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Laós Rivista di scienze religiose e umanistiche Istituto superiore di scienze religiose «San Luca» Catania Anno XV - 2008 *** 3 Edizioni Adelfós - Catania ...per dare al suo popolo la conoscenza della Salvezza (Lc 1,77)
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Lo gnosticismo storico e l'ideologia della scienza

Apr 21, 2023

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Page 1: Lo gnosticismo storico e l'ideologia della scienza

LaósRivista di scienze religiose e umanistiche

Istituto superiore di scienze religiose «San Luca»Catania

Anno XV - 2008***

3

Edizioni Adelfós - Catania

...per dare al suo popolo la conoscenza della Salvezza (Lc 1,77)

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LaósRivista di scienze religiose e umanistiche

semestrale

***Direzione Redazione Amministrazione

Associazione AdelfósTel. e Fax 095 313036 via Crociferi, 36B - 95124 Catania

Anno XV - 2008 3INDICE

Giuseppe CalambroGio Dal fenomeno al fondamento: ilcompitodellafilosofiasecondolaChiesa .................................. pag. 5

leone CalambroGio Dallastoltezzaall’empietà ............................................................. pag. 11

antonio uCCiardo Laresponsabilitàdell’attodifede .................................................. pag. 15

Fausto Grimaldi Unafedesenzaidentitàinunasocietàcomplessa .......................... pag. 27

nino nuzzo ScienzaRagioneeFede .................................................................. pag. 37

antonio de maria L’epistula 120 a Consenzio di Sant’Agostino su fede e ragione .... pag. 51

antonino Grasso La perfetta armonia tra fede e ragione in Maria, donna veramente libera e credente .............................................................................. pag. 61

FranCesCo rizzo Federagioneescienzadell’uomo .................................................. pag. 75

renato minio Fides et ratio:crederepensandoepensarecredendo ..................... pag. 87

antonio Giovanni pesCe Lognosticismostoricoel’ideologiadellascienza ............................ pag. 95

Giovanni di rosa Progressoodeclinoscientifico? .................................................... pag. 117

Fabiana CristoFari Scienza,RagioneeFede.“In principio era il λόγος” ................. pag. 125

andrea bettetini Fedeeragione:lestruttureetichedelgiuridico ............................. pag. 135

m. roCCasalva Firenze L’artenelTempioortodosso:laspiritualizzazionedellamateria ... pag. 141

Giuseppe CalambroGio Spunti appunti e contrappunti ........................................................ pag. 147

RECENSIONI

AA.VV. Tra chiaro e oscuro. Domande radicali nella letteratura italiana del Novecento, (a curadiM.Naro)SalvatoreSciasciaEditore,Caltanissetta-Roma2008

(Francesco Diego Tosto) .................................................................................. pag. 155J. Habermas Tra scienza e fede,Laterza,Roma-Bari,2008(Giuseppina Giunta) ............... pag. 156F. De GiorGi Il brutto anatroccolo. Il laicato cattolico italiano,Ed.Paoline,2008 (Salvatore Latora) ..................................................................................................... pag. 159G. Costanzo Il Magistero Pastorale,Editrice“Istina”Siracusa,2008(Giuseppe Lombardo) ...... pag. 162

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Laós 15 (2008) 3, 95-115ISSR «S. Luca» - Catania

Lo gnosticismo storico e l’ideologia della scienza

di Antonio Giovanni Pesce

Università di Catania

L’epoca della Fides et ratio

Il tempo che viviamo può essere pensato sotto il segno della Fides et ratio. Pro-prio dalla pubblicazione di questa enciclica, e dai successivi momenti di sviluppo del pensiero in essa contenuto, sono ri-emersi in Occidente dottrine, discussioni, polemiche se è il caso di definire così talune aspre dispute, che credevamo ormai sotterrate nel sepolcro imbiancato del manualismo storiografico. E invece rieccoci ad affrontare i problemi del passato, e la nostra cattiva coscienza di averli nascosti ad intere generazioni. Il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona ha richiamato quella lezione, invitando, nel cuore dell’Europa, lo stanco continente, vetusta culla del pen-siero, a fare il punto sui traguardi raggiunti, e sulle perdite; e voleva stimolare i dotti sapienti secolarizzati a fare i conti con la ragione che dicono di rispettare. Fattori contingenti in Germania, e ideologismo in Italia, hanno impedito più d’una volta un sereno dibattito.

L’enciclica di papa Giovanni Paolo II reca già nel titolo l’immensità dei problemi che suscita. E, innanzi tutto, quello della fede. “Dove l’uomo potrebbe cercare la risposta a interrogativi drammatici come quelli del dolore, della sofferenza dell’in-nocente e della morte, se non nella luce che promana dal mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo?”1. È un fatto, che l’esperienza religiosa non è mai scomparsa. Ed è ancor più inquietante ai giorni d’oggi, che vedono l’aumento della quantità e della qualità di vita, che non tra le rovine di ieri. Abbiamo molto a disposi-zione per lenire il dolore, ma per rispondere al perché della sofferenza non abbiamo altra arma che il divertissement. Arma che, infine, viene spuntata dall’angoscia. Dire chiaramente che la fede non è un atto irrazionale, ma che anzi è nei “segni presenti

1 Giovanni Paolo II, Fides et ratio, edizione Paoline, Milano 1998, p. 21.

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nella Rivelazione” che è “già presente una verità nascosta a cui la mente è rinviata e dai non può prescindere senza distruggere il segno stesso che le viene proposto”2, significa affrancarla da ogni ricerca che scada nel sentimentalismo o nello psicolo-gismo; significa ricollocarla al centro della pubblica discussione culturale, certo, ma anche sociale o, se non si fraintende, politica. Non è più un fatto privato, un sentire senza giustificazione: è un fatto pubblico come ogni altro giudizio di ragione. Può essere smentito – per carità! ma non può essere eluso.

La ragione, a questo punto, viene pure interpellata. Che ne ha fatto della sua missione, di quelle “domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita?”3 . Proprio nel discorso di Ratisbona il Papa, dopo aver nota-to che “soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità”, si richiama al suo predecessore quando nota: “ se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del ‘da dove’ e del ‘verso dove’, gli interrogativi della religione e dell’ethos, non pos-sono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla ‘scienza’ intesa in questo modo e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo.”4 L’incomunicabilità del senso della vita, e ancor di più la non ricerca di questo senso distruggono il fonda-mento più saldo su cui possiamo sperare di costruire la civitas umana.

Infine, fede e ragione tornano a interrogarsi sul loro rapporto. E si sana così una fe-rita nel corpo dell’Occidente, rimasta aperta già a partire dal tardo Medioevo5. Si sana il conflitto all’interno dell’individuo, perché non sarà più da ritenersi un insensato:

2 Cfr. ivi, p. 233 Ivi, p. 4. 4 Cfr. Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, Aula Magna dell’uni-

versità di Regensburg, 12 settembre 2006.5 Cfr. ivi, p. 69. Nel discorso di Regensburg si va più nello specifico, facendo risalire questa

separazione a Duns Scoto:<< Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spi-rito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiun-gibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive >>.

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fede e ragione possono coesistere, anzi; infine, lo si sana all’interno del corpo politico6: credenti e non credenti trovano il loro punto di incontro nella discussione razionale.

Sia concessa, a questo punto, una breve digressione nei primissimi anni della for-mazione. Si era ragazzini, e dunque come tutti i ragazzini con tante idee ma poche di-mostrazioni. Il collega, compagno di viaggio, fece sapere che nel suo ateneo era stato soppresso l’insegnamento della filosofia della storia. C’era da attendersi che ciò fosse avvenuto perché, in tempo di debolezza di pensiero, nessuno avesse più la forza per proporre un collante alla molteplicità di eventi e di culture. E del resto, a ben vedere nessuno ne sentiva la mancanza. Eravamo gli ultimi uomini. Eravamo giunti. Forse non biologicamente, ma culturalmente e politicamente di certo. Il grande nemico comunista era stato sconfitto, il mondo libero aveva trionfato. Le presunte scarsezze di approvvigionamenti petroliferi, servivano solo a far lievitare di qualche dollaro il prezzo del brent. Non c’era aria di depressione, e i popoli europei marciavano com-patti verso l’unione. La storia galoppava, tuttavia, ma nessuno voleva accorgersene. Ma né tranquillità né debolezza gnoseologica – o forse sì, ma entrambe e un in modo assai particolare – stavano a fondamento di quella, in apparenza banale decisione accademica. In realtà l’illustre accademico s’era convinto che, infine, “avrebbe finito per dover fare filosofia della scienza”, come del resto poi accadde.

