Libia 1911 - Europa 1914 (parte III)
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Libia 1911 - Europa 1914 (parte III)Luigi Copertino 29 Agosto
2011
La Libia ottomanaLa Libia, come la conosciamo oggi, in effetti
una
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realizzazione del colonialismo italiano. Lo stesso nome di Libia
una riesumazione del nome che greci e romani avevano dato a
quellarea centrale del nord Africa. La Libia ottomana, invece, era
costituita di tre province corrispondenti a ben precise identit
tribali arabe e berbere: la Tripolitania, la Cirenaica ed il
Fezzan. Si tratta di trib, in particolare quella tripolitana e
quella cirenaica, tra loro da sempre rivali e la cui identit non
mai venuta meno n in et coloniale italiana n con lindipendenza
prima sotto la monarchia senussita e poi sotto il regime di
Gheddafi. Sono le stesse che oggi si contendono il potere nella
guerra civile scatenatasi soprattutto per opera della NATO. Elevata
nel 1835 a provincia dellimpero ottomano, la Libia era retta da un
governatore (val). Ma il potere effettivo semi-autonomo era
esercitato dalla trib senussita, originaria delloasi di Giarabub. I
senussiti si erano stanziati nei pressi di quelloasi quando da
pastori si erano trasformati in agricoltori
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facendo, cos, fiorire un regno feudale in pieno deserto. Tale
regno, ufficialmente tributario della sublime porta, era governato
dai discendenti di Ibn Abi, detto, appunto, Senussi. Quando gli
inglesi occuparono Egitto e Sudan, la capitale del regno senussita,
Giarabub, venne a trovarsi troppo vicina ai confini e fu spostata
nelloasi di Cufra. Come vedremo, questa particolare situazione di
semi-autonomia politica ingann il governo italiano che pens alla
popolazione araba come ad un possibile alleato anti-turco in grado
di facilitare loccupazione coloniale della Libia. La stampa
italiana molto insistette su questa falsata descrizione degli
effettivi sentimenti degli arabi libici nellintento di far passare,
nellopinione pubblica, lidea per la quale limpresa coloniale si
sarebbe risolta in una passeggiata (un motivo propagandistico,
questo delle passeggiate, che purtroppo ritroveremo anche nella
storia italiana successiva). Ma cos non fu perch, al contrario
delle aspettative, gli arabi ed i berberi si dimostrarono fedeli,
soprattutto in nome della comune religione, alla sublime porta e,
anche quando questultima fu costretta a cedere alla, invero
resistibile, potenza militare italiana, le popolazioni libiche
continuarono la loro guerra di resistenza anticoloniale che si
trascin, con fasi alterne, fino agli anni 30 del XX secolo. Quello
di utilizzare lostilit araba alla dominazione turca era, del resto,
un metodo che anche lInghilterra con Lawrence dArabia avrebbe
praticato.
LItalia post-unitaria nel contesto europeoLItalia del primo
Novecento era uno Stato giovane, di recente e contraddittoria
formazione. Subito dopo lunificazione statuale, la politica
italiana oscill tra il rapace fiscalismo della Destra Storica, a
danno dei pi deboli (tassa sul macinato), congiunto allossessivit
del mito del pareggio di bilancio, e la moderata propensione
riformatrice della Sinistra Storica. Non si trattava, per, di
diverse scuole ideologiche ma semplicemente dellanima pi
conservatrice e di quella pi progressista del liberalismo che aveva
guidato la Rivoluzione risorgimentale. Il socialismo italiano era
al di l dal comparire ancora confuso come era con la sinistra
democratico-mazziniana tenuta ai margini della vita politica
nazionale.
