1 Stranieri nella città porosa L’integrazione degli immigrati nel quartiere Mercato a Napoli. Il caso dei cabardini di Avolio Antonella Paper for the Espanet Conference “Italia, Europa: Integrazione sociale e integrazione politica” Università della Calabria, Rende, 19 - 21 Settembre 2013 Università degli Studi di Napoli Federico II Dipartimento di Scienze Sociali [email protected]
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Stranieri nella città porosa L’integrazione degli immigrati nel quartiere Mercato a Napoli.
Il caso dei cabardini
di
Avolio Antonella
Paper for the Espanet Conference “Italia, Europa: Integrazione sociale e integrazione politica”
Università della Calabria, Rende, 19 - 21 Settembre 2013
Università degli Studi di Napoli Federico II Dipartimento di Scienze Sociali [email protected]
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1. Introduzione. Processi locali di “integrazione urbana”
La letteratura relativa ai fenomeni migratori è molto ricca e articolata, ma affonda le proprie radici
nella prima metà del Novecento, periodo in cui il fenomeno migratorio entra a far parte della
riflessione sociologica e in particolare della sociologia urbana (Alba, Nee, 1997).
Ogni esperienza migratoria ripropone il problema dell’adattamento nella società d’accoglienza, del
modo in cui il migrante riesce a conciliare il proprio retaggio socio-culturale con le consuetudini e
le regole del paese in cui è approdato (Simoni, Zucca, 2007). Questo contributo presenta i risultati
di una ricerca empirica condotta nel quartiere Mercato a Napoli. L’oggetto d’analisi è stato
l’integrazione della comunità cabardina, un gruppo etnico proveniente dalla Repubblica autonoma
Cabardino-Balcaria della Federazione Russa, il cui flusso migratorio verso la città di Napoli ha inizio
a fine anni Novanta.
I motivi che mi hanno condotto a realizzare la ricerca in questa porzione di città sono dovuti
all’interesse di comprendere quali siano gli esiti in termini di integrazione dei migranti in un
contesto di esclusione sociale, in un quartiere in cui la popolazione straniera residente ha
raggiunto una presenza significativa, soprattutto in rapporto alla media cittadina. L’obiettivo del
lavoro è stato quello di comprendere in che modo il percorso di inserimento dei cabardini sia
influenzato dal tessuto sociale del quartiere in cui vivono, caratterizzato da condizioni di vita e di
lavoro già precarie per gli autoctoni, cercando di capire in che modo tale contesto di esclusione si
ripercuota sui nuovi arrivati, innescando o meno meccanismi di consolidamento
dell’emarginazione.
Il termine “integrazione” si afferma prevalentemente in ambito europeo, sostituendosi al termine
“assimilazione” che ha influenzato il dibattito americano, grazie agli studi pionieristici della Scuola
di Chicago, a contatto con le trasformazioni sociali prodotte dalla grande ondata migratoria giunta
in America tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento. La teoria classica ha
portato avanti l’idea di assimilazione come inevitabile esito dei fenomeni migratori (Park, Burgess,
1924), in termini di “un processo di interpenetrazione e fusione in cui persone e gruppi
acquisiscono le memorie, i sentimenti e gli atteggiamenti di altre persone e gruppi e, condividendo
le loro esperienze e la loro storia, sono incorporati con essi in una vita culturale comune” (ibidem,
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735). Lo scopo di tutta la serie di studi sul fenomeno in quegli anni è stato quello di fronteggiare
un’ondata crescente di ostilità verso gli immigrati, quando gli americani “anglosassoni” si sono
scoperti, per la prima volta, in numero inferiore alla popolazione complessiva (Bernardi, 2004).
Il paradigma assimilazionista ha costituito il principale modello teorico di riferimento negli studi
sull’immigrazione e le relazioni etniche fino all’inizio degli anni Settanta, per essere poi rivisto e
criticato per l’incapacità a riconoscere la dimensione politica nei processi di integrazione e
comunque la loro indipendenza esclusiva dai fenomeni economici (Ambrosini, 2006).
I teorici dell’assimilazione segmentata (Portes, Rumbaut, 2001) propongono una definizione più
articolata del concetto di assimilazione classica, sottolineando come tale processo non sia
scontato e lineare, in cui la piena assimilazione e acculturazione rappresenta solo uno dei possibili
risultati. Questi studiosi considerano la società come un sistema stratificato di ineguaglianze sociali
in cui vi è un diverso accesso al potere e “diventare americani” dipende da quale strato della
società si è assorbiti, per quali aspetti e con quali esiti, tanto in riferimento ai fattori culturali
quanto a quelli economici.