Sull’utilità di tale posizione non v’è dubbio alcuno, giacché la quantità di fondi assegnati per la ricerca e la celerità delle carriere accademiche tolgono ogni possibi-lità di messa in discussione. È sulla veridicità delle stesse, invece, che si ha ragione di dubitare. La verità è stile, mentre è come un abito l’utilità: la prima non va in soffitta col passare delle stagioni.

Ora dobbiamo chiederci: perché la filosofia della storia, ad un certo punto, di-viene filosofia della scienza? Perché d’un tratto, secondo alcuni, la scienza, più che l’analisi empirica di una porzione dell’intero, diverrebbe l’unico e, peggio, decisivo prodotto di questi millenni di civiltà? Perché, ancora, dovrebbe essere più vincolan-te, nella ricostruzione del corso storico e nella ricerca del suo senso, un esperimento compiuto all’insaputa di molti – almeno fino a qualche giorno prima – a un centinaio di metri di profondità sotto il lago di Ginevra, e non già i milioni di pellegrini, i pic-coli della storia – resi piccoli dalla malattia, dall’angoscia, dall’ombra della morte che, facendo capolino di tra le lastre e le tac, ne ha ridimensionato le pretese? Perché, in definitiva, l’LHC e non Bernadette?

Il dibattito aperto dalla Fides et ratio sta continuando. E mentre non vengono

6 È quanto sostiene Diego Marconi, Per la verità, Einaudi, Torino 2007, p.147. Per Haber-mas, addirittura, il linguaggio religioso può non avere una traduzione in termini razionali, ma va comunque ascoltato – toccherà semmai agli uomini politici il compito di tradurlo – quando ha chiaramente intenzioni politici (p.34). Cfr. Jurgen Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari, 2008.

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risparmiati ai credenti offese che, valicando il limite del buongusto, sembrano ormai dettate da intolleranza, vi è chi sviluppa in modo pacato e con rispetto le proprie critiche, pur avendo come orizzonte di senso il medesimo7. Ma si tratta di oro, non di piombo. Uomini di buona volontà, che riconoscono alla Chiesa il merito di aver mi-gliorato le condizioni di vita dei più umili, ma di essere ancora incapace di accettare in toto il progresso, ammettendone anche gli sviluppi in campo tecnologico e le loro ricadute etiche. Ma qui già si pone un assunto che non è di natura critica, ma dogma-tica. Intanto, è da notare che le condizioni degli uomini e gli sviluppi della tecnologia non sempre sono andati d’accordo: l’efficienza fordista non ha migliorato i luoghi di lavoro, li ha resi semmai più angusti, stretti nei minuti che passano. Inoltre, il Magi-stero accetta il progresso scientifico e tecnologico, ma non si vede perché se ne deb-bano necessariamente accettare tutte le ricadute etiche. Infine, chi assicura che quelle ricadute siano necessarie e non già contingenti allo stato attuale dello sviluppo, se non addirittura alla lettura che di questo se ne ha oggi? – lettura che potrebbe essere, come di fatto è, ideologica, e non già commisurata allo sviluppo stesso?

Se la ragione non è più un mezzo di conoscenza ma il fine della conoscenza, al-lora la ricerca diventa la storia dell’intelletto umano nei secoli. Conoscere non è più capire, ma capir-si. Gnoseologismo, appunto, quando il mezzo diventa fine, quando la conoscenza diventa sostanza. Il conoscere ha ovviamente una storia, ma quando il fine della conoscenza è la conoscenza medesima, quando cioè l’atto intellettivo intenziona se stesso e solo stesso – e non se stesso attraverso l’oggetto intenzionato – allora la storia della conoscenza è la lenta costruzione dell’essere.

Così, pur avendo avuto il merito di aver posto attenzione sull’uomo, la filosofia moderna registra “il fatto che quella stessa ragione, intenta a indagare in maniera unilaterale sull’uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che questi è pur sem-pre chiamato a indirizzarsi verso una verità che lo trascende”8. Il ripiegare della

7 Qualche tempo fa, Aldo Schiavone, docente di istituzioni di diritto romano, insigne intel-lettuale, già presidente della fondazione “Istituto Gramsci”, ha pubblicato su Repubblica, giornale sul quale scrive ormai da anni, un articolo dal titolo “La Chiesa nel mondo che cambia” (12 luglio 2008, p. 29). In questo pezzo, Schiavone rimprovera al cattolicesimo di essere “prigioniero di una visione metastorica e sacralizzata della natura, in perenne e lacerante conflitto con la propria epoca”. Prendere atto del corso della propria storia, aggiunge Schiavone, significa “non vuol dire arrendersi al capriccio di un individualismo desiderante senza freni e senza vincoli, ma solo riconciliarsi con un’esperienza intellet-tuale e sociale più matura per poterla regolare con norme migliori”. L’articolo di Schiavone non mostra acredine contro una visione della vita diversa dalla sua. Mostra, invece, un’onestà intellettuale come pochi e la sincera volontà di giungere a sanare il conflitto. Qualche giorno dopo, S. Emin. card. Camillo Ruini gli ha risposto con un editoriale pubblicato su Avvenire: Camillo Ruini, La Chiesa e le responsabilità per il futuro, 13 luglio 2008.

8 Giovanni Paolo II, Fides et ratio, op. cit., p. 9.

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ragione su stessa è la cifra distintiva, anche se non unica, del pensiero negli ultimi secoli. Immanentismo, cioè, che ha pensato di giustificarsi, imponendo alla riflessio-ne il proprio schema:

il principiato è principio a se stesso. Non esiste il principio. Se esiste, non a. può essere conosciuto. Bisogna trattare solo del principiato;

del principiato si ha sempre una pre-cognizione. Anzi, si è nel principiato. Il b. principiato viene ad essere con la conoscenza di se medesimo;

il principiato è fine a se medesimo. c. Usando questo schema, non è difficile vedere come si giustifica il fatto che le

scienze naturali, ormai uniche a godere del prestigioso status di scienza, dettino l’agenda politica come quella culturale, filosofica, artistica. Nella storia e dalla storia è emersa la scienza che è il significato più vero ed intimo della storia medesima. È l’idea che si fa storia. L’ideale che si muove dietro le quinte della volontà umana. L’ideologia che fornisce schemi di pensiero e di azione. Forse non è l’ultima parola. Ma la gallina del domani nascerà dall’uovo di oggi. Il concetto futuro, trasfigurato come una fenice, sarà sussunto in quello di domani.

Quale sia il meccanismo interno dello schema è stato detto, ma perché potesse iniziare a funzionare era necessario 1. secolarizzare prima, e dunque rendere auto-referenziale la storia, dalla quale 2. sarebbe emerso il senso che avrebbe permesso la spiegazione stessa della storia. Un senso affatto immanente, spiegato dallo storia e spiegante della storia. Un senso che avrebbe saldato i risultati dell’antichità con quelli della modernità; che avrebbe messo d’accordo antichi e moderni, quasi a con-chiudere la querelle secolare. Sarebbe stato trovato nella Ragione, l’ibrido tra l’onni-comprensiva sapienza degli antichi, magari meno precisa ma con più ampia gamma di applicazioni, con la precisione limitata del metodo scientifico.