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Sia la Destra che la Sinistra storica erano accomunate da una
forte avversione al Cattolicesimo, identificato con loscurantismo
papista e la reazione borbonica in agguato. Ne segu la dura
repressione dellinsorgenza popolare nelle regioni meridionali (il
cosiddetto brigantaggio). Quando, pi tardi, comparvero sulla scena
politica i socialisti, ancora pi a sinistra dei mazziniani, la
classe dirigente liberale inizi a temere erano gli anni della Rerum
Novarum e della Chiesa che, sancendo un movimento sociale cattolico
gi in atto da almeno un secolo, scendeva a fianco degli operai
contro il liberismo una possibile alleanza tra cattolici e
socialisti. Unalleanza che, per, era solo nelle paure dei liberali,
in quanto, dati i diversi presupposti, tra cattolici e socialisti
non vi sarebbero mai potute essere alleanze dottrinali ma solo
semmai strategiche. Il timore del complotto rosso-nero, spinse lo
Stato liberale ad usare la mano forte contro i dissidenti: lesito
pi tragico furono i fatti della Milano del 1898, quando il generale
Bava Beccaris, poi insignito per questo di medaglia al merito da
parte di re Umberto (che in tal modo firm la sua condanna a morte
per mano dellanarchico Bresci), fece cannoneggiare gli scioperanti
cattolici e socialisti. Seguirono molti arresti tra i capi degli
uni e degli altri. Anche don Albertario, sacerdote tradizionalista
intransigente e direttore di un giornale vicino agli operai, fu
tradotto nelle patrie galere. Per evitare di dover fronteggiare due
opposizioni, i liberali, con Giolitti (1), iniziarono a cambiare
registro, tentando con seduzioni di accomodamenti sia i cattolici
che i socialisti. Se nei confronti di questi ultimi si corteggi
lala moderata e riformatrice, loperazione nei confronti dei
cattolici fu condotta tramite gli uffici del Gentiloni, un
nobiluomo, con buone entrature in Curia, cui Papa Pio X aveva
affidato la missione di costituire lUnione Elettorale Cattolica
Italiana con lo scopo di indirizzare il voto cattolico verso
obiettivi confacenti. Con il cosiddetto Patto Gentiloni, stipulato
poco prima delle elezioni del 1913, lo Stato liberale, spaventato
dallavanzata del Quarto Stato, si appell ai cattolici agitando lo
spauracchio del socialismo ateo. La Curia, in quelloccasione, cadde
nel tranello ed incaric Gentiloni di formare, per le elezioni (era
ancora formalmente in vigore il non expedit), comitati
elettorali
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cattolici che convogliassero il voto cattolico verso quei
candidati liberali e moderati che si impegnavano a rispettare certi
temi di carattere religioso e ad opporsi a leggi anticlericali. Nei
sette punti che il Gentiloni faceva sottoscrivere ai candidati
liberali che ambivano al voto cattolico vi erano per anche due
punti, il quinto ed il sesto solitamente trascurati dagli attuali
lodatori della politica catto-liberale gentiloniana: lodatori che
ne vorrebbero una riedizione in chiave berlusconiana , che
imponevano limpegno per il diritto di parit alle organizzazioni
economiche e sociali, indipendentemente dai principi sociali e
religiosi ai quali esse si ispirano (leggasi: riconoscimento dei
sindacati cattolici) e limpegno per una migliore salvaguardia ed
applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali
(leggasi: leggi a tutela delle classi pi deboli e di freno al
liberismo). Il mondo dellintransigentismo cattolico fu
definitivamente travolto dalla svolta gentiloniana perch divenne
palese la sua divisione interna, gi da tempo serpeggiante, tra
coloro che, temendo il nuovo arrivato socialista, aderirono alla
prospettiva del Patto Gentiloni e coloro che invece, guardando al
socialismo come alla nemesi storica del liberalismo, si spinsero
sulla via del catto-progressismo ante litteram. In ogni caso,
lallargamento della base elettorale, concessa da Giolitti, fu
loccasione per i cattolici di rendersi gradualmente autonomi e di
superare anche lesperienza del cattomoderatismo verso la formazione
di una forza autonoma, quale pi tardi fu il PPI di Sturzo con tutte
le conseguenze che limpostazione a-confessionale di tale partito
avrebbe avuto nella secolarizzazione dellimpegno politico dei
cattolici. Se questo, in sintesi, era il panorama interno, sul
piano internazionale lItalia, agli inizi del Novecento, era parte
di quel sistema di alleanze noto come Triplice Alleanza, insieme
alla Germania Guglielmina ed allantica rivale lAustria-Ungheria.
