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La ragione politica 2. I discorsi delle politiche a cura di Vando Borghi, Ota de Leonardis e Giovanna Procacci Scritti di Vando Borghi, Roberto Cammarata, Ota de Leonardis, Roberto Escobar, Alberta Giorgi, Barbara Giullari, Chiara Marchetti, Paola Molinatto, Andrea Molteni, Carlotta Mozzana, Raffaele Monteleone, Emanuele Polizzi, Giovanna Procacci, Roberto Rizza, Mila Sansavini Liguori Editore
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Le trasformazioni del concetto di sicurezza

Mar 05, 2023

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Page 1: Le trasformazioni del concetto di sicurezza

La ragione politica

2. I discorsi delle politiche

a cura diVando Borghi, Ota de Leonardis e Giovanna Procacci

Scritti diVando Borghi, Roberto Cammarata, Ota de Leonardis,

Roberto Escobar, Alberta Giorgi, Barbara Giullari, Chiara Marchetti, Paola Molinatto, Andrea Molteni,

Carlotta Mozzana, Raffaele Monteleone, Emanuele Polizzi, Giovanna Procacci, Roberto Rizza, Mila Sansavini

Liguori Editore

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Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf).Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, fatte salve le eccezioni di legge, è vietata senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa editrice Liguori è disponibile all’indirizzo http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche

Liguori EditoreVia Posillipo 394 - I 80123 Napoli NAhttp://www.liguori.it/

© 2013 by Liguori Editore, S.r.l.Tutti i diritti sono riservatiPrima edizione italiana Novembre 2013Stampato in Italia da Liguori Editore, Napoli

Procacci, Giovanna (a cura di):La ragione politica. 2. I discorsi delle politiche/Vando Borghi, Ota de Leonardis,

Giovanna Procacci (a cura di)Argomentazione e sfera pubblicaNapoli : Liguori, 2013

ISBN 978 - 88 - 207 - 6044 - 1 (a stampa) eISBN 978 - 88 - 207 - 6045 - 8 (eBook)

1. Sicurezza, democrazia 2. Città I. Titolo II. Collana III. Serie

Ristampe:———————————————————————————————————––——————20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi, a ph neutro, conforme alle norme UNI EN Iso 9706 ∞, realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente biodegradabili (FSC, PEFC, ISO 14001, Paper Profile, EMAS).

Collana coordinata da Franco Rositi

Comitato scientifico: Vando Borghi, Anna Rita Calabrò, Ota de Leonardis, Giovanna Procacci.

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Indice

1 Premessa

sezione prima

Sicurezza e democrazia. L’argomentazione pubblica nelle politiche di sicurezza

15 Presentazione

Capitolo 119 Le trasformazioni del concetto di sicurezza di Giovanna Procacci Introduzione 19; Il discorso di sicurezza e le sue condizioni di possibilità 19; La

crescita dell’insicurezza 23; La polisemia attuale del concetto di sicurezza 24; L’ar-gomento di sicurezza 28; Le politiche di sicurezza in Italia 33; Sicuri di che? 40

Capitolo 247 La ragione securitaria di Chiara Marchetti e Andrea Molteni Introduzione 47; Sicurezza urbana e devoluzione securitaria 48; Discorsi e poli-

tiche securitarie in materia di migrazioni: identità, religione, sicurezza 63; Con-clusioni 79

Capitolo 383 La sicurezza al tempo delle ordinanze.

Potere locale e discorso pubblico di Roberto Cammarata e Raffaele Monteleone Introduzione 83; Il discorso delle ordinanze: caratteristiche, dinamiche ed ef-

fetti per l’argomentazione pubblica 85; Fare sicurezza con le ordinanze: po-tere locale e argomentazione pubblica a Milano e Brescia 90; La costruzio-ne dei problemi nelle ordinanze e nel discorso sulle ordinanze: semplificazione, banalizzazione, inevitabilità 95; One best way: reiterazione e indifferenza ai luoghi nell’uso dello strumento ordinanza 99; Governare con le ordinanze? 104; Voxdei? Voxpopuli! Dall’atto d’imperio al reframing della società civile 109; Considerazioni con-clusive 118

120 Riferimenti bibliografici

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IndIceviii

sezione seconda

Una città neo-liberale. L’argomentazione in atto pubblico tra norma, fatto e finzione

129 Presentazione

Capitolo 1135 Sulle tracce della depoliticizzazione nel governo della città di Ota de Leonardis e Alberta Giorgi Introduzione 135; 1ª Parte. Il contesto dell’argomentazione: metamorfosi della po-

litica 141; Come cambia il discorso politico 141; Come cambiano le norme 143; 2ª Parte. Fissare norme negli strumenti: scorciatoie argomentative 145; Assertività: il governo della città con l’inevitabile 145; Seduttività: le regole dell’attrazione 152; Immagini realistiche e inversioni del costruttivismo 160; Conclusioni 164

Capitolo 2169 Forme d’uso del sapere esperto nell’argomentazione delle scelte politiche di Carlotta Mozzana e Emanuele Polizzi Introduzione 169; I casi studio: il Tavolo salute mentale del Comune di Milano e

la trattazione del verde pubblico nel PGT di Milano 171; Forme di argomenta-zione 173; Forme di dibattito pubblico 182; Forme di coinvolgimento dei tecni-ci 189; Considerazioni conclusive sulla qualità dell’argomentazione pubblica 198

Capitolo 3201 Simile al vero. Registri argomentativi della città neoliberale di Paola Molinatto Introduzione 201; Argomentazione pubblica e consumo di oggettività 202; Formati e

prove di realtà nel modo di dominazione attraverso il cambiamento 207; Economia delle giustificazioni nel governo urbano 213

224 Riferimenti bibliografici

sezione Terza

Sicurezza e lavoro. Discorso pubblico, basi informative e pratiche sociali

235 Presentazione

Capitolo 1239 Il campo della sicurezza sul lavoro di Barbara Giullari, Roberto Rizza, Mila Sansavini Premessa 239; Lavoro e sicurezza in una prospettiva di campo 239; La dimensione

normativa 242; Gli attori 245; Le pressioni isomorfe 256; I processi e i dispositivi organizzativi 263; Riflessioni conclusive 288

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IndIce ix

Capitolo 2291 Prevenzione e soggettivazione: metamorfosi del rapporto tra lavoro

e sicurezza di Vando Borghi Introduzione 291; Le basi informative del discorso su sicurezza e lavoro: una breve

“storia al presente” 291; Il discorso della prevenzione: genesi e mutamento 300; Prevenzione e soggettivazione: le coordinate della metamorfosi 317

323 Riferimenti bibliografici

posTfazione

327 I semplificatori di Roberto Escobar Opinioni, verità, discorso 327; Tagliare le teste, o contarle di misura 329; Inopina-

bilità 331; La paura 332; La macchina della paura 334

337 Gli autori

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Premessa

Questo Volume II de La ragione politica – e della collana su Argomentazione e sfera pubblica in tal modo inaugurata – prosegue e articola ulteriormente l’elaborazione dei risultati1 della ricerca «d’interesse nazionale» diretta da Franco Rositi e dedicata al tema della «qualità dell’argomentazione pub-blica», con il medesimo intento di contribuire allo studio dei segnali della crisi della democrazia su questo terreno. Anche in questo volume si vogliono portare alla luce aspetti di quell’«inquinante sciatteria del discorso pubblico» di cui parla lo stesso Franco Rositi nel capitolo introduttivo del Volume I [2013 p. XX].