Soprattutto in anni più recenti, in forza dei rilevanti cambiamenti dei fenomeni migratori in atto,
sono molti gli studiosi che concordano sul fatto che i processi di integrazione sono aperti a
molteplici esiti, in gran parte collegati a fattori di contesto politico, sociale, economico e culturale
(Penninx, Martiniello, 2007; Caponio, Borkert, 2010). Questi diversi fattori rappresentano
altrettante dimensioni con cui si può guardare all’integrazione, che pertanto si configura come
concetto multidimensionale, oltre che dinamico, e che può essere declinato a diversi livelli di
analisi. Il livello macro, che si configura come sistemico, è rappresentato dal modello di
integrazione che si delinea a partire dalle politiche migratorie, quello che in Italia è stato definito
da Ambrosini (2005) “modello implicito di integrazione” e da Perocco (2003) “modello
dell’apartheid all’italiana”, e che rappresenta la premessa a qualsiasi forma di integrazione locale,
definendo le condizioni, in termini di opportunità e vincoli, ai fini dell’effettivo accesso ai diritti
sociali. Se la crescita dell’immigrazione straniera in Italia rivela l’evoluzione verso una piena
affermazione della multietnicità, sono soprattutto i contesti locali – il livello micro – che risentono
di questo cambiamento. La forte regionalizzazione del fenomeno migratorio, infatti, fa sì che le
dinamiche dell’inserimento urbano possano essere comprese a pieno sulla base dei diversi sistemi
locali (Corbisiero, 2011; Zincone, 2003). Il livello meso è definito, infine, dall’ambito relazionale. I
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network migratori rappresentano “complessi di legami interpersonali che collegano migranti,
migranti precedenti e non migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso i vincoli di
parentela, amicizia e comunanza di origine” (Massey 1985, 396). Le migrazioni, in questo senso,
vengono analizzate come processi sociali con proprie dinamiche intrinseche (Castles, 2002), che
mediano tra le condizioni sociali ed economiche dei contesti interessati e le scelte e i
comportamenti individuali (Decimo, Sciortino, 2006; Ambrosini, 2003). Il livello relazionale
rappresenta pertanto il punto di convergenza di fattori di integrazione macro e micro, “the crucial
meso-level” (Faist, 1997), in considerazione sia dei legami di comunità, sia delle relazioni estese al
nuovo contesto sociale. I percorsi di inserimento sono pertanto definiti dalla capacità dei migranti
di attaccarsi “agli sparsi fili dei network” (Scidà, 1998, 186), “che vengono rapidamente ricostruiti
e resi efficaci anche in terra straniera” (Ceschi, 2001, 53).
In questa prospettiva, i processi di integrazione si realizzano attraverso varie forme di interazione
tra maggioranze autoctone, istituzioni e popolazioni immigrate. Per questo motivo nel valutare i
diversi gradi di integrazione effettivamente raggiunti dalle popolazioni immigrate assume rilevanza
il livello locale, dove si realizzano o meno le concrete opportunità di integrazione: la questione si
pone rispetto ad un ben definito ambiente sociale (Camponari, 2008; Penninx, Martiniello, op.
cit.).
Il migrante che si rapporta alla città vive in una condizione di sradicamento, perché in assenza di
punti di riferimento. Il rischio che corre nella nuova realtà è quello di “perdersi”, di vivere il peso
della perdita di un rapporto organico con il territorio, che è una condizione che può essere
superata attraverso la “conquista dello spazio” (La Cecla, 2000). Al perdersi segue una fase di
orientamento, la capacità di organizzare il proprio ambiente circostante, di annodare una trama
generale di riferimento all’interno della quale agire o su cui agganciare la propria conoscenza.
Orientamento corrisponde per un cittadino immigrato da poco in una città “a tutta quella serie di
frustrazioni, tentativi a vuoto, conoscenze, attese, <<prese sulla realtà>>, salvagenti fatti da persone
e da luoghi che poi, giorno dopo giorno, costituiscono una maglia prima elementare – quei due,
tre amici, quegli angoli di strada, il bar, forse il giornalaio, i primi approcci informali sul lavoro – e
poi, via via, a imbrigliare gli spazi rimasti ancora sconosciuti, a permettere di riconoscerli, partendo
e tornando a luoghi più familiari. Non sempre l’uscita dal perdersi è facile” (ibidem, 16-17).