Questa collocazione internazionale aveva motivazioni sia politiche
che economiche. Dopo il fallimento sempre pi evidente del
liberalismo ottocentesco, il nuovo Stato unitario, alle prese con i
suoi gravi problemi interni, aveva subto una svolta in senso
autoritario per iniziativa di Francesco Crispi, il quale pur
provenendo dalle fila dei mazziniani si era avvicinato ai circoli
moderati e filogovernativi. Non si pensi, per, che Crispi avesse
tradito i suoi ideali unitari democratici. In realt con lui si
rivel il
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possibile esito pre-totalitario che il democratismo giacobino e
mazziniano cova nel suo seno. Lautoritarismo crispino non era di
vecchio tipo ma tendeva ad irreggimentare la nazione in una
coesione sociale forte che, inevitabilmente, prevedeva anche la
graduale integrazione delle masse popolari nella compagine
unitaria. Per certi versi, e fatte le debite differenze, Crispi fu
il Bismarck italiano. Negli anni della dittatura liberale di Crispi
vennero rafforzati i legami economici della penisola con il mondo
mitteleuropeo e germanico in particolare. Il capitale tedesco
controllava gran parte dellapparato industriale e finanziario
italiano. Al contempo Crispi diede impulso, mediante una accorta
politica protezionista, alla nascita di un capitalismo nazionale,
favorendo, anche allestero, le iniziative del capitale italiano. In
tal modo lItalia post-unitaria si trov nel bel mezzo della corsa
alla colonizzazione che, a partire con pi intensit dalla seconda
meta del XIX secolo (ma i prodromi risalgono gi allet napoleonica),
avevano da tempo intrapreso tutte le potenze europee, ad eccezione
dellAustria asburgica e, in parte, della Russia zarista (se non si
vuol considerare colonialismo il suo espansionismo asiatico che
port limpero zarista a scontrarsi nel 1905 con la nascente potenza
nipponica del Sol levante, un impero antico questultima che si era
modernizzato, a partire dallet Meij ossia dalla seconda met del
secolo XIX, per sfuggire al destino coloniale cui invece non riusc
a sottrarsi laltro impero tradizionale asiatico: quello cinese).
LItalia, nellultima parte del XIX secolo, aveva gi intrapreso la
sua avventura coloniale, a dire il vero in modo non esaltante. Dopo
aver posto i primi approdi coloniali a Massaua, in Eritrea, ed in
Somalia, iniziando la graduale penetrazione verso linterno, lItalia
fu fermata dal vecchio impero etiopico quello il cui sovrano,
Menelik II, si considerava discendente della regina di Saba e di re
Salomone che le inferse due durissime sconfitte a Dogali nel 1887,
per mano del ras etiope Alula, e ad Adua nel 1896. Il clamore
internazionale della disavventura coloniale italiana fu assordante
ed il nostro Paese ne usc con le ossa rotte e dovette, per il
momento, abbandonare la propria aspirazione a diventare una grande
potenza coloniale (2).
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Pu sembrare strano che lEuropa delle rivoluzioni liberali
ottocentesche, le quali inneggiavano alla libert dei popoli, si
lanciasse, subito dopo, nella colonizzazione di terre altrui, alla
ricerca delle materie prime a buon prezzo per lindustria nazionale.
Ma chi ben consapevole che, in realt, le parole dordine del
liberalismo, ieri come oggi, nascondono sempre menzogne eclatanti
non pu meravigliarsi che linvocata libert dei popoli
dalloppressione delle antiche monarchie era solo lo specchio per
allodole della volont di potenza di unEuropa che, girate le spalle
alla sua antica forma cristiano-apostolica, stava approdando nel
porto dellOccidente il cui baricentro, anche se a quellepoca non
era ancora chiaro a nessuno, era, ed , oltre Atlantico.
