Dipartimento di studi Umanistici Corso di Laurea in Storia Tesi di Laurea L'ideologia della lotta armata nella sinistra radicale tra Italia, America e Terzo Mondo negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Relatore Ch. Prof. Marco Fincardi Laureando Alessandro Catto Matricola 838947 Anno Accademico 2013 / 2014
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L'ideologia della lotta armata nella sinistra radicale tra Italia, America e Terzo Mondo negli anni Sessanta e Settanta del Novecento
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Dipartimento di studi Umanistici Corso di Laurea in Storia Tesi di Laurea L'ideologia della lotta armata nella sinistra radicale tra Italia, America e Terzo Mondo negli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Relatore Ch. Prof. Marco Fincardi Laureando Alessandro Catto Matricola 838947 Anno Accademico 2013 / 2014
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Sommario
INTRODUZIONE pag. 2
CAPITOLO 1, Praterie in fiamme: focolai internazionali di lotta armata pag. 4
I) I Tupamaros e l’Uruguay pag. 4
II) Stati Uniti: potere nero, supporto bianco: tra il Black Panthers Party e i Weather Underground pag. 15
I) La casa editrice Feltrinelli, divulgazione e rivoluzione pag. 31
II) Feltrinelli e il caso sardo: i Vietnam nel mondo e le Cuba del Mediterraneo pag. 33
III) Feltrinelli e l’Italia, fascistizzazione dello stato, golpe, timori pag. 35
IV) La militanza di Feltrinelli: i GAP e la nuova Resistenza pag. 38
CAPITOLO 3, La guerra a casa, contestazione e radicalizzazione dello scontro in Italia pag. 46
I) Rumore di sciabole, tra golpe e Resistenza pag. 49
II) La giustificazione della violenza pag. 54
III)Il ruolo delle riviste e dell’azione nelle fabbriche pag. 56
IV) L’antifascismo non finisce pag. 60
V) la lotta armata su grande schermo: rappresentazione e autorappresentazione della sinistra radicale pag.61
VI) Musiche, inni, ballate: le note rivoluzionarie pag. 64
VII) L’ideologia della Resistenza: il caso della Volante Rossa pag. 67
CAPITOLO 4, la lotta armata in Italia, le Brigate Rosse pag. 71
I) Nascita e sviluppo di un gruppo armato in Italia pag. 71
II) Brigate Rosse, affinità nell’ideologia e nell’azione con gruppi esteri pag. 77
III) Divergenze delle Brigate Rosse con i sistemi di guerriglia internazionali e sudamericani pag. 80
IV) L’analisi di un militante: la storia di Prospero Gallinari pag. 82
CONCLUSIONI pag. 87
APPENDICE FOTOGRAFICA pag. 89
BIBLIOGRAFIA pag. 91
2
Introduzione
“Una storia a parte”. In questi termini Rossana Rossanda, nella sua prefazione al testo di Mario
Moretti sulla storia delle Brigate Rosse, racchiude la vicenda politico-militare di uno dei gruppi
più attivi e letali della storia della Repubblica Italiana. Un gruppo che alla fine del suo ciclo
conterà quasi 90 vittime tra agenti di polizia, carabinieri, magistrati, operai, docenti universitari e
uomini politici1.
“Le Brigate Rosse nascono dentro una speranza, si sentono immerse in un movimento di operai, alto e più grande di loro
[…]Non sono simili alle guerriglie latino-americane, che pure evocano senza troppo conoscerle. Quando le prime Brigate Rosse si
formano, con Ernesto Guevara è morta la guerriglia in Bolivia, e Cuba ha cambiato strategia nel subcontinente. Resta un'aura, la
Sierra, i Mir, i favolosi Tupamaros. Ma, come Cuba, tutte quelle guerriglie si formano contro una dittatura di destra e su un
programma nazionale-democratico. Le Brigate Rosse si sentono classiste, operaie, comuniste. Non sono simili alle partigiane
Brigate Garibaldi che pure vagheggiano come loro antecessori, e assai parzialmente soltanto a quel breve frammento che è la
cosiddetta Resistenza rossa. Il Partito comunista che rinasce, e al Nord si batte con le armi contro tedeschi e fascisti, fa una guerra
di liberazione, non ha un'ipotesi insurrezionale”.2
Considerazioni condivisibili, dati i modi in cui si esplica l’azione brigatista è senz’altro corretto
parlare di modalità singolari, specifiche e caratterizzate su quella che è l’esperienza in città come
Milano, Genova e Torino, in un paese come l’Italia.
Tuttavia, come la fondatrice de “Il Manifesto” fa notare, le BR nascono dentro una speranza. Ed è
proprio da questa speranza che l’analisi di questo testo prende le mosse. La speranza di un
mondo, quello a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, che è trasversale rispetto a
numerosi gruppi, armati e non, insurrezionali, politici, giornalistici, di opinione, che credono in
un’altra idea di società e di gestione politica. Si va dai “leggendari” (ma non troppo) Tupamaros,
passando per la Rivoluzione cubana, l’Indipendenza Algerina e le guerre di liberazione in Guinea
e Angola, il Vietnam, il fermento negli USA, tutti eventi strettamente collegati e in grado di
contaminarsi, di fare da esempio, da sponda, da ideale. E’ anche questa la speranza da cui
nascono numerosi movimenti di contestazione, pure in Italia, che seppur come paese è
certamente in grado di produrre una propria protesta, una “via italiana alla contestazione”, è
altrettanto sicuramente un porto di arrivo e partenza per numerosissimi stimoli politici. Le BR di
questi stimoli, specialmente sul piano delle ideologie, sono coscienti e ne fanno ampio utilizzo, sia
dal punto di vista della legittimazione storica, sia dal punto di vista della propaganda armata. Una
“lettura comparativa”3 è da anni utilizzata per analizzare i movimenti del ’68 in Europa, ed è
auspicabile anche nell’analisi delle derive (o delle prosecuzioni) armate che da quell’anno
prendono le mosse. Così come il Sessantotto, partendo dagli USA, ha fatto giungere fin
nell’Europa la sua onda lunga, così i suoi esiti sono stati largamente importanti nella presa di
coscienza che intere generazioni hanno potuto avviare in quegli anni, e nella risposta che a molti
avvenimenti si è cercato di dare, su piani anche molto diversi, dall’attivismo politico legale alla
lotta armata. Il Sessantotto come evento fondante della protesta studentesca anche in Italia, con
l’occupazione delle università di Trento e Pisa, il Sessantanove come prosecuzione sul piano
operaio e industriale della contestazione degli studenti, poi il drammatico culmine della bomba di
Piazza Fontana, l’acme dello scontro, il punto di non ritorno in una radicalizzazione fatta di
1 S. Zavoli, La notte della Repubblica, Roma, Arnoldo Mondadori Editore, 1992 pp.476-477 2 M. Moretti, Brigate Rosse, una storia italiana, Milano, Anabasi, 1994 p.14 3 S. Neri Serneri, Verso la lotta armata, Bologna, Il Mulino, 2012 p.96
3
violenza, attacchi e reazioni, paranoie e ansie, domande di cambiamento.4 Certo, nel caso italiano
vi è un grande unicum che in altri stati, specialmente europei, non è presente. Questo caso è
proprio Piazza Fontana. Ma i modi di interpretarlo, di reagirvi e finanche di giungervi, a questo
caso, sono riscontrabili e rileggibili in molte altre esperienze di cui daremo conto nel testo.
E’ quindi bene iniziare questo viaggio studiando la situazione internazionale a partire dagli anni
Cinquanta e Sessanta, proseguendo poi attraverso ciò che in Italia arriva di queste esperienze, e
come il tutto è stato interpretato e riutilizzato, analizzando vicende storiche e biografiche di
personaggi chiave, personaggi che di quegli anni hanno introiettato speranze, ansie e timori,
leggendoli attraverso vicende del tutto particolari e personali. Personaggi come Gian Giacomo
Feltrinelli, “l’editore-guerrigliero”, o Prospero Gallinari, il ragazzo dell’appartamento che dalla
campagna reggiana intraprende il viaggio verso la grande metropoli del nord, Milano, saggiandone
in prima persona la carica di alienazione e rabbia. Utile è anche il confrontarsi con quelli che, più
di molti altri fattori, diventano dei “megafoni di massa”, ovvero i linguaggi del cinema, degli inni
e delle canzoni popolari, degli slogan che nei cortei di quegli anni si cantano con stati d’animo
molto diversi tra loro. Analizzeremo, valorizzando pure l’idea di “unicità italiana”, quelli che
possono essere stati i bacini tutti nazionali dai quali le Brigate Rosse e altri gruppi armati hanno
attinto per rafforzare la propria immagine pedagogico - rivendicativa, un percorso non facile, ma
lungo il quale si intravedono dei collegamenti, che gli uomini che per primi hanno costituito l’asse
portante della lotta armata in Italia possono aver ricercato. Per evitare, tuttavia, di dilatare questa
indagine in uno spazio temporale troppo ampio, si è deciso di analizzare, per quanto riguarda le
Brigate Rosse, le fasi iniziali della loro azione di lotta armata, quelle che principalmente vanno
dalla fine degli anni Sessanta alla prima metà degli anni Settanta, con l’eccezione di un accenno al
caso di Aldo Moro, azione fondamentale nella storia del gruppo armato che meritava di essere
trattata e comparata con altre.
4 G. Galli, Storia del partito armato 1968-1982, Milano, Rizzoli, 1986 p.6
4
Capitolo 1, Praterie in fiamme: focolai internazionali di lotta armata
Sul finire degli anni Cinquanta del Novecento, la politica di ingerenza nel continente americano
perseguita dagli Stati Uniti fin dai tempi della Dottrina Monroe subisce un brusco contrattempo.
Nel 1959 infatti il regime filo-statunitense di Fulgencio Batista viene rovesciato dalla Rivoluzione
guidata da Fidel Castro ed Ernesto Guevara. Un episodio molto importante per gli equilibri del
continente americano, che porterà negli anni immediatamente successivi alla costruzione e alla
difesa di un bastione rivoluzionario a pochi chilometri dalla costa statunitense. Il valore simbolico
di questa vittoria per i fronti di liberazione nazionale è confermata dal ruolo di “faro” che la
rivoluzione stessa ricoprirà per moltissimi movimenti guerriglieri e per gruppi interessati
all’”importazione della Rivoluzione” a casa propria. A Cuba, negli anni immediatamente
successivi alla presa di potere di Fidel Castro, vi è un andirivieni di rivoluzionari e guerriglieri ma
anche solo di politici affini o simpatizzanti, che oltre a portare omaggio al nuovo corso dell’isola,
provano a saldare contatti, ottenere appoggi, imparare. E’ il caso, ad esempio, di Giangiacomo
Feltrinelli, che a Cuba avrà l’occasione di studiare da vicino Fidel Castro, cercando anche di
pubblicare le sue Memorie 5 e di ripensare alla possibilità di importare la rivoluzione cubana e le
sue tattiche, o parti di esse, in Italia, come vedremo più avanti.
Cuba sarà esempio, nel continente americano, da Nord a Sud, per personaggi di primo piano
come Raul Sendic, leader storico del movimento tupamaro, che nel 1960 troviamo nell’isola
caraibica; per gruppi come i Black Panthers, anch’essi a Cuba nel 1968.6 Sarà un vero e proprio
faro per il terzomondismo anti imperialista dei Weather Underground, che nel loro manifesto,
“Praterie in fiamme”, rivendicano con grande importanza il ruolo della Rivoluzione Cubana come
esempio di ribellione all’imperialismo degli States.7
I) I Tupamaros e l’Uruguay
Parlando dell’America Latina e del rapporto che da decenni, se non da secoli, la lega a doppio filo
alle vicende e agli interessi economici degli Stati Uniti, si può partire analizzando il caso della
guerriglia tupamara, con la nascita e la crescita di un gruppo guerrigliero la cui eco e la cui
immagine avranno larga importanza anche nella messa a punto delle ideologie e delle tattiche di
guerriglia urbana in Europa e nel resto del mondo.
In Uruguay, infatti, dopo una fase di grande prosperità economica che culmina con la guerra di
Corea, dal 1954 l’aumento delle esportazioni di lana e bestiame con una conseguente diminuzione
dei prezzi sul mercato, la grande febbre speculativa che investe il paese sudamericano dal 1961 al
1967, il forte indebitamento, la penetrazione di capitale straniero sotto forma di istituti bancari
privati, la differenza tra un ceto di possidenti che continua a fare affari grazie ad un continuo
avvicinamento alle leve dell’economia statale, e un proletariato costretto a fare sacrifici per
supportare politiche sempre più inflazionistiche, rendono la situazione economica del paese da
florida a sempre più difficile, su un crinale di crisi economica senza precedenti.
In questo clima già economicamente difficile, l’infiltrazione di capitale americano diventa sempre
più forte, e sempre più forte diventa anche il controllo e il tentativo di direzione finanziaria che i
grandi gruppi economici statunitensi effettuano nel paese sudamericano; capita così che un
grande gruppo finanziario americano come la Chase Manhattan si ritrovi a controllare sia il Banco
5 A. Grandi, Giangiacomo Feltrinelli, la dinastia, il rivoluzionario, Milano, Baldini&Castoldi, 2000 p.295 6 G. Marine, Storia delle Pantere Nere, Milano, Rizzoli, 1971 p.49 7 Weathermen Prateria in fiamme, Milano, Collettivo editoriale Librirossi, 1977, p.155
5
Popular che il Banco Comercial uruguagi. Sotto stretto controllo americano sono anche la
stampa, con l’azione dello statunitense USIS (United States Information Service) che rifornisce i
giornali locali di informazione vagliata secondo l’interesse dei trusts americani che controllano la
finanza del paese. Capillare è pure la presenza militare statunitense, con CIA, USAID (Agency for
Internazional Development) ed FBI stabilmente presenti nel coordinamento delle forze
dell’ordine nazionali.8
In questa situazione, il partito Blanco, espressione dei ceti possidenti, e quello Colorado, espressione
dei lavoratori salariati, si contendono il governo in una situazione di crisi anche politica ed
istituzionale, che coinvolge l’assetto costituzionale dello stato.9 La proletarizzazione della classe
media riduce sempre più quella parte di popolazione che, grazie al benessere economico dei
decenni precedenti, era riuscita a guadagnarsi delle condizioni di vita molto buone, ora non più
possibili per colpa della cattiva situazione economica del paese. Particolare peso in questo settore
di “nuovi proletari” hanno gli impiegati bancari, che giocano un ruolo non secondario nelle
vicende dell’Uruguay e del Fronte della Sinistra.10
Il nome del nascente movimento Tupamaro offre già la possibilità di analizzare l’opera di
rievocazione storica che numerosi gruppi di guerriglia effettueranno in funzione legittimante;
Tupamaros è infatti un nome derivante dai partigiani di Tupac Amaru, che assieme al generale
Artigas nel 1811 presero le armi per liberare l’Uruguay dal giogo del colonialismo spagnolo.11
Giustizia sociale, libertà, coesistenza delle razze; un programma che aveva permesso ad Artigas e
ai suoi seguaci di raccogliere attorno a sé un vasto movimento di appoggio, che dopo svariate
battaglie ed alterne fortune, tra cui l’esilio dello stesso Artigas in Paraguay, otterrà l’Indipendenza
nazionale nel 1828.
L’esempio di Artigas e della guerra di liberazione ottocentesca gioca un ruolo fondamentale in
quella che è la vicenda dei più recenti Tupamaros, quelli nati dall’esperienza di Raul Sendic, in un
Uruguay diverso, passato attraverso le esperienze del Battlismo e del benessere economico che
caratterizzerà il paese fino agli anni ’30 del ‘900, facendone la “Svizzera dell’America Latina”.
Un parallelo tra Imperialismo spagnolo ieri e americano oggi, tra la volontà di assoggettamento da
parte di vicini potenti e il desiderio di indipendenza, offrono un appiglio affascinante tra la storia
remota del paese e gli avvenimenti che toccano l’Uruguay negli anni della comparsa del Fronte di
Liberazione della Sinistra, chiamato, non a caso, FIDEL.
Un richiamo che può rimandare, per certi versi, al peso che per un cittadino italiano assume la
vicenda storica della Resistenza, esplicato anche con numerose scritte e motti popolari sui muri
delle abitazioni dell’Uruguay (Ad esempio “con FIDEL Artigas tornerà”). Vi è quindi un chiaro
esempio di come la storia passata di un paese, e in particolar modo l’episodio della sua
liberazione, possa divenire materia di legittimazione storica per un gruppo, come quello
Tupamaro, che della liberazione vuole fare un suo cavallo di battaglia, esplicando chiaramente la
propria volontà di condurre una seconda guerra di indipendenza, questa volta contro il dominio
imperialista e finanziario americano.12
Da una famiglia di medi proprietari terrieri nasce Raul Sendic, fondatore e dirigente del
Movimento di Liberazione Nazionale. Agisce come organizzatore del proletariato rurale per
8 A. Labrousse, I Tupamaros, la guerriglia urbana in Uruguay, Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1971 pp. 133-141 9 Ibidem, p.27 10 Ibidem, p.170 11 Ibidem, p.9 12 Ibidem, p.13
6
coordinare i braccianti agricoli (in particolar modo i tagliatori di canna da zucchero) nella parte
settentrionale del paese. Le condizioni di vita di questi lavoratori sono spesso deteriori,
condizionate anche dal controllo di una polizia spesso al soldo dei proprietari. Il percorso di
mobilitazione di Sendic comincia con un suo pieno adeguamento alle condizioni di vita dei
caneros, diventa anch’esso un peludo, un nullatenente, e si mescola agli uomini che intende
difendere. L’organizzazione di marce e dimostrazioni sindacali, tuttavia, dimostreranno a Sendic e
ai tagliatori che ottenere il riconoscimento di rivendicazioni salariali e lavorative attraverso metodi
pacifici è cosa assai dura, in un paese, come l’Uruguay, che vive una situazione di profonda crisi
della classe operaia. Violenti scontri, anzi, si hanno con rappresentanti della Confederazione
Sindacale dell’Uruguay, con colpi d’arma da fuoco e l’uccisione di un passante, durante una
manifestazione. Anche la sinistra politica e l’Unione Popolare sconfessano le manifestazioni di
Sendic e, sul piano elettorale, collezionano fiaschi e sconfitte. Tutto ciò contribuisce a sviluppare
una idea che farà da filo rosso per l’azione e l’ideologia non solo dei Tupamaros, ma anche di altri
gruppi guerriglieri e movimenti che analizzeremo in questo testo: la convinzione cioè che con
metodi pacifici, di contrattazione politica, di manifestazione non violenta è sostanzialmente
impossibile ottenere dei risultati pratici per migliorare la vita del proletariato; il percorso
istituzionale cioè è viziato da interessi che mai permetteranno alle masse proletarie di ottenere ciò
che rivendicano.13
Sendic avvia così il percorso di nascita di una cellula clandestina di guerriglia, in vista di una
rivoluzione armata. Cellula che nasce rivolgendosi in due direzioni; quella di un metodo di
rivendicazione efficace, e quello di una autodifesa, dalle immancabili reazioni del capitale e dei
suoi centri terminali, collocati ben al di dentro dell’organizzazione statale. Del 1963 è la prima
azione contro una armeria, mentre inizia già dall’anno prima l’opera di convincimento nei
confronti della popolazione, con il caso simbolo di un camion di trasporto di pollame e tacchini
attaccato nella notte del 24 dicembre 1962, con la distribuzione ad abitanti di una bidonville del
carico, distribuzione accompagnata da volantini di rivendicazione, con l’invito a formare dei
comitati di lotta contro la disoccupazione e il rincaro dei prezzi. Un modus operandi che si
risconterà spesso nell’azione tupamara, un modo di accattivarsi la simpatia della popolazione
grazie ad una redistribuzione violenta dei beni destinati al mercato, tramite l’assalto di grandi
magazzini e mezzi di trasporto degli stessi. L’azione di volantinaggio accompagna l’azione di
sabotaggio, metodo operativo riscontrabile anche nel comportamento delle prime Brigate Rosse e
delle loro cellule nelle fabbriche italiane.
Similitudini con quello che sarà il modo di agire brigatista si riscontrano anche
nell’organizzazione tattica del nucleo tupamaro degli esordi; alla base vi sono le reclute, al di
sopra di esse delle cellule composte da un numero ristretto di persone, di cui solo i capi sono in
comunicazione tra loro, il tutto terminante con un comando politico-militare. Una stretta
irreggimentazione, con l’adozione di soprannomi.14 Anche nella scelta tattica del tipo di guerriglia
da intraprendere, il MLN (Movimento di Liberazione Nazionale) guarda nella storia a quelli che
sono veri e propri esempi di lotta armata di liberazione, vale a dire la Resistenza francese contro i
nazisti, la guerra di liberazione algerina, la lotta degli ebrei contro gli inglesi, favorendo la
guerriglia metropolitana a scapito della guerriglia rurale. In un paese in cui la maggior parte degli
abitanti si trovano in città come Montevideo e Salto, il focolaio di guerriglia va fatto scoppiare e
13 A. Labrousse, Op. Cit. p.35 14 Ibidem, p.45
7
mantenuto nelle città, città che il guerrigliero deve conoscere “intimamente”, muovendosi in essa
come le migliaia di persone che la popolano.
Le direttive dei dirigenti tupamaros aiutano a raccogliere quelli che sono i fondamenti ideologici e
strategici del MLN. Emerge l’importanza della sistematica violazione, da parte dei guerriglieri,
della legalità borghese, che crea i presupposti, nella popolazione, per far intraprendere la via della
presa di potere rivoluzionaria. L’azione rivoluzionaria serve quindi a generare una coscienza
rivoluzionaria nella popolazione, è anch’essa un fenomeno di avanguardia. Viene confermata
quella che per il popolo è l’unica via utile ad ottenere miglioramenti per la propria condizione a
scapito del “regime”, ovvero la via rivoluzionaria, una via diretta, pratica, vicina, a differenza della
via parlamentare, fatta di promesse non mantenute. La lotta armata è il primo passo per la
creazione di un movimento di massa. Si riprendono i casi di Cuba e il caso cinese, e si da una
propria interpretazione rispetto al ruolo del militante. Anche se un militante non opera
direttamente per la lotta armata, deve sapere che il suo lavoro tra le masse culminerà con lo
scoppio della lotta armata, e in quel giorno il vero militante non dovrà rimanere a casa a “vedere
come si mettono le cose”, ma dovrà prendere parte alla rivoluzione, preparandovisi fin d’ora.
Anche il sindacato va portato ad una fase più avanzata della lotta di classe, e bisogna curare i
rapporti con tutti i movimenti popolari che appoggiano la lotta. Si parla anche dei rapporti che
l’organizzazione militare deve avere con i partiti della sinistra, e in questo caso i tupamaros
rivendicano la possibilità del movimento armato di non aderire ad alcun movimento.
“Bisogna combattere l’idea del partito ristretto che è attualmente di moda, e per cui esso consisterebbe in una sede, delle riunioni,
in un giornale e delle prese di posizione nei confronti di ciò che lo circonda. Il conformismo, per il partito, consiste nell’aspettare
che gli altri partiti di sinistra si lascino convincere dai suoi discorsi, e decidano di dissolversi, e che le loro basi, e il popolo in
generale, vengano da lui.”15
“Con partito o senza partito, la rivoluzione non può aspettare”. Questa frase di Fidel Castro,
assieme al brano sopra riportato, racchiude bene l’idea di lotta armata dei Tupamaros, il tentativo
cioè di raccogliere le istanze veramente rivoluzionarie della sinistra, e di metterle a disposizione di
un movimento di lotta armata capace di far intraprendere al paese una via rivoluzionaria. Vi è
anche la convinzione, nell’azione del MLN, che le forze armate del paese siano scarse, mal armate
e mal equipaggiate, un esercito di appena 12.000 persone, che ne fanno “uno degli apparati
repressivi più deboli del continente”.
Anche l’Uruguay, e i suoi guerriglieri, riprendono l’insegnamento di Guevara e si adoperano per
la creazione di “molti Vietnam”. Non spaventa la possibile occupazione straniera dei vicini, e
nemmeno quella degli Stati Uniti. Se essa infatti può, nell’immediato, contribuire ad una sconfitta
militare, può instillare nell’animo della popolazione l’avversità per l’occupazione straniera del
proprio paese, può ferire il proprio orgoglio nazionale. Ecco che i Tupamaros sono capaci,
riprendendo efficacemente la tradizione di movimento di liberazione, di far propri sentimenti
nazional-popolari in calcoli di lungo termine; non è mai lasciata in secondo piano la dimensione
di liberazione nazionale, a scapito di interessi esteri. Un movimento armato capace di portare la
guerra a casa propria, ma adattandola alle condizioni del proprio paese, condizioni geografiche,
economiche e politiche, nell’interesse di tutto il popolo Uruguayano. Una volontà che poi si
esplica anche nell’unificazione della lotta con altri movimenti nel continente;16 nell’anniversario
della rivoluzione cubana infatti, si nota come Fidel Castro citi il movimento Tupamaro, assieme al
15 A. Labrousse, Op. Cit. p.55 16 Ibidem, p.60
8
movimento rivoluzionario brasiliano e all’esercito di liberazione brasiliano. I Tupamaros fanno
quindi parte di un largo fronte, continentale ed extracontinentale, che aderendo ai principi della
rivoluzione cubana, si adopera affinché essa possa essere seguita anche in altri paesi, affrancando
le nazioni sudamericane dal giogo di potentati stranieri, e dai loro interessi.17 Un legame, quello
con Cuba, che si rafforza se si pensa che Che Guevara stesso sarebbe stato in Uruguay poco
prima della sua morte, sotto il falso nome di Adolfo Mena. Guevara in Uruguay avrebbe potuto
trovare diversi esuli di altri paesi sudamericani, ma soprattutto tastare di persona come procedeva,
in quel piccolo paese sudamericano, la costruzione dei “tanti Vietnam”, per la quale il condottiero
avrebbe poi sacrificato la sua stessa vita.
Un elemento utile a valutare l’azione dei Tupamaros viene dall’azione effettuata dal movimento
guerrigliero contro le malversazioni e le truffe della società “Monty”. I Tupamaros, dopo aver
comunicato di aver rubato sei milioni di pesos alla società in questione, comunicano di stare
studiando i suoi libri contabili, le cui fotocopie verranno anche consegnate alla stampa. I
Tupamaros avviano così una propria “indagine” che fa emergere casi di malversazione, di
speculazione finanziaria, di prestiti a tassi esorbitanti. Molti membri del governo, o persone vicine
al presidente uruguagio Pacheco, finiscono coinvolti in uno scandalo senza precedenti, in cui le
accuse dei Tupamaros vengono confermate anche dalla Commissione d’Inchiesta parlamentare.
Si parla di frodi di decine di milioni di dollari, che i guerriglieri sono riusciti a far emergere. E’
facile pensare al risultato in termini di appoggio popolare che i Tupamaros riescono ad ottenere
svelando le trame oscure del potere, “denudando il Re”, in un paese in cui i sacrifici per sanare la
difficile situazione economica sono tutti sulle spalle dei lavoratori. Si nota qui la capacità
tupamara di rendersi uno stato nello stato, capace di giudicare il potere attraverso una propria
capacità giurisdizionale, con un processo al potere fatto da lontano ma che colpisce terribilmente
da vicino le sorti di un governo avverso. Processi al potere di questo tipo i Tupamaros ne faranno
altri, e altri ancora saranno emulati al di fuori dell’Uruguay, da altri gruppi di guerriglia.
L’aspetto pedagogico del caso Monty è riscontrabile anche nel rapimento che i Tupamaros
effettuano ai danni di Pereyra Reverbel, presidente dell’Usinas y Teléfonos del Estados,
equivalente dell’italiana ENEL. Poche ore dopo il rapimento, un comunicato viene
immediatamente consegnato alla stampa;
“Data la cinica aggressione che sei o sette banchieri, speculatori, grandi proprietari terrieri e commercianti, che si fanno chiamare
ministri, hanno perpetrato contro le libertà e i diritti del nostro popolo;
dati gli attacchi fascisti di cui sono vittime le organizzazioni sindacali rappresentative e i movimenti studenteschi popolari, attacchi
che hanno condotto alla limitazione delle libertà sindacali, alle bastonature, alla militarizzazione e alla detenzione arbitraria;
data l’immoralità manifesta del blocco dei prezzi e della riduzione dei redditi dei settori più svantaggiati, mentre rimangono illesi
gli interessi di quelli che sono i veri responsabili della crisi che il paese sta attraversando e che si sono riempiti le tasche grazie ad
una svalutazione fraudolenta;
dato il fatto che il capitale americano ha assunto il controllo del nostro paese e data l’ingerenza crescente delle dittature vicine;
[…]
dato che questo regime è al servizio di un pugno di privilegiati, che la legalità è una finzione che essi calpestano ogni volta che gli
fa comodo, e che viviamo sotto una dittatura che si preoccupa sempre meno di dissimulare il proprio carattere;
dato tutto quanto precede, occorre organizzare la difesa degli interessi del popolo, e continuare a combattere preparandosi
attivamente a rispondere con la lotta rivoluzionaria alla violenza reazionaria.
Per questo motivo, e per significare che nulla rimarrà impunito, e che la giustizia popolare saprà esercitarsi attraverso le vie e coi
mezzi che le sono propri, abbiamo posto in stato di arresto Pereyra Reverbel, degno rappresentante di questo regime.
Comunichiamo alle forze di repressione:
1. Che la persona del dottor Pereyra Reverbel, essendo in nostro potere, risponde dell’integrità fisica dei nostri compagni e di tutte
17 A. Labrousse, Op. Cit. p.123
9
le persone che sono ricercate.
2. Che la sicurezza e l’integrità fisica di Pereyra Reverbel dipenderà dalla condotta delle forze di repressione e dei gruppi fascisti al
loro servizio, e che faremo particolare attenzione al loro modo di agire.
3. Che di conseguenza, esse non debbono cercare di ritrovarlo, poiché metterebbero in pericolo la sicurezza e l’integrità fisica del
detenuto.
4. Pereyra Reverbel sarà rimesso in libertà, sano e salvo, quando le autorità del nostro movimento lo riterranno opportuno, e nella
misura in cui saranno seguiti gli avvertimenti che abbiamo dato.18
Difficile non notare il tono di forte rivendicazione dello stesso. Le accuse mosse sono precise,
perentorie; si parla di attacchi fascisti contro organizzazioni sindacali, delle ingerenze delle
dittature vicine e del capitale americano, vi è anche una singolare citazione della legalità, recepita
come finzione, e calpestata da coloro che dovrebbero difenderla. La sequenza di “Dato” che
introduce e scandisce ogni paragrafo è un metodo comunicativo chiaro, quasi una somma di capi
d’accusa che il tribunale tupamaro emette ai danni di malversatori, di personaggi che tramano
contro l’interesse nazionale. La volontà di educazione si esplica principalmente in questo, e può
essere riscontrata anche in questo tipo di azioni. Azioni dimostrative violente, di carattere
esemplare, che trovano l’appoggio di larghe fette del movimento operaio e studentesco.
I Tupamaros si preoccupano di comunicare alle forze di repressione che il loro ostaggio è sotto
loro potere, una sorta di anticipazione di quel dominio pieno e incontrollato che rivedremo, qualche
anno più tardi, in Italia.
Elementi di approccio pedagogico e in un certo senso populista si ritrovano in molte azioni che
costellano la vita del movimento tupamaro; capita così che dopo la rapina del 18 febbraio 1969 al
Casinò San Rafael che l’organizzazione arrivi ad impossessarsi di 55 milioni di pesos; il colpo è
rivendicato dal comando “Maria Robaina Méndez”, comando che si offre, tuttavia, di restituire
l’importo delle mance destinate al personale contenuto nella somma rubata.
Interessante anche l’episodio del radiocronista di Radio Sarandì interrotto il 15 maggio dello
stesso anno, per dare voce ad un messaggio Tupamaro, da trasmettersi via radio. Dopo alcuni
giorni dalla lettura del proclama, il radiocronista riceverà addirittura un messaggio di scuse da
parte dei Tupamaros.19 Possono sembrare eventi di secondo piano, ma tutta questa attenzione da
parte del movimento a farsi recepire come una sorta di giustiziere cavalleresco, aiuterà
l’avvicinamento, fondamentale, tra la popolazione e il gruppo guerrigliero, che verrà recepito con
sempre maggior simpatia e vicinanza, e le cui rivendicazioni e letture della società saranno più
facilmente accettate e condivise da fette sempre più larghe della popolazione.