Parlare di integrazione sociale vuol dire pertanto riflettere anche sui luoghi e sullo spazio. Il rischio
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per i migranti è di trovarsi schiacciati in contesti di esclusione, negli spazi di coloro che occupano
l’“ultima fila” (Bauman, 2005), per i quali “è dentro la città in cui abitano che viene dichiarata,
combattuta – talvolta vinta e molto più spesso perduta – la lotta per sopravvivere e avere un posto
decente al mondo” (ibidem, 16). I luoghi degli immigrati raramente prendono la forma dei
quartieri operai di un tempo, quando negli insediamenti delle periferie urbane le abitazioni erano
vicine alle fabbriche, dando vita nel corso del tempo a specifiche forme di identificazione1 (Lonni,
2003).
Questo solo in parte dipende dalle caratteristiche dei soggetti coinvolti, risultando invece
determinante la qualità dei contesti in cui sono inseriti (Camponari, op. cit.). In questo modo le
differenze territoriali assumono un ruolo centrale, in quanto capaci di innescare processi di “ri-
territorializzazione selettiva” (Dematteis, Governa, 2005). Per questo non si può parlare di un
processo di integrazione o di un modello di integrazione, ma di tanti modelli e processi quante
sono le specificità locali (Berti, 2011). L’attenzione deve essere rivolta ai contesti di insediamento
della popolazione migrante, e a questo livello affrontare le questioni di integrazione sociale.
Alla luce di quanto detto, questo contributo, dopo una breve presentazione del percorso di ricerca
e la descrizione dello specifico contesto locale, discute i principali risultati emersi nel corso
dell’indagine empirica. L’obiettivo è definire il modello di integrazione della comunità cabardina a
Napoli, concentrando l’attenzione sui fattori di riuscita e di criticità nel loro percorso migratorio, e
riflettendo sul ruolo del welfare e dei servizi locali nel delineare la loro esperienza.
2. Il percorso di ricerca
La ricerca è stata svolta secondo un approccio di tipo quanti-qualitativo, combinando interviste in
profondità, osservazione partecipante e social network analysis. Le interviste2 sono state condotte
seguendo una traccia suddivisa per dimensioni rilevanti rispetto al tema di analisi e in base ad esse
sono state formulate una serie di domande.
I temi sono stati posti secondo un ordine non rigido, lasciando all’intervistato la possibilità di
gestire la conversazione. Le principali dimensioni di analisi sono state: l’housing, il lavoro, le reti
1 Un esempio in tal senso i quartieri della Falchera, delle Vallette, di Mirafiori Sud a Torino, nati e cresciuti in seguito
alla grande immigrazione meridionale, per lunghi anni abitati esclusivamente da popolazione immigrata (Lonni, 2003). 2 Sono state condotte dieci interviste, su un campione non probabilistico, la cui numerosità è stata determinata in
base al criterio di saturazione.
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sociali. La scelta di queste dimensioni è motivata dalla centralità che rivestono nei percorsi di
integrazione. Condizioni abitative adeguate e inserimento nel mercato del lavoro, peraltro, da una
parte sono pre-condizioni per accedere ad una serie di diritti, come il permesso di soggiorno, o il
ricongiungimento familiare; dall’altra rappresentano le discriminanti nel valutare esperienze di
successo o fallimento delle politiche locali di integrazione.
Contemporaneamente a questa fase si è svolta l’osservazione partecipante, entrando a far parte
della vita di questa comunità. L’instaurarsi in particolare di un rapporto di fiducia reciproca con
una ragazza cabardina, ha permesso di trascorrere lunghi periodi in sua compagnia. Questi incontri
sono stati preziosi perché hanno permesso di conoscere quegli aspetti dell’esperienza migratoria
che dalle interviste non sono emersi, di osservare dinamiche relazionali all’interno della comunità
e con gli autoctoni, conoscere alcuni valori della cultura e il modo in cui sono stati adattati al
nuovo contesto. Inoltre è stato possibile raccogliere le emozioni e le reazioni di fronte a questioni
contingenti che attengono alla vita quotidiana.
