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1 SAPIENZA, UNIVERSITÀ DI ROMA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI STUDIO IN LINGUE, CULTURE, LETTERATURE, TRADUZIONE a.a. 2017-2018 LETTERATURA SPAGNOLA II (12 CFU) prof.ssa Isabella Tomassetti DISPENSE
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LETTERATURA SPAGNOLA II (12 CFU) - lettere.uniroma1.it · Letteratura Spagnola II, si è cercato di circoscrivere il più possibile il corpus delle opere. I testi trascritti sono

Feb 18, 2019

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SAPIENZA, UNIVERSITÀ DI ROMA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI STUDIO IN LINGUE, CULTURE, LETTERATURE,

TRADUZIONE

a.a. 2017-2018

LETTERATURA SPAGNOLA II

(12 CFU)

prof.ssa Isabella Tomassetti

DISPENSE

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Sapienza, Università di Roma Facoltà di Lettere e Filosofia

a.a. 2017-2018

Insegnamento LETTERATURA SPAGNOLA II SSD L-LIN/05

Titolare X Affidamento Contratto

Docente Isabella Tomassetti Qualifica docente Professore Associato

E-mail [email protected]

Ricevimentoe lezioni

Lezioni: lunedì, ore 9.00-11.00 (aula 203 edificio Marco Polo), giovedì, ore 11.00-13.00 (aula 110), venerdì 11.00-13.00 (aula 203). Ricevimento: giovedì, ore 9.00-11.00 (salvo diversa indicazione) fino alla fine del corso. A partire dal mese di giugno 2018 il calendario del ricevimento sarà pubblicato mese per mese.

Titolo modulo La letteratura spagnola dalle origini al XVI secolo

Semestre II Annualità II LT X LM

CFU 12

Solo per LT Modulo base NON ripetibile X Modulo avanzato

* Corso di laurea singolo modulo

Valido per il CdS in Lingue, letterature, Culture, Traduzione

Descrizione

Il modulo si rivolge a studenti del I anno della Laurea Triennale e intende offrire un primo e generale approccio alla tradizione letteraria castigliana. Si illustreranno le linee principali del dibattito sulle origini della letteratura castigliana e verranno fornite le coordinate storico-letterarie del Medioevo ispanico e del primo Rinascimento. Durante le lezioni la docente proporrà una lettura antologica dei principali testi della letteratura medievale dal XIII al XVI secolo (Cantar de Mío Cid, Milagros de Nuestra Señora, Libro de Alexandre, Conde Lucanor, poesia amoroso-cortese del XV secolo, Celestina, Lazarillo de Tormes, Boscán, Garcilaso de la Vega, Gutierre de Cetina, Fernando de Herrera, San Juan de la Cruz, fray Luis de León). Oltre all’inquadramento storico-culturale e letterario delle opere selezionate, il modulo si propone di offrire agli studenti gli strumenti metodologici per affrontare l’analisi stilistica e formale dei testi.

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Bibliografia

Storia della letteratura medievale (uno a scelta fra questi manuali): a) A. Varvaro – C. Samonà, La letteratura spagnola. Dal Cid ai Re Cattolici, Milano, Rizzoli, 1999. b) A. Deyermond, Historia de la literatura española. I. Edad Media, Barcelona, Ariel, 1973. Storia della letteratura del Siglo de Oro (uno a scelta fra questi manuali): M. Grazia Profeti, L'età d'oro della letteratura spagnola. Il Cinquecento, Firenze, La Nuova Italia (soltanto epoca di Carlo V). R. O. Jones, Historia de la literatura española ". Siglo de Oro: prosa y poesía, Barcelona, Ariel, 1974 (fino a novela picaresca). Testi: I testi analizzati a lezione saranno disponibili in dispensa e pubblicati sul sito di Facoltà, nella sezione "Materiale didattico" contenuta nel profilo della docente. (http://www.lettere.uniroma1.it/users/isabella-tomassetti) Fernando de Rojas, La Celestina (qualsiasi edizione in commercio, purché provvista di introduzione). Lazarillo de Tormes, ed. F. Rico, Madrid, Cátedra, 2006 (è possibile acquistare anche altre edizioni, purché provviste di introduzione).

Storia: J. Vicens Vives, Profilo della storia di Spagna, Torino, Einaudi, 2003 (fino all’età di Carlo V)

Valutazione

Esame orale negli appelli ordinari.

Note Per gli studenti non frequentanti il programma è il medesimo.

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PREMESSA

Questo agile volume di dispense ha lo scopo di fornire agli studenti una antologia di testi rappresentativi dei principali generi letterari sperimentati in area ispanica fra il XII e il XVI secolo. Dato il numero limitato di ore di didattica frontale previsto dal modulo di Letteratura Spagnola II, si è cercato di circoscrivere il più possibile il corpus delle opere. I testi trascritti sono privi di annotazione e di traduzione a fronte, essendo concepiti come strumenti didattici utilizzati dal docente in lezioni di tipo frontale. Si raccomanda quindi la massima assiduità nella frequenza del corso. Come sussidio aggiuntivo, inoltre, in corrispondenza di ciascuna sezione testuale si è fornita una bibliografia essenziale nella quale lo studente potrà trovare indicazioni sulle edizioni, studi e traduzioni in italiano delle opere antologizzate. Tali indicazioni bibliografiche potranno essere utili soprattutto agli studenti non frequentanti per acquisire informazioni non apprese a lezione ma è auspicabile che anche gli studenti frequentanti se ne servano per approfondimenti di carattere storico-critico e testuale. Benché non inseriti nel programma d'esame, si raccomanda inoltre la consultazione dei seguenti manuali per l'analisi linguistica e retorico-stilistica dei testi: R. Baehr, Manual de versificación española, Madrid, Gredos. R. Lapesa, Historia de la lengua española, Madrid, Gredos. B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani. Quanto alla Celestina e al Lazarilo de Tormes è vivamente consigliato l'acquisto di un'edizione in lingua originale. Si raccomanda inoltre di leggere con attenzione le pagine introduttive di ciascuna edizione, che offrono di norma una utile sintesi sia della storia editoriale dell'opera, sia del contenuto e della tradizione letteraria nella quale si iscrivono.

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Jarchas

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE1 S. Stern, Les verses finaux en espagnol dans les muwassahs hispano-hébraiques. Une contribution à l’histoire du muwassah et à l’étude du vieux dialecte espagnol “mozarabe”, in «Al-Andalus», 13 (1948), pp. 299-346. A. Roncaglia, Di una tradizione lirica pretrovatoresca in lingua volgare, in «Cultura Neolatina», 11 (1951), pp. 213-249. E. García Gómez, Veinticuatro jaryas romances en muwassahas árabes, in «Al-Andalus», 17 (1952), pp. 57-127. E. García Gómez, La lírica hispano-árabe y la aparición de la lírica románica, in «Al-Andalus», 21 (1956), pp. 303-338. E. Asensio, Poética y realidad en el cancionero peninsular de la Edad Media, Madrid, Gredos, 1957. E. García Gómez, Las jarchas romances de la serie árabe en su marco, Madrid, 1965. D. Alonso, Cancioncillas de amigo mozárabes (primavera temprana de la lírica europea), in "Revista de Filología Española", XXXIII )1949), rist. in Primavera temprana de la literatura europea: lírica-épica-novela, Madrid, Guadarrama, 1961, pp. 17-79. M. Frenk, Las jarchas mozárabes y los comienzos de la lírica románica, México, El colegio de México, 1975. H. Heikoop - O. Zwartjies, Muwaššah, Zajal, Kharja. Bibliography of Strophic Poetry and Music from Al-Andalus and their Influence in East and West, Leiden - Boston, Brill, 2004. G. Bossong, Poesía en convivencia. Estudios sobre la lírica árabe, hebrea y romance en la España de las tres religiones, Gijón, Ediciones Trea, 2010.

1 Diversamente dal criterio seguito per gli altri testi, nel caso delle jarchas si è scelto di ordinare la bibliografia

in ordine cronologico anziché in ordine alfabetico di autore. Si tratta di una selezione bibliografica molto parca

ed essenziale ma che intende orientare lo studente all'interno di un dibattito molto ampio e persistente, iniziato

alla fine degli anni '40 del secolo scorso.

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14. ¿Qué faré, mamma?

Meu al-habib est’ ad yana.

¿Qué haré, madre?

Mi amigo está a la puerta

17. Al sabah bono, garme d’on venis.

Ya l[o] sé qu’otri amas,

a mibi non queris

Aurora buena, dime de dónde vienes

ya lo sé que a otras amas,

a mí no me quieres

4. Garid vos, ¡ay yermaniellas!,

¿cóm’contener a meu male?

Sin al-habib non vivreyu:

¿ad ob l’irey demandare?

Decid vosotras, ¡ay hermanitas!

¿Cómo contener mi mal?

Sin el amigo no viviré:

¿adónde iré a buscarlo?

31. Si queris como bon a mib

béyame ida l-nazma duk,

boquella de habb al-muluk

Si me quieres como hombre de bien

bésame entonces la sarta de perlas

boquita de cereza

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Moaxaja XXIa2

Si tratta di una moaxaja attribuita in un manoscritto a Abū-l-Walīd Yūnus ibn Isà al-Jabbāz Mursī. È costituita da un preludio e 5 strofe con il seguente schema: 8a 8b 8a 8b 8a 8b 8x 8y 8z 8y3. Il poema ha carattere amoroso ed esprime la lamentazione dell'amante per l'assenza dell'amato (strofa 1), una richiesta di pietà (strofe 2 e 3), la descrizione della bellezza dell'amato (strofa 4). La jarcha figura nell'ultima strofa come canzone di assenza espressa da una fanciulla di tredici anni che la canta alla madre.

0 ¿Quién me ayuda contra un ciervo que a los leones combate, y no me paga mi deuda cuando espero que la pague? 1 Siempre estoy, por obtenerla entre esperanza y deseo, y, por mucho que se enfade, no por eso desespero. Antes grito: «Alma, no tengas sobre ella un mal pensamiento», y al pecho le digo: «Sufre», y a quien siempre cumple tarde: «Haz lo que quieras, que nunca airado estoy con lo que haces». 2 Tú que desdeñas, injusta, a quien aguante no acorre, no importa que me consuma, con tal que no me abandones. Muerto estoy, cuando quien mira con unos ojos gachones y prepara agudos dardos desde esos arcos fatales, dispara contra mi pecho saetas que son mortales. 3 Mi corazón ¿qué te ha hecho, que sus penas no se acaban?

2 Tratto da E. García Gómez, Las jarchas romances de la serie árabe en su marco, Barcelona, Seix Barral, 1975,

p. 221-227. 3 Ovviamente lo schema metrico vale per il testo in lingua originale araba. Nella traduzione che qui offriamo

queste corrispondenze foniche fra i versi si perdono.

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Te eleva quejas de amores y no le sirven de nada. ¡Piedad! Mi vida y mi muerte entre tus manos se hallan. ¡Tú que, al par, curas y enfermas! Puedes quitarme mis males. Me derrito por quererte. ¡Haz de mí cuanto te agrade! 4 ¿Quién me ayuda, si en sus ojos me está la muerte acechando? Es la hermosura en esencia, si se va contoneando. Quisiera pintar sus prendas pero no puedo lograrlo. Ver su mejilla es lo mismo que en un jardín pasearse; mas ¡guay de cortar sus frutos! Lo impiden agudos sables. 5 La encerrada doncellica a la que la ausencia aflige; la que con sus trece años llora, abandonada y triste, embriagada de deseos, qué bien a su madre dice: Yā mammā, me-w l-habībe Madre, mi amigo baiš' e no más tornarāde. se va y no tornará más. Gār ké faréyo, ya mammā: Dime qué haré, madre: ¿No un bezyēllo lēsarāde? ¿no me dejará un besito?

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Cantar de mio Cid

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Rassegne bibliografiche M. Magnotta, Historia y bibliografía de la crítica sobre el “Poema de mio Cid”, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1976.

M. Sánchez Mariana, Guía bibliográfica del Poema de Mío Cid, in Poema de Mio Cid, ed. facsímil con estudios de H. Escobar et al., Burgos, Ayuntamiento, 1982, 2 voll., II, pp. 291-326.

J. Simón Díaz, Bibliografía de la literatura hispánica, II: Literatura castellana. Edad Media, I, Madrid, CSIC, 19863.

J. L. Suárez García, Hacia una bibliografía del Poema de mio Cid (1981-1988), in «La Corónica», XIX, 1 (1990), pp. 67-82.

F. López Estrada, Panorama crítico sobre el Poema del Cid, Madrid, Castalia, 1992.

Edizioni Poema del Cid, ed. A. Bello (Obras completas de Andrés Bello, II), Santiago de Chile, 1881.

Poema de Mio Cid. Texto, gramática y vocabulario, ed. R. Menéndez Pidal, Madrid, Espasa Calpe, 1913, 19444.

Poema del Cid: texto y traducción, ed. A. Reyes, Madrid, Espasa Calpe, 1919 (ristampa 1976 con prologo di M. de Riquer).

Poema de Mio Cid, ed. J. J. Bustos Tovar, Madrid, Alianza, 1974.

Poema de Mio Cid, ed. I. Michael, Madrid, Castalia, 1976.

Poema de Mio Cid, ed. C. Smith, Madrid, Cátedra, 1976.