“Come ad esempio quei lavoratori che sono entrati in un grande magazzino e hanno preso del cibo per sé e per i loro bambini,
agendo così in modo molto più onesto di quelli che se ne stanno a casa loro e sopportano senza reagire. […] Quelli che agiscono
così sono dei Tupamaros, poiché sono dei Tupamaros tutti quelli che non si limitano a formulare rivendicazioni, ma non
rispettano le leggi, i decreti e gli ordini creati da una oligarchia per difendere i propri interessi. Erano dei Tupamaros quelli che gli
spagnoli chiamavano banditi e che formarono l’esercito di Artigas per mettere fine al dominio straniero”20
Questo è il testo letto alla stazione di Radio Sarandì, e in esso si possono riscontrare molti, se non
tutti, dei caratteri principali dell’azione e della metodologia tupamara. Supporto ed
incoraggiamento dell’azione popolare, a scapito della legalità e dell’ordine costituito.
Legittimazione del proprio modus operandi, nonché della Rivoluzione, attraverso il richiamo al
grande evento della liberazione di Artigas, da equiparare a quella che oggi i lavoratori compiono,
a scapito del governo Pacheco. Una cura nella metodologia d’azione che riguarda sia la precisione
dei comunicati, sia l’uso della violenza, sempre specifica e centellinata, che è rintracciabile anche
quando si parla di omicidi.
Cura che si nota, ad esempio, nell’emblematico caso dell’ispettore Moran Charquero, colpevole,
secondo i Tupamaros, di aver avviato e avallato pratiche di tortura nei confronti di numerosi
guerriglieri ma anche di operai. Charquero fu attaccato nonostante avesse cambiato l’itinerario col
quale raggiungeva la questura, e fu finito a colpi di mitragliatore. Charquero viene attaccato dopo
le torture inflitte ai militanti Cabrera, a Marenales Saénz, a Martinez Platero e l’operaio Carlos
Astorga. L’azione è esemplare e totale, ma avviene dopo un periodo di attesa, i Tupamaros non
uccidono subito; le denunce di tortura di Saénz e Platero datano 13 ottobre; l’omicidio di
Charquero è attuato in Aprile. Vi è la volontà di vagliare bene un atto di estrema gravità come è
quello dell’omicidio, specialmente quando esso viene eseguito esemplarmente. Questo aver cura
di evitare spargimenti di sangue e al contrario di promuovere azioni ben ponderate ha anch’esso il
suo risultato; sebbene casi particolari di tortura continueranno a compiersi21, la polizia abbandona
l’uso della violenza sistematica ai danni dei prigionieri e degli arrestati.
Altro aspetto tipico dell’azione dei Tupamaros ed esemplare per comprendere la loro capacità di
convincimento e di penetrazione nei gangli dello Stato è il rapporto che lega il gruppo guerrigliero
a quelle forze dell’ordine (soldati, polizia, marinai, etc…) che dovrebbero combatterli, per tutelare
l’ordine costituito. In una lettera arrivata per posta nel luglio del 1970 a numerosi componenti
delle forze armate uruguayane, si possono intravedere tutte le caratteristiche della retorica
tupamara:
“Ai membri delle forze armate del nostro paese:
La specifica funzione delle forze armate è quella di difendere la sovranità della patria. Che cos’è e in cosa consiste la sovranità?
“La sovranità non consiste soltanto nell’assicurare integrità territoriale, ma nel salvaguardare i beni più preziosi dei cittadini, come
la libertà…” (Artigas). Così ad attentare alla nostra sovranità non è solo chi ci invade dall’esterno, ma anche chi contribuisce,
come esecutore o come responsabile, al pubblico danno. […] La truffa comincia dall’alto, da Acosta y Lara (ex ministro del lavoro
accusato di estorsione) fino a Peirano, passando per Frick Davie. I ministri, trafficanti quando non sono ladri, hanno diretto
questa folle orgia di speculazione. […] La Costituzione vige in tutti i suoi termini solo per i profittatori alla ricerca dei loro
vantaggi, o per i vigliacchi che credono ingenuamente di salvarsi la pelle e di non essere toccati. […] Il governo non risponde
affrontando i problemi per risolverli, ma impiegando sistematicamente la violenza per far tacere la protesta e assicurare la
continuità dello sfruttamento. Questa alternativa di ferro, il governo dei grandi interessi costituiti, lo sfruttamento del popolo, e la
politica della garrotta, è quella che il Movimento di liberazione nazionale intende spezzare. Noi siamo il popolo che è stufo
dell’inganno e che decide di prendere il destino nelle proprie mani. Proveniamo da tutti i settori politici e filosofici. Esercitiamo le
attività e le professioni più disparate. Siamo operai, impiegati, professionisti, studenti, piccoli commercianti, casalinghe, insomma
tutti quelli che non hanno complicità vergognose e che desiderano il bene del paese. Nelle nostre file ci sono “bianchi”,
“colorados”, cattolici, protestanti, ci sono sacerdoti, medici, ingegneri, militari, ci sono credenti e ci sono atei.
Ma c’è qualcosa che li unisce tutti e li trasforma in una forza, ancor più che potente e vigorosa, indistruttibile: l’amore della patria,
la ferrea volontà di giustizia. […]
Non risulta che alle forze armate sia dato l’incarico di punire i ladri, i grandi ladri di questo paese; […] Le forze armate hanno un
destino completamente diverso da quello che si pretende di assegnar loro di boia del popolo. E si tratta di un destino
essenzialmente glorioso e politico, dove la politica non deve essere intesa nel senso elettorale o partigiano dei voti e dei distintivi,
ma in un senso ben diverso. La politica del riscatto del patrimonio nazionale […]
Siamo impegnati in questa lotta e non ci scoraggeremo mai. E in questa lotta può esserci un posto per le forze armate del nostro
paese, che sono anch’esse popolo, e che soffrono anch’esse dell’onta di una patria umiliata da uomini senza onore, per cui la
repubblica appartiene solo a loro e ai loro misfatti.”22
Ci sono elementi nuovi, oltre a quelli già intravisti (La citazione di Artigas, ad esempio). Si parla di
Patria e di giustizia, di riscatto del patrimonio nazionale verso il quale le forze armate devono
21 A. Labrousse, Op. Cit. p.111 22 Ibidem, pp. 119-121
11
tendere, arrestando e perseguendo i criminali e i profittatori che danno loro gli ordini. Le forze
armate fondamentalmente “soffrono per lo stesso Uruguay” per il quale soffrono i Tupamaros.
Vi è una sorta di invito all’abbandono delle postazioni, per unirsi alla lotta non di un partito, non
di un movimento comunista o di una frazione di paese, ma del paese tutto, che delle forze armate
ha bisogno per scacciare una classe politica che vive a scapito della nazione. Nelle file dei
Tupamaros vi sono “blancos”, “colorados”, atei e cattolici, tutti uniti da una stessa volontà: quella
di far trionfare nel paese la giustizia e la dignità. E’ un parlare da pari con le forze dell’ordine, tra
elementi spesso in lotta, ma che seguendo una visione di interesse nazionale, portata dai
Tupamaros, possono marciare assieme per il benessere della nazione tutta. Una linea di
costruzione del consenso che otterrà i suoi frutti, se si pensa che pure durante l’azione forse più
eclatante della vita del MLN, il rapimento e l’esecuzione di Dan Mitrione, gli addetti alle forze
dell’ordine noteranno numerose connivenze durante i numerosi assalti per il rifornimento di armi
effettuati dall’organizzazione; al centro di addestramento della marina in particolare, dove le
guardie permisero la fuga dei Tupamaros, e in cui si ebbe l’occasione di notare anche
l’infiltrazione che i guerriglieri avevano effettuato tra le maglie delle forze armate.23
Nelle azioni dei Tupamaros e nei loro comunicati, oltre a questi canoni, è chiara la volontà di
rapportarsi col governo direttamente, dettando condizioni ai poteri imperialisti e fascisti che lo
reggono, e a quella che viene definita una dittatura. Dittatura, quella del governo uruguayano, che
è sempre più evidente, secondo uno schema piuttosto frequente nella mentalità dei gruppi di lotta
armata: l’idea, cioè, che la fascistizzazione dello stato sia l’ultimo stadio di un governo fondato sul
potere del capitale finanziario.
La situazione di crisi innestatasi su un sempre maggior successo, all’interno del paese, del
movimento tupamaro e delle volontà rivendicatrici del popolo uruguayano, costringono il
presidente Pacheco, infatti, ad una militarizzazione del paese, utile, nei disegni governativi, a
limitare la conflittualità interna e il pericolo di una sollevazione armata. E’ una situazione
riscontrabile in ogni paese in cui forze di contestazione, armata e non, cominciano a mettere in
subbuglio la capacità del governo centrale di amministrare il territorio e le funzioni statali.24 Si
parla di “fascistizzazione dello stato” , in Uruguay riferendosi in particolare all’articolo 27 della
legge 9943, che prevede “che nel quadro dell’adozione delle misure eccezionali, i cittadini
potranno essere sottoposti all’autorità e alla giurisdizione militare”. Capita così ad esempio che il
28 giugno 1969 truppe della marina penetrino a sedare uno sciopero di fabbrica, arrestando e
allineando gli operai lungo il Rio de la Plata. Gli operai vengono anche rinchiusi, poi, in celle dalle
condizioni igieniche spaventose, dove uno di loro contrae addirittura la tubercolosi.25
La repressione poliziesca viene fatta notare dai Tupamaros anche nei confronti del movimento
studentesco.
“Il movimento studentesco è una punta offensiva di enorme importanza ma […] la radicalizzazione dei mezzi di lotta, di fronte
alla brutalità della repressione poliziesca, non è sempre chiaramente compresa dalla popolazione. […] Molti sono demoralizzati
dal fatto che la repressione si intensifica e che il movimento popolare indietreggia. […] Tutto questo ci fa capire ancora una volta
che a un certo stadio di sviluppo della repressione il movimento sindacale come strumento di lotta è superato e deve lasciare il
posto ad altre forme di combattimento”26
Si nota quindi un evidente salto di qualità della reazione che, se da un lato attaccherà le 23 A. Labrousse, Op. Cit. p.150 24 S. Neri Serneri, Op. Cit. p.97 25 A. Labrousse, Op. Cit. p.77 26 Ibidem, p.86
12
manifestazioni di massa, dall’altro potrà spingere numerosi studenti e operai alla comprensione
che per ottenere le rivendicazioni è necessario intraprendere un percorso di consapevolezza, che
sfocerà nel supporto diretto all’opera tupamara.
Il problema della violenza fascista nel paese esiste da molto tempo, ed è precedente rispetto alle
azioni dei Tupamaros. Sono emblematici i casi, ad esempio, dell’incendio di un locale del Partito
Comunista, con la morte del piccolo Olivio Piriz, e l’aggressione, nel 1962, di un gruppo di
neofascisti ai danni di manifestanti di sinistra. Vi è poi l’impressione, tra la popolazione e i
manifestanti, che la polizia non si mobiliti contro le forze neofasciste con lo stesso zelo con cui si
mobilita per contrastare i movimenti di sinistra; questo è un leitmotiv che si incontrerà anche
nelle manifestazioni italiane, e che rafforzerà ancor più la concezione di uno stato, o di stati, che
si servono di gruppetti di violenti di estrema destra per attaccare, anche in modo assai violento e
mortale, i manifestanti delle sinistre.
Il 31 luglio del 1970, tuttavia, un commando tupamaro rapiva Dan Mitrione; cittadino americano
di origine italiana, egli operava, da agente dell’FBI, come consulente presso la questura di
Montevideo.
I Tupamaros lo qualificano come “spia americana collocata all’interno dei servizi di sicurezza
dello stato uruguayano”; era inoltre un consulente militare della polizia di Belo Horizonte e di Rio
de Janeiro, assieme alla quale aveva perpetrato torture e violenze ai danni dell’opposizione
brasiliana, in un quadro di supporto alle operazioni di controguerriglia, tramite l’USAID. L’azione
dei Tupamaros contro Mitrione parte nel momento in cui lo stesso agente comincia ad impiegare
i metodi utilizzati in Brasile anche in Uruguay27.
Vi è la proposta di uno scambio con dei prigionieri in mano al governo, capi Tupamaros come
Manera Lluveras e Rodriguez Recalde. Si apre, tra i deputati del parlamento uruguayano, un
fronte di trattativa e un fronte di fermezza, con alcuni deputati favorevoli alle trattative per
riportare a casa Mitrione. La possibilità di liberare l’italoamericano in cambio dei prigionieri
Tupamaros viene esplicata in un comunicato del 4 agosto da parte del movimento guerrigliero,
che propone di rilasciare i prigionieri in paesi come Messico o Algeria. Durante il sequestro
Mitrione, i Tupamaros faranno giungere alla stampa tutti i documenti che provano la sua
collaborazione con l’USAID, con l’FBI e con la polizia di Montevideo; il movimento comunica
anche al governo che se non sarà effettuato lo scambio, l’agente statunitense verrà ucciso. Il
rapimento Mitrione è importante perché durante le spasmodiche ricerche la polizia uruguayana
arresterà Raul Sendic e altri Tupamaros, il 7 agosto. Sendic stesso si dichiara prigioniero di guerra,
e si rifiuta di collaborare con le forze dell’ordine, e da parte tupamara si dichiara che la vita di
Mitrione dipende dall’incolumità in cui devono essere preservati Raul Sendic e gli altri guerriglieri.
Il governo si ostina nel suo rifiuto ad intavolare trattative, e il 10 agosto viene rinvenuto il
cadavere dell’agente americano. L’assemblea nazionale delibererà una giornata di lutto, ma le
bandiere dell’arcivescovado e dell’università di Montevideo non espongono, simbolicamente, la
bandiera a mezz’asta.
Interessante, risalendo all’intervista di Urbano, capo Tupamaro, analizzare le reazioni e le
giustificazioni che il MLN offre riguardo l’avvenuta esecuzione:
“Abbiamo dato loro una scadenza, abbiamo pronunciato il verdetto e li abbiamo avvertiti che se entro questo termine i nostri
compagni non fossero stati liberati o se non si fosse stata data una risposta alle trattative, Mitrione sarebbe stato giustiziato.
Quando si giunge a questo estremo, una decisione presa da un movimento di rivoluzionario deve essere attuata, soprattutto dati
27 A. Labrousse, Op. Cit. p.151
13
gli antecedenti che esistevano in questo caso. […]. L’esecuzione del verdetto su Mitrione non implicava solo una responsabilità del
movimento di fronte al suo popolo, ma anche una responsabilità di fronte agli altri movimenti rivoluzionari dell’America Latina.
Quando noi prendiamo un provvedimento di questa natura, non consideriamo soltanto la nostra situazione particolare, ma anche
quella di altri movimenti rivoluzionari […]. E’ questa una carta che conosce anche l’imperialismo e che sa giocare anch’esso
quando rifiuta lo scambio con Mitrione.”28
Importante qui la volontà di mettere in luce le responsabilità del governo nella gestione del caso; i
Tupamaros pongono delle condizioni per il rilascio, condizioni che sono le uniche necessarie per
far tornare sano e salvo l’ostaggio. Il MLN ha delle responsabilità nei confronti del suo popolo e di
altri movimenti di guerriglia continentali; è una sorta di gioco in atto con il potere centrale,
conscio dei collegamenti tra l’attività rivoluzionaria Tupamara, l’atto simbolico del rapimento e le
conseguenze che una trattativa potrebbe avere per l’immagine e l’autorevolezza dello stato. Lo
stato non intende concedere nulla, ma nulla possono concedere i Tupamaros, e l’epilogo resta
solamente uno, quello dell’esecuzione.
Questo caso, simile nei modi e nella conduzione a quello che riguarderà l’Onorevole Aldo Moro
in Italia otto anni dopo, è emblematico per capire quali sono le reazioni sia degli stessi
Tupamaros, che del governo uruguayano e della società del paese sudamericano.
Molto importante è il comportamento delle istituzioni clericali del paese; il rifiuto di esporre la
bandiera a mezz’asta dopo l’uccisione di Mitrione era stata preceduta da una lettera di
rimostranze del movimento evangelico al nunzio apostolico, che veniva invitato ad occuparsi
delle gravi ingiustizie della società uruguayana che erano il motivo principale della violenza
tupamara. Vi è quindi una identificazione profonda di settori molto importanti della società,
come quello delle comunità cristiane, se non nella guerriglia, almeno nelle motivazioni che la
portano ad esplicarsi, e a compiere atti anche molto gravi. Anche l’università pone l’accento sulle
violenze del regime che sono all’origine della violenza tupamara e dei suoi risultati.29
La prima conseguenza di queste azioni sarà la creazione, in Sudamerica, di un fronte che lega
l’Uruguay del presidente Pacheco alle dittature dei paesi vicini, in funzione controrivoluzionaria,
anche in vista del successo elettorale che porterà in presidenza Salvador Allende in Cile, nel
settembre 1970. Un motivo in più per vedersi confermare, da parte dei Tupamaros, l’idea che la
fascistizzazione dello stato sia la diretta conseguenza degli attacchi diretti verso il potere
capitalista ed imperialista.
Un altro aspetto molto importante della vita politica del movimento Tupamaro è la capacità di
rapportarsi con efficacia ed autorevolezza rispetto a quelle che sono le manifestazioni legali del
potere politico nazionale, in particolar modo, ovviamente, a quei fronti popolari e di sinistra che il
paese esprime nel corso degli anni di attività del gruppo e nei confronti dei quali il movimento
esercita fascino e attrazione; è esemplare notare come il movimento sia fortemente interclassista,
e riesca a creare consenso tra numerose categorie sociali; nei ceti medi, nelle professioni liberali,
persino tra i medici degli ospedali che si occupano di curare i guerriglieri feriti.30 Pure la chiesa
uruguayana, come abbiamo avuto modo di notare, in alcuni settori permette ai propri fedeli di
conciliare fede e rivoluzione armata, e propende per una profonda revisione della politica
nazionale, dimostrando di saper ascoltare le istanze popolari espresse, anche in maniera violenta,
dai rivoluzionari: un modello che da certi punti di vista può essere ricondotto alla teologia della
II) Feltrinelli e il caso sardo: i Vietnam del mondo e le Cuba del Mediterraneo
Nella sua azione editoriale prettamente votata alla divulgazione e al supporto delle lotte di
liberazione internazionale, Gian Giacomo Feltrinelli avrà modo di imbattersi e percorrere,
assieme ad altri personaggi dell’ambiente comunista e rivoluzionario italiano, una pista piuttosto
singolare di applicazione di certune ideologie di liberazione, frammiste a istanze di tipo
indipendentista e autonomista che anche in Italia serpeggiavano. Nel “considerare il mondo come
una unica città” concetto fatto proprio dall’editore, si può notare come stimoli di questo tipo,
ovvero il mescolare lotte per l’indipendenza nazionale o la secessione con ideologie di tipo
marxista o rivoluzionario, stessero già imperversando nel mondo ma in particolare in Europa,
lungo tutto l’arco degli anni Sessanta e Settanta, con i casi ad esempio dell’ETA basca e dell’IRA
nordirlandese che più in generale fanno della rivendicazione territoriale dal punto di vista
geografico e politico un modo per promuovere anche visioni di tipo socialista ed egualitario della
società, in direzione anti imperiale e anti coloniale.
Lo stesso approccio si può notare nell’opera che Feltrinelli cercherà di promuovere in Sardegna.
Sulla scorta del suo soggiorno cubano egli incentiverà una serie di analisi atte a valutare se il
fenomeno del banditismo sardo fosse collegabile a tentavi di separatismo nell’isola. Una analoga
inchiesta verrà commissionata da Feltrinelli a Saverio Tutino per quanto riguarda la situazione
siciliana. Dice Tutino:
“Feltrinelli mi diceva che bisognava fare come a Cuba, come aveva fatto Fidel Castro, avere un gesto di volontarismo
rivoluzionario nel senso di muovere qualcosa che poi portasse alla fondazione di un grande movimento che doveva andare dalle
campagne siciliane alla classe operaia milanese passando per la Sardegna. Mi mandò in Sicilia per vedere quanto ci fosse, nelle lotte
dei braccianti, di potenzialmente eversivo […] della Sicilia mi disse che era il terreno da cui poteva scaturire un movimento tipo
Tupamaros. Questi agivano in città, a Montevideo, in Uruguay, però erano nati nella zona bracciantile dei tagliatori di canna da
zucchero.” 79
Oltre a questo, Feltrinelli sembra abbia avuto un ruolo nel rifornimento di armi a Graziano
Mesina e alla sua banda, in una frequentazione nell’isola mediterranea che l’editore continuerà
lungo tutta la fine degli anni Sessanta e che avrà in Francesco Masala ed Eliseo Spiga, comunista
dissidente, i suoi agganci per provare a sviluppare un progetto rivoluzionario sardo. Va detto che
in Sardegna l’esempio cubano era forte indipendentemente dall’aiuto che poi Feltrinelli può aver
fornito a questi personaggi nell’approfondire una certa idea rivoluzionaria e secessionista, in uno
scenario in cui comunque istanze separatiste si registravano fin dall’inizio del secolo. Il Partito
Sardo d’Azione ad esempio è sempre stato permeabilissimo alla retorica della “Cuba del
Mediterraneo” poi perseguita anche da Feltrinelli; Antonio Simon Mossa ad esempio, segretario
provinciale del partito, era solito firmare i suoi articoli con lo pseudonimo di “Fidel”.80
Giuliano Cabitza invece, si è reso autore di un manoscritto, edito Feltrinelli, intitolato “Sardegna:
rivolta contro la colonizzazione”, e sarà tuttavia il primo a smentire la presunta connessione che
vi sarebbe tra l’istanza rivoluzionaria e il banditismo sardo, quest’ultimo letto non tanto come un
tentativo di rovesciare un mondo esistente per crearne uno nuovo, bensì come tentativo di far
sopravvivere un sistema, quello arcaico e pastorale della Sardegna, che poco ha a che fare con
movimenti di stampo marxista o castrista di tipo novecentesco. Resta tuttavia l’idea di una
frammentazione dello stato italiano tesa a spezzare il potere territoriale della borghesia e i suoi
centri di potere, e a spezzare un centralismo amministrativo che è diretta conseguenza del potere
79 A. Grandi, Op. Cit. p. 351 80 Ibidem, p. 352
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borghese sull’Italia; questa distruzione del potere borghese andrà fatta attraverso una rivoluzione
socialista in grado di inserirsi in quelle che sono le spaccature culturali e storiche che ancora
dividono l’Italia. Questo è il pensiero che Cabitza mutuerà nelle sue opere, e che dimostra ampi
collegamenti con ciò che si è visto emergere nelle ideologie di altri movimenti armati. Più in
generale quella idea di Sardegna come colonia, che deve perseguire una lotta di liberazione dal
colonizzatore italiano tramite una rivoluzione socialista atta a distruggere tutti i collegamenti che
la borghesia continentale, attraverso la sua forza di occupazione, ha sviluppato nell’isola; una
forza di occupazione che fa del centralismo amministrativo il suo carattere peculiare, e contro cui
deve destinarsi la lotta rivoluzionaria. Lotta rivoluzionaria che Feltrinelli incoraggia
economicamente e culturalmente, attraverso la promozione di riunioni, colloqui e congressi con i
separatisti, e anche con sostanziali aiuti economici, se non con l’invio di armi e la creazione di
depositi per le frange più estreme e in collegamento col ramo banditista.81 Una lotta, quella contro
il centralismo governativo, che anche nei toni ricalca spesso una lotta contro l’usurpatore
romano, un tentativo di “buttare le aquile romane in mare” in cui i tentativi di coinvolgimento di
Graziano Mesina e del banditismo sardo saranno ricercati spesso, offrendo al bandito sardo ruoli
di spicco nella continuazione e nel perfezionamento del percorso indipendentista.
Un rapporto, quello tra separatismo e rivoluzione, che può sembrare singolare, ma che invece
viene ripreso e promosso proprio alla luce di quei rapporti tra colonie e madrepatria che abbiamo
potuto leggere nei casi dei Black Panthers e dei Weather Underground. Ecco che qui la Sardegna,
agli occhi di Feltrinelli, può senz’altro apparire come una avanguardia per la rivoluzione socialista
in Italia, da attuarsi attraverso un movimento di liberazione che ponga le basi intanto per una
concreta liberazione dell’isola, rendendola una Cuba del Mediterraneo, e che poi fornisca un
esempio su cui future lotte rivoluzionarie di liberazione potranno innestarsi, in Sicilia e nel resto
d’Italia. Ecco il valore rivoluzionario della secessione della colonia, quello di interrompere e
strappare i gangli dello stato centrale borghese ed imperialista, per creare delle zone libere dal
controllo imperiale. Una secessione che può essere vista come avanguardia di un disegno più
ampio, avanguardia che tuttavia viene incoraggiata, così come ad esempio i Weathermen
incoraggiano, nella loro idea anti imperiale, la secessione della colonia nera dal resto degli Stati
Uniti. E’ proprio con gli Stati Uniti che in questo caso la similitudine è più forte a livello
ideologico. A livello di guerriglia pratica, con il caso siciliano, si riprende l’esempio dei
Tupamaros, ma senz’altro il discorso secessionista in chiave rivoluzionaria va ad approfondire
quel solco già tracciato dai due movimenti statunitensi presi in esame.
Una eco, quella della Sardegna come Cuba del Mediterraneo, che farà sentire la sua onda lunga fin
anche al 1981, al tentativo di Antonio Savasta di creare una colonna delle Brigate Rosse, e al
rapimento di Suzanne e Sabine Kronzucker; l’azione viene eseguita proprio da un gruppo di
banditi sardi politicizzati, che dopo il rapimento emetteranno un comunicato:
“Dalla base mobile operativa toscana intitolata al grande compagno Antonio Gramsci, Chaka II, capo dell’anonima sequestri
operante in tutta l’Italia centrale elenca i mandanti della strage nazifascista messa in atto alla stazione di Bologna del 2 agosto
[seguono una serie di nomi di personaggi politici] Chaka creerà una nazione sarda, una seconda cuba nel Mediterraneo, basteranno
un migliaio di uomini, di veri sardi, a sconfiggere i colonizzatori italiani”82
Ecco che la retorica della Cuba del Mediterraneo ritorna, in un progetto che coinvolge anche
gruppi di banditi e operanti nel settore dei sequestri di persona, in un rapporto spesso stretto tra
81 A. Grandi, Op. Cit. p. 364 82 G. Galli, Op. Cit. p.423
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questione separatista, antifascismo e rivoluzione, banditismo sardo. E alla fine degli anni Settanta
Feltrinelli si occuperà di far divampare un fuoco guerrigliero partendo proprio dall’intreccio tra
banditismo e indipendentismo sardo. Se come abbiamo visto, anche sulla scorta degli
avvenimenti storici, il banditismo ha poco a che vedere con questioni rivoluzionarie, diverso è il
rapporto che lega la lotta armata anti imperialista e comunista al separatismo, con legami
ideologici forti e trasversali a gruppi armati di tutto il panorama mondiale, in un anticolonialismo
che, oltre a fornire una base teorica per i movimenti di liberazione prettamente nazionali come
quello dei Tupamaros, offre l’occasione di ridisegnare e ripensare ai confini stessi di alcuni stati, e
al rapporto con le varie etnie e culture presenti al loro interno.
III) Feltrinelli e l’Italia, fascistizzazione dello stato, golpe, timori
Abbiamo visto come il ruolo della casa editrice Feltrinelli e del suo proprietario nella divulgazione
di opere inerenti il mondo della rivoluzione socialista e anti imperiale mondiale sia assolutamente
di primo piano. Una opera di divulgazione che si inserisce in un paese, l’Italia, attraversato da
spinte politiche e sociali controverse. La crescita dei movimenti di contestazione sull’onda lunga
del ’68, l’autunno caldo del ’69 e le tensioni nei cortei di piazza fanno spesso precipitare il paese
in situazioni difficili da gestire sia dal punto di vista dell’ordine pubblico sia da quello delle derive
politiche che si innestano nei vari movimenti, dei quali vi è un gran fiorire in questi anni, spesso al
di fuori della tutela dei partiti che potrebbero essere visti come riferimento, ovvero il PCI da una
parte, che si ritrova a gestire la nascita di gruppi alla sua sinistra e varie scissioni come quella
dell’area del Manifesto, e l’MSI dall’altra con il suo ambiguo rapporto con Ordine Nuovo e la
galassia di gruppi eversivi di destra che nascono e nasceranno in Italia. Sullo sfondo vi è una
classe politica dirigenziale che rimane sostanzialmente la stessa, se non nelle figure, certamente
nell’indirizzo amministrativo. Il fallimento dei progetti riformisti del centrosinistra moroteo fanno
rimanere il paese bloccato sempre sugli stessi punti programmatici, e si avverte chiaramente un
malcontento di piazza. La situazione precipita con la strage di Piazza Fontana, il 12 dicembre
1969.
L’obiettivo di questo paragrafo non è tanto quello di analizzare ciò che questa strage comportò
nel panorama politico nazionale, cosa che verrà affrontata più avanti, ma è quello di vedere come
un evento così importante sia stato recepito da un personaggio come Feltrinelli, e come esso,
assieme ad altre avvisaglie, contribuirà a mutare la sua esperienza di editore, convincendolo del
fatto che in Italia il rischio della fascistizzazione o di un golpe delle destre sia un qualcosa di
imminente, e che sulla scorta dell’esperienza di altri paesi, dopo le contestazioni di piazza, dopo i
tentativi di svolta messi in campo dalle forze popolari, lo stato imperiale sia interessato a ristabilire
l’ordine, utilizzando tutti i metodi a sua disposizione, legali e illegali.
L’antifascismo di Feltrinelli va fatto ovviamente risalire ben prima degli avvenimenti di Piazza
Fontana, e reca profonde tracce nei progetti editoriali che l’editore milanese approverà per la casa
di via Andegari fin dall’inizio degli anni Sessanta. Va fatto risalire al grande marasma seguito agli
avvenimenti del luglio 1960 e del governo Tambroni, ad esempio, l’inizio di una collaborazione
con Ruggiero Zangrandi, che porterà alla pubblicazione di opere come Il lungo viaggio attraverso il
fascismo e L’Italia tradita, opere che non solo hanno lo scopo di valutare la virulenza delle ideologie
del ventennio fascista nelle coscienze degli italiani, ma che vogliono più in generale ripercorrere e
mettere a nudo quelle connivenze che vi furono tra gruppi imprenditoriali, finanziari e circoli
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monarchici nell’ascesa di Benito Mussolini e del Partito Nazionale Fascista al governo italiano.83
Assume in particolar modo importanza in Feltrinelli e nel taglio editoriale della sua casa il ruolo
giocato dalla Resistenza, vista come un evento rivoluzionario da riscoprire; ed è proprio questo
uno dei punti fondamentali dell’ideologia feltrinelliana, il rapporto che sempre lo legherà al mito
della Resistenza partigiana antifascista e anche ad alcuni di quelli che furono suoi esponenti, come
Giambattista “Gibì” Lazagna. Un mito, quello della Resistenza, che Feltrinelli cercherà di
riadattare, proponendo una Nuova Resistenza, in opposizione ai fascismi a lui contemporanei e ai
pericoli gollisti che l’Italia attraversava. E questo mito prende anche le mosse da un
convincimento più profondo e radicato in diversi dei protagonisti di quella che sarà l’ondata
eversiva rossa italiana, ovvero che la Resistenza del ’43-’45 fosse sostanzialmente una Resistenza
tradita, svilita negli obbiettivi che erano propri di quella componente rivoluzionaria e di
orientamento comunista che la componevano, una Resistenza che, come vedremo, in certi
frangenti innesta pure l’effimero mito di una sua possibile continuazione, ma che agli occhi di
molti esponenti dell’ambiente rivoluzionario italiano negli anni Sessanta e Settanta appare ormai
come un qualcosa di incompiuto; grazie anche ad una sinistra ufficiale, quella del PCI e del PSI,
che aveva tralasciato una spinta rivoluzionaria per abbracciare quello che veniva già avvertito
come un cauto e sterile tentativo riformista, inadatto a inserirsi e a mutare quegli equilibri in cui
l’Italia pareva essersi definitivamente arenata. E’ il caso ad esempio di riviste come “Il
Politecnico” di Elio Vittorini, dei “Quaderni Rossi” di Panzieri, di “Classe e Stato” di Stame e
Meldolesi. E’ anche il caso delle avanguardie letterarie come quelle del Gruppo ’63, tutti
fenomeni di critica alla sinistra ufficiale, pure ad un certo stalinismo di tipo sovietico, tese a
rivalutare quelli che erano i fermenti che il mondo viveva, dalla meno recente Lunga Marcia di
Mao-Tse-Tung alla Rivoluzione Cubana, eventi che come abbiamo visto il PCI trattava spesso
con distrazione. Ed è in questo scenario che nel panorama culturale della nuova sinistra italiana, in
cui Feltrinelli è presente anche nella sua attività di scouting rivoluzionario, che inizia ad essere
rivalutato tutto il filone della storia del movimento operaio italiano e soprattutto di tutti quei miti
su cui il PCI aveva finora costruito la sua egemonia; in questo ambito la Resistenza, con il suo
lascito ideologico e programmatico viene rivalutata come una espressione rivoluzionaria su scala
italiana.84
Ecco che anche in Italia, alcuni settori della sinistra radicale iniziano a innestarsi, basandosi sui
fermenti che stanno attraversando il mondo, su un filone storico che ha riguardato il loro paese in
anni tutto sommato recenti, e che può essere reinterpretato alla luce delle esigenze attuali. Eventi
da riscoprire, la cui forza va ripresa e la cui capacità di attrazione va rinnovata, per essere
impiegata con nuova energia nelle lotte dell’oggi.