La rilevazione delle relazioni sociali per la ricostruzione della rete è avvenuta principalmente con
l’intervista, in cui è stato chiesto all’intervistato di indicare liberamente il numero delle persone
con cui crede di intrattenere legami significativi. Per ciascun nome è stato chiesto di indicare il
genere, la nazionalità, la professione, il quartiere di residenza (attributi dei nodi) e la frequenza
degli incontri e i motivi (lavoro, tempo libero…). Per ottenere informazioni sui legami di soggetti
che non fanno parte del campione considerato, è stato chiesto agli stessi intervistati di indicare i
legami che ciascuna persona nominata intrattiene con le altre, ottenendo una stima dei legami
percepiti come significativi per gli intervistati. I risultati delle interviste sono stati incrementati
dall’osservazione diretta, che ha portato ad inserire nella rete soggetti che non sono stati
considerati da alcun intervistato, ovvero eliminarne altri, che ho ritenuto non abbiano un ruolo
determinante.
3. Il “campo” di ricerca
Il quartiere Mercato si presenta come un labirinto di strade e vicoli che collegano la zona storica
della città alla zona industriale. Si tratta di una porzione del centro storico circoscritta, territorio di
scambio e commercio fin dal Basso Medioevo, e che ancora nella prima metà del Seicento è
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descritto come un brulicare di bancarelle con ogni tipo di merce (Liccardo, 2008). Lo storico
Bartolomeo Capasso ci racconta piazza Mercato ai tempi di Masaniello, “allorchè fu il teatro di uno
dei più memorabili e singolari avvenimenti che ci ricordi la storia” (1919, 22), e la descrive
ricoperta di pietre vesuviane, terriccio e fango, “ed era in molte parti sozzo, dove da piccoli panetti
d’acqua, dove da pozzanghere e da mucchi di lordure, in cui a loro volta s'avvoltolavano i porci in
gran numero, che allora potevano impunemente vagare per la città” (ibidem). Appariva inoltre
ingombra di “baracche di legno, ove pure esercitavansi le piccole arti ed il minuto commercio delle
cibaie e di altre cose commestibili, ed ove […] dimoravano puranche moltissimi del popolo, che a
quei mestieri intendevano”. Capasso riporta come lo stesso Masaniello desiderava che piazza
Mercato fosse “sgombrata” da quelle “baracche di legno che la detiupavano, e che prendesse il
nome di piazza del popolo”, ma come anche “dopo la sua morte non ebbe alcun notevole
mutamento” (ivi, 53). Ancora a fine Ottocento, Matilde Serao (1884) descrive la “sezione” del
Mercato raccontandone i “vicoletti neri”, “l'inguaribil miseria”, e “la povertà più abbietta”.
Il degrado, del resto, è una prerogativa ancora attuale, nonostante gran parte del quartiere sia
oggi costituita da un tessuto edilizio che risale alla fine dell’Ottocento, quando Napoli subisce
l’intervento di restyling urbano del “Risanamento”, successivo all’epidemia di colera del 1884. La
storia relativamente recente ne spiega la denominazione “Case Nuove”, con cui ancora oggi i
napoletani identificano quest’area.
L’essere stata tradizionalmente zona di residenza delle classi subalterne, si riflette nella sua
struttura edilizia degradata, con la presenza di “bassi” ad uso abitativo e grossi edifici a schiera,
particolarmente densi e compatti nel rione Case Nuove, registrando una densità abitativa (28.179
ab/Kmq) di oltre tre volte superiore al dato comunale (8.217 ab/kmq) (Comune di Napoli, Profilo di
Comunità 2010-2012).