Parlare di sciatteria argomentativa del discorso pubblico richiede qual-che precisazione. Non tutti i discorsi presentano un apparato argomentativo dello stesso livello; è indubbio però che dal discorso pubblico, e in particolare da quello che prende voce in una società democratica, ci si attenda un’atten-zione particolare ai contenuti e ai metodi con cui si argomentano le ragioni delle opzioni che vi si sostengono. Naturalmente l’argomentazione non è l’unico indicatore di un discorso pubblico di qualità, ma può metterne in luce la sua compatibilità con la discussione pubblica democratica o, invece, la sua tendenza a seguire modelli diversi (populismo, autoritarismo, dispotismo).

Partiamo da un assunto: «Non tutto ciò che viene affermato viene anche argomentato […] anzi nei discorsi quotidiani le argomentazioni esplicite sono molto rare» [Rositi 1982, p. 53]. Il discorso pubblico non fa eccezione, per quanto si possa pensare che l’argomentazione esplicita rivesta in questo tipo di discorso un ruolo ancora più pregnante, tanto più in una democra-zia che dovrebbe vivere di confronto, dibattito e forza di convinzione. È la forza di quel principio democratico di pubblicità di cui parlava Habermas [1962], che consente la formazione di un’opinione pubblica capace di con-trobilanciare la voce unica dello stato, di delimitare un interesse generale e di dare alla ragione un posto di rilievo nel dibattito collettivo [Paquot 2009].

1 Per prendere visione degli aspetti di merito e di metodo delle indagini di terreno con-dotte dai gruppi di ricerca che hanno partecipato all’elaborazione di questo volume, come dei materiali di ricerca e delle interviste, si può consultare il sito http://economia.unipv.it/argpol/ dell’Università di Pavia.

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Premessa2

Le argomentazioni implicite sono forse più frequenti; in fondo l’appa-rato ideologico può essere visto come un grande sistema di argomentazioni implicite che poggia sulla connivenza, dove il rimando alle ragioni di certe posizioni è sottinteso, in quanto si assume che il pubblico cui ci si rivolge di quelle ragioni sia già convinto. Con la caduta delle ideologie, però, il pubbli-co stesso è esploso, ha perso la sua omogeneità; l’argomentazione implicita dovrebbe perciò perdere presa a vantaggio di quella esplicita che riacquista una nuova pregnanza. Intendiamo qui per argomentazione proprio quel lavoro di esplicitazione dei passaggi logici che sottendono il discorso e ne sostengono le ragioni, anche e soprattutto all’intenzione di chi appunto non ne è già convinto; in quanto tale, l’argomentazione ci pare vada intesa come una qualità essenziale del discorso pubblico in una democrazia, perché solo questa esplicitazione consente davvero il confronto fra ragioni diverse. L’im-portanza dell’argomentazione nel discorso pubblico è dunque anche esaltata dalla fine dell’ideologia e dalla trasformazione in senso plurale dell’uditorio cui il discorso pubblico si rivolge.

È su questa base che la nostra ricerca ha affrontato alcuni settori si-gnificativi del discorso pubblico contemporaneo, sottoponendoli ad una in-terrogazione sulle capacità e modalità di argomentare le proprie ragioni, di ricondurre le posizioni che vi si affermano alle basi di ragionamento che le giustificano, lontano anche da quelle semplificazioni che l’apparato ideologico consentiva.

In questo volume, l’attenzione è portata sui regimi discorsivi che danno forma a scelte e azioni di governo in diversi settori di politiche pubbliche, nazionali o locali. Quelle trasformazioni dell’architettura politico-istituzio-nale dell’azione pubblica che si è convenuto di riassumere nella figura della governance (su cui si è addensata una mole considerevole di letteratura di teoria e ricerca) danno centralità alle politiche, essendo la governance per l’appunto «un modo di governare con le politiche» [Donolo e Fichera 1981; Lascoumes e Le Galès 2004].

Intorno alle politiche prendono forma e forza nuovi temi e nuove arene del discorso pubblico – e si dispiega quella pluralità di pubblici che dicevamo; cambiano i modi della discussione e della decisione politica, nonché i registri discorsivi nei quali quest’ultima si giustifica – precisamente là dove essa viene assunta da un’autorità di governo e si fissa in un atto pubblico. In questo volume si vogliono indagare e qualificare questi cambiamenti mettendo sotto osservazione, in diversi ambiti significativi nei quali si esplica oggi questo gover-nare con le politiche, l’argomentazione pubblica a sostegno di scelte politiche.

Nelle pratiche discorsive, nei metodi del confronto, nei vocabolari e nelle grammatiche, negli argomenti – espliciti e impliciti – e nei formati argomen-

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tativi, sotto il profilo logico-formale come rispetto ai repertori giustificativi, si raccolgono segnali di un decadere della qualità del discorso pubblico nei modi in cui si discutono e argomentano ragioni e si giustificano scelte di governo. In questa «crisi di discorsività» [Privitera 2012] appare indebolita quella discussione propriamente politica da cui dipende, secondo l’espressio-ne di Chantal Mouffe [2005], il «tono muscolare» della democrazia.

I terreni analitici a cui attingiamo nelle tre sezioni del volume sono eterogenei, gli approcci richiesti e le questioni suscitate da ciascuno di que-sti terreni d’indagine sono relativamente differenziati; ma le elaborazioni compiute attorno ai discorsi delle politiche convergono nel portare alla luce elementi di una metamorfosi della politica in quanto discorso sul governo, sul potere e, in definitiva, sull’ordine sociale.

La Prima Sezione si concentra sulle trasformazioni più recenti di quel particolare ambito discorsivo che accompagna e giustifica le politiche di sicurezza, trasformazioni che in Italia si sono intrecciate con la ridefinizione e la riorganizzazione delle autonomie e dei poteri tra il livello nazionale e i differenti livelli di governo locale. Che tipo di discorso pubblico si produce quando la sicurezza non è più vista come l’obiettivo dell’organizzazione politica in quanto tale, ma diventa l’oggetto di politiche specifiche? E che torsioni questo produce nella concezione stessa della sicurezza? Diversi temi oggi centrali nel dibattito politico – l’immigrazione, il lavoro, l’ambiente, la criminalità, il terrorismo, le periferie urbane, la libertà di espressione reli-giosa, ecc. – vengono ricompresi, in toto o in parte, nel sempre più dilatato campo semantico della sicurezza, che finisce così per riassumere un insieme eterogeneo di fenomeni, pratiche, meccanismi e istituzioni, pensati e creati per far fronte a forme sempre più generalizzate di rischio. Analizzare la qualità delle argomentazioni politiche che giustificano gli interventi di go-verno di questi fenomeni in quanto fenomeni di sicurezza assume allora un particolare rilievo, se si vuole sviluppare un’analisi empirica dei processi di political deliberation e dei loro effetti sulle trasformazioni della democrazia. La sicurezza come oggetto del discorso pubblico dà forma e giustificazione a particolari politiche pubbliche e, per reazione, a specifiche pratiche di par-tecipazione politica. Si è trattato, in pratica, di analizzare come l’insicurezza sia argomentata come problema di ordine pubblico e come l’argomento della sicurezza sia utilizzato per dare ragione di specifici strumenti legislativi (nazionali e locali), politiche pubbliche, forme di organizzazione, pratiche di intervento. Si è inoltre cercato di comprendere se sia possibile individuare e distinguere un particolare vocabolario e particolari forme dell’argomen-tazione che caratterizzano il tema della sicurezza, se cioè il repertorio di parole d’ordine, argomenti, giustificazioni, evidenze (prove, informazioni,

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dati, valutazioni), e concatenamenti discorsivi propri del discorso securita-rio, occupi, sostituisca o si intrecci anche con altri repertori e discorsi (che riguardano ad esempio le politiche sociali, urbane, sanitarie, d’immigrazione, ecc.). Si è quindi prestata particolare attenzione alle politiche locali sull’im-migrazione, allo scopo di verificare se e quanto esse siano ‘colonizzate’ dal discorso sulla sicurezza, quanto ne assumano le parole d’ordine, le priorità e le linee guida politiche.