Paragoni che beninteso lo stesso Feltrinelli farà spesso e avrà modo di trovare, così capita ad
esempio che al ritorno in Italia dopo il suo viaggio cubano, nel ’69, abbia modo di paragonare il
regime militare di La Paz a quello degli ultimi mesi del fascismo in Italia; governo boliviano che
se necessario lo indurrà ancora di più a credere, dopo Piazza Fontana, non solo che vi sia in atto
un tentativo cosmopolita di repressione delle forze rivoluzionarie, ma che addirittura, dopo il suo
arresto nel paese sudamericano, che contro di lui vi sia in atto una persecuzione, atta a
identificarlo come un pericoloso rivoluzionario che può avere agito, in Italia e a Piazza Fontana,
animato dal tentativo di destabilizzare il paese per farvi scoppiare tumulti rivoluzionari. Feltrinelli
83 A. Grandi, Op. Cit. pp.268-269 84 Ibidem, p.305
37
in Bolivia ci era andato per supportare la causa di Regis Debray, l’autore francese de Rivoluzione
nella Rivoluzione? Arrestato dalla giunta boliviana al potere. Nel paese sudamericano Feltrinelli può
aver intessuto rapporti di diverso tipo, si parla anche di abboccamenti con Che Guevara e i suoi
guerriglieri, ma non vi sono certezze; è certo invece che l’evento boliviano servirà a Feltrinelli per
rendersi conto della forza della repressione internazionale e della capacità statunitense di inserirsi,
con suoi uomini, nell’ordine pubblico dei paesi sotto loro influenza, così in Bolivia e così in
Italia.85 Una presa di coscienza che lo animerà anche nel suo lavoro di editore, come avrà modo
di confidare a Lucio Colletti, redattore de “La Sinistra”:
“[Feltrinelli] paragonava la situazione italiana a quella dei paesi dell’America Latina; sosteneva che si stava andando incontro ad
una progressiva fascistizzazione dello stato e che la democrazia era in pericolo. Proponeva, come antidoto, una lotta armata da
avviare in Sardegna, in Calabria” 86
Ecco che quindi in Feltrinelli si mescolano una visione di respiro internazionale e specialmente
incentrata sulle sue esperienze cubane e boliviane, viste come anticipatrici della situazione italiana,
che presto seguirà la degenerazione violenta già in atto in quei paesi. E’ una questione molto
importante se pensiamo agli ambienti con cui il Feltrinelli era in collegamento e alla capacità della
sua casa editrice di fare da cassa di risonanza per la Resistenza mondiale, Resistenza che andava
riallestita anche in Europa, avvalendosi anche di quegli strumenti che abbiamo analizzato
precedentemente, ovvero le secessioni rivoluzionarie e le guerriglie di liberazione locale, per
disarticolare i centri nevralgici dello stato.
Un riadattamento della Resistenza, frammisto alla consapevolezza della situazione internazionale
in cui si inserirà anche, seguendo i progetti di Feltrinelli, il già citato Lazagna; Iscritto al PCI dal
1942, se ne staccherà verso la metà degli anni Cinquanta, deluso dai nuovi approcci del partito di
Botteghe Oscure verso le istanze che il mondo rivoluzionario stava mettendo in mostra:
“si continuava a far politica ma nel segno del dubbio. Era giusto ritornare a discutere della libertà, ma era deludente ritornare a
scoprire l’acqua calda della socialdemocrazia, la diplomazia di partito, l’ossessione elettorale. La distensione era la caricatura della
pace per la quale avevamo combattuto. E il partito appariva più preoccupato di salvaguardare il patrimonio di consensi che si era
costruito, che di investirlo in una battaglia di rinnovamento. In Italia l’allarme ricorrente per i colpi di stato progettati o tentati,
rendeva questa ripresa [rivoluzionaria] necessaria e indilazionabile. Non credo di essere stato il solo, in questa situazione, a
ritrovare nell’esperienza del partigianato un modello di mobilitazione.”
Amicizie del Feltrinelli in ambiente partigiano arricchite anche dai rapporti con Cino Moscatelli e
Giovanni Pesce. Ma è con Lazagna che l’editore si confida, e continua a riproporre il tema della
Resistenza da opporre ad un golpe in Italia:
“Lui riteneva pressoché inevitabile il colpo di stato ed era convinto che contro un colpo militare non ci fosse niente da fare. Il
problema, allora, era di organizzare la resistenza dopo. Si trattava di rifugiarsi in montagna, in piccoli gruppi, capaci di durare nelle
proprie basi guerrigliere e di riorganizzare di lì la lotta popolare. Era in sostanza il modello guevarista.”87
Un modello di ispirazione piuttosto militarista contro cui lo stesso Lazagna si schiererà a più
riprese, portando invece l’attenzione su quelle che dovevano essere altre, e più importanti, azioni
di sabotaggio: gli scioperi, le insubordinazioni, le occupazioni. Una concezione che non è fatta
propria da Feltrinelli, che sulla scorta delle azioni in Sudamerica è portato a pensare che fosse la
guerriglia a produrre il coinvolgimento delle masse.
85 A. Grandi, Op. Cit. pp.320-322 86 Ibidem, frase di Lucio Colletti, p.334 87 Ibidem, pp.370-372
38
Un altro fatto che dimostra come l’antifascismo in Feltrinelli e la sua propensione
internazionalista fossero presenti anche prima della bomba di Piazza Fontana è la pubblicazione,
nel 1968, di un suo opuscolo intitolato Persiste la minaccia di un colpo di stato in Italia! Un opuscolo
simbolico, in cui traspare l’assoluta volontà di abbattimento del sistema imperialista statunitense,
e in cui emerge una analisi della situazione internazionale piuttosto semplice: l’esempio
guevariano ha trovato accoliti in tutto il mondo, dal Vietnam all’Angola passando per il
Sudamerica; all’appello mancava però l’Europa. Ecco come Feltrinelli dipinge la necessità di un
allargamento del conflitto:
“Questa lotta, con la decisione di passare a una attiva Resistenza, entra quindi in una nuova, più acuta fase, perché con essa noi ci
proponiamo di gettare le basi di un futuro ma prossimo contrattacco rivoluzionario all’offensiva capitalista e imperialista nel
nostro stesso paese; controffensiva il cui obiettivo sarà l’abbattimento del sistema capitalista in Italia, la distruzione del potere dei
monopoli, la distruzione delle istituzioni politiche dello stato capitalista. Controffensiva che avrà come obiettivo quello di liberare
il nostro paese dalla sottomissione all’imperialismo americano. Resistenza attiva oggi, controffensiva domani: sarà una lotta lunga
e dura. Sarà una lotta del Davide contro il Golia. Ed è a questa lotta che dobbiamo prepararci” 88
Ecco che in questo trafiletto traspaiono molte delle linee guida dell’ideologia feltrinelliana: lotta
globale in cui anche l’Italia deve inserirsi, secondo modelli che sono stati utilizzati in altri paesi
contro l’imperialismo degli USA, ma ripescando, anche nel campo della semantica, quella che è
l’esperienza della Resistenza e quelli che sono stati (e che possono essere oggi) i suoi aspetti più
rivoluzionari, che vanno collegati alla inderogabile esigenza di abbattere il capitalismo in
Italia.Una fissazione, quella per la resistenza e l’antifascismo, che forse vuole collegarsi, nei suoi
estremi tentativi di adattamento all’attuale, a quel tentativo di collegamento ideologico che tutti i
gruppi guerriglieri che abbiamo esaminato hanno fatto, chi risalendo alla liberazione uruguayana
di inizio ottocento, chi ricollegandosi alle lotte di Malcolm X e al Black Power, chi rileggendo in
maniera completa la storia americana e le dinamiche di sfruttamento in lei insite. In Italia questa
rilettura e questo aggancio al passato spesso sarà tentato con una vicenda, quella della Resistenza,
che per molti verrà interpretato come un qualcosa di tradito e di incompleto, e sulle riletture di
queste vicende si formeranno culture e substrati ideologici che molto influenzeranno i guerriglieri
italiani, così come molto hanno influenzato Giangiacomo Feltrinelli nella sua parabola di editore
rivoluzionario.
IV) La militanza di Feltrinelli: i GAP e la Nuova Resistenza
La collaborazione tra Lazagna e Feltrinelli continuerà anche in ambienti non più totalmente legali,
in cui l’editore ebbe modo di conoscere, nel 1969 a Genova, appartenenti al gruppo XXII
ottobre; entrò in contatto anche con Franco Piperno, leader di Potere Operaio e personalità di
spicco in quell’universo che stava alla sinistra del PCI. Una amicizia, quella tra Piperno e
Feltrinelli, dai toni contraddittori, sempre alimentata tuttavia da una stima che il leader del
movimento nutriva nei confronti dell’editore, per la sua attività di divulgazione e per l’aver
“influito nella sua formazione” con la pubblicazione dei classici del pensiero marxista ma anche
con Kropotkin e Pasternak. Il timore per un colpo di stato delle destre intanto andava facendosi
via via sempre più forte in Feltrinelli, timore che proprio nel corso del 1969 lo porterà ad
allontanarsi dall’attività editoriale e ad entrare in clandestinità, compiendo numerosi viaggi anche
all’estero, tra Svizzera, Francia e Germania. Questa decisione si dovette al timore non solo che un
colpo di stato fascista fosse ormai alle porte, ma anche alla sensazione, da parte di Feltrinelli, di
88 A. Grandi, Op. Cit. p.379
39
essere braccato dopo gli attentati del 12 dicembre 1969; le perquisizioni e i sospetti all’indomani
della strage infatti si spinsero molto vicino all’ambiente anche familiare di Feltrinelli e della moglie
Sabina Melega, nonché in direzione di tutti quei gruppi di estrema sinistra o anarchici che pure
l’editore aveva frequentato. Tutti questi indizi contribuirono a far crescere la paranoia in un
uomo, il Feltrinelli, che già era scosso da profondi convincimenti sulla possibilità di una deriva
violenta in Italia, e che ne accrebbero la volontà di organizzare una resistenza in stile guerrigliero.
Inizia da qui l’avventura armata di Giacomo, il suo continuo riallacciarsi a quella Resistenza che
aveva solamente intravisto in gioventù, ma al cui mito rimarrà sempre legato; ecco che inizia a
farsi conoscere come Osvaldo, Fabrizio, tutti nomi di battaglia, per una battaglia considerata
inderogabile, e da combattersi sotto forma di guerriglia partigiana, contro il nemico fascista,
ancora una volta. Emilio Oppes, Giuseppe Saba, Antonio Cabras, operai sardi emigrati in
Germania con i quali Feltrinelli avvierà una collaborazione, lo aiutano nelle sue prime fasi della
sua organizzazione della guerriglia. Una organizzazione in cui Feltrinelli si avvarrà anche dei suoi
contatti in America Latina, nell’ambito dell’estrema sinistra, in un viaggio a Cuba proprio
nell’estate del 1969 Feltrinelli si prodigherà per cercare di esporre le similitudini che legano il
pericolo di una deriva fascista in Italia alla situazione Sud Americana.89
Ma erano proprio così imminenti e probabili, questa deriva fascista e questo golpe alle istituzioni
italiane? O era pura paranoia cresciuta in una mente impressionabile? probabilmente l’editore ha
esagerato nell’interpretare pericoli autoritari che poi si riveleranno quantomeno ipertrofizzati,
tuttavia nella società italiana che aveva visto esplodere l’ordigno di Piazza Fontana, certi umori e
sensazioni erano fortemente presenti, ed era latente la sensazione di un ritorno del fascismo della
penisola che albergavano anche nei principali uomini dello scenario politico, specialmente quello
di sinistra. In tutto il luglio del 1969 si rincorrono voci, messaggi e dispacci di possibili colpi di
stato, molti dirigenti del PCI preferiranno dormire fuori casa, e si presterà particolare attenzione alla
possibilità che alcuni reparti delle forze armate venissero repentinamente spostati da un luogo
all’altro. Una paranoia che insomma era ben presente nell’Italia di allora, e che certo in personaggi
come Feltrinelli, attenti ai risvolti internazionali che certe situazioni avevano innescato, e consci
soprattutto della stasi politica da un lato, e dal grande fermento della contestazione dall’altro,
potevano far pensare ad una imminente reazione da parte degli organismi statali e di quegli
apparati dello stato che, su pressione statunitense, avrebbero certamente avuto interesse a
fermare la fibrillazione popolare, anche con metodi di coercizione violenta. 90
E’ da qui che sostanzialmente parte la seppur breve parentesi guerrigliera di Giangiacomo
Feltrinelli, e la sua possibile compromissione con organismi quali la sinistra rivoluzionaria
europea come la RAF, la banda Baader Meinhof e l’OLP palestinese. I due anni che intercorrono
dal 1970 e 1972 sono anni fatti di persuasione verso personaggi della galassia rivoluzionaria, di
viaggi, di elaborazioni, di nascondigli che Feltrinelli cerca per sé e per quella resistenza che voleva
mettere in campo. Nascondigli che Feltrinelli cerca per mettersi al riparo da possibili ritorsioni,
che personaggi interessati alla sua neutralizzazione sul piano politico possono ricercare; l’editore
pubblicherà tuttavia, nel gennaio del 1970, un articolo di suo pugno su “L’Espresso”, in cui si
esplicano tutti i timori sulla situazione italiana. Eccone alcune parti, tra le più interessanti:
“non posso condividere l’ottimismo circa le sorti della Repubblica Italiana. Credo infatti che gli avvenimenti di queste ultime
settimane rappresentino la fine delle illusioni democratiche. […] la fine di queste illusioni comporta anche il crollo definitivo dei
89 A. Grandi, Op, Cit, p.403 90 Ibidem, p.402
40
cosiddetti valori assoluti della democrazia, la quale rivela tutta la sua fragilità per non dire inconsistenza di fronte ad un preciso
disegno repressivo delle destre. E poco importa, agli effetti del giudizio sulla situazione di oggi e delle prospettive future, se le
destre, per compiere il loro disegno repressivo utilizzano mezzi eversivi, quale il colpo di stato, le provocazioni fasciste. […] era
prevedibile questa situazione, questa svolta? A mio avviso sì. Infatti se consideriamo le esigenze del capitalismo italiano ed
internazionale, se consideriamo le caratteristiche dello sviluppo dell’industria capitalistica italiana, sia privata che statale, tutto teso
nella ricerca del profitto, alla conquista di mercati stranieri, non meraviglia affatto che queste esigenze spinte all’estremo si siano
infine scontrate con le esigenze delle classi lavoratrici […] esigenze che sono sfociate tanto nelle grandiose lotte sindacali di
quest’autunno quanto nella formazione (come già avvenne nel ’21 con la scissione del partito socialista) di nuove organizzazioni
politiche. Lo scontro fra le esigenze del capitalismo e le esigenze delle classi lavoratrici era dunque prevedibile. Ed era anche
prevedibile che la Confindustria, che le forze più reazionarie italiane e straniere non attendessero, disarmate, questo scontro. […]
Non c’è alcuna speranza che la democrazia parlamentare, le istituzioni democratiche, la libertà, la democrazia assoluta a cui si
riferiscono alcuni, pochi idealisti (nella bocca dei più questi concetti sono distorti e strumentalizzati per nascondere il contenuto
sostanzialmente reazionario della nostra società alla stessa stregua in cui i colonnelli greci definiscono “rivoluzione” il loro colpo
di stato), non c’è speranza, dicevo, che le istituzioni di uno Stato democratico possano mantenersi al di sopra delle classi. […] non
mi dica, caro direttore, che ciò dipende dalle condizioni in cui oggi mi trovo: sottoposto ad una forma di linciaggio politico e
morale da parte della stampa che ad ogni costo ha cercato di associare il mio nome con le indagini sui provocatori attentati di
Milano e Roma.[…] in verità questi non sono che pretesti. Pretesti per colpire la mia attività editoriale, per colpire la casa editrice
Feltrinelli che per quindici anni ha seguito e svolto, mi sembra con dignità e onore, i grandi temi del socialismo, della libertà, della
lotta e della liberazione delle classi lavoratrici, in Italia e nel mondo. Senza drammatizzare e senza sopravvalutare il ruolo che in
questi anni ho svolto in Italia, credo che si possa dire che le persecuzioni che già colpiscono, oggi, insieme a me, migliaia di
giovani e di compagni altro non sono che il segno tangibile di quella svolta che le destre reazionarie vogliono imporre, con ogni
mezzo al paese. Abbiamo già avuto il nostro piccolo Reichstag! Poco importa per il gioco della reazione, che non sia stato tu,
compagno comunista o socialista, studente intellettuale o democratico, a deporre la bomba! Il 1969 segna, che si voglia o no, una
svolta nella storia del nostro Paese, della nostra società, dei rapporti fra le classi sociali.” 91
Ecco che Feltrinelli ci offre la possibilità di esaminare concretamente quella che è la visione della
società che lo porterà a praticare la lotta armata. A suo parere va tenuto conto della presenza di
un conflitto di classe, dovuto al capitalismo nazionale ed internazionale, che si ritrova in antitesi
rispetto alle esigenze della classe operaia, coinvolta in una situazione di forte rivendicazione, nel
1969. Ecco che a questo scontro la classe imprenditoriale non arriva impreparata, ma si avvale di
quei mezzi violenti atti a fermare il percorso di rivendicazione delle sinistre. E’ il fenomeno della
fascistizzazione dello stato che abbiamo notato anche nelle vicende guerrigliere dei gruppi
internazionali che abbiamo preso in esame nei capitoli precedenti. Laddove il capitale si sente
minacciato, provvede ad avvalersi di mezzi repressivi e richiamanti il fenomeno fascista. Un
richiamo che è ancora più forte in Europa, e i rimandi alla scissione del partito socialista prima e
all’incendio del Reichstag poi, vogliono ricordare quelli che sono dei fenomeni storici che
possono aiutare a comprendere meglio il cammino che l’Italia sta intraprendendo, con la bomba
del 1969 che diventa quindi, chiaramente, un mezzo simile a quello che i nazisti usarono nel
febbraio del 1933. Un altro aspetto importante è la mancata fiducia rispetto alle istituzioni
democratiche, che non sono più adatte a fronteggiare un pericolo, quello della reazione, che
incombe su tutti i cittadini e sulla stessa forma di governo della società. Ecco che di qui il passo è
breve, la democrazia (come per altro si era notato nei precedenti percorsi di avvicinamento
ideologico alla lotta armata) e i suoi mezzi non sono più adatti ad offrire una valida forma di
Resistenza all’incombente pericolo fascista. Di qui il crinale che avvicinerà Feltrinelli allo scontro
armato sarà sempre più inclinato verso una soluzione violenta al problema della reazione.
I contatti tra Feltrinelli e la banda XXII ottobre intanto, tramite Lazagna, diverranno sempre più
frequenti e compromettenti, compromettenti anche per il PCI, che si ritroverà a gestire la
pericolosa strada di rivendicazione armata che un suo ex importante sostenitore in ambito
culturale, Giangiacomo Feltrinelli, sta perseguendo; il PCI come abbiamo visto già da molto
tempo aveva abbandonato qualsiasi remota ipotesi di rivendicazione violenta o di presa del potere 91 A. Grandi, Op. Cit. articolo di Giangiacomo Feltrinelli, pp.429-431
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con metodi rivoluzionari, e la continua presenza di gruppi e intellettuali, alla sua sinistra, che
invece parevano indicare e percorrere questa strada, lo ponevano in una situazione di crisi
rispetto all’immagine che lui stesso voleva darsi: quella di una sinistra completamente ripulita
dall’uso della forza, e più in generale quella di un partito di governo, scevro da logiche di
rivendicazione armata. La banda XXII ottobre si inseriva in un contesto di osmosi tra estrema
sinistra e delinquenza comunque, il cui leader, Mario Rossi, era anch’esso un fuoriuscito dal PCI.
Durante una successiva perquisizione della sua casa saranno trovati opuscoli come “Il manuale
della guerriglia urbana” di Carlos Marighella, I “principi generali della guerra rivoluzionaria”, e “L’intervista
con un partigiano della brigata GAP Valentino Canossi”. 92
Proprio GAP, proprio il nome di quel gruppo partigiano noto per le gesta, tra gli altri, di
Giovanni Pesce, del quale Feltrinelli pubblicò anche un libro. Gap sarà il nome che Feltrinelli
sceglierà per il suo personale gruppo di fuoco, che vide la sua nascita nei primi mesi del 1970, e
che vedrà il coinvolgimento, diretto ed indiretto, di alcuni dei personaggi cardine dello sviluppo
della lotta armata in Italia, come Renato Curcio, Giorgio Semeria e Pierluigi Zuffada. Durante il
processo GAP-BR del 1979, vi è la lettura, da parte di alcuni imputati, di un proclama molto
importante, che aiuta a inquadrare il percorso di nascita e sviluppo di quei nuovi Gruppi di
Azione Partigiana:
“Le brigate GAP si formano nella primavera del 1970 e muovono i loro primi passi sul terreno della propaganda armata. La loro
iniziativa rompe con trent’anni di sistematico disarmo politico, ideologico e militare della classe operaia da parte del revisionismo.
La questione della possibilità e necessità storica della lotta armata nel nostro paese viene affrontata nella prassi, con ciò
dimostrando, che, anche in Italia, un paese a capitalismo avanzato, è possibile mutuare i rapporti di forza tra le classi avviando a
soluzione la contraddizione che oppone il proletariato alla borghesia.”
si nota anche come all’interno dei GAP esistano due principali direttrici:
[la prima riteneva] “come centrale la questione dell’antigolpismo. Per i compagni che la rappresentano, il nemico principale da
battere è quel blocco d’ordine che, in vario modo in quegli anni, manifestava intenti golpisti.” [una seconda, poi che affermava
che] “la contraddizione principale era con l’imperialismo amerikano e si proponeva una partecipazione sempre più ampia e intensa
alla guerra anti imperialista internazionale”
Curcio, Semeria e gli altri spiegheranno poi il ruolo avuto da Giangiacomo Feltrinelli:
“Il compagno Giangiacomo Feltrinelli, Osvaldo […] era certamente influenzato dalla sopravvivenza dei miti della Resistenza che
alcuni tra i suoi più stretti compagni riproponevano acriticamente: questo lo portava a cercare una sorta di continuità, a
considerare la guerriglia nascente come prosecuzione, la “seconda fase”, dopo trent’anni di interruzione, della guerra di liberazione
[…] la continuità con la resistenza va vista nella continuità che lega tutte le lotte del proletariato nel lungo processo storico della
sua liberazione” 93
Erano forti poi, come si può notare, In Feltrinelli e nei suoi GAP l’azione di analisi rispetto alla
guerra di liberazione cubana e agli insegnamenti di Che Guevara, e una loro applicazione in terra
italiana. Va fatto notare come, tra il 1970 e il 1971, Feltrinelli si adoperò in prima persona nella
costituzione di una rete metropolitana di appartamenti usati come covo. Anche nell’editore è
presente una azione di riesame storico, precisamente di quelli che sarebbero stati gli errori che il
PCI a guida togliattiana avrebbe commesso, nello svilire e nel depauperare la componente più
radicale del suo partito e favorendo, d’altra parte, lo sviluppo di logiche prettamente sistemiche e
inclinate verso la socialdemocrazia. Il suo era un cercare di riallacciare, come si può notare anche
92 A. Grandi, Op. Cit., p.434 93 Ibidem, discorso di Giorgio Semeria, pp.440-441
42
dalle dichiarazioni nel processo del ’79, i ponti tra una tradizione resistenziale passata e una sua
possibile riproposizione oggi, cercando di screditare tutte le scelte riformiste e antirivoluzionarie
compiute nei decenni di mezzo. Il tutto tenendo ben presente la forza e l’utilità strategica di quel
fronte di liberazione che si stava costituendo nel mondo, dal Vietnam all’Africa passando per
l’America Latina.
Questo tentativo di riallacciamento alla tradizione antifascista e partigiana si dimostra anche nella
lettera che Feltrinelli spedirà a Pietro Nenni. Eccone alcune parti salienti:
“Caro Nenni, quando sei o sette anni fa ci incontrammo l’ultima volta a Palazzo Chigi tu mi esponesti le tue gravi preoccupazioni
su una progressiva fascistizzazione, di una progressiva svolta a destra ad opera della destra della DC, del padronato italiano e delle
forze politiche che questi esprime. E mi dicesti che nel tentativo di fermare questa svolta a destra che per molti versi già allora
rassomigliava al ’21 e agli anni che lo seguirono, il PSI aveva deciso di uscire dalla sua opposizione per assumersi la responsabilità
di una partecipazione al governo con partiti che in sostanza non ti piacevano, unicamente nel tentativo, nella speranza di impedire
che a quarant’anni di distanza, ci si avviasse verso forme nuove ma sempre simili di fascismo. […] Ora, nel 1970, credo che sia
però doveroso fare un bilancio di questi anni. E se facciamo un bilancio dobbiamo constatare che il tentativo del PSI di fermare lo
slittamento a destra, di fermare la fascistizzazione del paese è fallito. Avevamo fino ad alcuni giorni fa un Governo, abbiamo
tuttora una polizia, vasti settori della magistratura che sono stati incapaci di individuare e colpire i veri responsabili della strage del
12 dicembre e del tentativo di colpo di stato attuato quel giorno. […] le forze e l’apparato dello stato sono apertamente complici
delle organizzazioni paramilitari fasciste e di destra che si addestrano e si organizzano e si armano militarmente con assoluta
impudenza. […] gli ambienti militari italiani , la polizia, i carabinieri dipendono ormai non più dal governo ma da centrali politico
militari di estrema destra spesso nemmeno italiane. […] la verità è che ogni tentativo di smascherare e rinviare la battaglia è
illusorio. La battaglia è già in corso, il nemico è già alle porte, anzi, con un piede nell’uscio. Dobbiamo lasciare che si mascheri da
centrosinistra, anche se a comandare sono le forze più reazionarie del padronato italiano, le forze più reazionarie dell’imperialismo
americano?[…] se è vero che i banditi fascisti, le forze più reazionarie del capitalismo italiano e americano hanno già un piede
dentro l’uscio allora bisogna allarmare tutti, anche se una effettiva resistenza all’inizio sarà difficile e una vittoria immediata
impossibile. 94
In questa lettera, destinata ad un personaggio dal carisma e dall’aura certamente forti all’interno
del panorama della sinistra italiana continua l’accorato appello di Feltrinelli per una sostanziale
presa d’atto della situazione politica italiana. Gli sforzi del riformismo sono ormai finiti, così
come la sua spinta propulsiva atta a frenare le rivendicazioni delle destre. Destre che al contrario
ora sono salite alla ribalta, e i cui progetti quasi squadristi si innestano in un panorama politico
che le vede piene protagoniste. Il ruolo di questo centrosinistra è ormai solamente quello di un
paradossale aiuto verso queste destre, contribuendo ad ammantare di una immagine di
progressismo un governo che invece, nel suo cuore, è totalmente reazionario e in mano a potenze
e interessi anche stranieri, e certamente a totale danno della classe operaia. L’unica strada è una
effettiva resistenza, una resistenza difficile e di lunga durata.
In questa azione politica e resistenziale di Feltrinelli si innestano personaggi appartenenti
all’ambiente di Potere Operaio, da Franco Piperno ad Oreste Scalzone, passando per un Toni
Negri che con l’editore avrà spesso un rapporto di mutuo soccorso, soccorso che Negri cercherà
spesso (e solamente) dal punto di vista economico, in vista di un futuribile supporto alle
infrastrutture illegali che agivano anche dietro Potere Operaio. Le azioni dei GAP hanno così
inizio, con la partecipazione di giovani provenienti dall’ambiente dell’autonomia operaia ma
anche dello stesso Feltrinelli, tramite attacchi dinamitardi contro personaggi e aziende che per
prime avevano avuto rapporti con l’estremismo di destra e con la reazione, oppure presso
imprese in cui si erano verificati incidenti sul lavoro; è il caso ad esempio degli attacchi contro i
cantieri edili nel milanese che i GAP metteranno a segno tra l’autunno del 1970 e la primavera del
94 A. Grandi, Op. Cit. pp.446-448
43
1971.95
In questi ambienti prosegue la stretta collaborazione con esponenti di Potere Operaio e anche
con le successive Brigate Rosse, con cui i legami iniziano non nel 1970 ma già dal 1968, con il
rapporto in particolar modo che legò Renato Curcio a Giangiacomo Feltrinelli; si ebbe modo, tra
i due, di discutere di attentati anti imperialisti, come quello che Curcio, assieme al compagno
Marco Pisetta, progettarono nel 1968 per far saltare in area un presidio militare americano sulla
Paganella, in risposta al conflitto americano in Vietnam. Attentato dal chiaro sapore anti
imperialista, che Feltrinelli volle approfondire assieme a quello che poi sarà il futuro leader delle
BR.