Un quartiere che ha mantenuto nei secoli quel tradizionale ruolo di polo commerciale e di attività
artigianali, ma che nel corso degli ultimi decenni ha subito un processo di impoverimento, e che
oggi presenta tassi di disoccupazione tra i più alti di Napoli, caratterizzato da una diffusa economia
sommersa, che spesso sfocia in attività illegali – dal mercato del falso, allo spaccio di droga –
favorite dalla storica presenza di organizzazioni malavitose. Si caratterizza pertanto come un
territorio complesso, una “periferia sociale” (Granata, Lanzani, 2006), in cui si concentrano forti
elementi di vulnerabilità, che si sovrappongono e rafforzano reciprocamente, rendono fragile
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l’inserimento sociale e l’accesso alle risorse primarie. Eppure gli abitanti esprimono un forte senso
di appartenenza al quartiere, che deriva – e allo stesso tempo si manifesta – dall’intensità e dal
tipo di uso dello spazio pubblico, delle strade, dei marciapiedi. Questo in parte dipende
dall’ambiente sociale. Se, infatti, consideriamo quanto afferma Martinotti (1993), che propone di
definire la città non solo in base alla popolazione che vi abita, ma anche in base a quanti la usano,
queste due popolazioni in gran parte coincidono, in particolare per il rione Case Nuove. Questo fa
sì che gli abitanti si muovono in un ambiente che sentono familiare, dove il “noto” prevale
sull’“ignoto”. Un rapporto che deriva anche dall’ambiente fisico, dalla presenza di numerosi
“bassi”: in molti casi sono visibili “i disperati, accaniti tentativi, visibili in ogni quartiere di edilizia
popolare, compiuti dagli utenti per differenziare l’esterno e l’interno del proprio alloggio dagli
altri, tentativi che vengono in genere considerati manomissioni che ‘degradano’ lo spazio ordinato,
prima ancora che ad un bisogno affettivo di identificazione rispondono ad un bisogno cognitivo di
identificabilità, di orientamento” (Signorelli, 1989, 16). In questi casi la sensazione è che il confine
tra spazio pubblico e spazio privato diventi ibrido, sfumato, non definibile. Questo essere radicati
al territorio da parte degli autoctoni si esprime in un forte senso di solidarietà, che in qualche
modo si estende ai nuovi arrivati. Il forte radicamento al territorio e l’esistenza di una “solidarietà
diffusa”, costituita da una fitta rete di relazioni informali, rappresentano per i migranti
un’opportunità di inserimento nel tessuto sociale. Gli stessi cabardini hanno raccontato di essere
riusciti a “guadagnarsi” la fiducia e il rispetto degli altri residenti, e questo è un elemento che, in
parte, spiega il loro rimanere in questo territorio e il sentimento di appartenenza alla comunità
locale (“Io vedo più rispetto qua nei confronti di stranieri, di immigrati. O perché…nel senso quando
le persone vedono che sei venuto da altro paese ti vogliono approfittare, invece qua non ho mai
visto, […] mi hanno aiutato molte persone del quartiere” - cabardino, 27 anni).
4. Dalla Repubblica Cabardino-Balcaria verso Napoli: i fattori di spinta
La regione Cabardino-Balcaria è una Repubblica autonoma della Federazione Russa, che si estende
nelle montagne nel Caucaso Nord-Occidentale, in cui convivono diversi gruppi etnici,
principalmente balcari, cabardini e russi.
La disintegrazione delle istituzioni dell’Unione Sovietica ha prodotto effetti disastrosi,
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determinando in questa regione il riattivarsi di nazionalismi di matrice etnica e religiosa,
determinando la monopolizzazione politica da parte di pochi clan etnici, il cui potere politico è
stato definitivamente legalizzato, attraverso l’istituzione di un apposito registro, instaurando di
fatto un regime ‘etnocratico’.
Da un punto di vista economico questa regione risulta essere uno dei più poveri paesi della Russia
post-sovietica, con livelli di disuguaglianza sociale tali che a fronte di uno strato sociale ultra-ricco,
un’altissima percentuale della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, che ha
determinato la crescita di fenomeni di criminalità, di attività illecite, compresa la vendita di armi,
traffico di droga e alcol. La stabilità del regime è stata garantita con l’oppressione e la
neutralizzazione di qualsiasi forma di opposizione politica, la manipolazione delle minoranze, la
soppressione della stampa libera e di qualsiasi ricerca accademica indipendente sulla situazione
del paese, attraverso la censura dei mass media, utilizzati esclusivamente a fini propagandistici
(Yemelianova, 2005).
I motivi alla base dell’esperienza migratoria di questa comunità sono insieme di natura economica,
politica, culturale, e l’intreccio di questi fattori è la ragione per cui l’esperienza migratoria ha
coinvolto interi nuclei familiari, a differenza dell’immigrazione russa in generale, caratterizzata da
un’elevata incidenza femminile.
Quando è stato chiesto agli intervistati di raccontare i motivi che hanno portato alla scelta di
partire, spesso il riferimento è stato a fattori contingenti, per esempio un periodo di difficoltà
economiche. Anche se non sempre in maniera esplicita, emerge inoltre il desiderio di
emancipazione da una cultura politica e religiosa dai caratteri coercitivi (“non avere paura per
domani. Più libero qua mi sento. Avevo paura anche per la mia famiglia. Voi non sapete che
significa islamici, musulmani, terroristichi…io qua non c’è peso di questo” – cabardino, 40 anni),
limitando di fatto la libertà di azione e di espressione dei soggetti. Questi fattori incoraggiano
questa comunità a restare in Italia, o prevedere un’ipotesi di ritorno in Russia, ma non nella
propria regione (“la cultura è molto dura. Non puoi fare uno sbaglio. […] Qua fai quello che vuoi tu.
