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INSEGNAMENTO DI FILOSOFIA DELLA COMUNICAZIONE E DEL LINGUAGGIO LEZIONE 4 LA TEORIA DELLA MENTE(SECONDA PARTE) LOREDANA LA VECCHIA
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Lezione_IV.pdf - Pegaso

Apr 28, 2023

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Khang Minh
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IINNSSEEGGNNAAMMEENNTTOO DDII

FFIILLOOSSOOFFIIAA DDEELLLLAA CCOOMMUUNNIICCAAZZIIOONNEE EE DDEELL LLIINNGGUUAAGGGGIIOO

LLEEZZIIOONNEE 44

““LLAA TTEEOORRIIAA DDEELLLLAA MMEENNTTEE””

((SSEECCOONNDDAA PPAARRTTEE))

LLOORREEDDAANNAA LLAA VVEECCCCHHIIAA

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Università Telematica Pegaso La teoria della mente (seconda parte)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 MENTE E STATI MENTALI: COSA SONO? --------------------------------------------------------------------------- 3

1.1. COSA SI PROVA A ESSERE UN PIPISTRELLO? ------------------------------------------------------------------------------- 7 1.2. QUELLO CHE MARY NON SAPEVA ------------------------------------------------------------------------------------------- 8

2 IL SENSO DEGLI ALTRI O DELL’INTERSOGGETTIVITÀ ----------------------------------------------------- 10

BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 13

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1 Mente e stati mentali: cosa sono?

Continuiamo, con questo quarto paper, la nostra trattazione su ToM e stati mentali. Il punto

su ci eravamo fermati la scorsa volta è la problematica domanda: come si fa ad attribuire ad un altro

soggetto, appartenente a qualsivoglia specie, un determinato stato mentale? Per esempio, su quale

evidenza basiamo affermazioni del tipo: “il mio cane ha male a una zampa” oppure “Giovanni

vuole bere una tazza di tè caldo”? D’acchito la soluzione viene data chiamando in causa il

comportamento. Osservo che Apollo, il mio cane, guaisce ogni volta che poggia la zampa anteriore

e ne concludo il suo dolore, vedo Giovanni in cucina con il bollitore in mano e una bustina di tè

pronta per l’uso e ne concludo che vuole bere una tazza calda di tè.

Ora, nell’ottica di Cartesio l’osservazione non garantisce circa l’esistenza degli stati mentali

altrui, poiché quello che ognuno di noi può percepire direttamente, senza dubitarne, sono solo le

proprie idee, quelle provenienti cioè dalle nostre singole menti. Il mondo fuori di me, per Cartesio,

non è oggetto di conoscenza, di esso si percepiscono piuttosto dei semplici dati sensoriali.

Attraverso il ragionamento, e quindi solo in modo indiretto, posso supporre che un altro soggetto

abbia una mente. Preciso, inoltre, che Cartesio esclude che gli animali non umani abbiano stati

mentali, per lui gli animali diversi dall’uomo altro non sono che macchine organiche, ma poiché

privi di anima, nega loro la possibilità di provare qualcosa, i loro stati mentali sono solo apparenti

(sembrerà assurdo ma, per Cartesio cani e gatti non sono diversi da un orologio a pendolo: per lui

sono semplici automi). Stabilito però, come abbiamo fatto con la lezione passata, che il dualismo

cartesiana impatta tutta una serie di difficoltà, per cui è strada non percorribile, consideriamo degna

di essere indagata la concezione che vede nel comportamento la soluzione al problema mente-

corpo.