Limperialismo colonialista aveva, del resto, le proprie radici
nello stesso liberalismo sette-ottocentesco. Lidea di nazione,
infatti, oltre ad essere una invenzione ideologica moderna, stata
il grimaldello per scardinare luniversalit cristiana medioevale,
chiudendo ai popoli le vie verso lAlto in nome del principio
superiorem non recognoscens con il quale le monarchie nazionali
assolute del XVI secolo si resero indipendenti da Papato ed Impero,
per poi, in una fase storica successiva, aprire, mediante la
fessurazione verso il basso della corazza statuale delle singole
nazioni moderne, la strada alla realizzazione di un nuovo ed
equivoco (anticristico?) universalismo ossia allattuale
globalizzazione. Questo spiega lintima connessione che sussiste, al
di l delle differenze formale ed esteriori, tra il nazionalismo
liberale ottocentesco e quello antiliberale dei fascismi
novecenteschi. Let del colonialismo, daltro canto, si present, tra
fine XIX ed inizio XX secolo, come il primo tentativo di
globalizzazione economica. Proprio il caso italiano ne costituisce
prova irrefutabile. Quando si intraprese la spedizione in Libia,
molte furono le voci di dissenso tra gli eredi degli ideali
risorgimentali, i quali lamentavano che lItalia, dopo aver lottato
per la sua libert, andava ora attentando alla libert altrui. Ma
costoro non avevano affatto compreso la natura di quel processo
unitario al quale avevano, pur idealisticamente, partecipato. Luigi
Carlo Farini, luomo di Cavour che depred il ducato di Modena non
appena fu annesso al Piemonte sabaudo, giunto nel Meridione
dItalia, strappato ai Borboni, scriveva, il 27 ottobre 1860, al
primo ministro sardo, con larroganza di chi si sente
antropologicamente superiore: Altro che Italia! Questa Africa, i
beduini a
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riscontro di questi caffoni, son fior di virt civile (3).
Lideologia anti-terronista era evidentemente gi presente nei
vertici politici e militari sabaudi. In tal senso non si lontano
dal vero nellaffermare che, in un certo modo, lavventura in Libia
rappresent la continuazione di unoperazione coloniale, verso sud,
che era gi stata intrapresa nel 1860 ai danni delle popolazioni
meridionali della penisola italiana. Del resto, in entrambi i casi
la colonizzazione fu realizzata, in nome del progresso e della
liberazione del presunto popolo oppresso, sulla pelle di una antica
forma tradizionale di governo: la monarchia borbonica, in un caso,
e limpero della sublime porta, nellaltro.
I rapporti tra lItalia e la Libia ottomanaLapertura nel 1869 del
canale di Suez in previsione della quale lInghilterra appoggi nel
1860 limpresa garibaldina nellintento di assicurarsi nellItalia
meridionale una testa di ponte sotto una dinastia pi affidabile,
per gli interessi inglesi, di quella borbonica fece riacquistare al
Mediterraneo molta dellimportanza che aveva perso, nellet
post-medioevale. Il canale, infatti, permetteva il collegamento
rapido dellEuropa con lOceano Indiano e dunque con lAsia estrema ed
il Pacifico, baipassando lAtlantico. Fondamentale diventava, ora,
il controllo delle vie di accesso al canale e lItalia veniva per
questo a trovarsi in una situazione geopolitica strategica. Si
trattava, per lInghilterra ma anche per la Francia, di impedire che
luna e laltra sponda, quella europea e quella nord-africana, dalle
quali era possibile controllare il traffico marittimo nel
Mediterraneo centrale ed orientale, venissero a trovarsi nelle
stesse mani. Per questo motivo, lInghilterra si oppose sempre alle
aspirazioni italiane verso la Tunisia, Paese che contava la
presenza di una considerevole colonia di italiani, e quando Tunisi
fu occupata nel 1881 dalla Francia, con laccordo inglese, lItalia
dovette inghiottire lamaro rospo. Con la Tunisia in mano francese e
