito contaminante44 costringe ora il reale a fare i conti con un suo rad-doppiamento sub specie teatro, dove il poeta, investitosi della propria esclusione, e in virtù di questa, rivela al mondo una sua nuova mo-dalità.

Un poeta quando è stancocambia castello;piglia sulle spalle il suo fardellocome un qualunque saltimbanco45.

L’esclusione, il luogo da cui attivare una differenza, è condotta nella seconda sezione di L’Incendiario fino al parossismo: il soggetto poetante, rovesciando come un guanto il precedente modo di ope-rare, si segrega deliberatamente in un’abitazione (così simile alla asfittica dimora dei Poemi) dalla quale instaurare un paradossale contatto con il mondo esterno. Attuando una parodia dell’interiori-tà borghese, instaurando cioè una concezione di vita “possibile” (la moglie è una scimmia e le sorelle sono due galline), rifugge da una solitudine di tipo ascetico46 e si istituisce, ben chiuso nelle sue stan-

44 Nella poesia Le beghine (in L’incendiario, cit., p. 231) tale proposito, opposto all’apo-logia della “purezza”, è fra l’altro direttamente contiguo alla sfera sessuale: «Conta-minarvi tutte, | tutte, darvi odio amore scherno, | perdervi, gettare in un sol pugno, | al vento, tutte le vostre preghiere, | eppoi lasciarvi ridendo!».

45 Aldo Palazzeschi, Quando cambiai castello, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p. 241.

46 La stessa «finestra» smette di essere il simbolo di un’estraneità al mondo.

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ze, come polo attivo di un dialogo a più voci teso a stabilire una va-lenza interrogativa nella realtà, teso cioè a definire il reale come va-lenza interrogativa (si pensi in questo senso al gioco nichilista di La ciociara in lutto volto a mettere in scacco le possibilità conoscitive del soggetto47).

La struttura teatrale48 e possibilista coinvolge infatti, secondo le modalità spiegate nel paragrafo precedente, lo stesso Palazzeschi che, rivelatosi a se stesso (nel dialogo fra le sue identità) identità fortuita, si presenta quale serie di maschere, vale a dire quali «differenti pos-sibilità dell’essere»49, sviluppando, da poesia a poesia, un’attitudine inesauribile alla metamorfosi. La valenza di simulacro (della realtà e del soggetto) conduce di conseguenza a una struttura parodica vir-tualmente infinita, poiché «si tratta di dichiarare una guerra spieta-ta a tutto ciò che vuole soffocare nell’uomo l’incessante possibile»50.

Se l’irruzione di una pluralità di “ordini” smuove dalle fonda-menta le precedenti strutture gerarchiche (compreso il rapporto di forza Io-gente che viene a trovarsi ribaltato), lo stesso principio di esclusione sarà, in un testo come L’assolto51, destinato a subire una trasvalutazione che finirà per renderlo principio di un’iniziativa vol-ta contro il pubblico:

Allor che i miei buoni fratellim’avevan due volte sepolto,disse una voce:(io non so come e dove)“assolto. Mancanza assoluta di prove”.S’apersero tutte le porte52,s’apersero tutti i cancelli.

47 Cfr. Aldo Palazzeschi, La ciociara in lutto, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p. 255: «Come c’entrò qui dentro questo quadro? | Perché non volli gettarlo al mio venire? | Che cosa mi poteva dire | questa donna non bella | che non conoscevo? | Chi lo introdusse? | Qualcuno forse… per pensare? | E per lasciare ad un altro | questa occupazione?».

48 Cfr. Id., Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 1371: «È il mondo un teatro nel quale tutti vogliono essere attori».

49 Pierre Klossowski, Nietzsche, il politeismo e la parodia (1963), Milano, se, 1999, p. 48.

50 Ivi, p. 68.51 L’assolto appare in L’Incendiario del 1913.52 Si ricordi la poesia La porta di Poemi.

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Assolto!Io sono l’assoltomiei cari signori,ed ora che son fuoriguardatemi bene in viso:ò ucciso?[…]Fuggire?Nascondersi agli occhi della gente?Ma che!Sottrarsi alla sconcezzadel dubbio ch’io rivesto?Ma che!Rivestirlo dignitosamente,o con disinvoltura?Ma che! Niente, niente!Esibirsi, senza misura,generosamente53.

L’«assolto» si espone ai giudizi degli altri, ma non comportando-si come questi si aspetterebbero, mette in crisi le loro griglie inter-pretative (infatti esplodono i consueti battibecchi). Sottraendosi all’identità, a quella identità che nella realtà dovrebbe toccare a un delinquente, instaura col mondo un contatto paradossale che, di-mostrando l’assenza di un ordine metafisico che possa riempire di senso il reale, apre in esso un ambito di differenza radicale dove l’ul-tima parola spetta al gioco della simulazione teatrale (parola che, per definizione, non può mai essere l’ultima parola):

[…] ritorno un poco attoreeppoi ancora spettatore,come te, come tutti gli altri54.

La dissoluzione del senso originatasi sul paradosso (a sua volta scaturito dall’accostamento, dal dialogo, di due diversi ordini inter-pretativi) produce il trionfo di un’apparenza positiva in quanto cri-ticante, cioè in quanto pronta a introdurre in sé la propria critica.

53 Aldo Palazzeschi, L’assolto, in [Poesie 1910-1915], in Tutte le poesie, cit., pp. 310-311.

54 Ivi, p. 312.

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Il proposito è quello dell’apertura costante, costante attivazione di un senso altro al fine di evitare le calcificazioni “mortuarie” del-la vita. Esemplare in questo senso (anche se a un livello più sempli-ce) è un testo come Monastero di Maria Riparatrice55, dove il con-tatto avviene fra il poeta e le suore: l’amore che inizialmente l’arti-sta prova verso queste donne «di bianco vestite, di bianco velate»56 (legato dunque alla consueta catena metonimica del bianco), si ro-vescia alla visione di un sole «di sangue» che viene a rappresentare la vita e le sue inesauribili contraddizioni. La mortificazione che le suore si autoimpongono57, mortificazione naturalmente opposta alla gioia vitale, si configura per l’appunto come desiderio di “chiu-sura”, tentativo di sottomettere la vita che è invece apertura inesau-ribile:

Ri-pa-ra-tri-ce…Ah! Prima peccaste dunque,ed ora riparate,[…]E se anche vi foste lasciate possedereun milione di volteda mille diverse persone,che faceste di male?Gioiste e faceste gioire,perché di gioia eravate assetatee bruciavate,che faceste di male?Viveste, perché vive eravate,che cazzo riparate, scimunite?[…]Nasceste con quella vocazione:fasciare, premere, soffocareil proprio cuore,chiudere, non aprire,ripiegare58.

55 Apparso su «La Voce» il 21 Agosto 1913.56 Aldo Palazzeschi, Monastero di Maria Riparatrice, in [Poesie 1910-1915], in Tutte

le poesie, cit., p. 327.57 Si veda a tal proposito anche la novella Tre diversi amici e tre liquidi diversi, in Aldo

Palazzeschi, Tutte le novelle, cit., pp. 326-329.58 Id., Monastero di Maria Riparatrice, in [Poesie 1910-1915], in Tutte le poesie, cit., pp.

331-332.

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Nell’invocazione finale, portando anche alla luce i grovigli psico-logi della prima giovinezza, Palazzeschi definisce dunque la natura differente del proprio proposito:

due gomitoli siamo noi,sorelle velate,soltanto che tiriamo in senso inverso,io mi dispano, voi v’adipanate59.

La morte metaforica delle suore lascia il campo alla concezione gioiosa della vita che, in quanto movimento perenne, è apertura illi-mitata.

4. la carne, il sole e un cavolo: territori del comico

La luna mi sembra un mondo polmonare. Il sole unmondo cuorale. La terra un mondo… intestinale.

Aldo Palazzeschi, Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi

La strategia umoristica che informa L’Incendiario e le poesie succes-sive (se non altro fino al 1913) opera su almeno due livelli. Da un lato riscontriamo il tipico meccanismo parodico-autoparodico che ab-biamo già visto all’opera in Poemi: Villa celeste, ad esempio, abitazio-ne eccezionalmente somigliante alle dimore fiabesche dei libri prece-denti, si rivela un bordello. Sulla stessa scia possiamo inserire un te-sto come La regola del sole, dove la ripresa delle tradizionali forme geometriche è piegata, nel rapporto con le due poesie seguenti (Le carovane e La città del sole mio60) a restituire al lettore la percezione di un palcoscenico ormai di cartapesta. Le raffigurazioni a valenza mitico-fiabesca vengono infatti definitivamente svelate come parte integrante dell’immaginario poetico dello stesso Palazzeschi, dun-que parte integrante della sua concezione di una realtà a valenza pos-sibile:

Oggi, io mi vedo davanti,una lunghissima,

59 Ivi, p. 332.60 Sole mio era il titolo inizialmente scelto da Palazzeschi per il volume.

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interminabile via,zeppa di carovane.[…]Carovane di case, di castelli,di navi, di barchette,rigidissime damecomposte nelle loro vettura,sguaiatissime puttane a sciame.[…]In fondo io me ne sto a guardare,tranquillo alla finestradella mia stanza da letto,guardo, e aspetto.Ma ditemi, dove andate?Dove andate? Si può sapere?Cosa c’è in fondo a quella via?Andate alla Città del Sole Mio?Imbecilli! Idioti! Fermatevi!Non lo sapeteche in quella Cittànon posso andarci che Io?Per Dio!61

In un testo come Il principe e la principessa Zuff, ricollegandosi direttamente a La principessa bianca di Poemi, Palazzeschi trasporta poi la catena metonimica del bianco62 fino al contatto con la sfera corporea e sessuale: i due prìncipi, condannati alla rigidità tipologi-ca della (e dalla) struttura della fiaba, accettano di sposarsi ma con-tinuano eternamente a dormire (sottraendosi dunque ai doveri co-niugali). Bloccati, mediante la sonnolenza, in un mondo che non-gira (dove tutto si ripete uniformemente), si espongono natural-mente alla comicità del doppio senso:

Le dame cercavano ogni manieraper tenerla desta,lei rispondeva lentamente

61 Aldo Palazzeschi, Le carovane, in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., pp. 221-222.

62 Cfr. Id., Il principe e la principessa Zuff, ivi, p. 203: «– Se mi vedrà così bianca | mi dirà che non mi vuole. | – Che se ne potrà fare | d’un consorte tutto bianco | come la faccia della morte?».

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e piegava la testa.– Diverrete un fiore troppo delicatoPrincipessa!– Chi sa come la concerà il marito!63

Ma se in un testo come Al dottor Carrel64 si riattivano, in un com-mercio di organi umani, i meccanismi farseschi di La fiera dei mor-ti, e nello straordinario Pizzicheria65 la sfera gastronomica viene (en-trando ormai decisamente nel secondo livello della comicità palazze-schiana) equiparata (nel crollo totale di qualsiasi ordine gerarchico) alla sfera idealistica66, storica67 e geografica68, degradando, nell’aper-tura verso sfere tradizionalmente estranee, un certo modo di fare poesia, è proprio in La città del sole mio che accade qualcosa di sor-prendente:

Che sole ci può brillare,se non un faro di scarabei,nel cielo dei sogni miei?Mi direte: è un sole troppo strano!Ma io posso tenerlo in mano:giocarci sul mio tavolocome se fosse un cavolo.Farci all’amorea tutte l’ore;dirgli: sei un imbecille!Dirgli mille insolenze,mille brutte parole,

63 Ivi, p. 202. Molto interessante, in questo testo, la preferenza che i due giovani asse-gnano alla “parola” piuttosto che alla “cosa” («Ditemi cento volte | «la parola oro, con uguale intonazione, | «con precisa cadenza. | «Come è bello aver tanto oro, | «e sentirselo dire così…| «Ancora ancora ancora… | «Ne ò ancora, di più, | «molto di più, ne ò»). Ritorneremo su questo tema nel paragrafo successivo.

64 Pubblicato su «Lacerba» nel luglio del 1913.65 Pubblicato su «Lacerba» nel novembre del 1913.66 Cfr. Aldo Palazzeschi, Pizzicheria, in [Poesie 1910-1915], in Tutte le poesie, cit., p.

334: «Non vi sembra di sognare | dame medioevali | affacciarsi alla superbe finestre | tonde e ovali | del palazzo dei granduchi, | quello coi buchi?».

67 Cfr. ivi, p. 335: «E le acciughe e le salacche | dalle lucide corazze, | nei barili alline-ate, | inginocchiatevi! | Sono i guerrieri delle Crociate!».

68 Cfr. ivi, p. 334: «Le file dei formaggi | l’un sull’altro ammassate, | mi sembrano vil-laggi, | borgate soleggiate, | coi tetti di lavagna, | le oscure untuose cortecce, | come paesini di montagna».

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come non si trattasse del sole.Avete capito?69

Introiettati (in particolar modo in La fiera dei morti) i segni di certa cultura carnevalesca, col valore di ambivalenza che tale segni comportano, Palazzeschi si spinge ora verso una parola exotopica che desemantizza, nella familiarizzazione, la stessa stabilità semanti-ca che il rapporto parola-cosa dovrebbe comportare. Il sole, improv-visamente ridotto a «cavolo» in virtù della struttura possibilistica della realtà, viene detronizzato dal suo comune concetto semantico, si fa esempio di una semiosi illimitata dove la parola è necessaria-mente ironica: detta «con riserva»70, non identificabile totalmente coi propri contenuti, espressione costante di un’alterità a se stessa, dunque espressione dell’alterità del proprio autore a se stesso. La pa-rola “stabile” sarebbe infatti la certificazione del «privilegio ontolo-gico e metafisico della coscienza dell’io»71, di un io che, dissimulan-do l’ambiguità del proprio dire, trasformerebbe la vita in morte in quanto incapace di resistere «all’unificazione, […] all’eguagliamen-to, all’omologazione, che ciò che è detto dal linguaggio necessaria-mente comporta»72.

Il mondo, di cui l’io naturalmente fa parte, è restituito come «soggetto» con cui entrare in relazione: Palazzeschi, considerandolo quale universo possibile, stabilisce con esso un rapporto dialogico destinato a metterne in crisi le valenze che si pretendono immutabi-li. Come applica al proprio «Io» una pluralità di maschere (operazio-ne permessa, come abbiamo visto, dal declino della nozione “forte” di soggetto), così riproduce continuamente la relazione soggetto-mondo all’interno di una struttura bi-direzionale destinata a modi-ficare, di volta in volta, i parametri di entrambi (operazione permes-sa dal declino di una nozione forte di “realtà”): qui si innesta la co-micità palazzeschiana, il suo particolarissimo umorismo. L’uomo Palazzeschi, si potrebbe dire, prende coscienza della natura inter-soggettiva della propria esperienza e, nell’operazione tesa a salva-

69 Aldo Palazzeschi, La città del sole mio, ivi, p. 226.70 Michail Bachtin, L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi, 1988, p. 349.71 Augusto Ponzio, Scrittura dialogo alterità. Tra Bachtin e Lévinas, Firenze, La Nuo-

va Italia, 1994, p. 46.72 Ivi, p. 64.

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guardare sempre l’altro senso delle cose, opera una continua decen-tralizzazione di ciò che si presenta come forma: i principi materiali e corporei vengono allora portati in auge non semplicemente come modo di essere della realtà, ma come parodia73, vale a dire come polo di un dialogo teso a mettere in mostra la natura ambivalente, cioè priva di gerarchie74, cioè in divenire, del reale stesso.

Emblematico di ciò è un testo come I fiori:

Non avea preso partealle allegre risate,ai discorsi consuetidegli amici gai e lieti;tutto m’era sembrato sconcio,tutto m’era parso osceno,non per un senso di moralità,che in me non c’è,e nessuno si era curato di me,chi sa…O la sconcezza era in me…o c’era un ultimo avanzo di purità.[…]io, non visto, uscii nel giardinoper prendere un po’ d’aria.E subito mi parve d’essermi liberato,[…]Salde, robuste piantedall’ombre generose,sotto voi passeggiare,sotto la vostra sana protezione obliare,ritrovare i nostri pensieri più puri,sognare casti ideali75.

73 Cfr. Tzvetan Todorov, Michail Bachtin. Il principio dialogico (1981), Torino, Ei-naudi, 1990, p. 109: «l’attrazione per l’eccentrico, il sorprendente, il bizzarro; le promiscuità, l’unione dei contrari; la profanazione e l’avvilimento […]; le immagi-ni carnevalesche sono fondamentalmente ambivalenti».

74 Si veda un testo come La passeggiata.75 Pubblicato su «Lacerba» nell’aprile 1913. Aldo Palazzeschi, I fiori, in [Poesie 1910-

1915], in Tutte le poesie, cit., pp. 299-300. Da confrontare una lettera inviata da Pa-lazzeschi a Mario Novaro il 24 dicembre 1913, in Aldo Palazzeschi–Mario No-varo, Carteggio (1910-1914), a cura di Pino Boero, introduzione di Giorgio Luti, Fi-renze, Vallecchi, 1992, p. 37: «Ci sono delle ore nelle quali io vorrei essere la sozzu-ra più immonda per potermi buttare sul viso degli altri, ma ve ne sono tante, diver-

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Il tòpos della mondanità, rifiutato nella sezione iniziale della poe-sia, viene sostituito dal tòpos della purezza e dell’innocenza del poe-ta. Questo però si rivela subito come tentativo di immobilizzazione dell’esistenza in una forma, e la realtà (che non è più oggetto, ma è a sua volta soggetto) rigetta all’artista il tentativo di imprigionarla:

– Ma tu chi sei? Che fai?– Bella, sono una rosa,non m’ài ancora veduta?Sono una rosa e faccio la prostituta.[…]– Che diavolo ti piglia?E credi sian migliori,i fiori,in seno alla famiglia?Voltati, dietro a te,lo vedi quel cespugliodi quattro personcine,due grandi e due bambine?Due rose e due bocciuoli?Sono il padre e la madre coi figliuoli.Se la intendono… e bene,tra fratello e sorella,il padre se la fa colla figliola…la madre col figliolo…Che cara famigliola![…]E lo vedi quel giglio,lì, al tronco di quel tiglio?Che arietta ingenua e casta!Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta.[…]E il narciso, specchiuccio di candore,si masturba quando è in petto alle signore76.

«La vita per sua natura è dialogica»77. Il tentativo formativo del poeta pretende una ribellione dell’altro che si era voluto asservire

se sai, nelle quali cerco disperatamente qualcosa di sano e di puro, e allora solamen-te il vuoto mi è dintorno».

76 Aldo Palazzeschi, I fiori, in [Poesie 1910-1915], in Tutte le poesie, cit., pp. 302-303.77 Michail Bachtin, L’autore e l’eroe, cit., p. 331.

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all’io: il monologo su cui la poesia si stava inizialmente incammi-nando pretendeva di essere l’ultima parola, l’opposizione della «rosa» finisce per sconvolgere i suoi piani, gli sottrae sicurezza, gli toglie monoliticità. L’impaurita invocazione a Dio su cui la poesia si chiu-de sottolinea appunto che solo in un riferimento trascendente e me-tafisicizzante, solo «fuori della natura», è possibile recuperare un «Io» come valenza compiuta in se stessa, tranquillizzarlo nel credo di una realtà assoggettabile ai suo schemi:

Ò paura!Dio!Abbi pietà dell’ultimo tuo figlio,aprimi un nascondigliofuori della natura!78

La tendenza, definita da Bachtin «erronea», a dissolvere in sé la coscienza altrui, subisce uno scacco non più ricomponibile: nuovi contesti, nuovi significati, riemergono nel dialogo.

Il rammarico che, nella conclusione della già menzionata poesia conclusiva di L’Incendiario del 1910 (La visita di Mister Chaff), il poe-ta prova dopo aver interrotto le ciarle, con un lungo e violento mo-nologo, di un lontano parente americano, è il sigillo della singolare modernità di Palazzeschi:

Gli potevo lasciar diretutte le sue grulleriea quel povero americano,chi sa come mi potevo divertire!79

L’interruzione dell’ambivalenza, del dialogo (dopo la sfuriata del poeta Mister Chaff se ne va «zitto zitto»), si configura come interru-zione del “divertimento”. Il poeta che, nel monologo, riguadagna una funzione “positiva” (e non più critica) adotta un linguaggio en-fatico e ascensionale che, irrelato rispetto alla lingua degli altri, si proietta in definizioni lontane dalla terra e dalle sue contraddizioni, in clamorose scempiaggini:

Ma io salgo, nulla m’arresta,

78 Aldo Palazzeschi, I fiori, in [Poesie 1910-1915], in Tutte le poesie, cit., pp. 303-304.79 Id., La visita di Mister Chaff, in L’Incendiario, ivi, p. 289.

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è in cielo la mia testa,nell’azzurro profondo,fra le stelle che si confondonoal bagliore dei miei occhi,e mi sorridono amiche, sorelle.Su, su, entro nel sole,e creo, e mi beo!80

5. la parola. lo sguardo di medusa

Le singole parole mi galleggiavano d’intorno.Hugo Von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos

Testimonianza di una crisi radicale la Lettera di Lord Chandos (com-posta da Hofmannsthal nel 1902) trasporta, nel campo del linguag-gio, le conseguenze estreme di un mondo a cui è stata sottratta la «funzione mediatrice di dio»81. Il gentiluomo inglese del XVII seco-lo che Hofmannsthal impersona è un uomo che un tempo era stato in grado di vedere il mondo (un mondo dominato dalla capacità le-gislativa del soggetto) nella forma dell’unità82, e che ora ha progres-sivamente perso la capacità stessa di «pensare o di parlare con coe-renza di qualsiasi cosa»83. Dapprima ha avvertito l’assurdo delle pa-role astratte, poi ha riscontrato il fondo inquieto che si cela in qual-siasi giudizio:

lo sceriffo N. è un uomo malvagio, il predicatore T. un uomo pio, il fittavolo M. è da compiangere […]. Tutto questo mi appariva in-dimostrabile, menzognero, lacunoso quanto è possibile che sia84.

Ha dunque scoperto, attraverso l’esperienza del vuoto, che gli elementi rifiutano di lasciarsi contenere in concetti e che, nell’im-

80 Ivi, p. 288.81 Laura Mancinelli, Il messaggio razionale dell’avanguardia, cit., p. 17.82 Cfr. Hugo Von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos (1902), a cura di Rober-

ta Ascarelli, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1992, p. 11: «dovunque io mi trovavo al centro delle cose, mai mi si manifestava la parvenza dei fenomeni: ovvero mi figu-ravo che fosse metafora ogni cosa e fosse ogni creatura una chiave per le altre e sen-tivo di essere ben io l’uomo capace di disporle una dopo l’altra in un solo anello».

83 Ivi, p. 13.84 Ivi, p. 15.

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possibilità di ricondurli a una Kultur (a un principio unitario del re-ale a cui tutto sia rapportabile, secondo l’interpretazione di Lukács), si svelano tutti in quanto mera apparenza. Rifiutandosi all’universo “rettorico” delle parole, Lord Chandos, appreso che «i vortici del linguaggio»85 conducono «all’assenza di fondamenti»86, vagheggia di una lingua che non è una lingua, dove le cose, non più tragicamen-te separate dai segni che le definiscono, possano ritornare a parlare: un luogo dove la parola non sia più un’«indecenza».

Siamo nell’ambito del grande contrasto modernista fra la vita e le forme, Hofmannsthal sta registrando un fallimento: «l’incapacità di contenere nella parola il dilagare della vita, che frantuma le parole stesse»87. L’angoscia sorta davanti al franare del linguaggio sottolinea lo spezzarsi del rapporto, che si era fittiziamente ritenuto ontologi-co, fra cose e parole. Estraneo, come lo sarà anche Palazzeschi, al cre-do (nuovamente metafisico) di un’autosufficienza linguistica, anche Lord Chandos registra, ma con infinito rammarico, la trasformazio-ne in congiunzione del predicato verbale «è», trasformazione che, conducendo al crollo del sistema gerarchico della realtà, impedisce l’operazione di selezione (di ciò che è significante rispetto a ciò che è accidentale) da parte di un soggetto che si è, a sua volta, scoperto molteplice. Per lui «il crollo della prospettiva è crollo del soggetto e dell’ordine della frase»88, la sua angoscia è duplice: angoscia per l’in-capacità del Logos di connettere il reale, angoscia nella scoperta che la parola, che pure il reale definisce, è in realtà «lo sguardo pietrifi-cante della Medusa»89. Né col nichilismo, né con la metafisica. Come si era arrivati a tutto questo?

Ovunque i primitivi stabilivano una parola, credevano di aver fatto una scoperta. Ma come diversamente stavano le cose in verità! Essi avevano toccato un problema e, illudendosi di averlo risolto, aveva-no creato un ostacolo alla sua risoluzione. Oggi, ad ogni conoscen-za, si deve inciampare in parole dure come sassi, eternizzate, e inve-ce di rompere una parola ci si romperà una gamba90.