L’influenza di Feltrinelli sulle nascenti Brigate Rosse certamente ci fu; fu lui a regalare a Curcio,
ad esempio, un libro edito Feltrinelli proprio sui Tupamaros uruguaiani, nonché l’onnipresente
Manuale della guerriglia urbana di Carlos Marighella. Fu nelle cantine affittate dalle Brigate Rosse in
via Delfico 20 ad essere rinvenuto il passaporto originale dell’editore, e gli incontri tra Feltrinelli e
le BR si infittiscono ancor più a partire dal 1971, come avrà modo di rivelare Renato Curcio:
“Lo vedevo in genere insieme a Franceschini, ma talvolta da solo. Gli appuntamenti erano fissati nei giardinetti di Piazza Castello,
da dove ci spostavamo in uno dei suoi tanti appartamenti più o meno segreti.. Di ritorno da un viaggio da Cuba mi annunciò che
aveva incontrato vari rivoluzionari boliviani, uruguayani e brasiliani i quali lo avevano informato delle loro esperienze di guerriglia
urbana. Esperienze che lui era pronto a trasmetterci. E così ci tenne una serie di lezioni… Ci spiegò quali erano le tecniche per
falsificare i documenti, per affittare degli appartamenti senza destare sospetti, quali dovevano essere le caratteristiche di un buon
rifugio clandestino. Una volta ci regalò un paio di radio-trasmittenti che si era procurato in Germania e ci propose di fare delle
trasmissioni pirata sul tipo di quelle che stava organizzando con Radio Gap, a Genova, Trento e Milano.. Un’altra volta ci portò i
disegni e le specifiche tecniche per la costruzione di un bazooka che gli erano stati dati dai Tupamaros.” 96
Collegamenti tra GAP e BR che vi furono lungo tutto il percorso iniziale del gruppo armato
facente capo a Renato Curcio e Alberto Franceschini: anche nel caso della pubblicazione, nella
primavera del 1971, di “Nuova Resistenza” da parte delle BR, le sue pagine ospitarono i
comunicati proprio dei GAP. Vi fu anche una collaborazione operativa, sempre nel 1971, in un
atto di rappresaglia verso un esponente di destra, che a Quarto Oggiaro si vide incendiare la
propria auto. Feltrinelli sovvenzionò anche le due strutture operative occulte di potere operaio,
FARO (Forze Armate Rivoluzionarie Operaie) e Lavoro Illegale, nel tentativo di costituire una
chiara rete di lotta fattiva e militante alla degenerazione della situazione politica italiana. Strutture
illegali che beninteso Feltrinelli aiuterà anche a dotarsi di armi, contribuendo a far fare loro un
salto di qualità ( da servizio d’ordine a struttura adibita alla lotta armata ) che presto, più che
dall’effimera vita di queste due organizzazioni, sarà intrapreso solamente da alcuni suoi militanti,
come Valerio Morucci e Jaroslav Novack. Anche Piperno avrà, per Feltrinelli, un nome di
partigiano, “Saetta”, dal nome che alcuni partigiani avevano adottato durante la guerra di
liberazione del ’43-’45. Incontri tra Feltrinelli ed esponenti di Potere Operaio che continuano e si
allargano ad esponenti di Lotta Continua e anche delle Brigate Rosse, introdotti e garantiti da
Morucci, incontri in cui si parla del futuro della rivoluzione italiana e di militarizzazione dei
gruppi, e qui l’editore fa esplicito riferimento anche al ruolo che la guerriglia sudamericana e in
particolar modo i Tupamaros potevano avere come esempio per la suddetta militarizzazione,
nonché per la radicalizzazione della guerriglia metropolitana; Feltrinelli stesso fece chiaramente
capire di aver avuto rapporti con esponenti Tupamaros a Cuba.97
Un rapporto, quello con la guerriglia sudamericana, che accompagnerà l’editore di via Andegari
nel suo coinvolgimento nell’omicidio di Roberto Pereira Quintanilla, ex colonnello boliviano
coinvolto sia nell’arresto di Feltrinelli il Bolivia, sia nella morte di Che Guevara. Quintanilla verrà
ucciso ad Amburgo il 1° aprile 1971 da Monica Ertl, tedesca e figlia di genitori emigrati in Bolivia.
Il Movimento di Liberazione Nazionale boliviano si assumerà la responsabilità dell’omicidio,
tuttavia i legami con Feltrinelli appaiono, nelle indagini, subito abbastanza chiari; la Ertl è stata
più volte vista in compagnia dell’editore, così come una grossa somma di denaro era stata
consegnata proprio su incarico di Feltrinelli a uomini dell’ELN, il fronte di liberazione, somma
che sarebbe stata locata al sostenimento delle spese del viaggio della Ertl. Oltretutto le due armi
trovate in possesso della guerrigliera sarebbero state acquistate proprio da Feltrinelli, nel
Liechtenstein.Una conoscenza con esponenti del movimento boliviano che era stata fatta a Cuba,
e di cui certamente i dirigenti cubani erano pure a conoscenza, a corredo di un atto, quello
dell’omicidio Quintanilla, che fu la prima azione armata di un movimento rivoluzionario
Sudamericano in Europa.98
Ecco che Feltrinelli, da editore certamente impegnato nella divulgazione di opere dal chiaro tono
anti imperialista, antifascista e rivoluzionario, decide di impegnarsi in prima persona in quella
lotta, in quella Nuova Resistenza alla quale tenterà di richiamare numerosi esponenti dell’ambiente
operaio, comunista e socialista italiano. Un percorso soprattutto ideologico che lo porterà ad una
progressiva radicalizzazione del concetto di conflitto di classe e di rivendicazione, basandosi sui
testi di Mao Tse Tung, di Fidel Castro ma anche di Napoleone e persino di Von Clausewitz, in
uno scontro tra rivendicazione e reazione che appare oramai sostanzialmente una guerra, che per
essere vinta ha bisogno dell’allestimento di un esercito rivoluzionario.
Sarà proprio un ex partigiano, nome di battaglia Gunter, a rendicontare il finale di quella parabola
guerrigliera, ovvero la morte di Giangiacomo Feltrinelli sul traliccio 71 di Segrate.99 Un attentato
in cui le caratteristiche principali dell’ideologia feltrinelliana possono essere rintracciate fino alla
fine, il rapporto con un antifascismo e con gli echi della Resistenza che lo accompagneranno fino
alla morte, assieme alle tattiche di guerriglia, a quel blackout che voleva generare a Milano con
l’abbattimento di 4 tralicci. Un Feltrinelli che come abbiamo visto aveva partecipato anche ad
altre azioni dinamitarde, ma che questa volta voleva impegnarsi in prima persona nella
disposizione dei candelotti e dei timers, spinto anche dalla volontà di smarcarsi da quell’aura di
figlio della borghesia, di salottiero, di riccone dal quale ottenere soldi e di guerrigliero impotente che
mai l’aveva abbandonato. Ecco che allora si conclude, con l’esplosione su quel traliccio il 14
marzo del 1972, l’epopea di un personaggio simbolo, la figura che forse più di tutte ha saputo
portare in Italia l’esperienza dell’anti imperialismo e le lotte del Terzo Mondo tramite la sua
azione editoriale. Una azione, quella della casa di Via Andegari, che ad un certo punto a Feltrinelli
non bastò più a contrastare i pericoli di una società recepita come sull’orlo del baratro, in cui il
ritorno del fascismo si avvertiva minaccioso, ogni giorno di più. Una storia fatta di antifascismo,
di rivoluzione in primis anche verso la propria estrazione sociale, una storia di violenza come
nell’Italia di quel tempo ve ne sono molte, ma che più di altre è servita per parlare di quel
contesto internazionale di cui la lotta armata si è nutrita, avvalendosi anche di una tradizione,
quella resistenziale e partigiana, che proprio in Italia poteva offrire dei validi spunti di
riproposizione, e che Feltrinelli in prima persona ha cercato di adattare a nuove contingenze,
98 A. Grandi, Op. Cit. pp.476-477 99 Ibidem p.511
45
quelle dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta.
46
Capitolo 3: La guerra a casa, contestazione e radicalizzazione dello scontro in Italia
Abbiamo visto finora come, nel mondo che va delineandosi tra gli anni Sessanta e Settanta, molti
scenari stiano cambiando e come un deciso ricorso alla violenza, alla guerriglia e alla lotta sia
talvolta percepito come l’unico metodo per delegittimare l’imperialismo capitalista. Lotta per la
liberazione nazionale, contestazione della politica estera (specialmente quella a guida
statunitense), analisi del pensiero marxista e promozione della rivoluzione internazionale si
intersecano in vari gruppi ed ideologie, destinate ad arricchirsi l’una con l’altra e a pescare
richiami ideologici dalla storia dei paesi di nascita o dall’attività di gruppi contemporanei.
Abbiamo anche visto come, per quanto riguarda l’Italia, la casa editrice Feltrinelli e soprattutto il
suo fondatore rivestano un ruolo piuttosto importante nell’introiezione prima, e anche della
messa in pratica poi, di azioni e pratiche rivoluzionarie, coagulando attorno alla ricca attività
editoriale una serie di istanze provenienti da un mondo in rivolta, che Giangiacomo Feltrinelli (e
non solo lui, come vedremo) prenderà ad esempio per cercare di portare la guerra a casa, anche
nell’Italia degli anni Sessanta, della DC e della NATO. Analizzeremo ora come ciò avviene, quali
sono i percorsi ideologici che portano ad un discorso di giustificazione e, talvolta, di
perpetrazione della violenza politica nel nostro paese, qual è lo scenario entro cui si manifesta una
volontà rivoluzionaria, e cosa essa innesca nella galassia del movimento operaio e delle sue frange
più radicali, fino ai gruppi di fuoco violenti come le Brigate Rosse.
Sarà un percorso che coinvolgerà la situazione sociale, politica ed economica italiana
specificatamente degli anni Sessanta e Settanta, ma che ci permetterà di ampliare l’analisi a
fenomeni nati ben prima, fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dal periodo
Resistenziale, che come abbiamo precedentemente visto, ricoprono un ruolo spesso
fondamentale nei tentativi di giustificazione della lotta armata italiana nel sesto e nel settimo
decennio del Novecento. Un richiamo che è presente in particolar modo nella vicenda di
Feltrinelli, a titolo esemplare, ma che ricorre spessissimo nelle discussioni e nell’ideologia di molti
protagonisti della lotta armata italiana, sia per quanto riguarda gli echi mitici e fondanti della
Resistenza contro il fascismo, sia per quanto riguarda la Nuova Resistenza, quella da attuare negli
anni Sessanta e Settanta, contro il pericolo neofascista, contro uno stato percepito come nemico
da abbattere. Tenteremo inoltre di analizzare aspetti più ampi della cultura del tempo, partendo
anche dagli inni dei movimenti e dai richiami da essi evocati, dal cinema e dalla fiorente industria
cinematografica, da come cioè, nella società dei consumi, questi mezzi possano, da semplici
fenomeni di identificazione o intrattenimento, divenire megafoni, o cartine al tornasole, per
l’analisi di un discorso di lotta politica radicale.
Nel 1962 viene pubblicato in Italia I dannati della terra di Frantz Fanon, che giungerà alla quinta
edizione in dieci anni. Come abbiamo potuto notare, il testo ha affascinato numerosi gruppi
guerriglieri nel mondo, che dall’epopea della liberazione algerina hanno poi potuto mutuare lo
stesso linguaggio di lotta contro il colonizzatore. Un linguaggio che parla di una violenza inversa,
da usare contro quella perpetrata dal colonizzatore; un percorso di riappropriazione e
ricomposizione della propria umanità. In Italia nel 1967 esce anche l’autobiografia di Malcolm X
e iniziano i discorsi sul Black Power, escono le prime analisi sulle nascenti Black Panthers, sono
gli anni in cui il percorso rivendicativo di Martin Luther King si mescola alla grande questione del
Vietnam. L’eclatante gesto di Cassius Clay col suo rifiuto di prestare il servizio militare desta
scalpore in tutto il mondo occidentale, la questione nera viene percepita come una questione
interna, la questione interna di una colonia interna, stanca di subire essa stessa le prepotenze
47
dell’imperialismo statunitense. Il Vietnam diventa terreno di scontro e contestazione, sul quale si
formerà una intera generazione; la difficoltà militare dell’operazione non fa che aumentare il
malcontento e innescare proteste nei campus universitari, proteste che presto, con il ’68, si
sposteranno anche in Italia. E’ proprio un percorso internazionale che fa da base al 1968 italiano,
un percorso anch’esso d’importazione, sull’onda delle contestazioni americane e soprattutto
parigine, ma che va ad innestarsi su una situazione già tesa e precaria, prendendone le tipicità
nazionali e inserendole in una lotta di più ampio respiro.
Se gli anni del boom, infatti, avevano consegnato una Italia nuova, proiettata in un mercato di
tipo capitalista e consumista, negli anni Sessanta persistevano ancora grossi squilibri tra la
ricchezza nascente e la situazione sociale e di lavoro nelle fabbriche. Come analizzato anche da
Paolo Farneti, si assisteva, più in generale, ad un prepotente sviluppo economico ma anche ad un
progresso civile molto più lento, fatto di burocrazia, di ceti politici percepiti come artificiali, tesi
solo alla promulgazione ed al mantenimento di un modus vivendi fatto di autoritarismo e
reazione. La sproporzione tra arricchimento delle imprese e livello dei salari, le condizioni di
lavoro, gli orari, le discriminazioni e le assenze di diritti pesano, in una nascente società
metropolitana e industriale, come macigni in quello che viene considerato un momento storico
nel quale i guadagni spettano alle classi più abbienti, e i sacrifici al proletariato. Anche la
progressione gerarchica sul posto di lavoro, come ad esempio accade in FIAT, viene percepita
come un qualcosa riservato esclusivamente ad operai e impiegati fedeli ed obbedienti. Le catene
di montaggio sono spesso ingranaggi infernali, portatori di nevrosi, alienazione, problemi fisici e
malcontento. Si sviluppano patologie nuove, nevrosi e crisi isteriche. Anche la crisi occupazionale
che investe il Paese tra il 1964 e il 1965 mette a nudo il grande squilibrio tra i sacrifici imposti alla
classe lavoratrice dipendente e le sperequazioni del padronato, sempre più teso all’esportazione di
capitali e alla grande evasione fiscale. Lungo tutto il ’64 e il ’65 poi si sviluppano pratiche di
austerità aziendale, con licenziamenti, riduzioni di orario e mancati pagamenti. I sacrifici, quindi,
vengono imposti solamente ai lavoratori, in una situazione sempre più difficile, in cui la classe
politica al governo spesso si occupa solamente di difendere gli interessi della classe padronale, a
scapito di quella lavoratrice. E’ l’Italia in cui si lavora come americani e si mangia come cinesi, figlia del
boom e delle sue contraddizioni. L’incipiente disoccupazione nel meridione e la conseguente
emigrazione verso il nord, altro non fanno che aumentare le difficoltà (anche igenico-sanitarie ed
abitative) delle metropoli settentrionali, con il caso particolare di Torino.100
In questo scenario di crisi innestatosi nel difficile 1965 spesso le politiche di austerità e di
ricollocazione sono utilizzate in maniera strumentale per reprimere dalla radice il malcontento
operaio che può sfociare verso una radicalizzazione dello scontro. Le reazioni alla crisi infatti
sono analizzabili secondo due tipologie; da un parte una frazione anche consistente di operai e
forza lavoro che si adegua alla repressione padronale, cercando di evitare una radicalizzazione
che, secondo loro, andrebbe in primis a proprio scapito e a scapito del proprio posto di lavoro,
dall’altra la resistenza di chi a queste misure repressive e tese allo smantellamento della protesta
sociale, radicalizza lo scontro e chiede misure di supporto sindacale più forti, con una progressiva
presa di potere della classe operaia all’interno del sistema fabbrica e del sistema lavoro.
E’ in questa fase, e in contrasto a quest’ultima categoria di reazione, che inizia una aggressiva
politica padronale di attacco alle forme di solidarietà orizzontale e di lotta sindacale, spesso anche
cercando l’aiuto delle forze dell’ordine nella repressione delle manifestazioni: è il caso ad esempio
100 G. Crainz, Op. Cit. pp.20-36
48
dell’Alfa di Pomigliano, ove uno sciopero di solidarietà innescato dagli studenti vede il deciso
intervento delle forze dell’ordine, con ripetuti scontri.101
Una alleanza, possiamo chiamarla, quella tra il movimento studentesco e il movimento operaio,
che si farà sempre più forte e verrà sempre più ricercata specialmente sul finire degli anni
Sessanta, specificatamente tra il ’68, etichettabile come l’anno principe della contestazione
studentesca, e il ’69, l’anno dell’autunno caldo e della contestazione operaia. La radicalizzazione
dei conflitti sociali e dello scontro in queste due categorie, quella studentesca e quella operaia, si
esplicava in una aperta contestazione delle gerarchie e dell’autoritarismo esistente all’interno
dell’università e all’interno della fabbrica. Uno scontro sistemico radicale che porterà, in entrambi
i movimenti, alla messa in discussione non solo delle gerarchie e dei potentati che erano piena
espressione del ceto padronale, borghese e governativo, ma anche di quelle politiche
compromissorie e giudicate non sufficientemente radicali del sindacalismo ufficiale.
Si fanno sempre più strada, proprio nella seconda metà degli anni sessanta, ricerche di una
collaborazione dal basso, sia nelle scuole che nelle fabbriche, una critica all’autoritarismo tutto,
alle forme di potere, alla scuola come fucina di quadri e ruoli per una società considerata ingiusta.
Si comincia, proprio in questi anni, a levare il velo su quei settori della società italiana che più di
altri covavano dei mostri al loro interno. Comincia una nuova presa di coscienza anche, ad
esempio, della medicina del lavoro, delle condizioni di salute ed igiene nelle fabbriche, della
spesso spaventevole condizione dei brefotrofi e degli istituti di sanità mentale. Nasce un diverso
modo di approcciarsi alla malattia e alle sue cause sociali, nasce una critica alla parcellizzazione e
alla monetizzazione dell’infortunio sul lavoro, aumenta in generale il peso delle questioni sanitarie
all’interno delle rivendicazioni operaie. Questo anche grazie ad un ripensamento che arriva dalla
scuola, al suo approccio nei confronti del lavoro e delle sue dinamiche, approccio nuovo ed
innescato nelle dinamiche del 1968. Nell’Italia della fine degli anni Sessanta insomma vi è un
generale percorso di occupazione, intesa non solo come occupazione delle aule e degli istituti
universitari o delle fabbriche, ma occupazione di spazi anche metaforici, spazi sociali, spazi
d’azione che prima erano preclusi ad una fetta importante di popolazione italiana. Si inizia ad
entrare negli istituti psichiatrici, a entrare nelle fabbriche e ad analizzarne tutta la carica alienante,
a entrare nelle carceri per denunciarne le condizioni, ad entrare anche nelle dinamiche sindacali,
laddove queste non esprimevano una adeguata carica rivendicativa.
Una situazione, quella italiana, che si innesta in una temperie internazionale fatta di profonda
contestazione di tutti quegli assetti che, fino ad allora, avevano irreggimentato il mondo
consegnatoci dalla fine della seconda guerra mondiale. Una critica alla società capitalista avanzata,
il cui autoritarismo era da considerarsi parte integrante di un sistema di repressione; una lunga
marcia attraverso le istituzioni che in Italia verrà influenzata grandemente dalla situazione europea
ed extraeuropea, nei linguaggi, nell’azione e nelle rivendicazioni. Sono, tanto per limitarsi al caso
europeo, gli anni di Dutschke e dell’SDS tedesco.102
Certo che questa ondata di innovazione e contestazione non poteva svolgersi senza alterare e
senza intaccare equilibri politici preesistenti, che di tutto avrebbero fatto pur di mantenere lo
status quo. Proprio nel nodale 1965 ad esempio, le attenzioni dell’esercito vengono spostate da
una mera difesa dei confini orientali alla professionalizzazione degli aspetti di antiguerriglia. Vi è
un generale interesse alla repressione di quello che può divenire un nemico interno, nato dalla
101 G. Crainz, Op Cit. p.55 102 Ibidem, pp. 242-245
49
contestazione e dalla radicalizzazione dello scontro sociale. E’ in questi anni che inizia a essere
messa a punto una strategia di infiltrazione anche all’interno dei gruppi violenti. Nell’esercito e
nelle forze armate viene fatta serpeggiare sempre più la sensazione che non solo il paese, ma
anche le istituzioni e i reparti armati stessi stiano vivendo una invasione da parte di elementi
interessati alla destabilizzazione; va in questo senso ad esempio la pubblicazione, da parte di Pino
Rauti e Guido Giannettini, dell’opuscolo Le mani rosse sulle Forze Armate. La situazione di reazione
alle manifestazioni di piazza può essere letta, più in generale, analizzando la frammentazione che
colpisce il Movimento Sociale Italiano a destra, con la nascita di gruppi più radicali come Ordine
Nuovo e Avanguardia Nazionale; è importante parlare di questa frammentazione poiché il
leitmotiv degli anni della contestazione italiana sarà la collaborazione, indicata da più parti e
percepita come criminale, tra elementi deviati dello stato e militanti dell’estrema destra politica,
spesso provenienti da questi gruppi. E’ la cosiddetta strategia della tensione, che avrà il suo
culmine con la bomba di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Una collaborazione, quella tra elementi dello stato e personaggi o gruppi dell’estrema destra, che
da semplice sospetto si fa via via un elemento di profonda certezza negli animi di chi la
contestazione la vive da sinistra. Abbiamo visto come in Giangiacomo Feltrinelli fosse sentito il
pericolo di un golpe alle istituzioni, e questa paura inizia ad infittirsi man mano che lo scontro
sociale diventa più forte. Una contrapposizione che in Italia, in particolar modo, si innesta in un
paese che da poco ha vissuto l’esperienza resistenziale, e che vive, da paese di frontiera, le
tensioni verso i paesi socialisti.
E’ altrettanto forte infatti, nella società italiana, anche la paura del comunismo e del sovietismo,
paura rinfocolata da importanti settori della società, dalla chiesa fino a quello dei mass media,
settori che impediscono spesso anche il dialogo tra le forze politiche; è utile in tal senso rileggere
un articolo, del “Corriere della Sera”, a commento della Resistenza antifascista:
“Ancora oggi la libertà e la democrazia sono gravemente minacciate dal comunismo […]. Assistiamo, e questa è l’attualità più
scottante, a un nuovo e più violento attacco del PCI allo stato e alla società […]. L’attacco si manifesta anche mediante l’insidia del
dialogo, allo scopo di irretire certi cattolici ingenui o in malafede […] il governo si rende conto della gravità e della pericolosità
dell’attacco comunista?”103
Contrapposizioni di questo tipo costituivano l’asse portante della politica italiana, un
anticomunismo viscerale che proprio il Sessantotto e il Sessantanove contesteranno, assieme ai
timidi tentativi riformistici del centrosinistra moroteo, il cui fallimento è anch’esso una concausa
dell’aggravarsi della situazione sociale.
I) Rumore di sciabole, tra golpe e Nuova Resistenza
Sono proprio le voci di golpe, il pericolo di una deriva politica autoritaria e la nascente strategia
della tensione ad innalzare, in Italia, il livello dello scontro. Timore di un golpe che nasce dagli
sviluppi internazionali. Oltre ai fatiscenti regimi di Salazar in Portogallo e Franco in Spagna, vi
sono nuovi timori, innescatisi dal golpe dei colonnelli in Grecia del 1967 e, successivamente, dalla
grande eco del golpe di Augusto Pinochet in Cile, ai danni del governo di Salvador Allende. E’
una situazione che pone l’Italia quasi in una situazione di accerchiamento, e le crescenti voci su
manovre militari di apparati delle forze armate, l’oscuro legame tra eversione nera e apparati
deviati dello stato, i durissimi scontri di piazza del ’68 e del ’69 e la bomba di Piazza Fontana
fanno precipitare il paese e la sinistra in uno stato di forte agitazione. Per quanto riguarda la
103 G. Crainz, Op. Cit. pp.102- 103
50
strage del 12 dicembre, non sarà solo il mero attentato a preoccupare, bensì le pieghe che le
indagini sulla vicenda da subito prenderanno. Abbiamo notato come Giangiacomo Feltrinelli si
sentisse perseguitato dalla giustizia all’indomani dell’attentato, convinto che un disegno fosse
stato ordito per incastrarlo; ebbene la situazione si può trasporre su più larga scala, nel senso che
la piega delle indagini, con l’immediata scelta di puntare il dito sulla pista anarchica o dell’estrema
sinistra, i casi Valpreda e Pinelli, fanno fin da subito pensare che un disegno per colpire le sinistre
sia in atto, una sorta di segnale d’allerta per le piazze in subbuglio; un disegno pienamente
rientrante nella strategia della tensione.
E’ interessante notare, mutuando dalle esperienze del ’68, come questi avvenimenti e questa
tensione favoriscano reazioni tra loro differenti; il grave pericolo di una svolta autoritaria favorirà,
nei gruppi più radicali della galassia del movimento operaio, una riscoperta della tradizione
resistenziale come periodo di lotta contro il fascismo e il gollismo; una lotta da compiersi nei
confronti di un autoritarismo che è figlio legittimo di uno stato capitalista, che vuole difendersi e
mantenere l’ordine dopo le insubordinazioni del Sessantotto e del Sessantanove. La lotta contro il
gollismo in particolare è intesa come la lotta nei confronti di una possibile svolta reazionaria della
Repubblica Italiana, una svolta conservatrice capace di nuocere in profondità gli interessi e il
percorso rivendicativo della classe operaia italiana. Leggiamo in tal senso una testimonianza
ripresa dalla rivista “Nuova Società”:
“Gli uomini dell'apparato comunista dormivano fuori casa in attesa dell'evento che un segnale venuto da lontano dava per
imminente. I padri hanno smesso di dormire fuori per il colpo di Stato, pressappoco dopo i fatti del Cile, all'epoca del rifiuto della
logica del 51% e della comparsa del compromesso si sono sentiti il golpe ancora più addosso, hanno continuato il rito […] sino a
quando qualcuno ha cominciato a pensare che se il colpo di Stato - imminente secondo l'analisi politica - in effetti non arrivava,
forse si poteva favorirlo: il peggio avrebbe riacceso nel cuore degli uomini della Resistenza la fiamma che la nuova politica non
faceva più ardere.” 104
Testimonianza interessante e singolare, questa, che può dare un’idea non solo della situazione
vissuta anche in Italia nel 1973, ma anche delle diverse interpretazioni e dei diversi auspici dei
militanti comunisti; la Resistenza diventa il bagaglio culturale primo nel recupero di una
dimensione antifascista, in cui lo scontro talvolta, come in questo caso, può diventare addirittura
augurabile.
Vedremo più avanti come la nascita anche delle Brigate Rosse, ma più in generale la crescita dei
movimenti di sinistra radicale avvenga in una temperie fatta di antifascismo militante e lotta
all’autoritarismo, al pericolo cioè di una svolta neofascista nello scacchiere istituzionale italiano.
E’ pure rintracciabile, in questa fase storica, l’ambiguità di un partito, quello comunista, che da
grande padre delle istanze di equità sociale e da megafono della classe proletaria, si troverà spesso in
imbarazzo nel gestire da un lato gli sviluppi internazionali, e dall’altro le continue voci di dissenso
al suo interno e nella galassia movimentista che gli ruota attorno. Il distacco dall’ortodossia delle
Botteghe Oscure del gruppo de “Il Manifesto”, della Rossanda e di Pintor tra gli altri, è solo la
spia di un malessere diffuso, di una trasposizione politica di quell’autogoverno dal basso, di
quell’autonomia decisionale e di distacco dalla sclerosi burocratica mutuata dagli anni della
contestazione. Resterà un album di famiglia, fatto però di scelte e percorsi molto diversi, in un
cammino, quello del PCI, sempre più teso alla legittimazione come forza di governo pronta a
farsi carico della gestione delle istituzioni italiane, in un percorso di progressivo distaccamento da
alcune istanze che potevano risultare più radicali. Può essere in tal senso letto, ad esempio, il
104 G. Galli, Op. Cit. pp.98-99
51
contraddittorio atteggiamento del Partito Comunista nell’analizzare i fatti cileni.
La lotta tra autoritarismo statale e violenza di piazza dei manifestanti, tuttavia, si forgia
soprattutto negli anni Sessanta. E’ in questo periodo che si fa forte la contrapposizione tra una
democrazia parlamentare vista solamente come maschera di uno stato parafascista, e una violenza
radicale proletaria e studentesca giustificata come mera difesa della propria libertà individuale,
seguendo il modello che abbiamo visto anche nelle altre esperienze estere. E’ anche il modello
scelto dallo Stato, una risposta prettamente militare e delegittimante, tesa non al dialogo bensì alla
repressione, a portare alla luce paragoni ideologici che metteranno sullo stesso piano la situazione
italica rispetto a quella vissuta, ad esempio, negli ultimi anni della Spagna franchista.105
Nei primi anni Settanta, con l’inasprirsi dello scontro sociale e della strategia della tensione, anche
l’atteggiamento del PCI si fa più attento ai possibili risvolti antidemocratici nazionali e
internazionali; dalla recrudescenza delle stragi tra ’73 e ’74 (attentati all’Italicus e la bomba di
Brescia)al golpe di Pinochet in Cile,fino alla scoperta del tentativo di colpo di stato da parte di
Junio Valerio Borghese, o delle trame del golpe bianco di Edgardo Sogno, emerge la
preoccupazione del segretario Berlinguer. Documentazioni e voci fondate arrivano sempre più
numerose ai vertici del partito, e anche all’interno dei quadri dirigenziali dello stesso inizia a porsi
con forza la questione di una possibile reazione ad una deriva autoritaria.
Il golpe cileno del 1973 in particolare pone moltissimi interrogativi alla direzione di Botteghe
Oscure, e il segretario, proprio in questa occasione, confermerà la scelta del partito di porsi come
interlocutore tra le tre grandi anime del paese, quella cattolica, quella laica e quella comunista. Sua
è anche una esplicita critica al comportamento del Partito Comunista Cileno, che a suo dire non
ha coinvolto a sufficienza i ceti medi e non ha fatta sua una forma di collaborazione con la “DC
cilena”.106 Nonostante ciò, anche tra i comunisti italiani, specie nella fazione di sinistra del partito,
emergono linee critiche e più dure, come quella di Ingrao. Si teme soprattutto che la via democratica
verso il socialismo, intrapresa dal PCI fin dalla fine della Resistenza, possa essere scambiata per
una rinunzia alla difesa; la prospettiva di uno scontro con le forze armate e con la reazione
violenta dello stato va insomma affrontata con decisione, non evitata, fingendo che il problema
non ci sia.
Il salto di qualità tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta sta sostanzialmente in questo;
la violenza neofascista e la violenza della repressione statale, le voci di golpe, la repressione nelle
piazze si fanno sempre più forti, e la reazione dei gruppi armati di sinistra inizia a farsi più forte.
Nel 1972 ricordiamo la morte di Giangiacomo Feltrinelli, e del 1972 è anche la morte del
Commissario Calabresi, al quale non viene perdonato il presunto coinvolgimento nella morte di
Pietro Pinelli, nel corso delle indagini su Piazza Fontana. La tensione sale alle stelle, e con essa
nascono percorsi di giustificazione della violenza che inizia a nascere a sinistra. Una violenza
difensiva, interpretata come risposta ad un attacco, una Nuova Resistenza che nei richiami
ideologici, nei nomi e talvolta nelle pratiche ama ricorrere ai miti fondanti della Resistenza
partigiana, alla Vecchia Resistenza. E’ utile in tal senso ricordare anche il clima in cui si svolsero più
tardi, nel 1975 a Torino, i funerali di Tonino Miccichè, militante di Lotta Continua ucciso con un
colpo di pistola in fronte dopo l’occupazione delle case popolari a Falchera; l’intervento fu di
Guido Quazza, presidente del comitato unitario antifascista, che davanti a una folla numerosa e
alle bandiere partigiane esposte a lutto, si espresse con queste parole:
105 G. Crainz, Op. Cit. p.264 106 Ibidem, p.451
52
“Quando, venendo dalla tua terra siciliana, ti rendesti conto che la lotta di liberazione non era finita il 25 aprile 1945, anzi, era
appena cominciata.. la realtà torinese ti mostrò subito che la vecchia Resistenza chiedeva una nuova Resistenza, e che non era
questione di vecchi o di giovani, di italiani del Sud o del Nord, ma di una lotta sola, la lotta dei proletari contro il capitalismo, la
lotta dei proletari contro la sua arma estrema, il fascismo”107
La stessa nascita del Collettivo Politico Metropolitano, embrione nella nascita delle Brigate Rosse,
si rifà e si innesta nella grande situazione di tensione causata dall’attentato di Piazza Fontana:
“siamo di fronte ad una guerra civile latente”, vi si legge; e la sensazione che inizia a serpeggiare è
questa, ovvero quella di una chiusura degli spazi democratici che tra la fine degli anni Sessanta e
l’inizio dei Settanta si fa sempre più forte, e una risposta, da parte della sinistra radicale, che si
esplica in una grande ripresa della tradizione antifascista, anche con una lotta sempre più accesa
nei confronti del Movimento Sociale Italiano. Le aggressioni fasciste sono argomento di dibattito
anche tra numerosi e importanti esponenti del Partito Comunista Italiano; sarà Terracini nel 1971
ad evocare un significativo parallelismo con il 1920-1921, con il suo “mettere a posto i fascisti
luogo per luogo”, e pure Longo si esprimerà in maniera piuttosto netta:
“Nei confronti delle aggressioni fasciste […] dobbiamo creare le condizioni per reagire con iniziative adeguate del tipo di quelle
della Resistenza in forme nuove che servono talora più del solito sciopero”108
Importante anche il discorso di Amendola, in occasione della IV conferenza operaia nazionale del
partito comunista:
“Quando è venuto il momento della lotta armata, della guerriglia, del terrorismo, ebbene noi abbiamo saputo fare il nostro dovere
e questo resta nella storia del nostro paese. […] Noi abbiamo la fortuna di avere come segretario generale del nostro partito il
compagno Luigi Longo, Comandante delle brigate internazionali di Spagna e Comandante delle forze partigiane in Italia. […]
Quello che avviene nel mondo ci dimostra che quell’arte può tornare sempre utile.”