Vi è una intensa pagina di Cassirer, in cui il filosofo tedesco nota come “non si cerchi l’ordine, la normalità, la ‘ragione’ come una regola concepibile e definibile ‘prima’ dei fenomeni, come il loro ‘a priori’; ma la si scopra in essi come forma del loro interiore legame e del loro nesso immanente. E non ci si affanni ad anticipare questa ‘ragione’ nella forma di un sistema compiuto; ma la si lasci sorgere a poco a poco dalla progressiva conoscenza dei fatti e apparire in modo sempre più chia-ro e perfetto. La nuova logica che si va cercando, convinti di trovarla da per tutto sulle vie del sapere, non è dunque né la logica del concetto scolastico, né quella del concetto puramente matematico; è invece la <<logica dei fatti>>. Lo spirito deve abbandonarsi alla molteplicità dei fenomeni e misurare continuamente il rapporto tra sé stesso e quella molteplicità: può infatti esser certo di non perdersi in essa, ma di trovare soltanto col suo aiuto la propria verità e la propria misura. Solo in questo modi si raggiungerà la vera relazione reciproca, la correlazione tra ‘soggetto’ e ‘oggetto’, tra ‘verità’ e ‘realtà’, si stabilità quella forma di ‘adeguazione’, di corre-

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sponsione tra loro, che costituisce la premessa di ogni conoscenza scientifica”9. Ci sono due modi di concepire i rapporti tra storia e verità: la storia è l’epifania

mai totale della verità; la verità è il progetto mai concluso della storia. È in questa piccola cruna di ago che passa l’intero cammello del cammino filosofico. La storia ha progettato la sua verità – conchiuso o no che sia il cantiere, l’uomo abiterebbe all’ultimo piano, quello delle scienze naturali divenute Scienza. E “ nel secolo scor-so, questo movimento ha toccato il suo apogeo”10: i philosophes del XVIII sec. non erano per nulla dei semplici trattatisti, come la storia che passa tra Hegel e Comte ha fatto maturare, e poi saldato nella più intima linfa della nostra civiltà, una concezio-ne del senso del cammino dell’umanità affatto nuova. L’essere umano non si è mai pensato così. Ha cominciato a pensarsi così in un determinato momento storico che, divenuto l’alta torre dal quale guardare ai millenni precedenti, costruisce il passato determinando il presente, e cioè in qualche modo giustificandosi. Diversamente da come pensava Orwell, chi governa il presente, costruisce il passato, e determina in parte il futuro.

La filosofia della storia non è tutta la filosofia come in Hegel – ciò è senza dubbio vero. E tuttavia non è solo una delle tante, ancorché classiche branche della filosofia. È qualcosa di più. È il ripensamento collettivo del nostro vissuto. Anche se il passato non parla del futuro, comunque grida sul nostro presente. La filosofia della storia può anche essere la meno precisa di tutte le scienze filosofiche, ma ciò non autorizza nes-suno a determinare l’immagine che ogni essere umano ha di se stesso, o di dare un senso a quei pochi anni che viviamo. Il senso della nostra esistenza può prescindere

9 Ernst Cassirer, La filosofia dell’illuminismo, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 25. 10 Giovanni Paolo II, Fides et ratio, op. cit., p. 70. Nel § 46 si può leggere:« Non è esagerato

affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni espli-cite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razio-nalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità. Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richia-mo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano».

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– non del tutto – dal mondo inorganico che crediamo di dominare interpellandolo con i nostri utensili e le nostre teorie; già è abbastanza limitato dalla complessità di quello organico, che ci pone profondi limiti e ci indica parecchi strade; ma non possiamo per nulla prescindere dal nostro rapporto con l’altro, perché non solo lo interpelliamo, ma da esso veniamo interpellati11. E nell’altro, proprio perché condi-vidiamo l’orizzonte del mondo inorganico e di quello organico, noi ri-vediamo noi stessi. Ed è fuori discussione che, con questo altro, condividiamo l’esperienza stori-ca, e non solo nel senso riduttivistico di aver una memoria comune di eventi storici ben determinati, ma nel senso di vivere una condizione dove il tempo è una qualità determinante della nostra struttura ontologica. Le stesse domande fondamentali – “chi sono?”, “da dove vengo?”, “dove vado?”- parlano di un cammino. Un cammino che nessuna civiltà ha pensato come un cammino di solitari. “L’interpretazione della storia – notava LÖwith – è in ultima analisi un tentativo di comprendere il senso dell’agire e del patire degli uomini in essa”12. Non è cosa da poco, anche se non venisse più insegnata nelle nostre accademie o, in esse, non permette avanzamenti di carriera o lauti guadagni. La filosofia della storia “è intesa a definire l’interpreta-zione sistematica della storia universale alla luce di un principio per cui gli eventi storici e le loro conseguenze vengono posti in connessione e riferiti a un significato ultimo”13. Chi determina quel principio, quindi, determina il senso della storia intera. Se si è stati così sospettosi sul conto della metafisica, della morale e perfino di Dio, perché non esserlo circa l’operazione intellettuale di alcuni?

Bisogna porre sotto analisi la lettura scientista della storia occidentale, avendo ben chiaro che essa poggia su due punti fondamentali: la scienza divenuta ideologia e l’idea che il senso della storia sia immanente al corso della storia stessa e da essa determinato. Non si può esaurire tutta la questione qui. Ma tentarne l’approccio è necessario, perché l’euforia con la quale alcuni hanno accolto il maloch ginevrino, nel disperato tentativo che da quel tunnel sotterraneo uscisse fuori la ragione, magari a forma di bosone, che liberasse, novello redentore di marca laica, il genere umano dalle maglie del non-senso nel quale sguazza, perché ormai convinto che “Dio è morto” – ecco, questa euforia è segno di una minaccia concreta per lo sviluppo della nostra civiltà, perché è assai pericoloso far passare la scienza per ciò che non è. Per-

11 « L’uomo non è fatto per vivere solo. Egli nasce e cresce in una famiglia, per inserirsi più tardi con il suo lavoro nella società. Fin dalla nascita, quindi, si trova immerso in varie tradizioni, dalle quali riceve non soltanto il linguaggio e la formazione culturale, ma anche molteplici verità a cui, quasi istintivamente, crede. La crescita e la maturazione personale, comunque, implicano che queste stesse verità possano essere messe in dubbio e vagliate attraverso la peculiare attività critica del pensiero». Fides et ratio, § 31, op. cit. p. 47.

12 Karl LÖwith, Significato e fine della storia, Il saggiatore, Milano 2004, p.24. 13 Ivi, p. 21.

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ché, quando la ragione ha troppo promesso senza mantenere, dopo abbiamo avuto solo tenebre. E come non era vera la troppa luce, sono false le fosche tenebre.

La parte diventa tutto, e la scienza ideologia

Abbiamo detto che la scienza non è più solo un metodo di ricerca, o una descri-zione funzionale di alcune parti dell’intero, bensì una concezione metafisica dell’uni-verso. Non sottovalutarne gli effetti non significa essere reazionari, ma attenti osser-vatori del mondo e partecipi del suo destino. E dare il giusto nome alle cose: non può la scienza trasformarsi in metafisica, e poi non far pesare anche su se stessa quelle critiche che, per mezzo millennio, essa ha rivolto proprio alla più anziana sorella.

Quello che è accaduto nel XIX secolo, maturando nel XVIII, era in nuce già agli arbori del nuovo mondo: quando si tentava la strada di un solo ed unico metodo, che avrebbe dovuto fondare stabilmente la conoscenza umana. Più che ristrutturare la vecchia casa metafisica, se n’è costruita una nuova, ma le esigenze abitative resta-vano le stesse. La filosofia ha cominciato forse a parlare di un nuovo mondo, l’At-lantide sognata, ma la poesia e le arti parlavano di un mistero – quello umano – che rimane ancora insoluto. Nuovi otri, dunque, ma per vino vecchio.