85 Ivi, p. 31.86 Ibidem.87 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 39.88 Ivi, p. 47.89 Ivi, p. 48.90 Friedrich Nietzsche, Aurora (1881), Milano, Adelphi, 2004, p. 40.

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Quando il reale si scopre privo di fondamento è la stessa capaci-tà linguistica che entra in crisi, poiché entra in crisi la capacità ordi-nativa del pensiero, vale a dire la possibilità di istituire, in un’inter-pretazione della realtà, una precisa scala valoriale. Nell’ordine del lin guaggio si dovrà allora vedere «un riflesso dell’ordine secondo il quale si organizzano le esperienze»91. Ma se il soggetto, scopertosi scisso, non è più in grado di organizzare gerarchicamente la realtà (se vede cioè, nei suoi procedimenti conoscitivi, il tentativo di racchiu-dere la molteplicità del mondo in griglie preordinate), non sarà ne-anche più in grado di organizzare gerarchicamente il linguaggio, poiché riscontrerà in esso lo stesso procedimento coatto, e di conse-guenza vedrà nella lingua la proiezione (e la stabilizzazione) di quel-la cultura “formalizzante” contro cui vuole scagliarsi.

Quando a venire meno è il sistema logico dell’esistenza, lo stesso sistema linguistico è destinato a un tremendo contraccolpo: «le pa-role non servono più, perché sono come le tessere di un mosaico scompigliato che non significa più nulla»92. Inoltre, decaduta l’onto-logia di un senso stabile, del reale e del linguaggio, viene natural-mente meno anche l’ontologia che correlava indissolubilmente que-sti due elementi. La nostra costruzione linguistica si rivela in conti-guità col nostro pensiero, ma il nostro pensiero si svela essere solo un modo costrittivo di interpretazione del mondo, e non il mondo stes-so, non, vale a dire, la sua totalità93. Ecco allora che la crisi del lin-guaggio non può non rivelarsi come crisi del pensiero, la stessa crisi che abbiamo lungamente analizzato, e che Palazzeschi accoglie come propulsione, secondo quanto finora detto, gioiosa e critica94, non

91 Laura Mancinelli, Il messaggio razionale dell’avanguardia, cit., p. 23.92 Ivi, p. 85.93 Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., p. 88: «I limiti del

mio linguaggio significano i limiti del mio mondo».94 È nuovamente necessario richiamarsi a questo brano di Palazzeschi (già citato

nell’analisi di Lanterna) dove la coscienza dello scollamento realtà-linguaggio pro-duce esiti inaspettati: «Mi pareva che la parola fosse prigioniera di una formula dal-la quale bisognava liberarla, che si fosse svuotata di ogni forza espressiva, la vedevo caduta a terra come una larva, e mi pareva osservando un oggetto di non vederlo nella sua vera essenza, avrei voluto vederlo come nel paradiso terrestre lo vedevano Adamo ed Eva. E ricordo che una mattina mi recai sotto una villa che tanto mi pia-ceva, della quale conoscevo i proprietari e sapevo a puntino ogni particolare della sua esistenza. Vi andai come il pittore con la sua cassetta dei colori, col lapis e un quaderno per ritrarla con la parola. Non appena ebbi finito e lessi quanto avevo

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esorcizzando l’apparenza ma facendone strumento (ma non fine!) di una strategia:

Tri tri tri,fru fru fru,ihu ihu ihu,uhi uhi uhi!Il poeta si diverte,pazzamente,smisuratamente!Non lo state a insolentire,lasciatelo divertirepoveretto,queste piccole corbelleriesono il suo diletto.

Cucù rurùRurù cucù,cuccuccurucù!Cosa sono queste indecenze,queste strofe bisbetiche?Licenze, licenze,licenze poetiche!Sono la mia passione95.

È il procedimento prima spiegato che permette un’operazione di tal genere: accomodandosi sornionamente nei territori dell’infrazio-ne, della pazzia96, del divertessement (vale a dire in quei territori si-tuati oltre la rigidezza delle griglie interpretative, dove le regole si fanno giocando), Palazzeschi approda a un nonsense fonico che, de-strutturando le valenze comunicative del soggetto (e quindi le sue

scritto, e al tempo stesso guardai l’oggetto che era davanti a me, ebbi un senso di vertigine: la villa sulla mia carta non aveva la più piccola parentela con quella da cui l’avevo ritratta, nulla combaciava nella sua presenza estetica come nella vita che all’interno vi si svolgeva. Al senso di vertigine subentrò un senso di ebbrezza che mi fece camminare all’infinito, senza meta, nel mondo irreale della fantasia e della fe-licità».

95 Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire! (canzonetta), in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., p. 236.

96 Da ricordare qui che l’elogio fatto da Nietzsche alla «pazzia» era per l’appunto l’elo-gio verso coloro pronti a rompere le forme che gli uomini «etici» avevano imposto alla vita.

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valenze conoscitive), mostra come già avvenuto un cataclisma se-mantico che però, diversamente che in Hofmannsthal, non produce (sebbene ci si trovi molto lontano dall’idea di irrelato divertimento) alcun nostalgia di senso pieno:

Sapete cosa sono?Sono robe avanzate,non sono grullerie,sono la spazzaturadelle altre poesie97.

La rappresentazione verbale, conscia della propria leggerezza, vale a dire conscia del proprio distacco dalla mortificante pesantezza della realtà che impone alla vita lo sguardo di Medusa, instaura un dialogo con questa destinato a deprivare entrambe di senso. Abita i cascami del linguaggio non per investirli di un significato al di là della realtà (né per smarrirsi nel vuoto), ma di questi si serve poiché, incapaci come sono di generare un’immagine (una rappresentazio-ne, una figurazione), inficiano quel potere mimetico della parola che produce, nell’uomo, l’illusione di un ponte stabile fra questa e il pensiero e, di conseguenza, fra questa e il mondo e, di conseguenza, trovando il mondo rispecchiamento e stabilizzazione nella parola, minano alle radici l’ingannevole fissità del mondo stesso.

In una lettera a Soffici del giugno 1915 Palazzeschi scrive:

Spero davvero che tu voglia venire a Napoli, dopo, con me, a Napo-li e anche più giù più giù molto in un posto dove non si odano che delle sillabe qua e là e senza avere più la forza di coordinarle in nes-suna maniera98.

97 Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire! (canzonetta), in L’Incendiario, in Tutte le poesie, cit., pp. 236-237. Cfr. Id., Spazzatura, in Tutti i romanzi, i, cit., pp. 1318-1319: «esso | essa | con cui | camminammo | per cui | c’eravamo | campò | che fui | mam-ma mia! | né | con che | né | gli | si suole | per | essendosene | fare | e. Correggendo le bozze di una mia prosa mi sono avanzate queste parole». Cfr. ivi, p. 1373: «E dire che per esprimermi debbo servirmi di queste paroline logore, consumate fino all’as-surdità, ridotte cenere in questo eterno maneggiare di sillabe. Vorrei poter tutto di-struggere e disperdere con un ruggito, macché! dovrebbe bastare un peto».

98 La lettera è stata portata all’attenzione della critica da Adele Dei nel saggio Nell’aria di Parigi. Poesie 1914-1915, nell’opera collettiva Palazzeschi e i territori del comico, cit., p. 63.

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Le ultime poesie della produzione giovanile, a guerra imminen-te o già in corso, sono profondamente segnate da sperimentazioni di tipo logico, sintattico e linguistico, forse perché il confrontarsi, da poeta, con quella cultura che aveva prodotto il conflitto mon-diale, doveva inevitabilmente significare confrontarsi con la lingua che era insieme causa e effetto di quella cultura. Si va così dal pre-ermetismo di Apro la mia finestra alle sperimentazioni “cubiste” di un testo come Su (costruito, come già notato da De Maria, imma-ginando la realtà sotto specie di «cono»). Sono in genere poesie brevi che «elidono i nessi logici e narrativi»99, congegnate talvolta (Raccomodano il selciato, Gigino Siccoli…) sul meccanismo del ful-men in clausola. La realtà, ormai sfacciatamente ridotta a scenario teatrale (Uscendo da Grelot100), tende a sgranarsi, seguendo la scrit-tura, nell’occhio straniante del poeta. In un testo come Boccanera Palazzeschi approda addirittura all’accavallamento di versi appar-tenenti a differenti discorsi logici, dove è cioè evidente che il di-scorso va seguito leggendo in sequenza i versi dispari o quelli pari:

Ci sono di quelli cogli occhi di vetroTutta la vita à mangiato il fuocoche sembrano di vetroMangiò il fuoco anche l’altra serami piacciono tantoMangerà il fuoco anche stasera certamente101.

Avvicinandosi, come mai prima d’ora, al dadaismo, propone un’«allegoria della frantumazione e disgregazione del soggetto»102 approdando fino alla perdita della possibilità di intendersi con gli al-tri uomini (quegli uomini che, come è scritto nella dedica di Due imperi… mancati, «alimentando il fuoco immondo rinnegarono se

99 Ivi, p. 60.100 Cfr. Aldo Palazzeschi, Uscendo da Grelot, in [Poesie 1910-1915], in Tutte le poesie,

cit., p. 341: «Guarda guarda Boccioni, | ce n’è un’altra | di quelle lune di cartone ciondoloni».

101 Id., Boccanera, ivi, p. 351.102 Andrea Cortellessa, Controdolore e retroguardia. Aldo Palazzeschi tra «Spazzatu-

ra» e «Boccanera», in «La Rassegna della Letteratura italiana», s. viii, 2-3, maggio-dicembre 1996, p. 108.

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stessi»), venendo davvero, avrebbe detto Michelstaedter, «ai ferri corti con la vita».

La negazione della parola che si consuma nel finale della poesia si oppone a qualsiasi messaggio103, rifiuta il programma del mondo (quel mondo che è in guerra) restituendogli sotto forma di silenzio le sue presupposte motivazioni, forse ricomponendo tragicamente, nel silenzio, la possibilità sarcastica di una rappresentazione:

FuocoFuoFuF104

103 Cfr. ivi, p. 103: «l’afasia finale della voce […] non ha un tono scherzoso né onirico, non obbedisce a un vettore ascensionale o metafisicizzante».

104 Aldo Palazzeschi, Boccanera, in [Poesie 1910-1915], in Tutte le poesie, cit., p. 352.

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vi. in cerca di perelà

1. preambolo sulla nemesi

Ascoltare semplici favole può non essere il vostrospettacolo favorito: forse vorreste sentire la Verità.

Se è questo che volete, allora forse dovreste trovarvialtrove: ma giuro sulla mia vita che non saprei dirvi

dove esattamente.Paul Karl Feyerabend, Ambiguità e armonia

Subito dopo la sparizione di Perelà (e un attimo prima che gli uomi-ni del regno di Torlindao alzino gli occhi al cielo nel disperato ten-tativo di scorgerlo un’ultima volta) Palazzeschi racconta, in pochis-sime battute, la repentina pazzia e l’improvvisa morte della marche-sa Oliva di Bellonda:

– Pazza!– Pazza!– Guardatela, impazzisce!– Impazzisce!– È pazza!– Cani!– Prendetela!1

Le ultime sibilline parole pronunciate dalla donna (fino a quel momento del tutto inconsapevole, come vedremo in seguito, della reale natura di Perelà) sono una sgomenta apologia dell’uomo di fumo e, contemporaneamente, una condanna senza appello del lin-guaggio e della letteratura:

1 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà (1911), in Tutti i romanzi, i, cit., p. 351.

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– Seguitemi… seguitemi tutti… via… andiamo via a uccidere… a raccontare… per uccidere… bisogna uc… Ah!…2.

L’equiparazione morte-narrazione tocca qui il suo apice: il tribu-to che il “racconto” richiede alla vita (l’eliminazione di tutta una se-rie di possibilità alternative e la sua chiusura in una forma stabile) è trasmesso al lettore nei termini di una volontà omicida che costitui-sce la quintessenza del capolavoro palazzeschiano, opera che è narra-zione di un “codice” (cioè della necessità di una codificazione, di una normalizzazione) ed è anche, in quanto costruzione narrativa, co dice già realizzato, struttura assertiva tesa, contro Perelà, all’im-mobilizzazione di ciò che in essa è contenuto.

Se è pur vero che i tentativi di assegnare una forma all’uomo di fumo saranno, nel corso del romanzo, innumerevoli, è vero anche che nessuno di questi può competere col tentativo che tutti li con-tiene, cioè il romanzo stesso. Il Codice di Perelà non è solo quel co-dice che gli uomini invocano dal protagonista (e che ovviamente ri-ceveranno in modo del tutto straniato), è anche, non certo per caso, il titolo di un romanzo che Palazzeschi sapeva essere necessariamen-te un codice, vale a dire una totalità con il compito di dominare la proliferanza della vita, delle sue possibilità, comprimendone le dis-sonanze in una forma tesa a smorzarne le contraddizioni, tesa ad ap-prodare a un significato univoco.

Perelà è colui che mette in crisi i codici, è colui che impedisce le calcificazioni della realtà, ed è dunque anche colui che, nietzschiana-mente, prova a distruggere il segno della convenzione letteraria, «per riscoprire dietro di esso la vita irriducibile ad ogni codificazione»3. La sua principale nemesi è il romanzo di Palazzeschi che lo ospita, è lì che entra scendendo dal camino, da lì fugge, un attimo prima del-la parola FINE.

Costruendo un romanzo sulla consunzione dell’istanza formale, Palazzeschi colpisce primariamente l’ufficio del narratore: riduce

2 Ibidem. Nelle edizioni successive di Il Codice di Perelà le parole della marchesa di-venteranno più chiare. Si veda, ad esempio, l’edizione del 1958, in Aldo Palazze-schi, Tutti i romanzi, i, cit., p. 1213: «– Seguitemi… seguitemi tutti… via… andia-mo… andiamo a raccontare… a raccontare per uccidere…bisogna raccontare… bisogna ucci… Ah!».

3 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 277.

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drasticamente la sua autorità fino ad approdare a una disgregazione testuale che fa della struttura dialogica il principale perno di aggre-gazione dell’opera. Ponendo le vicende in una scena deprivata di ele-menti descrittivi, didascalici e speculativi, sospende la possibilità del giudizio esterno e, nello straniamento favolistico, decontestualizza radicalmente le vicende narrate provocando un primo scacco gnose-ologico (uno dei tanti di Il Codice di Perelà): «la scena tende a disin-tegrare se stessa […] in uno spazio incerto, privo di definizioni og-gettive ed assolute»4.

La semi-esclusività della fondazione dialogica del romanzo5, che sottolinea di una realtà “formantesi” a partire dalle parole (inevita-bilmente contrastanti) degli uomini su questa, viene raddoppiata nelle figura del protagonista che, in quanto espressione di un’assen-za, convoglia su di sé i tentativi formativi, innescando così una con-versazione incessante modulata sul consueto dispositivo retorico teso a dimostrare il substrato ironico connesso alla possibile forma-zione di una Verità.

2. l’inafferrabile perelà

Quando una forma nasce da un simile sentimento, non cicomunica il senso dell’ordine, ma quello della molteplicità;

non ci comunica il senso generale dell’interconnessionedel tutto, ma quello della polivalenza di ogni suo nesso.

György Lukács, L’anima e le forme

si protendono verso di noi ma non riescono ad afferrarci.Questo spaventa.

Friedrich Nietzsche, La gaia scienza

– Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe… Re… La…– Chiamiamolo Perelà!– Chiamiamolo Perelà!

4 Luca Alessandri, Assenza e identità, in L’autore nel romanzo, Bologna, Printer, 1994, p. 57.

5 Cfr. ivi, p. 55: «Il lettore non viene preventivamente informato circa l’identità di co-loro che parlano né sa di dove provengano le voci, e si trova non di rado nell’im-possibilità di stabilire con sicurezza a quale tra gli interlocutori già intervenuti sia da riferire una determinata frase».

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– Ma no Perelà, cosa vuol dire Perelà?– Ci fu un re che si chiamava Gola, cosa vuol dire Gola? Si può chiamare lui Perelà6.

Perelà non ha un nome, è estraneo a qualsiasi calcificazione iden-titaria che possa definirlo. Il suo nome è uno dei tanti tentativi defi-nitori che la gente mette in atto dinnanzi alla sua apparizione. Espressione di una crisi della ragione, l’uomo di fumo dimostra, fin dalla sua prima apparizione, che ciò che gli uomini definiscono “re-altà” altro non è che il meccanismo di difesa di un’intelligenza mi-nacciata dal caos: tentativo di imposizione di un ordine (di una ca-tegoria) a ciò che non può essere ordinato, movenza suicida della ra-zionalità occidentale che, non riuscendo più a inquadrare in una su-periore unità valoriale l’inappagabile realtà del molteplice, reagisce a ciò con un eccesso di difesa, condannandosi, mediante una defini-zione, al possesso illusorio delle cose attraverso la loro mortificazio-ne, e ricorrendo, dinnanzi a ciò che elude le loro griglie interpretati-ve, a categorie generalizzanti atte a “regolare” l’indeterminato:

– Che tipo strano!7

La stessa qualifica di “buffo” non può certo essere attribuita all’uomo di fumo (come fatto da alcuni critici): il “buffo” è anzi pro-prio colui che ricorre a una mistificazione della realtà nel tentativo di controllarla, cioè nel tentativo di sedare tutte le sue possibilità al-ternative, mentre Perelà è l’espressione stessa di tutte queste possibi-lità inespresse. È la gente che, in un meccanismo di proiezione, cer-ca di rivestire Perelà della propria smania essenzialistica:

– Che tipo buffo!8

– Non vedete che uomo buffo?9

Perelà è anzi immediatamente pronto a modificare le proprie co-noscenze, disceso dal camino per andare incontro al mondo scopre

6 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 146.7 Ivi, p. 141.8 Ivi, p. 140.9 Ivi, p. 143.

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subito la separazione esistente fra cose e parole: dinnanzi al racconto di un doppio suicidio per amore (due ragazze si sono tolte la vita per-ché amavano lo stesso uomo), prima reagisce con socratica ironia:

– E allora una sola doveva gettarsi nel pozzo10.

e in seguito, nell’opposizione leggerezza-pesantezza, libera se stesso da quel concetto libresco di «amore» appreso dai discorsi di Pena, Rete e Lama:

Amore. E io vedevo due creature bionde coperte di vesti leggere […].

Io vedo ora una vecchia dalle carni verdi, grinzita, tutta avvolta in uno zendalo nero, liso, divenuto turchiniccio col tempo, è ingi-nocchiata, à in mano un pentolo oblungo di terra rossa, guardinga, torva, si volge, spia, che nessuno la colga mentre versa dell’acqua gialla in una fenditura nera del terreno11.

Ogni sua parola è indirizzata a straniare (agli occhi del lettore) le convinzioni degli uomini, a rimetterle in movimento nell’indeter-minatezza amorfa di cui è portatore. La sua stessa età, come è noto, è incerta, ma alle orecchie della gente essa diventa un «trentatrè», perché ciò permette loro di ricorrere al “modello” cristologico, che garantisce, in quanto modello preformato, la definizione (e infatti Perelà sarà accolto quale sorta di messia):

– Infatti! Trentatrè anni di peccato ne vogliono trentatrè di peni-tenza.

– Voi siete, signor Perelà, un uomo purificato, questo vi renderà ai nostri occhi un essere privilegiato ed eccezionale12.

Nella loro ansia formativa si condannano dunque a un sistemati-co fraintendimento. Nel loro sforzo di costrizione dell’ignoto al noto proteggono la loro individuazione attraverso un meccanismo repres-sivo che s’affanna

a dissolvere la pluralità dei fenomeni riducendola alla presenza sem-

10 Ibidem.11 Ivi, p. 144.12 Ivi, p. 150.

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pre identica dell’uno, a scoprire il medesimo e il sempre uguale in tutte le pericolose e aggressive parvenze del molteplice13.

Ecco allora che leggono in termini di “purificazione” (allonta-nando dunque da sé i territori ambigui del corpo) la “non-forma” di Perelà:

Fu questa la più accurata purificazione che il fuoco abbia mai com-pito sopra la carne?– Purificazione!– Purificazione!– Purificazione!– È così, è così.– Ma sì, sì è così.– La purificazione!14

Nella loro ansia esclamativa (Il Codice di Perelà è forse il roman-zo con più punti esclamativi dell’intera letteratura italiana) ostenta-no il desiderio di purificare (per l’appunto) l’esistenza da qualsiasi imprevista variante: nel momento in cui è venuta a mancare la pos-sibilità di un punto di vista privilegiato dal quale ordinare gerarchi-camente il reale, nel momento in cui appare un simulacro di uomo come Perelà15 a sottolineare un irreversibile crisi del soggetto (privo ormai di qualsivoglia capacità di riconoscersi stabile e, dunque, pri-vo di qualsivoglia capacità di stabilizzare la realtà in una forma), l’unica risorsa diventa uno stile di vita patologico teso a negare le al-terità nel folle tentativo di normalizzarle, di codificarle nel rigor mor-tis del già conosciuto.

Ma l’ironia di cui Perelà è implicitamente portatore impedirà, come vedremo, qualsiasi assolutismo totalitario, denunciando infine come inibito «l’accesso ad un sopramondo in cui splendono gli ar-chetipi ideali»16:

13 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 266.14 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 149.15 Cfr. Anthony Julian Tamburri, Il codice di Perelà. Svelamento del codice, in Una

semiotica della ri-lettura, Firenze, Franco Cesati, 2003, p. 76: «egli è potenzialità nelle sue molte forme».

16 Tito Perlini, Nichilismo contro nichilismo, nell’opera collettiva Problemi del nichi-lismo, a cura di Claudio Magris e Wolfgang Kaempfer, Milano, Shakespeare and Company, 1981, p. 41.

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Con l’eclissi della metafisica di stampo platonico è rimasta irrepara-bilmente compromessa l’impostazione che consentiva una visione uni-molteplice del reale. La molteplicità non risulta più ordinabile, si sottrae all’imposizione di qualsiasi gerarchia17.

Se ora Perelà è esaltato in quanto ognuno vede in lui ciò che più vuol vedere, la spirale interpretativa che l’uomo di fumo, in quanto “assenza”, ha già messo in atto, finirà per porre in crisi le capacità formative degli uomini, e questi, nell’impossibilità di definire l’inde-finibile, si vedranno non a caso costretti ad assegnargli i tratti del de-monio, o peggio del sovversore. Perelà non potrà infatti mai andare incontro alla loro idea di “realtà”, poiché in quanto uomo privo di forma, può vedere in quella solo una mistificazione della realtà, un pregiudizio di realtà. Estraneo anche a sé (è formato solo dalle paro-le degli altri su di lui; l’unica caratteristica di cui è portatore è per l’appunto la leggerezza), avrà suo malgrado il compito di mostrare che nessuna rappresentazione coincide con se stessa, e che tutte sono una amputazione dell’eccedenza, della possibilità, insita nella vita. Allora nel regno di Torlindao sta per arrivare il “negativo”, sta per ar-rivare Perelà.

3. immagini del potere e dell’amore

è l’immagine che è pesante, immobile, tenace […],e sono «io» che sono leggero, diviso, disperso

Roland Barthes, La camera chiara

– Alcune personalità cittadine domandano di essere ammesse di-nanzi al signor Perelà. Possono essere ammesse?– Signor Perelà, il vostro nome è sulle bocche di tutti, non si sente parlare più che dell’uomo di fumo! Perelà! Perelà! Perelà di qua, Pe-relà di là, ce ne vorrebbero dieci di uomini di fumo per contentare tutta questa gente!18

Introdotto alla conoscenza di alcune personalità cittadine, Perelà dà vita a una serie di dialoghi giocati sulla consueta tematica del “frain-

17 Ivi, pp. 41-42.18 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 153.

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tendimento”. L’approdo impossibile a un’intesa, data la valenza ne-gativa che Perelà introduce nel modello fenomenologico altrui, sot-tolinea della prima irruzione di una Babele interpretativa (di un si-stematico straniamento) nell’universo fino allora compatto della for-ma. L’attivazione dell’altro senso delle cose, l’attivazione di una pos-sibilità altra (ad esempio nella discussione su di un quadro col pitto-re Crescenzio Pacchetto), funziona dunque come spia di un progres-sivo sfaldamento di un senso che si era creduto inattaccabile:

Questo quadro si chiama appunto: La Rosa.– Che cosa dice quella signora?– Prendete, quel fiore è vostro.– Io vedo invece ch’ella dice, signore, uscite!– Oh! signor Perelà, ma cosa dite mai? Non vedete come i suoi oc-chi brillano, come le sue labbra sono avide d’amore?– Ella dice: uscite signore.– Ma come può dire così? Se ella indica la finestra?– Non si può uscire per una finestra?19

Il tentativo di utilizzare il fumo di Perelà secondo i meccanismi di durature certezze si rivela naturalmente fallimentare: «Ella non può assolutamente dir questo, ma vi pare, il significato del mio qua-dro sarebbe assolutamente svisato…»20.