E ancora:
“Ecco la linea che noi seguiamo, una linea di avanzata democratica al socialismo, sulla base delle conquiste realizzate dalla
Resistenza. Non è una via che sia stata scelta da degli imbelli, non è una via necessariamente pacifica. E’ una via che utilizza la
Costituzione come arma conquistata dal popolo, ma nella quale si avanza tenendo gli occhi bene aperti, perché sappiamo che
davanti a noi c’è un nemico che se potesse ricorrerebbe ad altre armi, e se non ci ricorre è perché non osa, e fa bene a non osare di
fronte alla nostra capacità”109
La cultura politica della Resistenza viene rinfocolata anche per colpa dei fallimenti del
centrosinistra governativo e dell’impianto generale dei codici in vigore; la critica allo sterile
riformismo dei governi di coalizione, tuttavia, diventa propria anche di quei partiti che l’avevano
vissuta, e dei personaggi che l’avevano promossa; possiamo leggere in tal senso la testimonianza
di Gaetano Arfe’:
“Crediamo che la contestazione sia stata essenzialmente protesta contro un riformismo povero di tensione ideale e di capacità
realizzatrici; contro la degradazione a strumento propagandistico del grande mito della Rivoluzione d'ottobre”110
Si può quindi introdurre anche l’analisi un tradimento percepito, da parte di alcune frange
dell’elettorato, verso uno dei miti fondanti dell’ideologia socialista e comunista, ovvero quello
della rivoluzione d’ottobre, ridotta e accantonata oggi in un sistema politico che vede un
107 G. De Luna, Le ragioni di un decennio, Milano, Feltrinelli, 2009 p.16 108 G. Crainz, Op. Cit. p.392 109 S. Neri Serneri, Op. Cit. pp.118-119 110 G. Galli, Op. Cit. p.96
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centrosinistra di compromesso, schiacciato su posizioni attendiste e non confacenti l’interesse di
parte di quella classe operaia che, fiduciosa, aveva riposto le proprie speranze nei partiti della
sinistra parlamentare.
Specialmente in materia di ordine pubblico e di legislazione del lavoro, anzi, in Italia si perpetua
una pesante eredità della legislazione fascista; ambiti, questi, in cui più pressante era l’azione delle
sinistre, e contro cui si scontrava la lotta delle forze progressiste.
La sinistra parlamentare perfeziona tuttavia, in questo frangente, un percorso di distacco dalle
forze più estremistiche e violente, un distacco che causerà profonde lacerazioni in seno al
movimento operaio e ai suoi obiettivi. In questo senso si inizia a parlare di “fanfascismo”, si fa
emergere una teoria di “continuità dello stato”, cioè tra le istituzioni fasciste e quelle
democratiche, alla quale risponde un’altra continuità: quella tra la lotta di liberazione del ’43 – ’45
e la lotta politica degli anni Sessanta e Settanta.111 Sarà proprio lo storico Guido Quazza a farsi
interprete di questo nesso tra la Resistenza partigiana e le nuove ondate di contestazione del ’68 e
del ’69. Tuttavia il ’68, anno degli studenti e delle loro proteste, vedrà nascere anche forme di
interpretazione in senso opposto; forme di respingimento di una eredità, quella della Liberazione,
considerata spesso come un orpello del passato e non più attuale; la Resistenza avrà maggior
fascino, invece, nel movimento operaio del 1969; in particolare anche qui l’evento di Piazza
Fontana ricoprirà un ruolo essenziale nel rinfocolare un antifascismo che, soprattutto tra le
giovani generazioni, era spesso recepito come ambito riduttivo. Un ambito funzionale, secondo
molti attivisti, a incanalare la protesta verso meri obiettivi di difesa dell’ordine costituito.
L’attentato del 12 dicembre invece farà venire alla luce la pericolosità di trame e legami
considerati di stampo reazionario;112 ecco che la Resistenza diventa un momento di iniziativa e
lotta popolare da riscoprire, in antitesi al fascismo e alla percezione di esso che si vive nello
scontro con le istituzioni. Non solo la Resistenza del ’43-’45, ma anche quella di eventi più
recenti, ad esempio l’eredità degli avvenimenti del Luglio 1960. Nella Reggio Emilia e nella
Genova in cui gli scontri di quel luglio furono più intensi, la memoria delle violenze rimarrà forte,
e verrà rimarcata da alcuni ex brigatisti fuoriusciti dal PCI. La storia di Pierino Morlacchi, ad
esempio, è utile per ricostruire quel filo che, in un quartiere come il Giambellino di Milano, parte
dalla Resistenza e si snoda nel difficile rapporto con le istituzioni e l’istituzione PCI.113
Se il 1968 è stato l’anno dell’introiezione della guerriglia internazionale, dei messaggi di Marthin
Luther King e Cassius Clay, della contestazione al Vietnam, ecco che con l’inizio degli anni
Settanta si subirà una sempre maggior introiezione dell’antifascismo militante e di quelli che sono
i suoi miti fondanti, inevitabilmente ripescati dall’epopea della Liberazione italiana; Nuto Revelli,
Guido Quazza, Primo Levi, altri vecchi combattenti partigiani si uniscono alla lotta dei giovani
del ’68, dimostrando che il loro peso è tutt’altro che inattuale, e la loro capacità di lotta ancora
utile; proprio dal Comitato Antifascista di Torino ci viene il documento costitutivo che più di
tutti aiuta ad interpretare questa commistione tra protesta giovanile ed eredità partigiana:
“I vecchi partigiani chiamano i giovani che militano nella lotta contro il privilegio di classe a costruire una vasta e capillare rete di
contatti che sia pronta a rintuzzare con gli attacchi del fascismo di Almirante, anche i soprusi del fascismo di Stato. Nella città di
Parma, che nel 1922 insorse contro le squadre fasciste e le cacciò, e che nel 1972 è scesa in piazza unanime dopo l’assassinio di
Mario Lupo, i dimostranti assalirono la sede del MSI in via Maestri: bandiere nere, ritratti del Duce, gagliardetti, tutto
l’armamentario fascista asportato durante l’assalto fu portato davanti all’ex dimora di Guido Picelli, nell’Oltretorrente, in un ideale
111 G. De Luna, Op. Cit. p.16 112 Ibidem, p.81-82 113 S. Neri Serneri, Op. Cit. pp.73-75
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di continuità con la Resistenza, sottolineata dall’oratore del comizio, il comandante partigiano delle “Formazioni Garibaldi” Gino
Vermicelli”114
Il terreno di lotta democratica resta tuttavia l’ambito largamente preferito dai militanti della
sinistra; ma dato che le conquiste democratiche innescano la reazione dello Stato, che può servirsi
e, secondo i protagonisti della contestazione, si serve di manovalanza fascista per impedire le
conquiste sociali, ecco che bisogna essere pronti a saper difendere ciò che faticosamente è stato
ottenuto.
Rivoluzioni mancate, e Resistenza tradita; questa cultura viene mescolata ai grandi stimoli
provenienti dalla Rivoluzione maoista o da quella cubana, dalle lotte di liberazione e dall’anti
imperialismo, fino alla situazione nel Vietnam, si capisce come lo scontro con uno stato
considerato come autoritario, da metaforico possa divenire sempre più reale, e anche il concetto
di violenza politica possa prendere corpo in un contesto giustificativo. 115 E’ proprio nello scontro
con l’apparato repressivo dello stato da un lato e la presenza neofascista nello scenario politico
dall’altro a lanciare il percorso di maturazione di una radicalizzazione dello scontro; i morti negli
scontri di piazza non di rado vengono assimilati ai martiri della Resistenza, e tra i cortei in
qualche caso inizia già a serpeggiare una dimestichezza con lo scontro e anche con le armi. E’
proprio il carattere di guerra civile al quale si rifà il Collettivo Politico Metropolitano nel suo
comunicato, una guerra latente in cui, come abbiamo notato nelle altre esperienze, mito e
tradizione storica nazionale si innestano sul presente della situazione internazionale.
Dall’altro lato, un apparato repressivo dello stato che anche seguendo gli scritti di Isabelle
Sommier diventa la causa prima dell’eccezionale forza con la quale lo scontro sociale si presenta,
e si presenterà, in Italia; la bomba di Piazza Fontana stessa, come già detto, viene percepita come
un attacco diretto alla possibilità di rivendicazione sociale, una chiusura di spazi assolutamente
forte, che sarà alla base dei percorsi di lotta armata che da qui si perfezioneranno:
On peut dire qu’en se plaçant sur le strict terrain de l’ordre public (répression et utilisation de la violence d’extreme droite) les
réponses gouvernementales au movement de conte station ont précipité la formation d’une génerération politique qui, exposée à
l’événement générateur symbolisé par l’attentat de Piazza Fontana, développe un ensemble d’attitudes et de comportements en
rupture radicale avec l’ordre politique.116
Parlando francese, c’è da dire che nel 1972 anche nel paese transalpino l’omicidio di Pierre
Overney, militante della Gauche Proletarienne, viene visto con estrema preoccupazione; l’evento
porterà allo scioglimento di GP e alla fondazione di Nouvelle Resistance Populaire; tuttavia il
discrimine che impedisce ad altre situazioni europee, come questa, di sviluppare il percorso di
forte violenza armata che si esplicherà in Italia, è proprio la presenza, in Italia, di attentati e
bombe che verranno percepiti come la risposta dello stato al pericolo di uno slittamento a sinistra
del paese.
II) La giustificazione della violenza
Il percorso di radicalizzazione dello scontro lungo la prima metà degli anni Settanta si fa evidente
in una logica di risposta, da sinistra, anche alle violenze perpetrate dalla fazione di destra, o
neofascista, a lei avversa. E’ in questi anni che avvengono, in uno scenario quasi di botta e
risposta violenta quotidiano, gli omicidi dei fratelli Mattei a Primavalle, o l’uccisione di Sergio
114 G. De Luna, Op. Cit. pp.88-89 115 S. Neri Serneri, Op. Cit pp.27-29 116 Ibidem, pp.115-116
55
Ramelli, seguita nel 1975 da quelle di Mantakas e Zicchieri. D’altro canto anche il primo omicidio
delle BR può essere ricondotto nell’alveo dell’antifascismo militante e di un attacco ai danni dei
partiti e delle forze politiche di estrema destra: nel giugno del 1974 a Padova le Brigate Rosse
uccidono due militanti dell’MSI, come avremo modo di analizzare anche più avanti.117
La violenza nei cortei già si stava accompagnando, nel crescendo di tensioni dell’inizio degli anni
Settanta, alla nascita di “doppi livelli” nei gruppi rivoluzionari, come Potere Operaio; all’attività
politica legale se ne affiancava una illegale, volta ad una violenza armata più precisa ed efficace,
come abbiamo visto nel caso dei FARO, che presero contatti con col circuito dei GAP di
Feltrinelli. E se proprio questi ultimi avevano una decisa direzione antifascista e antigolpista,
mutuata anche dalla terminologia strettamente richiamante il mondo della Resistenza partigiana,
le Brigate Rosse si espressero nell’intento di iniziare una guerriglia di lunga durata, da radicarsi
attraverso la propaganda armata nelle fabbriche. Da un intento difensivo, quindi, il salto
successivo è quello di una dinamica di contrattacco. Il problema dell’organizzazione della
violenza del resto è intrinseco a tutta l’area della sinistra radicale, se pensiamo che “Potere
Operaio” nel 1971 pubblicò due documenti sul tema, uno a firma dei GAP e uno a firma Brigate
Rosse. Una organizzazione della violenza che parte da una reazione nei confronti del fascismo, e
che permetterà alla violenza della sinistra radicale di esprimere tutto il suo peso nella seconda
metà degli anni Settanta, con le azioni più eclatanti e mortali. Nel discorso della giustificazione e
dell’organizzazione della violenza tuttavia, le eredità degli avvenimenti internazionali e delle
esperienze di guerriglia mutuate da altri paesi sono ben presenti.118
Una differenza nell’azione violenta e nella sua accettazione e accezione è evidente anche per
quello che avviene in gruppi come Potere Operaio, nei confronti delle nascenti Brigate Rosse; il
concetto di avanguardia, ad esempio, di PotOp e Lotta Continua, non va nella dimensione di una
integrale accettazione della lotta armata in clandestinità, che sarà fatta invece dalle Brigate Rosse,
sulla scia dei movimenti dell’America Latina come i Tupamaros. L’opportunità stessa della scelta
della lotta armata in Italia è fonte di dibattito e di visioni molto diverse tra loro. Tuttavia
possiamo dire che l’insorgenza stessa di un dibattito sull’uso della violenza in una situazione di
forte tensione sociale, può aver contribuito all’insorgere di forme di disponibilità all’azione in
alcuni casi, e di mancata dissociazione aprioristica in altri. La reazione di Lotta Continua nei
confronti dell’uccisione di Oberdan Sallustro in Argentina, ad esempio, non dimostra solo la
sensibilità degli organi di informazione dell’estrema sinistra su quel che accadeva nel mondo della
sinistra internazionale, bensì anche una certa disposizione a non rifiutare il discorso sulla violenza
come un qualcosa da accantonare senza dubbi.
Lotta Continua e Potere Operaio tuttavia conserveranno al loro interno elementi che
impediranno, ai due gruppi, di formarsi nell’alveo di una piena e pratica adesione a percorsi di
lotta armata. Lotta Continua cresce come movimento di massa, raccogliendo posizioni
ideologiche molto diverse tra loro, alcune largamente contrarie all’uso della violenza; Potere
Operaio, organizzazione più piccola e ideologicamente più omogenea, non ebbe maggior fortuna
nell’avvicinamento ad un percorso di violenza politica; realtà molto importanti, come quella di
Marghera ad esempio, si tennero sempre molto lontane da una linea di militarizzazione dello
scontro, e il FARO, struttura segreta clandestina del gruppo, non ebbe mai l’attenzione generale,
e le sue azioni di lotta armata erano certamente di secondo piano. E’ grande la difficoltà, in questi
117 S. Neri Serneri, Op. Cit. p.48 118 Ibidem, p.127 e nota 17
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gruppi, di conciliare la dimensione politica ufficiale e di massa con un discorso di militarizzazione
e clandestinità che alla fine verrà abortito.
III) Il ruolo delle riviste e dell’azione nelle fabbriche
Il fallimento elettorale di Lotta Continua e le lacerazioni in Potere Operaio, unite alla grande
dispersione ideologica interna ai movimenti, favorirono tuttavia un frazionamento che permisero
la nascita o lo sviluppo di nuovi gruppi e organi di propaganda, come ad esempio i “Quaderni
Piacentini”, “Rosso”, “Linea di Condotta”, “Controinformazione”, “Ombre Rosse” e “Senza
Tregua”; giornali dell’autonomia operaia, agenti a Milano, Varese, nel Veneto, in realtà di fabbrica
dell’Italia del nord. “Senza Tregua” in particolare, innestandosi nell’alveo della coesistenza tra
azione politica di massa e esercizio della forza da parte di avanguardie di fabbrica, realizzò alcune
azioni armate tra il 1975 e il 1976; il ferimento di Paolo Fossat allo stabilimento FIAT di Rivalta,
o quello di Heinrich Dietrich Herker, allo stabilimento Philco-Bosch di Brembate. Queste azioni
sono campagne di attacco massiccio verso quadri di dirigenza aziendale, svolti in situazioni ove
già esisteva una significativa presenza di avanguardie operaie e in fabbriche dove la situazione era
esacerbata da dure lotte sindacali. In queste azioni si nota l’intento di forzare la mano,
boicottando gli scioperi e le manifestazioni del sindacato ufficiale. Portare il fuoco in fabbrica è uno
degli slogan di Senza Tregua, assieme a Guerra di classe per il comunismo, o Costruire il potere armato
della classe operaia. A Rivalta in particolare, durante gli scioperi, si crea un embrione di tribunale
operaio di corteo, davanti ai cancelli si sceglie chi può entrare in fabbrica e chi no, si istituisce un
comitato operaio. Uno scontro frontale con le dinamiche aziendali in totale autonomia rispetto
all’ortodossia sindacale ufficiale.119
Nelle divulgazioni di queste riviste la critica è forte, infatti, anche nei confronti degli organismi
rappresentativi della sinistra ufficiale. Capita così che in “Rosso” si possa leggere un duro attacco
al sindacato italiano, giudicato come pieno di compromessi, immobile e cedevole; il PCI viene
accusato di ammiccare al capitalismo e di attaccare qualsiasi nucleo di Resistenza ancora presente
in Italia. Una Autonomia operaia che quindi si esplica con dure critiche alla sinistra ufficiale e
parlamentare e giustificazione della lotta armata, e anche attraverso l’uso della violenza.
L’onda lunga del Sessantotto infatti porta ad una ridiscussione delle gerarchie anche all’interno
della sinistra, del sindacato e del movimento operaio. E coesiste anche in questi gruppi, nella
tradizione antifascista che abbiamo analizzato prima, un discorso sulla violenza inteso come
pratica di autodifesa, di prevenzione di derive autoritarie e neogolliste, come si può leggere da
“Controinformazione”:
“Fino a due mesi fa, tentare un’analisi della situazione politica italiana significava trovarsi di fronte a uno sviluppo di tendenze […]
passibili di aprirsi a due soluzioni di massima: da un lato quella dei fautori ad oltranza del compromesso storico, come ultima
spiaggia del capitalismo, dall’altro quella dei sostenitori della svolta autoritaria […]
Agli antipodi le stragi - senz’altro conosciute e forse dirette dall’esecutivo – commiste al rigurgito nero centralizzato a un progetto
strategico eversivo, stavano a dimostrare l’esistenza di dentro la macchina statuale e dentro i centri nevralgici del potere, di un
programma politico terroristico che non esitava a usare della violenza più vile e sanguinosa per rimettere sul trono la dittatura
borghese.
E ancora:
“Questi congiurati vestiti di nostalgia anacronistica […] erano e sono, le rotelle – chissà fino a che punto inconsapevoli – di un
congegno complesso il cui motore si identifica coi centri intoccabili del potere nazionale, ma la cui energia arriva da lontano, in
119 S. Neri Serneri, Op. Cit. pp.190-191
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gran parte dal colosso USA.”120
Questa condanna alla repressione nazionale e alle trame oscure che legavano interessi USA alle
gerarchie nazionali verrà fatta propria anche dalle Brigate Rosse, che non tarderanno a definire
“fascisti in camicia bianca” i politici della Democrazia Cristiana e anche della minoranza di sinistra al
governo.
L’atteggiamento di vicinanza che lega alcune di queste riviste (e di suoi collaboratori) alle BR si
sposterà anche dal punto di vista della pratica; nel nodale 1974 infatti (sequestro di Sossi,
attentato di Piazza della Loggia e strage di Benedetto Val di Sambro), “Rosso” commenterà così il
rapimento del magistrato genovese:
“Noi non piangiamo per Sossi, perché lacrime e rabbia non bastano neppure a vendicare le morti che i borghesi hanno provocato
tra noi.”121
Gli attentati esplosivi e le stragi del 1974, infatti, aiuteranno a far divenire ancora più
incandescente la situazione; “Rosso” e le altre riviste consegneranno l’idea che la lotta sia tra uno
stato etichettabile come fascista e chi cerca spazi di apertura democratica; spazi che, se ostruiti ad
hoc e non concessi, possono essere aperti e rivendicati con la forza; è sbagliato sostenere una
diretta consequenzialità e dire in maniera deterministica che il terrorismo di sinistra è stato
causato solo dalla strategia della tensione. E’ più corretto, tuttavia, dire che i linguaggi e le
ideologie, specialmente quelle di giustificazione della lotta armata e della violenza difensiva si
perfezionano in questo contesto.
Altro colpo di maglio alla reputazione del PCI all’interno dell’Autonomia operaia venne dalla
questione dell’approvazione della Legge Reale del 21 maggio 1975; una legge considerata
repressiva ed autoritaria non solo dal movimento operaio e dagli attivisti della sinistra, ma anche
da larghe frange di sostenitori del Partito Comunista; quest’ultimo tuttavia concesse un appoggio
al rinnovo della legge, e questo appoggio scatenò ondate di critica. Si ebbe una conferma della già
citata intenzione del PCI di legittimarsi come partito di governo, partito d’ordine. Riviste quali
“Rosso” e molte altre voci della sinistra extraparlamentare nostrana si scagliarono contro questa
decisione, aumentando la sensazione di progressivo attacco che l’apparato statale stava
perpetrando verso tutti coloro che desiderassero un ampio cambiamento degli equilibri politici
italiani. “La violenza contro la violenza” diverrà uno slogan usato molto spesso, uno slogan che
racchiude l’aggravarsi della tensione e della radicalizzazione, in un contesto che, alla metà degli
anni Settanta, ormai già vedeva l’insorgere di gruppi di fuoco e dell’azione brigatista.122
Grazie all’elaborazione teorica di giornali e di movimenti dell’autonomia operaia, possiamo notare
anche come all’interno delle logiche di giustificazione della resistenza armata, si sviluppi una eticità
della contestazione, annidata nell’idea che i movimenti di fine anni Sessanta fossero movimenti
essenzialmente pacifici, tesi ad un mutamento in senso progressista e positivo della società.
Questi movimenti, tuttavia, si imbatteranno presto in una reazione statale di stampo repressivo e
considerata colpevole, omicida, fascista. Vediamo in tal senso l’analisi di Adriano Sofri:
“La strage di Piazza Fontana aveva comunicato a noi, e soprattutto alla maggioranza dei militanti fervidi e puri poche terribili
notizie: che si era disposti a distruggere la vita di persone inermi e senza bandiera; che se davvero la strage era la subdola reazione
alle lotte di operai e studenti […] era vero per conseguenza che la cura di quei morti innocenti, la giustizia per loro […] ricadevano
Vamos a matar, companeros, di Sergio Corbucci, è un’altra pellicola simbolo della tematica della
violenza e del suo rapporto con la legge; vi è il caso del professor Xantos e della sua presa d’atto,
del suo convincimento di vivere in una società sostanzialmente violenta; la società è violenta, si
esprime con violenza, e l’unico modo per opporvisi è quello di rispondere con altrettanta
violenza, di rispondere con la lotta armata.141 Un film, quest’ultimo, di tematica fortemente
zapatista, in un interesse per le questioni internazionali e sudamericane continuamente ribadito
nella cultura cinematografica del tempo: La battaglia di Algeri, del 1966 ad opera di Gillo
Pontecorvo, parla come facilmente intuibile dal titolo della Liberazione algerina; Stato d’assedio di
Solinas, del 1973, tratta dei Tupamaros e del MLN; Quien Sabe, di Damiani, in piena tematica
fanonista, parla dell’utilizzo della violenza per il perseguimento di un bene considerato maggiore,
ma irraggiungibile senza l’uso della forza.142
Un filone, quello della Resistenza e della lotta armata nel filone spaghetti western, che viene
trasposto anche negli Stati Uniti; è il caso del già citato Blue Soldier, in cui la democrazia viene
assimilata ad una sorta di simulacro dietro al quale si nasconde un sistema fortemente brutale. Il
film paragona il massacro di My Lai, nel Vietnam, a quello di Sand Creek durante le guerre
indiane; viene ribadita la tendenza, da parte della cultura non solo della New Left americana, ma
anche della sua produzione culturale, a ricercare nella storia degli Stati Uniti episodi di violenza
assimilabili all’oggi, in una critica basata su un percorso storico, quello statunitense, considerato
come intriso di violenza e brutalità. L’abbiamo visto per quanto riguarda l’analisi storica dei
Weather Underground, lo vediamo in un film come questo: se il modello americano è quello
egemone nel mondo, e causa di massacri, brutalità e prepotenze, ecco che nella storia degli Stati
Uniti si ricerca un filone di brutalità per dimostrare al mondo l’autoritarismo e la violenza di cui,
questo sistema egemone, si è sempre nutrito. Nel 1970, sempre rimanendo in tema statunitense,
esce il film di Antonello Branca, Seize the time; il titolo richiama una frase pronunciata dal ministro
dell’informazione e dell’organizzazione dei rivoluzionari neri, e la pellicola tutta è una sorta di
documentario sul Black Panthers Party nella California di Reagan; il film racconta la drammatica
morte, oltretutto, del militante Bobby Hutton, ucciso dalla polizia nel 1968. Un road movie,
questo, che fu rifiutato dalla mostra del cinema di Venezia, ma la cui importanza nei movimenti
di sinistra rimarrà piuttosto notevole.143
Anche sulla bomba di Piazza Fontana, la cui importanza negli equilibri della sinistra radicale,
come abbiamo visto, è certamente di primo piano, non mancano produzioni ed interpretazioni
cinematografiche. Indagini su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri del 1970, mette in
scena la capacità, da parte dell’autorità pubblica (personificata dal commissario di polizia) di
utilizzare strumenti come le catalogazioni e i fascicoli personali per garantire il rispetto dei ruoli
sociali gerarchicamente prestabiliti. Sempre dello stesso film è emblematico il rapporto tra il
commissario e la donna da lui assassinata, colpevole di preferirgli uno studente: è il ritratto della
violenza e dello scavalcamento della legge che, fatte proprie anche dalle forze dell’ordine, sono
utili a garantire il rispetto delle gerarchie sociali e dello status quo.
Vogliamo i colonnelli di Monicelli, I nuovi mostri, Caro papà, La Polizia accusa, il Servizio Segreto uccide,
Poliziotti violenti: tutte pellicole post-Piazza Fontana, dal carattere cupo, violento, scioccante, ma
anche, come nel caso de I nuovi mostri e Caro papà, piuttosto esuberanti e tipicamente ascrivibili al
141 A. Fisher, Op. Cit. pp.118-119 142 Ibidem, p.134 143 Cfr. G. De Luna, Op. Cit. p.76
64
genere della commedia, tese a dipingere anche con brutalità il cammino dell’Italia, i rischi di una
deriva autoritaria, la violenza statuale.144
Del 1970 è un altro film, dedicato all’epopea di Silvio Corbari, partigiano romagnolo, ucciso dai
nazifascisti durante la Resistenza; nella pellicola, che poi diventa una interpretazione
cinematografica della guerra civile, si nota la tipica e assoluta assenza dei tedeschi: la Resistenza
diventa un affare tra italiani, una guerra civile e di classe, operai contro padroni, italiani contro
italiani, in una sorta di resa dei conti con Giuliano Gemma nel ruolo di protagonista. Nel film, la
figura del padrone antifascista finisce al cappio, ed è sintomatica della saldatura tra antifascismo
resistenziale e lotta di classe, in un tempo in cui il pericolo di una fascistizzazione dello stato si
avverte pienamente anche in Italia.145
VI) Musiche, inni, ballate: le note rivoluzionarie
Non solo il cinema riflette il linguaggio e l’ideologia delle varie forme di critica verso la società
italiana degli anni Sessanta e Settanta; anche gli inni dei vari movimenti politici, le canzoni, gli
slogan scanditi durante i cortei riflettono richiami politici molto variegati, solidarietà
internazionale nella lotta, radicalità del livello di scontro politico in atto. Non ci sono solo i più
famosi Nomadi, Francesco de Gregori o Francesco Guccini a produrre testi richiamanti il mondo
della sinistra, criticanti l’ingiustizia e l’ineguaglianza sociale, ma vi è un rigoglio e un rifiorire di
testi che aiutano ad inquadrare la situazione all’interno della cultura della sinistra radicale.
E’ da qui possibile infatti notare uno dei fenomeni più interessanti nel panorama della
contestazione italiana, ovvero la conoscenza e il richiamo che nel paese si fa continuamente verso
le lotte di altri paesi, a partire da quelli sudamericani; ecco ad esempio il testo de “l’ora del fucile”,
di Pino Masi:
“Tutto il mondo sta esplodendo dall’Angola alla Palestina,
l’America Latina sta combattendo,
la lotta armata vince in Indocina;
in tutto il mondo i popoli acquistano coscienza
e nelle piazze scendono con la giusta violenza.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire
che è suonata l’ora del fucile?
L’America dei Nixon, degli Agnew e McNamara dalle Pantere Nere una lezione impara:
la civiltà del napalm ai popoli non piace, finché ci son padroni non ci sarà mai pace;
la pace dei padroni fa comodo ai padroni, la coesistenza è truffa per farci stare buoni.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire
che è suonata l’ora del fucile?
In Spagna ed in Polonia gli operai insegnan che la lotta non si è fermata mai contro i padroni uniti,
contro il capitalismo, anche se mascherato da un falso socialismo.
Gli operai polacchi che hanno scioperato gridavano in corteo "Polizia Gestapo"
Gridavano: "Gomulka, per te finisce male".
Marciavano cantando l’Internazionale.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire
che è suonata l’ora del fucile?
Le masse, anche in Europa, non stanno più a guardare,
la lotta esplode ovunque e non si può fermare:
ovunque barricate: da Burgos a Stettino, ed anche qui fra noi,
144 G. De Luna, Op. Cit. p.34 145 Ibidem, p.81
65
da Avola a Torino, da Orgosolo a Marghera, da Battipaglia a Reggio,
la lotta dura avanza, i padroni avran la peggio.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire
che è suonata l’ora del fucile?
La canzone di Masi è del 1971, e arriva dopo altri testi del cantautore, testi come “15 ottobre alla
Saint Gobain” o “La ballata del Pinelli”; La ballata del fucile è uno dei testi più interessanti, perché
riassume molti dei connotati ideologici che abbiamo finora analizzato; è chiaro che l’ora del fucile
è arrivata anche in Italia, poiché le lotte armate nel resto del mondo, da quelle delle Black
Panthers a quelle per la liberazione dell’Africa passando per il Vietnam, hanno mostrato che la
violenza contro l’imperialismo sta avendo successo, e che per “portare il Vietnam a casa” è venuta
l’ora di imbracciare l’arma, di sparare. Vi è anche un rimando a quello spirito di autonomia e
libertà rispetto ai vincoli dell’ortodossia comunista nel citare Gomulka e Stettino, l’imperialismo
travestito da socialismo, contro cui l’autonomia operaia si batte come si batte contro il
capitalismo americano. I padroni avranno la peggio se il popolo imbraccerà il fucile, seguendo gli
esempi che la scena internazionale offre.
Interessante anche il caso dell’inno di Lotta Continua:
Siamo operai, compagni, braccianti e gente dei quartieri
Siamo studenti, pastori sardi, divisi fino a ieri!
Coro: Lotta! Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata:
Coro: lotta continua sarà!
L'unica cosa che ci rimane è questa nostra vita,
allora compagni usiamola insieme prima che sia finita!
Lotta! Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata:
lotta continua sarà!
Una lotta dura senza paura per la rivoluzione
non può esistere la vera pace finché vivrà un padrone!
Lotta! Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata:
lotta continua sarà!
Lotta! Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata:
lotta continua sarà!
Il richiamo alla lotta di lunga durata fa pensare ad un richiamo di tipo maoista, ed è esemplare in
questo testo, ed è forse la cosa più interessante, la frase “non può esistere la vera pace finché vivrà un
padrone”, che ricalca l’idea di sostanziale violenza, che qui diventa una guerra, che sussiste nel
sistema capitalista, una guerra latente nascosta da una pace finta, di apparenza, che per divenire
reale ha bisogno di vedere l’eliminazione di chi la guerra sotterranea, la guerra capitalista, continua
a foraggiarla.
Interessante è altresì analizzare l’inno di Potere Operaio:
“La classe operaia, compagni all’attacco,
Stato e padroni non la possono fermar,
niente operai curvi più a lavorare
ma tutti uniti siamo pronti a lottare.
No al lavoro salariato,
unità di tutti gli operai
Il comunismo è il nostro programma,
con il Partito conquistiamo il potere.