L’assunzione da cui, agli inizi degli anni Venti dello scorso secolo, partì lo psicologo John

Watson è l’ipotesi più radicale: egli ipotizzò, infatti, che il problema dell’interazione mente-corpo

non esiste perché non esistono le cause mentali. Per lui, il comportamento manifestato dagli

individui coincide con la risposta che essi danno agli stimoli ricevuti e proprio tali stimoli, null’

altro, sono la causa dei comportamenti. Tale corrente di pensiero ha fortemente caratterizzato, come

è noto, la ricerca, nei trent’anni successivi (si pensi al programma portato avanti da Skinner), tant’è

che parlare di mente nel corso della prima metà del Novecento, era quasi tabù. Eppure le obiezioni

che si possono sollevare sono, tutto sommato, ovvie. Se per esempio decido di portare con me una

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sciarpa di lana, sarò sicuramente stata stimolata a farlo dal constatare che vi è cattivo tempo, ma

questo non basta, in me, a seguito dell’osservazione, è sorta una qualche aspettativa. L’aspettativa,

vale a dire, che farà freddo. Anche nel caso del comportamentismo radicale, dunque, non possiamo

ritenerci soddisfatti. E non erano soddisfatti di questa soluzione, che aveva del paradossale, neanche

i filosofi e gli scienziati del cosiddetto Circolo Vienna. Con essi siamo culturalmente situati nel

neopositivismo, e il programma che seguono è pervaso dalla logica. Gli stati mentali,

semplificando, sono considerati come costruzioni logiche, il significato di quanto affermiamo sugli

stati mentali è in definitiva una affermazione su comportamenti. È questa una teoria semantica dei

termini mentali. La loro ipotesi è che il problema risieda in una imprecisione linguistica, quando

parliamo di stati mentali quello che in realtà facciamo è abbreviare la descrizioni della risposta

fisica (il comportamento) data da uomini e animali in varie circostanze. Lo schema del

ragionamento è questo (Fodor, 1981, tr. it., p. 20): attribuire uno stato mentale a qualcuno (per

esempio, l’aver sete) equivale a dire che quel qualcuno si trova nella disposizione a comportarsi in

un certo modo (nel caso dell’esempio, a bere dell’acqua). Dunque ogni attribuzione di stato mentale

è semanticamente equivalente a un enunciato del tipo “se-allora” che esprime, appunto, una

disposizione a comportarsi (Ibidem).

Anche in questo caso, però, si possono sollevare obiezioni. Certi stati mentali, infatti, non

sono traducibili in termini di disposizione comportamentale. Per esempio, la situazione “Giovanni

crede che la mia macchina è parcheggiata vicino casa”, non è facilmente traducibile in una qualche

disposizione comportamentale di Giovanni. Putnam (1975, tr. it. p. 364) in un noto esperimento

mentale (i filosofi in genere usano esperimenti mentali – vengono anche definiti “esperimenti

concettuali” – per poter argomentare su una tesi o per confutarla. La loro particolarità risiede tutta

nel fatto che sono situazioni immaginate, affrontate però con grande rigore analitico) ipotizza

l’esistenza di “superspartani” e vale a dire persone capaci di soffrire i dolori più lancinanti senza un

corrispettivo comportamento (non urlano, non contraggono i muscoli facciali ecc.), riescono a

controllare tutte le espressioni anche involontarie di dolore. In tal modo Putnam dimostra che tra

stati mentali e comportamento non vi è necessariamente correlazione, pertanto la traduzione degli

uni negli altri postulata dal comportamentismo logico viene messa in seria difficoltà (se non

smentita).

Per quanto finora detto, appare chiaro che le teorie sulla natura degli stati mentali presentano

dei punti problematici o comunque non sembrano soddisfare tutte le situazioni che razionalmente si

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possono immaginare. Il tentativo di ridurre i nodi più controversi è stato perseguito da un’altra

visione teorica degli stati mentali e vale a dire dal funzionalismo.