Cantar de Mio Cid, ed. M. Garci-Gómez, Madrid, Cupsa, 1977.

Cantar de Mio Cid = Chanson de Mon Cid, ed. J. Horrent, Gante, Story-Scientia, 1982, 2 voll.

Poema de Mio Cid, ed. M. E. Lacarra, Madrid, Taurus, 1983.

Poema de Mio Cid, edd. P. M. Cátedra-B. Morros, Barcelona, Planeta, 1985.

Cantar de Mio Cid, ed. F. Marcos Marín, Madrid, Alhambra, 1985.

Cantar de Mio Cid, ed. A. Montaner, estudio preliminar de F. Rico, Barcelona, Crítica, 1993 [ripubblicato per Círculo de Lectores, Barcelona, 2007].

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Traduzioni in italiano Il Cantare del Cid, introduzione, versione, note di Giulio Bertoni, con due appendici, Bari, G. Laterza & Figli, 1912. Il Cantare del Cid, Firenze, Sansoni, 1959. Cantare del Cid, presentazione, commento e traduzione di Luigi Fiorentino, Milano, Mursia, 1976. Cantare del Cid, a cura di Cesare Acutis, Torino, Einaudi, 1986.

Cantare del Cid, introduzione, traduzione e note di Andrea Baldissera, Milano, Garzanti, 2003. Studi

S. Armistead, The initial verses of the Cantar de Mio Cid, in «La Corónica», XII, 2 (1984), pp. 178-186.

S. Armistead, From epic to chronicle: an individual appraisal, «Romance Philology», XL (1987), pp. 338-359.

A. Barbero, Lignaggio, famiglia ed entourage signorile nel Cantar de mio Cid, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», XIV (1984), pp. 95-117.

E. Caldera, L’oratoria nel Poema de mio Cid, in Miscellanea di Studi Ispanici, X (1965), pp. 5-29.

M. Conti, La Afrenta de Corpes a la luz de algunos motivos literario-folklóricos clásicos y medievales, in «Revista de Filología Española», LXIII (1983), pp. 73-90.

G. Chiarini, Osservazioni sulla tecnica poetica del Cantar de Mio Cid, in «Lavori Ispanistici», II (1970), pp. 7-45. A. Deyermond, El “Cantar de mio Cid” y la épica medieval española, Barcelona, Sirmio, 1991. Ch. Faulhaber, Neo-traditionalism, formulism, individualism, and recent studies on the spanish epic, in «Romance Philology», XXX (1976), pp. 83-101. L. Formisano, Errori di assonanza e pareados nel Cantar de Mio Cid (per una verifica testuale del

neoindividualismo), in «Medioevo romanzo», XIII (1988), pp. 91-114.

M. E. Lacarra, El “Poema de mio Cid”: realidad histórica e ideología, Madrid, Porrúa, 1980. M. L. Meneghetti, Chansons de geste e cantares de gesta: i due aspetti del linguaggio epico, in «Medioevo Romanzo», IX (1984), pp. 321-340. M. L. Meneghetti, Almanzor, Çorraquín Sancho e i primi passi dell’epica castigliana, in «Medioevo Romanzo», III serie, 22 (1998), pp. 313-325. R. Menéndez Pidal, Poesía juglaresca y orígenes de las literaturas románicas, Instituto de Estudios Políticos, Madrid, 1957, rist. Poesía juglaresca y juglares. Orígenes de las literaturas románicas, prólogo de R. Lapesa, Madrid, Espasa Calpe, 1991.

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I. Michael, A comparison of the use of epic epithets in the Poema de Mio Cid and the Libro de Alexandre, in «Bulletin of Hispanic Studies», XXXVIII (1961), pp. 32-41. I. Michael, Per Abbat ¿autor o copista? Enfoque de la cuestión, in Homenaje a Alonso Zamora Vicente, Madrid, Castalia, 1991, vol. III, pp. 179-205. I. Michael, Orígenes de la epopeya en España: reflexiones sobre las últimas teorías, en Actas del II Congreso de la Asociación Hispánica de Literatura Medieval, Alcalá de Henares, Universidad de Alcalá, 1992, vol. I, pp. 71-88. M. Molho, El Cantar de mio Cid poema de fronteras, en Homenaje a José María Lacarra en su jubilación del profesorado, Zaragoza, Anubar, vol. I, pp. 243-260. A. Montaner, De nuevo sobre los versos iniciales perdidos del Cantar de mio Cid, en Medioevo y Literatura: Actas del V Congreso de la Asociación Hispánica de Literatura Medieval (Granada, 27 de septiembre-1 de octubre de 1993), Granada, Universidad de Granada, 1995, 5 voll., III, pp. 341-360. A. Montaner, De Don Rodrigo Díaz al Cid: el surgimiento de un mito literario, in El Cid: historia, literatura y leyenda, Madrid, Sociedad Estatal España Nuevo Milenio, 2001, pp. 83-105. G. Orduna, La edición crítica y el codex unicus: el texto del Poema de mio Cid, in "Incipit", XVII (1997), pp. 1-46, rist. in G. Orduna, Fundamentos de crítica textual, ed. L. Funes y J.M. Lucía, Madrid, Arco Libros, 2005. F. Rico, Çorraquín Sancho, Roldán y Oliveros: un cantar paralelístico castellano del siglo XII, in Homenaje a la memoria de don Antonio Rodríguez Moñino, Madrid, Castalia, 1975, pp. 537-564. J.M. Ruiz Asencio, El códice del Poema de mio Cid y su escritura, en Poema de mio Cid, ed. facsímil, Burgos, Ayuntamiento, 2001, pp. 27-38. C. Smith, Sobre la difusión del Poema de mio Cid, in "Nueva Revista de Filología Hispánica", XXVIII (1979), pp. 30-56. C. Smith, The making of the "Poema de mio Cid", Cambridge, Cambridge University Press, 1983, trd. sp. La creación del "Poema de mio Cid", Barcelona, Crítica, 1985. I. Zaderenko, Problemas de autoría, de estructura y de fuentes en el "Poema de mio Cid", Alcalá de Henares, Universidad de Alcalá, , 1998. P. Zumthor, Les planctus épiques, in «Romania», LXXXIV (1963), pp. 61-69.

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Cantar primero4

1

De los sus ojos tan fuertemientre llorando, tornava la cabeça e estávalos catando. Vio puertas abiertas e uços sin cañados, alcándaras vacías, sin pielles e sin mantos,

5 e sin falcones e sin adtores mudados. Sospiró mio Cid, ca mucho avié grandes cuidados, fabló mio Cid bien e tan mesurado: ¡Grado a ti, Señor, Padre que estás en alto! ¡Esto me an buelto mios enemigos malos!-

2 10 Allí piensan de aguijar, allí sueltan las riendas.

a la exida de Bivar ovieron la corneja diestra e entrando a Burgos oviéronla siniestra. Meció mio Cid los ombros e engrameó la tiesta: ¡Albricia, Álvar Fáñez, ca echados somos de tierra!-

3

15 Mio Cid Ruy Díaz por Burgos entró, en su conpaña sessaenta pendones. Exiénlo ver mugieres e varones, burgeses e burgesas por las finiestras son, plorando de los ojos, tanto avién el dolor, de las sus bocas todos dizían una razón: 20 -¡Dios, qué buen vassallo, si oviesse buen señor!- 4 Conbidarle ien de grado, mas ninguno non osava el rey don Alfonso tanto avié la grand saña. Antes de la noche, en Burgos d'él entró su carta con grand recabdo e fuertemientre sellada: 25 que a mio Cid Ruy Díaz que nadi no.l' diessen posada, e aquel que ge la diesse sopiesse vera palabra, que perdierié los averes e más los ojos de la cara, e aun demás los cuerpos e las almas. Grande duelo avién las yentes cristianas, ascóndense de mio Cid, ca no l'osan dezir nada. [...]

4 Tratto da: Cantar de mio Cid, ed. de A. Montaner, estudio preliminar de F. Rico, Barcelona, Círculo de

Lectores - Galaxia Gutenberg, 2007, pp. 5-8.

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Cantar tercero5

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[…]

Entrados son los ifantes al robredo de Corpes, los montes son altos, las ramas pujan con las núes, e las bestias fieras que andan aderredor.

2700 Fallaron un vergel con una limpia fuent, mandan fincar la tienda ifantes de Carrión, con cuantos que ellos traen ý yazen essa noch, con sus mugieres en braços demuéstranles amor, ¡mal ge lo cumplieron cuando salié el sol! 2705 Mandaron cargar las azémilas con grandes averes a nombre, cogida han la tienda do albergaron de noch, adelant eran idos los de criazón, assí lo mandaron los ifantes de Carrión, que non ý fincás ninguno, mugier ni varón, 2710 sinon amas sus mugieres, doña Elvira e doña Sol,

deportarse quieren con ellas a todo su sabor. Todos eran idos, ellos cuatro solos son, tanto mal comidieron los ifantes de Carrión: - Bien lo creades, don Elvira e doña Sol,

2715 aquí seredes escarnidas, en estos fieros montes, oy nos partiremos e dexadas seredes de nós, non abredes part en tierras de Carrión. Irán aquestos mandados al Cid Campeador, nós vengaremos por aquésta la del león.- 2720 Allí les tuellen los mantos e los pelliçones, páranlas en cuerpos e en camisas e en ciclatones. Espuelas tienen calçadas los malos traidores, en mano prenden las cinchas fuertes e duradores. Cuando esto vieron las dueñas, fablava doña Sol: 2725 -¡Don Diego e don Fernando, rogámosvos por Dios! Dos espadas tenedes fuertes e tajadores, al una dizen Colada e al otra Tizón,

cortandos las cabeças, mártires seremos nós; moros e cristianos departirán d’esta razón,

2730 que por lo que nós merecemos no lo prendemos nós. Atán malos ensiemplos non fagades sobre nós;

si nós fuéremos majadas, abiltaredes a vós, retraérvoslo han en vistas o en cortes.- Lo que ruegan las dueñas non les ha ningún pro,

2735 Essora les conpieçan a dar los ifantes de Carrión, con las cinchas corredizas májanlas tan sin sabor; con las espuelas agudas, don ellas an mal sabor, ronpién las camisas e las carnes a ellas amas a dós.

5 Tratto da: Cantar de mio Cid, op. cit., pp. 165-169.

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Limpia salié la sangre sobre los ciclatones, 2740 ya lo sienten ellas en los sos coraçones.

¡Cuál ventura serié ésta, sí ploguiesse al Criador, que assomasse essora el Cid Campeador! Tanto las majaron que sin cosimente son, sangrientas an las camisas e todos los ciclatones.

2745 Cansados son de ferir ellos amos a dos, ensayándos’ amos cuál dará mejores colpes. Ya non pueden fablar don Elvira e doña Sol, por muertas las dexaron en el robredo de Corpes. 129

Leváronles los mantos e las pieles armiñas, 2750 mas déxanlas marridas en briales e en camisas e a las aves del monte e a las bestias de la fiera guisa. Por muertas las dexaron, sabed, que non por bivas. ¡Cuál ventura serié si assomás essora el Cid Campeador! 130

Los ifantes de Carrión [………………..],

2755 en el robredo de Corpes por muertas las dexaron, que el una al otra no.l’ torna recabdo. Por los montes do ivan, ellos ívanse alabando:

- De nuestros casamientos agora somos vengados, non las deviemos tomar por varraganas si non fuéssemos rogados, pues nuestras parejas non eran pora en braços. ¡La desondra del león assí s’irá vengando!-

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Gonzalo de Berceo

Milagros de Nuestra Señora

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Milagro VI6 142 Era un ladrón malo que más querié furtar

que ir a la eglesia ni a puentes alzar; sabié de mal porcalzo su casa governar, uso malo que priso no lo podié dexar.

143 Si fazié otros males, esto non lo leemos,

serié mal condempnarlo por lo que non sabemos, mas abóndenos esto que dicho vos avemos; si ál fizo, perdóneli Christus en qui creemos.

144 Entre las otras malas avié una bondat,

que li valió en cabo e dioli salvedat: credié en la Gloriosa de toda voluntat, saludávala siempre contra su magestad.

145 Si fuesse a furtar o a otra locura,

siempre se inclinaba contra la su figura dizié «Ave María» e más de escriptura; tenié su voluntad con esto más segura.

146 Como qui en mal anda en mal á a caer,

oviéronlo con furto est ladrón a prender; non ovo nul consejo con que se defender, judgaron que lo fuessen en la forca poner.

147 Levólo la justicia pora la crucejada

do estava la forca por concejo alzada, prisiéronli los ojos con toca bien atada, alzáronlo de tierra con soga bien tirada.

148 Alzáronlo de tierra cuanto alzar quisieron,

cuantos cerca estavan por muerto lo tovieron; si ante lo sopiessen lo que depués sopieron, no li ovieran fecho esso que li fizieron.

149 La Madre glorïosa, duecha de acorrer,

que suele a sus siervos ennas cuitas valer, a esti condempnado quísoli pro tener, membróli el servicio que li solié fazer.

150 Metióli so los piedes do estava colgado

las sus manos preciosas, tóvolo alleviado; non se sintió de cosa ninguna embargado, non sovo plus vicioso nunqua ni más pagado.