Nella Seconda Sezione l’attenzione è portata sul governo della città e in particolare sui registri discorsivi con i quali si parla di città negli atti pubblici concernenti le politiche urbane. Dalle ricerche condotte su diverse politiche (sociali, sanitarie, abitative) ricaviamo le chiavi per delineare il contesto dei testi normativi che mettiamo sotto osservazione, il loro esse-re cioè strumenti della governance della città. Questo contesto chiama in causa poteri di governo e situa i registri discorsivi che si rintracciano in questi testi, in rapporto a quesiti circa l’autorità che vi si esprime, là dove essa istituisce norme; e perciò invita a esplorare i vocabolari che danno forma alle norme, e le grammatiche sulle quali esse fondano la loro legit-timità. Cerchiamo nelle parole, nel lessico, negli argomenti e nei formati argomentativi – e anche nelle immagini della città, a corredo – in che cosa consista la normatività di questi atti pubblici, quale potere normativo essi sprigionino, e riferito a cosa. La città su cui lavoriamo è Milano, e gli atti pubblici in questione sono emanati dal Comune durante la Giunta Moratti (ma guardando anche un poco a prima e a dopo, in prospettiva diacroni-ca, e con focalizzazioni comparative). Si prova a cogliere un momento di coagulo di una trasformazione nel modo di esercitare un potere di governo della città che reca l’impronta neo-liberale di un’autorità pubblica “debole” sotto il profilo normativo, che funziona da enabler (o da sensale) delle spinte “spontanee” della società. Se si guarda all’argomentazione pubblica in ma-teria di norme, trova conferma l’indebolimento del vocabolario del diritto per tradurre scelte politiche in norme. Una tendenza molto potente e ben nota [si veda per tutti Supiot 2010]; la normatività si esprime ora piuttosto nel vocabolario di saperi tecnico-scientifici: con l’autorità della scienza più che con quella della legge. Ma cosa accade quando le norme si fondano sull’evidence scientifica (o supposta tale)? E dove stanno, e come si configura-no, le scelte politiche che hanno presieduto all’istituzione di quelle norme? Questi quesiti guidano l’indagine che intraprendiamo in questa Sezione, a partire dal primo dato saliente emerso dai discorsi sulla città in questi atti: qui sono gli argomenti fattuali ad essere caricati di normatività, sul registro della descrizione esperta della città che verrà. È l’anticipazione della realtà che ora istituisce il vincolo normativo. Di questo slittamento del normativo

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nel cognitivo abbiamo individuato due traiettorie: nell’argomentazione sulla Milano che verrà, si dice da un lato come quest’ultima sia già data: l’ine-vitabilità, come vedremo, è l’argomento sotteso; e dall’altro la si prefigura – vediamo all’opera le tecniche del rendering – come desiderabile, nel registro performativo della pubblicità. Vedremo come le due traiettorie convergano nella depoliticizzazione del discorso sul governo della città.

Nella Terza Sezione la riflessione si sposta su un’ulteriore materia del-le politiche e dei meccanismi discorsivi attraverso cui esse si manifestano, quella del rapporto tra lavoro e sicurezza. Già a un primo sguardo che si sforzi di andare oltre le modalità con cui il discorso delle politiche tende a naturalizzare una presunta auto-evidenza dell’oggetto – un insieme di procedure volte a prevenire o proteggere dal rischio nella vita lavorativa – emerge con chiarezza che la sicurezza costituisce un fattore di un ben più ampio quadro sociale. In gioco, nel modo in cui la sicurezza viene defini-ta e diviene campo di pratiche sociali in ambito lavorativo, è il rapporto stesso tra organizzazioni e lavoro; ed in gioco è anche l’identificazione dei soggetti che possono legittimamente intervenire nella discussione circa la qualità e la regolazione di quel rapporto, nonché delle conoscenze e delle basi informative che sono definite pertinenti e che possono essere mobilitate in quella discussione. In tale prospettiva, riflettere attorno all’interrogativo circa “cosa vuol dire essere sicuri?” significa mettere a fuoco un campo di tensione che, per quanto concerne il lavoro, si produce all’intersezione di due assi di trasformazione. Da una parte, quello che investe il registro su cui risulta centrato il discorso pubblico sulla salute e il benessere (e dunque, anche sulla sicurezza del lavoro), vale a dire il paradigma della prevenzio-ne; dall’altra, quello della soggettivazione, cioè quello concernente le idee e le visioni su ciò che devono essere e fare gli esseri umani, sullo spazio e le modalità cui i soggetti accedono (o meno) per determinare il senso e la qualità di questo loro essere e fare. L’indagine, dunque, viene condotta su oggetti differenti: lo sviluppo e la trasformazione nel corso del tempo del rapporto tra sicurezza e lavoro nella legislazione e nelle politiche; il modo in cui quel rapporto viene rappresentato nella comunicazione sociale delle istituzioni (si trattava, al momento della ricerca, del Ministero retto da Sac-coni); la definizione di alcuni concetti chiave delle politiche della sicurezza del lavoro (ad esempio, quello di “stress lavoro-correlato”); il governo del campo della sicurezza attraverso specifici dispositivi – modelli organizzativi, procedure di certificazione, standard – che ridefiniscono profondamente il rapporto tra pubblico e privato; le pratiche degli attori di quel campo e le rappresentazioni di cui si servono per comprenderlo e attivarlo. È questo campo di tensione, il modo in cui si cerca di neutralizzarne – attraverso la

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tecnicizzazione dei dispositivi, delle procedure e dei discorsi che lo riguarda-no – la valenza intrinsecamente politica (che pure riemerge nelle controversie e nel conflitto che su quel campo si producono), ciò che in questa parte del volume si cerca di rendere esplicito, ponendolo al centro dell’attenzione.

Dalle indagini condotte su questi terreni diversi emergono assonanze, se non proprio isomorfismi, nei registri discorsivi e nel formato delle argo-mentazioni, in materia di politiche. Esse convergono nel rilevare tre linee di cambiamento che investono il discorso pubblico e incidono sulla sua qualità e su quella delle argomentazioni che vi entrano in gioco. E nelle quali si segnala in vari modi un impoverimento dei repertori e dei livelli argomentativi – per esempio un rarefarsi degli argomenti o un’economia di parole, che per l’appunto tendono a svuotare la discussione e a neutralizzare il conflitto politico, che pure alimentano la democrazia.

Si mettono anzitutto a fuoco manifestazioni di un depotenziamento del registro politico per argomentare scelte e azioni di governo. Questo diventa evidente nel momento in cui ci si interessa all’argomentazione: è una poli-tica che cerca di sottrarsi all’argomentazione attraverso la tecnicizzazione (e moralizzazione) del discorso. Come osserva Giovanna Procacci a proposito delle politiche di sicurezza, mai la politica si è tanto occupata di produrre sicurezza quanto ai nostri giorni, quando la sicurezza ha smesso di essere propriamente una questione politica: non è più infatti l’obiettivo dell’orga-nizzazione politica in quanto tale, è diventata piuttosto l’oggetto di politiche dedicate, le quali hanno peraltro tutte già un altro oggetto (l’immigrazione, lo spazio urbano, il commercio, la casa, la religione, ecc.). Ma è proprio in questo intreccio che si rivela la natura del discorso securitario odierno che si fa frame, si offre come modello di argomentazione capace di dare ai fenomeni sociali che investe il carattere di un’emergenza, di ridurre per ciò stesso gli spazi di pubblico confronto, di imporre l’azione sulla riflessione, di indicare soluzioni tecniche, di trasformare conflitti e tensioni in paure private.