L’idea principale che sta alla base del funzionalismo è la seguente: ciò che fa degli stati

mentali eventi concreti (occorrenze) di stati cerebrali è il ruolo causale che svolgono nell’intero

comportamento di un individuo (Searle, 2004, tr. it., p. 56). In pratica, gli stati mentali sono

considerati come stati che hanno (espletano) una certa funzione e quest’ultima è da intendersi come

il “lavoro”, l’attività che un qualsiasi dispositivo è chiamato a svolgere. Per esempio, la funzione di

un dispositivo come il carburatore è quella di miscelare carburante e aria, stessa cosa possiamo dire

per un organo quale il cuore: la sua funzione è quella di pompare sangue. Inoltre, bisogna

considerare che associato al ruolo funzionale vi è anche un ruolo causale, e vale a dire gli effetti che

si producono. Prendiamo il caso del “dolore”. Per il funzionalismo esso è definibile come lo stato

mentale il cui ruolo funzionale è di segnalare un qualche danno dei tessuti o un trauma e i cui effetti

sono il manifestarsi di altri stati mentali interni al soggetto (desiderare che il dolore cessi) e una

gamma di comportamenti (lamenti, prendere un antidolorifico e così via)

Il funzionalismo, come si può intuire, appartiene al gruppo delle teorie materialiste della

mente, ammette quindi che gli eventi mentali hanno una causazione fisica e, a differenza della

teoria dell’identità mente-cervello, non presenta il problema dello “stato unico” poiché prende in

considerazione la funzione svolta da un determinato stato mentale, prescindendo dal tipo di struttura

che la realizza. Dunque cervelli diversi possono far provare lo stato mentale di “dolore” e il

“dolore” è qualsiasi stato che abbia la proprietà di essere causato (come sopra detto) da danno o

trauma e, a sua volta, causa dei comportamenti insieme al sopravvenire di altri stati mentali interni.

Ora, il nostro interessarci degli stati mentali è dovuto al legame che esiste tra essi e

comunicazione intenzionale. L’assunto, infatti, da cui siamo partiti è che gli individui della nostra

specie quando entrano in una relazione comunicativa lo fanno su uno sfondo che prevede

l’attribuzioni, tra gli interlocutori, di stati mentali e gli stati mentali consentono di spiegare i

comportamenti degli altri e anche di intervenire per modificarli, ancor più quando si considerino gli

stati mentali del tipo “credenze”, “desideri”, “giudizi”, “pensieri” (tali stati hanno, ne segue, aspetti

qualitativi). Nello specifico, avere una credenza significa che un soggetto S si trova in uno stato

mentale tale da rappresentarsi il mondo (o aspetti particolari di una data realtà) come fatto in un

determinato modo e la credenza di S può essere esplicitata in un enunciato (può cioè assumere una

forma linguistica) il cui contenuto (la proposizione) può essere vero o falso. Ad esempio,

l’enunciato “Giovanni crede che Matilde ami Marco” descrive il contenuto della credenza di

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Giovanni con l’espressione linguistica “che Matilde ami Marco”, espressione che a sua volta

esprime una proposizione di cui è possibile stabilire la verità o la falsità. E fin qui è tutto sommato

facile immaginare che due individui, il portatore della credenza S e il suo interlocutore I, possano

entrare in un processo comunicativo in cui, entrambi, capiscano la pozione che hanno rispetto al

fatto che Matilde ami o meno Marco. Dal punto di vista, poi, del funzionalismo non vi sono

problemi: Giovanni sarà in uno stato mentale tale da rappresentarsi certi comportamenti di Matilde

nei confronti di Marco come associati al “provare amore” e quindi sarà portato a formulare la

credenza “che Matilde ami Marco”. Il problema invece sorge per tutti quegli stati qualitativi della

mente che hanno a che fare con sensazioni di cui è lecito chiedersi: cosa si prova ad essere in

quello stato? Cosa prova Otello quando è geloso? Cosa prova Achille quando prova ira funesta?