6 Tratto da: Gonzalo de Berceo, Milagros de Nuestra Señora, ed. F. Baños, Barcelona, Crítica, 1997, pp. 40-43.

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151 End al día terzero vinieron los parientes, vinieron los amigos e los sus coñocientes, vinién por descolgallo rascados e dolientes, sedié mejor la cosa que metién ellos mientes.

152 Trobáronlo con alma alegre e sin daño,

non serié tan vicioso si yoguiese en vaño; dizié que so los piedes tenié un tal escaño, non sintrié mal ninguno si colgasse un año.

153 Cuando lo entendieron los que lo enforcaron,

tovieron que el lazo falso ge lo dexaron; fueron mal rependidos que no lo degollaron, tanto gozarién d’esso cuanto depués gozaron.

154 Fueron en un acuerdo toda essa mesnada

que fueron engañados enna mala lazada, mas que lo degollasen con foz o con espada, por un ladrón non fuesse tal villa afontada.

155 Fueron por degollarlo manzebos más livianos

con buenos serraniles, grandes e adïanos; metió Sancta María entre medio las manos, fincaron los gorgueros de la golliella sanos.

156 Cuando esto vidieron, que no.l podién nocir,

que la Madre gloriosa lo querié encobrir, oviéronse con tanto del pleito a partir, hasta que Dios quisiesse dexáronlo vevir.

157 Dexáronlo en paz que se fuesse su vía,

ca non querién ir ellos contra Sancta María. Mejoró en su vida, partióse de follía, cuando cumplió su corso murióse de su día.

158 Madre tan pïadosa, de tal benignidad,

que en buenos e malos face su pïadad, devemos bendicirla de toda voluntad; los que la bendissieron ganaron grand rictad.

159 Las mañas de la Madre con las del que parió

semejan bien calañas qui bien las coñoció: Él por bonos e malos, por todos descendió; ella, si la rogaron, a todos acorrió.

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Juan Ruiz Arcipreste de Hita

Libro de buen amor BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Traduzioni in italiano Juan Ruiz, Arcipreste de Hita, Libro del buon amore, traduzione di Vincenzo La Gioia, introduzione e note di Giuseppe Di Stefano, testo spagnolo a fronte, Rizzoli, Milano 1999, pp. 739. Studi A. Deyermond, Some Aspects of Parody in the Libro de buen amor, in Libro de buen amor Studies, ed. G. B. Gybbon-Monypenny, Tamesis Books, London 1970, pp. 53-78. B. Dutton, Buen amor: its meanings and uses in soma medieval texts, in Libro de buen amor Studies, ed. G. B. Gybbon-Monypenny, Tamesis Books, London 1970, pp. 95-121. A. C. de Ferraresi, De amor y poesía en la España medieval. Prólogo a Juan Ruiz, México, El Colegio de México, 1976.

M. E. Gerli, “Recta voluntas est bonus amor”: St. Augustine and the didactic structure of the Libro de buen amor, in «Romance Philology», XXXV (1981-1982), pp. 500-508. J. Joset, Sobre la oposición entre “frailía /clerezía” en el Libro de buen amor, in «Revista de Literatura medieval», I (1989), pp. 93-101. F. Lázaro Carreter, Los amores de don Melón y doña Endrina. Notas sobre el arte de Juan Ruiz, in «Arbor», XVIII (1951), pp. 210-236. F. Lecoy, Recherches sur le “Libro de buen amor” de Juan Ruiz, Archiprêtre de Hita, Droz, Paris 1938 [rist. 1974] M. R. Lida de Malkiel, Notas para la interpretación, influencia, fuentes y texto del Libro de buen amor, in «Revista de Filología Española», II (1940), pp. 105-150. M. R. Lida de Malkiel, Dos obras maestras españolas: el “Libro de buen amor” y “La Celestina”, EUDEBA, Buenos Aires 1966. G. Macchi, La tradizione manoscritta del Libro de buen amor (a proposito di recenti edizioni ruiziane), in «Cultura Neolatina», XXVIII (1968), pp. 264-298. O. Macrì, Ensayo de métrica sintagmática (Ejemplos del “Libro de buen amor” y del “Laberinto” de Juan de Mena), Gredos, Madrid 1969. V. Marmo, Dalle fonti alle forme. Studi sul “Libro de buen amor”, Liguori, Napoli 1983. F. Rico, Sobre el origen de la autobiografía en el Libro de buen amor, in «Anuario de Estudios Medievales», IV (1967), pp. 301-325. F. Rico, “Por aver mantenencia”. El aristotelismo heterodoxo en el Libro de buen amor, in «El Crotalón», II (1985), pp. 169-198. M. de Riquer, La cuaresma del Arcipreste de Hita y el problema de la doble redacción del Libro de buen amor, in Mélanges offerts à Rita Lejeune, Duculot, Gembloux 1969, I, pp. 511-521.

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C. Segre, Los artificios estructurales del Libro de buen amor, in Crítica bajo control, Planeta, Barcelona 1970, pp. 285-291. A.Varvaro, Manuscritos, ediciones y problemas textuales del Libro de buen amor de Juan Ruiz, in «Medioevo Romanzo», XXVI (2002), 3, pp. 413-475. A. Zahareas, The Art of Juan Ruiz, Archpriest of Hita, Estudios de Literatura Española, Madrid 1965.

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Aquí dize de cómo segund natura los omes e las otras animalias quieren aver conpañía con las fenbras.7 71 Como dize Aristótiles, cosa es verdadera, el mundo por dos cosas trabaja: la primera por aver mantenençia; la otra cosa era por aver juntamiento con fenbra plazentera. 72 Si lo dexiés de mío, sería de culpar; dízelo grand filósofo, non só yo de rebtar: de lo que dize el sabio non devemos dubdar, ca por obra se prueva el sabio e su fablar. 73 Que diz verdat el sabio clarame[n]te se prueva: omnes, aves, animalias, toda bestia de cueva quieren segund natura conpaña sienpre nueva, e quando más el omne que toda cosa que.s mueva. 74 Digo muy más el omne que toda creatura: todas a tienpo çierto se juntan , con natura; el omne de mal seso todo tienpo, sin mesura, cada que puede quiere fazer esta locura. 75 El fuego sienpre quiere estar en la çeniza, comoquier que más arde quanto más se atiza; el omne quando peca bien vee que desliza, mas non se parte ende ca natura lo enriza. 76 E yo, como só omne como otro, pecador, ove de las mugeres a las vezes grand amor; provar omne las cosas non es por ende peor, e saber bien e mal, e usar lo mejor.

De cómo el Arcipreste fue enamorado 77 Assí fue que un tiempo una dueña me prisso de su amor non fui en ese tienpo repiso: siempre avía della buena fabla e buen riso, nunca ál fizo por mí nin creo que fazer quiso. 78 Era dueña en todo e de dueñas señora; non podía ser solo con ella una ora: mucho de omne se guardan allí do ella mora, más mucho que non guardan los jodíos la Tora.

7 Tratto da: Juan Ruiz, Libro de buen amor, ed. A. Blecua, Madrid, Cátedra, 1992, pp. 28-30.

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79 Sabe toda nobleza de oro e de seda, conplida de todos bienes, anda mansa e leda; e de buenas constumbres, sossegada e queda, non se podria vençer por pintada moneda. 80 Enbiél esta cantiga, que es deyuso puesta, con la mi mensajera, que tenía enpuesta; dize verdat la fabla que “la dueña conpuesta, si non quiere el mandado, non da buena repuesta”. 81 Dixo la dueña cuerda a la mi mensajera: “Yo veo otras muchas creer a ti, parlera, e fállanse ende mal; castigo en su manera, bien como la rapossa en agena mollera.”

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Don Juan Manuel

El Conde Lucanor

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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A. Blecua, La transmisión textual de “El Conde Lucanor”, Universidad Autónoma de Barcelona, Bellaterra, 1980. E. Caldera, Retorica, narrativa e didattica nel Conde Lucanor, in «Miscellanea di Studi Ispanici», XIV (1966-67), pp. 5-120. P. Cherchi, Brevedad, oscuridad, synchysis in El Conde Lucanor, in «Medioevo Romanzo», IX (1984), pp. 361-374. D. Devoto, Cuatro notas sobre la materia tradicional en don Juan Manuel, in «Bulletin Hispanique», LXVIII (1966), pp. 187-215 (poi rifuso in Textos y contextos: estudios sobre la tradición, Gredos, Madrid, 1974, pp. 112-149. D. Devoto, Introducción al estudio de don Juan Manuel y en particular de “El Conde Lucanor”: una bibliografía, Castalia, Madrid, 1972. J. Gimeno Casalduero, El Conde Lucanor composición y significado, in «Nueva Revista de Filología Hispánica», XXIV (1975), pp. 101-112 (rifuso in La creación literaria de la Edad Media y del Renacimiento, Porrúa-Turanzas, Madrid, 1977, pp. 19-34. M. J. Lacarra, Cuentística medieval en España: los orígenes, Universidad, Zaragoza, 1979. J. A. Maravall, La sociedad estamental castellana y la obra de don Juan Manuel, in Estudios de Historia del pensamiento español. I. Edad Media, Ediciones de Cultura Hispánica, Madrid, 1983, pp. 453-471. M. Metzeltin, El exemplo quinto de El Conde Lucanor o el grado cero de la narratividad, in Crítica semiológica de textos literarios hispánicos, ed. M. A. Garrido Gallardo, I, CSIC, Madrid, 1986, pp. 53-67. M. Metzeltin, Los aspectos argumentativos de los ejemplos del Conde Lucanor, in Studia in honorem profesor Martín de Riquer, Quaderns crema, Barcelona, 1991, IV vol., pp. 247-261. J. Paredes Núñez, Formas narrativas breves en la literatura medieval: problemas de terminología, Universidad de Granada, Granada, 1986. K. Scholberg, A stlylistic analysis of the Conde Lucanor, in «Kentucky Foreign Language Quarterly», X (1963), pp. 198-203. K. Scholberg, Figurative language in Juan Manuel, in Juan Manuel Studies, ed. I. Macpherson, Tamesis, London, 1977, pp. 143-155. C. Segre, Negromanzia e ingratitudine (Juan Manuel, il Novellino, Ludovico Ariosto, in Mélanges de linguistique romane et de philologie médiévale offerts à M. Maurice Delbouille, Duculot, Gembloux, 1964, II vol., pp. 653-658. A. Varvaro, La cornice del Conde Lucanor, in «Studi di Letteratura Spagnola», 1964, pp. 187-195. A. Varvaro, Forme di intertestualità. La narrativa spagnola medievale tra Oriente e Occidente, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale», XXVII (1985), pp. 49-65.

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Prólogo8

En el nombre de Dios, amén. Entre muchas cosas estrañas et marabillosas que nuestro

Señor Dios fizo, tovo por bien de fazer una muy marabillosa: esta es de que cuantos omnes en el mundo son, non ha uno que semeje a otro en la cara, ca commo quier que todos los omnes han essas mismas cosas en la cara, los unos que los otros, pero las caras en sí mismas non semejan las unas a las otras. Et pues en las caras, que son tan pequeñas cosas, ha en ellas tan gran departimiento, menor marabilla es que aya departimiento en las voluntades et en las entenciones de los omnes; et assí fallaredes que ningún omne non se semeja del todo en la voluntad nin en la entención con otro. Et fazervos he algunos enxienplos por que lo entendades mejor.

Todos los que quieren et desean servir a Dios, todos quieren una cosa, pero non lo sirven todos en una manera, que unos le sirven en una manera et otros, en otra. Otrosí, los que sirven a los señores, todos los sirven, mas non los sirven todos en una manera. Et los que labran et crían et trebejan et caçan et fazen todas las otras cosas, todos las fazen, mas non las entienden nin las fazen todos en una manera. Et así, por este exienplo et por otros que serién muy luengos de dezir, podedes entender que commo quier que los omnes todos sean omnes et todos ayan voluntades et entenciones, que atán poco commo se semejan en las caras, tan poco se semejan en las entenciones et en las voluntades; pero todos se semejan en tanto que todos usan et quieren et aprender mejor aquellas cosas de que se más pagan que las otras. Et porque cada omne aprende mejor aquello de que se más paga, por ende el que alguna cosa quiere mostrar a otro, devégelo mostrar en la manera que entendiere que será más pagado el que lo ha de aprender. Et porque a muchos omnes las cosas sotiles non les caben en los entendimientos, porque non las entienden bien, non toman plazer en leer aquellos libros nin aprender lo que es escripto en ellos. Et porque non toman plazer en ello, non lo pueden aprender nin saber así commo a ellos cunplía.