La dissonanza prospettica che l’uomo di fumo introduce, pren-dendo drasticamente sul serio le parole dei suoi interlocutori, svela il loro atteggiamento come «monocularità cognitiva»21 improntata a inglobare o a rimuovere ogni possibile tentativo di inversione e di differenza. Se da un lato Crescenzio Pacchetto finge di aver ricevuto lodi da Perelà per la sua opera22, il banchiere Rodella si avventura in-vece in una conversazione fatalmente bi-prospettica, aliena alla pos-sibilità di comprensione delle parole altrui:

Il sole vedete, il sole, non è altro che un enorme biglietto di banca

19 Ivi, p. 154.20 Ivi, pp. 154-155.21 Winfried Whele, Nel regno dell’intrascendenza, nell’opera collettiva Palazzeschi

europeo, cit., p. 89.22 Cfr. Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 155: «Vi rin-

grazio altresì degli alti elogi veramente immeritati che voi avete voluto così genero-samente prodigare alla mia modesta opera».

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che se voi riuscirete a spicciolare potrete spendere a vostro piaci-mento.– Il sole?– Già, il sole.– È vero, non può essere che così, perché se fosse di moneta metal-lica peserebbe troppo…– E cadrebbe, naturalmente, anzi, sarebbe già caduto.– Invece essendo un biglietto…– Non è che un pezzo di carta… è leggero.– E sta su23.

Ai vari personaggi che sfilano dinnanzi a Perelà è in qualche modo, potremmo dire, estraneo il “congiuntivo”24: essi non guar-dano all’eventuale, all’accidentale, ma nella posizione forte di un punto di vista che ritengono l’unico possibile, imprigionano la re-altà nella presa sicura di una tautologia e, mediante il linguaggio, creano uno schermo protettivo fra sé e il mondo, reprimendo in una cornice semantica (e sintattica) qualsiasi emersione della di-scordanza.

Timorosi di perdersi nella labilità metamorfica che Perelà pro-spetta loro, sono portati a considerare l’uomo di fumo in quanto va-lore universale e positivo (valore, naturalmente, per ognuno diver-so), prendendolo di volta in volta a campione di una delle qualità poste al vertice della loro scala di valori. Lo scioglimento della realtà in un Ordine globale e fittizio cui sottomettere ogni diversità, diven-ta così negazione della vita (e del tempo25), e rimozione della molte-plicità che Perelà stesso esprime.

Il poeta Isidoro Scopino, «ridicolizzato nel suo beota incanta-

23 Ivi, pp. 156-157.24 Si ricordi il già citato brano di Musil sugli uomini “possibilisti”, cioè sugli uomini

pronti a portare sempre a galla l’altro senso delle cose: «Cosicché il senso della pos-sibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che po-trebbe ugualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è […]. Questi possibilisti vivono, si potrebbe dire, in una tessitura più sottile, una tessitura di fumo, immaginazioni, fantasticherie, congiuntivi».

25 Cfr. John Picchione, Palazzeschi: il soggetto in fumo?, nell’opera collettiva L’arte del saltimbanco. Aldo Palazzeschi tra due avanguardie, cit., p. 140: «Palazzeschi ci propone un soggetto nomade, un soggetto che rifiuta di dimorare negli spazi cul-turali egemonici e, quindi, non solo problematizza i rapporti col reale, ma si apre costantemente al divenire».

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mento per le suggestioni foniche delle parole»26, si fa così espressio-ne di un atteggiamento, eminentemente reazionario, proiettato al-l’abolizione di qualsiasi rischio “contaminativo”:

Io le ò fatto ripetere molte volte il vostro nome, come ogni sera le faccio ripetere la grande parola: poesia. Su quelle labbra Pe…re…là, lo si vede sfuggire quasi rapidamente, mentre si vede partire per in-nalzarsi lievemente delicatamente la parola: poesia. Voi sentite il suono di questa parola, quelle vocali o… e… i… a… e quella pri-ma p, che è come la forza del soffio che la anima, e quella s che la spinge e la sostiene, la solleva su su… su…27

La poesia, signor Perelà, è un globo azzurro, il poeta è l’alito che lo gonfia, che lo prepara per la sua ascensione celeste. Qual è l’arte?Saperlo gonfiare gonfiare, sino a renderlo trasparente perché esso possa innalzarsi.– Voi sorvegliate mentre lo gonfiate, il vostro pallone28, che nulla ci vada dentro.– Eh! Basterebbe un granello della più semplice cosa perché il glo-bo non andrebbe più su. Dentro si deve potere ottenere il vuoto, ecco l’arte del poeta29.

La vocazione purificante aggredisce l’esterno in quanto ciò che eccede dal modello precostituito pone, con la sua apparizione, irri-mediabilmente in crisi quel modello. La contaminazione è inqua-drata come sinonimo di “minaccia”: l’accidentale «granello» incep-perebbe il meccanismo del Sistema paventandogli, nell’apparizione di altre possibilità, la sua natura finzionale. Il granello si fa dunque simbolo di una molteplicità vitale che deve essere arginata, la bolla è il fragile Sistema che preserva uno spazio ordinato, ordinato perché vuoto, «vuoto d’ogni vita e cioè d’ogni minaccia»30.

Se infatti Perelà prospetta ai suoi interlocutori l’apparizione di un uomo del tutto nuovo, estraneo alla necessità di una fondazione ontologica (o onto-teologica31) di se stesso, questi non riescono a di-

26 Laura Lepri, Il funambolo incosciente, cit., p. 113.27 Non certo a caso viene assegnata al concetto di “poesia” un’attitudine ascensionale.

Si ricordi La visita di Mister Chaff.28 L’aulico «globo» viene naturalmente da Perelà degradato a «pallone».29 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., pp. 157-158.30 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 266.31 Si pensi al dialogo con l’arcivescovo.

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staccarsi dalla necessità di immobilizzarlo in ideali assolutistici. La furia imbalsamatrice che il loro linguaggio nasconde trova infatti raddoppiamento nel lavoro dei fotografi di corte:

– Avreste la compiacenza di voltarvi signore?– Ecco, io approfitterò per il profilo.– Vorreste sedervi?– Vorresti fingere di leggere questo giornale?– Vorreste tenere nella mano questa sigaretta? E questo fiammifero, così, in questa, ecco.– Vorreste accavallare le gambe così?– Vorreste mettere le braccia così?– E la gamba sinistra così?– Vorreste levarvi gli stivali?– No!32

La “messa in posa” che i fotografi pretendono si rivela mise en ab-yme dell’intera costruzione narrativa: l’immedusamento che l’opera-zione fotografica sottintende33 è infatti specchio dell’attitudine “pie-trificante” che guida quasi tutti i personaggi del romanzo. «In fon-do, ciò che io ravviso nella foto che mi viene fatta […] è la Morte»34, vale a dire è il procedimento costrittivo teso a immobilizzare la vita in una sua componente chiusa e astratta, chiusa perché astratta, cioè deprivata della sua componente possibile, bloccata in una forma che si pretende “essere”.

Tutti assegnano a Perelà una forma, ma ovviamente nessuno rie-sce a scorgere la parzialità di questa: favoriti dalla noluntas dell’uomo di fumo persistono nel loro accecamento pre-comprensivo. Errone-amente ravvisando nella mobilità del nuovo soggetto la realizzazio-ne del proprio Ideale, a esso affidano il Codice, la regolarizzazione normativa della società: l’uomo privo di Fondamento35 dovrà dare un nuovo Fondamento al mondo.

32 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 155.33 Cfr. Philippe Dubois, L’atto fotografico (1983), Urbino, Quattro Venti, 1996, p. 140:

«questi raggelamenti, queste pietrificazioni, queste piccole morti, attraverso questi ir-rigidimenti e queste decollazioni, noi non facciamo altro che parlare di Fotografia».

34 Roland Barthes, La camera chiara (1980), Torino, Einaudi, 2003, p. 17.35 Cfr. Martin Heidegger, Dell’essenza del fondamento, cit., pp. 24-25: «Ma se l’es-

senza del fondamento ha un intimo riferimento all’essenza della verità allora anche il problema del fondamento non potrà trovare un’adeguata collocazione se non là

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Il passaggio dall’universo del potere a quello dell’amore non mo-difica i presupposti di partenza: le dame di corte infatti (escluse dai quadri politici e culturali36) presentano un raddoppiamento carica-turale, nella nuova tematica, delle intenzioni formative delle autori-tà. Modulandosi nei racconti delle proprie esperienze, sono istanta-neamente degradate a figure larvali, etichette astratte di un vario campionario di atteggiamenti sessuali (la necrofila, la sdegnosa, la ninfomane, la romantica, la zoofila, ecc.).

Demistificando, nel cicaleccio continuo37, la struttura essenziali-stica che ogni dama assegna al proprio concetto di amore, Palazze-schi riverbera nel silenzio di Perelà una sospensione di giudizio che elude qualsiasi intenzione assolutistica. Il mutismo dell’uomo di fumo strania i racconti delle donne deviandoli dal loro significato comunicativo e, nell’assenza di una sentenza o di un verdetto risolu-tivo, li espone all’immancabile fraintendimento.

4. il nome di dio

Il «peccato capitale» della civiltà occidentale consiste in questo: che si è indotta a dir di no al mondo reale per contrapporre ad esso un sopramondo considerato «vero» perché nel suo ambito troverebbe-ro la propria sede i «valori» in nome dei quali viene pronunciato il verdetto di condanna della vita38.

Perelà, introdotto a un’udienza con la Regina, ascolta il pappagallo di costei ripetere più volte la parola «Dio»:

dove l’essenza della verità trova la sua intima possibilità, cioè nell’essenza della tra-scendenza. Il problema dell’essenza del fondamento diviene pertanto il problema della trascendenza».

36 Cfr. Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 170: «La politica non ammette una sola pennellata del nostro colore sul suo quadro, la reli-gione ci ammette solo per cornice […]. La scienza non ci appresta alcuna fiducia… l’arte… se non è quella del canto… I signori uomini ci riserbano che facciamo scienza sì e no d’un po’ d’amore».

37 Cfr. Luca Alessandri, Assenza e identità, in L’autore nel romanzo, cit., p. 68: «le confessioni stesse non riescono quasi mai ad acquisire una salda e indiscutibile compattezza interna, interrotte di continuo da commenti e obiezioni, precedute e seguite da opinioni e considerazioni formulate da un diverso punto di vista: l’altrui le attraversa da parte a parte».

38 Tito Perlini, Nichilismo contro nichilismo, nell’opera collettiva Problemi del nichi-lismo, cit., p. 48.

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Egli dice una grande parola, e non può capirne il significato, che volete, povera bestiola, che sappia lui chi è Dio!– Voi lo sapete invece?– E come? E chi non lo sa? Dio! Ma Dio è… Dio!39

La risposta tautologica mette a nudo l’irreversibilità di una crisi filosofica ed esistenziale: la riduzione del supremo concetto di Esse-re a parola slegata dal proprio termine di riferimento segnala, al con-tempo, la caduta della possibilità referenziale del linguaggio e l’avve-nuta vaporizzazione di ogni Fondamento:

Il Dio cristiano stesso […] è un prodotto del nulla. Per Nietzsche non è vero che il non-senso insorge quando il legame con Dio si spezza e l’uomo non è più capace di porsi in rapporto con Lui. In Umano, troppo umano egli sostiene che il non-senso si situa all’ori-gine: il non-senso è presso Dio e Dio stesso è il non-senso40.

La fiducia in un universo giustificato dalla presenza degli arche-tipi si ritrova irrimediabilmente compromessa: le parole diventano incerti corrispettivi di simboli privi di archetipo. A dominare la vita umana non è più la prospettiva di una finalità, ma è il modello fin-zionale che a quella finalità inesistente dovrebbe condurci. La trac-cia linguistica rimanda a un sistema codificato a cui però è venuta a mancare la giustificazione trascendente, essa si erge sulla scena qua-le sintomo, per usare i termini di Baudrillard, di una imminente “s-terminazione” del termine.

L’articolazione linguistica che tende a definire, a oggettivare, un concetto, si risolve nell’alienazione del concetto stesso. L’apertura che si intravede oltre la “definizione” (e nel fallimento di questa) è esaltazione dell’informe e dell’indeterminato: difende la pluralità del reale, il suo essere realtà… in potenza.

5. i luoghi dello stato

Il transfert essenzialistico che ha condotto gli uomini del regno di Torlindao ad affidare il nuovo Codice all’uomo che hanno accolto

39 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 205.40 Tito Perlini, Nichilismo contro nichilismo, nell’opera collettiva Problemi del nichi-

lismo, cit., p. 48.

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come personificazione del Trascendente41 (ed è invece personifica-zione di una critica trascendentale), fa sì, come già abbiamo accen-nato, che essi vedano in Perelà il Messia in grado di appianare, in un disegno superiore, le inevitabili differenze che si sviluppano in un consorzio umano:

Non dobbiamo noi ringraziare la sorte di avercelo fatto capitare in questo momento appunto quando noi dovevamo imparzialmente pesare le nostre coscienze, per costituire un grado unico atto a pesa-re le coscienze di tutti?42

Sebbene comincino a verificarsi i primi sintomi di quel processo cognitivo teso a rovesciare le fortune dell’uomo di fumo, sebbene cioè qualcuno cominci istintivamente a rendersi conto della natura tutt’altro che votata all’immobilizzazione di Perelà43, costui viene ora condotto alla visita dei luoghi istituzionalizzati del regno, dove si condensa in forma la materia sociale (e culturale) di uno Stato44.

Se in un episodio come Visita a suor Mariannina Fonte Palazze-schi riattiva la tradizionale equazione fra “riparo dalla vita” e assenza di tempo, sottoponendo quest’ultimo alla invariabile staticità impo-sta dalla regola monastica, e in Il prato dell’amore (che potrebbe esse-re una divertita parodia del mito platonico dell’altra metà narrato nel Simposio) descrive il rapporto erotico nei termini di un’impossi-bile riconquista della completezza perduta, nell’episodio Delfo e Dori raggiunge, mediante una costruzione satirica travestita da apologo morale, risultati davvero sorprendenti:

Questi due piccoli villaggi, signor Perelà, sono i più graziosi dei no-stri dintorni. Sulle rive di questo grosso fiume essi vivono la loro vita fraterna guardandosi amorosamente. Osservate la simmetria del

41 Cfr. Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 217: «Non è egli la sublimazione del corpo e dello spirito umano? Non viene egli quasi a dar-ci prova di altri destini, di altra vita?».

42 Ibidem.43 Cfr. ivi, p. 223: «– Io non so che cos’abbia negli occhi quell’uomo, non riesco a

guardarlo fisso. – Turba. – È vero, è la parola, la vera parola, turba, turba».44 Cfr. Marco Marchi, Palazzeschi e altri sondaggi, Firenze, Le Lettere, 1996, p. 41:

«accompagnare Perelà nel suo viaggio nel mondo delle ideologie attraverso la visita ai luoghi istituzionali dello Stato».

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loro assieme, due torri identiche, ànno entrambi una chiesa uguale, con uguale numero di guglie, si può dire che i loro tetti abbiano lo stesso numero di tegole e le case lo stesso numero di finestre45.

La geometrizzazione si fa qui segno di una volontà onnicom-prensiva di perfezionamento. Veniamo però a scoprire che l’unico modello di perfezione che i due villaggi seguono altri non è che il villaggio di fronte, l’assenza di un esemplare di riferimento blocca i due paesi in uno scambio simbolico perenne che, tuttavia, elude il rapporto con qualcosa di esterno a sé che possa, fondandosi come Valore, assegnare valore anche ai tentativi imitativi:

Questo fiume fu un giorno campo di una stranissima battaglia. […] I due paesi si odiavano dai tempi più remoti. Non era possibile piantare un arbusto sulla riva di Dori, che non venisse piantato uno simile su quella di Delfo. Non una sola tegola veniva mossa di qua senza ch’essa ricadesse di là come un bolide d’ira46.

Questo paradossale Sistema chiuso (dove nessuna differenza può sorgere senza che la sua ripetizione venga a neutralizzarla) viene però sconvolto da un evento accidentale: un temporale sconvolge Dori distruggendo alcune case. Gli abitanti, data l’assenza di vittime, co-minciano a edificare una gigantesca torre in ringraziamento alla Ver-gine. I cittadini di Delfo, scoperto l’accaduto, si ritrovano in una si-tuazione imbarazzante: non sono infatti cadute saette sul loro paese «onde ringraziare la Vergine santissima»47. Nell’impossibilità di pre-servare il consueto meccanismo fittiziamente antifrastico, optano ri-soluti per la guerra:

In Delfo fu incominciato il lavoro di un’altra costruzione, barche, barchette, zattere, navicelle, pertiche e remi. Il fiume giallo dell’odio non era mai stato fino allora solcato, questa era la volta48.

Sbarcati nottetempo, e messi in fuga gli abitanti di Dori, prendo-no possesso delle loro case pensando di essersi assicurati la suprema-

45 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 269.46 Ivi, pp. 269-270.47 Ivi, p. 270.48 Ibidem.

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zia su entrambi i paesi. Ma a questo punto un singolare imprevisto riattiva l’automatismo della ripetizione conducendolo al suo strania-mento:

Tutte le case di Dori erano ormai in possesso del nemico, gli abitan-ti erano tutti al largo sul fiume. La riva era assiepata di legni, di bar-che, di barchette, essi videro, capirono, e ci si rovesciarono dentro e a forza di remi furono in poco tutti in Delfo. Là trovarono il paese vuoto, non uno solo vi era rimasto, le case aperte, le credenze ben fornite, i letti comodamente preparati per coricarsi, un paese ugua-le in tutto a quello che avevano lasciato, vi si installarono49.

La riattivazione fiabesca di una situazione “conciliante” (d’ora in avanti i due villaggi andranno d’amore e d’accordo) non può ov-viamente nascondere l’ironia implicita che il testo sottolinea. L’eli-minazione della realtà, mediante la sua riduzione a proporzioni ir-risorie, segnala di un avvenimento che approda a una conciliazio-ne solo mediante l’estradizione della vita, mediante, vale a dire, la trasformazione di questa in una “narrazione” che, come tale, pre-tende umo risticamente la chiusura di una struttura ad hoc: il siste-ma fintamente logico induce a un’univocità conclusiva che, in quanto arbitraria e solo in sé finita, permette, nell’esclusione di qualsiasi motivazione esterna, l’approdo a una monumentalità cri-stallizzata, la stessa che i sudditi di Torlindao ricercano con violen-ta disperazione.

All’opposto di ciò si situa invece la figura di Iba:

Ecco apparire un enorme naso bitorzoluto come tre grosse sorbe rosse attaccate poste in un ruffello di lana. La faccia è tutta ricoper-ta da un vello oscuro, e cadono giù sulla fronte a nasconderla gran-di ciocche di capelli ispidi50.

Il mendicante alcolista rinchiuso nel carcere, l’uomo che è stato re per soli quattro giorni, assomma in sé i connotati antitetici a quel-li del bachtiniano «corpo classico». Figura atta a simboleggiare una concezione dell’esistenza paritaria e anti-verticalista, Iba, sfruttando quella legge dello Stato che prevede diventi re l’uomo capace di ver-

49 Ivi, p. 271.50 Ivi, p. 247.

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sare più denaro nelle casse del regno, si era un giorno presentato alla reggia rivendicando la corona:

Quella mattina ecco giungere alla soglia della reggia, Iba, l’uomo che voi vedete laggiù nell’angolo della oscuro. Iba, l’alcolizzato, no-tissimo in città, il più famoso ubriacone, l’uomo a cui l’alcool ave-va a poco a poco ingrossata la lingua fino a impedirgli di parlare51, il lazzo dei monelli52 nella strada e di tutti gli ubriaconi nelle più immonde bettole, l’uomo che la mattina i vigili raccoglievano per le vie come uno sconcio ammasso di lordura…53

Già la sua entrata a palazzo provoca elementi di scompiglio54, e ha la valenza di un primo strutturale cedimento della struttura ordi-nata e compatta che un sistema di governo pretende:

sale, sale su per lo scalone della reggia fra le file dei gallonati, il luc-cichio delle decorazioni delle sciabole, i colori fiammanti delle uni-forme delle livree, sale sale fermandosi bene sopra ogni scalino con tutti e due i piedi per stabilirvisi prima di tentare l’ascensione allo scalino superiore.Quando giunge alla sala del trono, i gentiluomini si fanno tutti in-dietro d’un sol colpo in un oh!… oh!… oh!… prolungato di mara-viglia, ma non perché quell’uomo sia lì, ma perché lo abbiano la-sciato passare55.

Contaminando con la sua sola presenza un ambiente che si cre-deva al riparo dal rischio di qualsiasi contaminazione, Iba introduce una valenza egualitaria e carnevalesca che ha il compito, nella criti-ca palazzeschiana all’ordinamento sociale (critica che raddoppia spe-cularmente quella all’istanza formativa degli uomini, in quanto la struttura sociale altro non è che un sottoprodotto di quella prima istanza), ha il compito, dicevamo, di «destituire e parificare tutte le

51 L’incapacità di Iba di parlare è forse spia, secondo il discorso fatto nell’ultimo para-grafo del capitolo precedente, della sua stessa incapacità formativa.

52 Qui viene preannunciato il destino dello stesso Perelà.53 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 248.54 Cfr. Marziano Guglielminetti, Il re scoronato, nell’opera collettiva La «difficile

musa» di Aldo Palazzeschi, cit., p. 23: «Il contrasto fra la sua persona e quella degli altri pretendenti si colora facilmente della contrapposizione carnevalesca fra alto e basso, sublime e triviale».

55 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 249.

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dignità»56, introducendo, nell’imperturbabile riso che informa l’u-bria cone, l’abolizione delle forme già codificate e l’instaurazione di un nuovo regno a valenza possibile.

Portando a palazzo due sacchi colmi d’oro (recuperati chissà dove) Iba ottiene il trono. Invitato ad accomodarsi il giorno seguen-te nella berlina di Stato per essere presentato al popolo, egli rifiuta la corona (simbolo della vecchia aspirazione verticalista e ordinativa) e vi sale col suo bicchiere:

Egli à nella destra alzata un bicchiere, e ride, il lupo di mare, ride, il suo sorriso estatico che sembra tenuto aperto dai due denti verdi come da due puntelli, e i suoi occhi sfolgorano, e la sua faccia vel-losa immonda non è stata toccata per la circostanza, à le sue vesti stracciate coperte di fango e d’immondizie, non à indossato il man-to regale, non à cinto la corona, vi è salito col suo bicchiere57.

La reazione cittadina è però immediata:

Ecco che da una finestra viene giù un grosso involucro che va ad in-frangersi proprio sulla testa del nuovo Re: merda!Allora, da tutte le finestre di tutte le case di tutta la città piove su lui nelle più svariate maniere la stessa cosa!58

Sebbene nulla riesca a offuscare l’imperturbabile giocondità di Iba59, la città reagisce al tentativo di sospensione del proprio ordina-mento fittiziamente “realistico”. La figura positiva dell’antinomia, che il re-straccione aveva voluto instaurare, si scontra fatalmente con la necessità del “controllo” a cui gli uomini non riescono a rinuncia-re, e la proclamazione di una “fine dei modelli” viene fatta rientrare mediante un pretesto. Alla fine del carnevale Iba si ritrova «scorona-to» e condannato in carcere (vale a dire in uno dei luoghi che esclu-de, e ridefinisce, ciò che in quanto paradossale non può essere defi-nito) a una fantasmatica esistenza:

56 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 60.57 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 251.58 Ibidem.59 Cfr. ivi, p. 252: «Solamente il Re impassibile sorrideva, ma il suo sorriso non si ve-

deva quasi più, la sua bocca ne era piena, gli occhi… tutto ne grondava, e il bic-chiere ancora alto ne traboccava continuamente, e i cavalli, la berlina, tutto ne era colmo».

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Vedete, egli à ai piedi un orciuolo pieno di vino. Lo Stato gli passa vino fino quanto ne può assorbire. Egli può giungere a cento litri nelle ventiquattr’ore. La cella è murata60, il vino nell’orciuolo ci va per un condotto61.

6. villa rosa

Giungendo a quella città nella Città che è il manicomio, Perelà fa la conoscenza con un serie di figure che esprimono, oramai all’interno di una dimensione alienata, la stessa angoscia ordinativa che imper-versa sugli abitanti del regno. I matti, operanti all’interno di uno spazio irreale, trasportano il proposito dei sani fino alle sue estreme conseguenze, dichiarando, nei termini di una patologica “fissazio-ne”, la necessità profonda di un principio unificatore del reale.