Guardando la questione dal punto di vista della filosofia della comunicazione e del linguaggio il

problema diventa: come possiamo esser certi di riuscire a entrare in relazione comunicativa con gli

altri, riconoscendone cioè le azioni, i comportamenti e comprendendone i significati in presenza di

stati mentali così particolari e caratterizzati dall’esperienza in prima persona? E tutto questo può

riverberare in qualche modo sul modo di intendere e studiare la facoltà del linguaggio?

Prima di entrare nello specifico di quest’ultime domande, credo sia utile tirare un po’ le

somme del discorso intrapreso sul problema “mente-corpo”. Allo stato attuale delle conoscenze, la

concezione che prevale è di tipo materialista, la mente, pertanto, può essere definita o come un

processo cerebrale (e in questo caso si dovrebbe evitare l’uso del termine “mente” perché carico di

ambiguità e comunque dai contorni semantici imprecisi) o come l’insieme di stati funzionali

implementati da processi cerebrali (e anche in questo caso il termine “mente” potrebbe ingenerare

ambiguità poiché si corre il rischio di far supporre l’esistenza di un’entità immateriale quale

risultato di un’attività fisico/materiale). Tenendo presente queste puntualizzazioni possiamo, con

una certa tranquillità, continuare a usare il termine “mente” e indicare anche le categorie di

fenomeni che ricadono nel concetto di “mentale”. Esse sono:

la capacità di avere esperienze – e vale a dire l’essere consapevole delle cose che

accadono sia a livello sensoriale (provare dolore, sentire il gusto di qualcosa ecc.) sia

a livello di emozioni (provare ansia, tristezza, felicità ecc.);

comportarsi/atteggiarsi – e vale a dire il disporsi verso il mondo attraverso proprie

credenze, desideri, conoscenze, pensieri. Tale genere di atteggiamenti, spesso

vengono espressi in modo linguistico, servendosi di enunciati del tipo: “Credo che il

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mio computer sia rotto”,”Lucia desidera una barca”. “Gianni intende partecipare alla

selezione” e così via;

l’agire – e vale a dire il compiere azioni secondo una certa progettualità (costruire

una casa, ma anche calcolare una derivata).

Approfondiamo, a questo punto, il problema degli stati mentali che hanno a che fare con

l’esperienza in prima persona e che abbiamo indicato come stati qualitativi della mente. Vi

propongo pertanto due esperimenti concettuali molto noti nel mondo dei filosofi.

1.1. Cosa si prova a essere un pipistrello?

L’argomento è stato presentato da Thomas Nagel in un articolo del 1974 dal titolo “What Is

It Like to Be a Bat?” noto in italiano con “Cosa si prova a essere un pipistrello?”. L’Autore parte

dalla considerazione che a rendere difficile il problema mente-corpo sia la coscienza. Egli contesta

l’idea del funzionalismo, è infatti convinto che non si possa spiegare oggettivamente qualcosa che

per sua natura presenti un carattere soggettivo. Dunque gli stati mentali qualitativi non sono

accessibili all’indagine conoscitiva.

“Do per scontato che tutti siamo convinti che i pipistrelli abbiano esperienze soggettive: in

fin dei conti sono mammiferi, e il fatto che abbiano esperienze soggettive non è più dubbio del fatto

che le abbiano i topi, i piccioni o le balene. Ho scelto i pipistrelli anziché le vespe o le sogliole

perché via via che si scende lungo l'albero filogenetico si è sempre meno disposti a credere che

siano possibili esperienze soggettive. Benché siano più affini a noi che le altre specie sopra

ricordate, i pipistrelli presentano tuttavia una gamma di attività e organi di senso così diversi dai

nostri che il problema che voglio impostare ne risulta illuminato vividamente (per quanto

naturalmente lo si possa porre anche per altre specie). Anche senza il beneficio della riflessione

filosofica, chiunque sia stato per qualche tempo in uno spazio chiuso in compagnia di un pipistrello

innervosito sa che cosa voglia dire imbattersi in una forma di vita fondamentalmente aliena.