Por ende yo, don Johán, fijo del infante don Manuel, adelantado mayor de la frontera et del regno de Murcia, fiz este libro conpuesto de las más apuestas palabras que yo pude, et entre las palabras entremetí algunos enxienplos de que se podrían aprovechar los que oyeren. Et esto fiz segund la manera que fazen los físicos, que cuando quieren fazer alguna melizina que aproveche al fígado, por razón que naturalmente el fígado se paga de las cosas dulces, mezclan con aquella melezina que quieren melezinar el fígado açúcar o miel o alguna cosa dulce; et por el pagamiento que el fígado ha de la cosa dulce, en tirándola para sí, lieva con ella la melezina quel ha de aprovechar. Et esso mismo fazen a cualquier mienbro que aya mester alguna melezina, que siempre la dan alguna cosa que naturalmente aquel mienbro la aya de tirar a sí. Et a esta semejança, con la merced de Dios, será fecho este libro; et los que lo leyeren, si por su voluntad tomaren plazer de las cosas provechosas que ý fallaren, será bien. Et aun los que lo tan bien non entendieren non podrán escusar que, en leyendo el libro, por las palabras falagueras et apuestas que en él fallarán, que non ayan a leer las cosas aprovechosas que son ý mezcladas, et aunque ellos non lo deseen, aprovecharse han dellas, así commo el fígado et los otros mienbros dichos se aprovechan de las melezinas que son mezcladas con las cosas de que ellos se pagan. Et Dios, que es conplido et conplidor de todos los buenos fechos, por la su mercet et por la su piadat quiera que los que este libro leyeren que se aprovechen dél a servicio de Dios et para salvamiento de sus almas et aprovechamiento de sus cuerpos, así commo Él sabe que yo, don Johán, lo digo a essa entención. Et lo que ý fallaren que non es tan bien dicho, non pongan la culpa a la mi entención, mas pónganla a la mengua del mío entendimiento. Et si alguna cosa fallaren bien dicha o aprovechosa, gradéscanlo a Dios, ca Él es aquel por quien todos los buenos dichos et fechos se dizen et se fazen.

Et pues el prólogo es acabado, de aquí adelante començaré la materia del libro en manera de un grand señor que fablava con un su consegero. Et dizían al señor, conde Lucanor, et al consegero, Patronio.

8 Tratto da: Don Juan Manuel, El Conde Lucanor, ed. J.M. Blecua, Madrid, Castalia, 1988, pp. 48-52.

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Exemplo V9 De lo que contesció a un raposo con un cuervo que tenié un pedaço de queso en el pico

Otra vez fablava el conde Lucanor con Patronio, su consejero, et díxol assí: -Patronio, un omne que da a entender que es mi amigo me començó a loar mucho,

dándome a entender que avía en mí muchos conplimientos de onra et de poder et de muchas bondades. Et de que con estas razones me falagó cuanto pudo, movióme un pleito que en la primera vista, segund lo que yo puedo entender, que paresce que es mi pro.

Et contó el conde a Patronio cuál era el pleito quel movía; et commo quier que parescía el pleito aprovechoso, Patronio entendió el engaño que yazía ascondido so las palabras fremosas. Et por ende dixo al conde:

-Señor conde Lucanor, sabet que este omne vos quiere engañar dándovos a entender que el vuestro poder et el vuestro estado es mayor de cuanto es la verdat. Et para que vos podades guardar deste engaño que vos quiere fazer, plazerme ýa que sopiésedes lo que contesció a un cuervo con un raposo.

Et el conde le preguntó cómmo fuera aquello. -Señor conde Lucanor –dixo Patronio-, el cuervo falló una vegada un grant pedaço de

queso et subió en un árbol por que pudiese comer el queso más a su guisa et sin recelo et sin enbargo de ninguno. Et en cuanto el cuervo assí estava, passó el raposo por el pie del árbol, et desque vio el queso que el cuervo tenía, començó a cuidar en cuál manera lo podría levar dél. Et por ende començó a fablar con él en esta guisa:

-Don Cuervo, muy gran tiempo ha que oý fablar de vós et de la vuestra nobleza et de la vuestra apostura. Et commo quiera que vos mucho busqué, non fue la voluntat de Dios nin la mi ventura que vos pudiesse fallar fasta agora; et agora que vos veo, entiendo que ha mucho más bien en vós de cuanto me dizían. Et por que veades que non vos lo digo por lesonja, tan bien commo vos diré las aposturas que en vós entiendo, tan bien vos diré las cosas en que las gentes tienen que non sodes tan apuesto.

Todas las gentes tienen que la color de las vuestras péñolas et de los ojos et del pico et de los pies et de las uñas, que todo es prieto. Et porque la cosa prieta non es tan apuesta commo la de otra color, et vós sodes todo prieto, tienen las gentes que es mengua de vuestra apostura et non entienden cómmo yerran en ello mucho, ca commo quier que las vuestras péñolas son prietas, tan prieta et tan luzia es aquella pretura, que torna en india commo péñolas de pavón, que es la más fremosa ave del mundo. Et commo quier que los vuestros ojos son prietos, cuanto para ojos, mucho son más fremosos que otros ojos ningunos, ca la propriedat del ojo non es sinon ver; et porque toda cosa prieta conorta el viso, para los ojos, los prietos son los mejores; et por ende son más loados los ojos de la ganzela, que son más prietos que de ninguna otra animalia. Otrosí, el vuestro pico et las vuestras manos et uñas son fuertes más que de ninguna ave tanmaña commo vós. Otrosí, en el vuestro vuelo avedes tan grant ligereza, que vos non enbarga el viento de yr contra él por rezio que sea, lo que otra ave non puede fazer tan ligeramente commo vós. Et bien tengo que, pues Dios todas las cosas faze con razón, que non consintría que, pues en todo sodes tan conplido, que oviese en vós mengua de non cantar mejor que ninguna otra ave. Et pues Dios me fizo tanta mercet que vos veo et sé que ha en vós más bien de cuanto nunca de vós oý, si yo pudiesse oýr de vós el vuestro canto, para siempre me ternía por de buenaventura.

9 Ibid., pp. 78-82.

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29

Et, señor conde Lucanor, parat mientes que, maguer que la entención del raposo era para engañar al cuervo, que siempre las sus razones fueron con verdat. Et set cierto que los engaños et damños mortales siempre son los que se dizen con verdat engañosa.

Et desque el cuervo vio en cuántas maneras el raposo le alabava et cómmo le dizía verdat en todas, creó que asíl dizía verdat en todo lo ál, et tovo que era su amigo et non sospechó que lo fazía por levar dél el queso que tenía en el pico. Et por las muchas buenas razones quel avía oýdo et por los falagos et ruegos quel fiziera por que cantase, abrió el pico para cantar. Et desque el pico fue abierto para cantar, cayó el queso en tierra et tomólo el raposo et fuese con él. Et así fincó engañado el cuervo del raposo, creyendo que avía en sí más apostura et más complimiento de cuanto era la verdat.

Et vós, señor conde Lucanor, commo quier que Dios vos fizo assaz mercet en todo, pues veedes que aquel omne vos quiere fazer entender que avedes mayor poder et mayor onra o más bondades de cuanto vós sabedes que es la verdat, entendet que lo faze por vos engañar, et guardatvos dél et faredes commo omne de buen recabdo.

Al conde plogo mucho de lo que Patronio le dixo et fízolo assí. Et con su consejo fue él guardado de yerro.

Et porque entendió don Johán que este exienplo era muy bueno, fízolo escribir en este libro et fizo estos viessos en que se entiende abreviadamente la entención de todo este exienplo. Et los viessos dizen asý:

Qui te alaba con lo que non es de ti, sabe que quiere levar lo que has de ti

Exenplo XXXIIII10 De lo que contesció a un ciego que adestrava a otro Otra vez fablava el conde Lucanor con Patronio, su consegero, en esta guisa:

-Patronio, un mío pariente et amigo, de qui yo fío mucho et só cierto que me ama verdaderamente, me conseja que vaya a un logar de que me recelo yo mucho. Et él dize que me non aya recelo, que ante tomaría él la muerte que yo tome ningund daño. Et agora ruégovos que me consejedes en esto.

-Señor conde Lucanor –dixo Patronio-, para este consejo mucho querría que sopiésedes lo que contesció a un ciego con otro.

El conde le preguntó cómmo fuera aquello. -Señor Conde –dixo Patronio-, un omne morava en una villa, et perdió la vista de los ojos

et fue ciego. Et estando así ciego et pobre, vino a él otro ciego que morava en aquella villa et díxole que fuessen amos a otra villa cerca daquella do ellos moravan, et que pidrían por Dios et que avrían de que se mantener et governar.

Et aquel ciego le dixo que él sabía aquel camino de aquella villa, que avía ý pozos et varrancos et muy fuertes passadas, et que se recelava mucho daquella yda.

Et el otro ciego le dixo que non oviesse recelo, ca él se yría con él et lo pornía en salvo. Et tanto le asseguró et tantas proes le mostró en la yda, que el ciego creyó al otro ciego, et fuéronse.

10 Ibid., pp. 194-196.

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Et desque llegaron a los lugares fuertes et peligrosos, cayó el ciego que guiava al otro, et non dexó por esso de caer el ciego que recelava el camino.

Et vós, señor conde, si recelo avedes con razón et el fecho es peligroso, non vos metades en camino de peligro por lo que vuestro pariente et amigo vos dize que ante morrá que vós tomedes daño, ca muy poco vos aprovecharía a vós que él muriesse et vós tomássedes daño et muriéssedes.

El conde tovo por buen consejo, et fízolo assí et fallóse ende muy bien. Et entendiendo don Johán que este enxienplo era bueno, fízolo escribir en este libro et

fizo estos viessos que dizen assí: Nunca te metas ó puedas aver malandança, aunque tu amigo te faga segurança.

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Poesia del secolo XV

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Macías

"Esta cantiga fizo e ordenó el dicho Macías quexándose de sos travajos". Prové de buscar mesura ó mesura non fallesçe, e por menguada ventura oviéronmelo a sandeçe; por ende dyrey desý, con cuydado que me creçe un trebello, e dyze asý: Anda meu coraçón muy triste e con razón. Meus ollos tal fermosura fueron ver por qué peresçe mi coraçón con trystura e amor non me guaresçe, nin me pone tal consello por que yo prenda ledeçe; por én digo este trebello: Ben puede Deus fazer tras grant pesar, plazer. Estos trebellos cantey con coyta desd’aquel dýa que mesura demandey e yo vy que fallesçía: mesura morrey chamando, e diziendo a grant porfýa tal trebello sospirando: Meus ollos morte son de vós meu coraçón. Poys mesura non achey ó fallesçer non solýa mesura luego olvidey e quanto plazer avýa: con pesar que teño migo e tristeza todavýa, aqueste trebello digo: Bon Deus a mí faz vezer por grand pesar plazer.11

11 Tratto da: Macías. L’esperienza poetica galego-castigliana, edizione critica a cura di A. Zinato, Venezia, Cafoscarina, 1996, pp. 85-86.

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Suero de Ribera Dezir En una linda floresta de muchas flores et rosas, vi tres donzellas fermosas que d'amores an requesta; et yo, con voluntad presta, lleguéme por conosçellas e dixo la mayor dellas esta cançión muy honesta: Aguardan a mí Nunca tales guardas vi. Por mirar su fermosura d'aquestas tres lindas damas, escondím'entre las ramas asentado'n la verdura; la otra, con gran tristura, començó de sospirar et dezía'ste cantar con muy honesta mesura: la ninya que los amores há cómo dormirá solá. Non quise más adelante yr, por non fazer mudança a las que con hordenança cantavan tan concordante; la otra, gentil bastante, dixo: "Senyoras, de grado, pues me avedes cantado, a mí conviene que cante: Dexaldo al villano ý pene vengar m'á Dios d'ele. Desque ove bien mirado estas senyoras que digo, fui a ellas sosegado como honbre sin abrigo. Ellas dixeron: "Amigo, non soes vos el que buscamos mas cantat pues nos cantamos". Dixe este cantar antiguo: Sospirando va la ninya et non por mí, que yo bien ge lo entendí12.

12

Cito da Cancionero de Palacio, ed. A.M. Álvarez Pellitero, Salamanca, Junta de Castilla y León, 1993, pp. 68-70.

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Íñigo López de Mendoza, Marqués de Santillana

Cançión13

Quien de vos merçed espera,

señora, nin bien atiende,

¡ay qué poco se le entiende!

Yo vos serví lealmente

con muy presta voluntad,

e nunca fallé piedad

en vos, nin buen continente,

antes vuestra crueldad

me faze ser padesçiente:

¡guay de quien con vos contiende!

Tanta es vuestra beldad

que partir non me consiente

de servir con lealtad

a vos, señora exçellente.

Sed ya, por vuestra bondad,

gradeçida e conviniente,

ca mi vida se despiende.

Copla del Marqués a una dama14

Como el Fénis vo ençendiendo

la foguera que m'ençiende,

esperando en quien no entiende

darme vida, nin lo entiendo.

Armas busca quien contiende,

mas yo non, pero contiendo;

bruto animal se defiende,

yo entiendo y non me defiendo.

13 Tratto da: M. de Santillana, Comedieta de Ponza, sonetos, serranillas y otras obras, ed. R. Rohland de Langbehn, estudio preliminar de V. Beltran, Crítica, Barcelona, 1997, pp. 49-50. 14 Ibid., p. 54.

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Juan de Mena Laberinto de Fortuna Al muy prepotente don Juan el segundo, aquél con quien Júpiter tuvo tal zelo que tanta de parte le fizo del mundo cuanta a sí mesmo se fizo del cielo; al gran rey de España, al César novelo, al que con fortuna es bien fortunado, aquél en quien caben virtud e reinado, a él, la rodilla fincada por suelo. Tus casos falaces, fortuna, cantamos, estados de gentes que giras e trocas, tus grandes discordias, tus firmezas pocas y los que en tu rueda quexosos fallamos. Fasta que al tiempo de agora vengamos, de fechos pasados cobdicia mi pluma y de presentes fazer breve suma: dé fin Apolo, pues nos començamos. Tú, Calïope, me sey favorable dándome alas de don virtüoso porque discurra por donde non oso: conbida mi lengua con algo que fable, levante la fama su boz inefable porque los fechos que son al presente vayan de gentes sabidos en gente, olvido non prive lo que es memorable. Como no creo que fuessen menores que los de Africano los fechos del Cid nin que feroces menos en la lid entrasen los nuestros que los agenores, las grandes façañas de nuestros señores, la mucha constancia de quien los más ama, yaze en teniebras dormida su fama, dañada de olvido por falta de auctores. La gran Babilonia, que uvo cercado la madre de Nino de tierra cozida, si ya por el suelo nos es destruida, ¡cuánto más presto lo mal fabricado! E si los muros que Febo a travado argólica fuerça pudo subverter, ¿qué fábrica pueden mis manos fazer que non faga curso segun lo passado?