Se vuoi stare con una persona, decidi tu. Sei libero di scegliere stesso tu”- cabardino, 40 anni; “se
devo uscire di casa, qua, a chi devo dar conto? A nessuno! E’ pesante. Io perciò non voglio tornare.
Questa cosa qua mi turba un poco. Io non sopporto, non sono libera” –cabardina, 29 anni).
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L’esperienza migratoria della comunità cabardina a Napoli inizia a fine anni Novanta. Si
caratterizza per una traiettoria migratoria relativamente recente, ma la regione è stata già
interessata da precedenti esperienze di emigrazione verso altre direzioni, tra cui il Canada o la
Cina. Lo scout della rete, una donna, in Russia pediatra, è emigrata nel 1998 a seguito del
fallimento economico del marito, imprenditore, decidendo di partire sola, supportata da
un’agenzia con sede nella sua città, che provvede ad organizzarle il viaggio. Questo tipo di agenzie
si configurano come una sorta di promoter dell’emigrazione, intercettando e accrescendo le
aspettative dei possibili migranti, provvedendo a fornire loro qualche contatto telefonico con il
paese di destinazione. Da quanto emerso nel corso delle interviste, la scelta di emigrare a Napoli è
dettata dal caso, sulla scorta delle alternative possibili in quegli anni e delle informazioni, più o
meno stereotipate, diffuse nel contesto d’origine (“Napoli è capitato, cioè un caso. Tra tutte le
città, tra tutti i paesi, erano più facile venire in Italia. A quel tempo là poteva andare in Norvegia, in
Canada, in Italia…e in Cina, però in Cina faceva schifo, lo dicevano tutti quanti. Invece in Canada
faceva freddo. Poi mia mamma è un tipo allegro” – cabardina, 29 anni).
5. Housing e processi di radicamento
Il quadro della presenza straniera a Napoli si presenta molto variegato sia dal punto di vista
dell'articolazione territoriale, che dal punto di vista dei diversi modi in cui l'esperienza migratoria è
vissuta dalle comunità immigrate. Le attuali dinamiche di territorializzazione del fenomeno
migratorio vanno ricondotte da una parte alla persistenza di un tessuto socioeconomico
fortemente segnato dall’irregolarità e dall’informalità – che vede gli immigrati collocati
prevalentemente, ma non esclusivamente, nel mercato del lavoro sommerso – dall’altra, al ruolo
svolto dalle reti comunitarie degli stranieri già insediati nel territorio e dunque all’importanza
dell’appartenenza comunitaria, capace di esercitare un’influenza più o meno decisiva sullo
sviluppo dei percorsi migratori, per esempio attraverso l’accesso preferenziale ad un determinato
settore lavorativo, piuttosto che nella scelta insediativa (Cattedra, Laino, 1994; Ambrosini, op. cit.).
L’inserimento in un determinato settore del mercato del lavoro, il diverso grado di stabilizzazione
e di integrazione nel nuovo contesto e le stesse caratteristiche funzionali, sociali, economiche di
ciascuna zona di insediamento di migranti, sono alcuni dei fattori che concorrono a definire una
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sorta di geografia dei migranti in città (Russo Krauss, 2005).
Per Napoli non si individuano quartieri con concentrazioni di stranieri particolarmente elevate,
anche se questo non significa che l’insediamento avvenga in maniera indifferenziata sul territorio,
o che non sia possibile identificare aree con una maggiore presenza di immigrati o ‘connotate’
etnicamente: si tratta comunque di concentrazioni contenute, soprattutto se paragonate ad altre
realtà urbane, ma che comunque seguono proprie logiche di organizzazione dello spazio. Come in
altre realtà urbane, infatti, si possono individuare delle porzioni di territorio che più di altre si
presentano permeabili all’insediamento dei migranti: a livello territoriale, così “come si ha un
effetto selettivo relativamente alla composizione della presenza straniera in base ai paesi di
provenienza, se ne ha un altro ugualmente intenso considerando le zone di insediamento”
(Bonifazi, 1998, 157).