La mancanza di un fondamento stabile che possa sostanziare ogni forma mirante a una Totalität, costringe le forme stesse a strut-turarsi irrelatamente, in quanto deprivate dall’Assioma che possa ri-empirle di un Senso forte:

Dio, non sapete che cos’è Dio? Dio è nulla. È la perfezione inven-tata dagli uomini, essi ànno voluto dare una parola al nulla, e l’àn-no per conseguenza fatto diventare qualcosa. […] Essi ànno biso-gno di un nulla che si possa dipingere sopra la tela e scolpire nella pietra62.

Le idee del pazzo ossessionato dalla «manìa suicida»63 non mira-no (come quelle di Zarlino) all’emersione di una realtà a valenza possibile, strutturata, o meglio non-strutturata, sulla base di una concezione ludica e in divenire dell’esistenza, ma si limitano ad ad-ditare il nichilismo insito nella stessa tradizione del pensiero occi-dentale, secondo quel principio romantico che, formulatosi sul ri-fiuto della sintesi conciliativa dei sistemi idealistici, a essi oppone un più vivo sentimento di “essenzialità”. Il dir «No» al «pregiudizio di realtà» che guida i suoi concittadini (è deluso da Perelà perché non ha bruciato tutto), si rovescia suo malgrado in una nuova fede onto-

60 Altra prefigurazione del destino di Perelà.61 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 253.62 Ivi, p. 261.63 Ivi, p. 260.

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logica a valenza drasticamente “positiva” (benché anarchico-incen-diaria). Il suo desiderio di autenticità lo conduce infatti a una deni-grazione della vita che già prospetta una nuova ideologia, l’esaltazio-ne di una nuova forma (quella estrema del “suicidio”) quale attuale Dio:

Gli uomini innalzarono a Dio grande quantità di torri per avvici-narsi a lui, e per gabbarlo, mio caro signor Perelà, quelle torri non servono che per salvarli dal fulmine, esse dovrebbero essere invece le stazioni dalle quali gli uomini partono per giungere al loro Dio, si dovrebbe dai tetti lasciarsi cadere giù sulle folle ad ogni istante64.

Allo stesso modo gli altri ricoverati si sono fabbricati ognuno la propria divinità, i propri predisposti micro-universi. Questi però, estranei ai secolari principi regolativi della Kultur dominante, osten-tano subitaneamente la loro natura di forma, cioè di attualizzazione posticcia della realtà.

In qualche modo, dunque, i pazienti di Villa Rosa sono al con-tempo più avanti e più indietro rispetto agli altri cittadini del regno: da un lato essi hanno scorto come la realtà abbia perso i tradizionali confini metafisici destinati a informarla (e dunque a formarla), dall’altro hanno reagito a ciò mediante l’edificazione di minuscoli Si-stemi filosofici, a valenza unitaria, al quale votare la propria vita (e sono stati ovviamente puniti, mediante la reclusione nel manicomio, in quanto la costruzione di un Sistema, per quanto piccolo, opposto a quello dominante, mette quest’ultimo in crisi mostrandolo sempli-cemente come una delle possibili calcificazioni della realtà). Abbia-mo dunque il re senza regno, il rivoluzionario senza rivoluzione, l’uo-mo che ha consacrato la sua intera esistenza al volto del «nemico» e, scoprendolo poi deceduto (scoprendo dunque l’assenza del principio che aveva riempito di senso la sua vita), ne è ovviamente morto.

Il discorso cambia però radicalmente all’apparizione del principe Zarlino, colui che «non avendo […] una manìa fissa e spiegata può sentirsi pazzo in tutte le diverse forme che gli faccia piacere»65:

Vi avranno detto che io sono il pazzo volontario… il pazzo dilettan-

64 Ivi, p. 262.65 Ibidem.

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te non è vero?… che io sono il matto più matto di tutti i matti! Non vuol dire, questo a me non interessa, ciò che si dice non mi riguar-da. Io ò parlato di voi con tutti i ricoverati ed ò cercato di farvi com-prendere nel vostro giusto grande significato, nel vostro ecceziona-le valore. Sono rimasto addolorato di non avere trovato certe teste preparate a comprendervi, ma state sicuro vi riuscirò, bisogna co-gliere i varî momenti dei varî cervelli66.

Zarlino, uno degli uomini più ricchi del regno, rifiutando la pro-spettiva di diventare re, rifiutando cioè l’identità al suo massimo gra-do, ha scelto di segregarsi all’interno del manicomio al fine di poter sfruttare, nell’anti-città, la possibilità di una pluralità di identifica-zioni:

poi sono re, sono fabbro, sono ragno, sono tavola, sono il sole, sono la luna sono tutto quello che mi fa piacere. Una notte fui cometa, fra le due torri della villa era appesa la mia coda di tela d’argento il-luminata da appositi riflettori elettrici67.

Modulandosi sulla pratica costante dell’antitesi, Zarlino ha in-staurato, nel gioco, un principio di natura anti-realistica teso a tra-scendere, nell’eversione del riso, qualsiasi proposito di natura affer-mativa. In lui l’immobilizzazione del “ruolo” può infatti darsi solo in una dimensione temporale, che tende a sottolineare la valenza emi-nentemente possibile, e non pregiudiziale, del ruolo stesso. Procla-mando la natura “teatrale” del mondo, debella le fittizie istanze nor-mative defigurando di senso qualsiasi rappresentazione, e dunque defigurando di senso le certezze che a quelle rappresentazioni sono collegate.

La mobilità del punto di vista che di volta in volta instaura è ca-duta dell’angolo privilegiato di lettura del mondo. Continuamente deludendo le attese dei sani68, elude la loro capacità definitoria e, dalla mobilità possibile, scredita l’attitudine realistica del mondo trascinandolo alle soglie dell’incomprensione, della confusione.

66 Ivi, p. 263.67 Ivi, pp. 264-265.68 Cfr. ivi, p. 264: «ma badate però non sono pazzo come vogliono gli altri, sono paz-

zo come voglio io. […] Il pazzo non annunzia mai quello che fa, io invece annun-zio sempre tutto».

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Non pretende di essere portatore di una verità, ma fa della sua follia di secondo grado il grimaldello che apre una fessura nel tessu-to omogeneo di una simulata (ma creduta reale) certezza gnoseolo-gica:

Il rapporto tra fattuale e fittizio viene sbilanciato a favore di quest’ul-timo. Il teatro resta contrapposto come non mai alla realtà. Solo che è mutato il senso di questa contrapposizione. Le immagini non sono più seducenti e rassicuranti, come accade nei comportamenti normali e istituzionali, né si reificano come nella follia, ma diventa-no derealizzanti69.

Zarlino elide il miraggio di un sapere sistematico e totale, non ri-conduce la sua critica a un progetto positivo, ma pone la “negativi-tà” di cui è portatore al servizio di una già realizzata (ed è questa la grande differenza che intercorre fra lui e Perelà) esperienza dell’ines-senziale.

7. imitazioni del negativo

I tentativi imitativi che, nel corso del romanzo, si applicano al per-sonaggio di Perelà sono tre. Fra questi solo quello del principe Zar-lino, esperito non a caso esclusivamente all’interno del manicomio, si risolve positivamente70, vale a dire si risolve senza condurre alla morte del personaggio che ha messo in atto il suddetto tentativo.

Zarlino infatti, a differenza degli altri due (il servitore Alloro e la marchesa Oliva di Bellonda), non commette l’errore di considerare Perelà secondo criteri di natura formalistica (siano essi realistici o spiritualistici). Pronto a dismettere, dopo soli due giorni, i panni dell’uomo di fumo, ne salvaguarda la natura possibilista e, preser-vandone la struttura eminentemente potenziale, si mette al riparo dal rischio di voler attuare positivamente il possibile.

69 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 56.70 Cfr. Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., pp. 334-335:

«– Il principe Zarlino! – Il principe Zarlino? – Ànno dato la via ai matti, ànno dato la via ai matti! – Che succederà! – Guarda guarda! – Si abbracciano! […] – Dice che il principe Zarlino si è vestito tutto di velluto grigio, e si è impastato bene bene la faccia con una certa pomata mercuriale eppoi per due giorni à fatto da Perelà là dentro al suo manicomio».

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Con la sua presenza Perelà esprime infatti uno statuto critico teso a smontare congegni conoscitivi che si ritengono non-criticabili: vo-lerlo trasformare, mediante l’imitazione, in un messaggio a valenza semplicemente utopica, vuol dire tradire la sua prospettiva, vuol dire cioè non tradire un messaggio che, per essere inteso nella sua pienez-za eversiva, va necessariamente tradito, cioè perennemente modifi-cato71. Ecco il messaggio della personale avanguardia di Palazzeschi. Un’avanguardia capace di sostenere fino alle estreme conseguenze la progressione negativa che in lei si agita, fino al punto in cui questa progressione porta alla dissoluzione dell’avanguardia stessa:

Liberati dal fuoco, procediamo allora, sospinti dallo spirito, di opi-nione in opinione, attraverso il mutar dei partiti, come nobili tradi-tori di tutte le cose che in genere si possono tradire – e tuttavia sen-za un sentimento di colpa72.

La marchesa Di Bellonda e il servitore Alloro sono invece, per continuare a usare la terminologia nietzschiana, uomini «leali», vale a dire uomini che permettono alle passioni di tramutarsi in forme. Non riuscendo a tradire l’autenticità di cui credono Perelà sia porta-tore, si condannano a un destino orribile, e questo perché pretendo-no che il Senso, di cui Perelà si fa carico, si pretenda compiuto, e, di conseguenza, attuano un impossibile processo di cristallizzazione73 dell’uomo di fumo.

71 Cfr. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, ii, cit., p. 262: «Noi non ci fa-remo bruciare per le nostre opinioni: non siamo abbastanza sicuri di esse. Ma ci fa-remmo forse bruciare per poter avere e per poter cambiare le nostre opinioni».

72 Ivi, p. 304.73 Si veda, a proposito del procedimento di “cristallizzazione”, il seguente passo di

Stendhal in Dell’amore (1822), Torino, Einaudi, 1975, pp. 8-9: «Comincia la pri-ma cristallizzazione. Ci si compiace di ornare di mille perfezioni la donna del cui amore siamo sicuri; ci si rappresenta la propria felicità in tutti i suoi particolari con infinita compiacenza. Tutto ciò si riduce a esagerare un magnifico possesso, che ci è caduto dal cielo, che ci è sconosciuto, ma siamo certi che è nostro. Lasciate lavo-rare la testa di un innamorato per ventiquattr’ore, ecco che cosa troverete: Nelle miniere di sale di Salisburgo si usa gettare nella profondità abbandonata della mi-niera un ramo sfogliato dal gelo: due o tre mesi dopo lo si ritrova coperta di fulgi-de cristallizzazioni: i più minuti ramoscelli, quelli che non sono più grossi dello zampino d’una cincia, sono fioriti d’una infinità di diamanti mobili e scintillanti; è impossibile riconoscere il ramo primitivo. Quello che io chiamo cristallizzazione, è l’opera della mente, che da qualunque occasione trae la scoperta di nuove perfezio-ni dell’oggetto amato».

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La marchesa, imbevuta di un bovarismo al limite del patologico, attiva la sua parabola discendente vestendosi, durante Il Ballo, di grigio:

– La marchesa di Bellonda!– Uh!– In grigio!– In grigio fumo!74

In seguito, dichiarando durante Il processo una leggerezza che è solo un’istanza formativa della leggerezza (un “immedusamento” della leggerezza), svela la natura “purificante”, titanica e basso dan-nunziana, della sua visione:

Uomini generati nell’utero sanguigno, usciti come viscidi rettile dalle contorsioni dei muscoli nel delirio della lacerazione della car-ne, egli è sopra a tutte le stirpi, sopra a tutto il sangue!75

Incapace di tradire ciò che le appare la Verità di Perelà, si condan-na di conseguenza anche al bonario rimprovero di quest’ultimo («lei che neppure capì quello che io ero solamente: leggero leggero legge-ro leggero»76), che ribadisce, nell’intento anti-fondativo e anti-meta-fisico, il valore critico-trascendentale (e non certo trascendente) del-la sua azione, quello della negatività che non può mutarsi in positi-vità, pena l’immedusamento dello stesso negativo.

Allo stesso modo il vecchio servitore Alloro, sin da subito ammi-rato dalla natura di fumo di Perelà, si lascia ossessionare77 da una smania imitativa che tenta di appagare con l’utilizzo di mezzi “reali-stici”. Incapace di comprendere ciò che il corpo di Perelà sottende, si figura di poter divenire come lui mediante un raccapricciante esperimento:

Sotto l’ampia volta del sotterraneo si incomincia, fra la nube del fumo che si dilegua, a distinguere. Nel mezzo, in terra, una grande spianata di cenere e di carboni ancora qua e là accessi; al soffitto,

74 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 219.75 Ivi, pp. 331-332.76 Ivi, p. 350.77 Cfr. ivi, p. 275: «sembrava invasato da un pensiero fisso che lo faceva ridere come

un folle».

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dall’anella centrale, scende una catena di ferro, fino a due metri dal suolo, a quella è appeso in fondo… come un crocicchio di tronchi carbonizzati, che si dondolano in mezzo orizzontalmente. Pareva proprio l’unione di due tronchi d’albero così rudimentalmente con-giunti e non era che un ultimo avanzo umano: Alloro78.

La natura aerea di Perelà viene così grottescamente ribaltata nel-l’immagine dei resti del corpo del servitore dondolanti dal soffitto. Ciò che la “leggerezza” si proponeva di instaurare, la valenza possi-bile della realtà, si ritrova tragicamente fraintesa nel suo passaggio a un ideale affermativo.

D’ora in avanti l’attitudine formativa degli abitanti del regno di Torlindao si coalizzerà, prendendo l’aspetto di un deciso conformi-smo, contro un Perelà improvvisamente scoperto (formato) come «indifferente».

8. lo spazio rarefatto del pensiero: storia di una vendetta

la scelta è dunque fra irrigidirsi e perire,ossia fra due modi di perire.

Claudio Magris, L’anello di Clarisse

– Ma se fosse davvero un mandato?– Di chi?– Di dove?– Non saprei…– Dall’inferno!– E perché no?– Dal diavolo volete dire?79

La riunione del Consiglio di Stato, successiva alla morte di Alloro, produce un primo generale rovesciamento delle considerazioni sulla natura di Perelà. Incapaci di approdare a una decisione, i dignitari lasciano ancora libero l’uomo di fumo nell’attesa di un rivolgimen-to dell’opinione pubblica.

Perelà, ritrovatosi improvvisamente solo, lascia momentanea-mente la città incamminandosi verso il monte Calleio: la salita, che

78 Ivi, p. 276.79 Ivi, p. 291.

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segna un momentaneo ritorno del narratore esterno, è informata, in quanto ascensione verso il cielo e allontanamento dalla terra, dal rinnovamento della coppia oppositiva “pesante - leggero”:

Era vero, non si era sentito mai tanto leggero, […]. La luce lo vin-ceva, il calore del sole, la leggerezza del suo corpo, il verde delle fo-glie, l’infantilità di quel filo d’acqua, il respiro puro, gli fecero sen-tire per la prima volta che tutto quello che si faceva laggiù in quell’enorme mucchio di case era qualche cosa di grave, di pesante, di sommamente pesante […]. Guardò ancora il cielo e si sentì tut-to rianimato80.

La sospensione della struttura dialogica del romanzo conduce lo stesso Perelà a un passeggero irrigidimento totalitario a valenza tragica: l’ideale della leggerezza infatti, in quanto espressione di un pluralismo che non basta a se stesso, vive necessariamente delle contraddizioni formalistiche che a esso si oppongono, non può darsi come molteplicità irrelata, ma solo come continua riattiva-zione di tutte le differenze che la Storia pretende di aver soppresso. La riattivazione del dialogo, vale a dire la rinnovata comparsa di un punto di vista esterno (uno scambio di battute con un pastorella), richiama infatti l’uomo di fumo alla “varietà” della terra, benché questa sia il luogo dove la sua sconfitta deve necessariamente at-tuarsi, attuarsi, come abbiamo già detto, per non essere una scon-fitta:

– Dimmi bambina ma tu guardi sempre là per terra e non volgi mai i tuoi occhi su, al cielo?– Oh! Io ne vedo tanto del cielo se sapeste, […] è sempre uguale il cielo, ed è tutto uguale, io voglio invece guardare laggiù, dove non ò visto mai. […]Il sole volgeva al tramonto e Perelà salutando la piccola che guarda-va la terra e guardando lui un’ultima volta il cielo, prese a discende-re rapidamente verso la città81.

La vittoria di Perelà è necessariamente correlata al fallimento del-la sua avventura, la ricezione positiva del suo “insegnamento” con-

80 Ivi, pp. 304-305.81 Ivi, p. 307.

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dannerebbe infatti quest’ultimo a mutarsi in una di quelle piccole verità che la Storia edifica sulla morte dei “vinti”, sull’eliminazione, mediante la sintesi, di qualsiasi valenza antitetica.

Rientrato in città Perelà si ritrova così subitaneamente aggredi-to da frotte di bambini82: lo schema grottesco, che anticipa la lapi-dazione linguistica del Processo, già prepara l’apparente trionfo della

visionaria e gelida parabola del delirio autodistruttivo cui si è vota-ta la ragione occidentale, nella sua ansia di reprimere le proprie spinte centrifughe e di tenere saldamente in pugno la propria pre-caria e barcollante unità – così saldamente da stritolarla e quindi da stritolarsi83.

Riconosciuta la sua “instabilità” (proprio da chi aveva cercato in lui rasserenanti certezze) come portatrice di crisi, Perelà viene dun-que condotto in tribunale perché reo di «essersi servito di male arti per ingannare la Reale opinione, l’opinione del consiglio dei mini-stri, l’opinione pubblica»84. Accusato, in pratica, di essere un mes-saggero del “fraintendimento”, Perelà, che ovviamente si discolpa solo mediante la proclamazione della propria leggerezza, è riscontra-to colpevole di «malefica […] ironìa»85, vale a dire colpevole di un atteggiamento antidogmatico teso a proclamare il regno del linguag-gio come territorio della mistificazione, e teso, di conseguenza, alla messa in crisi di qualsiasi rasserenante verità che, nelle strutture lin-guistiche, trovi la propria fittizia normalizzazione.

Il presupposto formativo che aveva, al principio del romanzo, condotto gli uomini a leggere Perelà come rappresentazione del pro-prio universo precomprensivo, si rovescia ora in un atteggiamento speculare a matrice ostile. Ma il contrasto resta fondamentalmente lo stesso, quello «tra il non identificabile […] e il mondo classifica-bile e ordinabile»86. Ogni testimone infatti giudica reo l’uomo di

82 Cfr. Antonio Saccone, L’occhio narrante, cit., p. 113: «l’immagine di una verità “debole”, instabile e perciò attaccabile da ogni lato, ma nel contempo resistente e imprendibile».

83 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 260.84 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 322.85 Ivi, p. 323.86 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., pp. 71-72.

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fumo secondo il proprio «pregiudizio di realtà» (operazione non dis-simile da quella compiuta dalle “voci” nella seconda parte di :rifles-si), e ognuno di essi elabora anche la punizione sulla base del proprio irrigidimento ontologico.

La risoluzione finale di murare Perelà in una piccola cella, sotto-linea per l’appunto questo estremo tentativo di immobilizzazione (dunque di formazione) di ciò che rifiuta di lasciarsi contenere in un Intero dai precisi confini87. L’ironia che Perelà minaccia di instaura-re va combattuta mediante un inasprimento, totalitario e totalizzan-te88, del pensiero. Il riconoscimento dell’uomo di fumo come essere ambiguo e pericoloso permette così il riemergere di una “definizio-ne” che tranquillizza, in quanto categoria, il soggetto, poiché lo ri-conduce, fittiziamente, al credo secondo cui il suo angolo di vista li-mitato sia in realtà in grado di produrre atemporali certezze essen-zialistiche.

Il delirio di un soggetto braccato da presso dalla propria immi-nente dissoluzione, si rovescia così in un abbagliamento collettivo che ritiene di poter salvare la vita mediante l’eliminazione di questa, mediante cioè la soppressione-rimozione di tutte le possibilità alter-native a quel concetto di vita che ognuno dei sudditi del regno di Torlindao ha per sé elaborato:

messinscena farsesca di una società in crisi, disponibile a risoluzio-ni estreme e pericolose, perché ansiosa di colmare il crollo delle cer-tezze e il vuoto dei valori ideali con una corsa nel buio, con la fuga nell’irrazionale, con l’attesa di un Messia89.

Ma Perelà è una ben straniante figura di Messia. La sua carcera-zione non può durare perché egli è pronto a spingersi fino al limite della sua valenza possibile, vale a dire fino al punto di porre se stes-so come esperienza impossibile: domanda senza risposta.

87 Non a caso la cella verrà definita «tomba», ribadendo quel meccanismo “mortifica-torio” che pretende la repressione delle istanze vitali in quanto espressioni di possi-bilità alternative.

88 Cfr. Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 265: «Il totalitarismo è l’ultimo esito della paura».

89 Gino Tellini, Introduzione, in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, i, cit., p. ciii.

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9. «vincitore di dio e del nulla»90: il codice di perelà

ma egli sarà apparso loro come l’aurora di un nuovo giorno.Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica

Ma noi non vogliamo neppure entrare nel regno dei Cieli. Siamodiventati uomini, – perciò noi vogliamo il regno della terra.

Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra

Il fallimento a cui approda la parabola di Perelà si erige a tutela del-la sua utopia: il sogno di un mondo fatto di uomini liberati da istan-ze formative, da ideali che si credono compiuti, è subordinato al fal-limento del sogno stesso. L’ideale della molteplicità è necessariamen-te estraneo alla sua realizzazione: il regno del nichilismo compiuto, benché edificato sul principio anti-formativo dell’assenza di senso, svelerebbe, una volta tradotto in realtà, il ghigno di una nuova “to-talità” del senso. Quando oltre il non-senso non c’è nulla, quando nessuna dimensione alternativa si oppone all’assenza di Fondamen-to, allora tutto è ancora Assoluto e maiuscolo, e tutto si pretende, con la consueta violenza, compiuto:

In questo tramonto, lascio le mie ultime volontà. I miei piedi sono uniti, le mie scarpe posano come quella mattina quando faticosa-mente discesi fino ad esse, ed io le lascio così… come le avevano preparate loro. Pena! Rete! Lama! Voi mi daste questa scarpe perché io dovevo camminare fino a che esse non fossero state tutte consu-mate. […] È la sola cosa ch’io posseggo e ve le lascio, o uomini, que-ste mi legarono a voi, voi sarete ora persuasi che io non valevo gran che, valevo questo paio di scarpe. Mi chiamaste coi nomi più belli, mi strisciaste i vostri inchini più profondi, mi adoraste come una reliquia, poi vi siete accorti che cosa io valevo e mi disprezzaste, mi calpestaste come un rettile, mi ingiuriaste, e mi voleste sempre lon-tano da voi, per dimenticarvi sempre di me. Voleste tante cose da me, che io vi dettassi il Codice, eccolo, questo solo può essere il Co-dice ch’io vi lascio, esso custodiva sulla terra la mia sola virtù. In questo tramonto una piccola nube grigia in forma di uomo, le nubi ànno tante forme, volerà su su, traverserà l’orizzonte verso il sole91.

90 Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale (1887), Milano, Adelphi, 2004, p. 87.

91 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 350.

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L’apparente “monologismo” dell’ultimo discorso di Perelà si rove-scia in un inno elevato al “fraintendimento”: il codice prescrittivo che gli uomini richiedevano all’uomo di fumo diventa un monumento alla plurivocità che, in quanto tale, nega perfino se stessa. L’utopia prospetta la sua realizzazione ma non la compie, non offre rappresen-tazioni di questa e negandosi, nella sparizione di Perelà, a qualsiasi ri-sultato conciliativo, preserva gli uomini nella “dissonanza”: nella dia-logicità che nega l’accordo, nell’antitesi che rifiuta la sintesi92.

Perelà, elevandosi al cielo sotto forma di nuvola, non adotta una strategia di tipo metafisicizzante93, negandosi anzi alla visione degli altri, li costringe a un surplus interpretativo che ribalta i loro prece-denti procedimenti gnoseologici costringendoli a un’irrefrenabile ermeneutica94. Le nubi che, nella scena finale del romanzo, solcano il cielo, si pongono dinnanzi agli uomini come inarrestabile alterità, come interminabile ambivalenza:

Palazzeschi […] si preoccupa […] di far sì che ogni interpretazione delle nuvole venga immediatamente confutata da un’altra […]. Nulla acquista un carattere vincolante, su cui poter edificare una ge-rarchia di vedute e fondare un principio di univocità95.

Il pensiero cognitivo abiura la propria pretesa di “realtà”, si alie-na alla propria sintesi e, in ciò, si riconosce inabile anche a una fitti-zia composizione del caos:

– Guardate che cosa c’è lassù nel cielo!– Aquile bianche, candide aquile, come cigni, vanno su, su, van-no coi loro becchi adunchi…

92 Dagli stivali di Perelà, nell’edizione del 1958, cade un disco di cartone recante la scritta «et ultra»: tutelando il valore dell’incompiutezza fin dal pericolo del proprio compimento, l’uomo di fumo si presenta come possibilità continua, vale a dire come continua eccedenza e, dunque, come continua progressione critica.