La depoliticizzazione delle scelte nel governo della città è ciò che rin-tracciamo nella Seconda Sezione, com’è indicato espressamente nel titolo del primo dei suoi capitoli, e questo precisamente in un atto normativo, nel quale cioè quelle decisioni si traducono in norme. Le tracce di depoliticizza-zione che abbiamo repertoriato s’inscrivono nello stampo neo-liberale della governance della città, là dove esso si esprime, come vedremo, nel prendere decisioni senza aver l’aria di farlo. Con questa mossa – che vedremo con-densarsi in, e operare attraverso l’argomentazione – si neutralizza il tumulto delle discussioni e dei conflitti politici su fini e valori, si disperde la disciplina politica del confronto e del compromesso per deliberare ed istituire norme, e la questione squisitamente politica del potere e della sua legittimazione

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viene in un certo senso a cadere. Vedremo come questo potere si mimetizzi, appoggiandosi ad argomenti di autorità che hanno un legame debole con i processi politici di legittimazione democratica.

Anche nel caso del lavoro e della sua organizzazione, la sicurezza viene declinata attraverso schemi e meccanismi discorsivi che ne rendono opaca la valenza politica, disciolta sul piano biografico o meramente tecnico. Un processo, questo, che si manifesta in forme diverse, a seconda che si traduca in una individualizzazione paradossale, secondo la quale la sicurezza è affare personale, salvo che poi al lavoro, come singoli individui e come collettivo, viene sempre più interdetta ogni “capacità di voce” su cosa la sicurezza debba essere e su come vada perseguita; oppure in una riduzione del pro-blema a mero esercizio di saperi tecnici, rituali di verifica e di certificazione, procedure tecnico-burocratiche. Manifestazioni diverse, che trovano però un elemento di continuità nella assunzione e nella oggettivazione di una comune premessa, la cui natura politica viene così sottratta al confronto: il modo in cui le organizzazioni e il lavoro sono attualmente concepiti e praticati diventa una evidenza naturale, un orizzonte insuperabile, al limite un dato tecnico, che perde ogni connotazione di artefatto sociale su cui la politica possa legittimamente esercitarsi.

Un’altra linea di tendenza che viene in luce nelle politiche che esami-niamo è il fatto che il potere esercitato dal loro discorso si fonda, e fonda scelte e azioni di governo, su pretese di verità. È un aspetto ben evidente nel campo della sicurezza, cui ci si riferisce nella Prima Sezione. Proprio per le sue caratteristiche, il discorso securitario si presenta come un discorso “realistico”, che identifica minacce da eliminare e le dota di oggettività, nel mentre si alimenta di una “percezione” di insicurezza che ha natura tutta soggettiva. Nella circolarità che stabilisce fra i due piani, costruisce le con-dizioni di verità della sua narrazione, che il carattere emergenziale sottrae al confronto, e mette in moto effetti di verità: nuove categorie di soggetti minacciosi, nuovi attori legittimati a indicare le minacce, nuovi saperi che detengono il potere di disinnescarle. La debolezza della soglia argomentati-va, giustificata in nome dell’emergenza, e il primato dell’aspetto decisionale su quello dibattimentale, convergono nel fare del discorso securitario un produttore di verità destinate ad alterare il senso di quello che viviamo, dello spazio sociale e dei rapporti che lo abitano.

Se poi si mettono sotto osservazione gli argomenti normativi negli atti pubblici di governo della città, come facciamo nella Seconda Sezione, si colgono gli effetti di verità prodotti là dove le norme chiamano in causa, per fondarsi, la realtà dei fatti, e precisamente nella posizione e configurazione che quest’ultima assume. La realtà cui ci si riferisce in questi atti, assumen-

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dola come base cognitiva delle scelte normative, perde la consistenza di un montaggio a più voci con il quale si conviene nella definizione di una situazione di fatto, per decidere che cosa fare (montaggio che di una politica democratica è per l’appunto base cognitiva). La realtà della città, confezio-nata come dicevamo con il lessico del fattuale o con quello della fiction (e con un ruolo decisivo di studi tecnici privati) appare stranamente evanescente. Non ha la “durezza” degli spigoli delle porte di cui parla Musil, e nemme-no la densità simbolica del possibile. Le pretese di verità sulla realtà della città si accontentano volentieri della verosimiglianza. Nello slittamento della potenza normativa, in questi atti pubblici, dal piano delle norme espresse a quello del confezionamento di questa realtà, opera un potente dispositivo di disattivazione del confronto sul normativo e della discussione politica su fini e valori che l’alimenta: a partire dal venir meno di quella tensione del rapporto della politica con la verità messa a tema nel Volume I. Al pri-mato del decidere sul deliberare, nelle politiche che abbiamo esaminato, si accompagna d’altro canto un formato delle decisioni che le rende per così dire inapparenti, scarsamente visibili e riconoscibili come tali, e dunque di fatto sottratte alla discussione pubblica.

Questa metamorfosi del discorso delle politiche, cioè la legittimazione dei giudizi e delle decisioni che ne derivano non sul confronto delle argo-mentazioni, ma su pretese di verità (a partire dal principio in base al quale, oggettivamente, “non c’è alternativa”), si concretizza in due direzioni. Essa ha a che fare da un lato, in un rapporto di reciproca e circolare influenza, con il mutamento delle basi di conoscenza e di informazione abilitate a fornire le evidenze per la produzione di questo regime di verità; conoscenze e informazioni che, per svolgere legittimamente quella funzione, devono essere oggettive, quantificabili, misurabili; dall’altro, come vedremo soprat-tutto sul terreno del lavoro e della sicurezza, tale metamorfosi conduce ad una progressiva emarginazione, irrilevanza, vera e propria perdita di potere – potere di definizione delle materie e delle questioni in gioco, potere di costruzione dei modi di osservare, rilevare, classificare quelle materie e quelle questioni – dei soggetti che fanno esperienza diretta delle conseguenze di quel regime di verità.

Del resto, in tutti e tre i campi di politiche sotto osservazione, risul-ta evidente che in questa diversa configurazione e funzione delle basi di conoscenza si gioca un mutato rapporto tra potere politico e competenze tecnico-scientifiche. Anche se – o proprio perché – prevale un uso meramen-te evocativo del sapere scientifico, come vedremo nella Seconda Sezione, la pretesa oggettività che esso conferisce alle definizioni della realtà tende a sostituire argomenti di validità e giustizia (che poggiano sul vocabolario

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del diritto e parlano di diritti) con argomenti di verità; i vocabolari esperti tendono a soppiantare il registro politico del discorso sulle scelte.

Un ulteriore tratto distintivo che merita di essere segnalato viene in luce se si mette a fuoco la configurazione manageriale che l’azione pubblica assume nella governance di queste politiche. Il management pubblico, discusso so-prattutto nella Seconda Sezione, presenta un risvolto che in prima istanza appare paradossale. Esso si legittima con l’impegno nel perseguire “obiettivi” e i risultati che raggiunge con le sue politiche vengono certificati da indicatori oggettivi; ma i problemi sociali che quelle politiche sono supposte affrontare raggiungendo quegli obiettivi permangono tutt’altro che risolti [si veda tra gli altri Michael Power 1997]. Il paradosso si scioglie se si considera che nella configurazione del governo come management (come gestione, non come azione propriamente politica di trasformazione della realtà) i proble-mi ne costituiscono l’alimento principale, il terreno principale dell’esercizio di un potere che per l’appunto “gestisce”. Si potrebbe dire, sulla scorta di Wolin [2008], che i problemi oggetto delle politiche sono in gioco non per essere risolti, bensì gestiti. Questo potere si esercita semmai nel costruire, nel mettere in forma i problemi oggetto dell’azione pubblica, in tal modo alimentandoli, come accade emblematicamente nel caso del problema della sicurezza. Esso cresce ed è mantenuto vivo, quanto più si rafforzano poli-tiche e programmi che lo affrontano, quanto più il discorso della sicurezza estende la sua area d’influenza.