Stato e padroni, fate attenzione,
nasce il Partito dell’insurrezione,
Potere Operaio e rivoluzione,
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bandiere rosse e comunismo sarà.
Nessuno o tutti, o tutto o niente,
e solo insieme che dobbiamo lottare,
o i fucili o le catene,
questa è la scelta che ci resta da fare.
Compagni, avanti, per il Partito,
contro lo Stato lotta armata sarà;
con la conquista di tutto il potere
la dittatura operaia verrà.
Stato e padroni, fate attenzione,
nasce il Partito dell’insurrezione,
Potere Operaio e rivoluzione,
bandiere rosse e comunismo sarà.
I proletari son pronti alla lotta,
fame o lavoro non vogliono più,
non c’è da perdere che le catene
e c’è un intero mondo da guadagnare.
Via dalle linee, prendiamo il fucile,
forza compagni, alla guerra civile!
Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo,
non più parole, ma piogge di piombo!
Stato e padroni, fate attenzione,
nasce il Partito dell’insurrezione,
Potere Operaio e rivoluzione,
bandiere rosse e comunismo sarà.
Stato e padroni, fate attenzione,
nasce il Partito dell’insurrezione,
viva il Partito, rivoluzione,
bandiere rosse e comunismo sarà!”
In questo caso si può notare l’interessante similitudine, nell’impostazione, due inni con “A Las Barricadas”, inno antifascista durante la guerra civile spagnola: “Nere tormente agitano l’aria nubi oscure ci impediscono di vedere anche se ci aspettassero il dolore e la morte contro il nemico ci chiama il dovere. Il bene più prezioso è la libertà bisogna difenderla con fede e con valore. Alza la bandiera rivoluzionaria che porterà il popolo all’emancipazione. In piedi popolo operaio, alla battaglia bisogna abbattere la reazione. Alle barricate! Alle Barricate! Alle barricate! Alle Barricate! Per il trionfo della Confederazione”
Similitudine interessante in cui un contesto di lotta come quella spagnola, sicuramente fondamentale nella nascita e crescita di una prima, forte coscienza antifascista in Europa. Il solco seguito è lo stesso, la tradizione antifascista europea che viene ripresa e mutuata nell’inno di una organizzazione antifascista e di sinistra italiana. Anche lungo la storia italiana dal dopoguerra in poi tuttavia abbiamo eventi che recano una profonda impressione in tutta la cultura popolare e nella cultura della sinistra radicale, ed questo può essere il caso degli incidenti di Reggio Emilia del luglio 1960, contro il governo Tambroni e contro quello che veniva percepito come un esecutivo di tendenze fasciste, con un ventilato appoggio dell’MSI giudicato come inaccettabile. Per i morti di Reggio Emilia del giovane socialista Fausto Amodei vuole ripercorrere la tragedia della repressione statale nella città emiliana: “Compagno cittadino fratello partigiano teniamoci per mano in questi giorni tristi
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di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia son morti dei compagni per colpa dei fascisti di nuovo come un tempo sopra l’Italia intera urla il vento e soffia la bufera […] son morti sui vent’anni per il nostro domani son morti come vecchi partigiani”
in questa ballata si nota senz’altro il forte richiamo alla guerra partigiana; i giovani caduti a Reggio, per mano fascista, sono paragonati a chi ha combattuto la guerra di Liberazione; una guerra che può nuovamente tornare, urla il vento e soffia la bufera, come torna la violenza fascista, torna la solidarietà popolare,torna la resistenza dei compagni e dei fratelli. La canzone infatti verrà ripresa anche in occasione dei funerali seguenti alla morte di Giannino Zibecchi nel 1975, insegnante e leader dei Comitati Antifascisti. Alle strofe della canzone di Amodei, il corteo di 50.000 persone che intona i versi lungo la strada, si aggiungono le frasi “Compagno Giannino – sei morto partigiano – contro il fascismo democristiano”146; è quantomeno percepita insomma non solo la forte retorica di richiamo alla guerra partigiana, ma anche l’identificazione della Democrazia Cristiana e dello Stato come apparati repressivi da paragonare al fascismo e all’epoca mussoliniana; paragoni che spesso aleggiano sulle note di canzoni popolari, come in questo caso, che i cortei sanno riprendere e utilizzare.
VII) L’ideologia della Resistenza, il caso della Volante Rossa Analizziamo ora, seguendo il filone del rapporto che lega il mito della Resistenza al linguaggio e all’ideologia della sinistra radicale italiana negli anni Sessanta e Settanta, il caso della Volante Rossa. Essa fu un di gruppo di fuoco attivo nella zona di Milano nella seconda metà degli anni quaranta, cioè negli anni immediatamente successivi alla fine della Guerra Mondiale; nel narrare parte della sua storia non si cercherà di creare un forzoso e azzardato legame con quello che abbiamo visto finora e che analizzeremo nel prossimo capitolo, ovvero la genesi delle Brigate Rosse, bensì si cercherà di capire come questo gruppo si inserisca nelle dinamiche della sinistra italiana del tempo, e quali fossero i rapporti con il Partito Comunista non solo della Volante, ma di un vasto gruppo di reduci; quanto queste istanze poi, spesso radicali e nient’affatto disposte alla riconciliazione, possono aver pesato nella persistenza, nell’area rossa del paese, di una questione irrisolta nel rapporto con lo stato che andava formandosi e con l’eredità fascista presente nello stesso; e come, soprattutto, a questa eredità fascista si risponderà, sul piano politico e anche militare. La vicenda della Volante Rossa è interessante anche perché ci permette di analizzare quelle che sono le disponibilità e le possibilità dello sviluppo di una lotta armata in Italia, possibilità che mutano a seconda di quelli che sono gli appuntamenti fondamentali della storia del paese; diversa è la situazione nel 1919-1920 (dall’eredità del biennio rosso all’inizio del ventennio fascista), così come quella del 1943-1945, da quella che si avrà negli anni Sessanta e Settanta; secondo Bermani, autore del testo su cui qui si fa riferimento rispetto alla Volante, la situazione durante gli anni della Resistenza era favorevole allo sviluppo di una lotta armata per l’abbattimento del capitalismo: ingovernabilità del sistema di potere esistente, disfacimento dell’esercito e delle forze repressive, armamento di ampi settori proletari, quadro avanzato di lotta a livello internazionale.147 Tuttavia è diverso, rispetto al 1919-1920, l’atteggiamento del PCI: matura negli anni della Liberazione, infatti, una concezione gradualistica e democratica del socialismo, di cui la Svolta di Salerno sarà una conferma; proprio negli anni di maggior forza del partito delle Botteghe Oscure anche in campo militare, si fa strada quella che sarà la linea principale della sua azione politica nei decenni seguenti, ovvero l’accettazione di un regime democratico e soprattutto la rottura con qualsiasi velleità rivoluzionaria. Se da un lato abbiamo quindi un partito che si rende già sempre
146 G. Galli, Op Cit. p.154 147 C. Bermani, La Volante Rossa, Vicenza, Associazione Culturale 1° maggio, p.6
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più sistemico e inserito negli equilibri diplomatici usciti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, possiamo dire che d’altro canto vi è una base, e vi sono alcuni militanti, piuttosto refrattari nei confronti dell’accettazione di un regime di orientamento atlantista. E’ sul finire della Resistenza infatti che inizia a nascere la questione della riconsegna degli armamenti, che in taluni casi non verranno riconsegnati alle autorità e finiranno in magazzini, grotte o nascondigli di montagna, pronti per essere reimpiegati all’occorrenza di una nuova, ipotetica lotta futura. Una Resistenza che finisce con la Liberazione, e con un partito, quello comunista, che ne accetta sostanzialmente gli esiti. E’ in questi anni tuttavia che si innestano delle peculiarità tipiche delle azioni militari che possono essere ritenute interessanti per lo sviluppo della nostra analisi, e in particolare parliamo, innanzitutto, dell’azione dei GAP, gruppi ai quali si ispirerà, come abbiamo potuto notare, l’azione tra gli altri di Giangiacomo Feltrinelli; l’azione dei Gruppi d’Azione Partigiana infatti prevedeva già un rapporto tra vita clandestina del militante da una parte e una condotta legale di facciata dall’altra; i GAP operavano nelle città che poi venivano liberate dalle brigate partigiane o dagli eserciti alleati, e si occupavano non solo di supportare le azioni di insubordinazione nei confronti dell’occupante fascista, ma anche di azioni di punizione verso le milizie nemiche e di difesa verso la popolazione, una forma di giustizia popolare nei confronti dei soprusi subiti quotidianamente dai proletari nelle città del nord, in tempo di guerra.148 Anche la Volante Rossa, attiva dall’ottobre del 1944, prevede una sorta di facciata legale per la propria costituzione. Luigi Comini “Luisot”, Ferdinando Clerici “Balilla”, Natale Burato “Lino” e altri membri creano la Volante Rossa ufficialmente a scopo ricreativo: escursioni alpine, gite domenicali, balli alla casa del popolo, accompagnate a commemorazioni di martiri e partigiani. Ma è solamente la facciata di qualcosa di più profondo, ed importante. Il problema delle false organizzazioni sportive, al tempo, è sentito fortemente in tutta l’area comunista, se L’Unità nel 1946 se ne esce con un articolo che tenta di mettere in guardia proprio da queste associazioni di facciata, che poi in realtà sono usate per reclutare uomini da impiegare in azioni clandestine; l’attività della Volante Rossa ad esempio si esplica nella punizione nei confronti di ex fascisti, amnistiati o in mano agli anglo-americani. La Volante li segue, li preleva e li giustizia. I nomi di battaglia utilizzati dai membri del gruppo non sono quelli utilizzati durante la Resistenza, nomi che appaiono solo nella terminologia delle attività legali di facciata; si usano altri nomi nuovi, creati all’occorrenza. Nella grande confusione regnante anche all’interno delle forze dell’ordine e delle forze armate nell’immediato indomani della Liberazione, la Volante Rossa riesce ad infiltrare propri uomini, spalleggiatori che aiuteranno l’organizzazione nella caccia ai militanti fascisti che poi saranno uccisi; organizzazione che prevedeva un nucleo centrale, ristretto e clandestino, al quale tuttavia era affiancata una più grossa rete di collaboratori, militanti di partito, funzionari di sezione che all’occorrenza venivano usati o offrivano supporto al gruppo; un modus operandi che non vogliamo pretendere di assimilare all’organizzazione brigatista sviluppatasi un quarto di secolo dopo, ma che tuttavia può porre una interessante ottica di analisi sul rapporto tra azione clandestina ed appoggio esterno. Spesso nell’azione di sorveglianza e pedinamento la Volante Rossa si affida a persone reclutate in loco, nel posto cioè ove risiede il bersaglio; pedinamenti, fotografie, raccolta di informazioni alle quali poi segue l’azione del nucleo vero e proprio, ovvero il prelievo del bersaglio, e un suo interrogatorio; qui, se la persona prelevata non è ritenuta colpevole oppure non è percepita come una minaccia fondamentale o una pedina importante nello scacchiere del crescente neofascismo, viene fatta tornare al paese di origine. Se invece viene ritenuta colpevole, o viene percepita come una reale minaccia politica, viene uccisa.149 Così si sviluppa l’attività della Volante, in un misto di giustizia nei confronti di crimini commessi in precedenza da fascisti o da persone vicine al regime, e in un già militante antifascismo nei confronti delle organizzazioni che stanno per nascere, o rinascere. Un antifascismo che si esplica anche verso la piega che le organizzazioni monarchiche stanno dando alla propria azione, ovvero
148 C. Bermani, Op. Cit. p.13 149 Ibidem, pp-27-28
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in un avvicinamento alla galassia neofascista da usare come braccio armato; gruppi come il RAAM (Reparti Antitotalitari Antimarxisti Monarchici), l’AIL, organizzazioni che sono spesso coinvolte in trame piuttosto oscure con esponenti dell’ambiente regio, in cui già si parla di tentativi di golpe filo-sabaudi, per il ripristino della monarchia in Italia. L’azione del rinascente neofascismo, sia di stampo monarchico che di stampo repubblichino, si esplica negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale in una attività di intenso attacco alle organizzazioni della sinistra italiana, in risposta ad altri attacchi o come iniziativa propria; auto fantasma che sparano a sedi di partito, furti, rapine, devastazioni di locali e case del popolo; in questo scenario la Volante Rossa replica perseguendo attacchi mirati e diretti al singolo uomo appartenente ad organizzazioni di estrema destra, come nel caso del ferimento di Giulio Vaiani o l’uccisione di Orlando Assirelli ed Enrico Meneghini; tutti atti compiuti tra il gennaio e il febbraio del 1946.150 E’ un momento, quello della fine degli anni quaranta, di forte tensione tra un neofascismo che viene considerato come assolutamente pericoloso e la resistenza delle organizzazioni di sinistra, che vorrebbero una sua totale messa al bando; un contesto di lotta tra neofascismo e antifascismo che abbiamo visto esserci anche all’inizio degli anni Settanta, con la recrudescenza dovuta anche all’attentato di Piazza Fontana. Sono simili infatti gli scenari che si creano, violenza di piazza, comizi dell’MSI caratterizzati da conflitto tra le due fazioni politiche, provocazioni dall’una e dall’altra parte in cui si inseriscono gruppi violenti. La Volante Rossa in questo periodo svolge anche il compito di servizio d’ordine, con ruoli di vigilanza e di scorta; nel 1947 in particolare vi è un intensificarsi delle azioni dell’organizzazione, che è presente nelle manifestazioni di piazza, nelle occupazioni di fabbrica e anche negli scontri con le forze dell’ordine; una azione che da silenziosa si fa sempre più conclamata, la cui eco si espande in tutta la Lombardia. Le occupazioni, la difesa del proletariato dagli assalti fascisti, lo stemma con la falce e il martello avvicinano una organizzazione che operava praticamente in clandestinità alla massa operaia; l’intervento della Volante all’interno delle fabbriche in lotta e occupate muta i rapporti di forza, attraverso l’uso della violenza; è sempre del 1947 ad esempio l’episodio simbolo della distruzione della sede dell’MSI di via Santa Radegonda, a Milano, o la distruzione della sede del “Meridiano d’Italia”. In questo clima di violenza l’Italia precipita in una spirale di tensione sociale, tensione che porterà, nel 1948, all’attentato a Palmiro Togliatti. E’ un momento in cui le speranze di molti comunisti e proletari lombardi, milanesi, ma più in generale italiani, vanno nel senso di un rovesciamento del sistema sociale vigente fino ad allora. L’occupazione delle fabbriche, i presidi, sono tutti elementi che portano a far pensare ad uno sconvolgimento davvero forte nella società italiana. Anche qui la Volante Rossa si inserirà, recuperando armamenti pesanti, facendo da collante attraverso tutte le fabbriche occupate nel milanese, prendendo contatti e abboccamenti con forze dell’ordine, valutando, più in generale, le possibilità dello scoppio di una lotta armata su vasta scala. Interessante qui notare come il gruppo si inserisce nelle fabbriche, e come agisce al loro interno: ci viene in soccorso un articolo del “Corriere della Sera”.
“poco dopo il mezzogiorno del 13 ottobre in occasione dello sciopero di due ore indetto dalla Camera del Lavoro di Sesto per solidarietà con le maestranze della Falck, una squadra di facinorosi entrò, quando già il comizio in piazza era finito, negli uffici del terzo reparto della Breda, destinato ai lavori di fonderia. Gli intrusi affrontarono alcuni impiegati che non avevano partecipato alla manifestazione e pretesero che abbandonassero gli uffici. Nacque una discussione al termine della quale la squadra si allontanò. Ma dopo pochi minuti sopraggiunse una seconda squadra, nella quale si trovavano solo alcuni elementi del primo gruppo, incaricati evidentemente di far da guida. I componenti del nuovo nucleo non si persero in chiacchiere: si gettarono senz’altro addosso a tutti coloro che si trovavano nell’ufficio indiziato, malmenando anche alcune persone che vi erano entrate dopo la prima incursione, per informarsi dell’accaduto. Si è trattato dunque di un vero e proprio saggio della tecnica del pestaggio[…]. In seguito al grave fatto, i dirigenti e i laureati della Breda, che sono circa duecento, decisero di non presentarsi al lavoro, pur tenendosi a disposizione della direzione dell’azienda, finché non fosse loro garantita l’incolumità personale”151
Si ritrova anche qui una concezione pedagogica e fortemente simbolica dello sciopero, e dell’adesione di massa; i bersagli, i crumiri, sono sempre formati da quel personale impiegatizio, o
150 C. Bermani, Op. Cit. pp.31-32 151 Ibidem, pp.68-72
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formante quadri, che è meno sensibile rispetto alla manovalanza operaia a rivendicazioni radicali; ecco che vi è l’intervento del gruppo, un intervento simbolico, a voler invece creare uno sciopero totale, coinvolgente tutto l’ambiente di fabbrica. E’ proprio però la situazione di maggior tensione dalla fine della guerra, ovvero l’attentato a Togliatti, a far crollare, dopo poco tempo, ogni velleità di lotta armata nei militanti comunisti e nella Volante Rossa. Il partito blocca qualsiasi tentativo di sollevazione, vengono fermati tutti coloro i quali continuano in opere e comportamenti violenti, l’indignazione nei confronti della direzione è palpabile ma non porta a nessun tipo di rivoluzione generale; l’attività della Volante si spegne quindi assieme alla sollevazione più poderosa, chiudendosi con delle ultime azioni a danni di ex fascisti. Diversa da quella del gruppo sarà la sorte dei suoi componenti; un militante, Alvaro, lavorerà a Radio Praga, in Repubblica Ceca; altri trentatré finiranno agli arresti, due rimarranno in latitanza. Si vocifererà anche di una partecipazione, in quel di Cuba, alle azioni di Fidel Castro; un collegamento interessante, tuttavia privo di effettivi riscontri.152 Abbiamo qui notato come, all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, in Italia vi siano già dei nuclei dediti all’antifascismo militante nel senso più radicale del termine, e alla persecuzione armata di ex fascisti, e come questi gruppi non siano totalmente insensibili alla prospettiva di una presa del potere con la forza da parte del proletariato. Abbiamo notato come queste prospettive, inoltre, siano già completamente abbandonate da parte del Partito Comunista Italiano; gli scenari per la lotta armata di popolo, rimarranno così confinati, nei decenni a seguire, nell’alveo della clandestinità e del rigetto di qualsiasi tentativo di presa violenta del potere. Sarà un leitmotiv molto importante anche nel valutare l’azione e gli esiti del terrorismo rosso degli anni Settanta, e del suo rapporto con la sinistra ufficiale e parlamentare.
152 C. Bermani, Op. Cit. p.79
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Capitolo 4: La lotta armata in Italia, le Brigate Rosse Siamo giunti alla fase centrale della nostra trattazione, ovvero all’analisi del caso delle Brigate Rosse (BR). Nell’excursus che seguirà ci focalizzeremo su ciò che le BR hanno ripescato, nel loro bagaglio ideologico e anche pratico, tra tutti i temi e le questioni analizzate in precedenza. In primis analizzeremo il rapporto tra la nascita delle Brigate e l’antifascismo militante nel panorama italiano; da cosa cioè scaturisce la genesi del movimento, qual è e in cosa si sostanzia il carattere antifascista del gruppo armato, qual è il rapporto che lo lega al panorama della sinistra parlamentare ed extraparlamentare, quali sono le affinità e quali le divergenze con essa. In secondo luogo analizzeremo il rapporto che lega la nascita delle Brigate all’ideologia extraitaliana ed extraeuropea, quali possono essere i punti di contatto e di diversità con i movimenti che abbiamo analizzato in precedenza e con la temperie geopolitica della seconda metà del Novecento. Come terza parte, invece, analizzeremo la vicenda storica di un personaggio simbolo delle Brigate Rosse, Prospero Gallinari; attraverso la sua biografia potremo avere un resoconto valido sull’introiezione di temi simbolici come quelli della Resistenza, del Comunismo, del proletariato. Vedremo insieme la genesi del Gruppo dell’Appartamento, ovvero del gruppo reggiano delle Brigate Rosse, del suo particolare rapporto con l’Emilia Romagna e la proiezione verso il mondo metropolitano milanese, in bilico tra eredità rurale e prospettive industriali. I) Nascita e sviluppo di un gruppo armato in Italia Ufficialmente, le Brigate Rosse nascono con la decisione di intraprendere la lotta armata, a seguito del convegno di Pecorile del 1970. Tuttavia, come è facilmente presumibile, prima di questa data vi è una gestazione piuttosto importante, in cui si intrecciano stimoli politici italiani ed esteri, volontà rivoluzionarie e timori reazionari, voci di golpe, crisi di identità della sinistra e nella sinistra. Le BR insomma si innestano in quel grande calderone che abbiamo potuto analizzare nel capitolo precedente, in seno cioè ad una società piena di contraddizioni e interrogativi, sia riguardo al proprio passato che al proprio futuro. La strategia della tensione, le bombe, i morti di piazza giocano un ruolo fondamentale nella nascita del gruppo armato, così come l’antifascismo di stampo italiano, col suo portato di simboli, icone e figure storiche; si è parlato di Pecorile, il convegno del 1970. E’ proprio dal convegno di Pecorile che possiamo rintracciare un legame, anche qui presente, con la strage del 12 dicembre 1969: si parla di “guerra civile latente”, nel primo documento del Collettivo Politico Metropolitano, il gruppo cioè che si presenta al convegno.153 Stiamo parlando dell’esordio di un gruppo ancora semisconosciuto, ma che va formandosi proprio sulla scorta dei mutamenti di scenario del paese, mutamenti che preoccupano, e che come abbiamo potuto notare, non mettono in allarme solo frange estreme dello scacchiere della sinistra, ma anche movimenti più grandi, o addirittura partiti dalla consolidata tradizione democratica, come il PSI, o il PCI. E’ forse proprio in riferimento a questo che Rossana Rossanda parlerà di album di famiglia,154 ovvero anche alla paura di un golpe che si fa trasversale, che anima tutta la sinistra italiana, e contro le cui avvisaglie si ripescano modi, azioni ed ideologie atte a garantire una nuova forma di Resistenza. Lo stesso Mario Moretti, che partecipa alle attività del Collettivo Politico Metropolitano, parlerà chiaramente del ruolo essenziale della strage di Piazza Fontana; essa suggerisce forme di giustificazione della violenza, derivate dalla sensazione che, con la strategia della tensione, lo stato stia attaccando ciò che il Movimento operaio stava diventando, e stia attaccando specialmente la deriva a sinistra che l’opinione pubblica, e con essa l’elettorato, rischiavano di intraprendere.155 La formazione di percorsi di adesione alla lotta armata nel solco della paura di un golpe, e dal ’73 pure per il timore che gli avvenimenti cileni possano ripetersi in Italia, si può intravedere anche da questa
153 G. Crainz, Op. Cit. p.391 154 Da “Il Manifesto” del 02/04/1978 155 M. Moretti, Op. Cit. p.29
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testimonianza: “La strage di Piazza Fontana […] segna per me una svolta decisiva perché chiude il circuito tra le istituzioni, lo stato e la destra che avevo già imparato a conoscere. […] Il golpe in Cile non farà che avallare e accelerare drasticamente le discussioni su di un tema che nel Veneto investiva già da tempo tutta la sinistra intorno al golpismo e allo stragismo, al rapporto tra destra, centrali estere e apparati dello stato. La vita quotidiana stessa è intessuta di questo clima: ricordo periodi con lo zaino pronto sul letto, falsi allarmi per un giornale radio non trasmesso, catene di telefonate più o meno rassicuranti.”156
C’è da dire che nello stesso Veneto di cui si parla in questa citazione, è attiva, tra il 1972 e il 1974, la Brigata Proletaria Erminio Ferretto (BPEF), dal nome di un partigiano della Resistenza; brigata Erminio Ferretto che sarà la base dalla quale verrà organizzata proprio la futura colonna veneta delle Brigate Rosse.157 Non solo la Brigata Erminio Ferretto, ma anche il gruppo XXII ottobre già incontrato nel paragrafo su Feltrinelli, di cui le Brigate Rosse richiederanno, nel caso del sequestro Sossi, il rilascio di alcuni membri, richiamano all’ideale resistenziale; il gruppo, genovese, è composto da un multiforme strato di operai portuali, proletari ed ex partigiani che ben conoscono, e interiorizzano, il mito della Resistenza tradita. Proprio a Genova si inserisce, come a Reggio Emilia, un altro fenomeno dal forte impatto ideologico, ovvero quello delle giornate del luglio 1960. In una città nodale per le sorti della Resistenza, con la presenza di un consistente ceto operaio e una storia di tumulti piuttosto poderosa alle spalle, si possono notare percorsi esemplari; inizia dall’azione di questi gruppi una traslazione, su un piano di lotta armata, di delusioni più o meno forti, di spaccature più o meno conclamate tra l’apparato della sinistra italiana e i militanti più accesi e radicali, che in un contesto di tensione sociale possono essere spinti all’azione di guerriglia.158 La stessa tensione sociale di cui si parla in moltissimi dei documenti e dei testi prodotti nell’ambito della sinistra radicale italiana, dipinge, come abbiamo notato, la democrazia come un mero simulacro di una nazione comandata da poteri forti, inaccessibili; lo stesso concetto di Stato Imperialista delle Multinazionali è il perfezionamento, in scala brigatista e internazionale, di questo concetto. Proprio riguardo lo Stato Imperialista delle Multinazionali e il concetto di Metropoli, due fondatori delle Brigate Rosse come Renato Curcio e Alberto Franceschini hanno fornito le definizioni più interessanti: “metropoli come forma sociale complessiva e storicamente determinata del capitale nello stadio del suo dominio reale totale, molecola della formazione sociale imperialista, ad essa isomorfa ed in continua, accelerata espansione-trasformazione.”159
Ecco che la definizione brigatista di metropoli non è altro che lo stadio ultimo, definitivo della violenza del capitale. Luogo in cui esso si esplica e si manifesta nella forma più alienante e distruttiva, e in cui va praticata una resistenza guerrigliera per contrapporvisi. Così come lo stato mostra il suo reale volto con la militarizzazione e la fascistizzazione, nella metropoli il vero volto lo mostra il capitale; non c’è infatti, nella metropoli, luogo che non sia violento, dicono i due brigatisti. La metropoli è l’organizzazione della violenza capitalista, è il luogo ove tutte le contraddizioni del sistema economico vigente vengono a galla. Si nota, anche nell’accezione e nella scelta ponderata che le Brigate Rosse fanno della metropoli come luogo essenziale della manifestazione del capitale, l’influenza che il ruolo della grande città industriale ha, ad esempio, nella guerriglia sudamericana, come abbiamo notato con i casi di Montevideo e Salto. E’ nella grande città che il sistema imperiale vive e si nutre, è nella grande città che lo sfruttamento si compie e il proletariato viene sfruttato: è nella metropoli che il guerrigliero deve agire, per spezzare, nascondendosi tra le sue pieghe, i gangli dello stato imperialista delle multinazionali. E’ su questi due binari che, più in generale, si svolge l’ideologia brigatista: l’inserimento lungo un solco di tradizione resistenziale e antifascista italiano e la ripresa, su scala nazionale, di un
156 Testimonianza di un militante brigatista, Ict. in S. Neri Serneri, Op. Cit. p.335 157 G. Galli, Op Cit. p.75 158 S. Neri Serneri, Op. Cit. p.371,374 159 R. Curcio, A. Franceschini Gocce di sole nella città degli spettri, Roma, Corrispondenza Internazionale, 1982, p.236
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contesto anti imperiale che va sviluppandosi in altre parti del mondo.160 Una resistenza e una lotta, quella metropolitana, da effettuarsi nei luoghi più importanti per l’organizzazione e l’effettiva presenza del proletariato, come le fabbriche. E’ esemplare notare, sempre sul solco del concetto di Nuova Resistenza, le uscite di fogli di riferimento delle Brigate Rosse. In occasione dell’anniversario della Liberazione del 1971, le BR pubblicano un foglio chiamato proprio “Nuova Resistenza”, in collaborazione con Giangiacomo Feltrinelli. Sostituisce il foglio “Sinistra Proletaria”, dopo che esso aveva pubblicato un annuncio, in cui recitava: “organizzare la nuova resistenza per radicare nelle masse proletarie in lotta il principio: non si ha potere politico se non si ha potere militare; educare attraverso l'azione partigiana la sinistra proletaria e rivoluzionaria alla resistenza, alla lotta armata”
Una Resistenza definita nuova non solo perché riproposta dopo quella del ’43-’45, ma perché arricchita da eventi che, nel frattempo, vengono anch’essi utilizzati a fini ideologici, come scrive lo stesso periodico: “Ha invece per noi il senso tutto giovane ed offensivo che questa parola d'ordine assume nel quadro della guerra mondiale imperialista che oppone la controrivoluzione armata alla lotta rivoluzionaria dei proletari, dei popoli e delle nazioni oppresse. È la resistenza orientata dalla Cina rivoluzionaria del presidente Mao, capeggiata dal Vietnam e dai popoli rivoluzionari dell'Indocina. È la resistenza dei popoli palestinesi e dell'America latina, nelle metropoli imperialiste, nei ghetti neri e nelle città bianche.”161
Questo annuncio fa comprendere ancor di più la base ideologica brigatista. Una resistenza che si richiama a storia passata nazionale e avvenimenti su scala internazionale. Tutte assimilate a Resistenze, a dei Vietnam; sta alle Brigate Rosse la creazione di un Vietnam italiano, riallacciandosi alla tradizione antifascista italiana, una lotta da condursi raccogliendo consenso nelle fabbriche e nelle metropoli industriali italiane. E’ da qui che possiamo notare un interessante rimando al concetto di ghetto; il ghetto nero, riprendendo l’analisi sulle Black Panther, diventa il luogo primo in cui si manifesta la violenza coloniale dello stato; la metropoli è anch’essa ghetto, dove si manifesta la violenza del capitale e del padronato, e in cui il gruppo guerrigliero deve agire per disarticolare il sistema economico e lo stato, che si nutrono dello sfruttamento operaio. Un impianto industriale fondamentale per la storia delle Brigate Rosse sarà la Sit Siemens, non solo per l’esperienza di Mario Moretti nello stabilimento milanese, ma anche perché esso è il luogo cardine in cui si sviluppa l’azione di primo volantinaggio e attacco al padronato del gruppo armato. Nel 1970, infatti, siamo ancora agli esordi della storia delle Brigate, ma la temperie sociale è densa di nubi, in tutta Italia. I timori dopo Piazza Fontana, la radicalizzazione operaia e sindacale fanno scoppiare tumulti nei più grandi stabilimenti della penisola, da Bologna passando per Porto Marghera, fino a Milano. La presenza in fabbrica delle BR si differenzia sostanzialmente dall’atteggiamento tenuto, ad esempio, dai GAP di matrice feltrinelliana; se questi ultimi nascono in funzione prevalentemente antigolpista, le BR si rendono permeabili all’antifascismo militante, usandolo come arma propagandistica, ma iniziano una lotta di lunga durata partendo dalle industrie, dagli operai, negli anni dell’autunno caldo; repressione padronale e ripresa dello slancio sindacale, con scioperi piuttosto duri fanno sì che la tensione nelle fabbriche salga, e che gruppi come quelli di Sinistra Proletaria, e poi delle BR, vi si inseriscano; queste ultime iniziano a lasciare volantini proprio alla SIT Siemens: “la repressione passa per capi, capetti e ruffiani; sono loro a segnalare, spiare, denunciare, provocare, inventare, sono gli strumenti della direzione”, vi si legge. La paranoia, dall’ambito politico generale, passa alla dimensione di fabbrica; i nemici vanno ricercati all’interno, tra i quadri, i capi e i collaboratori. Si iniziano a colpire le automobili dei dirigenti, e a diffondere i loro nomi e i loro indirizzi. E’ l’iniziale violenza contro le cose, in uno scenario di tensione sociale piuttosto forte e palpabile. In un’altra fabbrica, la Pirelli, si percepisce il forte clima di tensione sociale: “C’è un governo nuovo che non è imparziale, e c’è già in atto da tempo il tentativo di restaurare l’autoritarismo nelle fabbriche. Il
160 S. Neri Serneri, Op Cit. pp.258-259 161 G. Galli, Op Cit. pp.37-38
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terrorismo si manifesta così: messa in cassa integrazione, denunce per cortei interni, voci sempre più insistenti di licenziamenti”162
E’ importante dire che questa frase arriva dopo alcune azioni delle Brigate Rosse, che sono presenti anche in questo stabilimento. Non sono azioni mortali, o foriere di vittime e omicidi; sono azioni dal carattere fortemente simbolico, rivolte alla sovversione di un ordine percepito spesso come dittatoriale e imposto con la forza. Sarà la strada, questa, che porterà al sequestro di Ettore Amerio alla FIAT, capo del personale tenuto in ostaggio otto giorni. Le prime Brigate Rosse, insomma, agiscono nel contesto di lotta che si crea nelle fabbriche, e operano dapprima come Collettivo Politico Metropolitano, e poi come Sinistra Proletaria. Azioni di volantinaggio, azioni dimostrative e dal carattere fortemente simbolico, che inizialmente incontrano anche il favore di una porzione non indifferente di lavoratori, specialmente in un contesto in cui la repressione padronale e statale è percepita come un qualcosa di fortemente coercitivo.163 Un documento delle Brigate datato gennaio 1973, comparso in “Potere Operaio” parla di resistenza alla militarizzazione del regime e nelle fabbriche; i fascisti sono considerati, anche dal gruppo armato, un esercito armato utilizzato dal capitale, contro i quali, nel terreno di scontro cioè nelle fabbriche, si ripescano strumenti tipici, e che abbiamo notato in esperienze precedenti come quelle immediatamente successive la Seconda Guerra Mondiale, come la gogna, la giustizia immediata ed esemplare sul posto di lavoro.164 C’è da dire che nell’ambiente milanese, e in particolare alla Sit Siemens, si incontrano, formano e agiscono personaggi come Mario Moretti, Corrado Alunni e Pierluigi Zuffada; loro compito è quello di studiare l’ambiente di fabbrica, valutare la possibilità di una radicalizzazione dello scontro, effettuare una propaganda armata. Questo gruppo milanese si fonderà dapprima con il gruppo di studenti trentini come Renato Curcio, Margherita Cagol e Giorgio Semeria, e anche con il convergente gruppo reggiano dell’”Appartamento”, i cui componenti erano, tra gli altri, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari e Roberto Ognibene. Va detto che non tutte le persone formanti il Gruppo dell’Appartamento reggiano confluiranno nelle BR; un esempio è quello dei fratelli Rinaldini, allora dirigenti della FGCI reggiana e in seguito della FIOM nazionale. Il Gruppo dell’Appartamento reggiano è in particolar modo interessante, perché è formato da fuoriusciti dal PCI; lo stesso Franceschini è fortemente critico nei confronti del Partito Comunista, criticandone il riformismo e il percorso di avvicinamento al centro, sulla scia delle contestazioni che gli venivano mosse da numerosi gruppi e appartenenti all’area della sinistra radicale. Il Gruppo dell’Appartamento quindi si fonda su una radice comunista, perseguendo una tradizione fortemente antifascista e critica nei confronti delle derive del partito che dovrebbe essere quello di riferimento. 165 Una critica che, almeno per Franceschini e per i suoi compagni, non impedisce un rapporto anche piuttosto forte con l’eredità politica del partito di provenienza. Nodo centrale di questo atteggiamento può essere riscontrato nell’antifascismo, che è collante comune per militanti pure radicalizzati, ma anche per personaggi che ancora gravitano attorno alle sfere più moderate della galassia movimentista, o comunista. Le stesse Brigate Rosse mutuano non solo da larghe frange del movimento comunista, ma anche da Feltrinelli in persona, parte dell’accezione antiautoritaria, antigollista e antigolpista che permeerà molti gruppi anche esterni alla logica brigatista. In particolare il rapporto del movimento armato con la restante porzione di militanti dell’area rossa sarà certamente di distanza dialettica, ma prevederà anche il tentativo di un convincimento e di un utilizzo di militanti da lì provenienti in chiave rivoluzionaria.166 Rapporto dialettico ma di sostanziale rifiuto del riformismo, che le BR ribadiranno anche durante il maxiprocesso di Torino nel 1976, con la lettura di un comunicato: “I riformisti operano per modificare la struttura della coscienza di classe del proletariato. La manipolazione consiste nel dirottare il
162 G. Crainz, Op. Cit. p.460 163 Ibidem, pp.458-460 164 S. Neri Serneri, Op. Cit. pp.277-278 165 G. Galli, Op. Cit. pp.19-20 166 Ibidem, p.162
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potenziale di violenza accumulato in ogni proletario verso falsi obiettivi non pericolosi per la sopravvivenza del sistema. Il compromesso storico, al di là delle sue velleità e dei fronzoli ideologici di cui si ammanta, non può che rappresentare una soluzione tutta interna alla controrivoluzione imperialista. Nel migliore dei casi sarà un proiettile di gomma nel fucile degli sbirri. Mai come in questo momento diventa chiaro che partecipare alla farsa elettorale significa eleggere i propri carnefici... L'interesse proletario è quello di acutizzare la guerra civile in atto e trasformarla in lotta armata per il comunismo.” 167
Come abbiamo notato in casi precedenti, anche le Brigate Rosse criticano aspramente il riformismo e in particolare il Partito Comunista, e la sinistra di governo. L’unico spazio che resta al proletariato è quello della lotta armata, in funzione anti compromissoria; non c’è nessuno spazio per accordi politici, tutti rientranti pienamente nella logica di governo imperialista. Abbiamo parlato dell’antigollismo e dell’antiautoritarismo come carattere molto importante nello sviluppo ideologico brigatista; ebbene l’antifascismo delle Brigate Rosse della prima metà degli anni Settanta è riscontrabile anche nelle azioni della cellula romana, poi presto scomparsa. Dal 1970 e lungo tutto il 1971 la sezione capitolina è dedita a contrastare attività fascista o neofascista; il 13 dicembre 1970 viene, a titolo simbolico, incendiato lo studio di Valerio Borghese. Del 1970 è invece una azione simbolica alla Pirelli Bicocca di Milano; si diffondono volantini con elenchi di capi e quadri da punire; viene in seguito incendiata l’auto di Ermanno Pellegrini, capo dei servizi di vigilanza alla Pirelli, e di questo atto viene incolpato un operaio, Della Torre, vecchio militante della CGIL ma estraneo all’azione brigatista; esso viene licenziato, e per vendetta le Brigate incendiano anche l’auto del capo del personale, Enrico Loriga. Nel comunicato di rivendicazione, Della Torre viene presentato come “quadro di punta” e addirittura come “comandante partigiano”.168 Un esempio di come la retorica resistenziale venga traslata nella lotta di fabbrica, con attacchi, contrattacchi e lessico di guerriglia. Del 1972 è un’altra azione delle Brigate Rosse, alla Sit Siemens: Idalgo Macchiarini verrà sequestrato e fotografato, con un cartello al collo e una pistola puntata alla tempia; nel cartello si legge “Mordi e fuggi! Niente resterà impunito! Colpirne 1 per educarne 100! Tutto il potere al popolo armato!” Il volantino di accompagnamento al sequestro invece viene redatto definendo Macchiarini “un tipico neofascista: un fascista in camicia bianca e cioè una camicia nera dei nostri giorni”; il dirigente viene dichiarato soggetto a “libertà vigilata”. Mordi e fuggi, come dichiarato dalle Brigate Rosse, è una frase che viene insegnata a Che Guevara e a Castro da Bayo, maestro di guerriglia già nella guerra di Spagna;169 per il resto, tralasciando questa interessante nota, si può vedere l’impianto tipico, anche in questa azione, di quasi tutte le ideologie guerrigliere che abbiamo notato fin d’ora: Macchiarini, dirigente di fabbrica, viene rivelato per quel che è: una “camicia bianca” che in realtà diventa camicia nera; una democrazia e un sistema capitalista, rappresentati dal dirigente di fabbrica, che si mascherano dietro un volto democratico nascondendo la loro vera natura, fascista e reazionaria. Sta alle Brigate Rosse, con questo atto simbolico, con il rapimento, smascherare la reale natura del rapito, e del sistema da lui alimentato. La “libertà vigilata” è qui intesta come quella che un gruppo armato, forte di una propria giustizia, concede ad un prigioniero, reo di aver compiuto dei delitti. A Milano, negli anni del sequestro Macchiarini e di quello ai danni di Ettore Amerio, le BR sperimenteranno, seppur con modesta fortuna, l’esperienza dei NORA (Nuclei Operai di Resistenza Armata), nuclei di fabbrica e di quartieri con, alle spalle, una solida tradizione antifascista da riutilizzarsi in una fase di riacutizzazione tra proletariato da un lato, e capitale e fascismo dall’altro.170 Sempre riconducibile al 1972, è l’infiltrazione delle Brigate nella Fiat; il venticinque novembre, in seguito ad un corteo cittadino “contro il governo Andreotti e contro il fascismo”, il gruppo armato compie degli incendi a danni di auto di iscritti al sindacato Cisnal, rivendicando il fatto con il motto “schiacciamo i fascisti a Mirafiori e Rivalta, cacciamoli dalle nostre fabbriche e dai nostri quartieri”. In dicembre continua l’antifascismo militante in fabbrica, sempre a Torino, con altri incendi ai danni di iscritti Cisnal e Sida: “Capi, fascisti, Sida sono un fucile puntato contro la classe operaia.