93 Cfr. Fausto Curi, Palazzeschi e Nietzsche, nell’opera collettiva Palazzeschi europeo, cit., p. 64: «Ciò che più conta però è che l’ascesa di Perelà verso il sole non ha nul-la di trascendente, nulla di religioso, nulla di mistico».

94 Cfr. Winfried Whele, Nel regno dell’intrascendenza, nell’opera collettiva Palazze-schi europeo, cit., p. 93: «Egli, in sostanza, prescrive loro l’adozione di un nuovo schema gnoseologico, quello modernista, secondo il quale l’uomo non deve votar-si a convinzioni ultimative, bensì coltivare un’elasticità mentale capace di fronteg-giare criticamente la propensione a fossilizzarsi sulle proprie convinzioni».

95 Ivi, p. 91.

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– Vanno a strappare a Dio il velo sopra il suo mistero!– Ma che!

– Quelle bandiere lassù, salgono a schiaffeggiare l’azzuro col sangue della loro vittoria!

– Ma che!– Come il cielo è solcato!– Quegli uomini vanno a consegnare di propria mano a Dio la loro anima!– Ma che!– Dove vanno?– Vanno a cercare Perelà.– Perelà!– Perelà?– Il signor Perelà?96

Nel finale del romanzo la «vita» balena per un attimo fra le pie-ghe della rappresentazione, nella descrizione del pensiero quale luo-go che intensifica, e non risolve, i contrasti, ma subito torna a negar-si mantenendo intatto il suo carattere antitetico alle forme in cui pure, tragicamente, si realizza.

Proclamandosi in quanto nuova possibilità del pensiero, il mes-saggio di Perelà non avrebbe potuto separarsi dal suo contenuto ef-fettuale, e in ciò sarebbe ricaduto fra gli artigli del senso (che nel pensiero è appunto rappresentazione): sparendo si sottrae a questa, si sottrae a Dio (cioè si sottrae alla credenza di un pensiero capace di racchiudere in sé la vita), ma si sottrae anche a quel suo Dio che è il nulla. Questo infatti, nel punto interrogativo che chiude l’opera, re-sta attuato solo come nostalgia di un mondo liberato dal senso.

Ecco perché Palazzeschi è figura atipica all’interno del grande modernismo europeo: pur vivendo alla stregua degli altri «l’incrina-tura dell’unità individuale, il conflitto fra vita e rappresentazione, l’eclissi di ogni totalità e di ogni universale del pensiero»97, il fioren-tino non ha indirizzato la propria nostalgia verso un “senso” ritenu-to ormai perduto (né ha semplicemente esaltato, come avviene in certo pensiero postmodernista, l’assenza di senso): il suo rimpianto non è rivolto all’essere, ma è incredibilmente rivolto al non-essere, perché sa che questo non può mai realizzarsi come immanenza, ma

96 Aldo Palazzeschi, Il Codice di Perelà, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 352.97 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 65.

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solo come progressiva antitesi critica, che, in quanto tale, è antiteti-ca a se stessa.

Se Michelstaedter (ma l’esempio potrebbe coinvolgere moltissi-mi autori), negli stessi anni, individua nel percorso negativo della “persuasione” la possibilità di un uomo liberato dai procedimenti finzionali di un universo “rettorico”, Palazzeschi determina proprio nel tendere verso la contingenza, cioè verso un mondo completa-mente deprivato dell’essere, la stessa possibilità. Ma sa che la realiz-zazione di questo mondo, la realizzazione dell’utopia di Perelà, si trasformerebbe istantaneamente in una molteplicità sprovvista di al-ternative a sé, dunque in un rinnovato trionfo dell’essere: da qui la necessità del suo fallimento.

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vii. la piramide e l’interrogatorio: fra desiderio e rappresentazione

1. sgambetti sull’orlo dell’abgrund

Ma penso che oggi siamo perlomeno lontani dalla ridicolaimmodestia di decretare, dal nostro angolo, che soltanto

da questo angolo si possono avere delle prospettive.Il mondo, piuttosto, è divenuto per noi ancora una volta

«infinito»; in tanto anche non possiamo negare la possibilitàche esso racchiuda in sé infinite interpretazioni.

Friedrich Nietzsche, La gaia scienza

Il proposito di una vita quale «serie interminabile di sgambetti», avanzato da Palazzeschi in Il controdolore, trova in La Piramide1 un complesso sistema di attuazione2.

Il proponimento anti-formativo, vale a dire quella modalità di concezione del reale che nega all’individuo la possibilità di attestarsi in una posizione salda (in un punto di vista privilegiato dal quale giudicare il reale), è ora portato alle sue estreme conseguenze me-diante un sistematico procedimento teso, attraverso l’esaltazione delle virtù possibilistiche della «fantasia», verso un progressivo assot-tigliamento del senso univoco della realtà.

La vita in un’epoca, come scriveva Max Weber, «lontana da Dio e

1 Il romanzo, pubblicato nel 1926, è probabilmente stato scritto fra il 1913 e il 1914 e ripreso nell’immediato dopoguerra. A tal proposito si rimanda all’ampia e ricca-mente documentata nota al testo di Gino Tellini, presente in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, i, cit., pp. 1523-1568.

2 Si veda anche la lettera inviata da Palazzeschi a Pancrazi il 5 agosto 1926 (la si può leggere in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, i, cit., p. 1533): «Tutti i miei sgam-betti sono veramente fatti sull’orlo del precipizio».

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priva di profeti»3, è ora esperita in quanto lotta di opposti ideali incon-ciliabili eppure tutti validi: la realtà, rivelatasi nella nietzschiana «anar-chia degli atomi», non può essere assoggettata a una visione superiore che pretenda di racchiuderla in un senso definitivo. Ma tale disincanto è in realtà foriero di nuove utopie, utopie certo distanti dai sogni sinte-tici e totalizzanti proiettati a racchiudere il mondo in una forma (in un Modello), e protese invece verso il tentativo di dar voce a tutte quelle possibilità che la realtà in sé contiene, e che l’assurda credenza secondo cui il nostro «angolo», per usare ancora i termini di Nietzsche, sia l’uni-co dal quale si possa avere la giusta visuale, rischia di lasciare inespresse.

Qui si innesta la piramide palazzeschiana, all’incrocio della crisi che lascia il mondo privo di Fondamenti stabili, e l’uomo a metà strada fra il rischio di precipitare nell’indifferenziato che questo Nul-la prospetta e la tentazione di tornare a edificare, con l’usuale violen-za, Modelli che si pretendano atti a darci, una volta e per sempre, il Senso “corretto” del mondo. Gli «sgambetti» che Palazzeschi imma-gina sono appunto quelli tesi a distogliere gli uomini dall’adagiarsi nei propri «pregiudizi di realtà», sono l’arma ironica di un disincan-to che non vuol farsi disperazione, ma che deve al contempo allon-tanare da sé gli azzardi (sempre dispotici) delle facili speranze. Il pre-cipizio del Nulla deve così restare bene in vista (ricorda all’uomo la provvisorietà dei propri Fondamenti), ma anche l’Abgrund non va assolutizzato, in esso il nulla è pronto a rivelarsi come Sistema sprov-visto di alternative a sé: immanenza di una realtà a sua volta priva di soluzioni altre, priva, avrebbe detto Palazzeschi, di «fantasia».

La salita sulla piramide è per l’appunto, come ora vedremo, un processo di graduale accrescimento delle potenzialità della fantasia umana, ed è dunque, di conseguenza, un processo di costante ridu-zione della realtà come Valore fondante.

2. tertium non datur

dove è andata la logica?Aldo Palazzeschi, La Piramide

Differentemente dalle opere precedenti Palazzeschi adotta ora uno

3 Max Weber, La scienza come professione, cit., p. 40.

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vii. la piramide e l’interrogatorio 179

sperimentalismo sui generis: il consueto proposito ironico lavora in modo più sotterraneo4, tutto il romanzo è infatti intessuto di con-trappunti comici che sottraggono costantemente valore alle afferma-zioni contenute nelle stesso romanzo. Ciò non riguarda solo le sen-tenze dei personaggi a evidente matrice negativa (parodiate median-te similitudini “basse”, esclamazioni auliche, ecc.), anche la parola dell’autore viene infatti frequentemente smentita: «Anelate, anelate con tutta la vostra possa quella notte d’amore, e… non lesinate a quelle dell’attesa… Del resto poi fate come volete»5.

La necessità di preservare sempre (nella consueta organizzazione di tipo “teatrale”) la possibilità di un’interpretazione opposta, inde-bolisce qualsiasi sentenza che voglia darsi come struttura positiva6.

Questo proposito trova infatti rispecchiamento tematico nella prima parte del romanzo (A tre), dove l’ingenuo protagonista si ri-trova specularmente irretito nelle affermazioni opposte di due exem-pla ficta (l’Ottimista e il Pessimista) di cui ascolta i discorsi. Pur por-tatori di visioni antitetiche del mondo, i due uomini adottano nei confronti di questo identiche modalità: racchiudono la realtà in una gabbia predeterminata e, mediante questa, informano quella stessa realtà di un senso che credono compiuto, riferendo così di una visio-ne totalizzante del mondo. Modulati sulle opposte affermazioni del «Sì» e del «No», si avventurano in procedimenti retorici atti a richia-mare precisi universi interpretativi7 (il primo fa infatti riferimento a

4 Cfr. Luciano De Maria, Palazzeschi e l’avanguardia, cit., p. 86: «Quel che colpi-sce subito nel libro è l’aspetto stilistico: si assiste a un massiccio recupero della sin-tassi, a un gesto di mimesi ossequiosa, ma sotto sotto parodica, verso la tradizione aulica, classicista, della prosa italiana, e nel contempo, all’impiego di forme osten-tatamente popolari nel lessico e nelle locuzioni».

5 Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 499.6 Cfr. Massimo Fanfani, Parole di fumo: appunti sulla lingua dei romanzi straordi-

nari, nell’opera collettiva L’opera di Aldo Palazzeschi, cit., p. 251: «una continua di-versità di stile e di registri tonali che possono impennarsi a livelli di pura lettera-rietà (anche se spesso e volentieri con intento parodico), o mantenersi sul piano dello scherzo e del comico, o farsi più realistici, sconfinando talvolta nella battuta volgare».

7 Cfr. Luigi Pirandello, L’umorismo, cit., p. 157: «L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare una valore assoluto a ciò che è re-lativo».

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idee di purezza, di “elevazione” e di onestà, mentre il secondo ripor-ta immagini di un mondo decisamente più prosaico).

Si tratta di due discorsi a valenza archetipica, due opposte ideo-logie che utilizzano termini assunti come eterni e universali, «ossia concetti e principi fissati o accettati come validi per ogni tempo, per ogni individuo ed in sé»8. La «falsa coscienza», qui schematizzata in due sistemi “globali” di discorso, sottolinea di un progressiva forma-lizzazione logica che tende a universalizzare le operazioni intellettive al fine di semplificarle, al fine cioè di garantire la soppressione di ogni possibile variabile. Sia l’Ottimista che il Pessimista offrono in-fatti al protagonista un modello assolutizzante che permette, nell’eli-minazione di ogni possibilità alternativa, di riempire di senso il non-senso del mondo, e Palazzeschi su questo è chiarissimo:

Se ciò fosse necessario a risolvere qualche cosa sopra un piano vera-mente concreto e definitivo? A rintracciar le fila della matassa ingar-bugliata oramai in una maniera indecente? Magari un filo solo di questo ginepraio?… A toccar l’assoluto in qualche modo? O almeno avvicinarsi ad esso? Si può seguitare a vivere così, sempre nel relativo, senza la più vaga speranza di poterne uscire? Ma cento volte no9.

Ma questa affermazione sottolinea solo della necessità del prota-gonista di “votarsi” a un Significato: ecco perché può passare, nel giro di pochi minuti, dal condividere le frasi del primo personaggio a condividere quelle del secondo, donandosi a un immedusamento continuo che non può certo nascondere l’ironia a esso sottesa10: iro-nia che rivendica «il rifiuto di sistemi globali, di ideologie totalizzan-ti che presumono di fornire una chiave buona per tutte le porte»11.

8 Giangiorgio Pasqualotto, Pensiero negativo e civiltà borghese, Napoli, Guida, 1981, p. xi.

9 Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 412.10 Cfr. Gino Tellini, Introduzione, in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, i, cit., p.

cviii: «l’io aziona il duplice pedale del distacco ironico e del coinvolgimento. Si di-chiara ottimista a oltranza con il primo interlocutore e altrettanto pessimista con il secondo, ma ridice e commenta a suo modo, in stile parodico, l’eloquio ora alato e liricizzante ora acre e sanguigno dei due vicini. Ne prende le distanze, ne smussa gli eccessi, ne rifà le movenze con tratti caricaturali […] però, volta per volta, è cattu-rato dalle loro opposte argomentazioni. Tanto che vorrebbe abbracciare sia l’uno che l’altro».

11 Ivi, p. cxiii.

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vii. la piramide e l’interrogatorio 181

Palazzeschi ricorre dunque nuovamente a un principio di matri-ce retorica: i due monologhi, validi in sé, non possono sopravvive-re nel loro vicendevole relazionarsi dialogico. La parola che vuole darsi come rappresentazione della vita, non può essere altro che re-pressione di questa: i personaggi che la esprimono, ormai impossi-bilitati a fare riferimento (data la disgregazione di una kultur con-divisa) a un medesimo orizzonte interpretativo, sostituiscono un si-stema di valori ormai assente con un fittizio simulacro psicologico e ideologico (affermativo o negativo che sia), tanto più pericoloso perché creduto reale. La natura di questo è però svelata dal loro pa-ratattico accostamento che mina il fondamento e la verità di en-trambi.

Ha dunque certamente ragione Paolo Febbraro quando afferma che Palazzeschi ha scritto un «trattatello retorico di schietta matrice sofistica, volto a dimostrare agli ingenui […] la congruenza di veri-tà opposte»12, ma si può anche dire che lo stesso meccanismo, criti-co verso il principio di non-contraddizione, sottrae consistenza a qualsiasi affermazione, in una mirabile parabola del declino del prin-cipio del terzo escluso.

Dimostrare infatti come vere due proposizioni che si contraddi-cono è, secondo logica, una impossibilità che sottolinea come nessu-na delle due proposizioni dica, in realtà, alcunché di reale. Ma Palaz-zeschi ha già mostrato come nessun giudizio e nessun oggetto possa sfuggire a una sfera dialogica, da ciò dovremo allora trarre la conse-guenza secondo cui ogni affermazione è confutabile, ogni afferma-zione può cioè essere esposta alla demolizione.

La valenza formativa a cui, mediante una definizione, si approda, non può dunque in alcun modo essere separata dalla possibilità del-la sua destrutturazione, cioè dalla possibilità di non-essere: una irre-frenabile propensione critica corrode qualsiasi pretesa di definitivi-tà13, ed è allora la stessa scrittura, cioè ciò che avrebbe dovuto argi-nare in una forma il rimescolio indistinto della vita, a essere para-

12 Paolo Febbraro, La tradizione di Palazzeschi, cit., p. 243.13 Lo stesso discorso deve naturalmente essere fatto per le citazioni “straniate”

(Dante, Petrarca, Leopardi, D’Annunzio) che Palazzeschi inserisce all’interno del l’opera, sviandole decisamente, con intento critico-parodico, dai loro origina-ri binari.

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dossalmente trascinata nel vortice di un senso che perennemente si forma ma subito si nega.

La contraddizione a cui incessantemente il testo sottopone il let-tore (mediante, ad esempio, il continuo contrappunto parodico) non mira, nell’ironico avanzare verso la cima della piramide, a una sintesi conciliativa, bensì punta a una continua scomposizione dei suoi presupposti realistici, e lo fa rappresentando la vita non sub spe-cie totalità (perfetta e chiusa), ma in maniera del tutto frammentata (sub specie divagazione), al fine di eludere ogni conformistico model-lo positivo (anche quelli a valenza pessimistica).

Il dissidio fra vita e rappresentazione non potrebbe ora essere più netto: la capacità sintetica dello stile14 è abiurata in quanto specchio della capacità «pietrificante» della parola e del pensiero. Se ciò che il linguaggio può offrire è solo un’ombra, una calcificazione finzionale della realtà, allora è sulle ombre che il lavoro deve adesso svolgersi (ombre del pensiero, ombre dell’identità, ombre persino del deside-rio). La Piramide è il romanzo dei simulacri, il tentativo di rappre-sentare ciò che non esiste (ovvero ciò che non è formabile in quan-to metamorfosi continua), vale a dire le infinite possibilità che la fantasia prospetta e che la vita contiene. Infatti, di contro alle due ideologie che gli exempla ficta prospettano, e che, in quanto tentati-vi di lettura della realtà mediante un criterio unificante15, vengono immediatamente rivelati al lettore come “fantasmi” della conoscen-za, l’io adotterà una strategia tesa alla moltiplicazione dei simulacri, alla proliferazione di maschere identitarie (A due) e all’incremento delle possibilità di giudizio dell’uomo nei confronti della realtà (A solo):

La vita non conosce più […] un fondamento nel quale affondare le proprie radici e sul quale crescere, un centro che unifichi la sua con-traddittoria e caotica molteplicità e permetta di giudicare, scegliere, selezionare. […] non c’è una gerarchia unitaria di valori, che pre-tenda di ridurre il mondo all’essenziale e di dominare la brulicante proliferazione dei suoi dettagli, subordinando il pullulare degli im-

14 Cfr. Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 44: «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica…».

15 Cfr. Id., Umano, troppo umano, ii, cit., p. 254: «Il vedere una sola cosa, il trovare in essa l’unico motivo di agire, la misura di tutto il resto dell’agire, fa l’eroe e anche il fanatico – cioè un’abilità nel misurare con un solo criterio».

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pulsi minimali e momentanei ad un significato che li trascenda. L’anarchia degli atomi ha travolto ogni valore centrale ed ha spezza-to ogni connessione, capace di stringere i particolari in un tutto si-gnificativo16.

La svalutazione del mondo (che è in realtà svalutazione delle no-stre capacità di “appropriarci” del mondo) si forma in questo pro-gressivo avanzamento delle potenzialità ironiche di un soggetto che, riconosciutosi come incapace alla formazione, sviluppa una capacità che solo apparentemente è anti-razionalistica, ed è invece punto estremo di una ragione che, mentre riflette sulla propria inevitabile crisi, riconosce senza drammi il quid di fantasia che opera in lei, e lo amplia fino a farne un necessario prolungamento di sé. Giustamen-te restia a proclamare la propria fine (dietro cui vede allungarsi an-cora, con rinnovato vigore, gli occhi di Medusa), decide di operare in una prospettiva proteiforme, negandosi il compito del giudizio definitivo e procedendo, dunque, alla svalutazione di sé (possiamo forse dire alla propria immersione nel dionisiaco) al fine di mante-nersi in vita, al fine, cioè, di non tradire la vita.

Palazzeschi sa che c’è qualcosa che deve essere salvato: le inesau-ribili possibilità che la ragione nel suo necessario progresso formati-vo esclude, “dimentica”, tutte le alterità che i due uomini incontrati dal protagonista rifiutano nel loro pensiero. Ecco perché la sua ope-ra non può darsi come costruzione simbolica unitaria, ma solo come dialettica priva di centro, atta a simboleggiare utopisticamente (cioè criticamente) l’entrata in scacco del simbolico. Ma al contempo, per proporre davvero la sua utopia, deve registrare anche la realizzazione impossibile della sua opera decostruttiva, questa deve sopravvivere solo come orizzonte d’attesa, al fine di non perdersi anch’essa nel nulla, come i desideri “realizzati” dell’ultima parte del romanzo:

Il bel pacchetto di fogli da mille lire che custodite dentro il vostro materasso […]. Finché rimangono pacchetto, sono la casa, la villa, il podere, i viaggi, sono le cose che più amate e desiderate di più, tutto sono, sono la felicità, ma divengono «nulla» allorché voi gli abbiate spesi per una cosa sola17.

16 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 335.17 Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 490.

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3. l’io è gli altri: un soggetto prismatico

Il gioco con le maschere teso, nel manifesto Equilibrio, a porre l’io al riparo dal proprio pathos dell’autenticità, viene sperimentato nella costruzione narrativa mediante il ricorso a un procedimento fanta-stico a evidente matrice comica.

Riflettendo ironicamente sul proverbio «Chi ha un amico ha il tesoro»18 (e i proverbi sono sempre dei piccoli sistemi filosofici tesi a sopprimere qualsiasi variabile), Palazzeschi prima esalta il valore di scambio che si istituisce nel rapporto con un’altra persona, ma subito riconosce, dolorosamente, che un tale rapporto non può essere alieno dal rischio della prevaricazione tesa a sopprimere la differenza:

E io del resto, che mai mi detti per uno stinco di santo, voi lo pote-te testimoniare, né per migliore di quello che mi sono, non vi pos-so al tempo stesso assicurare che ad un certo momento, nel tenerlo indietro, non mi fossi lasciato vincere la mano dalla satanica tenta-zione di tirarlo troppo, e a tal segno da pregiudicarne a fondo la personalità, e tutto il suo modo di agire e di pensare19.

Il discorso viene allora deviato all’interno della personalità dello scrittore stesso: l’amico tanto agognato è paradossalmente scoperto nelle pieghe di un’individualità che si riconosce tutt’altro che mono-litica.

La presunta unità psicologia viene scompaginata in una plurale e sconnessa frammentarietà di “reazioni”, che però, lungi dal mettere in crisi il soggetto, gli forniscono un valido apporto “vitale”, confi-gurando uno spazio mobile e libero da cui costantemente attingere al fine di aumentare le possibilità del soggetto stesso. Il passaggio dal piano del pensiero a quello dell’identità esalta, una volta di più, il valore anti-metafisico della possibilità, garantendo al soggetto una dilatazione dei propri percorsi e delle proprie opportunità.

La capacità di chiamare a raccolta elementi che l’Identità finzio-nale vorrebbe sopprimere, permette al soggetto di avventurarsi in “luoghi” che credeva a sé preclusi, educandolo così a un continuo esercizio alla differenza:

18 Ivi, p. 421.19 Ivi, p. 428.

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Il soggetto, procedendo in direzione di differenza, nella costru-zione della propria identità, sperimenta un’altra antinomia […]. Si tratta dell’antinomia che esprime la tensione tra unità e plura-lità, intendendo con il primo termine la consapevolezza delle pro-prie caratteristiche, risorse e limiti, e con il secondo termine la consapevolezza di poter giocare (con un senso di levità nietzschia-na) tali caratteristiche-risorse-limiti in modo differenziato, a se-conda del contesto, della relazione, della situazione, in cui il sog-getto si trova20.

La malattia storica della “coscienza” (vale a dire «il carattere di un individuo, che impone ordine e disciplina alla molteplicità moleco-lare e centrifuga dei suoi impulsi»21), quella malattia che, se non da Nietzsche, Palazzeschi aveva certamente potuto apprendere da Do-stoevskij, viene “aggirata” mediante il ricorso a dei simulacri identi-tari, utilizzabili positivamente dal momento che la stessa coscienza individuale (la sua presunta unità) è stata rivelata al soggetto come illusoria.

Ecco allora che la proliferazione delle maschere non vuole affat-to significare il declino della disponibilità all’azione del soggetto (come avviene, stante le stesse problematiche, in tanta letteratura del l’inettitudine22), bensì un potenziamento di questa disponibilità, vale a dire un potenziamento del carattere eminentemente potenzia-le della coscienza stessa.

L’eliminazione dei presupposti “realistici”, e l’approdo a una mol-teplicità di doppi fantasmatici, toglie peso alla realtà, non per appro-dare al nichilismo della sua definitiva eliminazione, ma per restituir-la al lettore (qui nell’equazione realtà-identità) nel suo carattere di alterità, cioè di possibilità in divenire:

L’amico negato dalla realtà, verrà riaffermato con una negazione fantastica della realtà, cioè con un’ironica negazione della negazio-ne. Il posto degli amici verrà preso da tanti simulacri23.

20 Silvia Leonelli, Molteplicità. L’identità personale tra narrazione e costruzione, cit., p. 184.

21 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 154.22 Cfr. Luigia Abrugiati, Il volo del gabbiano. Fenomenologia dell’inettitudine nella

letteratura italiana fra Ottocento e Novecento, Lanciano, Carabba, 1982.23 Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., p. 82.

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All’interno del procedimento narrativo Palazzeschi opera in mo-do del tutto surreale, l’ironia che avvolge di sé il reale è infatti sotto-lineata, per esempio, dalla modalità di apparizione di queste figure “amicali”:

allorché un brivido scosse tutto il mio corpo, un brivido fortissimo, mai ai miei giorni provato, e parvemi che… come un’ombra, nella rapida vertigine, un altro corpo uscisse dal mio corpo stesso24.