lEgitto in mano inglese, allItalia non restava che mirare, per le
sue ambizioni coloniali, alla Libia ottomana. Il nostro Paese era
alleato della Germania e dellAustria ma continuava ad
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avere rapporti, ufficiosi e spesso ufficiali, anche con
Inghilterra, Francia e Russia, in quello che la diplomazia
dellepoca amava chiamare il concerto delle potenze europee e che,
al ritmo dei balli parigini del can can, sembrava volesse
preannunziare, nellequilibrio dei rapporti di forza, let del
progresso infinito promesso dalla Belle Epoque. La Turchia ottomana
invece, sotto la pressione delle rivendicazioni russe verso i
Balcani, si stava allontanamento dagli antichi alleati del tempo
della Guerra di Crimea, Francia ed Inghilterra, per avvicinarsi,
data lalleanza anglofrancese con la Russia zarista, a Germania ed
Austria, a loro volta, per, alleate dellItalia che non faceva
mistero delle sue ambizioni libiche. Nel 1908 i Giovani Turchi
avevano saldamente conquistato il potere instaurando una monarchia
costituzionale ed intraprendendo una politica modernizzatrice che
per era anche fortemente nazionalista e quindi profondamente
diversa dallo spirito plurinazionale dellantico impero. Questa
svolta politica non poteva non entrare in rotta di collisione con
le aspirazioni italiane in Libia. Da almeno un decennio, infatti,
la penetrazione economica del capitale italiano in Libia era un
dato di fatto. In particolare era il Banco di Roma, espressione di
una certa finanza cattolica, spesso ecumenicamente compromessa con
la finanza massonica, ad avere molti interessi in Tripolitania
avendo finanziato diverse imprese italiane che operavano in quella
terra o che vi si erano installate. La propaganda nazionalista dei
Giovani Turchi fece dellopposizione alla penetrazione coloniale
italiana il suo cavallo di battaglia e, una volta al potere, i
nazionalisti dunmeh iniziarono una politica di freno e di intralcio
verso le iniziative economiche italiane in Libia. Ogni impresa con
capitale anche parziale italiano era vessata in mille modi dal
governo turco. Questo naturalmente provoc forti tensioni con
lItalia. Il ripetersi di vari incidenti diplomatici e militari,
mobilit lopinione pubblica italiana rafforzando da un lato i
sentimenti nazionalisti e dallaltro lostilit anti-turca. Solo pochi
sfuggirono al clima da crociata che infiamm lopinione pubblica
nazionale. Un clima incoraggiato dal governo di Giolitti. Tra quei
pochi Gaetano Salvemini, che defin la Libia uno scatolone di
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sabbia (nessuno allepoca, n in et fascista, sospettava del
petrolio nel sottosuolo libico), e Leone Caetani. Tre erano le
correnti di opinione mobilitate, in quegli anni, sulla questione
libica. Esse rappresentavano i maggiori movimenti della vita
politica italiana, tutti critici, per motivi differenti, verso il
regime liberale di Giolitti.
Fronte interno ed opinione pubblica italianaNel 1910 era nata
lAssociazione Nazionalista Italiana. Essa raccoglieva importanti
nomi di intellettuali, filosofi, giuristi ed economisti, tra i
quali Luigi Federzoni, Enrico Corradini, Francesco Coppola, Roberto
ForgesDavanzati, Alfredo Rocco. I nazionalisti, pur considerandosi
gli eredi del Risorgimento liberale, tuttavia avevano sposato sia
la tesi comtiana per la quale le nazioni attraversano fasi
organiche, di ascesa collettiva, e fasi disorganiche, di decadenza
individualista, sicch lo Stato autoritario avrebbe dovuto
riorganizzare la nazione in una forma politica ed economica
organica, mediante la collaborazione di classe ed il ripudio del
liberismo economico in favore del dirigismo e del protezionismo,
sia, come corollario della prima, laltra tesi, darwiniana,
dellimperialismo e della potenza come legge fondamentale nella
lotta per la sopravvivenza tra i popoli. La nazione per essi era