Un cambiamento di paradigma, potremmo dire. Ma rende di più l’espressione mu-tazione metafisica14, presa in prestito dallo scrittore francese Michel Houellebecq:”… la visione del mondo più comunemente adottata in un dato periodo dai componenti di una società è determinante tanto per l’economia quanto per la politica e per il costume di quella società. Nella storia dell’umanità, le mutazioni metafisiche – le trasformazioni radicali e globali della visione del mondo adottata dalla maggioran-za – sono assai rare…. Appena prodottasi, la mutazione metafisica si sviluppa fino alle proprie estreme conseguenze, senza mai incontrare resistenza. Imperturbabile, essa travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici, gerarchia sociali”15.

Il problema non è, appunto, rappresentato dalle conquiste della scienza, ma dal suo carattere totalizzante – di più, totalitario quando smette i panni che le sono propri, per indossare quelli dell’ideologia: “ La scienza, quindi, si prepara a dominare tutti gli aspetti dell’esistenza umana attraverso il progresso tecnologico. Gli innegabili successi della ricerca scientifica e della tecnologia contemporanea hanno contribu-ito a diffondere la mentalità scientista, che sembra non avere più confini, visto come

14 L’espressione è per molti versi assai fuorviante, e viene usata qui solo in senso metaforico. La metafisica non si impone sul reale con l’intento di farlo apparire più consono alle potenzialità che essa stessa ha di spiegarlo, né tanto meno lo costruisce. Lo concettualizza, taglia l’abito mentale sulla misura del corpo reale. Non si può per dire che l’ideologia faccia lo stesso.

15 Michel Houellebecq, Le particelle elementari, Milano 2005, pp. 7-8.

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è penetrata nelle diverse culture e quali cambiamenti radicali vi ha apportato”16. Vedere tutto sotto l’unico aspetto ritenuto possibile: lo scientismo non ammette altri approcci, accanto a sé, nell’esperire e dare senso al reale. “ Questa concezione filo-sofica si rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico”17.

La scienza, divenuta ideologia, è dunque il modo di darsi della realtà nell’attuale condizione storica. “Tutti gli aspetti dell’esistenza umana” sono dominati, ma lo sono non già coll’atto della persuasione, bensì con quello del convincimento: l’unico modo di conoscere è quello proprio “delle scienze positive”. Questo aspetto era stato colto pure da Heidegger, quando scriveva che “ come l’arte, anche la scienza non è affatto semplicemente una attività culturale dell’uomo. La scienza è un modo, e un modo decisivo, in cui si presenta a noi tutto ciò che è. Per questo dobbiamo dire che la realtà, entro la quale l’uomo odierno si muove e si sforza di mantenersi, è code-terminata in misura crescente nei suo tratti fondamentali da ciò che si usa chiamare la scienza occidentale o la scienza europea”18.

La scienza di cui parla Heidegger è cosa assai diversa di quella di Popper, e forse, ancora negli ultimi anni di vita, pesava sulla sua lettura opinioni e riflessio-ni più consoni al clima dei primi anni, da mobilitazione totale, che non a quelli falsificazionisti della metà del secolo. E tuttavia Heidegger coglie due aspetti che possiamo definire quasi profetici: a) la scienza, definita come “teoria del reale”19, è un modo, ma un modo definito decisivo di b) codeterminare in misura crescente la realtà. Decisivo non può poter significare, in un qualche modo, anche definitivo, perché Heidegger più avanti nel saggio citato mostra i limiti delle scienze, e perché la scienza è un modo di darsi dell’essere contingente all’epoca moderna. Decisivo è sinonimo di determinante, e determinante in misura crescente: ciò ci fa pensare che viene un momento in cui questo modo particolare di codeterminare il reale diviene, per peso acquisito, capace di far pendere la bilancia interamente dal proprio lato. Da co-determinante esso diviene determinante tout-court. E lo diviene perché questo modo pretende non già di guardare al reale, ma di mostrare il reale: la scienza può vantare questo rispetto non solo alla poesia, ma perfino alla filosofia e alla teologia, di poter contare sull’apparenza di una neutralità che di fatto non sussiste. Heidegger metteva in guardia dal considerare la tecnica, “anch’essa disvelamento”20, neutra-

16 Giovanni Paolo II, Fides et ratio, op. cit., p. 130. 17 Ivi, p. 129. 18 Martin Heidegger, Scienza e meditazione, sta in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991, p. 28. 19 Cfr. ivi, p. 29. 20 Cfr. ivi, p. 11.

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le21. Non lo è la scienza, e non lo è la tecnica. E non lo sono perché il loro intervento disvela una gamma di possibilità o di angolature che, una volta applicate al reale, lo mutano decisamente. Dunque, non è strano che si sia discusso tanto sulla teoria eliocentrica. E averlo fatto non è segno di oscurantismo – lo è semmai impedire a qualcuno di pronunciare il frutto delle proprie razionali riflessioni – ma è semmai se-gno di severità: la ricerca era davvero presa sul serio. E ciò implicava fare attenzione alle ricadute di talune teorie, per altro non ancora perfettamente dimostrate. In fin dei conti, Copernico prima, e Galileo dopo spostavano non solo se stessi, ma l’umanità intera dal centro alla periferia del cosmo. Sarebbe stato per sempre. E a nessuno, in definitiva, piace essere sfrattato.

Capire il reale significa modificare in parte l’orizzonte entro il quale ci muovia-mo, perché la nostra immagine di questo reale muta coll’approfondimento che ne facciamo. Così come utilizzare anche il più banale ritrovato tecnologico permette che si aprano a noi una gamma imprecisata di azioni. Non accettare una teoria, non utilizzare uno strumento significa solo non percorrere fino in fondo certe strade, non cogliere certe possibilità: una porta si è spalancata dinanzi a noi, vi entriamo o no. Il mondo si apre, a sua volta, alla possibilità di essere esperito in modo affatto diverso da come lo è stato. Per intenderci, non essere rintracciabili telefonicamente oggi non ha lo stesso significato di venti, quindici o anche solo dieci anni fa. L’impossibilità di ieri ha ceduto il posto alla possibilità di oggi.

Ora, non si tratta di non farsi dire qualcosa dalle scienze, perché, se così fosse, la nostra vita sarebbe del tutto menomata. E quanti avvertono che sarebbe deleterio tornare indietro, più che di sensatezza, fanno sfoggio di conformismo, comprato per giunta a buon mercato: non si può tornare indietro punto. Quello che però possiamo fare è non farci dire tutto dal metodo scientifico, che fintantoché è rimasto nel suo ambito di competenza ha solo migliorato la nostra vita e approfondito la nostra co-noscenza.

La Fides et ratio non lascia dubbi sul fatto che non le scienze, ma una errata in-terpretazione dell’avventura scientifica è il nodo che attanaglia le sorti del pensiero occidentale. Innanzi tutto, perché è proprio leggendo il libro della creazione che si intravvede la mano del Creatore: “ Alcuni testi importanti, che gettano ulteriore luce su questo argomento, sono contenuti nel Libro della Sapienza. In essi l’Autore sacro parla di Dio che si fa conoscere anche attraverso la natura. Per gli antichi lo studio delle scienze naturali coincideva in gran parte con il sapere filosofico … l’Autore afferma che, proprio ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: «Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si conosce l’autore» (Sap 13, 5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina, costituito dal

21 Cfr. ivi, p. 5.

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meraviglioso «libro della natura», leggendo il quale, con gli strumenti propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del Creatore”22.