Se le prime tre di queste figure appaiono come «personificazioni del l’Es»25, tese a sospingere il protagonista verso un “piacere” che, se-condo i parametri della sua identità preformata, si sarebbe dovuto negare, provocando così una gioiosa liberazione del represso, non si deve però credere che qui il discorso palazzeschiano miri semplice-mente all’equazione “liberazione degli istinti inibiti-disalienazione del soggetto”. Le altre tre figure infatti, impersonando rispettiva-mente la coscienza morale26, il narcisismo e il masochismo, sottoli-neano, ancora una volta, come il punto centrale sia l’emancipazione delle possibilità inespresse, vale a dire la percorrenza di alternative che vadano a inficiare il presunto senso univoco dell’identità: «rifiu-to della fissità, stabilità e univocità dell’io, attraverso un riverbero prismatico che porta in scena le multiple proiezioni fantasmatiche del soggetto narrante»27.

Il contrappunto dialogico toglie infatti consistenza alla presunta graniticità del soggetto, sottraendolo alla fittizia gerarchia di un’Iden-tità, che tale può essere considerata solo perché costruita aprioristi-camente. Il passaggio dal monologo interiore (il protagonista che sa di non essere in grado di fare certe cose) al dialogo interiore (il simu-lacro identitario che costringe il protagonista a fare quelle stesse cose), apre spazi di molteplicità inattesa e polimorfizza la percezione

24 Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 431.25 Luciano De Maria, Palazzeschi e l’avanguardia, cit., p. 92.26 Cfr. Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 448: «Ma quan-

do avrete ben saputo chi è Gaspero, e vi avrò reso di lui conto a puntino, non mi direte più che ci sono a questo mondo amici buoni solo a menare sopra le vie del-la spensieratezza o del sollazzo, ma ch’altri ve ne sono, e non pochi, che tutto fan-no per condurre, o ricondurre, sopra quelle bensì della saggezza e della virtù, sulle quali ad altro non sono acciaccinati per la vita che ad ungere ruote e rotaie».

27 Gino Tellini, Introduzione, in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, i, cit., p. cxiii.

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compatta dell’identità: pone in relazione il soggetto con altri ruoli, con altre maschere, con altri personaggi, e ne decreta la natura “tea-trale”, vale a dire possibilista28, vale a dire disposta ad accogliere in sé l’altro, perché necessitata a farlo (solo nell’astrazione di un processo mentale l’alterità può infatti essere finzionalmente soppressa):

L’utilizzazione dell’alterità si rende evidente nei processi continui di formazione dell’identità. Se l’identità non è una sfera compatta e immobile come la «ben rotonda Verità» di Parmenide, se invece l’identità va continuamente “negoziata”, e negoziata in primo luogo con il tempo, oltre che con gli altri, ciò significa che i continui pro-cessi di formazione dell’identità sono anche processi “meta-bolici”, processi di trasformazione, di alterazione – e questo anche quando persiste, ed è esplicito, l’intento di dar luogo a continuità, di ripro-durre e conservare l’identità. Gli stessi processi di ri-produzione dell’identità pongono in luce che il carattere intrinseco dell’alterità, il suo essere interno all’identità, non è soltanto una questione di utilizzazione dell’alterità (una selezione di alternative all’interno di un orizzonte generale di possibilità già date)29.

Il soggetto scopre la possibilità di un’apertura all’interno della propria frantumazione, non cerca di serrarsi in un’unità, perché vive questa come una limitazione delle proprie capacità.

Se nella prima parte del romanzo Palazzeschi ha mostrato come un pensiero univoco possa impedire all’uomo di conoscere la realtà nelle sue più varie sfaccettature (richiudendola di conseguenza in una gabbia concettuale), la seconda parte ci mostra il rischio dello stesso procedimento quando questo viene applicato, mediante il fil-tro dell’identità, alle esperienze di un soggetto. Se là l’ironia scaturi-va dall’accostamento paratattico di due sistemi di pensiero divergen-ti, ma entrambi totalizzanti, qui, nel totalitarismo identitario sbef-feggiato dai simulacri, quella stessa ironia si forma sul declino della nozione forte di quel sistema assoluto che il Soggetto pretenderebbe di essere. I “fantasmi” appaiono invece a rivelare la sua porosità (che si rivela essere quel «tesoro» nominato all’inizio della sezione), e ov-viamente sono ben più dei sei che l’autore porta in scena:

28 Cfr. Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 447: «E se là po-tei un giorno arrivare colla mia persona vuol dire che si poteva fare».

29 Francesco Remotti, Contro l’identità, cit., p. 63.

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L’ho trovato il tesoro? Eh? Che ne dite? Ce l’ho? E a sei sportelli! Che posso aprire e chiudere come mi pare e piace. Che se poi mi piacesse a dodici o diciotto, a trentaquattro, a settecentotré o mille-quattrocentonovantuno io non avrei che a seguitare, ma non lo fo, sarebbe troppo, via, lo so30.

L’individuo tradizionale, quell’uomo che, secondo Nietzsche, era un ponte che andava superato verso una forma nuova di personalità, libera da quelle gerarchie che imprigionano la vita «nella camicia di forza dell’identità»31, è arrivato a un confine. Può sperare di tornare indietro solo mediante un’auto-falsificazione delle sue attuali condi-zioni, vale a dire solo mediante il ricorso a un’unità illusoria che lo preservi dalla propria dispersione. Ma quando l’unità è un’illusione, essa non fa che esasperare il nichilismo a esso sottesa, e rischia di spingere l’uomo sulla strada di un totalitarismo a matrice finzionale o, per opposto, sulla strada di una finzione a valenza totalizzante. Fra questi due estremi (entrambi connessi a un’esistenza unidimensio-nale) si situa, forse, un pensiero della “soglia” e dell’attesa, che però è anche un pensiero della frustrazione, cioè del desiderio che non può (e non vuole) essere soddisfatto, come le immagini possibilisti-che della fantasia: continuiamo a scalare la piramide.

4. il paradosso dell’irrealtà

L’esistenza è un’anarchia del chiaroscuro: nulla si realizzatotalmente in essa, mai nulla giunge a compimento; […]

nulla fiorisce sino allo stadio di vita reale. Vivere, ossiapoter vivere qualcosa fino in fondo. […] L’esistenza è il meno

reale e il meno vitale di tutti i modi di essere immaginabiliGyörgy Lukács, L’anima e le forme

Decretato umoristicamente, nell’incongruenza di un legame amica-le continuamente differito, il paradosso di un’esperienza che è tale solo quando riesce a sottrarsi al livello della realtà, Palazzeschi passa, nell’ultima sezione del libro, ad analizzare direttamente il piano del desiderio.

30 Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 458.31 Claudio Magris, Utopia e disincanto (1999), Milano, Garzanti, 2001, p. 148.

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La figura dell’uomo che ininterrottamente progetta viaggi (a Ve-nezia, a Roma, a Napoli, in Egitto), che li organizza nei loro minimi dettagli, che pregusta le meravigliose sensazioni che dovrà provare, e poi decide di non partire, decide, cioè, di cominciare a progettare un altro viaggio32, sviluppa un’attitudine alla fantasticheria che getta di-scredito sul valore dell’esperienza (e dunque sul valore del “fatto”) e, parallelamente, esalta il sogno come nuovo (e ovviamente ironico) livello di realtà.

Nel sogno non realizzato infatti l’esperienza può perdurare intat-ta, tutte le possibilità che essa, in prospettiva, può contenere, sono salvaguardate nelle ragioni di un godimento che non vuole porre li-miti a se stesso. L’approdo a un piano reale limiterebbe necessaria-mente le possibilità che la vita può dare, «il caleidoscopio della fan-tasia è incomparabilmente più vivido e appagante dell’esperienza pratica»33. Modulate ancora una volta sul registro comico, le fanta-sie dello scrittore si insinuano a indagare una serie di possibilità che la realtà del viaggio non potrebbe certamente offrire, ed ecco che, per esempio, la Roma fantasticata permette da un lato l’apparizione di figure storiche:

mi parrà d’un tratto, nell’ombra d’un’arcata, intravedere i fantasmi d’un convito, e in mezzo ecco: Nerone, ebbro e panciuto, sozzo, a sganasciarsi dalle risa, il budello, che come tutti i figli dei grandi e dei saggi gode e disperde nel bagordo e nella follìa la grandezza de-gli avi34.

e dall’altro la straniante rappresentazione di personaggi dell’attuali-tà, trasmessi al lettore, per l’appunto, non sul piano della forma che,

32 Cfr. Gino Tellini, Introduzione, in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, i, cit., p. cxi: «Il narratore programma un soggiorno a Venezia, poi a Roma, quindi a Napo-li, infine in Egitto. Ma non si muove da casa. All’ultimo momento il piano svani-sce, ma ne è subito designato uno nuovo. Non parte mai, ma prima di ogni man-cata partenza vive lungamente tra sé l’itinerario progettato: calcola le spese con puntigliosa esattezza; predispone denari, bagagli, abbigliamento; si fornisce con meticolosità di tutto il necessario; gusta le suggestioni dei luoghi affascinanti che lo aspettano; passeggia in quei luoghi, enumera gli incontri e le visite, annota i tragit-ti e le soste, immerso nella beatitudine di quei cieli; sorseggia un piacere che nes-sun ostacolo può vietargli».

33 Ivi, p. cxii.34 Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 464.

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realisticamente, dovrebbero avere, ma sul piano deformato che la fantasia permette:

E ancora sulla piazza, guarderò, prima di andarmene, in su, verso il palazzo pontificio, la camera del Papa, col vano desiderio di veder-lo ad un tratto affacciare alla finestra, come fosse una ragazza che aspetta le passi il fidanzato sulle ventitré, anderò sotto la casa delle sue sorelle, chi sa che non ne possa vedere una uscire o rientrare, chi sa che bella vecchina, sorella di un sovrano così grande che dà esem-pio di umiltà ai piccoli sudditi pieni di superbia. Ma forse saranno là dentro, col loro fratellone, e giuocheranno tutti insieme all’omo nero35.

L’abolizione del piano empirico non deve però certamente far pensare a una fuga di tipo onirico: l’immaginazione non è la trincea dentro la quale nascondersi al fine di poter evitare le delusioni della realtà, ma diviene una strategia critica e denunciante tesa a depriva-re di fondamento il piano attuativo, in quanto questo non potrà es-sere altro che limitazione delle possibilità insite nella vita36. La ri-nuncia alle cose a favore dei simulacri sottolinea del desiderio di vi-vere la vita nella sua interezza:

Non essendo altrimenti partito per Venezia, dopo aver vissuto per un mese quel sogno ed essermi per l’intero dato ad esso, io andai in gondola trenta giorni e non sette, e alla fine dei trenta la mia voglia di andare in gondola era rimasta intatta come il primo giorno, tale e quale37.

E dal momento che ciò che «dona in verità […] toglie in fan ta-sia»38, il paradosso che l’irrealtà del sogno instaura, mediante il pro-cedimento di frustrazione che indefettibilmente posticipa l’attuazio-ne del desiderio, diviene modo mediato di screditare la materialità dell’esperienza (dal momento che l’esperienza “davvero” concreta è quella del sogno) e esaltazione ironica delle “ombre”, in quanto co-

35 Ivi, p. 466. Il pontefice e le sue sorelle sono un bersaglio privilegiato di Palazzeschi: si ricordi la poesia Ginnasia e Guglielmina di L’Incendiario.

36 Cfr. Guido Guglielmi, L’udienza del poeta, cit., pp. 83-84: «Il sogno è comico: to-glie fondamento al mondo, non lo sostituisce né lo surroga».

37 Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., p. 474.38 Ivi, p. 480.

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struzioni fantastiche tese a svalutare la realtà nel momento in cui questa, realizzandosi, si propone come unico modello possibile:

io fui a Venezia, a Roma, a Napoli, è vero, sì, ma il viaggio reale che vi feci è proprio quello che turba la mia immaginazione […], s’io non fossi stato a Venezia, quanti colori di più essa avrebbe per me, i suoi canali, ponti, fondamenta portici e sottoportici, di quale fa-scino arcano risplenderebbero ai miei occhi s’io non sapessi a pun-tino come sono fatti, il mio sogno non avrebbe confini, nulla po-trebbe fermare la mia superba fantasia. […] Venezia, Roma, Napo-li sarebbero cento volte più grandi e più belle39.

Nella sua opera di demolizione Palazzeschi rifiuta la “positività” dello stesso desiderio: esso è tale solo quando riesce a darsi come esperienza negativa, quando cioè la sua realizzabilità, pur sempre attuabile, viene tuttavia meticolosamente procrastinata. La con-cretezza, dissociata dalla sua attuazione, viene associata comica-mente all’irrealtà, e questo perché la forma a cui la realizzazione del desiderio conduce si rivelerebbe, nel tramite della delusione, null’altro che forma, vale a dire esperienza ancora una volta in-completa, dunque non realmente appagante, un compromesso, una limitazione:

La vera esistenza è sempre non reale, non è mai possibile per l’esi-stenza empirica. Si sprigiona una luce, un sussulto improvviso, come un lampo, che oltrepassa i suoi banali sentieri, […] non può durare, non è possibile adattarvisi, non si può vivere alle sue altezze40.

Ecco dunque che, sulle ironiche possibilità di una vita non vissu-ta, comincia a svilupparsi quel paradossale elogio dell’attesa su cui il romanzo si chiude, elogio che se da un lato mira all’esaltazione del-l’irrealtà, dall’altro scopre di farlo solo come opzione critica, vale a dire strategia tesa a puntare a un “ideale” da non raggiungere mai:

«Possa tu non arrivare a Venezia! […] oh! se ci fosse per tutti una città sulla terra, […] come Venezia, anche più buffa, anche più stra-na, anche più bella, una città così, che faccia tanto sognare, ma una vera città, nella quale gli uomini veri respirano e camminano e ama-

39 Ivi, p. 478.40 György Lukács, L’anima e le forme, cit., p. 232.

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no, colle loro case e i loro alberghi, il cui nome è sulle carte geogra-fiche e sugli orari delle ferrovie, sulle loro tariffe, dalla quale si man-dano lettere e cartoline illustrate agli amici e ai parenti, ma alla cui stazione giungendo il fischio della locomotiva fondesse l’ultimo re-spiro del petto»41.

La stessa oggettivazione, qui a valenza tragica, del pensiero, viene infatti immediatamente soppiantata dalla reimmersione nella quoti-dianità, nel relativo, nel contingente:

Poi pensai a me, pensai ch’ero sudicio, che avevo fame, guardai se le mie valigie c’erano tutte sulla carrozza, le valigie e l’impermeabile, l’ombrello, il bastone… i mille diavoli degli arrivi e delle partenze, cose che tutti conoscete bene quanto me42.

Nel passaggio finale all’analisi del rapporto umano con le cose (dopo le idee, dopo gli uomini, dopo i luoghi: la piramide continua ad assottigliarsi), il discorso palazzeschiano procede ormai su binari prefissati. Comprare un oggetto vuol dire soltanto condannarsi alla fine delle fantasticherie su quell’oggetto, e al passaggio al desiderio di un nuovo oggetto43. La “cosa” è abitata da un nulla che la vanifi-ca e la disgrega, a contare davvero è la sua ombra, perché quell’om-bra permette lo smascheramento di questo «nulla» e, al contempo, la sua paradossale trasformazione (a patto di non acquistare la cosa) in qualcosa di reale, cioè di realmente significativo.

L’attesa della perfezione, l’attesa di una vita che possa compiersi senza rinunciare ad alcuna parte di sé, coincide con la rivelazione di un’ironica verità che, lungi dal formare il mondo, conduce al senso del suo franare, perché solo l’accettazione di ciò può portare al supe-ramento di una condizione che si è riconosciuta aliena da qualsiasi speranza ingenuamente formativa:

E per questo irto cammino, giunto io sono alla sommità della pira-mide: solo quassù.Chi sa cosa credete ci sia venuto a fare.

41 Aldo Palazzeschi, La Piramide, in Tutti i romanzi, i, cit., pp. 486-487.42 Ivi, p. 487.43 Cfr. ivi, p. 490: «Ebbene, se io comprerò la fruttiera, il mio cuore non sarà più suo,

ma forse di un bricco o di una zuccheriera che ammirerò ogni giorno passando din-nanzi a quella o ad un’altra vetrina».

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Ah! Ah!Nulla, a pigliare… un po’ di sole44.

La presenza del “problematico” che la parola clownesca, proprio nel suo porsi come parola paradossale, nasconde, diventa allora ri-fiuto delle facili compensazioni che la violenza dell’essere, nel suo volersi dare una volta e per sempre, prospetta.

Come ebbe a scrivere Eugenio Montale La Piramide è «un libro che se fosse stato scritto da un esistenzialista francese avrebbe fatto il giro del mondo»45, in esso il decadimento delle gerarchie del discor-so e del pensiero (specchio del decadimento dell’ordine del reale), si accompagna al rifiuto di chi prospetta l’edificazione di nuove gerar-chie, ma nella speranza di un desiderio continuamente frustrato, ri-attiva il valore, benché ironico e negativo, di quel desiderio: «Una voce dice che la vita non ha senso, ma il suo timbro profondo è l’eco di quel senso»46.

5. un desiderio contraddittorio

questo odio contro l’umano, più ancora contro il ferino,più ancora contro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi,alla ragione stessa, il timore della felicità e della bellezza,

questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza […],dal desiderare stesso – tutto ciò significa, si osi rendercene

conto, una volontà del nulla, un’avversione alla vitaFriedrich Nietzsche, Genealogia della morale

Pubblicato postumo nel 1988, ma scritto probabilmente durante gli anni lacerbiani47, l’Interrogatorio della Contessa Maria è, sotto molti aspetti, l’opera più complessa della produzione giovanile di Palazze-schi. Il sodalizio intellettuale fra il poeta «succiainchiostro»48 e la contessa con alle spalle quattromila amanti, si sviluppa in una arti-

44 Ivi, p. 499.45 Si può leggere questo passo nella già citata nota al testo presente in Aldo Palazze-

schi, Tutti i romanzi, i, cit., p. 1551.46 Claudio Magris, Utopia e disincanto, cit., p. 13.47 Si rimanda alla nota al testo presente in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, ii, a

cura e con introduzione di Gino Tellini, Milano, Mondadori, 2005, pp. 1657-1682.48 Aldo Palazzeschi, Interrogatorio della Contessa Maria, ivi, p. 1085.

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colata riflessione sul significato della morale e del desiderio (e non a caso Palazzeschi afferma, con la consueta ironia, che questo scritto, più che per il suo valore artistico, va considerato come «documento umano, morale, e anche […] un tantino scientifico»49).

Dinnanzi alla supposta amoralità della contessa50, il letterato, che pure afferma essere «ferito» dalla condotta comportamentale di co-stei, si oppone ai facili giudizi della gente51, e intraprende un’amici-zia destinata a produrre una serie di dialoghi estranei a una possibi-lità sintetica conclusiva:

io mi sono sobbarcato tanta fatica sopra le spalle per poter giunge-re con voi ad una possibile ed equa conclusione, ammesso che con-clusione si possa trarre su questo argomento52.

Le due figure al centro della scena, simulacri teatrali dello stesso Pa lazzeschi, sembrano rispettivamente rappresentare una costante sublimazione tesa a porre l’Io al servizio della pulsione di morte e un potenziamento abnorme di un Es53 metaforicamente emerso ed ever sivo54 (il coro della «gente» sembra invece esprimere, reichina-mente, una mera sublimazione culturale basata sulla repressione e sulla rimozione delle contraddizioni dell’inconscio mediante la mes-sa in gioco di ideali alienanti55). Le cose sono, come vedremo, assai più complesse: il romanzo rifiuta interpretazioni univoche e, me-

49 Ivi, p. 1078.50 È stato più volte ribadito che i modelli diretti del testo potrebbero essere il Mani-

festo della donna futurista e il Manifesto della Lussuria di Valentine de Saint Point e l’articolo Contro la morale sessuale di Italo Tavolato. Cfr. Cristina Caracchini, La Contessa Maria, Valentine e gli altri: per una rilettura intertestuale dell’«Interrogato-rio», nell’opera collettiva L’arte del saltimbanco. Aldo Palazzeschi tra due avanguar-die, cit., pp. 101-125.

51 Cfr. Aldo Palazzeschi, Interrogatorio della Contessa Maria, in Tutti i romanzi, ii, cit., p. 1073: «Poco alla volta mi si insinuò nel cervello la convinzione che sotto quel cumu-lo di equivoci, di incongruenze dovesse esistere una vera grande profonda moralità».

52 Ivi, p. 1080.53 Cfr. Georg Groddeck, Il libro dell’Es (1923), Milano, Adelphi, 2006, p. 14: «Io ri-

tengo che l’uomo sia vissuto da qualcosa d’ignoto: vi è in lui un Es, un’entità pro-digiosa che dirige tutto ciò che egli fa e tuttò ciò che gli accade».

54 Cfr. Sigmund Freud, L’Io e l’Es (1923), Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 70: «L’Es, guidato dal principio di piacere» lotta per condiscendere «nel modo più sol-lecito possibile alle richieste della libido non desessualizzata».

55 Non a caso all’umanità verrà riservato l’appellativo di “buffa”, vale a dire di incapa-ce a proiettarsi oltre il senso univoco delle cose.

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diante una fitta rete di contrappunti, sottrae al lettore la possibilità di una definizione sicura.

Cominciamo col dire che la contessa (donna disinteressata al proprio nome56 e dunque simbolicamente indifferente ai tentativi identitari che su di lei si proiettano dall’esterno57) propende per una concezione del desiderio che, estranea alla tradizione platonica, non si precisa mai come “mancanza”: la perdita dell’oggetto desiderato (e più volte ribadisce come sovente non sia riuscita a conquistare un uomo) non produce mai, in lei, la valenza tragica del rimpianto58. Estranea a un’idea di perfezione (non a caso la «gente» la definisce, fra le altre cose, «nikilista»59) rifiuta l’illusione di quel «di più»60 che il letterato più volte gli prospetta:

– Io ho dato sempre tutta me stessa, è solamente dando tutto che si può avere tutto, il tuo «di più» non esiste, è evasione, è malattia […].– Ma ci sono donne a questo mondo, e ci sono uomini anche capa-ci di uccidersi per l’altro.– Bei campioni quelle tue donne e quei tuoi uomini, si nasce per vi-vere e non per uccidersi, è tanto semplice…! Creature guaste e de-boli. […] O incapaci di misurare gli altri e sé, credono ad un certo momento aver toccata la cima della vita e della felicità. Ma la vita non è l’organismo di una combinazione, poveri noi allora, ma è l’organismo di miriadi di combinazioni, miriadi di contatti, si toc-ca mille volte la cima!61

Gettando nuovamente un’ombra ironica sulla “cima” della Pira-mide, la contessa sposa il godimento come criterio dell’utile e del giusto, serrandosi nella “verità” della Natura opposta alla «falsa co-scienza» degli uomini, la quale è tradotta infatti in termini di impo-stura, cioè, dal suo punto di vista, di malattia62. Il «di più» a cui il

56 Cfr. Aldo Palazzeschi, Interrogatorio della Contessa Maria, in Tutti i romanzi, ii, cit., p. 1090: «ma poi…“chiamami pure come ti pare che mi fa lo stesso…”».

57 Cfr. ivi, p. 1226: «E ci scrissi una Maria, tout court, grande come una casa, che se poi volevano che mi chiamassi Penelope, li avrei fatti contenti».

58 Cfr. ivi, p. 1093: «io non perdei nulla, non ho nulla da piangere, ebbi la mia parte precisa».

59 Ivi, p. 1087.60 Ivi, p. 1098.61 Ivi, pp. 1098-1099.62 Cfr. ivi, p. 1093: «te l’ho detto, non sono mai stata malata, e l’amore per me sbocca

in un buon pranzo, o in un buon sonno».

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letterato si richiama è invece l’eco moderna di un’antica condanna mascherata, quella che (in Platone, in Plotino, in S. Agostino, ecc.), decretando l’impossibilità per l’anima di accontentarsi delle “cose del mondo”, di questa tesi si serve per sancire la svalutazione di quel-le stesse cose (non a caso la famiglia della contessa si aspetta il suo pentimento e attribuisce il suo comportamento a un errore di giudi-zio). Di fatto la società brama che entri in gioco il Super-Io della contessa (e a tal fine la definisce «prostituta»), ma la contessa è stra-ordinariamente al di là di questa prospettiva:

La prostituta è la prima a sentire il proprio male e la prima a soffrir-ne, la prima nel fondo di se stessa a giudicarsi e ti chiede la pietà; la società, questo purissimo agnello, che ne ha bisogno per i suoi fini, non la libera mai ma le piagnucola a rispettosa distanza. Io non ho mai sentito nessuna voce di dentro che mi rimproverasse63.