certamente un dato culturale ma congiunto strettamente con quello
etnico. Ripudiarono, come si detto, il liberismo, in nome del
dirigismo e del protezionismo, e si fecero fautori del
corporativismo di Stato, gerarchico ed integratore, in senso
interclassista, delle masse operaie nella nazione, al fine di
aumentare il benessere e la potenza italiana. Per i nazionalisti
solo in un quadro organicamente nazionale sarebbe stata risolvibile
la questione sociale ed operaia agitata dal socialismo, al quale
essi guardavano ad un tempo con diffidenza e con simpatia. Il loro
organo di stampa, LIdea Nazionale, fu in prima linea nella
propaganda in appoggio allimpresa coloniale in Libia e dunque alla
guerra contro la sublime porta (a sua volta ormai politicamente
prigioniera dei fratelli ideologici dei nazionalisti italiani,
ossia i Giovani Turchi). Per i
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nazionalisti italiani quella impresa avrebbe significato non
solo il riscatto di Adua ma anche lapertura di grandi spazi
economici per il lavoro italiano e, soprattutto, la consacrazione
definitiva, messa in discussione dai disastrosi precedenti
coloniali, dellItalia come grande potenza. I nazionalisti
confluiranno, pi tardi, nel fascismo costituendone lanima di
destra. Il cattolicesimo politico italiano, come si gi detto, a
conseguenza della politica di abbandono dellintransigentismo, che
avrebbe portato al Patto Gentiloni del 1912/13, e a causa
dellallargamento della base elettorale, era al crocevia tra
catto-moderatismo e catto-democratismo. Come purtroppo spesso
accaduto nella loro storia, ed accade anche oggi, i cattolici, in
occasione dellavventura coloniale libica, si fecero improvvidamente
strumentalizzare in funzione di disegni geopolitici a loro
estranei. La stampa cattolica si lanci compatta in una campagna di
propaganda a favore delloccupazione coloniale della Libia, sia in
appoggio agli interessi, alquanto sospetti, del cattolico Banco di
Roma, sia per dimostrare al governo ed alle altre forze politiche
laffidabilit nazionale dei cattolici dopo la crisi risorgimentale
(un atteggiamento di apertura, questo, verso lo Stato unitario che
contribu a preparare il terreno alla Conciliazione del 1929), sia
in nome della crociata contro il secolare nemico turco della
Cristianit. Persino Luigi Sturzo, futuro fondatore del Partito
Popolare Italiano, inneggi alla guerra santa per la civilt
cristiana. Come si vede, sotto questultimo aspetto, i cattolici di
inizio XX secolo stanno ripetendo, con la loro maldestra
islamofobia strumentale agli interessi americani ed allideologia
neoconservatrice, lo stesso errore dei loro correligionari di
inizio XX secolo. Tuttavia anche un secolo fa come avrebbe fatto
nel 2003 Giovanni Paolo II nei riguardi della guerra irachena Papa
Pio X prese le distanze da queste posizioni politiche dei cattolici
dichiarando che quella guerra, la guerra italoturca, era soltanto
un fatto politico con il quale la religione nulla aveva a che fare.
Che dire? Lo Spirito Santo illumina sempre, nel momento opportuno,
il
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Pastore ma non sempre e non tutto il gregge lo segue
preferendogli, purtroppo, i lupi travestiti da agnelli. Infine, la
sinistra italiana. Essa era divisa tra repubblicani e socialisti e,
allinterno di questi ultimi, tra riformisti e massimalisti
appoggiati, dallesterno, dai sindacalisti rivoluzionari. Vi erano,
poi, ma assolutamente minoritari gli anarchici. La sinistra estrema
si dichiar immediatamente contraria allipotesi di una guerra
imperialista ma quella moderata assunse una posizione pi
possibilista in vista degli sbocchi occupazionali che limpresa
poteva sortire per i lavoratori italiani. Il PSI indisse una
mobilitazione generale contro la guerra. Ma senza grande successo.