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Ya, pues, derrama de tus nuevas fuentes en mí tu subsidio, inmortal Apolo; aspira en mi boca porque pueda sólo virtudes e vicios narrar de potentes. A estos mis dichos mostradvos presentes, ¡o fijas de Tespis! con vuestro tesoro, y con armonía de aquel dulce coro suplid cobdiciando mis inconvinientes. Pues, dame licencia, mudable fortuna, por tal que yo blasme de ti como devo. Lo que a los sabios non deve ser nuevo inoto a persona podrá ser alguna e pues que tu fecho así contrapuna faz a tus casos como se concorden ca todas las cosas regidas por orden son amigables de forma más una. La orden del cielo exemplo te sea: guarda la mucha constancia del Norte, mira el Trïón que ha por deporte ser inconstante, que siempre rodea, e las siete Pleyas que Atlas otea que juntas parescen en muy chica suma; siempre se esconden venida la bruma, cada cual guarda cualquier ley que sea. ¿Pues, cómo, fortuna, regir todas cosas con ley absoluta, sin orden, te plaze? ¿Tú non farías lo que el cielo faze e fazen los tiempos, las plantas e rosas? Muestra tus obras ser siempre dañosas o prósperas, buenas, durables, eternas, non nos fatigues con vezes alternas, alegres agora e agora enojosas. Mas bien acatada tu varia mudança por ley te goviernas, maguer discrepante, ca tu firmeza es non ser constante, tu temperamento es distemperança, tu más cierta orden es desordenança, es la tu regla ser muy enorme, tu conformidad es non ser conforme, tú desesperas a toda esperanza. […]

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Jorge Manrique

Otras suyas diziendo qué cosa es amor15 Es amor fuerça tan fuerte

que fuerça toda razón, una fuerça de tal suerte que todo el seso convierte

5 en su fuerça y afición; una porfía forçosa que no se puede vencer, cuya fuerça porfiosa hazemos más poderosa

10 queriéndonos defender. Es plazer en que hay dolores,

dolor en que hay alegría, un pesar en que hay dulçores, un esfuerço en que hay temores,

15 temor en que hay osadía; un plazer en que hay enojos, una gloria en que hay passión, una fe en que hay antojos, fuerça que hazen los ojos

20 al seso y al coraçón. Es una catividad

sin parescer las prisiones, un robo de libertad, un forçar de voluntad

25 donde no valen razones; una sospecha celosa causada por el querer, una ravia desseosa que no sabe qué es la cosa

30 que dessea tanto ver. Es un modo de locura

con las mudanças que haze: una vez pone tristura, otra vez causa holgura

35 como lo quiere y le plaze; un desseo que al ausente trabaja, pena y fatiga, un recelo que al presente haze callar lo que siente

15 Tratto da: Jorge Manrique, Poesía, ed. V. Beltran, Barcelona, Crítica, 1993, pp. 55-57.

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40 teniendo pena que diga.

Fin Todas estas propiedades

tiene el verdadero amor; el falso, mil falsedades, mil mentiras, mil maldades

45 como fengido traidor; el toque para tocar cuál amor es bien forjado, es sofrir el desamar, que no puede comportar

50 el falso sobredorado. Coplas que hizo don Jorge Manrique a la muerte del maestre de Santiago don Rodrigo Manrique su padre16 Recuerde el alma dormida,

abive el seso y despierte contemplando

cómo se pasa la vida, 5 cómo se viene la muerte tan callando;

cuánd presto se va el plazer, cómo después de acordado

da dolor, 10 cómo a nuestro parescer

cualquiera tiempo pasado fue mejor. Y pues vemos lo presente

cómo en un punto se es ido 15 y acabado,

si juzgamos sabiamente, daremos lo no venido

por pasado. No se engañe nadie, no,

20 pensando que a de durar lo que espera

más que duró lo que vio, porque todo ha de pasar

por tal manera. 25 Nuestras vidas son los ríos

que van a dar en el mar que es el morir;

16 Jorge Manrique, Poesía, op. cit., pp. 147-150 e 172-175.

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allí van los señoríos derechos a se acabar

30 y consumir; allí, los ríos caudales, allí, los otros, medianos

y más chicos, allegados, son iguales,

35 los que biven por sus manos y los ricos.

[…] -El bevir que es perdurable 425 no se gana con estados mundanales

ni con vida deleitable en que moran los pecados

infernales; 430 mas los buenos religiosos

gánanlo con oraciones y con lloros,

los cavalleros famosos, con trabajos y afliciones

435 contra moros. -Y pues vós, claro varón,

tanta sangre derramastes de paganos,

esperad el galardón 440 que en este mundo ganastes por las manos;

y con esta confiança y con la fe tan entera

que tenéis, 445 partid con buena esperança

que esta otra vida tercera ganaréis. -No gastemos tiempo ya

en esta vida mezquina 450 por tal modo

que mi voluntad está conforme con la divina

para todo. Y consiento en mi morir

455 con voluntad plazentera, clara y pura,

que querer ombre bivir cuando Dios quiere que muera,

es locura.

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460 -Tú, que por nuestra maldad tomaste forma cevil

y baxo nombre, tú, que a tu divinidad juntaste cosa tan vil

465 como es el ombre, tú, que tan grandes tormentos sofriste sin resistencia

en tu persona, no por mis merescimientos,

470 mas por tu sola clemencia me perdona. Así, con tal entender,

todos sentidos humanos olvidados, 475 cercado de su muger

y de hijos y de hermanos y criados,

dio el alma a quien gela dio, el cual la ponga en el cielo

480 y en su gloria; y aunque la vida murió, nos dexó harto consuelo

su memoria.

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Juan del Encina

Villancico17 Más quiero morir por veros que bivir sin conoceros.

Es tan firme mi esperança

que jamás haze mudança, 5 teniendo tal confïança

de ganarme por quereros. Mucho gana el que es perdido

por merecer tan crecido y es vitoria ser vencido

10 sin jamás poder venceros.

Fin Aunque sienta gran tormento, gran tristeza y pensamiento, yo seré de ello contento por ser dichoso de veros.

Villancico18 Ojos garços ha la niña,

¿quien ge lo namoraría? Son tan bellos y tan bivos

que a todos tienen cativos; 5 mas muéstralos tan esquivos

que roban ell alegría.

Roban el plazer y gloria, los sentidos y memoria; de todos llevan vitoria

10 con su gentil galanía.

Con su gentil gentileza ponen fe con más firmeza; hazen bivir en tristeza al que alegre ser solía.

17

Tratto da: Juan del Encina, Obra completa, ed. M.Á. Pérez Priego, Madrid, Biblioteca Castro, 1996, pp. 712-

713. 18

Ibid., p. 726.

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Fin

15 No ay ninguno que los vea

que su cativo no sea todo el mundo los dessea contemplar de noche y día.

Anonimo19

Entra mayo y sale abril,

¡tan garridico le vi venir!

Entra mayo con sus flores, sale abril con sus amores,

5 y los dulces amadores comiençen a bien servir.

Anonimo20 ¡Aquel gentilombre, madre! Caro me cuesta el su amor. Yo me levantara un lunes, un lunes antes del día, viera estar al ruiseñor. Anónimo21 Dentro en el vergel moriré. Dentro en el rosal matarm'han. Yo m'iva, mi madre, las rosas coger. Hallé mis amores dentro en el vergel. Dentro en el rosal matarm'han.

19

Tratto da: Cancionero musical de Palacio, ed. J. González Cuenca, Madrid, Visor, 1996, p. 66. 20

Ibid., p. 244. 21

Ibid., p. 271.

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G. Chicote, El romancero en la Edad Media: discurso tradicional y literatura culta, in Medievalia, 20 (1995), pp. 7-13. A. Deyermond, La literatura oral en la transición de la Edad Media al Renacimiento, in «Edad de Oro», VII (1988), pp. 21-32. G. Di Stefano, Sincronia e diacronia nel Romanzero (Un esempio di lettura), Pisa, Università di Pisa, 1967. G. Di Stefano, Il pliego suelto cinquecentesco e il Romancero, in Studi di Filologia romanza offerti a Silvio Pellegrini, Padova, Liviana, 1971, pp. 111-143. G. Di Stefano, Tradición antigua y tradición moderna. Apuntes sobre poética e historia del Romancero, in El Romancero en la tradición oral moderna. I Coloquio Internacional, ed. D. Catalán y S. Armistead, Madrid, Cátedra Seminario Menéndez Pidal – Univ. Madrid, 1972, pp. 277-296. G. Di Stefano, Epopeya y romancero antiguo, in Les Chanson de Geste. Actes du XVIe Congrès International de la Société Rencesvals, pour l'Étude des Épopées Romanes (Granada, 21-25 juillet 2003), edd. C. Alvar - J. Paredes, Granada, Universidad de Granada, 2005, pp. 53-64. J. Domínguez Caparrós, Literatura, actos de lenguaje y oralidad, in «Edad de Oro». VII (1988), pp. 5-13. A. González, El motivo como unidad narrativa mínima en el Romancero, in El Romancero. Tradición y pervivencia a fines del siglo XX (Actas del IV Coloquio Internacional del Romancero), Cádiz, Fundación Machado – Universidad de Cádiz, 1989, pp. 51-55. R. Lapesa, La lengua de la poesía épica en los cantares de gesta y en el Romancero viejo, in «Anuario de Letras», IV (1964), pp. 5-24 (rist. in De la Edad Media a nuestros días, Madrid, Gredos, 1971, pp. 9-28. R. Menéndez Pidal, Estudios sobre el Romancero, in Obras completas de R. Menéndez Pidal, XI, Madrid, Espasa-Calpe, 1973. F. Rico, Sobre los orígenes de Fontefrida y el primer romancero trovadoresco, in Texto y contextos. Estudios sobre la poesía española del siglo XV, Barcelona, Crítica, 1990, pp. 1-32. S. Robertson, The Limits of Narrative Structure: One Aspect in the Study of El prisionero, in El Romancero hoy: Poética. II Coloquio Internacional, Madrid, Cátedra Seminario Menéndez Pidal, 1979, pp. 313-318. E. M. Wilson, Tragic Themes in Spanish Ballads, Cambridge, 1958.

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Ciclo de don Rodrigo (Seducción de la Cava)22

Amores trata Rodrigo, descubierto su cuidado

2 a la Cava se lo dice, de quien anda enamorado: -Mira Cava, mira Cava, mira Cava que te hablo:

4 darte he yo mi corazón y estaría a tu mandado.- La Cava, como es discreta, en burlas lo había echado.

6 Respondió muy mesurada y el rostro muy abajado: -como lo dice tu alteza debe estar de mí burlando.

8 No me lo mande tu alteza, que perdería gran ditado.- Don Rodrigo le responde que conceda en lo rogado

10 -que d’este reino de España puedes hacer tu mandado.- Ella hincada de rodillas, él estála enamorando;

12 sacándole está aradores de las sus jarifes manos. Fuese el rey dormir la siesta, por la Cava había enviado;

14 cumplió el rey su voluntad más por fuerça que por grado, por la cual se perdió España por aquel tan gran pecado. 16 La malvada de la Cava a su padre lo ha contado;

don Julián, que es traidor, con los moros se ha concertado que destruyesen a España por lo haber así injuriado.

Romance del prisionero23 -Por el mes era de mayo, cuando hace el calor,

2 cuando canta la calandria y responde el ruiseñor, cuando los enamorados van a servir al amor;

4 sino yo, triste cuitado, que vivo en esta prisión, que ni sé cuándo es de día ni cuándo las noches son

6 sino por una avecilla que me cantaba al albor; matómela un ballestero, déle Dios mal galardón.

8 Cabellos de mi cabeza lléganme al corvejón, los cabellos de mi barba por manteles tengo yo,

10 las uñas de las mis manos por cuchillo tajador. Si lo hacía el buen rey, hácelo como señor;

12 si lo hace el carcelero, hácelo como traidor. Mas quién agora me diese un pájaro hablador

14 siquiera fuese calandria, o tordico, o ruiseñor, criado fuese entre damas y avezado a la razón,

16 que me lleve una embajada a mi esposa Leonor: que me envíe una empanada no de trucha ni salmón

18 sino de una lima sorda y de un pico tajador, la lima para los hierros y el pico para la torre.-

20 Oído lo había el rey, mandóle quitar la prisión.

22

Tratto da: Romancero, ed. P. Díaz-Mas, estudio preliminar de S.G. Armistead, Barcelona, Crítica, 1994, pp.

134-136. 23

Ibid., pp. 284-285.

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Rosa fresca24

-Rosa fresca, rosa fresca, tan garrida y con amor,

2 cuando y’os tuve en mis brazos no vos supe servir, no, y agora que os serviría no vos puedo haber, no.