Esemplare, a questo proposito, è anche il caso del principio di “esi-menza” discusso nella Terza Sezione del volume. Con tale termine, tipico esempio di quella langue de bois attraverso cui il linguaggio tecnico-burocratico neutralizza la natura di rapporto sociale e la valenza politica di un proble-ma o di un processo, viene indicato un insieme di procedure e di verifiche, nel campo della sicurezza del lavoro, che rappresenta una vera e propria soglia per le organizzazioni. Il perseguimento di questa soglia, che appunto “esime” l’organizzazione da responsabilità anche penali laddove dovesse verificarsi un incidente, mobilita una mole considerevole di attori e di attività e genera un vero e proprio mercato (formazione, certificazioni e così via), che tuttavia è intensamente concentrato non ad operare sui fattori sociali, materiali e sistemici che possono generare insicurezza e rischio, bensì ap-punto a perseguire la burocratica applicazione di quelle procedure la cui certificazione mette al riparo l’organizzazione da conseguenze spiacevoli. Se poi accostiamo a questo aspetto dell’analisi quello che mette in evidenza la crescente responsabilizzazione degli individui, la cui esperienza e dunque capacità di voce e di intervento è del tutto esautorata nel contesto delle procedure di “esimenza”, lo stampo di questo discorso delle politiche emer-

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Premessa10

ge con chiarezza. Mentre si moltiplicano i dispositivi (di cui il meccanismo dell’“esimenza” non è che uno dei possibili esempi) che promuovono una gestione amministrativa (e non sostanziale) dei problemi e che comprimono gli spazi in cui può esercitarsi la capacità di voce dei soggetti, si intensifica allo stesso tempo la responsabilizzazione che mette gli individui alla prova e li sottopone, loro sì, al peso della soluzione biografica di problemi di ordine sociale e collettivo: la sicurezza, recita appunto la campagna di co-municazione del Ministero del Lavoro in cui si condensa bene il senso delle trasformazioni qui indicate, «la pretende chi si vuole bene».

Queste trasformazioni che attraversano i diversi campi di politiche e le differenti articolazioni del discorso qui indagate recano ben visibile l’im-pronta neo-liberale nei poteri e nelle tecnologie di governo: nel loro essere depurati da connotati ideologici, come dicevamo, nell’apparente debolezza di meri poteri di gestione, nel carattere oggettivo e necessitato dei processi sociali, nella depoliticizzazione delle scelte. A vederle nel loro insieme, queste trasformazioni sembrano dire qualcosa che va oltre il perimetro dei fenome-ni su cui la nostra ricerca si esercita. Esse si configurano a loro volta come un sintomo di qualcosa di più profondo, qualcosa che attiene alla solidità delle stesse basi sociali della democrazia, forse nella direzione indicata da Colin Crouch [2004], quella di una post-democrazia in cui quanto più lo spettacolo della democrazia (il dibattito elettorale, le elezioni ecc.) si dilata, tanto più esso è saldamente controllato da professionisti della comunicazione ed esercitato su un numero assai limitato di questioni, laddove le decisioni strutturali sono appannaggio di poteri privati e ristrette élites. Si delinea cioè una questione di fondo, che qui ci limitiamo ad indicare: la democrazia va degradando, da regime di apprendimento costitutivamente aperto perché basato sul pubblico confronto delle questioni che lo attraversano [Sen 2009], a sistema fondato sull’imposizione di forme d’autorità le cui basi cognitive sono progressivamente sottratte al confronto pubblico. Se misuriamo la de-mocrazia, come regime politico di governo, sulla crescente estensione e qua-lificazione della capacità di voce dei soggetti e delle collettività sulle questioni sociali che li concernono [Appadurai 2011], allora dobbiamo preoccuparci del depotenziamento di questa capacità e delle sue basi cognitive – di quella debolezza cognitiva che è stata messa a tema da Franco Rositi nel volume I, e che vediamo qui prodursi nei registri discorsivi delle politiche esaminate.

Vando Borghi, Ota de Leonardis, Giovanna Procacci

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Premessa 11

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sezione prima

Sicurezza e democrazia. L’argomentazione pubblica nelle politiche di sicurezza

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Presentazione

In questa prima parte del volume analizziamo le politiche locali di sicurezza, che rappresentano l’unità discorsiva specifica su cui si è concentrato il lavoro della nostra unità di ricerca1. Si tratta di politiche che si ripromettono di produrre maggiore sicurezza; ma di quale sicurezza parlano?

Il concetto di sicurezza, infatti, è un concetto storico; per quanto paure e bisogno di sicurezza rappresentino delle dimensioni costanti della vita sociale, il senso di cosa concretamente ci rassicura e cosa ci fa paura cam-bia continuamente [Delumeau 1989; Bourke 2005; Escobar 2007]. Nel suo volume recente dedicato al principio di sicurezza, Frédéric Gros [2012] descrive alcune figure che hanno storicamente caratterizzato la sicurezza: una sicurezza come stato d’animo soggettivo, una sicurezza oggettiva come assenza di pericoli, una sicurezza come garanzia di diritti fondamentali, una sicurezza centrata sul controllo e la regolazione dei flussi. Le politiche di sicurezza attuali, su cui si concentra la nostra analisi, si collocano al punto d’incrocio fra queste due ultime forme della sicurezza, fra il declino di una sicurezza moderna garantita dallo stato e l’emergere di una forma nuova centrata su regolazione e controllo.

Non basta però prendere in conto la storicità della sicurezza, c’è qual-cosa di più che va segnalato sin dall’inizio: queste politiche ci dicono che nel discorso pubblico contemporaneo la sicurezza è diventata l’oggetto di politiche dedicate. La sicurezza non è dunque più l’obiettivo dell’organiz-zazione politica in quanto tale, come è sempre stata pensata nei processi di costruzione dello stato moderno da Hobbes in poi, quella promessa di una contropartita che rende accettabili le imposizioni di uno stato, quella condizione di generale protezione che giustifica i costi dell’organizzazione stessa e la rinuncia ad una sovranità senza limiti. Qui la sicurezza diven-ta invece il prodotto di politiche specifiche. Non solo dunque la sicurezza

1 Al lavoro del gruppo di ricerca del Dipartimento di Studi sociali e politici dell’Univer-sità di Milano, diretta da Giovanna Procacci, hanno partecipato a vario titolo, e in ordine alfabetico, i dottori Roberto Cammarata, Chiara Marchetti, Andrea Molteni e Raffaele Monteleone. Ringraziamo Roberto Escobar per le numerose occasioni di confronto, Enzo Colombo per il supporto prezioso, Ambra Romio e Carmela Stezzi per l’abile lavoro di tra-scrizione delle interviste, Concetta Antronaco e Liliana Rondena per la generosa assistenza sul piano amministrativo.

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assume significati storicamente diversi, ma sotto l’unità discorsiva del tema sicurezza, che sembra rinviare ad un obiettivo sempiterno della politica, ad un suo “oggetto naturale” [Bigo 1996, p.252], si segnala una discontinuità, si rivela una forma nuova che corrisponde a un discorso e a una pratica politica inediti. E come tutte le pratiche prende corpo in una sorta di rarità spaziale, un vuoto di razionalità che consente l’emergere di una razionalità nuova [Veyne 1972]. Cosa c’è dietro la nascita di una razionalità politica designata come “governo della sicurezza”? E come può l’analisi del discorso securitario e delle sue strategie argomentative aiutarci a capirne caratteri-stiche e limiti?