“Ho detto che la convinzione che i pipistrelli abbiano un'esperienza soggettiva consiste

essenzialmente nel credere che a essere un pipistrello si prova qualcosa. Ora, noi sappiamo che la

maggior parte dei pipistrelli (i microchirotteri, per la precisione) percepisce il mondo esterno

principalmente mediante il sonar, o ecorilevamento: essi percepiscono le riflessioni delle proprie

strida rapide, finemente modulate e ad alta frequenza (ultrasuoni) rimandate dagli oggetti situati

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entro un certo raggio. Il loro cervello è strutturato in modo da correlare gli impulsi uscenti con gli

echi che ne risultano, e l'informazione così acquisita permette loro di valutare le distanze, le

dimensioni, le forme, i movimenti e le strutture con una precisione paragonabile a quella che noi

raggiungiamo con la vista. Ma il sonar del pipistrello, benché sia evidentemente una forma di

percezione, non assomiglia nel modo di funzionare a nessuno dei nostri sensi e non vi è alcun

motivo per supporre che esso sia soggettivamente simile a qualcosa che noi possiamo sperimentare

o immaginare. Ciò, a quanto pare, rende difficile capire che cosa si provi a essere un pipistrello.

Dobbiamo vedere se esiste qualche metodo che ci permetta di estrapolare la vita interiore del

pipistrello a partire dalla nostra situazione e, in caso contrario, quali metodi alternativi vi siano per

raggiungere il nostro scopo.

“(...) Non serve cercare di immaginare di avere sulle braccia un'ampia membrana che ci

consente di svolazzare qua e là all'alba e al tramonto per acchiappare insetti con la bocca; di avere

una vista molto debole e di percepire il mondo circostante mediante un sistema di segnali sonori ad

alta frequenza riflessi dalle cose; e di passare la giornata appesi per i piedi, a testa in giù, in una

soffitta. Se anche riesco a immaginarmi tutto ciò (e non mi è molto facile), ne ricavo solo che cosa

proverei io a comportarmi come un pipistrello. Ma non è questo il problema: io voglio sapere che

cosa prova un pipistrello a essere un pipistrello. Ma se cerco di figurarmelo, mi trovo ingabbiato

entro le risorse della mia mente, e queste risorse non sono all'altezza dell'impresa. Non riesco a

uscirne né immaginando di aggiungere qualcosa alla mia esperienza attuale, né immaginando di

sottrarle via via dei segmenti, né immaginando di compiere una qualche combinazione di aggiunte,

sottrazioni e modifiche” (Nagel, 1974, tr. it. 381-382).

1.2. Quello che Mary non sapeva

Sulla stessa scia di Nagel si inserisce l’esperimento concettuale, apparso in un lavoro del

1982, del filosofo australiano Frank Jackson. La situazione che egli presenta è questa. Mary vive

nel XXIII secolo. È una neuroscienziata e supponiamo sia la più grande esperta nel mondo dei

processi cerebrali che riguardano la visione dei colori. Mary, però, è cresciuto e ha sempre vissuto

in una stanza in bianco e nero, non ha mai visto qualcosa di colorato, quello che di cui ha esperienza

si limita alla scala dei grigi. Conosce tutto sui processi fisici che avvengono nel cervello (conosce la

biologia cerebrale, la struttura neurofisiologica e le sue funzioni): sa perfettamente come il cervello

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discrimina i diversi stimoli, integra le informazioni e produce risposte verbali. È anche una raffinata

esperta della fisica della luce, dunque sa che i diversi nomi dei colori corrispondono a lunghezze

d’onda dello spettro luminoso. Tuttavia alla sua vastissima conoscenza manca qualcosa e cioè cosa

si provi, per esempio, a vedere qualcosa che abbia il colore “rosso”. Supponiamo ora che le sia

concesso di lasciare la sua stanza o che le venga fornito – dice Jackson – un televisore a colori,

ebbene Mary apprenderà “cosa si prova a vedere qualcosa di rosso”.A questo punto, come

suggerisce l’Autore, possiamo affermare che a Mary mancasse la conoscenza delle esperienze

altrui. E vale a dire che sì di certo Mary sapeva tutto sui modi di funzionare del cervello – suo e

degli altri – ma non era consapevole delle esperienze che le persone fanno quando vedono un

colore. Pur conoscendo i fatti fisico/chimici che concernevano quelle esperienze, Mary ignorava

completamente delle cose su di loro (sulle persone).