Le manifestazioni antimilitariste a Forl, lunica citt nella quale
ebbero un certo seguito, furono organizzate e capeggiate dal
socialista massimalista Benito Mussolini. Linsuccesso della
mobilitazione pacifista nel resto del Paese contribu alla
comprensione, da parte socialista, dellimportanza del fattore
nazionale nella moderna politica di massa. Una attenzione alla
nazione che, ad esempio, iniziava a farsi avanti nelle riflessioni
politiche del giovane Mussolini, gi segretamente conquistato alla
causa dei sindacalisti rivoluzionari ossia alla revisione soreliana
e nicciana del marxismo: il mito politico dello sciopero generale,
guidato da unlite di uomini decisi a tutto, era appunto parte di
questa germinale neo-ideologia socialista nazionale. Mussolini non
fu certamente lunico, tra i socialisti estremisti ed i sindacalisti
rivoluzionari, ad accostarsi alldea della nazionalizzazione delle
masse come strada per giungere al socialismo. La maggior parte dei
sindacalisti rivoluzionari, successivamente riuniti sotto la sigla
dellUnione Sindacale Italiana (USI), si erano inizialmente
dichiarati contrari alla guerra coloniale. Tra di essi ricordiamo
Podrecca, Leone, Barzilai, Orano, Angelo Oliviero Olivetti, Luigi
Razza, Michele Bianchi, Merlino, Massimo Rocca, Edmondo Rossoni e
Alceste De Ambris (questi ultimi due fondarono insieme, pi tardi,
la UIL ma, poi, il primo divent segretario delle corporazioni
sindacali fasciste ed il secondo, dopo aver
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partecipato allimpresa dannunziana a Fiume e contribuito alla
stesura della Carta del Carnaro, che prefigurava una repubblica
sindacale, pass allantifascismo), Giuseppe Di Vittorio (poi,
passato al comunismo, sar segretario della CGIL), Filippo
Corridoni. Ma il pi noto tra gli intellettuali del sindacalismo
rivoluzionario, Arturo Labriola, che fu anche massone, e persino
gran maestro del Grande Oriente dItalia, ma anche feroce critico,
socialista, del capitale speculativo finanziario, che gi allepoca
secondo il suo pensiero condizionava parassitariamente e
pesantemente leconomia reale prese invece le distanze dal pacifismo
socialista indicando nella guerra di popolo lo strumento necessario
per la trasformazione rivoluzionaria della societ capitalista,
portando un po alla volta anche gli altri sindacalisti
rivoluzionari e socialisti massimalisti, ad iniziare da Alceste De
Ambris e Filippo Corridoni, a riconsiderare, negli anni seguenti,
anche alla luce del consenso di massa che limpresa libica aveva
registrato, le proprie originarie posizioni antimilitariste. Questo
della guerra nazionale di massa come momento preparatorio della
rivoluzione sociale avrebbe costituito, insieme a quello soreliano
dello sciopero generale, il mito politico di una sinistra eretica
la quale, mediante le agitazioni interventiste del 1914-15, in
favore dellentrata in guerra dellItalia in alleanza con Francia ed
Inghilterra contro lAustria, e la successiva esperienza
democratico-socialista dellimpresa dannunziana a Fiume nel 1919
-20, sarebbe confluita nel fascismo per costituirvi lanima di
sinistra. Questa componente socialista del fascismo propugn, per
lintera durata di quellesperienza politica, una concezione del
corporativismo di tipo nazionalsindacale, con forti aspetti
autogestionari, proiettata, mediante lauspicato progressivo
superamento del comunismo come del capitalismo, verso lesito,
indicato ma poi mai efficacemente realizzato dal regime fascista,
di un socialismo nazionale. Lesperienza della guerra di Libia,
insomma, presiedette al battesimo di questa sinistra eretica, che
andava incontrandosi con le avanguardie letterarie dellepoca, da La
Voce di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini fino ai futuristi di
Marinetti (guerra sola igiene del mondo). Questa sinistra non
disdegn di contaminarsi e la contaminazione fu reciproca con la
destra
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nazionalista in nome della comune avversione alla democrazia
borghese. Solo che tragico errore culturale e di prospettiva
storica sia questi socialisti eretici che i nazionalisti
confondevano gli antichi imperi tradizionali (Austria, Russia e
Turchia: la Germania guglielmina era altra cosa ossia un modello di
imperialismo moderno) con il mondo borghese, avversato dai primi