167 G. Galli, Op. Cit. pp.199-200 168 Ibidem, pp-30-31 169 Ibidem, p.62 170 M. Moretti, Op Cit. p.62
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Spazziamoli da Mirafiori e Rivalta! Inseguiamoli nei loro quartieri. Facciamogli sentire tutto il gusto del nostro potere!” questa è la rivendicazione che accompagna le azioni. In febbraio viene sequestrato, sempre a Torino e ad opera delle BR, Bruno Labate. Il suo sequestro è accompagnato da un interrogatorio, dalla rapatura e dal successivo abbandono in loco, con al collo del segretario provinciale della Cisnal un cartello recante la scritta “pseudo-sindacato fascista che i padroni mantengono nelle nostre fabbriche per dividere la classe operaia, per organizzare il crumiraggio, per infiltrare ogni genere di spie nei reparti”.171 Nel caso del sequestro Labate, durato solo poche ore, si nota ancora di più la carica esemplare e quasi esibizionista dell’azione brigatista; il cartello si accompagna alla rapatura, in un manuale, quello del taglio dei capelli a scopo di dileggio, che viene mutuato da esperienze risalenti alla guerra di Liberazione, una gogna evidente che viene effettuata ai danni di chi viene reputato fascista, e che quindi va riconosciuto e marchiato in quanto tale. Il timore del golpe, al quale si accennava, resta forte anche fino al 1974, e oltre; è anche il clima di timore e resistenza verso ipotesi di svolte autoritarie che permette alle Brigate Rosse di continuare a rimanere in vita anche dopo gli arresti seguiti all’importante caso del rapimento Sossi. Gli attacchi alle sedi del Movimento Sociale, gli scontri nelle fabbriche e a San Basilio, in quel di Roma, mettono in luce un tessuto sociale spesso fatto di disperazione e di accettazione verso una organizzazione della violenza che possa definirsi resistente, nei confronti di un pericolo autoritario. Di quest’anno è il primo omicidio targato BR, in un contesto simbolico: quello di un assalto alla sede dell’MSI di Padova. Anche in questo caso può essere utile leggere la giustificazione che il gruppo compie riguardo al gesto: “Un nucleo armato ha occupato la sede del Msi a Padova. Due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati. [È] il Msi di Padova da cui sono usciti gruppi e personaggi del terrorismo antiproletario [che] hanno diretto le trame nere dalla strage di Piazza Fontana in poi. Il loro più recente delitto è la strage di Brescia... voluta dalla Dc per ricomporre le laceranti contraddizioni aperte al suo interno dalla secca sconfitta del referendum e dal caso Sossi... Le forze rivoluzionarie sono da Brescia in poi legittimate a rispondere alla barbarie fascista con la giustizia armata del proletariato”172
Primi omicidi che, come le prime azioni di stampo simbolico e non letale, vengono effettuati nell’ambito di un antifascismo militante che ricorre a mezzi come l’omicidio; si legittimano le forze rivoluzionarie ad armarsi e a colpire il fascismo, che da parte sua ha preso parte ad attentati, e a trame, che vanno a ledere la rivendicazione proletaria nel paese.173 L’azione porta con sé diversi interrogativi. Non si tratta più di sequestri, ma di omicidi, che mettono in subbuglio, e pongono diversi interrogativi, lungo tutta l’area di sinistra. L’antifascismo presente come caratteristica fondamentale anche nelle Brigate Rosse ci viene dimostrato pure cogliendo l’occasione fornitaci dall’uccisione, da parte delle Forze dell’ordine, di Walter Alasia nel 1976; data in cui le Brigate Rosse già sono attive come gruppo ricorrente anche ad azioni omicide. Abbiamo già citato l’episodio del suo funerale, ma Patrizio Peci, brigatista, ci aiuta a cogliere meglio la situazione milanese di quei giorni: “Non ho fatto niente, in quei mesi. Mi misero in casa di un tal Mario Bondesan, un ex partigiano sulla sessantina che abitava vicino all'ospedale di Niguarda. Anche la moglie faceva parte della rete d'appoggio... La conclusione di tutti i discorsi era sempre la stessa: sconfiggeremo lo Stato come abbiamo sconfitto i fascisti, ma questa volta non ci faremo fregare: i nemici al muro, mentre noi costruiremo lo Stato comunista.”174
Piena capacità, in questo caso, di identificare lo stato italiano uscito dal secondo conflitto bellico come un nemico paritario rispetto allo stato fascista. Quel “questa volta non ci faremo fregare”175 diventa emblematico: raccoglie le istanze di chi, credendo nella teoria di una rivoluzione che appare tradita, intravede la possibilità di una lotta da attuarsi ora per creare, anche in Italia, uno
stato di matrice comunista. Le Brigate Rosse non sono insensibili a queste tematiche, anzi: come nel caso di Giangiacomo Feltrinelli, la “rete d’appoggio” è composta anche da ex partigiani non rassegnatisi all’attuale stato di cose nel paese. II) Brigate Rosse, affinità nell’ideologia e nell’azione con gruppi esteri Le Brigate Rosse riescono a sopperire agli arresti anche grazie a questo, reclutando cioè nell’area dell’Autonomia operaia militanti disposti ad alzare il livello dello scontro.176 Ed è proprio dal caso Sossi che possiamo notare come le Brigate Rosse vogliano ergersi a potere antistatale; il sequestro del giudice viene effettuato, chiedendo in cambio della sua scarcerazione il rilascio dei militanti della brigata XXII ottobre. Il modus operandi rappresenta una cesura forte con altri movimenti come Potere Operaio, Lotta Continua o con le intemperanze di qualche servizio d’ordine. Viene invece mutuato un rapporto paritetico con lo stato che può essere messo in relazione all’esperienza, su tutte, dei Tupamaros in Uruguay. Nel caso Sossi, e ancor di più nel caso Moro, Le BR diventano anch’esse stato, si fanno portatrici di istanze e richieste, e trattano alla pari con il nemico. Il caso Sossi in particolare, che non si conclude con un omicidio, permetterà alle Brigate Rosse di raggiungere probabilmente il punto più alto di adesione all’interno della galassia movimentista; un gruppo che viene percepito come fortemente organizzato, clandestino, e che riuscirà a sopperire alle mancanze derivate dall’ondata di arresti che il gruppo seguirà nel 1974. 177 Il caso del sequestro del magistrato, e quello di Aldo Moro, sono simili all’azione tupamara non solo perché sono l’emblema di un gruppo armato che ha compiuto il salto di qualità, ponendosi come un interlocutore che, rispetto allo Stato, vuole farsi percepire come paritetico; ma sono il simbolo di una azione volta a svelare intrighi e commistioni tra sistema democratico e reazione nel panorama nazionale di appartenenza. Abbiamo visto in precedenza il comportamento che il MLN tenne nei casi del rapimento Mitrione e nel caso Monty; anche le Brigate Rosse, nel caso Sossi e in quello Moro, agiscono con interrogatori, verbali, tentano di infiltrarsi nelle trame di uno stato che combattono, svelandone gli intrighi, le relazioni di potere, più in generale agiscono come un tribunale che interroga chi è ritenuto responsabile di un danno arrecato al popolo. Sempre in questo tentativo di ricerca di intrighi e macchinazioni perpetrati dallo stato, possiamo leggere le “imputazioni” che vengono mosse a Sossi durante il suo sequestro, e il conseguente interrogatorio: “Sossi ha ammesso che il processo al gruppo XXII Ottobre è stato il frutto velenoso di una serie di macchinazioni controrivoluzionarie tendenti a liquidare sul nascere la lotta armata, messe in atto dalla polizia dal nucleo investigativo dei carabinieri, dai responsabili del Sid e coperte da parte della magistratura”178
Questa è la motivazione che ha indotto le Brigate al sequestro, esplicate anche dal timore di una svolta neogollista paventata da Mario Moretti; il timore, in particolare, della creazione di una repubblica presidenziale ruotante attorno a personaggi del rango di Edgardo Sogno o Randolfo Pacciardi;179 azione quasi preventiva contro un magistrato considerato di destra, per il cui rilascio si richiede la paritetica liberazione di appartenenti al gruppo XXII ottobre da rilasciare puntualmente a Cuba, Algeria o Corea del Nord. Paesi, questi ultimi, ritenuti affini,180 con una Algeria che, come abbiamo notato, viene indicata come luogo di rilascio anche nel caso coinvolgente Mitrione e i Tupamaros. La questione del rilascio fa intravedere numerosi scenari che mettono luce sul rapporto che lega le Brigate Rosse antecedenti all’ondata di arresti del 1974 e il resto della liberazione internazionale; rientra in tal caso il ruolo che Feltrinelli ricoprì nell’isola caraibica, probabilmente accennando allo stesso Castro del ruolo che formazioni come quella del
176 G. Crainz, Op. Cit. pp.486-487 177 S. Neri Serneri, Op. Cit. 172-173 178 G. Galli, Op. Cit. p.120 179 M. Moretti, Op. Cit. p.70 180 G. Galli, Op. Cit. p.120
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XXII ottobre o come le Brigate Rosse stavano giocando, o potevano giocare, sullo scenario internazionale. Il mancato rilascio dei detenuti, secondo Franceschini, è da imputare ancora una volta al ruolo giocato dal PCI e dal segretario Berlinguer, che su indicazione del ministro Taviani bloccò la possibilità che i membri della banda fossero rilasciati presso il regime cubano.181 Certamente non sono azioni paritetiche; le BR agiscono da un punto di vista strettamente operaista, il Movimento di Liberazione Nazionale Uruguayano, invece, già dal nome fa intuire un suo riferirsi ad una liberazione di tipo nazionale; sono due logiche che si assomigliano soprattutto nei modi di compiere la guerriglia e l’azione, tuttavia a nostro avviso divergono nelle finalità e anche nell’interpretazione della propaganda e dei suoi destinatari, come avremo modo di approfondire nelle conclusioni. La rassomiglianza delle azioni delle Br, di questa ma non solo, con le attività dei principali gruppi guerriglieri e di liberazione operanti in tutto il mondo, è davvero notevole, tuttavia, se confrontiamo il modus operandi brigatista con i teoremi espressi anche da Carlos Marighella, nel suo “Piccolo manuale del guerrigliero urbano”, del 1969, in cui non solo viene ribaltata la condizione del terrorista, che da condizione di discredito diventa condizione nobilitante, ma in cui vi sono consigli pratici per la perpetrazione della guerriglia urbana, secondo i metodi puntualmente sperimentati anche in Uruguay e nello scenario italiano: espropri di armi, azioni in clandestinità, assalti, rapimenti, sequestri. E’ chiara la sensibilità e il contesto in cui si inserisce l’azione brigatista.182 La stessa scelta dell’agire in completa clandestinità avviene sulla scorta degli insegnamenti guerriglieri provenienti dal Sudamerica: “La clandestinità è una condizione indispensabile per la sopravvivenza di una organizzazione politico-militare offensiva che operi all'interno delle metropoli imperialiste. La condizione di clandestinità non impedisce che la organizzazione si svolga per linee interne alle forze dell'area dell'Autonomia operaia. Oltre alla condizione di clandestinità assoluta si presenta perciò, nella nostra esperienza, una seconda condizione in cui il militante, pur appartenendo all'organizzazione, «opera» nel «movimento» ed è quindi costretto ad apparire e muoversi nelle forme politiche che il movimento assume nella legalità.”183
Si nota non solo la necessità dell’azione clandestina nelle metropoli, sulla scorta delle guerriglie internazionali, ma anche la forma di doppio livello, mutuato certamente da esperienze estere, ma che abbiamo visto essere presente anche nell’attività clandestina di gruppi reduci dalla Resistenza; nella metropoli è necessario agire in maniera clandestina; installarvisi attraverso una facciata legale, operando una guerriglia fantasma. Il caso del rapimento Sossi innescherà, proprio sulla scorta del mancato rilascio dei militanti della banda XXII ottobre, un altro omicidio, quello di Francesco Coco, ucciso nel 1976, a Genova, assieme a due agenti che componevano la sua scorta. Proprio nella rivendicazione dell’omicidio Coco, possiamo leggere delle dichiarazioni interessanti: “Nel tentativo di arginare la sua crisi, la borghesia ha accelerato la linea della crescente militarizzazione dello Stato. Incapace di controllare il movimento proletario e la sua avanguardia comunista con strumenti esclusivamente politici ha accelerato l'uso delle strutture dello Stato in chiave militare... Il tentativo di distruggere la resistenza proletaria viene completato dagli aguzzini che nelle carceri nulla tralasciano per arrivare alla distruzione fisica dei proletari detenuti.”184
Si può notare in questo caso il ritorno del concetto di militarizzazione dello stato, in contrapposizione alla capacità di resistenza di movimenti proletari; è il leitmotiv che abbiamo notato non solo in Sudamerica, ma anche nelle esperienze dei Weather Undeground e delle Black Panthers, in una repressione che si esplica anche nelle carceri, più in generale nei sistemi di coercizione fisica, ghettizzanti, come notato in maniera più sensibile nel caso riguardante Huey Newton e compagni. La sensibilità del gruppo armato italiano si può notare anche da un caso singolare ma decisivo per la storia delle Brigate Rosse, ovvero l’infiltrazione di Silvano Girotto, Alias Padre Leone o, più
181 G. Galli, Op. Cit. p.126 182 S. Neri Serneri, Op. Cit. p.351 183 Documento di rivendicazione BR, Ict. in: G Galli, Op. Cit. p.75 184 Ibidem, p.193
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comunemente, Frate Mitra, all’interno dell’organizzazione. La sua infiltrazione avviene sulla scorta di informazioni che lo vogliono come guerrigliero reduce dall’America Latina. Il vero curriculum del personaggio non viene mai controllato; non si manca però, di far notare quanto il fascino e l’attrattiva di un guerrigliero proveniente dal Sud del mondo fosse un biglietto da visita sufficiente per molte delle organizzazioni di estrema sinistra italiana, a dimostrazione di una sensibilità piuttosto forte, in tutto lo scenario della sinistra radicale italiana, verso le azioni estere;185 se non altro non si scopre che la sua infiltrazione è creata ad hoc per favorire la grande ondata di arresti del decisivo 1974, in una operazione guidata dall’antiguerriglia del Generale Dalla Chiesa; sarà proprio la fama di rivoluzionario proveniente dall’America Latina a creare una falla nell’organizzazione, permettendo l’ingresso di un uomo infiltrato; l’ingresso di Girotto, favorito, tra gli altri, anche da quel Lazagna che incontrammo trattando Feltrinelli, è esemplare della capacità di attrazione che, anche per le Brigate Rosse, potevano avere gli echi e i collegamenti con il mondo della guerriglia sudamericana.186 Proprio con un’altra azione dei Tupamaros possiamo notare un parallelismo piuttosto efficace, ovvero con il rapimento di Pereyra Reverbel. Il suo sequestro è simile a quelli operati dalle Brigate Rosse nelle fabbriche, anche nella conclusione; l’ostaggio viene rilasciato, e il suo sequestro ha una valenza fortemente pedagogica; Pereyra si occupa della caccia ai militanti sindacali, reprime le istanze proletarie nelle fabbriche: ecco che il gruppo armato interviene, lo sequestra, e detta precise condizioni allo stato per il suo rilascio. Azione esemplare, fortemente rivendicativa, collocata su un piano di giustizia parallela rispetto a quella statale, che non viene riconosciuta. Anche il rapimento di Dan Mitrione, come accennato, presenta forti analogie con azioni brigatiste; anche in questo caso la valenza è fortemente pedagogica e simbolica. Si sceglie un personaggio simbolo dell’azione estera nel paese sudamericano, lo si rapisce, si dettano precise condizioni allo stato. Così come Mitrione in Uruguay, anche Aldo Moro in Italia è un personaggio simbolico, in questo caso del compromesso storico, del matrimonio tra la sinistra e un sistema che invece essa dovrebbe ripudiare, e combattere. La giustificazione stessa dell’esecuzione ricalca pienamente l’impianto utilizzato in casa brigatista nel caso del rapimento del leader democristiano; rileggiamo l’intervista al comandante Urbano, che motiva l’esecuzione di Mitrione: “Abbiamo dato loro una scadenza, abbiamo pronunciato il verdetto e li abbiamo avvertiti che se entro questo termine i nostri compagni non fossero stati liberati o se non si fosse data una risposta alle trattative, Mitrione sarebbe stato giustiziato. Quando si giunge a questo estremo, una decisione presa da un movimento rivoluzionario deve essere attuata, soprattutto dati gli antecedenti che esistevano in questo caso. Sono queste le ragioni che hanno portato all’esecuzione di Mitrione.”187
La somiglianza con il movimento Tupamaro continua anche nell’esplicazione di una ideologia che si plasma con il riutilizzo della storia nazionale. Artigas per i guerriglieri sudamericani, simbolo della liberazione del paese; l’epopea resistenziale per il gruppo italiano. Se come abbiamo visto, specialmente nei primi comunicati brigatisti, è fortissimo il rimando all’antifascismo militante e allo spirito resistenziale, così è essenziale nel bagaglio tupamaro il rimando alla liberazione coloniale. E come in Uruguay si combatte per una seconda liberazione, in Italia lo spirito della Resistenza viene rinfocolato ancora, per continuare lungo il solco di uno spirito antifascista da esplicarsi nella lotta, nelle fabbriche e nelle metropoli; una lotta di difesa e di attacco, una lunga marcia per stanare la repressione del capitale e la violenza fascista dalla società. Rassomiglianza coi movimenti sudamericani, beninteso, che si nota anche nell’azione di altri gruppi, come quella delle Unità Comuniste Combattenti che, in quel di Roma, rapiranno un grossista di carni, chiedendo che la sua merce venga distribuita ai proletari cittadini. Il grossista verrà rilasciato, ma notiamo la similitudine nell’azione di guerriglia e di proselitismo con le azioni tupamare in
185 M. Moretti, Op. Cit. p.77 186 G. Galli, Op. Cit. p.135 187 Cfr. A. Labrousse, Op. Cit. p.207
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Uruguay.188 E’ lo stesso concetto di rivendicazione, che con le azioni delle Brigate Rosse, fin da quelle iniziali, accompagna una similitudine sempre più forte con movimenti di guerriglia extranazionali. Le BR agiscono e rivendicano ciò che compiono, le azioni sono studiate e presentate come facenti parte di un disegno più ampio; la violenza diventa organizzata, non sono azioni di corteo, attacchi generalizzati in piazza; sono azioni mirate, riconducibili ad un gruppo e alla sua ideologia politica, che si fa azione, nella metropoli o altrove. Lo strumento della rivendicazione tramite dispacci, bollettini o ciclostilati è tipica delle azioni guerrigliere nelle metropoli, e saranno le Brigate a introdurre questo strumento, su larga scala, anche in Italia.189 Pure il rapporto con la fabbrica, luogo di nascita della propaganda e dell’azione brigatista, permette di constatare che la lotta, seppure compiuta con finalità e situazioni diverse, si esplica contro un nemico che si organizza alla stessa maniera. Anche nella mera azione di procacciamento delle armi, le BR dimostrano di saper guardare all’estero; nonostante qualche interessante richiamo alla presa in consegna di armi appartenute a vecchi partigiani, o una sempre presente attenzione alle logiche delle formazioni combattenti sarde,190è più immediato e certamente comprovato il far notare come, specialmente con la successiva gestione Moretti, le Brigate sappiano trattare anche con organismi quali l’OLP palestinese, l’IRA irlandese, l’ETA basca e la RAF tedesca; quelli europei tuttavia non sono rapporti continuativi e tendenti alla creazione di una vera e propria piattaforma di lotta europea o mediterranea, spesso sono solamente abbocchi per una cooperazione di tipo logistico, con il rifornimento di armi. III) Divergenze delle Brigate Rosse con i sistemi di guerriglia internazionali e sudamericani Tra tutti gli organismi citati nelle ultime righe del paragrafo precedente, possiamo dire che i rapporti con l’OLP palestinese in particolare saranno quelli più forti, ma anche dalle memorie di questi contatti, possiamo notare una tendenza, di tipo tutto europeo, della lotta politica; ci affidiamo in particolare ad una frase di Mario Moretti: “Il capitale è uno e plurimo, ma domina popoli e movimenti con storia, cultura, condizioni del tutto differenti.”191
E’ partendo da ciò, infatti, che possiamo analizzare quelle che sono le principali differenze tra un sistema di lotta di tipo Sudamericano da quello Europeo in cui anche le Brigate Rosse si inseriscono. Se nelle lotte di liberazione come quella del MLN o quella cubana abbiamo una forte dinamica continentale, mentre in Europa non possiamo notare altrettanto. Possiamo citare il ruolo di Cuba, che come abbiamo notato è spesso fatto di coordinamento e di incentivazione alla lotta di altri paesi sudamericani; il ruolo fortemente simbolico, ma non per questo meno importante, di un combattente della fama e della caratura di Ernesto Guevara. La lotta nel vecchio continente invece si esplica in nazioni dalla storia spesso molto divergente, senza una comune base storica e rivendicativa come può essere quella della lotta al colonialismo europeo in Sudamerica; certo, le Brigate Rosse e non solo, come abbiamo notato, tenderanno a far coincidere il colonialismo con lo sfruttamento che, nei loro anni, gli Stati Uniti d’America e il sistema capitalista da loro promosso continuano ad operare anche in suolo europeo. Ma appare chiara la differenza tra le lotte, ad esempio, dell’IRA in suolo irlandese con quella delle Brigate Rosse in suolo italiano. Le Brigate Rosse, al contrario dell’ETA, dell’IRA ma anche dell’OLP (che pure maggiormente possono avvicinarsi, ad esempio, a tematiche nazionali assimilabili a quelle dei Tupamaros) non operano in un contesto di rivendicazione territoriale e nazionale, ma in un contesto di lotta politica per il comunismo, per la trasformazione delle dinamiche economiche e
188 G. Galli, Op. Cit. p.192 189 M. Moretti, Op. Cit. p.33 190 Ibidem, p.177 191 Ibidem, p.176
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sociali di un paese, la cui esistenza non viene messa in discussione. Se la storia dei movimenti sudamericani è permeata di un forte senso di liberazione derivato dalle precedenti lotte contro il colonialismo condotte nell’Ottocento, in Italia questa forma di identificazione ideologica manca totalmente; identificare, come avviene in Uruguay, il neocolonialismo capitalista con un colonialismo già sperimentato sulla pelle del paese, diventa una arma retorica ed ideologica fortemente utile e fortemente efficace; ecco il perché del tentativo tupamaro di far coincidere la lotta del MLN con quella di Artigas. In Italia ciò non può avvenire, se non attraverso un richiamo mitico e spesso distorto alla Resistenza; la lotta non è concentrata su di un concetto di patria o di dimensione nazionale e, in un certo senso, nazionalista. Le BR si inseriscono in un contesto di lotta che in certi contesti e in certe sue diramazioni può certamente essere ricondotto ad esperienze di tipo internazionale, ma viene applicato su suolo italiano seguendo delle tradizioni interamente appartenenti al bagaglio storico dell’esperienza recente: l’antifascismo militante, il conflitto contro uno stato ritenuto criminale, ritenuto diretta emanazione di potenze straniere che permettono l’insediamento, nel suo seno, di politici miranti a logiche autoritarie o di sfruttamento del proletariato. Vi è nelle Brigate Rosse un appiglio storico, quello della Resistenza e della lotta antifascista; ma è un appiglio molto più recente e, aggiungiamo, molto meno efficace, nei modi in cui è stato utilizzato, rispetto alla retorica e all’utilizzo storico dei Tupamaros. Le divergenze, e con loro delle unicità dell’esperienza brigatista rispetto a quella di liberazione nazionale sudamericana e tupamara in particolare, vi sono; vi sono soprattutto, come si accennava, nelle finalità della lotta. I Tupamaros nei loro messaggi, nei comunicati parlano di nazione. Ammettono di essere una forza composita, formata da diversissime anime; vi sono blancos, colorados, impiegati, casalinghe: una forza plurale, interessata alla riappropriazione del paese, che si trova in mani straniere. Quella del MLN è una commistione che possiamo definire nazionalpopolare; le Brigate Rosse non sono ciò, e non lo sono mai state; se la similitudine con il MLN è forte nella scelta dell’azione in clandestinità (non effettuata per esigenze di fuga, ma in senso fortemente offensivo, ricercando una collocazione ideale per esplicare la lotta), diverge il rapporto con la politica nazionale. Le Brigate Rosse non solo non saranno mai un partito, ma non ne appoggeranno alcuno; lavorano piuttosto per aumentare il livello di scontro tra proletariato e borghesia.192 E’ un soggetto che si occupa di creare le basi per un profondo rivolgimento sociale. Non c’è lo spazio nemmeno per una adesione esterna a qualche partito, o forza, come nei casi americani. E’ in questo che diverge l’esperienza brigatista, sia da quella tupamara, che soprattutto da quella delle Pantere Nere. Sempre analizzando le divergenze tra Brigate Rosse e movimenti guerriglieri internazionali, possiamo analizzare meglio proprio il caso del rapimento Moro, che assume, nella storia brigatista, le dimensioni che per il MLN ha assunto il caso Mitrione. Il caso Moro, per quanto riguarda la storia brigatista, permette di prendere atto anche della totale estraneità (a differenza di come si comporteranno poi i Tupamaros, che arriveranno a indicare addirittura una lista popolare elettorale degna di essere supportata) delle Brigate stesse nei confronti della politica. Quel che ci giunge dalle memorie del gruppo armato italiano, infatti, è il tentativo, durante i giorni del suo rapimento, dello statista della DC di identificare un possibile interlocutore da far intervenire per sbloccare lo stallo del suo rapimento. “non c’è un Longo che possa parlare con lei?”193 si sentirà dire Mario Moretti; e in effetti quel Longo non c’è, perché la storia brigatista è composta di un rifiuto totale degli spazi elettorali a disposizione, di un rifiuto sempre più forte del PCI e dei suoi esponenti parlamentari, che se nella prima fase, e in quelle BR guidate da Curcio e Franceschini non era ancora così totale e totalizzante, con il rapimento Moro e con la gestione Moretti giunge a livelli estremi, rafforzato anche dalla logica del partito delle Botteghe Oscure, forte di una piena intransigenza nei confronti del fenomeno terrorista. Le brigate si astraggono, diventano un corpo a sé, parlano con lo stato e cercano di trattare con lui da una posizione totalmente settaria, che
192 M. Moretti, Op. Cit. p.44 193 Ibidem, p.137