Inoltre, perché questa deviazione scientista ha un inizio ben preciso, e non è da ascrivere a tutta la storia delle scienze naturali: ”Nel passato, la stessa idea si esprimeva nel positivismo e nel neopositivismo, che ritenevano prive di senso le affermazioni di carattere metafisico. La critica epistemologica ha screditato questa posizione, ed ecco che essa rinasce sotto le nuove vesti dello scientismo”23. Questa posizione, appunto, denuncia la trasformazione della scienza in ideologia, la quale presenta quei vizi contro i quali, paradossalmente, la scienza nel suo significato più cogente rappresenta l’antidoto. Infatti, lo stesso concetto di scientificità si accompa-gna alla scoperta dei limiti delle nostre conoscenze24: un principio che spiegasse tut-to, in realtà non spiegherebbe alcunché. Il limite gnoseologico di una teoria è l’altra faccia di un limes quasi geografico, che demarca i confini entro i quali quella teoria può essere valida. Ma proprio questo senso del limite offre parametri di controllo per la veridicità delle proposizioni scientifiche: la scienza mira ad escludere fatti, l’ideologia ad includerne. Per questa ogni evento è una conferma, per quella lo sono solo alcuni, mentre altri potrebbero mostrarci i limiti delle nostre teorie. Ecco perché la scienza si mostra pluralista: non un atteggiamento di comoda accondiscendenza al comune sentire, bensì una necessità implicita alla sua impresa

Questo procedere dell’impresa scientifica è l’esatto opposto del procedere dell’ideologia. Ma la scienza la si doveva trasformare in ideologia, cioè in “ una visione in qualche modo totalizzante della realtà, la quale ha soprattutto il compito di consentire una serie di immediate applicazioni alla condotta pratica, fornendo ad esse, specialmente per quanto riguarda l’ambito dei comportamenti sociali, una sorta di implicito quadro di riferimento e giustificazione25“, se si voleva che essa soppiantasse quanto si era tentato di sradicare dalla cultura europea. Perché la scien-za, se rimane veramente tale, non impedisce l’apertura alla trascendenza, anzi dal connaturato istinto di trascendenza essa prende avvio. Ma se essa diventa onnicom-prensiva e, dunque, autoreferenziale, cioè ciò che per sua natura non dovrebbe esse-re, allora avremo un solo principio, l’unico principio, e per giunta immanentistico.

Che poi questo principio conosca la specializzazione non è un problema, basta formare una classe di studiosi ben preparati per riassettare quello che è stato, prima, sminuzzato:” Ma, pur riconoscendo i prodigiosi risultati di questa divisione e pur vedendo in essa la base fondamentale dell’organizzazione del mondo del sapere, è

22 Giovanni Paolo II, Fides et ratio, op. cit., p. 32-33. 23 Ivi, p. 129.24 Cfr. Evandro Agassi, Il bene il male e la scienza. Le dimensioni etiche dell’impresa scien-

tifico-tecnologica, Rusconi, Milano 1992, pp. 82 -96. 25 Ivi, p. 83.

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impossibile, d’altra parte, non imbattersi negli inconvenienti che essa genera allo stato attuale, per l’eccessiva limitazione dei campi di indagine. Una maniera valida per arrestare l’influenza deleteria, da cui l’avvenire sembra minacciato in seguito ad una esagerata specializzazione della ricerca individuale, non sarà certamente quel-la di ritornare all’antica confusione dei lavori, la quale farebbe soltanto regredire lo spirito umano e che al giorno d’oggi sarebbe impossibile. Essa consiste al con-trario nella perfezione della divisione del lavoro. Basta, in effetti, fare dello studio delle generalità scientifiche una grande specialità in più. Che una nuova classe di sapienti, preparati da una educazione adeguata, non legati alla cultura specialistica della filosofia naturale, si occupi unicamente, considerando le diverse scienze po-sitive allo stato attuale, a determinare esattamente lo spirito di ciascuna di esse, a scoprirne le relazioni ed i nessi, a ricondurre, se è possibile, tutti i principi propri in un minor numero di principi comuni, conformandosi continuamente ai fondamenti del metodo positivo”26.

Ma non è strano che le scienze, guadagnato il particolare, abbiano bisogno di un nuovo momento di sintesi, per quanto conforme “ai fondamenti del metodo positivo” ed assai diverso dall’”antica confusione dei lavori”? Non lo è affatto, perché a ben vedere i dati di alcune possono essere necessari a quelli di altri: implicitamente, e molto metafisicamente, viene presupposta una unità, data dall’unicità del metodo di indagine (in questo caso, quello empirico). Presupposto metodologico, esso è pure presupposto ontologico, giacché, se è vero che il modo di darsi dell’essere all’uomo è come idea, bisogna anche ammettere che non ci può essere conoscenza del nulla. Le scienze si rivolgono a un mondo che già esiste, ed esiste nella sua unità e logi-cità. Tanto lo è, che il nostro modo di pensare questo universo è di fatto, mica solo come ipotesi, esteso alla totalità del cosmo intero. Le stelle più vicine come quelle che si perdono nello spazio infinito sono indagate con i medesimi strumenti concet-tuali. Scriveva Husserl nella Krisis: “L’ardimento e l’originalità che è propria della nuova umanità anticipa ben presto, su queste basi, il grande ideale di una scienza razionale e onnicomprensiva in un senso nuovo, cioè l’idea che la totalità infinita di ciò che è sia in sé una totalità razionale e che, correlativamente, essa possa essere dominata, e dominata completamente, da una scienza universale27“. Uno dei motivi per cui né i filosofi della rivoluzione scientifica, né i loro successori sono riusciti a tacere davanti agli interrogativi dell’uomo: gli hanno risposto. Mentendo forse, ma gli hanno risposto, proponendo quella soluzione che credevano panacea di tutti i mali. Comte non mutò i problemi della filosofia, ma il metodo con in quale risolverli. 26 A. Comte, Corso di filosofia positiva, citato in F. Tonon, Auguste Comte e il problema sto-

rico-politico nel pensiero contemporaneo, G. D’Anna, Messina-Firenze, 1975, pag. 136.27 Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Sag-

giatore, Milano 1997, p. 52.

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Oggi pure facciamo la stessa cosa, quando rispondiamo al perché dell’amore tirando in ballo i feromoni e altre alchimie simili.

Il reale ormai è pensato come modello da potersi ri-fare in scala tramite esperi-mento. In un qualche modo, ri-crearlo. Riducendo il reale, i più onesti hanno ridotti anche la portata dei problemi che si possono risolvere, ma i più hanno ridotto innan-zitutto le soluzioni. Ma se tutto si riduce all’uomo, all’essere umano concreto, all’in-dividuo, allora non abbiamo ragione di dubitare che quelle che paiono tenebre sono solo piccole nubi che offuscano transitoriamente il sole dell’avvenire. Se non sarà l’individuo concreto, saranno gli individui (l’umanità dell’immanenza) a vederlo, e non c’è più bisogno di Dio o di un’idea dell’Iperuranio che garantiscano il buon esito dell’avventura. La razionalità del processo è immanente al progresso stesso, che si svela tramite i suoi strumenti: il copione si fa da sé medesimo mentre fa ballare i pupi sul palcoscenico del mondo.

Dalla Provvidenza al progresso

Due cose, che dobbiamo agli altri, segnalano la nostra debolezza ontologica: i primi anni del nostro vivere sono affidati ai ricordi degli altri, come alla memoria al-trui trasmettiamo, esalato l’ultimo respiro, il senso della nostra esistenza. Il salmista ci ricorda con lucidità che: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo”(Sal 89). Forse oggi il messaggio non è più consono allo spirito assai vacanziero e goliar-dico dei tempi, ma viene per tutti il giorno in cui dobbiamo fare i conti con quella che Borges diceva essere l’usanza che tutti, prima o poi, avremmo finito per onorare: la morte. Così, il salmista chiedeva al Signore che gli insegnasse a contare i giorni, perché solo in questo modo è possibile arrivare alla “sapienza del cuore”.

Ogni uomo, anche il meno addentro alla riflessione filosofica o teologica, cerca un senso, il fine della propria vita. Anche il più stolto: magari il bersaglio è ad un pal-mo dal naso – il sesso, lo sballo dell’alcol o della droga, il danaro, il potere. E prima o poi, quello che dapprima può sembrare un soliloquio, diventa un appello corale: l’uomo scopre il mondo, e scopre che anch’esso geme e frema a causa delle doglie del parto. Qualcosa può cambiarla -ma perché farlo? per quale fine?; qualcos’altra no, non può usarla come mezzo a fine, perché quell’altra è anch’essa in cerca di un fine: è un altro. Che cammina anch’esso alla ricerca del senso della propria vita.