S’impone però anche un’altra dichiarazione d’intenti: il discorso non è preso qui come semplice narrazione, ma fa parte integrante di quell’insieme di pratiche, discorsive e non, che investono un settore della vita sociale; ne “parlano”, certo, ma così facendo lo “formano” anche. Costruiscono, cioè, le categorie per pensare le attività che lo animano, per identificare i soggetti che a vario titolo vi sono coinvolti, per definire le relazioni fra questi soggetti. Insomma, il discorso è esso stesso pratica, e di questa pratica fanno parte anche le sue specifiche modalità narrative e argomentative. Affrontando il discorso securitario dal punto di vista di un’analisi dell’argomentazione, ci poniamo dunque interrogativi specifici sull’ordine di quel discorso, ma con-sideriamo anche che il senso dell’argomentazione sta non tanto nell’ordine logico della narrazione, quanto in uno specifico intreccio di categorie e modalità espressive che entrano nella costruzione del nostro ‘campo’, come direbbe Bourdieu, che è appunto quello della sicurezza come oggetto di politiche dedicate.

In fondo, la nostra indagine nasce da una domanda tipica delle scienze sociali: che relazioni si stabiliscono fra le modalità del pensare e del dire un certo settore di pratiche sociali, i soggetti che vi sono coinvolti e la for-ma che i rapporti sociali assumono in quelle pratiche? Applicata al nostro oggetto, significa indagare il discorso delle odierne politiche di sicurezza a partire dalle condizioni che ne hanno reso possibile la nascita: le condizioni di contesto storico-politico, certo, ma anche le condizioni di pensabilità che hanno permesso di trasformare la sicurezza, da obiettivo generale dell’or-ganizzazione politica, ad oggetto di politiche specifiche. Non può sfuggire l’importanza di questo passaggio nel discorso pubblico, in particolare data l’intensità con cui in questi anni politica e media vi hanno investito.

Nel primo capitolo, affrontiamo l’esplosione semantica e politica del concetto di sicurezza che rende possibile l’emergere del discorso securitario odierno, le sue caratteristiche e il suo funzionamento come matrice di ca-tegorie, attraverso le quali tende ad egemonizzare campi interi di pratiche

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Sicurezza e democrazia. L’argomentazione pubbLica neLLe poLitiche di Sicurezza 17

sociali. Nel secondo capitolo, tracciamo le linee di evoluzione delle politi-che di sicurezza e dei dispositivi securitari, lo slittamento della sicurezza a livello del potere locale, la colonizzazione di fenomeni altri (spazio urbano, immigrazione, religione) che si configura propriamente come una nuova ra-zionalità. Nel terzo capitolo, vediamo all’opera il dispositivo delle ordinanze sindacali che assume un ruolo centrale in queste politiche, analizziamo le forme e i modi del discorso di sicurezza che le accompagna, prefigurando l’idea di un “governo della sicurezza”.

G.P.

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1

Le trasformazioni del concetto di sicurezza di Giovanna Procacci

Introduzione

Le analisi contemporanee sulla sicurezza concordano su almeno due punti: la datazione dell’esplosione del tema della sicurezza a partire dagli anni novanta del XX secolo, che qualcuno definisce «il decennio della sicurezza» [Maneri 2006], e il ruolo centrale che secondo molti autori assume il discorso nell’analisi di questo passaggio.

Che si tratti delle istituzioni, della politica, degli esperti o dei mass media, la sicurezza viene analizzata a partire dal discorso securitario, visto come un sistema di framing che inquadra il tema e in cui avvengono quegli slittamenti semantici del concetto di sicurezza e di concetti ad esso correlati, come quello di rischio e di insicurezza. L’analisi linguistica e dei repertori retorici riveste così un ruolo centrale nell’analisi delle politiche attuali di sicurezza. In questo capitolo ricostruiamo l’emergere del discorso securita-rio odierno, le sue caratteristiche, i suoi effetti e i suoi limiti. Nei capitoli successivi entreremo nel merito del funzionamento delle politiche locali di sicurezza.

1. Il discorso di sicurezza e le sue condizioni di possibilità

Certo, le trasformazioni del concetto di sicurezza non appartengono solo all’ordine del discorso, ma si inseriscono in un contesto di importanti tra-sformazioni storico-politiche che caratterizzano più in generale la politica contemporanea: la caduta del muro di Berlino, le crisi economiche, fiscali e dello stato sociale, le politiche neo-liberiste che egemonizzano la risposta a queste crisi, i processi di globalizzazione dell’economia e dell’organizzazione politica, l’esplosione del tema del terrore soprattutto dopo il settembre 2001 e le guerre che ne sono seguite, l’intensificarsi dei movimenti migratori, le

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nuove sfide alle identità su cui poggiavano gli stati nazionali, e ben altre trasformazioni ancora. In un certo senso, potremmo dire che dal punto di vista politico viviamo in un mondo inedito, per descrivere il quale sono state coniate varie definizioni: iper o post-moderno, globalizzato, cosmopolita, post-nazionale, liquido, nomade, e via dicendo, che hanno riscosso un certo successo anche nel dibattito scientifico delle scienze sociali.

Ma perché emerga quella trasformazione specifica che vogliamo stu-diare, che prende la forma appunto delle politiche di sicurezza, è necessa-rio interrogarsi su come queste trasformazioni complessive abbiano potuto produrre una razionalità nuova di ciò che significa la richiesta politica di sicurezza, quali pratiche possono essere messe in campo per produrre sicu-rezza, quali minacce prendere di mira, ecc. Il paradigma della sicurezza è venuto affermandosi come un insieme di pratiche discorsive e non discorsive, che includono strumenti istituzionali e tecnologici, competenze e saperi, su cui si costruiscono le politiche di sicurezza contemporanee.

Le scienze sociali hanno offerto un contributo di rilievo alla costruzione di questo paradigma. L’esplosione dell’interesse per la sicurezza ha prodotto un nuovo terreno disciplinare, i cosiddetti security studies, che nella versione più prettamente politologica hanno preso piede nel campo delle relazioni internazionali. In questo ambito, le trasformazioni rilevanti sono legate al terrorismo, alle guerre, all’idea dello stato d’eccezione; il focus è dunque sulla dimensione della sicurezza nazionale, dei conflitti militari, degli studi strate-gici. Se però l’approccio tradizionale alla sicurezza nazionale, preoccupato soprattutto della stabilità dello stato, guarda la sicurezza come un valore da perseguire, si è consolidata in questi ultimi anni una prospettiva critica che rimette in discussione questa concezione sostanzialista e propone, invece, un’idea di sicurezza come discorso securitario, da cui far derivare l’analisi dei saperi, delle tecnologie e delle pratiche ad esso connessi. I cosiddetti critical security studies rappresentano un movimento critico che ha trovato nella Scuola di Copenhagen l’espressione più compiuta [Buzan, Wæver e de Wilde 1998]; in particolare, lo sforzo analitico di questi studiosi si è concentrato nel trattare la sicurezza come un processo di costruzione sociale che, investendo un feno-meno ordinario in una retorica del rischio, lo tematizza come una minaccia per la sicurezza, rendendo così possibile il ricorso a misure straordinarie giustificate in nome dell’insicurezza che ne deriverebbe. La sicurezza è qui trattata come un discorso (speech acts) che descrive un certo fenomeno come una minaccia, indipendentemente dalla sua natura; va analizzata insomma più per quello che fa, che per quello che è. È questo il senso del concetto di securitization, che mette in campo l’attore del processo, l’oggetto e il suo pubblico, il cui assenso è fondamentale perché il processo stesso abbia suc-

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cesso; l’analisi della sicurezza si sposta così dalla centralità dello stato verso la società, per mettere a fuoco le modalità con cui una comunità assicura la propria identità anche in condizioni di mutamento [Wæver 2011].