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denota e lascia già intravedere una sconfitta pressoché totale. Se nei Tupamaros c’è sempre la sensazione e la forte presa di coscienza di lottare per un rinnovamento profondo della politica, suffragati da un appoggio popolare piuttosto forte, e che si esplica anche in un riconoscimento, da parte dei guerriglieri uruguagi, di una piattaforma elettorale utile al cambiamento, nelle Brigate Rosse la chiusura e il settarismo saranno da un lato una forma di creazione di senso identitario, dall’altro una forma di debolezza, in una chiusura totale che finirà con il chiudere alle Brigate Rosse anche il campo d’azione all’interno di una forte (e soprattutto) efficace rivendicazione politica, che mai vi sarà. Non ci sarà nessun arcivescovado dalla parte delle Brigate Rosse, nessuna istituzione o frazione del paese realmente maggioritaria in grado non solo di difenderne le gesta, o almeno di interpretarne la lotta come un qualcosa di comprensibile o, al più, condivisibile. Il tentativo brigatista è quello di aprire una forte contraddizione nell’ambito dell’elettorato comunista; è quello di mettere “con le spalle al muro” uno dei rappresentanti politici più famosi e importanti della Democrazia Cristiana, e del governo italiano; ma anche uno dei principali artefici della strategia del compromesso storico. Anche qui, con una azione di tipo esemplare, si vuole aprire una spaccatura nel seno della società ad orientamento comunista, ma l’unica risposta che le Brigate otterranno sarà quella di rafforzare ancora di più la tendenza ormai governativa, democratica e fortemente sistemica del Partito Comunista, e anche dei suoi militanti. L’omicidio di Moro, in particolare, verrà fortemente strumentalizzato e utilizzato in chiave anti terrorista e anti brigatista. La logica del “processo al potere” nel rapimento Moro da parte brigatista è rintracciabile in ogni frammento della sua condotta.194 Un processo al potere utile a smascherare le malversazioni di un sistema di potere con il quale il PCI si sta sostanzialmente avvicinando, dimentico delle sue origini ma dimentico soprattutto, secondo l’interpretazione delle Brigate Rosse, delle origini dei suoi militanti e dell’indirizzo di questi; si ricerca in particolare un dualismo, tra una base comunista ritenuta ancora reclutabile e trasportabile su di un piano di forte radicalità, in aperto scontro con il potere da un lato e la nomenclatura delle Botteghe Oscure dall’altro. Questa scissione, questa tentativo di spaccatura in seno al partito o al paese non porterà a nessuno degli esiti che abbiamo potuto notare nel caso del rapimento di Dan Mitrione. Le BR saranno ben lungi dall’ottenere il supporto alla propria causa che il MLN, tra gli altri, seppe accattivarsi. IV) L’analisi di un militante: la storia di Prospero Gallinari. Come ultima analisi del percorso ideologico brigatista, valuteremo ora l’esperienza di un militante reggiano delle Brigate Rosse, ovvero Prospero Gallinari. Tra le molte opzioni biografiche a disposizione si è scelta questa perché riassume, in una unica vicenda biografica, un po’ tutte le caratteristiche di formazione ideologica che abbiamo fin qui incontrato: forte dimensione locale in un contesto di antifascismo storico e militante, presenza di stimoli alla lotta internazionale, formazione di una ideologia radicale e di un dissenso nei confronti del PCI inteso come partito di possibile riferimento in una ottica antisistemica, formazione di una coscienza alternativa rispetto al progressivo avvicinamento del partito delle Botteghe Oscure a logiche di governo, scelta di un percorso di lotta armata. La crescita personale di Gallinari avviene in una zona d’Italia fortemente segnata da un lato dalla forte lotta al fascismo, connotata in una profonda repulsione degli esiti che questo aveva scatenato sul piano sociale, e dall’altro da forme di rivendicazione che ancora si esplicano nel contesto di fabbrica, in cui è forte il ricordo e il patrimonio di lotte portato avanti durante il ventennio mussoliniano e, soprattutto, durante la Resistenza. Si noti la dimensione economica, quella delle Reggiane, enorme industria metalmeccanica emiliana; è nel contesto di conflittualità operaia e sindacale ruotante attorno all’esperienza in questa fabbrica che si sviluppano i primi anni di vita di Gallinari; la lotta delle reggiane verrà interiorizzata a tal punto da ritenerla una storia personale, in cui si innesta anche una coscienza di
194 M. Moretti, Op. Cit. p.160
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continuazione della Resistenza; una continuazione che anche qui, in scala ridotta e diversa, si esplica nelle industrie e nella rivendicazione; una lotta che si fa forte già a partire dalla Resistenza, con repressioni sanguinose da parte delle milizie fasciste, che spesso combattono a colpi di arma da fuoco la conflittualità presente negli stabilimenti; una storia, questa della conflittualità alle Reggiane, che affonda le sue radici ben prima della guerra di Liberazione, precisamente già dal 1919-20, con una fiera contrapposizione al nascente fenomeno fascista e, al contrario, una preferenza orientata ad Oriente, all’esperienza leninista. Durante la Resistenza, alle Reggiane si assemblano armi da fornire ai partigiani, si aiuta la guerriglia partigiana, a costo anche di numerose perdite e punizioni; dopo la fine della guerra, la forte carica di mobilitazione resta, con gli scontri datati 1950, e con la perpetrazione di una solida coscienza di classe forgiata nella fabbrica e nella sua stessa storia. Soprattutto l’efficacia della lotta e della solidarietà operaia esprime una valenza forte: l’autotassazione per supportare gli scioperi, la solidarietà orizzontale, il rapporto tra Resistenza in fabbrica e Resistenza al di fuori di essa,195 una certa mitizzazione del contesto di scontro certamente ampliano la coscienza di potere all’interno della classe operaia, fornendo, a chi si ritrova ad udire il racconto della lotta o a viverla in prima persona, la reale possibilità dell’esercizio di un contropotere operaio, rispetto alla violenza fascista o statuale. La forte esperienza ed eredità della guerra partigiana, e la presenza di suoi protagonisti in loco, permetteranno al militante emiliano di sviluppare una concezione politica arricchita da un senso di forte appartenenza politica; fin dai dieci anni Gallinari inizia a frequentare Case del Popolo, cresce a contatto con vecchi partigiani, interiorizza insomma il portato esperienziale di una storia fatta spesso di conflitto con il padronato e con le derive fasciste.196 E’ proprio dai racconti sull’esperienza del fascismo, racconti uditi da nonni, genitori, parenti di amici e amici che inizia a prendere piede una forte coscienza antifascista nel militante emiliano; un rifiuto del fascismo interpretato come rifiuto dell’autoritarismo, del sopruso, di imposizione di stili di vita, che in territorio reggiano viene rivendicato con orgoglio, e sulla scorta di battaglie efficaci; il rapporto con il nonno materno in particolare permette di rendicontare di una forte coscienza di contrapposizione tra proletariato e squadracce fasciste, una dimensione di lotta importante ed esemplare. Un rapporto di forte contrapposizione al fascismo, latente o presente che fosse percepito, che viene certamente rinfocolato dalle decisioni dei governi italiani, come nel caso degli scontri del luglio 1960, che anche a Reggio fanno sentire tutta la loro carica repressiva; il dolore per i cinque morti, la rabbia e la tensione sono palpabili; l’eredità resistenziale, la canzone di Reggio, la contemporanea comparsa di lotte popolari a livello internazionale si dimostrano essenziali in questa esperienza: “Una rabbia e un dolore che, invece, finiranno per essere un mio bagaglio, insieme alla Resistenza, ai suoi simboli epici, come la vita e la morte dei sette fratelli Cervi. Il tempo vi avrebbe aggiunto le lotte dei popoli, il Vietnam, e così via: tutti patrimoni e beni dell'uomo che ho voluto ereditare nel percorso della mia crescita umana e politica.”197
Nella stessa Reggio Emilia compaiono sempre più presenti, assieme alle rivendicazioni scolastiche e alle lotte negli istituti superiori, scritte inneggianti a Lumumba, frasi anti colonialiste e di lode verso la resistenza socialista; Gallinari non è certo insensibile a tutto ciò, e la fusione tra eredità resistenziale antifascista con la proiezione internazionalista delle lotte che infiammano gli anni Sessanta permette una evoluzione, su scala non solo personale, del concetto di Resistenza e di antifascismo. Il 1960 lascia in eredità non solo una profonda rabbia nei volti e negli animi dei proletari reggiani; permette altresì di valutare l’opera di un partito, quello Comunista, che si sta dimostrando sempre meno rivoluzionario e sempre più vicino al compiere una grande svolta, di tipo sistemico. Le
195 P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, Milano, Bompiani Overlook, 2008, pp.14-15 196 Ibidem, pp.6-7 197 Ibidem, p.17
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giornate del 1960 aprono già delle spaccature all’interno del fronte popolare, e più ancora tra militanti comunisti di formazione recente e vecchi combattenti che si sentono traditi, come traditi secondo loro sono stati gli ideali della Resistenza e gli esiti delle lotte operaie; la conflittualità si avverte tramite la repulsione per le dirigenze di impostazione secchiana, si punta il dito contro quadri di partito rei di “aver fatto carriera”; si nota come diversi comandanti partigiani o capipopolo vengano sistematicamente rimossi da ruoli di importanza non secondaria nel tessuto industriale e amministrativo, a tutto vantaggio di ex fascisti o di personale vicino al padronato. E’ da questo che si esplica una sensazione di tradimento di ideali per i quali numerosi combattenti avevano perso la vita. Da una parte la delusione dei vecchi militanti, ma dall’altra vi è la carica dei giovani di cui Gallinari fa parte; giovani che militano nelle federazioni comuniste giovanili, che sono sensibili agli echi delle rivoluzioni del Terzo Mondo delle guerriglie di liberazione, di Malcolm X, delle Pantere Nere, del marxismo di stampo americano, dell’esempio della Cina maoista e della Cuba castrista, e soprattutto della Resistenza vietnamita; una sensibilità forte che tuttavia si scontra con la linea ufficiale del Partito Comunista Italiano, che si trova spesso in posizione rinunciataria rispetto agli stimoli emergenti sullo scenario internazionale. Più forte è, su scala nazionale, il timore di golpe.198 Proprio la distanza con il PCI si acuisce grazie alle svolte internazionali. E’ sempre più forte infatti l’insofferenza, da parte di molti giovani comunisti, nei confronti della linea del partito, rinunciataria e già difficilmente ascrivibile ad un contesto di tipo comunista; esemplare è la manifestazione del ’68 a Firenze alla quale vengono chiamati a partecipare i giovani della FGCI reggiana; una fiaccolata in compagnia di militanti delle ACLI per manifestare contro la guerra in Indocina. Una manifestazione ritenuta deleteria se non altro per la vicinanza che si vorrebbe promuovere tra militanti giovanili di due forze completamente diverse, mentre in Vietnam si esplica una guerriglia di popolo. La scelta di non parteciparvi da parte della direzione giovanile reggiana porterà alla dissidenza del cosiddetto Gruppo dell’Appartamento, di cui Gallinari stesso fa parte. Il Gruppo dell’Appartamento nasce così in contrasto rispetto alle logiche riformiste della dirigenza del PCI, anche sul piano sovranazionale. Va letta in questa maniera la manifestazione, ad esempio, che i militanti dell’Appartamento assieme ad altri giovani promuovono contro la base di Miramare, nel 1969, cogliendo l’occasione della visita in Italia del presidente americano Nixon. Contro gli Yankee gendarmi del mondo199 si scatena una contestazione che, da esterna al partito e diretta contro la NATO e la sua presenza in Italia, diventa interna. La dirigenza del PCI si discosta dagli incidenti emersi nel corso della manifestazione tra forze dell’ordine e militanti, imputandoli a disturbatori esterni; ma è proprio in questo caso che i giovani estraggono le loro tessere del Partito Comunista, dimostrando che la contestazione, diretta anche alla svolta riformista del Partito, è un qualcosa di interno. Un qualcosa che nasce dalla base comunista, non da altrove. Ecco che assieme alla lotta contro l’imperialismo americano, emerge un dualismo sempre più forte tra una concezione del PCI inteso come partito sistemico, che persegue una labile via italiana al Socialismo, e una base spesso intemperante o delusa da queste svolte, interpretate come rinnegazioni. L’attività dei giovani inizia a distanziarsi da quella dei grandi del partito proprio sulla gestione dello scenario internazionale, e della collocazione in questo da parte del partito. Gli anni del ’68 e del ’69 e gli avvenimenti da essi scatenati sono figli di evoluzioni internazionali; così del 1969 è anche la scelta, da parte di Gallinari e degli altri attivisti, di affittare una mansarda, in via Emilia San Pietro di Reggio Emilia; è questo l’Appartamento, una soffitta in cui spesso si discute e ci si confronta sui temi più scottanti offerti dal presente, formandosi su Mao, Che Guevara, Fanon, sui Quaderni di Panzieri. E’ dalla sensibilità rispetto non solo alla realtà internazionale, ma anche verso le dinamiche nazionali, che il Gruppo dell’Appartamento inizia una presa di coscienza della realtà conflittuale che va sviluppandosi nella Penisola; in particolare, l’appoggio e la sensibilità dimostrati sul campo
198 P. Gallinari, Op. Cit. p.17-23 199 Ibidem, p.31
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della lotta anti imperiale internazionale, vengono riacutizzati e reimpiegati nell’analisi del contesto italiano, in cui alla forza del Movimento operaio viene opposta una reazione statale e padronale che va via via facendosi sempre più forte e spietata. E’ il 1969, iniziano le stragi, la violenza di piazza, e il discorso della lotta armata si pone, anche per il gruppo reggiano, come un argomento non più solo estero, ma anche prettamente italiano: “anche a Reggio, allevati nel mito della Resistenza tradita, pieni di ammirazione per le guerriglie del Terzo Mondo e per il coraggio vietnamita, abbiamo poche difficoltà a sintonizzarci sull'orizzonte di un progetto generale che pone all'ordine del giorno il problema dei problemi: la violenza rivoluzionaria non è un fatto soggettivo, non è un'istanza morale: essa è imposta da una situazione che è ormai strutturalmente e sovrastrutturalmente violenta. Per questo la sua pratica organizzata è ormai un parametro di discriminazione."200
Ecco che anche l’esperienza di Gallinari e dell’Appartamento coincide con una presa d’atto della situazione internazionale, fino a confluire nell’esperienza del CPM milanese. Il convegno di Costaferrata del 1970 (conosciuto come Convegno di Pecorile)nasce dopo l’incontro di Chiavari dell’anno precedente, e mette a punto l’evoluzione della lotta proletaria su scala metropolitana; un convegno organizzato da Loris Tonino Paroli e che vede l’evoluzione del CPM in Sinistra Proletaria. “lotta sociale e organizzazione nella metropoli” è il titolo dell’opuscolo che uscirà da questo confronto, in cui si affronta il tema dell’illegalità. La borghesia dopo Piazza Fontana, e assieme a lei lo Stato, pare averla accettata. La soluzione, se non si vuole cadere nel pantano riformistico, secondo i convenuti deve essere quella di una “lunga marcia rivoluzionaria nelle metropoli”. Non si può andare disarmati allo scontro con il padronato, bensì serve una organizzazione in grado di saper utilizzare la violenza a fini fortemente rivendicativi. Il rapporto tra clandestinità e legalità diventa una scelta essenziale, che sta anche alla base della separazione in seno al Gruppo dell’Appartamento. Gallinari seguirà la via più radicale, quella di una clandestinità come mezzo per esplicare la resistenza nelle metropoli, e la lunga marcia verso il potere del proletariato. L’attività di Sinistra Proletaria, che cambierà poi il suo nome in Brigate Rosse, si esplica così nelle metropoli del nord, e vede la partecipazione di Franceschini e Gallinari come membri di primo piano nelle azioni in fabbrica. L’azione brigatista viene condotta in un momento in cui lo scontro tra iniziativa operaia e reazione padronale si fa, come detto, sempre più forte. Ecco che il gruppo brigatista non resta affatto insensibile a ciò, ed è del 1971 una analisi sulla situazione e sulle prospettive della lotta metropolitana: “Nella situazione italiana assistiamo infatti alla formazione di un blocco d'ordine reazionario quale alternativa al centro-sinistra. Esso prospera sotto le bandiere della destra nazionale e tende a riassicurarsi il controllo della situazione economica e sociale e cioè alla repressione di ogni forma di lotta rivoluzionaria ed anticapitalista. [...] È un dato di fatto incontestabile che questo disegno repressivo per ora si estende e mira non tanto alla liquidazione istituzionale dello Stato 'democratico' come ha fatto il fascismo, quanto alla repressione più feroce del movimento rivoluzionario. In Francia il 'colpo di stato' di De Gaulle e l'attuale 'fascismo gollista' vivono sotto le apparenze della democrazia. Nei tempi brevi questo è certamente il modello meno scomodo. Sarebbe però ingenuo sperare in una stabilizzazione moderata della situazione economica e sociale in presenza di un movimento rivoluzionario combattivo.”201
Lotta nelle metropoli e lotta al gollismo, e al fascismo. Su questa strada proseguiranno le Brigate Rosse, come abbiamo potuto notare in precedenza, in un mix di tradizione antifascista italiana e stimoli extranazionali. L’azione del rapimento Sossi, come abbiamo fatto notare in precedenza, è forse quella che più si avvicina, nella sua esecuzione e nei suoi esiti, alle azioni delle guerriglie sudamericane, tuttavia il suo portato in termini di arresti e repressione infligge all’organizzazione un colpo non secondario, con gli arresti di Franceschini e Curcio. E proprio dalle memorie di Gallinari ci giunge anche la reazione interna, sia nel senso di gruppo che nel senso prettamente carcerario, che i militanti catturati danno del rapporto tra giustizia dello Stato e rivoluzione brigatista. Si nota come all’interno della dimensione carceraria stessa cresca l’aspettativa nei confronti di gruppi rivoluzionari, ma si nota soprattutto, anche qui, un atteggiamento rivolto alla
200 P. Gallinari, Op. Cit. p.42 201 Ibidem, pp.57-58
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negazione stessa del concetto di giustizia come legalità statuale. Al maxiprocesso, scatenatosi contro le Brigate Rosse a Torino in seguito agli arresti post-rapimento Sossi, le BR attingeranno da “La strategia del processo politico” di Jacques Vergès e sul processo di rottura. L’analisi del testo pone in evidenza il comportamento tenuto, tra gli altri, da attivisti del MLN algerino nei confronti della giustizia coloniale francese. Un atteggiamento di completo disconoscimento dell’autorità statale, un atteggiamento che vede l’imputato presentarsi come un soggetto appartenente ad un altro ordine politico, scollegato da quello statuale. Nasce così un concetto di guerriglia anche interna alle istituzioni, volta a disconoscere il sistema legale con il quale le Brigate Rosse vengono giudicate.202 Le azioni brigatiste, e con esse la militanza di Gallinari, non si fermano al caso Sossi, proseguono con l’altro grande sequestro su scala nazionale, quello di Aldo Moro. Anche in questo caso si nota, e lo possiamo fare seguendo la biografia di Gallinari, l’identificazione della Democrazia Cristiana come un qualcosa che, similmente ad una piovra, si impossessa dei gangli dello stato, dirigendoli a suo piacimento. Una forza conservatrice, antiproletaria e collusa con l’imperialismo statunitense, una forza che va punita esemplarmente, come possiamo notare dalla risoluzione strategia del 1975: “La DC non è solo un partito ma l'anima nera di un regime che da 30 anni opprime le masse operaie popolari del paese. Non ha senso comune dichiarare la necessità di battere il regime e proporre nei fatti un 'compromesso storico' con la DC. Ne ha ancora meno chiacchierare su come 'riformarla'. La Democrazia Cristiana va liquidata, battuta e dispersa. La disfatta del regime deve trascinare con sé anche questo immondo partito e l'insieme dei suoi dirigenti. Come è avvenuto nel '45 per il regime fascista e per il partito di Mussolini. Liquidare la DC e il suo regime è la premessa indispensabile per giungere ad una effettiva 'svolta storica' nel nostro paese. Questo è il compito principale del momento!”203
Le BR che escono dal sequestro Sossi continuano a puntare il dito contro la reazione e contro il gollismo; continuano, in senso lato, a identificare l’attuale stato con un regime dittatoriale e autoritario, arrivando ad equiparare sostanzialmente la Democrazia Cristiana al fascismo e al regime mussoliniano. Si notano insomma, nella vicenda storica delle Brigate Rosse vissuta in primo piano da Prospero Gallinari, tutte le caratteristiche di nascita e sviluppo ideologico che si è voluto sottolineare in questa trattazione. Stimoli conferiti dal contesto di nascita del militante, forniti da miti storici appartenuti e appartenenti alla propria nazione e alla sua storia recente, perfezionati dalla congerie geopolitica internazionale che non manca di scatenare, in seno alla militanza comunista, grossi interrogativi non solo sulla direzione e la giustizia delle lotte che si esplicano nel contesto mondiale, ma anche sull’atteggiamento che il Partito Comunista ha nei loro confronti. Notiamo come il carattere fortemente singolare ed esemplare delle stragi giochi un ruolo di primo piano nel convincimento di uno Stato che si sta sempre più inclinando su di un piano di reazione, o di deriva autoritaria, e di come questo giochi un ruolo fondamentale nell’accezione sempre più antisistemica che i militanti radicali vanno sviluppando. Cercheremo ora di trarre delle conclusioni riguardo tutte le analisi fin qui svolte, e più in generale sul tema della trattazione nel suo insieme.
202 P. Gallinari, Op. Cit. pp.78-79 203 Ibidem, p.98, nota 81
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Conclusioni In questo viaggio lungo i percorsi di nascita di una ideologia della lotta armata in Italia, basatosi molto su di un percorso di ricerca ed elaborazione personale dell’autore, si è potuto notare quali sono stati gli stimoli esteri che hanno contribuito a formare il tessuto ideologico delle Brigate Rosse e di altri numerosi gruppi appartenenti alla galassia movimentista e/o armata fiorita in Italia negli anni Sessanta e Settanta. Come abbiamo notato è stato possibile far emergere delle similitudini non solo dal punto di vista delle tecniche di organizzazione e di azione, ma soprattutto dal punto di vista della crescita ideologica, che non avviene su di un piano internazionale fatto di compartimenti stagni, ma che paradossalmente proprio grazie alla grande possibilità comunicativa offerta da un mondo avviato verso lo sviluppo di una rete di comunicazione globale, avviene in uno scenario spesso osmotico e di compenetrazione tra contesti locali, nazionali, continentali e internazionali. Sarebbe stato errato il proporre un parallelismo pieno con gruppi armati sorti in altri contesti statali, anche perché è un tema di questa trattazione, al contrario, il valutare in maniera forte quelli che sono gli stimoli offerti dalla storia del singolo paese di riferimento; e di stimoli, nell’Italia del periodo da noi analizzato, ve ne sono davvero molti da far emergere, come si è tentato di fare con alcune delle tematiche più interessanti e più inseribili in questo lavoro. Una discreta attenzione si è voluta dare anche alle forme di espressione popolare più prossime all’esperienza quotidiana di quegli anni; dagli slogan agli inni di lotta, ai motti dei movimenti, passando per il ruolo che una industria in pieno sviluppo e certamente importante nella vita culturale del paese, come quella cinematografica; interessante vedere come, anche in questo caso, si prosegua su di un piano di commistione tra stimoli internazionali e nazionali, con la produzione di pellicole ispirate ai contesti di lotta, e alle ideologie, che animavano e potevano animare la penisola. E’ interessante fornire una chiave di lettura, anche in questo caso, piuttosto trasversale; un West, un Nord America che viene riscoperto in casa, precisamente nel Sud Italia, percepito come lontano dai centri di governo, refrattario all’autorità e depauperato, nel quale possono innestarsi riflessioni sulla differenza tra legalità e giustizia, tra giusto e sbagliato, tra azione e inazione, accettazione e resistenza; e una riflessione, d’altro canto, sulla guerriglia metropolitana che non manca di offrire valide occasioni di spunto tra le esperienze, questa volta, del Sud America che lotta per la liberazione dal pressante giogo statunitense, e dei grandi centri industriali del Nord Italia, coinvolti in un processo di trasformazione sociale e politica piuttosto forte. L’analisi qui svolta ha cercato di mettere in relazione il mondo della guerriglia americana con i fenomeni di guerriglia italiani, da un punto di vista ideologico e anche operativo. Le divergenze che abbiamo potuto notare e far emergere, divergono soprattutto nella direzione che le varie lotte poi hanno intrapreso. La divergenza dall’ottica di stampo spesso nazionalpopolare tupamara, dall’appoggio politico che essa, e le Black Panthers, hanno saputo ottenere e ricevere; dalla divergenza dello scenario di lotta italiano rispetto a quello americano, dalla mancanza, da parte delle Brigate Rosse, anche di un lavoro di analisi storica basata sulle vicende dell’Italia come stato nazionale; dalla sostanziale scarsità dell’ottica separatista o secessionista, al contrario di quello che accade con i gruppi made in USA, nelle principali vicende dei gruppi di fuoco della sinistra radicale italiana. Una via, quella del separatismo in salsa anti imperiale e socialista, che non manca di accattivarsi attenzioni e simpatie anche da un personaggio come Giangiacomo Feltrinelli; ma che una sua estraneità rispetto alle logiche di lotta metropolitana perseguita da gruppi come le Brigate Rosse faranno spesso accantonare. I destini stessi divergono: le BR sostanzialmente non usciranno mai da una ottica di resistenza settaria, finendo, per stessa ammissione dei loro protagonisti, per arginarsi su di un piano di completo scollegamento non solo rispetto alla vita istituzionale del paese, ma rispetto soprattutto alla classe operaia e ai movimenti popolari.204 Abbiamo visto come gli altri movimenti europei, principalmente l’ETA e l’IRA, agiscano da un
204 M. Moretti, Op. Cit. p.168
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punto di vista di rivendicazione territoriale, potremmo dire nazionale, in maniera più vicina ad esperienze come quella tupamara, e più assimilabili ad una ottica di liberazione. Questi partiti saranno anche in grado di avvicinarsi a partiti politici, di traslare anche su scala elettorale, come abbiamo notato per l’Uruguay e anche per le Black Panthers, un appoggio che se non sarà totale e pienamente scevro di continuazioni rispetto al piano di lotta armata, certamente aiuterà questi movimenti ad evitare una astrazione senza sponde, alla quale al contrario andranno incontro le Brigate Rosse. Le BR non avranno nessun Sinn Féin, nessun Herri Bata-Suna, nessun Frente Amplio. Rimarranno una cometa nella galassia armata italiana, che più che aprire una contraddizione costruttiva in seno allo scenario della sinistra italiana, si avvieranno a crearne una distruttiva, arrivando a colpire, come in quello che sarà l’emblematico caso dell’omicidio di Guido Rossa, quegli stessi militanti dei quali cercava di accattivarsi l’appoggio.205
205 M. Moretti, Op. Cit. p.183, P. Gallinari, Op. Cit. pp.201-202
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Appendice fotografica
Fig.1, Raul Sendic, in occasione del rapimento Mitrione.
Fig.2, Bobby Seale e Huey Newton, armati.
Fig.3, Giangiacomo Feltrinelli.
Fig.4, Il Corriere della Sera riporta la notizia della strage di
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Piazza Fontana.
Fig.5, Mario Sossi, durante il suo rapimento ad opera delle Brigate Rosse.
Fig.7, Prospero Gallinari.
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Bibliografia: - Bermani, C. La Volante Rossa, Vicenza, Associazione Culturale 1° maggio, 1998 - Crainz, G. Il paese mancato, Roma, Donzelli, 2003 - Cuminetti, M. La teologia della liberazione in America Latina, Bologna, Borla, 1975 - De Luna, G. Le ragioni di un decennio, Milano, Feltrinelli, 2009 - Fisher, A. Radical Frontiers in the Spaghetti Western, Londra, IB Taurus 2011 - Galli, G. Storia del partito armato 1968-1982, Milano, Rizzoli, 1986 - Gallinari, P. Un contadino nella metropoli, Milano, Bompiani Overlook, 2008 - Labrousse, A. I Tupamaros, la guerriglia urbana in Uruguay, Milano, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1971 - Marine, G. Black Panthers: storia delle Pantere Nere, Milano, Rizzoli, 1971 - Moretti, M. Brigate Rosse, una storia italiana, Milano, Anabasi, 1994 - Neri Serneri, S. Verso la lotta armata, Bologna, Il Mulino, 2012 - Weathermen Prateria in fiamme, Milano, Collettivo editoriale Librirossi, 1977 - Zavoli, S. La notte della Repubblica, Roma, Arnoldo Mondadori Editore, 1992