Lo stesso Gesù, provocato da farisei e sadducei, rimproverò loro la durezza del cuore. E in poche parole espresse quanto neppure in un intero trattato avremmo po-tuto dire: “Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?”(Mt.16,3). Interpretare i segni dei tempi, magari con l’aiuto dello

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Spirito Santo, il Consolatore, che – dice Gesù -”v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”(Gv. 14, 26).

Il tempo ha un valore fondamentale nel Cristianesimo: 1.”Viene alla luce l’intera opera della creazione e della salvezza”, ed 2.”emerge il fatto che con l’incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e anticipiamo fin da ora ciò che sarà il compimento del tempo”28. Ecco perché “la storia … costituisce per il popolo di Dio un cammino da percorrere interamente, così che la verità rivelata esprima in pienezza i suoi conte-nuti grazie all’azione incessante dello Spirito Santo”29.

Ma è già lo stesso concetto di creazione che impone un fine: quando Dio ha cre-ato il mondo, lo ha fatto per un fine – ovviamente, in questo caso, il perseguire quel fine non ha comportato alcun miglioramento per l’agente, ma solo la comunicabilità della sua perfezione - altrimenti Dio avrebbe agito per caso. Scrive san Tommaso: “Ogni agente agisce per un fine: altrimenti dall’operazione non potrebbe risulta-re un effetto piuttosto che un altro, se non per caso. Ora, l’operante e il soggetto paziente come tale hanno l’identico fine, ma sotto aspetti diversi: infatti ciò che l’agente mira ad imprimere e quello che il paziente è disposto a ricevere è una sola e identica cosa. Ma ci sono degli esseri che nell’imprimere attivamente la propria azione ne ricevono anche (un perfezionamento), e tali sono gli agenti imperfetti: è naturale quindi che essi nell’agire mirino ad acquistare qualche cosa. Ma al primo agente, cioè a Dio, che è pura attualità, non si può attribuire l’operazione fatta per giungere al possesso di un fine; egli invece mira soltanto a comunicare la propria perfezione, che è la sua stessa bontà. E ogni creatura tende a raggiungere la propria perfezione, che è una somiglianza della perfezione e della bontà divina. In tal modo dunque la divina bontà è causa finale di tutte le cose”30. Se Dio comunica la sua per-fezione per amore, allora vuol dire che nell’uomo è possibile rintracciare un vestigio della Trinità31, di cui del resto ci parla anche il Genesi. Dunque, data la caduta, la storia dell’uomo è una lenta risalita, una ri-scoperta della propria perduta perfezione. Proprio questo agire primo per un fine apre le porte al concetto di provvidenza: “è necessario – scrive S. Tommaso – che tutto ciò che in qualsiasi modo ha l’essere sia da Dio ordinato al suo fine… la provvidenza di Dio non è altro che l’ordinamento delle cose verso il loro fine… è necessario che tutte le cose siano soggette alla divina provvidenza nella misura della loro partecipazione all’essere”32.

La visione provvidenziale della storia perdura ancora nel XVIII secolo con Giam-

28 Giovanni Paolo II, Fides et ratio, op. cit., p. 18.29 Ivi, p. 19. 30 S. Tommaso D’Aquino, Somma Teologica, I,q.44,a.4. Il testo italiano è tratto dall’edizione

a cura dello Studio Domenicano di Bologna. 31 Cfr ivi, I.,q.45, a.7.32 Ivi, I.,q.22, a.2.,

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battista Vico, la cui visione metafisica non può essere ridotta all’immanentismo dei suoi lettori. Purtroppo, però, egli rimase inascoltato, poco conosciuto, e ai nostri giorni assai frainteso. Ormai si profilava l’avanzare della marea, e per chi, come il Napoletano, non si era neppure allineato alle direttive cartesiane allora dominanti, non poteva trovare studiosi pronti ad ascoltarlo in un’epoca che, più che guardare al Discours de la Méthode, si volgeva alle “Regulae philosophandi di Newton e questa risoluzione imprime tosto agli studi una direzione del tutto diversa”33.

“La filosofia del secolo XVIII – nota Cassirer – considera fin dall’inizio i pro-blemi della natura e le questioni storiche come un’unità che non si può spezzettare arbitrariamente o scindere nelle singole parti. Essa cerca di applicare agli uni e alle altre gli stessi mezzi di pensiero; vuol adottare lo stesso modo di impostare i proble-mi e lo stesso metodo universale della ‘ragione’ per la natura e per la storia”34. Il “modo di impostare i problemi” è quello immanentista, e così “la fede nel progresso ha sostituito quella nella provvidenza”35, come il processo sostituisce la sostanza, e il pensiero l’essere. È un effetto domino: lo sperimentiamo nel mondo economico con i crolli delle borse internazionali, lo sperimentiamo nel mondo delle idee con le ricadute di una spiegazione metafisica. Del resto, non possiamo certo asserire che il discorso si mostri fallace: anzi è logico, di assoluta coerenza. Sono ormai lo spirito e il suo sviluppo la sostanza della storia36, e dunque la ragione governa il mondo37: tutto va perfettamente, non c’è alcuna sbavatura. Lo scacco che vediamo tra il razio-nale e il reale è solo apparente, perché la trama “di quel grande tappeto che la storia mondiale stesa davanti a noi” sono le passioni umani, ma è l’idea che ne rappresenta l’ordito. Tutto va come deve andare, la storia è solo “il teatro della rappresentazio-ni dello spirito, la raffigurazione del mondo nel quale lo spirito elabora il sapere del suo essere in sé”38: non si recita a soggetto, anche le improvvisazioni non sono improvvisazioni. O meglio, chi improvvisa crede di improvvisare, ma non improv-visa affatto: “proprio come il seme reca dentro di sé l’intera natura della pianta, il gusto, la forma dei frutti, così anche le prime tracce dello spirito contengono giù virtualiter l’intera storia”39. Lo stesso Hegel si era posto i dilemmi degli uomini di oggi, i quali, fuori dall’occhio mediatico dei salotti buoni della illuminata piccola borghesia televisiva, si chiedono se il mito del progresso a tutti i costi sia un fine che giustifichi i costi sociali, ambientali, e soprattutto umani: Hegel sapeva che per

33 Ernst Cassirer, La filosofia dell’illuminismo, op.cit., p. 23. 34 Ivi, p. 230. 35 Karl LÖwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 22.36 Cfr. F.W. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 16.37 Cfr. ivi, p. 10. 38 Ivi, p. 17.39 Ibidem.

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raggiungere il suo fine, la ragione scannava e disossava sul “banco da macellaio” della storia “la felicità dei popoli, la saggezza degli stati e la virtù degli individui”40, ma pensava bastasse la consapevolezza della necessità, per renderci in parte liberi. E auspicava di “farci una ragione del male nel mondo, dobbiamo conciliare lo spirito pensante con la malvagità stessa. Davvero non c’è un’altra materia dove l’esigenza di conciliazione mediante la conoscenza sia così grande come nella storia mondiale. Tale conciliazione può essere raggiunta solo mediante la conoscenza del risultato affermativo, nel quale quel momento negativo svanisce come qualcosa di subor-dinato, superato, ossia mediante la consapevolezza non solo di quale sia in verità il fine ultimo del mondo, ma anche del fatto che questo fine s’è realizzato, non ha permesso al male di farsi valere al suo fianco sino all’ultimo”41. La ragione sfrutta le passioni degli uomini; su alcuni pone addirittura un fardello enorme, perché lo por-tino dall’altro lato della riva, nei momenti in cui l’umanità transita, nei momenti di forte cambiamento. Ma anche questi colossi della storia, in realtà sono delle povere vittime, coscienti solo dell’infelicità che il destino causa loro.

Hegel sfrutta la relatività galileiana per ottenere un esito antirelativistico. Gli uomini credono di andare controcorrente, come il passeggero crede di muoversi in direzione opposta alla marcia del treno. Ma è mera illusione. Se riuscissero davvero a penetrare il fine della storia, si accorgerebbero che la direzione è univoca. Opinio-ni, filosofie, costumi diversi? In superficie è così: è la trama della storia. Ma l’ordito è ben altro. L’arazzo già c’è, manca solo di cucirlo. E sarà cucito, costi quel che costi. Il processo deve compiersi, e la ragione si serve di tutti, ma soprattutto di chi è più sensibile alla nuova ondata storica. Il migliore ad adattarsi, insomma.