Tutti gli intervistati hanno dichiarato di aver cambiato casa almeno una volta da quando sono a
Napoli, costretti a rapportarsi a una geografia sociale della città che presenta spicchi di degrado
socio-urbano in cui gli stranieri accedono più facilmente, a causa dei numerosi fattori che
accompagnano le difficoltà di inserimento.
Si è trattato, infatti, di trasferimenti confinati negli spazi interstiziali delle aree popolari della città,
tra i quartieri Sanità, Forcella e Mercato. È possibile, infatti, individuare un meccanismo che,
sebbene non concentri gli stranieri in quartieri specifici, li confina verso porzioni di territorio
marginali, in abitazioni degradate: il fenomeno migratorio riflette gli esiti della complessa
stratificazione sociale e urbanistica della città definendo un tipo di segregazione spaziale di tipo
qualitativo, una forma di “concentrazione diffusa” (Amato, Coppola, 2009). Non esistono, infatti, a
Napoli quartieri “etnici”, sul modello dei ghetti o delle banlieue, caratterizzati da indici di
concentrazione tali da rappresentare delle realtà chiuse e autonome rispetto al contesto cittadino,
all’interno delle quali si creano delle barriere che rendono problematico qualsiasi percorso di
integrazione. Si tratta inoltre di un tipo di concentrazione “interetnica”. In questo contesto, anche
Mercato rappresenta un quartiere multietnico, in cui convivono comunità eterogenee dal punto di
vista dell’origine etnica e nazionale. A questa multietnicità, però non corrisponde l’integrazione tra
i diversi gruppi. Nel corso della ricerca, infatti, quando è stato chiesto agli intervistati di descrivere
la presenza straniera nel quartiere e di raccontare il loro rapporto con cittadini di altre nazionalità,
sono emerse opinioni contrastanti: da una parte si ritiene che la condizione di ‘straniero’ si rifletta
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negli stessi bisogni e progetti, dall’altra queste considerazioni si intrecciano con una serie di
stereotipi e pregiudizi e un atteggiamento di “presa di distanza”, quasi a difesa della propria
identità culturale e nazionale, un tentativo di svincolarsi da quegli stereotipi attribuiti
indistintamente a chiunque provenga dall’Europa dell’Est (“è una cosa più bella qua a Napoli: se
parliamo, io sono russo, quello è arabo, quello di srilanka, però qua siamo più uniti. Gli stranieri ci
troviamo, abbiamo mentalità diverse, però qua ci assimiliamo di più, ci troviamo subito d’accordo”
– cabardino, 40 anni; “gli altri immigrati non li frequento molto, li conosco, ma non lo so, sono
diversi da noi, non sono razzista, non voglio avere tutti questi rapporti” – cabardina, 29 anni).
Sono i providers ucraini ad indirizzare i cabardini nel quartiere Mercato, dove dispongono di varie
soluzioni per dormire in condizioni di subaffitto: più spesso si tratta di bassi soppalcati, in cui
vivono immigrati di diverse cittadinanze est-europee, in condizioni di sovraffollamento e
decisamente precarie. I primi cabardini arrivati a Napoli trovano sostegno nella comunità ucraina,
che negli anni ha stabilito proprie reti di supporto informale estese ai migranti dall’Est Europa. Si
tratta di mediatori senza scrupoli, che vendono lavoro e posti letto, ma che, nei primi anni,
forniscono quelle informazioni minime per iniziare quel processo di orientamento nel nuovo
contesto. Nel tempo la comunità russa si è emancipata da questo rapporto di ‘sfruttamento’,
stabilendo altri canali di ingresso per i nuovi arrivati e costruendo proprie reti di supporto etniche.
Il bisogno di far parte di quelle strutture di relazioni composte dai propri connazionali, in
prevalenza parenti e amici, che rappresentano dei punti di riferimento presenti da tempo, diviene
prioritario. Questo fa sì che i primi russi che sono riusciti a trovare soluzioni insediative più o meno
stabili in questo quartiere, hanno finito col richiamare gli altri membri della comunità. La scarsità
di alloggi in affitto e gli elevati costi di locazione hanno portato questa comunità a sperimentare
soluzioni abitative precarie, come il subaffitto o la convivenza in situazioni di sovraffollamento, che
in alcuni casi hanno caratterizzato le prime fasi del percorso migratorio, in altri casi queste
condizioni persistono.