L’altro filone degli studi sulla sicurezza è quello più propriamente socio-logico, soprattutto della sociologia del controllo sociale, che ne mette invece al centro direttamente la dimensione interna all’organizzazione sociale, l’impatto sul potere politico, l’ordine pubblico, ecc. [Garland 2001; Wacquant 1998]. Anche qui la sicurezza viene trattata come l’affermarsi di un discorso securi-tario che ha assunto una centralità inedita nel dibattito pubblico e ha finito per orientare le politiche nei settori più disparati della vita sociale contem-poranea. Per quanto sia qui rivolto all’interno, non cambia la tendenza del discorso securitario a costruire minacce (interne) sulla base dell’individuazione di rischi, e a funzionare secondo una logica di governo emergenziale, basata sul modello amico-nemico, che rende possibile il superamento delle normali procedure per rispondere all’insicurezza; solo che in questo caso l’esplosione del discorso securitario deve giustificarsi dall’interno della società. Ma come si rileva la minaccia interna? È il discorso securitario che dà voce ad insi-curezze sempre più estese, dovute alla condizione in cui viviamo oggi, o è piuttosto la sua esplosione a incrementarle, offrendo le parole e le categorie per pensare sempre più fenomeni sociali in termini di sicurezza? I dati non sembrano confortare la prima ipotesi: non c’è prova empirica che i proble-mi che concernono l’ordine pubblico siano aumentati in modo significativo [Maneri 2006]; le statistiche storiche sulla criminalità indicano che i delitti, e in particolare quelli contro la persona, sono diminuiti [Ferrajoli 2010]; non c’è nemmeno conferma empirica che, fra le tante ragioni di preoccupazione diffuse fra le persone, siano davvero aumentate le richieste specificamente motivate in termini di sicurezza. Eppure cresce la percezione di insicurezza. Si tratta di quella divaricazione fra la “realtà oggettiva” della sicurezza e la “percezione soggettiva” di insicurezza che anima in effetti buona parte del discorso pubblico, sia politico che mediatico, in tema di sicurezza. Sebbene divaricazioni del genere siano ormai popolari anche in altri settori del discorso pubblico (si pensi al ruolo assunto dalla percezione nel discorso economico, che pure è considerato campione di oggettività), nell’ambito del discorso securita-rio questo sdoppiamento acquista un rilievo particolare: la sua legittimazione stessa, infatti, deriva dalla domanda di sicurezza diffusa tra i cittadini, la quale è effetto diretto della percezione di insicurezza. Si viene così a creare un rap-porto circolare fra discorso pubblico e percezione soggettiva, confermato dal fatto che le apprensioni legate alla sicurezza risultano aumentare proprio in quei settori di fenomeni che il discorso securitario prende di mira in modo particolare (criminalità comune, immigrazione, degrado urbano).

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Accanto a queste due dimensioni della sicurezza, quella internazionale di una sicurezza che appare oggi più ancorata alla società che allo stato, e quella interna di una sicurezza che si confronta a una domanda socia-le, un’altra prospettiva analitica insiste sull’importanza crescente di una sicurezza che, indipendentemente dalla sua dimensione, viene descritta direttamente come stato d’eccezione, stato di necessità, misure urgenti [Bigo 2008; Dillon 2007]. La sua ragione sta nella natura catastrofica dei “nuovi rischi” che, soprattutto in campo ambientale, li rende propriamente ingovernabili, mettendo di fatto le persone in una condizione di insicurezza insuperabile. Si può solo cercare di prevenire ed evitare l’insorgenza di tali rischi; cosicché questa dimensione della sicurezza si lega piuttosto a strategie di anticipazione di quelle azioni che possono attivare il rischio della catastrofe [Bigo 2008].

In tutti e tre gli approcci analitici, come si vede, l’emergere di una nuova razionalità politica nel campo della sicurezza espressa nel discorso securitario viene dunque ricondotta a delle condizioni di possibilità nuove che si sono determinate nelle società contemporanee, legate alle trasfor-mazioni del rischio nel mondo contemporaneo e al rapporto fra sicurezza e insicurezza.

Molto è stato detto sullo sviluppo straordinario che il concetto di rischio ha conosciuto, a partire dagli anni novanta, nel discorso politico, dei media e delle scienze sociali, le quali ne hanno fatto addirittura il tratto distintivo della condizione di vita nella tarda modernità [Bauman 1998, 2006]. È diventato il nuovo paradigma per pensare le «società del rischio» [Beck 1992], contro il vecchio paradigma delle società di classe. Non intendiamo qui riprendere un tema già trattato in altre sedi [Procacci 2012], ma solo richiamare quest’esplosione del rischio per il suo render possibile la nascita dell’odierno discorso securitario. Se infatti tutto è rischio, nella società l’ec-cezionale diventa la norma, tanto più che i rischi sono oggi per loro natura incalcolabili; si apre così uno scarto fra razionalità scientifica e razionalità sociale. Ma di fronte al rischio non siamo tutti nella stessa posizione: c’è chi ha il potere di definire il rischio e chi ne è soggetto passivo, chi è in condizione di correrlo e chi no [Giddens 1990]. Il rischio può insomma funzionare come un nuovo principio di governo e di esclusione, mettendo in moto un sistema immunitario contro le persone identificate come portatrici di rischio; cosicché le società del rischio appaiono costantemente in bilico fra una tendenza cosmopolita legata al carattere globale dei rischi e una tendenza opposta al nazionalismo, alla xenofobia o «estraneità universale» [Beck 2000, p. 180].

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2. La crescita dell’insicurezza

All’esplosione del rischio, dicevamo, si affianca una seconda condizione di possibilità altrettanto cruciale nell’emergere del discorso securitario, l’asso-ciazione forte fra sicurezza e insicurezza. Alla luce di quello che chiama «la frustrazione securitaria», Robert Castel [2003] si chiede se davvero la sicurezza sia l’inverso dell’insicurezza, come si pretende, cosicché ogni pas-so avanti nella prima ridurrebbe il senso di insicurezza. A ben guardare, sembra piuttosto che avvenga il contrario: una maggiore sicurezza non diminuisce il senso di insicurezza, ma lo sposta su altri obiettivi. Viviamo oggi in una condizione paradossale, osserva Castel, per cui società mai così sicure si scoprono più vulnerabili che mai al senso di insicurezza. Già Michel Foucault [1983] aveva evocato questo carattere paradossale della sicurezza che si fa «domanda infinita». Sembrerebbe insomma che più ci si abitua alla sicurezza, più si abbassa la soglia dell’insicurezza. Ma allora la sicurezza non è il contrario dell’insicurezza; ben prima di essere un sen-timento, quest’ultima esprime uno scarto fra le attese socialmente costruite e la capacità effettiva della società di rispondervi. L’insicurezza è piuttosto l’altra faccia di una società securizzata, che rialza continuamente le proprie richieste di sicurezza nella misura in cui si aspetta che ogni rischio possa essere controllato.

Proprio su questo legame fra sicurezza e insicurezza, Foucault aveva aperto nuovi fronti analitici, soprattutto nelle sue Lezioni al Collège de Fran-ce sul liberalismo [Foucault 2004, 2004a]. La preoccupazione moderna per la sicurezza nasce nel quadro della governamentalità liberale: il liberalismo è un modo di governare centrato sulla libertà, non si limita a rispettare la libertà come qualcosa che gli preesisterebbe, ma governa producendola; anzi, per governare le persone come individui liberi, guidarne le condotte ad agire liberamente, è costretto a produrne di continuo, «consuma liber-tà» [Foucault 2004a, p.59]. È in quest’uso spregiudicato della libertà come modo di governo che si radica la questione della sicurezza: «il correlato della governamentalità liberale sono i meccanismi di sicurezza». Perché i fenomeni che influenzano la vita della popolazione diventano una sfida per un governo che scopre la sua dimensione bio-politica: il corpo sociale non è più una metafora, ma una realtà biologica [Foucault 1978], e la popola-zione che lo compone è un valore solo se sono assicurate le condizioni per la sua crescita, la sua longevità e il suo benessere. I meccanismi di sicurezza svolgono questo compito, rappresentano un insieme di strategie dirette ad assicurare la vita della popolazione, si situano insomma al punto di giunzione fra liberalismo e bio-politica; non costituiscono materia di ordine pubblico,

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ma di vitalità. Si tratta di quel modello bio-politico di sicurezza, centrato sul controllo e la regolazione dei flussi, che nella ricostruzione di Frédéric Gros [2012] avrebbe sostituito il modello della sicurezza dello stato moderno, ma che forse nella pratica politica gli si è soprattutto affiancato.