Proprio su questo dato – il sapere delle cose sugli altri o l’avere un’idea delle esperienze

altrui – si basa una delle concezioni più recenti della mente e il cui fulcro è rappresentato dalla

scoperta forse più importante degli ultimi vent’anni: i neuroni mirror.

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2 Il senso degli altri o dell’intersoggettività

Chi di voi ricorda il film di Tim Burton Batman non farà fatica a ricordare anche

l’espressione sorpresa del personaggio di Vicki Vale (la fotografa che vuole scoprire tutto su

Batman) quando si accorge che, per riposare comodamente, il supereroe si appende ad una sbarra a

testa giù e con le braccia incrociate sul petto! La domanda che pongo nel citare il breve episodio è:

Vicki e tutti noi siamo veramente in grado di capire quello che Batman sta facendo? E più in

generale, ci sono dei meccanismi che permettono di afferrare il significato di quanto gli altri fanno?

E se sì quali sono? Nel caso specifico Vicki e noi capiamo che Batman mantiene l’equilibrio

poggiando il peso sui dorsi dei piedi, la testa è giù e le braccia sono chiuse, ma di certo non siamo

in grado di capire come una tale acrobatica posizione possa procurare quella piacevole sensazione

di comodo riposo che proviamo sdraiandoci su un letto. Se da un lato la visione ci consente di

riconoscere il genere di azioni compiuto e dunque di interpretarlo, dall’altro siamo ben lontani dal

poter affermarne la sua comprensione poiché noi comuni mortali, in genere, si riposa in tutt’altro

modo, non abbiamo cioè esperienza di cosa voglia dire riposarsi comodamente stando appesi dai

piedi.1 Uscendo dalla analogia filmica, il fatto è, come afferma il neurofisiologo Vittorio Gallese

(2001, p. 81), “che per comprendere lo scopo di un’azione osservata (...) si deve stabilire un legame

tra l’agente osservato e l’osservatore” e tale legame non va inteso solo come condivisione di un

repertorio motorio, ma come la manifestazione della condivisione delle esperienze (quello che

mancava, ad esempio, a Mary, nel citato esperimento di Jackson).

Dal punto di vista della riflessione filosofica questa idea non è nuova. Husserl, ad esempio,

era convinto che a rendere intelligibili i comportamenti/atteggiamenti degli altri fosse il fatto che li

si percepisca come analoghi all’esperienza che abbiamo quando noi stessi, con il nostro corpo,

agiamo. L’altro da me dunque non è solo un corpo dotato di una mente/cervello, ma è proprio come

me. Il filosofo francese Merleau-Ponty, restando nello stesso sfondo concettuale e con ancor più

incisività, scrive (1945, tr. it. p. 256): “Il senso dei gesti non è dato, ma compreso, ossia catturato da

un atto dello spettatore. Tutta la difficoltà consiste nel concepire opportunamente questo atto e nel

non confonderlo con un’operazione conoscitiva. La comunicazione o la comprensione dei gesti è

resa possibile dalla reciprocità delle mie intenzioni e dei gesti altrui, dei miei gesti e delle

1 Mi sono ispirata, nel costruire l’argomentazione presentata, all’impostazione seguita da Laila Craighero

, professore dell’Università degli Studi di Ferrara, nel suo volume Neuroni specchio, Bologna, il Mulino, 2010.