Su questa strada ben si spiega anche l’odio che Maria prova nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche. Decretando il suo disprez-zo per l’ipocrisia pretesca (tesa a sostituire alla vita un’immagine for-malizzata di questa64), ne rifiuta il modello opponendogli un’idea di-versa di virtù:

Tu intendi per virtù rinunzia, sacrifizio, mancare alla vita, soffocar-la, rinnegarla, ahimè! Virtù è vivere la propria natura interamente, senza sacrifizio degli altri ma nemmeno di sé, non mentire mai né con alcuno, non ingannare mai nessuno, e soprattutto, non ingan-nar se stesso mai65.

Rifiutandosi alla meccanica subliminante, la contessa accoglie, in parte, le tematiche canoniche del Don Giovanni (che spesso si pre-senta, del resto, come uomo senza nome): obbedisce al kairós facen-dosi figura polútropos, e sposa, di volta in volta, la convenienza del

63 Ivi, p. 1095.64 Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi (1929), Torino, Bollati Bo-

ringhieri, 1999, p. 220: «La religione […] impone a tutti in modo uniforme la sua via verso il raggiungimento della felicità e la protezione dalla sofferenza. La sua tec-nica consiste nello sminuire il valore della vita e nel deformare in maniera deliran-te l’immagine del mondo reale».

65 Aldo Palazzeschi, Interrogatorio della Contessa Maria, in Tutti i romanzi, ii, cit., p. 1122.

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momento, denunciando, con la sua sfrontatezza, i falsi ideali degli uomini. In ciò il suo desiderio sembra voler continuamente rilancia-re nuove possibilità di vita e, in ogni incontro sessuale, un nuovo suggello di liberazione. Ogni incontro si presenta infatti come diffe-rente, l’idea stessa di ripetizione è rigettata (si ricordi quanto detto per I cavalli bianchi) come presupposto di morte: «Ripetersi vuol dire tornare indietro, morire»66.

La liberazione del desiderio dalla sua componente peccaminosa opera un sovvertimento della gerarchia corpo-spirito su cui la metafi-sica si fondava e forniva, al contempo, «quei terribili bastioni con cui l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti della libertà»67 che, impossibilitati a esprimersi, finivano per rivolgersi, sot-to forma di cattiva coscienza (di Super-Io?), «contro l’uomo stesso»68.

La concezione platonico-cristiana, indirizzata a considerare la vita come errore, apparenza e illusione (contrapponendo a essa il va-lore divino-iperuranico di una Verità), viene rigettata nelle ragioni di una Natura dionisiaca abitata da un soggetto desiderante (dun-que incoerente) teso a sottolineare la discontinuità della coscienza identitaria: la contessa verrà infatti definita «pagana» a più riprese.

Considerandosi in termini di «equilibrio»69 (richiamando dun-que il manifesto lacerbiano) muove il suo “basso” desiderio al fine di porre in crisi, di volta in volta, le ragioni “cristallizzate” della mora-le umana.

6. il «succiainchiostro»: la sublimazione dialogica

non c’è soggetto fisso che per la repressione.Gilles Deleuze - Felix Guattari,

L’anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia

Il ruolo di sparring partner che il letterato assume nei confronti del-

66 Ivi, p. 1101.67 Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 74.68 Ibidem.69 Cfr. Aldo Palazzeschi, Interrogatorio della Contessa Maria, in Tutti i romanzi, ii,

cit., p. 1096: «– Nulla mi sfugge di quello che si dice o si pensa su di me da tutte quelle rispettabili persone […], e mi serve per poter misurare […] il loro disagio di fronte al mio equilibrio».

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la contessa è anch’esso, in quanto forma intermedia fra le opinioni della gente e quelle della protagonista, non privo di ambiguità70.

Nelle prime pagine del romanzo Palazzeschi fa del resto dichiara-re a questo sua proiezione che le considerazioni della contessa erano già elemento delle sue precedenti riflessioni:

Voi potrete bene imaginare come affermazioni di questa specie da parte di una donna mi lasciassero sul principio perplesso, già di per me tanto travagliato da simili problemi71.

Eppure, nel ruolo maieutico che gli compete, il «succiainchio-stro» pare condannato a una coazione a simbolizzare tesa a far pen-dere la sua figura più dalla parte della società che da quella della sua interlocutrice, più verso le regole degli uomini (o almeno verso i meccanismi sublimatori che permettono il mantenimento di queste regole) che non verso lo spazio di libertà che la contessa apre, più verso Thanatos che verso Eros:

– Hai codesto male. Vivi inappagato sempre, vivi di quello che fu, e che non è mai stato, di quello che dovrà essere, e che poi non sarà, di quello che non è, di quello che non si sa, mai di quello che è72.

Cercando ripetutamente nella contessa, se non un segno di pen-timento, un’aspirazione idealizzante tesa ad andare oltre l’immanen-za del momento, il letterato non fa che prolungare (ma nelle forme del sublime artistico o naturale) il meccanismo repressivo della so-cietà, che, innalzando sul nulla aspirazioni idealizzanti, tende a sot-trarre valore alle esperienze parziali del presente. L’idealizzazione permette infatti la creazione illusoria di un mondo a valenze defini-te e definitive (“sarai felice sei farai questo…”) che, proiettando fuo-ri dalla contingenza e temporalità dell’esistenza i “veri” valori, vuole sottrarre importanza ai… piaceri del momento.

70 Cfr. Paolo Febbraro, La tradizione di Palazzeschi, cit., p. 262: «lo scrittore […] in-trattiene con lei un rapporto ambiguo di sudditanza e ribrezzo, di complicità par-tecipe e di riprovazione: la sottrae di fatto alla persecuzione collettiva, ma lo fa ac-costandosi a lei nella modalità quasi altrettanto persecutoria dell’interrogatorio».

71 Aldo Palazzeschi, Interrogatorio della Contessa Maria, in Tutti i romanzi, ii, cit., p. 1082.

72 Ivi, p. 1149.

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Ma l’elaborazione della realtà sotto la scorta della precompren-sione non può che condurre a una continua paura nei confronti del-la realtà (ed è impossibile in ciò non riconoscere le movenze del pri-missimo Palazzeschi), e di conseguenza a un tentativo continuo, e continuamente frustrato, di mantenere la vita all’interno di schemi precostituiti. Quando infatti, durante una rappresentazione della Norma, la contessa decide di alzarsi per seguire un caffettiere, ciò provoca la reazione sdegnata del letterato che, nel suo atto di accu-sa, non a caso finisce per richiamarsi a quei rassicuranti valori bor-ghesi che pure afferma di disprezzare: «è una questione di forma, pu-ramente di forma»73. E il suo richiamo al valore della “civiltà” contro quello della “natura” lo riconduce al suo ruolo “disperato”, per l’ap-punto quello di creatore di forme, vale a dire di precomprensioni della realtà: «Io non sono un uomo della natura, coi vostri bei siste-mi ci riportate ai tempi di Adamo ed Eva, nel paradiso terrestre. In tanti secoli la civiltà ha camminato»74.

Non a caso la felicità a cui la contessa riesce ad approdare (la stes-sa felicità che secondo le idealizzazioni sociali le sarebbe negata) è ir-raggiungibile per il suo interlocutore:

Ella era tanto contenta, i suoi occhi parevano più grandi e sfavilla-vano la gioia e la salute.Le camminavo accanto, pure felice sì, ma qualche cosa m’impediva d’esserlo appieno, e mi appagavo, per arrivare più in su, di rispec-chiare la sua felicità75

Ed ecco, subito dopo questo passo, ricomparire quelle «siepi di marruche»76 che già avevamo visto operanti in Il controdolore, a sot-tolineare la necessità di un atteggiamento incoerente e contradditto-rio, come il desiderio, al fine di superare, nella via per la gioia, lo sco-glio del dolore.

Eppure, e questa è la grande ambiguità del romanzo, la posizione della contessa non è semplicemente assimilabile a quella di Palazze-schi: Maria rappresenta infatti un altro “ideale”, quello tutto partico-

73 Ivi, p. 1126.74 Ivi, p. 1128.75 Ivi, p. 1148.76 Ibidem.

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lare della contingenza, e in ciò, come vedremo nel prossimo paragra-fo, non è affatto aliena da assolutismi e da derive unidimensionali.

Alcuni critici hanno del resto potuto vedere in lei una rappresen-tazione dell’avanguardia, ma, nel suo primato vitalistico, la sua “idea” di avanguardia non può certo coincidere con quella palazze-schiana, e non a caso afferma: «E le tue combinazioni a numero spo-stato si risolvono in superficiali e idiote ammirazioni da esteti d’ac-cademia, o in acrobatismi da saltimbanchi»77.

L’incondizionato primato della vita l’avvicina piuttosto all’ideo-logia futurista, e infatti, guardandola, il letterato ha l’impressione di «vedere in lontananza tutti i volumi delle più nazionali biblioteche e musei ruinare in un pozzo senza fondo»78.

L’ideale “corporeo” che difende, pure per la società ambiguo, non ammette l’emersione della contraddizione: ha buon gioco, ed è da Palazzeschi esaltato, quando si inserisce in un rapporto dialogico con le tentazioni formative degli uomini, ma si serra in se stesso pri-vo di antinomie quando pretende di darsi come valenza positiva ir-relata, ed è infatti, per esempio, sicuro nella sua esclusione del “do-lore”, che invece Palazzeschi pone, nel manifesto del 1914, come ele-mento fondante della sua strategia:

– Ma la tua scioccheria non è di buona lega, vien su dal fegato e non dal cuore, è amara e inquina il sangue, il tuo riso è una civetteria del pianto, no no, io intendo l’allegria semplice, sicura, senza doppio fondo, il riso ch’è un respiro felice non scavato a fatica, né d’altron-de epidermico per idiozia, ride ride un bel bambinone… senza sa-per perché, ride perché è contento, perché si sente bene, perché non ha pensieri, o se gli ha non se la piglia79.

Il fatto che, nella relazione dialogica, modifichi le sue idee più il «succiainchiostro» che la contessa non è certo un punto a favore di quest’ultima, anzi, in quanto meta e modello dell’ideale contingen-tistico palazzeschiano, la contessa mostra tutti i rischi connessi al raggiungimento di quell’ideale: il diventare a sua volta un sistema chiuso e privo di alternative, privo cioè della costante emersione del-

77 Ivi, p. 1111.78 Ivi, p. 1082.79 Ivi, pp. 1145-1146.

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la possibilità di un senso altro delle cose. Il fatto che Maria teorizzi la sua condotta di vita, il fatto che la formi, durante l’Interrogatorio, in un sistema di pensiero, funziona a riprova di ciò. Verso il molte-plice si è sempre in cammino, pensare di raggiungere Proteo e di ab-bracciarlo vuol dire, ancora una volta, ritrovarsi fra le mani la testa di Medusa.

7. eros: un monologo performativo

È notte: dover essere luce! E sete di notturno! Esolitudine. È notte: ecco, il mio desiderio erompe da

me come una sorgente – il mio desiderio è di parlare.Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra

Per essere una rappresentazione della vita tesa a “eccedere” qualun-que sistema normativo, la contessa Maria è fin troppo desiderosa di parlare, è cioè fin troppo proiettata a sancire le ragioni speculative del suo agire: «ella è istinto e ancor più riflessione sull’istinto, alter-nativa polemica e matura alle distorsioni operate dalle convenzioni sulla saggezza del corpo»80.

Il raddoppiamento “grammaticale”81 della sua condotta di vita fi-nisce per gettare un’ombra su quest’ultima. La necessità, intrinseca al dialogo col letterato, di esporre un punto di vista che, per farsi for-te, deve anche darsi come risolutivo, la costringe a un irrigidimento di natura filosofica subito messo in mostra dal «succiainchiostro»: «– Eccovi, grande nemica della filosofia avete realizzato un piccolo si-stema: ortografia rudimentale»82.

Se è vero che la contessa si presenta estranea alle tematiche con-suete di un vitalismo a matrice decadente, essa tende pericolosamen-te a consonare, nelle sue riflessioni, con le tesi delle varie “filosofie della vita” che in quegli anni andavano sviluppandosi. Queste (in real tà ben lontane dalle accuse di irrazionalismo che la critica marxi-sta e quella cattolica hanno fatto gravare su di loro), pur tese nel ten-

80 Paolo Febbraro, La tradizione di Palazzeschi, cit., p. 258.81 Cfr. Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 44: «La “ragione” nel lin-

guaggio: oh, quale vecchia donnaccola truffatrice!».82 Aldo Palazzeschi, Interrogatorio della Contessa Maria, in Tutti i romanzi, ii, cit.,

p. 1152.

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tativo estremo di salvaguardare la natura pluriprospettica della real-tà (e questo è il loro principale punto di contatto con la filosofia nietzschiana), dovevano poi smarrirsi nel vicolo cieco di quella che Magris ha brillantemente definito come «totalità additiva»83, vale a dire assolutizzazione di un contingente deprivato di alternative a sé, punto limite di un tradimento del dionisiaco proprio nell’afferma-zione di questo. Il dionisiaco nietzschiano non è infatti l’identifica-zione con il flusso della vita, ma, per l’appunto, il desiderio di que-sta identificazione, e insieme la sua mancanza:

La verità del dionisiaco è la sua tensione utopica, la sua irrealizzabi-lità; la pretesa di realizzarlo immediatamente […] non conduce al dionisiaco bensì ad un altro apollineo, ad un codice altrettanto rigi-do e coatto di forme e rituali84.

Nello spiegare le sue ragioni la contessa fa riemergere il fondo apollineo della propria prospettiva, fa cioè riemergere la propria “co-azione a simbolizzare” (la propria interna necessita formativa), come quando, ricordandosi prigioniera nella casa paterna, si lascia andare a similitudini indulgenti al patetismo:

Come l’uccello che dopo una lunga prigionia riesce a fuggire dalla gabbia, ma che dopo due voletti appena vien riacchiappato, ripreso, nel giardino vicino, sulla finestra accanto o dirimpetto, perché tut-ti sono contro di lui, tutti, per farlo ritornare lì, nella gabbia, a con-sumare il suo dolore il suo sacrifizio85.

Ma anche come quando pretende di racchiudere in leggi immor-talanti proprio la sua ansia di vita: «La vita è lotta, dove più è lotta più è vita, e nella lotta vince sempre il più forte, o il più astuto»86. Ecco allora che la riconquista di un “centro”, proprio nella dichiara-zione del suo rifiuto, torna, nelle dichiarazioni del letterato, a essere spettro gravante sul molteplice: «– Questo vostro pensare sempre alla stessa cosa, l’averne fatto il centro della vita, dell’universo…»87.

83 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 386.84 Ivi, p. 380.85 Aldo Palazzeschi, Interrogatorio della Contessa Maria, in Tutti i romanzi, ii, cit.,

p. 1183.86 Ivi, p. 1229.87 Ivi, p. 1121.

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Ma, si badi bene, non si sta qui cercando di sottrarre positività alla figura della contessa, si sta invece dicendo che il suo messaggio riesce a darsi come performativo quando, nel relazionarsi alle opposte visioni della «gente» e del «succiainchiostro», pone in crisi quest’ultime met-tendo in mostra il loro carattere idealizzante e sublimatorio. Quando invece, facendosi teorizzazione, si espone a sua volta alle secche immo-bilizzanti della formazione, è allora la parola del letterato a salvaguar-dare le istanze anti-formative del monologo erotico della contessa.

Palazzeschi, inventando una figura che esprime così compiuta-mente la sua prospettiva utopica, ha complicato incredibilmente il suo “gioco”, ma non è caduto certo nell’errore di sposare un singolo punto di vista, e questo perché la sua utopia coincide con il propo-sito, critico e fantastico, di salvaguardare la vita come possibilità, dunque come continua emersione di differenza, anche contro un personaggio che della differenza è certo un alfiere.

Il punto di vista che si crede “giusto”, che crede cioè di poter rac-chiudere in sé tutta la varietà della vita, è comunque, avrebbe detto Nietzsche, quello di un «fanatico». A salvaguardare l’insegnamento della contessa interviene il consueto passaggio dall’uno al plurale, dal monologo al dialogo, perché nel dialogo le due prospettive si de-centralizzano a vicenda, ricalcando così uno dei contrasti decisivi del testo: quello fra arte e vita.

8. l’attimo e le forme

E come avrei potuto fermare ciò che trovaiirreparabilmente destinato a fuggire?

Aldo Palazzeschi, Vita

Il frammento Vita (anch’esso temporalmente riconducibile agli anni lacerbiani88) opera in stretta correlazione con l’Interrogatorio89, spo-stando parte del contrasto fra la contessa e il letterato all’interno

88 Si rimanda anche in questo caso alla nota al testo presente in Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, ii, cit., pp. 1683-1690.

89 Si noti, ad esempio, il costante riferimento a quel «di più» che abbiamo visto all’ope-ra nell’Interrogatorio. Cfr. Aldo Palazzeschi, Vita, in Tutti i romanzi, ii, cit., p. 1271: «quella citrullagine beata, quella santa idiozia, erano la vita, e la perdei, voltai lo scu-do d’oro per lo scudo di piombo, volli “di più” e mi fu dato “nulla”, fui pagato così».

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dell’io stesso. L’incapacità dell’arte a cogliere la vita è qui modulata in una declinazione tragica:

E io stesso, rileggendo quelle parole, riudendo quei suoni, rivedendo quelle linee o colori, ed essendo ancora vivo nel mio ricordo il prodigio di quel divino istante, sentirò che lì è in gran parte, magari il mio sen-tire, ma non vi è tutto, qualche cosa vi manca, come un ultimo tocco, una scintilla, a che la rappresentazione possa fondersi colla realtà90.

L’arte si fa ora strumento di “chiusura”, essa è in grado solo di re-stituire «una mummia, un fantasma»91 della vita92. Inoltre l’artista, dedicando parte del suo tempo alla creazione, finisce per perdere la possibilità di prender parte alla vita, e infatti viene talvolta descritto nei termini di un cadavere:

«Bene» mi dite «tu avesti cento e a noi è venuto soltanto venticinque, pazienza, ci contentiamo così, meglio che niente».Ah! bene, vero? bene? Ma perché voi aveste questo venticinque io perdei il cento che passava […] Sono i dunque un transito di felici-tà e bellezza? null’altro, un miserabile corridoio dove la bellezza pas-sa e non rimane […], mi adagio lentamente sopra il mio divano, come sopra un lettuccio funerario93.

Il ruolo dell’artista viene dunque passato al vaglio di una raziona-lità spietata che, riprendendo (come a breve vedremo) l’armamenta-rio teorico della contessa, si risolve in un drammatico atto d’accusa:

Guardali bene in faccia i tuoi poeti!Gobbi di dentro, gobbi di fuori, pazzi, paranoici, ossessionati di grandezza o di miseria, epilettici, tubercolotici, invertiti alcoolizza-ti, timidi, collerici, vendicativi, […] operano acciò tu debba rinun-ziare a quello ch’essi furono dannati a rinunziare, […] rinunziando alla loro poca vita abbracciarono la morte94.

90 Ivi, p. 1243.91 Ivi, p. 1244.92 Cfr. Luigi Pirandello, L’umorismo, cit., p. 160: «Anch’essa l’arte, come tutte le co-

struzioni ideali o illusorie, tende a fissare la vita: la fissa in un momento o in vari momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo, immutabile. Ma, e la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione conti-nua in cui le anime si trovano?».

93 Aldo Palazzeschi, Vita, in Tutti i romanzi, ii, cit., pp. 1246-1247.94 Ivi, pp. 1252-1253.

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vii. la piramide e l’interrogatorio 205

La vita non dimora più nella totalità, il desiderio “simbolico” dell’arte è rigettato come illusione, la dimensione in divenire dell’esi-stenza non può pacificamente adagiarsi nelle forme:

Perché fermare le imagini che il mio cervello struggendosi coglieva nel tempo? […] Bisogno di moltiplicare la vita, quando quella sol-tanto era la vita, e non si doveva domandare di più, senza perdere, senza fermare se stesso?95

Il nichilismo palazzeschiano tocca qui il suo punto estremo, e tanto più si fa atroce perché la verità terribile sottesa alla creazione artistica viene (dopo la tirata sui «poeti gobbi») espressa in un brano di evidente matrice leopardiana:

Si sgretolano le piramidi, la sfinge è sgretolata, le lingue tacciono, muoiono, le volte crollano, le tele si scolorano. Che sappiamo più noi di quello che fu fatto cento secoli fa? Mille, mille millenni? Mille mil-lenni di millenni sono un attimo solo. Atene e Roma di ieri sono macìe e sassi, e che n’è di tutte le metropoli che furono, delle quali nulla sappiamo e più non sono nemmeno nel lontano ricordo?La lingua di Omero non si parla più, e non si parla più quella di Virgilio, domani non si parleranno più quelle di Dante e di Shake-speare e di Goethe e di Kleist e di Dostoevskij e di Tolstoi e di Cer-vantes e di Baudelaire.«Non voglio morire» disse il battito del mio cuore nel momento su-blime del rapimento, sciagurato quel grido, la mia mano colse in quell’ebbrezza il frutto nero e: «morte» tutto rispose intorno96.

È qui la parola stessa, l’improvvisa formazione edificata dall’arti-sta («non voglio morire»), a far risuonare il vocabolo «morte», a mor-tificare cioè la vita nel tentativo vano di rappresentarla, nel tentativo di contenerla in una definizione. Palazzeschi non si fa illusioni, non abiura alla propria natura d’artista, ma non pensa (e in ciò si proiet-ta già oltre tanti autori modernisti) che l’arte possa restituire inte-gralmente l’esistenza97. Il grido prodotto dal poeta al termine della

95 Ivi, p. 1265.96 Ivi, p. 1266.97 Cfr. György Lukács, L’anima e le forme, cit. p. 70: «La psicologia della poesia è

sempre univoca, poiché è sempre una psicologia ad hoc, e anche se sembra artico-larsi in diverse direzioni, questa sua polivalenza è sempre univoca; può raffigurare

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sua riflessione non può che restituirgli il «frutto nero» di qualcosa di deceduto, di pietrificato, proprio come il monumento che il prota-gonista immagina che i posteri gli ergeranno: statua priva di vita, forma.

A ciò risponde con un’ironia che è la consueta esaltazione della “provvisorietà”:

No amici, no, no no, se mi fate così di certo vi sbagliate, non fui saggio, non fui saggio ohibò! Voi mi dovete fare quando eseguivo una piroetta, e sopra un piede solo, allora sì che ci sto!98

Un simile confronto fra arte e vita si sviluppa anche nelle pagine dell’Interrogatorio:

– Contessa, perché non racchiudete in poche pagine queste vostre affermazioni sicure, spontanee, le vostre impressioni, la testimo-nianza del vostro modo di pensare e di agire, di giudicare, di senti-re; della vostra limpidissima coscienza muliebre? […]– Letterato! Letterato! Tu non mi potevi dare altro consiglio. […] Che cosa importa a me di scrivere o di descrivere, di discutere quel-lo che sento e faccio? Quello che faccio faccio… ed è fatto bene. […] io sono un capolavoro della vita, non dell’arte99.

La critica all’istituto artistico viene poi raddoppiata in una requi-sitoria comica contro alcuni dei massimi poeti italiani: Leopardi è descritto quale «gobbo infetto» che «non contento di precipitare i fradici come lui tenterebbe di ficcare il tarlo dentro il cranio dei sani»100; Carducci è un «vecchio cassettone»101; Pascoli un «castra-

l’equilibrio della raggiunta unità solo in maniera più contorta. Nella vita invece non esiste univocità, poiché non esiste una psicologia ad hoc, perché non contano soltanto quelle ragioni che sono state accettate al fine di ricomporre l’unità e per-ché non tutte le canzoni iniziate vengono portate a termine. Nella vita la psicolo-gia non può essere convenzionale, nella poesia lo è sempre, per quanto sottile e complicata sia la convenzione. Nella vita soltanto la totale limitatezza può percepi-re la totale univocità, mentre nella poesia solamente il totale fallimento può, in questo senso, avere polivalenza di significati».

98 Aldo Palazzeschi, Vita, in Tutti i romanzi, ii, cit., p. 1270.99 Id., Interrogatorio della Contessa Maria, ivi, pp. 1081-1082. È evidente che qui la

contessa non è del tutto sincera, dal momento che il romanzo che la vede protago-nista è interamente costruito su quella «descrizione-discussione» che qui rifiuta.

100 Ivi, p. 1153.101 Ibidem.

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vii. la piramide e l’interrogatorio 207

to»102; la Lucia manzoniana «l’apoteosi della minestra riscaldata»103; Dante è parodizzato prima in una rilettura dell’episodio di Paolo e Francesca104 e poi in una similitudine, a valenza chiaramente paro-dica, riguardante la stessa contessa e la sua istitutrice allorché le due si ritrovano segregate nelle stanze del palazzo paterno:

– Per otto giorni sani sani, io e quella disgraziata, rimanemmo lì chiuse come il conte Ugolino nella sua torre. Meno male che a noi ci portavano da mangiare quattro volte al giorno, altrimenti mi sa-rebbe accaduto peggio che a lui, la carne delle istitutrici deve essere tremenda105.