Ma proprio questo segnala le differenza con la provvidenza cristiana. Hegel stesso ne rintracciava una in particolare: “Infatti quella fede è [nella provvidenza] è altret-tanto indeterminata, è quel che diciamo una fede nella provvidenza in genere, inca-pace di prevedere fino ad abbracciare un contenuto preciso, fino ad applicarsi all’in-sieme, all’andamento complessivo della storia mondiale. Eppure spiegare la storia significa svelare le passioni dell’uomo, il loro genio, le loro forze attive, e questa determinatezza della provvidenza. Si chiama di solito il suo piano. Ma questo piano è proprio ciò che si pretende rimanga nascosto ai nostro occhi, e vederlo conoscere ci renderebbe colpevoli di un’audacia sconveniente”42. Hegel vuole vedere le carte di Dio, e sa che la cosa passerebbe come hybris. Questa la differenza, a suo avviso, tra una generica fede nella provvidenza e la visione razionale della storia mondiale. Eppure, la differenza è anche rappresentata dal ruolo del “singolo individuo, dotato

40 Cfr. Ivi, p. 20. 41 Ivi, p. 15. 42 Ivi, p. 13.

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di nome e cognome, cioè di specifica personalità”43: senza salvarlo, senza far entrare in gioco la sua esistenza, con i dolori, gli affanni, il male che possono fare capoli-no tra i suoi giorni, la storia si ridurrebbe, appunto, a mera ideologia, la flessione disumana della dignità umana davanti al peso della ragione che diviene. Tommaso distingueva tra due tipi di cause, che generano due ordinamenti diversi eppure non opposti: la causa generale e quella particolare. Si poteva sfuggire all’ordinamento di questa, ma non già a quello dell’altra. “Una cosa è (parlare) della causa universale e altra cosa (parlare) della causa particolare. Si può infatti sfuggire all’ordinamento della causa particolare, ma non a quello della causa universale”44. Dio prevede tut-to, perché tutto è pensato da lui prima dei tempi. Ovvio che pensa non solo alle cause necessarie, ma anche a quelle contingenti, ma ciò non toglie che tra le due ci sia una enorme differenza:” La divina provvidenza rende necessarie alcune cose, ma non tutte, come alcuni hanno creduto. Alla provvidenza, infatti, appartiene indirizzare le cose al loro fine. Ora, dopo la bontà divina, la quale è il fine trascendente delle cose, il bene principale in esse immanente è la perfezione dell’universo, la quale non esisterebbe affatto se nelle cose non si trovassero tutti i gradi dell’essere. Quindi alla divina provvidenza spetta produrre tutte le gradazioni dell’ente. Perciò ad al-cuni effetti ha prestabilito cause necessarie, affinché avvenissero necessariamente; ad altri, invece, ha prefisso cause contingenti, perché potessero avvenire in modo contingente, secondo la condizione delle loro cause immediate”45. L’ordine stabi-lito dalla provvidenza poggia dunque sulla distinzione tra cause necessarie e cause contingenti. E sul fatto – e qui Hegel ha perfettamente ragione – che “per esempio, l’incontro di due servi, sebbene sia per loro casuale, è previsto dal loro padrone, il quale intenzionalmente li ha mandati in un medesimo posto, l’uno all’insaputa dell’altro”46. Come detto prima, Hegel pensa di poter decifrare il corso storico, di poter carpire i misteri della mente di Dio, il cui piano finisce per essere a portata di mano dell’uomo. Ma se tutto si riduce all’uomo, allora è ovvio che, lì dove questi avrebbe visto libertà, d’un tratto vi scorge l’orma della necessità. Ma non è che non sia libero in quanto uomo: è che si è messo a fare il dio, pur non potendolo. Se, per esempio, io sapessi del giorno della mia morte, non sarebbe sorprendente vedere tutto quel che è accaduto sotto l’ombra di quel fine, e avere il sospetto che ogni cosa che mi sia successa portasse a quell’unico fine. Hegel era convinto che tutto, nella storia dell’umanità, portasse a quell’unico fine che era quello che lui pensava fosse la ragione della storia. Frattanto, però, la storia è andata avanti, sono passati secoli.

43 Paolo Miccoli, Il problema della storia in prospettiva cristiana, sta in AA.VV, Il problema della storia, edizioni Augustinus, Palermo 1988, p. 32.

44 Somma Teologica, I,q.22.,a.2,sol.1.45 Ivi, I.,q.22.a.4.risp. 46 Ivi, I.,q.22.,a.2,sol.1.

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Hegel è finito davvero, la storia no. Mischiando cause universali e cause contingenti, non è difficile considerare un

niente l’essere umano. Un nulla da asservire al fine che la storia sta dettando – che qualcuno pensa che la storia stia dettando. È ideologia, appunto, e quel che è peg-gio, è che l’ideologia, oltre che infalsificabile, è pure onesta e generosa. Lo scritto-re russo Solzenicyn, recentemente scomparso, ha dato la più ironica, e allo stesso tempo la perfetta descrizione di quali siano gli effetti dell’ideologia:” Per fare del male l’uomo deve prima sentirlo come bene o come una legittima, assennata azio-ne. La natura dell’uomo è, per fortuna, tale che egli sente il bisogno di cercare una giustificazione delle proprie azioni. Le giustificazioni di Macbeth erano fragili e il rimorso lo uccise. Ma anche Jago è un agnellino: la fantasia e le forze spirituali dei malvagi shakespeariani si limitavano a una decina di cadaveri: perché mancavano di ideologia. L’ideologia! è lei che offre la giustificazione del male che cerchiamo e la duratura fermezza occorrente al malvagio. Occorre la teoria sociale che permetta di giustificarci di fronte a noi stessi e agli altri, di ascoltare, non rimproveri, non maledizioni, ma lodi e omaggi. Così gli inquisitori si facevano forti con il cristiane-simo, i conquistatori con la glorificazione della patria, i colonizzatori con la civi-lizzazione, i nazisti con la razza, i giacobini (vecchi e nuovi) con l’uguaglianza, la fraternità, la felicità delle future generazioni”47. Si riferiva, con tutta probabilità, ad un discorso del genere:”Niente di più chiaro; qualunque siano i suoi crimini, l’URSS ha questo temibile privilegio nei confronti delle democrazie borghesi: l’obiettivo rivoluzionario”48. Non sappiamo se Sartre avrebbe accettato l’obiettivo rivoluzionario che avesse portato lui e la sua cara Simone a concimare gli alti arbusti della Siberia, ma in nome di questi obiettivi, di questo senso della storia “abbiamo visto eliminare con rigore implacabile gli avversari, gli oppositori, i deviazionisti; mai è esistito tiranno più assoluto, carnefice più crudele che in quei paesi in cui degli uomini si sono creduti interpreti o agenti del destino”49. Oggi che la politica non crede più di estinguere le pene del cuore e quelle del corpo, ed ha fallito il suo compito secolare di far spuntare le piante dell’Eden tra le città degli uomini, nuovi destini attendono di essere compiuti, reclutando tra onesti scienziati e medici i loro più attenti esecutori. È lo “gnosticismo della storia – quello gnosticismo della storia che è stato portato da Hegel alle supreme altezze della metafisica, ma che poi si può trovare anche, a tutt’altro livello, in un siste-ma tanto affascinato dalle scienze positive e tanto decisamente antimetafisico, quale è quello di Comte”50. Questo gnosticismo è uno – poco importa che sia la Ragione, la Scienza o la Classe a portare a compimento il lavoro della storia. Questo gnosticismo 47 A. Solzenicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano, 1974, vol. I, pag. 185.48 J.-P. Sartre, Il filosofo e la politica, Editori Riuniti, Roma, 1972, pagg. 223. 49 Henri-Irènèe Marrou, Teologia della storia, Jaca Book, Milano 1969, p. 22. 50 Jacque Maritain, Per una filosofia della storia, Morcelliana, Brescia 1967, p. 32.