4 -Vuestra fue la culpa, amigo, vuestra fue, que mía no. Enviástesme una carta con un vuestro servidor

6 y en lugar de recaudar él dijera otra razón: qu’érades casado, amigo, allá en tierras de León;

8 que tenéis mujer hermosa e hijos como una flor. -Quien os lo dijo, señora, no vos dijo verdad, no;

10 que yo nunca entré en Castilla ni allá en tierras de León, sino cuando era pequeño que no sabía de amor.

24

Ibid., p. 309.

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Juan Boscán Edizioni moderne Juan Boscán, Poemas inéditos, ed. M. de Riquer, Barcelona, 1940. Las obras de Boscán y algunas de Garcilaso repartidas en cuatro libros, Barcelona, Carlos Amorós, Madrid, Biblioteca Nueva, 1943. Juan Boscán, Obra poética, edd. M. de Riquer, A. Coma, J. Molas, ,Barcelona, Facultad de Filosofía y Letras, 1957. Juan Boscán, Poesía, ed. M. Fernández Nieto, Barcelona, Orbis, 1983. Las obras de Juan Boscán de nuevo puestas al dia y repartidas en tres libros, ed. C. Clavería, Barcelona, PPU, 1991. Juan Boscán y Garcilaso de la Vega, Obras completas, ed. C. Clavería, Madrid, Catedra, 1999. Soneto Dissimulando voy con alegría mi triste stado y muestro star contento; alcança luego allí mi pensamiento el mal que viene d'esto all alma mía. Porque siguiendo yo tal fantasía 5 el mal s'encoge donde más le siento, y anssí le dura más, y el sentimiento se muestra poco enbuelto en tal porfía. ¡O fuerte caso! ¡O duros pensamientos que siempre stays pensando nueva guerra! 10 Hazed ya paz, si no, dadme la muerte. ¿Qué vale ymaginar nuevos tormentos en honbre que biviendo sta so tierra, muriendo sin morir ni mudar suerte. 25

25

Tratto da: Juan Boscán y su cancionero barcelonés, ed. Martín de Riquer, Barcelona, Archivo Histórico,

1945, p. 127.

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Soneto Un tiempo yo pensé y tuve por cierto que otro dolor hallar no se podría que ygualase al morir y a su porfía, y veo que anduve herrado y sin concierto. Por lo que digo, una vez más ser muerto 5 estimo que morir tantas el día, quantas se ofrece ver sin alegría vuestro gesto de amor, seguro puerto. Si con desdén mi voluntad tan firme tratáys, es un dolor tan rezio y estraño 10 que juzgo por menor lo de la muerte; mirad si, con verdad, caso tan fuerte afirmar puedo que no ay mal tamaño pues tales tragos passo sin morirme.26

26

Ibid., p. 128.

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Garcilaso de la Vega Edizioni moderne Garcilaso de la Vega, Obras Completas, ed. E.L. Rivers, Madrid, 1964. Garcilaso de la Vega, Poesías castellanas completas, ed. E.L. Rivers Madrid, 1972. Garcilaso de la Vega, Obras Completas, ed. E.L. Rivers, Madrid, 1981. Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, ed. B. Morros, Barcelona, Crítica, 1995. Studi A. BLECUA, En el texto de Garcilaso, Madrid, 1970. A. BLECUA, «Garcilaso con stemma», Busquemos otros montes y otros ríos, B. Dutton y V. Roncero López (eds.), Madrid, 1992, 19-31. A. D’AGOSTINO, «Il certo e l’incerto. Riflessioni su alcuni versi di Garcilaso», De místicos y mágicos, clásicos y románticos, Messina, 1993, 185-200. A. D’AGOSTINO, «Garcilaso de la Vega», Diccionario filológico de Literatura española, Madrid, 2009, 419-436. A. GARGANO, Cinque studi su Garcilaso, Napoli, 1988. R. LAPESA, La trayectoria poética de Garcilaso. Madrid, Revista de Occidente, 1948. O. MACRÌ, «Recensión textual de la obra de Garcilaso», Homenaje. Estudios de filología e historia literaria [...], La Haya, 1966, 395-330. M. ROSSO GALLO, La poesía de Garcilaso de la Vega, Madrid, 1990. M. ROSSO GALLO, «Apostillas a algunas variantes garcilasianas», Rumbos del hispanismo en el umbral del Cincuentenario de la AIH, III, Roma, 2012, 103-112. A. RUFFINATTO, «Garcilaso senza stemmi», Ecdotica e testi ispanici, Verona, 1982, 25-44. A. RUFFINATTO, «¿Es ‘dulce’ o ‘triste’ el canto del ruiseñor? Garcilaso en el Cancionero de Lastanosa-Gayangos», Tríptico del ruiseñor. Berceo, Garcilaso, San Juan, Vigo, 2007, 61-98. Soneto I Cuando me paro a contemplar mi 'stado y a ver los pasos por do m'han traído, hallo, según por do anduve perdido, que a mayor mal pudiera haber llegado; mas cuando del camino 'stó olvidado, 5 a tanto mal no sé por do he venido; sé que me acabo, y más he yo sentido ver acabar comigo mi cuidado. Yo acabaré , que me entregué sin arte a quien sabrá perderme y acabarme 10 si quisiere, y aún sabrá querello; que pues mi voluntad puede matarme, la suya, que no es tanto de mi parte, pudiendo, ¿qué hará sino hacello? 27

27

Cito da Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, ed. B. Morros, Barcelona, Crítica, 1995, p. 12.

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Soneto V Escrito está en mi alma vuestro gesto, y cuanto yo escribir de vos deseo; vos sola lo escribisteis, yo lo leo tan solo, que aun de vos me guardo en esto. En esto estoy y estaré siempre puesto; 5 que aunque no cabe en mí cuanto en vos veo, de tanto bien lo que no entiendo creo, tomando ya la fe por presupuesto. Yo no nací sino para quereros; mi alma os ha cortado a su medida; 10 por hábito del alma mismo os quiero. Cuanto tengo confieso yo deberos; por vos nací, por vos tengo la vida, por vos he de morir, y por vos muero.28 Soneto X ¡Oh dulces prendas por mi mal halladas, dulces y alegres cuando Dios quería, juntas estáis en la memoria mía y con ella en mi muerte conjuradas! ¿Quién me dijera, cuando las pasadas horas que'n tanto bien por vos me vía, que me habiades de ser en algún día con tan grave dolor representadas? Pues en una hora junto me llevastes todo el bien que por términos distes, lleváme junto el mal que me dejastes; si no, sospecharé que me pusistes en tantos bienes porque deseastes verme morir entre memorias tristes. 29

28

Ibid., p. 19. 29

Ibid., p. 25.

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Soneto XIII A Dafne ya los brazos le crecían, y en luengos ramos vueltos se mostraba; en verdes hojas vi que se tornaban los cabellos que el oro escurecían. De áspera corteza se cubrían 5 los tiernos miembros, que aún bullendo estaban: los blancos pies en tierra se hincaban, y en torcidas raíces se volvían. Aquel que fue la causa de tal daño, a fuerza de llorar, crecer hacía 12 este árbol que con lágrimas regaba. ¡Oh miserable estado! ¡oh mal tamaño! ¡Que con llorarla crezca cada día la causa y la razón porque lloraba!30 Soneto XXIII31 En tanto que de rosa y de azucena se muestra la color en vuestro gesto, y que vuestro mirar ardiente, honesto, con clara luz la tempestad serena; y en tanto que el cabello, que en la vena 5 del oro se escogió, con vuelo presto por el hermoso cuello blanco, enhiesto, el viento mueve, esparce y desordena: coged de vuestra alegre primavera el dulce fruto antes que e1 tiempo airado 10 cubra de nieve la hermosa cumbre. Marchitará la rosa el viento helado, todo lo mudará la edad ligera por no hacer mudanza en su costumbre.

30

Ibid., pp. 28-29. 31

Ibid, pp. 43-44.

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Égloga I32

AL VIRREY DE NÁPOLES

Personas: SALICIO, NEMOROSO

El dulce lamentar de dos pastores, Salicio juntamente y Nemoroso, he de contar, sus quejas imitando; cuyas ovejas al cantar sabroso estaban muy atentas, los amores, 5 (de pacer olvidadas) escuchando. Tú, que ganaste obrando un nombre en todo el mundo y un grado sin segundo, agora estés atento sólo y dado 10 el ínclito gobierno del estado albano, agora vuelto a la otra parte, resplandeciente, armado, representando en tierra el fiero Marte; agora de cuidados enojosos 15 y de negocios libre, por ventura andes a caza, el monte fatigando en ardiente ginete, que apresura el curso tras los ciervos temerosos, que en vano su morir van dilatando; 20 espera, que en tornando a ser restitüido al ocio ya perdido, luego verás ejercitar mi pluma por la infinita, innumerable suma 25 de tus virtudes y famosas obras, antes que me consuma, faltando a ti, que a todo el mondo sobras. En tanto que este tiempo que adevino viene a sacarme de la deuda un día, 30 que se debe a tu fama y a tu gloria (que es deuda general, no sólo mía, mas de cualquier ingenio peregrino que celebra lo digno de memoria), el árbol de victoria, 35 que ciñe estrechamente tu gloriosa frente, dé lugar a la hiedra que se planta

32

Ibid., pp. 120-140.

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debajo de tu sombra, y se levanta poco a poco, arrimada a tus loores; 40 y en cuanto esto se canta, escucha tú el cantar de mis pastores. Saliendo de las ondas encendido, rayaba de los montes al altura el sol, cuando Salicio, recostado 45 al pie de un alta haya en la verdura, por donde una agua clara con sonido atravesaba el fresco y verde prado; él, con canto acordado al rumor que sonaba, 50 del agua que pasaba, se quejaba tan dulce y blandamente como si no estuviera de allí ausente la que de su dolor culpa tenía, y así como presente, 55 razonando con ella, le decía: Salicio: ¡Oh más dura que mármol a mis quejas, y al encendido fuego en que me quemo más helada que nieve, Galatea! Estoy muriendo, y aún la vida temo; 60 témola con razón, pues tú me dejas, que no hay, sin ti, el vivir para qué sea. Vergüenza he que me vea ninguno en tal estado, de ti desamparado, 65 y de mí mismo yo me corro agora. ¿D'un alma te desdeñas ser señora, donde siempre moraste, no pudiendo de ella salir un hora? Salid sin duelo, lágrimas, corriendo. 70 El sol tiende los rayos de su lumbre por montes y por valles, despertando las aves y animales y la gente: cuál por el aire claro va volando, cuál por el verde valle o alta cumbre 75 paciendo va segura y libremente, cuál con el sol presente va de nuevo al oficio, y al usado ejercicio do su natura o menester l'inclina, 80 siempre está en llanto esta ánima mezquina, cuando la sombra el mondo va cubriendo, o la luz se avecina. Salid sin duelo, lágrimas, corriendo.

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Y tú, desta mi vida ya olvidada, 85 sin mostrar un pequeño sentimiento de que por ti Salicio triste muera, dejas llevar (¡desconocida!) al viento el amor y la fe que ser guardada eternamente sólo a mí debiera 90 ¡Oh Dios!, ¿por qué siquiera, (pues ves desde tu altura esta falsa perjura causar la muerte de un estrecho amigo) no recibe del cielo algún castigo? 95 Si en pago del amor yo estoy muriendo, ¿qué hará el enemigo? Salid sin duelo, lágrimas, corriendo. Por ti el silencio de la selva umbrosa, por ti la esquividad y apartamiento 100 del solitario monte m'agradaba; por ti la verde hierba, el fresco viento, el blanco lirio y colorada rosa y dulce primavera deseaba. ¡Ay, cuánto me engañaba! 105 ¡Ay, cuán diferente era y cuán de otra manera lo que en tu falso pecho se escondía! Bien claro con su voz me lo decía la siniestra corneja, repitiendo 110 la desventura mía. Salid sin duelo, lágrimas, corriendo. ¡Cuántas veces, durmiendo en la floresta, (reputándolo yo por desvarío) vi mi mal entre sueños, desdichado! 115 Soñaba que en el tiempo del estío llevaba, por pasar allí la siesta, a abrevar en el Tajo mi ganado; y después de llegado, sin saber de cuál arte, 120 por desusada parte y por nuevo camino el agua s'iba; ardiendo yo con la calor estiva, el curso enajenado iba siguiendo del agua fugitiva. 125 Salid sin duelo, lágrimas, corriendo. Tu dulce habla ¿en cúya oreja suena? Tus claros ojos ¿a quién los volviste? ¿Por quién tan sin respeto me trocaste? Tu quebrantada fe ¿dó la pusiste? 130 ¿Cuál es el cuello que, como en cadena, de tus hermosos brazos añudaste?