L’unico letterato italiano difeso dalla protagonista è D’Annun-zio106 (e questo dovrebbe far riflettere sulla possibilità di una identi-ficazione tout court fra la contessa e Palazzeschi).

La Poesia viene rifiutata in quanto sistema formativo proiettato all’immobilizzazione, alla pietrificazione delle istanze antinomiche, diventando, metaforicamente, soppressione costrittiva dei bisogni vitali: «La poesia mi ficca lì, fra quattro mura e mi ci tiene schiava, prigioniera, chi mi assicura che ciò non avvenga per farmi inghiotti-re qualche purgante?»107.

E il «purgante» richiama qui, umoristicamente, un’idea di depu-razione, vale a dire di filtraggio, di eliminazione di ciò (l’elemento più spiccatamente corporale) che non rientra nel suddetto sistema.

Non a caso l’unica arte davvero difesa dalla contessa è la mu sica:

– La musica è l’arte che mi piace di più, perché mi eccita, m’innal-za, mi inizia e mi lascia facoltà di pensare a modo mio, o di non pensare affatto, di abbandonarmi a lei senza fatica o sospetto. È quella che somiglia di più all’opera della creazione108.

102 Ibidem.103 Ivi, p. 1154.104 «Andarsi a scegliere proprio il fratello del marito, ammogliato e coi figli… in casa,

bel cimiciaio! Ci dovevano essere tanti armigeri, nel castello dei Malatesta» (ibi-dem).

105 Ivi, p. 1192.106 Cfr. ivi, p. 1155: «– Bisogna andare a cercarlo fra le chincaglierie, un po’ più alla

mano sarebbe meglio, ma è un uomo e te lo fa sentire […], c’è un rigoglio in lui, un bollore, che è quello della vita».

107 Ivi, p. 1113.108 Ibidem.

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Questa vicinanza della contessa alla musica, arte dionisiaca per eccellenza, non può ovviamente stupire, ma neanche può stupire, secondo il discorso fatto nel paragrafo precedente, la comparsa del nome di Wagner109.

In quanto figura esprimente il punto di vista assolutistico di una prospettiva vitalistica tesa al rifiuto della sintesi, vale a dire al rifiuto dei progetti unitari del pensiero, la contessa rigetta l’arte come ten-tativo di costrizione dell’illimitatezza vitale, salvo poi recuperare quello stesso progetto a valenza unitaria sul piano dell’esperienza, sul piano, cioè, del giudizio sull’esperienza. Se il suo incessante desi-derio la rende energia eversiva e rivoluzionaria in grado di scardina-re le gabbie concettuali proprie del suo interlocutore, nel passaggio alla rappresentazione del desiderio viene coattamente recuperato un proposito che sottende una nuova identificazione di particolare e universale, vale a dire un nuovo progetto ordinativo della realtà (e con esso, non a caso, un Io terribilmente compatto e sicuro di sé), ed è allora proprio il punto di vista del letterato a salvaguardare il va-lore sovversivo della sua azione, restituendola alla sua componente di ambiguità. È il dialogo fra le due figure che, solo, può restituire il punto di vista (se ancora si può parlare di punto di vista) di Palazze-schi, una prospettiva recalcitrante all’ansia di qualsiasi definizione: un ideale non oggettivabile nella sua realizzazione.

L’eclissi dei fondamenti non è un alibi, e i due soggetti in que-stione rispondono alla crisi delle universali certezze riempiendola, ciascuno a suo modo, di senso: istituendo nuove gerarchie di valori sulle rovine di un kultur condivisa. Ma adesso «ogni scelta compor-ta la coscienza del torto»110, e le visioni antitetiche di due differenti personaggi (i quali nascondo la dimidiata coscienza dell’autore111) elidono a vicenda quelle gerarchie, ma non sopprimono il problema che quelle stesse gerarchie significano: la necessità di un significato, e il suo impossibile raggiungimento, oltre le illusioni della forma, anche della forma del contingente.

109 Cfr. ivi, p. 1123: «le piaceva anche Wagner per quanto confessasse di non capirci niente, ciò la esaltava, la inebriava e dava per certo non doversi pretendere altro dal-la musica che un tale salutare rimescolamento».

110 Claudio Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 364.111 Si ricordi, del resto, il proposito di una personalità multipla così come descritto in

Equilibrio e in La Piramide.

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vii. la piramide e l’interrogatorio 209

Senza la contessa il letterato è uno sguardo di morte nella vita, senza il letterato la contessa è una fittizia arcadia priva di possibilità e, in fondo, priva di scelte: senza la contessa il letterato è una meta-fisica sublimatoria tesa a vedere l’essere dove è solo forma, è il sacri-ficio della vita nella sua componente di fluidità, ma senza il lettera-to la contessa è l’immanenza del molteplice, è cioè la vita quale si-mulacro mitizzato, non critico, gioia beota in un mondo ancora abi-tato dal male.

Il molteplice, proprio in quanto valenza critica, non si sviluppa irrelato dalle forme, ma vive nel dialogo con esse: il molteplice sen-za la possibilità dell’Uno è solo un’altra unità, è cioè l’esistenza in un mondo senza possibilità, dove tutte le cose non-significano, e dun-que, in questa monolitica insignificanza, significano fin troppo: l’as-senza di alternative, la prigionia dell’uomo in un non-essere dotato delle stesse prerogative violente dell’essere:

E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse an-che poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità!112

Ecco perché Palazzeschi è figura così singolare all’interno del co-evo panorama europeo: la sua nostalgia, la sua avvertenza di una “mancanza”, non si è rivolta verso quel mondo che precedeva la di-sgregazione, la nietzschiana «anarchia degli atomi», verso quel mon-do a cui ancora era dato di credere realmente nella Verità delle for-me, ma si è applicata direttamente sul mondo, diremo, post-nietz-schiano, su una vita deprivata dell’illusione delle forme. È questo stesso mondo, il paradiso inautentico della Vita tout court, che Pa-lazzeschi ha, nello stesso gesto, indicato e rifiutato.

Rinunciando all’illusione della forma ha attivato contro di essa l’ironia della molteplicità, e rinunciando all’ideale del compimento del Molteplice non l’ha distrutto, perché si è mantenuto in cammi-no verso di esso: un viandante.

112 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1884), Milano, Adelphi, 2002, p. 162.

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bibliografia

i. testi di aldo palazzeschi

Per le opere di Palazzeschi citate nel testo si fa riferimento ai volumi:Tutte le poesie, a cura e con introduzione di Adele Dei, Milano, Mon-

dadori, 2002, per quanto riguarda: I cavalli bianchi (Firenze, G. Spinelli e C., 1905), Lanterna (Firenze, Stabilimento tipografico Aldino, 1907), Poe-mi (a cura di Cesare Blanc, Firenze, Stabilimento Tipografico Aldino, 1909), L’Incendiario (Milano, Edizioni Futuriste di «Poesia», 1910), Via del-le cento stelle (Milano, Mondadori, 1972);

Tutti i romanzi, i, a cura e con introduzione di Gino Tellini e un saggio di Luigi Baldacci, Milano, Mondadori, 2004, per quanto riguarda: :riflessi (Cesare Blanc, Firenze, 1908), Il Codice di Perelà (Milano, Edizioni Futuri-ste di «Poesia», 1911), Il controdolore. Manifesto futurista (in «Lacerba», ii, 2, 15 gennaio 1914), Varietà (in «Lacerba», iii, 1, 3 gennaio 1915), Equilibrio (in «Lacerba», iii, 4, 24 gennaio 1915), Spazzatura (in «Lacerba», gennaio-mag-gio 1915), La Piramide. Scherzo di cattivo genere e fuor di luogo (Firenze, Val-lecchi, 1926), L’antidolore (in Opere giovanili, Milano, Mondadori, 1958);

Tutti i romanzi, ii, a cura e con introduzione di Gino Tellini, Milano, Mondadori, 2005, per quanto riguarda: Interrogatorio della Contessa Maria (Milano, Mondadori, 1988, postumo), Vita (postumo).

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ta, Milano, Mondadori, 1975 (contiene Tutte le novelle, 1957; Il buffo in-tegrale, 1966);

Scritti sulle arti figurative, a cura di Giovanni Capecchi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2008.

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212 l’uno e il molteplice nel giovane palazzeschi

Per i carteggi si rinvia ai seguenti volumi:

Filippo Tommaso Marinetti - Aldo Palazzeschi, Carteggio. Con un ap-pendice di altre lettere a Palazzeschi, introduzione testo e note a cura di Paolo Prestigiacomo, presentazione di Luciano De Maria, Milano, Mondadori, 1978;

Aldo Palazzeschi - Giuseppe Prezzolini, Carteggio (1912-1973), a cura di Michele Ferrario, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Diparti-mento della Pubblica Educazione del Canton Ticino, 1987;

Aldo Palazzeschi - Mario Novaro, Carteggio (1910-1914), con le novelle «L’Ingegnere» e «Oreste», a cura di Pino Boero, introduzione di Giorgio Luti, Firenze, Vallecchi, 1992;

Marino Moretti - Aldo Palazzeschi, Carteggio (1904-1925), a cura di Simone Magherini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 1999;

Marino Moretti - Aldo Palazzeschi, Carteggio (1940-1962), a cura di Francesca Serra, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università de-gli Studi di Firenze, 2000;

Marino Moretti - Aldo Palazzeschi, Carteggio (1926-1939), a cura di Alessandro Pancheri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Universi-tà degli Studi di Firenze, 2001;

Marino Moretti - Aldo Palazzeschi, Carteggio (1963-1974), a cura di Laura Diafani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2001;

Aldo Palazzeschi - Diego Valeri, Carteggio (1934-1972), a cura di Glo-ria Manghetti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2004;

Aldo Palazzeschi - Giovanni Papini, Carteggio (1912-1933), a cura di Stefania Alessandra Bottini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2006;

Arnoldo e Alberto Mondadori - Aldo Palazzeschi, Carteggio (1938-1974), a cura di Laura Diafani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2007.

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Giorgio Pullini, Aldo Palazzeschi, Milano, Mursia, 1965;Giuseppe Conte, Sperimentalismo e utopia nell’«Allegria» di Palazzeschi, in

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Abrugiati, Luigia 185nAccrocca, Elio Filippo 41n, 42nAdamo, Giuliana 15n, 70n, 214Agostino d’Ippona, santo 196Alessandri, Luca 147n, 156n, 213Alighieri, Dante 181n, 205, 207Anceschi, Luciano 213Ascarelli, Roberta 138n

Bachelard, Gaston 38nBachtin, Michail Michajlovič 68 e

n, 134n, 135n, 136n, 137Balandier, George 93, 94n, 95nBaldacci, Luigi 47n, 110 e n, 211, 214Barbaro, Marta 70n, 214Barilli, Renato 91n, 213Barth, John 19nBarthes, Roland 151, 155nBatchelor, David 65, 66 e nBateson, Gregory 87nBaudelaire, Charles 205Baudrillard, Jean 25n, 28, 29n, 30n,

157Bauman, Zygmunt 34Bigongiari, Piero 16 e n, 213Boccioni, Umberto 143nBottini, Stefania Alessandra 212Boero, Pino 135n, 212Borges, Jorge Luis, 21Borgese, Giuseppe Antonio 18n, 46Bruschi, Enio 215Buzzi, Paolo 45n

Cacciari, Massimo 119nCampailla, Sergio 47nCapecchi, Giovanni 211Caracchini, Cristina, 194n, 215Carducci, Giosuè 206Caretti, Lanfranco 16n, 213, 215Carrà, Carlo 45nCasadio, Luca 89nCelati, Gianni 26nCervantes, Miguel de 205Cicognani, Paolo 70n, 213Civita, Alfredo 25nConte, Amedeo 116nConte, Giuseppe 90n, 212Corazzini, Sergio 18 e n, 29nCortellessa, Andrea 143n, 213Curi, Fausto 174n, 214

d’Alba, Auro 45nD’Annunzio, Gabriele 45n, 181n,

207Dei, Adele 16 e n, 17n, 23n, 27n,

29n, 71n, 77n, 81n, 83n, 142n, 211, 214

Deleuze, Gilles 58, 197De Man, Paul 92nDe Maria, Alberto 11nDe Maria, Luciano 15n, 19n, 45n,

108n, 143, 179n, 186n, 211, 212, 213

De Robertis, Giuseppe 89, 105n, 213Diafani, Laura 212

indice dei nomi

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218 l’uno e il molteplice nel giovane palazzeschi

Dillon Wanke, Matilde 70n, 214, 215

Donini, Filippo 18nDostoevskij, Fëdor Michajlovič 185,

205Douglas, Mary 35n, 100Dubois, Philippe 155nDumoulié, Camille 26n

Eliade, Mircea 28nElster, Jon 57n

Fanfani, Massimo 49n, 179n, 214Febbraro, Paolo 16n, 38n, 181 e n,

198n, 201n, 215Ferrario, Michele 212Ferrata, Giansiro 108n, 211, 213Feyerabend, Paul Karl 145Forti, Marco 50n, 213Francesco d’Assisi, santo 29nFreud, Sigmund 25n, 26 e n, 78n,

80n, 87 e n, 194n, 196nFusillo, Massimo 80n

Gadda, Carlo Emilio 58n, 213Gargiulo, Alfredo 46Garin, Eugenio 13nGenette, Gérard 55n, 58n, 122nGetto, Giovanni 16 e n, 212Gide, André, 45nGiovanardi, Stefano 26nGirard, René, 38Goethe, Johann Wolfgang 205Gounod, Charles 110Govoni, Corrado 20n, 31n, 45n, 213Groddeck, Georg 194nGuattari, Felix 197Guglielmi, Guido 16 e n, 23, 28n,

29n, 62n, 75n, 86n, 87n, 91n, 92n, 115n, 120n, 126n, 162n, 166n, 171n, 185n, 190n, 213

Guglielminetti, Marziano 161n, 213Guntert, Geörge 17n, 213

Heidegger, Martin 52, 69n, 155nHofmannsthal, Hugo von 138 e n,

139, 142

Ibsen, Henrik 26

Jankélévitch, Vladimir 15, 24n, 89n, 93n, 97

Jervis, Giovanni, 25 e nJung, Willi 91n, 214

Kaempfer, Wolfgang 150nKierkegaard, Soren 98Kleist, Heinrich von 11, 205Klossowski, Pierre 56n, 128nKolm, Serge-Christophe 57n

Leonelli, Silvia 24n, 185nLeopardi, Giacomo 181n, 206Lepri, Laura 16 e n, 28n, 35n, 154n,

213Lévinas, Emmanuel 77, 134nLévi-Strauss, Claude 29Livi, François 16n, 17n, 20n, 31n,

213Livi, Grazia 60nLovejoy, Arthur Oncken 85, 101nLow, Barbara 26Lucini, Gian Pietro 45nLukács, György 13 e n, 20n, 98 e n,

139, 147, 188, 191, 205nLuti, Giorgio 135n, 212, 213

Maeterlinck, Maurice 16, 45nMagherini, Simone 88n, 212, 214Magris, Claudio 43n, 47n, 67n,

96n, 103n, 113, 115n, 139n, 146n, 150n, 154n, 169, 171n, 172n, 175n, 183n, 185n, 188n, 193n, 202 e n, 208n

Mancinelli, Laura 116n, 118n, 124n, 138n, 140n

Manghetti, Gloria 212

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indice dei nomi 219

Marchi, Marco 158n, 213Marcon, Giorgio 214Marcuse, Herbert 36Marinetti, Filippo Tommaso 45n,

88n, 90n, 117 e n, 122, 212, 213Mengaldo, Pier Vincenzo 15Michelstaedter, Carlo 47n, 144, 173,

176Milioto, Stefano 26nMondadori, Alberto 212Mondadori, Arnoldo 212Montale, Eugenio 193Moretti, Marino 212Musil, Robert 86n, 89 e n, 153n

Nicoletti, Giuseppe 122n, 214Nietzsche, Friedrich 7, 26n, 29n,

44n, 51 e n, 56n, 58, 63n, 88 e n, 90, 93n, 116n, 118n, 119 e n, 125, 139n, 141n, 147, 157, 167n, 173 e n, 174n, 177, 178, 182n, 185, 188, 193, 197n, 201 e n, 203, 209n

Novaro, Mario 135n, 212Nuzzo, Lodovica 10

Olsen, Regina 98Omero, 205

Pancheri, Alessandro 212Pancrazi, Pietro 177nPapini, Giovanni 45n, 212Papini, Maria Carla 97n, 215Parmenide 187Pascoli, Giovanni 16, 206Pasqualotto, Giangiorgio 180nPedullà, Walter 42 e n, 214Perelman, Chaïm 62nPerlini, Tito 150n, 156n, 157nPerniola, Mario 29nPetrarca, Francesco 181nPicchione, John 153n, 215Pieri, Piero 18 e n, 19n, 20n, 69n,

70n, 88n, 117n, 213

Pirandello, Luigi 26n, 98 e n, 108, 179n, 204n

Platone 61n, 196Plotino, 196Ponzio, Augusto 134nPratesi, Mario 70n, 213Prestigiacomo, Paolo 45n, 212Prezzo, Rossella 89nPrezzolini, Giuseppe 212Provinciali, Renzo 45nPullini, Giorgio 49n, 212

Rabelais, François 68nRaimondi, Ezio 60n, 62nRemotti, Francesco 54n, 107, 187nRichards, Ian 59nRigotti, Francesca 62nRodenbach, Georges 45nRorty, Richard 100

Saccone, Antonio 17n, 18n, 19n, 27n, 54n, 61n, 63n, 123n, 171n, 213

Saint Point, Valentine de 194nSanguineti, Edoardo 46 e n, 47,

121n, 122n, 212Sartre, Jean Paul 7, 39, 40 e nSavinio, Alberto 11n, 13n, 69Savoca, Giuseppe 19n, 24n, 25, 27n,

31n, 41n, 49n, 55, 66n, 81n, 213Sciascia, Leonardo 11nScrivano, Enzo 26nSerra, Francesca 16 e n, 212, 214Serra, Renato 104, 105nShakespeare, William 205Simmel, Georg 12nŠklovskij, Viktor Borisovič 87Soffici, Ardengo 45n, 142Soldateschi, Jole 70n, 213Somigli, Luca 97n, 215Starobinski, Jean 69n, 111nStendhal 111 e n, 167nSterne, Laurence 88Svevo, Italo 213

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220 l’uno e il molteplice nel giovane palazzeschi

Szondi, Péter 12n

Tamburri, Anthony Julian 19n, 20n, 41, 150n, 213, 214

Tavolato, Italo 194nTellini, Gino 10, 15n, 19n, 47n, 50n,

62n, 70n, 90n, 91n, 97n, 105n, 111n, 124n, 172n, 177n, 180n, 186n, 189n, 193n, 211, 213, 214, 215

Todorov, Tzvetan 135nTolstoj, Lev 205

Valeri, Diego 212Valesio, Paolo 60nVattimo, Gianni 52n, 63n, 90Virgilio, 205

Wagner, Richard 58, 208 e nWeber, Max 61n, 91, 177, 178nWhele, Winfried 91n, 152n, 174n,

215Wilde, Oscar 45nWittgenstein, Ludwig 116n, 140n

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1. Roberto Leporatti, Per dar luogo a la notte. Sull’elaborazione del «Giorno» del Parini, 1990.

2. Guido Gozzano, Albo dell’officina, a cura di Nicoletta Fabio e Patrizia Meni-chi, 1991.

3. Laura Melosi, Anima e scrittura. Prospet-tive culturali per Federigo Tozzi, 1991.

4. Cinzia Giorgetti, Ritratto di Isabella. Studi e documenti su Isabella Teotochi Al-brizzi, 1992.

5. Simone Casini, Carlo Emilio Gadda e i re di Francia. Retroscena di un testo ra-diofonico, 1993.

6. Irene Gambacorti, Verga a Firenze. Nel laboratorio della «Storia di una capine-ra», 1994.

7. Riccardo Tesi, Dal greco all’italiano. Stu-di sugli europeismi lessicali d’origine greca dal Rinascimento ad oggi, 1994.

8. Nicoletta Fabio, L’«entusiasmo della ra-gione». Studio sulle «Operette morali», 1995.

9. Francesca Serra, Calvino e il pulviscolo di Palomar, 1996.

10. Elena Parrini, La narrazione della storia nei «Promessi Sposi», 1996.

11. Edi Liccioli, La scena della parola. Teatro e poesia in Pier Paolo Pasolini, 1997.

12. Simone Giusti, Sulla formazione dei «Trucioli» di Camillo Sbarbaro, 1997.

13. Benedetta Montagni, Angelo consolatore e ammazzapazienti. La figura del medico nella letteratura italiana dell’Ottocento, 1999.

14. Il rabdomante consapevole. Ricerche su Tozzi, a cura di Marco Marchi, 2000.

15. Laura Diafani, La «stanza silenziosa». Studio sull’epistolario di Leopardi, 2000.

16. Alessio Martini, Storia di un libro. «Sco-perte e massacri» di Ardengo Soffici, 2000.

17. Fornaretto Vieri, Intorno alle «Fiale». Incunaboli del protonovecento govoniano, 2001.

18. Costanza Geddes da Filicaia, La biblio-teca di Federigo Tozzi, 2001.

nuova serie

1. Stefano Cipriani, Il “libro” della prosa di Vittorio Sereni, 2002.

2. Riccardo Donati, L’invito e il divieto. Piero Bigongiari e l’ermeneutica d’arte, 2002.

3. Irene Gambacorti, Storie di cinema e let-teratura. Verga, Gozzano, D’Annunzio, 2003.

4. Pietro Bembo, Stanze, edizione critica a cura di Alessandro Gnocchi, 2003.

5. Paolo Maccari, Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, con un’appendice di testi inediti, 2003.

6. Francesca Mecatti, La cognizione del l’u-mano. Saggio sui «Pensieri» di Giacomo Leopardi, 2003.

7. Lucia Denarosi, L’Accademia degli Inno-minati di Parma: teorie letterarie e pro-getti di scrittura (1574-1608), 2003.

8. Nicola Turi, L’identità negata. Il secondo Calvino e l’utopia del tempo fermo, 2003.

9. Nada Fantoni, «La Voce della Ragione» di Monaldo Leopardi (1832-1835), 2004.

10. Antonella Ortolani, La parola disarmo-

quaderni aldo palazzeschi

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nica. Lorenzo Viani tra realismo grottesco e deformazione espressionista, 2004.

11. Silvia Chessa, Il profumo del sacro nel «Canzoniere» di Petrarca, 2005.

12. Monica Farnetti, Il manoscritto ritro vato. Storia letteraria di una finzione, 2006.

13. Francesca Mecatti, Aforisti italiani del Settecento. Pensieri al crocevia della mo-dernità, 2006.

14. Chiara Biagioli, L’«opera d’inchiostro». Storia editoriale della narrativa di Guer-razzi (1827-1899), 2006.

15. Rodolfo Sacchettini, L’oscuro rovescio. Previsione e pre-visione della morte nella narrativa di Tommaso Landolfi, 2006.

16. Emilia Toscanelli Peruzzi, Diario (16 mag- gio 1854 - 1 novembre 1858), a cura di Eli-sabetta Benucci, 2007.

17. Benedetto Croce - Guido Mazzoni, Car-teggio 1893-1942, a cura di Michele Mon-serrati, 2007.

18. Nicola Turi, Testo delle mie brame. Il me-taromanzo italiano del secondo Novecen-to (1957-1979), 2007.

19. Fabio Bertini, «Havere a la giustitia sodi-sfatto». Tragedie giudiziarie di Giovan Bat- tista Giraldi Cinzio nel ventennio con ci-liare, 2008.

20. Luca Degl’Innocenti, I «Reali» dell’Al-tissimo. Un ciclo di cantari fra oralità e scrittura, 2008.

21. Marica Romolini, La «memoria velata» di Alfonso Gatto. Temi e strutture in «Mor-to ai paesi», 2009.

22. Alessio Decaria, Luigi Pulci e Francesco di Matteo Castellani. Novità e testi inediti da uno zibaldone magliabechiano, 2009.

23. Alessandro Camiciottoli, L’Antico roman-tico. Leopardi e il «sistema del bello» (1816-1832), 2010.

24. Fabio Bertini, «Hor con la legge in man giu dicheranno». Moventi giuridici nella drammaturgia tragica del Cinquecento ita liano, 2010.

25. Mimmo Cangiano, L’Uno e il molteplice nel giovane Palazzeschi (1905-1915), 2011.

26. Tommaso Tarani, Il velo e la morte. Sag-gio su Leopardi, 2011.

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Finitodi stampare

nel gennaio 2011da Tipografia Monteserra (Vicopisano - Pi)

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