Le “carriere” abitative (Tosi, 2010) di questa comunità sono tutte caratterizzate da una prima fase
di transitorietà, che coincide con la prima fase del progetto migratorio: questo è sempre un
progetto a termine, l’idea è quella di tornare nel proprio paese dopo pochi anni, in genere due o
tre. Questo spinge ad un forte contenimento dei costi, finalizzato al risparmio, per cui si decide
soluzioni il più possibile economiche e spesso si è trattato di convivenze con altre nazionalità. La
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fase “transitoria” risulta essere più lunga e tortuosa per gli uomini, i quali affrontano percorsi di
maggiore precarietà, determinate innanzitutto dalla diversa collocazione nel mercato del lavoro.
Quasi tutte le donne cabardine arrivate a Napoli, infatti, trovano lavoro in poco tempo nel settore
delle collaborazioni domestiche a tempo pieno, abitando presso il proprio datore di lavoro, nei
quartieri borghesi della città: Posillipo, San Ferdinando e Vomero.
Con il rafforzarsi della catena migratoria e delle reti di supporto le convivenze hanno riguardato
parenti o connazionali. Anche nel caso di queste convivenze “endogene”, le prime esperienze
abitative sono comunque segnate da un forte disagio e talvolta caratterizzate da condizioni
igieniche inadeguate. Il sovraffollamento e l’inadeguatezza dell’alloggio emergono come i
principali fattori alla base dei frequenti cambi di domicilio. La diffusione di informazioni sulla
diponibilità di alloggi è sempre avvenuta attraverso reti informali, più che attraverso annunci o
canali di intermediazione immobiliare.
Il passaggio per le donne dal lavoro “giorno e notte” al lavoro a ore, i ricongiungimenti familiari o
la costituzione di un nuovo nucleo familiare sono elementi che spingono alla ricerca di una
soluzione abitativa adeguata alle esigenze di una comunità che è ormai stabile nel territorio, in
quel momento tra il terzo e il quarto stadio del modello di Castles e Miller (2003), e che esprime
nuovi bisogni e una logica insediativa diversa.
Questo riduce di molto gli spazi di marginalità e precarietà legate alla casa, ma il percorso verso
una piena emancipazione abitativa non può dirsi concluso: molti alloggi rientrano comunque in
quella fetta marginale del mercato immobiliare rappresentata dai “bassi”. La coabitazione inoltre
continua a rappresentare in diversi casi una scelta quasi obbligata, ancora nella direzione
dell’accessibilità di spesa, anche se si tratta di componenti familiari. Queste forme di coabitazione
certamente non sono accompagnate da quelle caratteristiche di disagio e precarietà descritte in
precedenza. Esse sono favorite dalla coesione e dalla solidarietà di questa comunità, ma
rappresentano comunque un segnale di mancata piena integrazione.
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6. Il lavoro: specializzazioni etniche e di genere
L’inserimento dei cabardini nel mercato del lavoro ripropone quello che Ambrosini (op. cit.)
definisce “modello metropolitano” rispetto all’impiego del lavoro immigrato, con l’inserimento in
attività poco qualificate e con una significativa incidenza del lavoro irregolare.
L’immigrazione cabardina è motivata inizialmente da motivi di ordine economico e si caratterizza
dunque come immigrazione per lavoro: in alcuni casi la scelta di emigrare nasce a seguito di un
fallimento o una difficoltà economica; in altri casi invece dalla possibilità di guadagnare soldi da
investire nel paese di origine. Tutti gli intervistati hanno dichiarato di aver trovato lavoro in poco
tempo dal loro arrivo o di aver ricevuto informazioni circa un’opportunità di lavoro ancor prima di
partire o durante il viaggio.
Per Napoli, che si caratterizza per un sistema produttivo decisamente debole, parlare di
opportunità di lavoro per i migranti potrebbe sembrare paradossale, ma è la segmentazione del
mercato del lavoro e l’esistenza di “submercati distinti e non comunicanti” (Pittau, 2001) che
spiega l’apparente paradosso della coesistenza di immigrazione e tassi di disoccupazione elevati e
giustifica la presenza di lavoratori stranieri nelle fasce occupazionali a bassa qualifica, dove la
marcata flessibilità si lega con una occupazione irregolare o completamente in nero, in alcuni casi
connessa a fenomeni più complessi come l’illegalità diffusa e l’economia criminale (Pugliese, 2011;