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No hay corazón que baste, aunque fuese de piedra, viendo mi amada hiedra, 135 de mí arrancada, en otro muro asida, y mi parra en otro olmo entretejida, que no se esté con llanto deshaciendo hasta acabar la vida. Salid sin duelo, lágrimas, corriendo. 140 ¿Qué no se esperará de aquí adelante, por difícil que sea y por incierto, o ¿qué discordia no será juntada?, y juntamente, ¿qué terná por cierto, o qué de hoy más no temerá el amante, 145 siendo a todo materia por ti dada? Cuando tú enajenada de mi cuidado fuiste, notable causa diste, y ejemplo a todos cuantos cubre'l cielo, 150 que'l más seguro tema con recelo perder lo que estuviere poseyendo. Salid fuera sin duelo, salid sin duelo, lágrimas, corriendo. Materia diste al mundo de esperanza 155 de alcanzar lo imposible y no pensado, y d'hacer juntar lo diferente, dando a quien diste el corazón malvado, quitándolo de mí con tal mudanza que siempre sonará de gente en gente. 160 La cordera paciente con el lobo hambriento hará su ayuntamiento, y con las simples aves sin rüido harán las bravas sierpes ya su nido; 165 que mayor diferencia comprehendo de ti al que has escogido. Salid sin duelo, lágrimas, corriendo. Siempre de nueva leche en el verano y en el invierno abundo; en mi majada 170 la manteca y el queso está sobrado; de mi cantar, pues, yo te vi agradada tanto que no pudiera el mantüano Títero ser de ti más alabado. No soy, pues, bien mirado, 175 tan disforme ni feo; que aún agora me veo en esta agua que corre clara y pura, y cierto no trocara mi figura con ese que de mí se está reyendo; 180

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¡trocara mi ventura! Salid sin duelo, lágrimas, corriendo. ¿Cómo te vine en tanto menosprecio? ¿Cómo te fui tan presto aborrecible? ¿Cómo te faltó en mí el conocimiento? 185 Si no tuvieras condición terrible, siempre fuera tenido de ti en precio, y no viera de ti este apartamiento. ¿No sabes que sin cuento buscan en el estío 190 mis ovejas el frío de la sierra de Cuenca, y el gobierno del abrigado Estremo en el invierno? Mas ¿qué vale el tener, si derritiendo m'estoy en llanto eterno? 195 Salid sin duelo, lágrimas, corriendo. Con mi llorar las piedras enternecen su natural dureza y la quebrantan; los árboles parece que s'inclinan: las aves que m'escuchan, cuando cantan, 200 con diferente voz se condolecen, y mi morir cantando m'adevinan. Las fieras que reclinan su cuerpo fatigado, dejan el sosegado 205 sueño por escuchar mi llanto triste. Tú sola contra mí t'endureciste, los ojos aún siquiera no volviendo a lo que tú hiciste. Salid sin duelo, lágrimas, corriendo. 210 Mas ya que a socorrerme aquí no vienes, no dejes el lugar que tanto amaste, que bien podrás venir de mí segura; yo dejaré el lugar do me dejaste; ven, si por solo aquesto te detienes. 215 Ves aquí un prado lleno de verdura, ves aquí un'espesura, ves aquí un agua clara, en otro tiempo cara, a quien de ti con lágrimas me quejo; 220 quizá aquí hallarás (pues yo m'alejo) al que todo mi bien quitar me puede; que pues el bien le dejo, no es mucho que'l lugar también le quede. Aquí dio fin a su cantar Salicio, 225 y suspirando en el postrero acento, soltó de llanto una profunda vena;

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queriendo el monte al grave sentimiento de aquel dolor en algo ser propicio, con la pesada voz retumba y suena; 230 la blanca Filomena, casi como dolida y a compasión movida, dulcemente responde al son lloroso. Lo que cantó tras esto Nemoroso 235 decildo vos Pïérides, que tanto no puedo yo ni oso, que siento enflaquecer mi débil canto. Nemoroso: Corrientes aguas, puras, cristalinas, árboles que os estáis mirando en ellas, 240 verde prado, de fresca sombra lleno, aves que aquí sembráis vuestras querellas, hiedra que por los árboles caminas, torciendo el paso por su verde seno: yo me vi tan ajeno 245 del grave mal que siento, que de puro contento con vuestra soledad me recreaba, donde con dulce sueño reposaba, o con el pensamiento discurría 250 por donde no hallaba sino memorias llenas de alegría. Y en este mismo valle, donde agora me entristezco y me canso en el reposo, estuve ya contento y descansado. 255 ¡Oh bien caduco, vano y presuroso! Acuérdome, durmiendo aquí alguna hora, que despertando, a Elisa vi a mi lado. ¡Oh miserable hado! ¡Oh tela delicada, 260 antes de tiempo dada a los agudos filos de la muerte! Más convenible fuera aquesta suerte a los cansados años de mi vida, que es más que el hierro fuerte, 265 pues no la ha quebrantado tu partida. ¿Dó están agora aquellos claros ojos que llevaban tras sí, como colgada, mi álma doquier que ellos se volvían? ¿Dó está la blanca mano delicada, 270 llena de vencimientos y despojos que de mí mis sentidos l'ofrecían? Los cabellos que vían con gran desprecio al oro,

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como a menor tesoro, 275 ¿adónde están, adónde el blando pecho? ¿Dó la columna que el dorado techo con presunción graciosa sostenía? Aquesto todo agora ya s'encierra, por desventura mía, 280 en la escura, desierta y dura tierra. ¿Quién me dijera, Elisa, vida mía, cuando en aqueste valle al fresco viento andábamos cogiendo tiernas flores, que había de ver, con largo apartamiento, 285 venir el triste y solitario día que diese amargo fin a mis amores? El cielo en mis dolores cargó la mano tanto, que a sempiterno llanto 290 y a triste soledad me ha condenado; y lo que siento más es verme atado a la pesada vida y enojosa, solo, desamparado, ciego, sin lumbre, en cárcel tenebrosa. 295 Después que nos dejaste, nunca pace en hartura el ganado ya, ni acude el campo al labrador con mano llena. No hay bien que en mal no se convierta y mude. La mala hierba al trigo ahoga, y nace 300 en lugar suyo la infelice avena; la tierra, que de buena gana nos producía flores con que solía quitar en sólo vellas mil enojos, 305 produce agora en cambio estos abrojos, ya de rigor d'espinas intratable. Yo hago con mis ojos crecer, lloviendo, el fruto miserable. Como al partir del sol la sombra crece, 310 y en cayendo su rayo, se levanta la negra escuridad que el mundo cubre, de do viene el temor que nos espanta, y la medrosa forma en que s'ofrece aquella que la noche nos encubre, 315 hasta que'l sol descubre su luz pura y hermosa, tal es la tenebrosa noche de tu partir, en que he quedado de sombra y de temor atormentado, 320 hasta que muerte el tiempo determine que a ver el deseado

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sol de tu clara vista me encamine. Cual suele el ruiseñor con triste canto quejarse, entre las hojas escondido, 325 del duro labrador que cautamente le despojó su caro y dulce nido de los tiernos hijuelos entre tanto que del amado ramo estaba ausente, y aquel dolor que siente, 330 con diferencia tanta por la dulce garganta despide, y a su canto el aire suena, y la callada noche no refrena su lamentable oficio y sus querellas, 335 trayendo de su pena al cielo por testigo y las estrellas, desta manera suelto yo la rienda a mi dolor y ansí me quejo en vano de la dureza de la muerte airada. 340 Ella en mi corazón metió la mano, y d'allí me llevó mi dulce prenda, que aquél era su nido y su morada. ¡Ay muerte arrebatada! por ti m'estoy quejando 345 al cielo y enojando con importuno llanto al mundo todo! El desigual dolor no sufre modo; no me podrán quitar el dolorido sentir, si ya del todo 350 primero no me quitan el sentido. Tengo una parte aquí de tus cabellos, Elisa, envueltos en un blanco paño, que nunca de mi seno se m'apartan; descójolos, y de un dolor tamaño 355 enternecer me siento, que sobre ellos nunca mis ojos de llorar se hartan. Sin que de allí se partan, con sospiros calientes, más que la llama ardientes, 360 los enjugo del llanto, y de consuno casi, los paso y cuento uno a uno; juntándolos, con un cordón los ato. Tras esto el importuno dolor me deja descansar un rato. 365 Mas luego a la memoria se m'ofrece aquella noche tenebrosa, escura, que siempre aflige esta ánima mezquina con la memoria de mi desventura.

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Verte presente agora me parece 370 en aquel duro trance de Lucina; y aquella voz divina, con cuyo son y acentos a los airados vientos pudieran amansar, que agora es muda. 375 Me parece que oigo que a la cruda, inexorable diosa demandabas en aquel paso ayuda; y tú, rústica diosa, ¿dónde estabas? ¿Íbate tanto en perseguir las fieras? 380 ¿Íbate tanto en un pastor dormido? ¿Cosa pudo bastar a tal crüeza, que, conmovida a compasión, oído a los votos y lágrimas no dieras, por no ver hecha tierra tal belleza, 385 o no ver la tristeza en que tu Nemoroso queda, que su reposo era seguir tu oficio, persiguiendo las fieras por los montes y ofreciendo 390 a tus sagradas aras los despojos? ¿Y tú, ingrata, riendo dejas morir mi bien ante los ojos? Divina Elisa, pues agora el cielo con inmortales pies pisas y mides, 395 y su mudanza ves, estando queda, ¿por qué de mí te olvidas y no pides que se apresure el tiempo en que este velo rompa del cuerpo, y verme libre pueda, y en la tercera rueda, 400 contigo mano a mano, busquemos otro llano, busquemos otros montes y otros ríos, otros valles floridos y sombríos, do descansar y siempre pueda verte 405 ante los ojos míos, sin miedo y sobresalto de perderte? Nunca pusieran fin al triste lloro los pastores, ni fueran acabadas las canciones que sólo el monte oía, 410 si mirando las nubes coloradas, al tramontar del sol bordadas d'oro, no vieran que era ya pasado el día, la sombra se veía venir corriendo apriesa 415 ya por la falda espesa del altísimo monte, y recordando

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ambos como de sueño, y acusando el fugitivo sol, de luz escaso, su ganado llevando, 420 se fueron recogiendo paso a paso.

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Gutierre de Cetina

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Edizioni moderne Gutierre de Cetina, Sonetos y madrigales completos, Madrid, Càtedra, 1981. Gutierre de Cetina, Rimas, ed. J. Ponce Cárdenas, Madrid, Ediciones Cátedra (Letras Hispánicas 739), 2014. Studi D. ALONSO, «Primer escalón en los manierismos del siglo XVI. Plurimembraciones y

correlaciones de Garcilaso a Gutierre de Cetina», Asclepio, 18-19, 1966-1967, pp. 61-76. Á.ALONSO MIGUEL, «Gutierre de Cetina», en La poesía italianista, Madrid, Ediciones del Laberinto

(Colección Arcadia de las letras), 2002, pp. 128-135.A. ALONSO MIGUEL, «Halcones remontadores y cadáveres que sangran: dos tópicos entre Cetina y la poesía octosilábica», eHumanista: Journal of Iberian Studies, 3, 2003, pp. 68-76.

J. M. BLECUA, «Poemas menores de Gutierre de Cetina», en Sobre poesía de la edad de oro (Ensayos y notas eruditas), Madrid, Gredos (Biblioteca románica hispánica, VII; Campo abierto, 26), 1970a, pp. 44-61.

B. LÓPEZ BUENO, Gutierre de Cetina, poeta del Renacimiento español, Sevilla, Diputación, 1978. J. M. RICO GARCÍA, «Gutierre de Cetina», en Diccionario filológico de literatura española: siglo XVI, eds.

Pablo Jauralde Pou, Delia Gavela y Pedro C. Rojo Alique, Madrid, Castalia (Nueva biblioteca de erudición y crítica), 2009, pp. 237-256.

Sobre la cubierta de un libro donde iban escriptas algunas cosas pastoriles Esta guirnalda de silvestres flores, de simple mano rústica compuesta en los bosques de Arcadia, aquí fue puesta en honra del cantar de los pastores, a los cuales, si Amor en sus amores 5 quiera jamás negar demanda honesta, ruego, si bien el don tan bajo cuesta, pueda este olmo gozar de mis sudores. Que si algún tiempo con más docta mano las acierto a tejer como maestro, 10 guardando a los pasados el decoro, espero, y mi esperar no será en vano, que el nombre pastoral del siglo nuestro será tal cual fue ya en la Edad del Oro.

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Soneto Dulce, sabrosa, cristalina fuente, refugio al caluroso ardiente estío, adonde la beldad del ídol mío hizo tu claridad más transparente, ¿qué ley permite, qué razón consiente 5 un pecho refrescar helado y frío, en quien fuego de amor, fuerza ni brío ni muestra de piedad jamás se siente? Cuánto mejor harías si lavases de este mi corazón tantas mancillas 10 y el ardor que lo abrasa mitigases. Aquí serían, Amor, tus maravillas, si en estas ondas un señal mostrases de mis penas a quien no quiere oíllas. Soneto Luz que en el fuego vivo, en el tormento mayor que se haya visto entre mortales, ardéis mi corazón con ansias tales que en medio de su mal vive contento; si las partes que en vos escribo y siento 5 a vuestro merescer no son iguales, excúsenme con vos mis propios males, que embarazan el flaco entendimiento. Y si no puede haber cosa que sea igual a lo que sois, ¿cómo podría 10 mostraros comparando al que no os vea?, salvo pintando un bien la fantasía con la imaginación, cual lo desea y cual os pinta agora el alma mía.