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intenzioni leggibili nella condotta altrui. Tutto avviene come se l’intenzione dell’altro abitasse il

mio corpo o come se le mie intenzioni abitassero il suo”. Quello che Merleau-Ponty ci sta dicendo è

che cogliamo il senso degli altri (del comportamento altrui) non per una somiglianza mimetica o per

un ragionamento ma perché il gesto, l’azione coincidono con il loro stesso significato. Il gesto di

collera, dice il filosofo, è la collera stessa.

Oggi noi abbiamo la prova empirica di quanto egli diceva; agli inizi degli anni ’90 del

secolo scorso, infatti, l’équipe dell’Università di Parma formata da Luciano Fadiga, Leonardo

Fogassi, Vittorio Gallese e diretta da Giacomo Rizzolatti ha scoperto l’esistenza dei neuroni mirror

(o specchio), ossia un tipo di cellula nervosa che si attiva – spara, in gergo tecnico – durante

l’osservazione di azioni effettuate da un altro soggetto. E, cosa ancor più interessante, solo se

l’azione ha uno scopo, come l’afferrare o il manipolare oggetti. Come afferma Gallese (op. cit., p.

84): “Ciò equivale a sostenere che ogni volta che osserviamo le azioni altrui, il nostro sistema

motorio «risuona» assieme a quello dell’agente osservato”; questi neuroni, in buona sostanza, non

distinguono tra un’azione fatta e un’azione osservata. Ma c’è di più. Da tutta una serie di

esperimenti effettuati dopo la scoperta dell’esistenza del sistema mirror, si è constatato che essi

sono anche un meccanismo per capire il senso dell’azione, tant’è che i neuroni specchio sparano

anche quando l’informazione visiva è incompleta, bastano degli indizi quali la presenza di un

oggetto e della mano in movimento per far sì che venga compreso il “prendere”.

Nell’uomo, un sistema di neuroni specchio è presente nell’area di Broca, quella che presiede

il linguaggio, e ciò supporta l’idea (già espressa nei precedenti papers) che la comunicazione

intenzionale si sia evoluta da un sistema cerebrale più antico, deputato, evidentemente, al

riconoscimento delle azioni. Dunque un antecedente del linguaggio verbale potrebbe essere stato il

sistema gestuale. Negli anni Sessanta del secolo scorso, Liberman aveva dimostrato che la

percezione dei suoni è legata all’articolazione della bocca, e vale a dire, quello che percepiamo,

quando qualcuno parla, non sono i suoni fonetici ma i movimenti della bocca del nostro

interlocutore. Dunque percepiamo una catena di gesti.

A questo punto, e ricordando l’insieme delle cose dette anche in precedenza, c’è da notare

che affinché la comunicazione raggiunga i suoi esiti (vada cioè a buon fine o come si ama dire in

semiotica, sia felice) è necessario che siano soddisfatti due requisiti: comprendere, da parte sia

dell’emittente sia del destinatario, ciò che conta nell’interazione (vi deve essere uno spazio di senso

condiviso – ricordate? Noi non riusciamo a capire come Batman possa trovare comoda la posizione

a testa in giù perché quella “non conta” per noi come “posizione comoda”, non ne cogliamo tale

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significato) e anche comprendere in modo diretto le rispettive e reciproche azioni, senza dover

ricorrere ad un preventivo ragionamento. Il sistema mirror a quanto pare permette di realizzare le

due cose.

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Bibliografia

Fodor, J. (1981), “Il problema mente-corpo”, Le Scienze Quaderni, giugno 1992, n. 66.

Gallese, V. (2001), “Azioni, rappresentazioni ed intersoggettività: dai neuroni mirror al

sistema multiplo di condivisione”, Sistemi Intelligenti, n. 1.

Merleau-Ponty, M. (1945), Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, seconda

ediz., Milano, il Saggiatore, 1972.

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