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non tiene conto che, mentre tenta di raggiungere l’obiettivo che esso ha prefisso alla storia, milioni di uomini portano “in silenzio la croce della storia, e se qualcosa induce a pensare che il “senso” di quest’ultima potrebbe essere compreso teologicamente, ciò è appunto la concezione cristiana della sofferenza”51. È davanti al dolore che le avveniristiche visioni del mondo e della sua storia hanno sempre naufragato. Perché l’illusione scompare, e la verità si mostra sotto le sembianze dei limiti e della fragilità della condizione umana. Davanti al dolore, il figlio del progresso trova una risposta: c’è qualcosa da fare, perché la nave non s’incagli e continui la sua rotta. Solitamente, è la specie che compensa i danni dell’individuo. Quando un singolo sta per morire, lo si illude dicendo che i sacrifici e le privazioni in cui è incorsa la sua esistenza non sono stati privi di senso, perché c’è un domani, e in quel domani non lui – ovvio, sta per morire – ma l’umanità vedrà il sole dell’avvenire. Verranno giorni splenditi in cui non si morirà più di cancro, né di fame, e i popoli vivranno in pace e solidarietà. Domani; oggi, invece, è bene non alimentare più il corpo dal quale non ci giungono più palesi segnali di vita attiva. Domani forse saremo in grado di riaggiustare quel che s’è rotto, o almeno di capire se continui, sotto l’imperturbabilità di un viso, a funzionare, magari a livello minimale. Domani. Oggi possiamo offrire una morte serena – serena almeno per chi sta a guardare dal di fuori quel corpo.

“Al problema del dolore – ammette onestamente LÖwith – il mondo occidentale ha dato due differenti risposte: il mito di Prometeo e la fede nel Crocifisso. Né il paganesimo né il cristianesimo hanno comunque ceduto all’illusione moderna che la storia costituisce uno sviluppo progressivo, che risolve il problema del male e del dolore con la sua graduale eliminazione”52. Questo perché nessuno scambiava il fine per il mezzo. Maritain fu laconico, ma essenziale:”Noi non siamo i cooperatori della storia; noi siamo i cooperatori di Dio”53.

Maritain era nel giusto quando affermava che ci vuole una buona metafisica per una buona filosofia della storia: “La filosofia della storia è l’applicazione finale delle verità filosofiche, non alla condotta dell’uomo singolo – come fa la filosofia morale – bensì al movimento intero dell’umanità- per questo motivo è una filosofia morale”54. Maritain non ritiene che la storia possa essere spiegata razionalmente “secondo leggi necessitanti”, ma può essere “caratterizzata, interpretata e decifrata sotto in una certa misura e limitatamente ad alcuni aspetti generali: nella misura in cui riuscia-mo a scoprire in essa significati o direzioni intellegibili, e leggi che illuminano gli eventi senza necessitarli”55.

51 Karl LÖwith, Significato e fine della storia, op. cit., p. 24. 52 Ibidem. 53 Jacques Maritain, Per una filosofia della storia, op. cit., p. 51. 54 Ivi, p. 22. 55 Ivi, p. 33.

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L’uomo si trascende. Continuamente. E si trascende in tutti gli aspetti del suo essere: dalla conoscenza alla morale, l’essere non collima mai col dover essere. Non fa dunque difetto il tentare di comprendere la storia, ma l’ingabbiarla. Caratterizzan-dola, egli trascende se stesso, ma non immanentizza la storia. Ma se essa può essere ridotta ad un’idea onnicomprensiva, tutto il senso della vita ci apparirà d’un tratto evidente. E allora ci sarebbe da chiedersi perché continuare a vivere.

le decisioni dogmatiche

Il destino non esiste. Almeno, se per destino intendiamo il senso compiuto del no-stro vivere nella piena disponibilità della conoscenza. Se Dio non esiste, allora non si vede come possa essere destinato qualcosa; ma se, invece, esiste, allora è posto male il problema del destino: la conoscenza che Dio ha delle cose è fuori dalla successione temporale, che permette di dare un significato ai concetti di causa ed effetto neces-sari a capire se siamo liberi o determinati nelle nostre azioni. La libertà dell’essere umano non sta nel fatto di vivere in un mondo totalmente slegato, la cui struttura egli pian piano ricostruisce, bensì dal non avere preventivamente cognizione di quella struttura. Come in un puzzle, il compito dell’uomo non è quello di crearsi la struttura per far collimare i pezzi, bensì trovare i pezzi giusti per incastrarli tra loro al fine di ricostruire la struttura data. Con l’unica differenza che, vivendo, non abbiamo dipin-ta sulla scatola del gioco dell’esistenza quello che dobbiamo formare. Non abbiamo idee chiare su cosa, alla fine, ne uscirà fuori: ma possiamo provare – dobbiamo pro-vare, andando avanti, coniugando i dati dell’osservazione e i raziocini dell’intelletto, diceva Maritain. Saremo sempre sull’orlo della revisione, perché sappiamo bene che più grandi sono i calcoli da fare, più ampio è il margine di errore.

Ma non possiamo stabilire prima, e per tutti, quello che abbiamo da capire pian piano.

Quando si chiede alla Chiesa, allo Stato, alla Cultura o alla Filosofia, o più sem-plicemente agli Esseri Umani di accettare qualcosa solo perché, nell’immediato, pare sia dettato dal Destino; di inchinarsi perché così ha da essere – “lo ha deciso la storia”; quando si chiede tutto ciò, non si sta facendo filosofia, e ben che meno si è critici, ma dogmatici: “il destino è lì fuori, è quello che è, e ci aspetta”.

Non è così. Intanto, è facile scambiare un favilla per una grande fiamma, quando la prima ci è posta sotto gli occhi, e l’altra è a distanze ragguardevoli. Il destino che alcuni intravvedono oggi potrebbe essere smentito tra secoli, o addirittura divenire colpa davanti al tribunale delle generazioni future. Chi firmò a Monaco fu guardato nell’immediato come un fautore della pace, e come vigliacco alla fine del secondo conflitto mondiale.

Inoltre, si considera come un progresso, un “andare avanti” il seguire certe stra-

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Lo gnosticismo storico e l’ideologia della scienza

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de, mentre “un arretrare” il non farlo. Ma chi ha deciso? Quali prove potrebbero portare i fautori di questa mera opinione? Perché di opinione di tratta, non di cono-scenza fondata. Il più delle volte, per suffragarla, si ricorre al semplicistico ricorso all’opinione comune, immemori che, fino a ieri, quelle stesse folle acclamavano altri dei, assisi sui troni che abbiamo visto sgretolarsi sotto la spinta della libertà e della dignità umana. E poi, dato che non è difficile notare come molti altri non pensano affatto negli stessi termini, chi decide quale sia l’opinione più qualificata o numeri-camente determinante?

Infine, dire che “l’uomo è storia e nient’altro che storia” non è per nulla conve-niente, perché, se tale dovesse essere il nostro parametro di giudizio, ci ritroverem-mo a giustificare la barbarie. E se si afferma che il concetto di persona ha mutato vari significati nella storia, altrettanto è vero per il concetto di progresso: lasciare un baglio ricco di strumenti ma scarso di valori che non siano quelli collegabili al de-cisionismo individualistico non è proprio quello che, invece, abbiamo accolto dagli uomini che ci hanno preceduto.

“La storia ha prodotto la scienza positiva e la scienza positiva dà un senso alla storia”: questo è uno schema di interpretazione. Uno, però; non il solo. Anzi, il peg-giore, e non perché non lo si condivide per ragioni religiose o chi sa per cos’altro, ma perché ieri come oggi ci chiede di sacrificare ciò per cui esso è e da cui esso trae origine: quell’uomo, quell’individuo “con un nome e cognome” che non può essere trattato come mezzo a fine. Ben che meno se il fine è una sua nuda opinione.

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