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Fernando de Herrera

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Edizioni moderne F. DE HERRERA, Obra poética, ed. J. M. Blecua, Madrid, 1975. F. DE HERRERA, Poesía castellana original completa, ed. C. Cuevas, Madrid, 1985. Studi J. ÁLVAREZ, Fernando de Herrera. Poesía, in Diccionario Filológico de Literatura Española. Siglo XVI, dir. P. Jauralde POu, Madrid, Castalia, pp. 480-488. S. BATTAGLIA, «Per il testo di Fernando de Herrera», Filologia romanza, I (1954), 51-58. O. MACRÌ, Fernando de Herrera, Madrid, Gredos, 1972. MORROS, B., «Algunas observaciones sobre la prosa y la poesía de Herrera», El Crotalón, II (1985), 147-168. I. PEPE SARNO, «Se non Herrera, chi? Varianti e metamorfosi nei sonetti di Fernando de Herrera», Studi Ispanici, III (1982), 33-69, IV (1983), 103-127, V (1984), 43-76, VI (1985), 43-72, 1986 (7), 21-59. Soneto Yo voy por esta solitaria tierra de antiguos pensamientos molestado, huyendo el resplandor del sol dorado, que de sus puros rayos me destierra. El paso a la esperanza se me cierra, 5 de una ardua cumbre a un cerro vo enriscado, con los ojos volviendo al apartado lugar, sólo principio de mi guerra. Tanto bien representa la memoria y tanto mal encuentra la presencia, 10 que me desmaya el corazón vencido. ¡Oh crueles despojos de mi gloria! desconfianza, olvido, celo, ausencia, ¿por qué cansáis a un mísero rendido?

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Soneto Yo vi unos bellos ojos, que hirieron con dulce flecha un corazón cuitado, y que para encender nuevo cuidado su fuerza toda contra mí pusieron. Yo vi que muchas veces prometieron remedio al mal, que sufro no cansado, y que cuando esperé vello acabado, poco mis esperanzas me valieron. Yo veo que se asconden ya mis ojos y crece mi dolor y llevo ausente en el rendido pecho el golpe fiero. Yo veo ya perderse los despojos y la membrana de mi bien presente y en ciego engaño de esperanza muero.

Soneto

Esta desnuda playa, esta llanura de astas y rotas armas mal sembrada, do el vencedor cayó con muerte airada, es de España sangrienta sepultura. Mostró el valor su esfuerzo, mas ventura negó el suceso y dio a la muerte entrada, que rehuyó dudosa, y admirada del temido furor, la suerte dura. Venció otomano al español ya muerto, antes del muerto el vivo fue vencido, y España y Grecia lloran la vitoria, pero será testigo este desierto que el español muriendo, no rendido, llevó de Grecia y Asia el nombre y gloria.

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Fray Luis de León

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Edizioni moderne Fray Luis de León, Obras castellanas completas, ed. García Félix, Madrid, BAC, 1944, 2 vols. (19915). ________,Poesías, ed. O. Macrì, Barcelona, Crítica, 1982 (ed. originale, Firenze, Sansoni, 1950). ________, Poesía, ed. J. F. Alcina, Madrid, Cátedra, 1986. ________, Poesía completa, ed. José Manuel Blecua, Madrid, Gredos, 1990. Studi J. F. Alcina, «Notas sobre las odas de fray Luis», in Homenaje a Eugenio Asensio, Madrid, Gredos,

1988, pp. 33-80. D. Alonso, «Notas sobre fray Luis de León y la poesía renacentista» (1933-1944), in Obras

completas, Madrid, Gredos, 1972, vol.II, pp. 769-788. _______, «Vida y poesía en fray Luis de León» (1955), in Obras completas, Madrid, Gredos,

1972, vol. II, pp. 789-842. E. Asensio, «Fray Luis de León y la Biblia», Edad de Oro 4 (1985), pp. 5-31. A. Blecua Perdices, «El entorno poético de fray Luis», in García de la Concha, ed., Academia

Literaria Renacentista I. Fray Luis de León, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1981, pp. 77-99.

________, «Fray Luis de León y la visión renacentista de la naturaleza: estética y apologética», in García de la Concha, Víctor y Javier San José Lera, eds. Fray Luis de León. Historia, Humanismo y Letras, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1996, pp. 367-380.

Diego, Gerardo, «La actualidad poética de fray Luis de León» (1928) in Crítica y poesía, Madrid, Júcar, 1984, pp. 9-45.

Egido, Aurora, «La silva en la poesía andaluza del Barroco (Con un excurso sobre Estacio y las "obrecillas" de fray Luis)», Criticón, XLVI(1989), pp. 5-39.

Gómez Redondo, Fernando, «Armonía y diseños formal en la "Oda a la Vida retirada"», in García de la Concha, Víctor y Javier San José Lera, eds. Fray Luis de León. Historia, Humanismo y Letras, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1996, pp. 638-647.

Lapesa, Rafael, «Las odas de fray Luis de León a Felipe Ruiz », Studia Philologica: Homenaje a Dámaso Alonso, Madrid, Gredos, 1961, vol. II, pp. 301-318.

——, «El cultismo en la poesía de fray Luis de León», en Poetas y prosistas de ayer y hoy, Madrid, Gredos, 1977, pp. 110-145.

——, «El hipérbaton en la poesía de fray Luis de León», in Poetas y prosistas de ayer y hoy, Madrid, Gredos, 1977, pp. 128-145.

F. Lázaro Carreter, «Imitación compuesta y diseño retórico en la Oda a Juan de Grial», in Academia literaria renacentista I. Fray Luis de León, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1981, pp. 193-224.

——, «Notas a la Oda primera de fray Luis de León», in Homenaje al profesor Francisco Ynduráin. Estudios sobre el Siglo de Oro, Madrid, Editora Nacional, 1984, pp. 299-307.

——, La fuga del mundo como exilio interior (Fray Luis de León y el anónimo del Lazarillo), Salamanca, Ediciones de la Universidad de Salamanca, 1986.

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——, «Fray Luis de León y la clasicidad», in García de la Concha, Víctor y Javier San José Lera, eds. Fray Luis de León. Historia, Humanismo y Letras, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1996, pp. 15-27.

J. Ramajo, Fray Luis de León, in Diccionario filológico de Literatura española, Madrid, 2009, pp. 592-625.

Oda I

¡Qué descansada vida la del que huye del mundanal ruïdo, y sigue la escondida senda, por donde han ido los pocos sabios que en el mundo han sido; 5 Que no le enturbia el pecho de los soberbios grandes el estado, ni del dorado techo se admira, fabricado del sabio Moro, en jaspe sustentado! 10 No cura si la fama canta con voz su nombre pregonera, ni cura si encarama la lengua lisonjera lo que condena la verdad sincera. 15 ¿Qué presta a mi contento si soy del vano dedo señalado; si, en busca deste viento, ando desalentado con ansias vivas, con mortal cuidado? 20 ¡Oh monte, oh fuente, oh río,! ¡Oh secreto seguro, deleitoso! Roto casi el navío, a vuestro almo reposo huyo de aqueste mar tempestuoso. 25 Un no rompido sueño, un día puro, alegre, libre quiero; no quiero ver el ceño vanamente severo de a quien la sangre ensalza o el dinero. 30 Despiértenme las aves con su cantar sabroso no aprendido; no los cuidados graves de que es siempre seguido el que al ajeno arbitrio está atenido. 35

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Vivir quiero conmigo, gozar quiero del bien que debo al cielo, a solas, sin testigo, libre de amor, de celo, de odio, de esperanzas, de recelo. 40 Del monte en la ladera, por mi mano plantado tengo un huerto, que con la primavera de bella flor cubierto ya muestra en esperanza el fruto cierto. 45 Y como codiciosa por ver y acrecentar su hermosura, desde la cumbre airosa una fontana pura hasta llegar corriendo se apresura. 50 Y luego, sosegada, el paso entre los árboles torciendo, el suelo de pasada de verdura vistiendo y con diversas flores va esparciendo. 55 El aire del huerto orea y ofrece mil olores al sentido; los árboles menea con un manso ruïdo que del oro y del cetro pone olvido. 60 Téngase su tesoro los que de un falso leño se confían; no es mío ver el lloro de los que desconfían cuando el cierzo y el ábrego porfían. 65 La combatida antena cruje, y en ciega noche el claro día se torna, al cielo suena confusa vocería, y la mar enriquecen a porfía. 70 A mí una pobrecilla mesa de amable paz bien abastada me basta, y la vajilla, de fino oro labrada sea de quien la mar no teme airada. 75 Y mientras miserable- mente se están los otros abrazando

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con sed insacïable del peligroso mando, tendido yo a la sombra esté cantando. 80 A la sombra tendido, de hiedra y lauro eterno coronado, puesto el atento oído al son dulce, acordado, del plectro sabiamente meneado. 85

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San Juan de la Cruz

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Edizioni moderne

San Juan de la Cruz, Poesía y prosa, ed. M. Ballestero, Madrid, Alianza, 1982.

San Juan de la Cruz, Poesía, ed. D. Ynduráin, Madrid, Cátedra, 1990.

Studi

D. Alonso, El misterio poético en la poesía de San Juan de la Cruz, in De los siglos oscuros al de oro, Madrid, Gredos, 1964, pp. 271-293.

M. Ballestero, Juan de la Cruz: de la angustia al olvido, Barcelona, Península, 1977.

V. García de la Concha, Conciencia estética y voluntad de estilo en San Juan de la Cruz, en «Boletín de la Biblioteca Menéndez y Pelayo», XLVI (1970), pp. 371-408.

Guillén, Jorge, San Juan de la Cruz o lo inefable místico, in Lenguaje y poesía, Madrid, Alianza, 1972.

M. J. Mancho Duque, El símbolo de la noche en San Juan de la Cruz. Estudio léxico-semántico, Salamanca, Universidad, 1982.

J.C. Nieto, Místico, poeta, rebelde, santo: en torno a San Juan de la Cruz, Madrid, Fondo de cultura económica,1982.

F. Ruiz Salvador, Introducción a San Juan de la Cruz. El escritor, los escritos, el sistema, Madrid, B.A.C, 1968.

E. M. Wilson, Ambigüedades y otras cuestiones en los poemas de San Juan de la Cruz, en Entre las jarchas y Cernuda: constantes y variables en la poesía española, Barcelona, Ariel, 1977, pp. 203-219.

F. Ynduráin, San Juan de la Cruz entre alegoría y simbolismo, in Relección de los clásicos, Madrid, Prensa Española, 1969.

F. Ynduráin, Aproximación a San Juan de la Cruz, Madrid, Cátedra, 1990.

Traduzioni italiane

Giovanni della Croce, Cantico spirituale, a cura di Norbert von Prellwitz (con testo a fronte spagnolo delle Canzoni), Collana Classici, Rizzoli, Milano, 1991 (Collana Classici, BUR, Milano, 2008).

________, Poesia, a cura di G. Caravaggi, Napoli, Liguori, 1995.

________, Fiamma d'amore viva, a cura di C. Greppi, Collana Biblioteca dell'Eros, ES, Milano, 1993-1995.

________, La notte oscura, con una nota di Angelo Morino, trad. di Maria Nicola, Collana Le favole mistiche n.2, Sellerio Editore, Palermo, 1995.

________, Cantico spirituale, a cura di S. Arduini, Collana Versus, Città Nuova, 2008 Id., Notte oscura, a cura di A. M. Norberg Schulz, Collana Minima, Città Nuova, 2009.

________, Tutte le opere. Testo spagnolo a fronte, a cura di P. Boracco, Collana Il pensiero occidentale, Bompiani, 2010.

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Noche oscura

En una noche escura,

con ansias en amores inflamada,

¡oh dichosa ventura!,

salí sin ser notada,

estando ya mi casa sosegada. 5

A escuras y segura

por la secreta escala, disfrazada,

¡oh dichosa ventura!,

a escuras y en celada,

estando ya mi casa sosegada. 10

En la noche dichosa,

en secreto, que nadie me veía

ni yo miraba cosa,

sin otra luz y guía

sino la que en el corazón ardía. 15

Aquesta me guiaba

más cierto que la luz del mediodía,

adonde me esperaba

quien yo bien me sabía,

en parte donde nadie parecía. 20

¡Oh noche, que guiaste;

oh noche amable más que el alborada;

oh noche que juntaste

Amado con amada,

amada, con el Amado transformada! 25

En mi pecho florido,

que entero para él solo se guardaba,

allí quedó dormido,

y yo le regalaba

y el ventalle de cedros aire daba. 30

El aire del almena,

cuando yo sus cabellos esparcía,

con su mano serena

en mi cuello hería

y todos mis sentidos suspendía. 35

Quedéme y olvidéme,

el rostro recliné sobre el Amado;

cesó todo y dejéme,

dejando mi cuidado

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entre las azucenas olvidado. 40 Llama de amor viva ¡Oh llama de amor viva que tiernamente hieres de mi alma en el más profundo centro! Pues ya no eres esquiva acaba ya si quieres, 5 ¡rompe la tela de este dulce encuentro! ¡Oh cauterio süave! ¡Oh regalada llaga! ¡Oh mano blanda! ¡Oh toque delicado que a vida eterna sabe 10 y toda deuda paga! Matando, muerte en vida has trocado. ¡Oh lámparas de fuego en cuyos resplandores las profundas cavernas del sentido, 15 que estaba oscuro y ciego, con estraños primores color y luz dan junto a su querido! ¡Cuán manso y amoroso recuerdas en mi seno 20 donde secretamente solo moras, y en tu aspirar sabroso de bien y gloria lleno, cuán delicadamente me enamoras!