per il suo imperialismo capitalista e dai secondi per il suo
pacifismo umanitario. Il fascismo nasce in questo crocevia storico
nel quale giungevano a maturazione avvicinamenti trasversali in
atto da diversi decenni e non solo in Italia (si pensi agli
avvicinamenti in Francia tra maurassiani e sorelianiproudhoniani)
come leresia nazionalista del socialismo che si incontrava e si
fondeva con leresia socialista del nazionalismo. DAnnunzio decant
limpresa coloniale libica ne Le Canzoni delle gesta doltremare. Ma
fu Giovanni Pascoli, che militava tra i socialisti, ad inventare,
per loccasione, uno tra i pi efficaci slogan propagandistici. La
grande proletaria s mossa la lode lirica con la quale Pascoli
inneggi allimpresa italiana contro la Turchia esprimeva molto
efficacemente la convergenza tra nazionalisti, sindacalisti
rivoluzionari e socialisti massimalisti intorno al mito
rivoluzionario di una nazione giovane e piena di forze vitali,
sindacalisticamente organizzata, in cerca del suo posto al sole
contro larroganza della grandi potenze capitaliste. La pascoliana
grande proletaria riechegger, quasi trentanni dopo, nella
mussoliniana Italia proletaria e fascista della dichiarazione di
guerra nel 1940 alle demoplutocrazie dellOccidente. Non si pensi,
per, che il governo liberale fosse sotto pressione da parte
dellopinione pubblica e che quindi stentava allidea di una impresa
coloniale. In realt Giolitti ed il suo entourage da tempo avevano
deciso e pianificato la guerra per la Libia. Oltretutto la
borghesia italiana era anchessa scesa in campo nel fronte
interventista. Il Corriere della Sera, il giornale della borghesia
del nord, appoggiava quotidianamente la campagna propagandista in
favore dellimpresa coloniale. Se il governo di Giolitti appariva,
allopinione pubblica, titubante, scatenando le ire dei nazionalisti
e dei sindacalisti, era solo per il fatto che esso doveva agire
tenendo conto del quadro internazionale pi che degli umori popolari
o delle passioni ideologiche.
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Libia 1911 - Europa 1914 (parte III)
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Visto il sistema di alleanze un delicatissimo equilibrio di
potenza allora vigente, Giolitti non poteva intraprendere una
iniziativa, in uno scacchiere nel quale erano gi presenti altre
potenze europee dalle quali, tra laltro, lItalia ufficialmente era
lontana in quel momento, senza prima coprirsi le spalle con alleati
e non alleati. Luigi Copertino (fine terza parte di cinque) Libia
1911 - Europa 1914 (parte I) Libia 1911 - Europa 1914 (parte II)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte IV) Libia 1911 - Europa 1914 (parte
V)
1) Giolitti proveniva da una famiglia cavouriana ed aveva
iniziato la sua carriera nel partito crispino. Egli rappresent la
chiusura del periodo autoritario dellItalia liberale di fine
ottocento e linaugurazione di una nuova politica intesa ad
allargare il suffragio universale e ad aprire alla collaborazione
dei socialisti riformisti e dei cattolici. Sotto i suoi ripetuti
ministeri inizi a prendere forma lintervento dello Stato in
economia (nazionalizzazione delle ferrovie e delle assicurazioni,
controllo pubblico sul credito, arbitrato statuale tra imprenditori
e sindacati, riconoscimento del diritto di sciopero e di serrata,
creazione di molti enti pubblici). Il fascismo continuer su questa
strada accentuando la pubblicizzazione delleconomia nazionale.
Giolitti pu essere ritenuto un conservatore riformista. 2) Per
inciso va detto che ad Adua gli etiopi massacrarono i nostri
soldati perch avevano armi tecnologicamente migliori. Si trattava
di fucili di nuova concezione, ad avancarica, di fabbricazione
francese che lo stesso regio governo sabaudo aveva venduto al Negus
dopo averne ritrovato un certo quantitativo nella Roma pontificia
occupata nel 1870, evidente lascito dei francesi agli zuavi
pontifici ma che, su ordine di Pio IX, il quale non volle
spargimenti di sangue, non furono, in quelloccasione, mai usati. 3)
Lettera di Farini a Cavour citata in Denis Mack Smith, Cavour
contro
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Libia 1911 - Europa 1914 (parte III)
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Garibaldi, Rizzoli, Milano, 1999, pagina 421.
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