Nel governo liberale, i meccanismi di sicurezza regolano quei fenomeni che possono interferire con le condizioni necessarie a degli individui per vivere liberi, che significa pur sempre «vivere pericolosamente». Per questo, secondo Foucault, una cultura del pericolo è una conseguenza ineliminabile della cultura della libertà; ma in questo caso il pericolo non si rapporta alla paura individuale, ha piuttosto a che fare con le condizioni di vita collettiva. Il lavoro di regolazione che la gestione di questa pericolosità comporta si definisce dunque a partire da due punti acquisiti: che la sicurezza in una società liberale non è un modello generale di potere, ma una strategia politica che si affida a specifiche tecniche capaci di influenzare le condizioni della vita collettiva; e che queste tecniche rispondono a strategie di espansione della libertà, non di eliminazione dell’insicurezza, per la buona ragione che insicurezza e libertà sono intrinsecamente legate e non potremmo perdere l’una senza perdere anche l’altra. L’insicurezza non può essere guarita; allora però la sicurezza, sganciata dall’ansia di liberarsene, non è un sentimento, ma una condizione di possibilità della vita collettiva.

Nel discorso securitario attuale, invece, questo legame profondo fra li-bertà e insicurezza pare definitivamente estromesso; la natura intrigante dell’insicurezza legata alla condizione di vita libera cede il passo sotto il peso di una concezione sanitaria, in cui l’insicurezza è vista come uno stato psicologico legato alla paura, un male da guarire, qualcosa che si frappone fra l’individuo e la sua libertà per l’appunto. É la sicurezza che fa ormai coppia con la libertà, che ne viene data addirittura come l’equivalente, a tal punto da diventare, come la libertà, un “bene pubblico”. Il discorso se-curitario si fonda su una diagnosi di insicurezza, che si ripromette di curare a forti dosi di sicurezza.

3. La polisemia attuale del concetto di sicurezza

Dall’evoluzione del concetto di rischio verso una dimensione costitutiva dell’esistenza e dal legame con il senso di insicurezza che caratterizza la vita nella tarda modernità, nascono le condizioni che rendono possibile la nascita di una nuova razionalità della sicurezza che darà forma alle politiche di sicurezza. Da una parte, si tratta di rassicurare un’insicurezza endemica, compito apparentemente impossibile; dall’altra, la sicurezza acquista signi-

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ficati nuovi che tendono a farla esplodere a sua volta. Nel correlare rischio e promessa securitaria (di riscattarci dall’insicurezza), il discorso securitario svolge un ruolo centrale nel trasformare e aggiornare costantemente la se-mantica della sicurezza, offre le categorie per pensarla, o pensarne la man-canza, per sperimentarla nel proprio vivere quotidiano. Se, da una parte, le nostre esistenze si situano in un orizzonte di rischio generalizzato che ci fa guardare alla sicurezza come al bene supremo, mai realizzabile davvero, dall’altra una ricerca ansiosa di sicurezza invade le nostre vite e le nostre pratiche sociali, ricondotte tutte a un elemento comune: la paura dei rischi che comportano.

Lo scarto fra questi due piani è gestito dal discorso securitario che tende a invadere sempre più campi, ad assumere un insieme sempre più ampio di fenomeni sociali, a trattarli secondo le procedure tipiche di questo discorso, individuandone gli elementi di minaccia alla nostra sicurezza. Il successo di questo discorso nell’imporre la propria egemonia è l’effetto di un processo di occupazione diretta del tema sicurezza da parte delle politiche: se rischio e sicurezza sono investiti politicamente, l’idea stessa di sicurezza cambia, le soluzioni tecniche non bastano più [Taylor-Gooby, Zinn 2006] e la sicurezza acquista nuovi significati e territori; le questioni di sicurezza, come osserva Elspeth Guild [2009], ormai coprono praticamente ogni settore dell’azione pubblica. Dall’immigrazione all’ambiente, al lavoro, la criminalità, il terrori-smo, le periferie, i giovani, la libertà di religione, l’alimentazione, il patrimo-nio culturale, la salute: la lista non è esaustiva, eppure si tratta già di un bel numero di fenomeni della vita sociale, tutti proposti come altrettanti rischi che alimentano il nostro senso di insicurezza e, quindi, oggetto potenziale di politiche di sicurezza.

Può apparire sorprendente che temi così diversi siano ripresi in una stessa retorica, ma proprio questo mette in evidenza il fatto che la sicurezza non è tanto trattata come un insieme di tecniche dirette a risolvere specifici problemi, ma come un argomento di legittimazione in sé, la risposta diretta a un sentimento, a un bisogno di essere psicologicamente rassicurati, che può in effetti emergere in luoghi diversi. La sicurezza si fa discorso, offre nuove narrazioni, propone un modello esplicativo che racchiude in sé anche la soluzione: una volta che i fenomeni sono ricondotti a una trama di rischi per la nostra sicurezza, dunque a un nocciolo comune malgrado la loro na-tura affatto diversa, il cuore dell’azione diventa come quietare l’insicurezza suscitata, e l’effettiva soluzione dei problemi perde d’importanza.

Da una parte, dunque, la sicurezza diventa un modello generale di governo, che si impone in parallelo alla riduzione dei sistemi di welfare che avevano dato corpo istituzionale all’idea della sicurezza sociale; c’è qui la

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prima trasformazione di rilievo. Anzi, come osserva Sofsky [2005, pp.92-94], lo stato sociale non solo non appare più oggi come un luogo di protezione, ma è visto come fonte ulteriore di insicurezza: se lo stato non è più in grado di garantire la sicurezza sociale e non produce più rapporti di solidarietà, allora si determina insicurezza sociale [Pavarini 2006]. Si apre così un vuoto: un bisogno di sicurezza che rimane insoddisfatto produce una domanda so-ciale di sicurezza che cresce in modo relativamente indipendente dai rischi oggettivi, e lo stato stesso è costretto a trovare altre strade per conservare il proprio ruolo di garante della sicurezza [Bauman 2006]. Lo sviluppo del discorso securitario nasce da questa necessità di trovare vie nuove, di cui vedremo meglio la natura, per costruire quel “governo della sicurezza” che si propone di sostituire al governo della sicurezza sociale.

Dall’altra parte, il frame del rischio usato per analizzare i fenomeni più disparati finisce per inflazionare, invece che rassicurare, la domanda di sicurezza, fino a conferirle una consistenza in sé: la sicurezza diventa allora oggetto di politiche specifiche, le cosiddette “politiche di sicurezza” appunto. Il loro costante riferimento all’insicurezza come stato percettivo apre uno squarcio su un terreno sconfinato di paure che si annidano nella vita di ognuno di noi e che offrono altrettante opportunità di egemonia al discorso securitario. In questa nuova razionalità, la sicurezza finisce così per frammentarsi fino a coincidere potenzialmente con la vita sociale tutt’intera.

Insomma, per un’accezione forte che si indebolisce, quella di sicurezza sociale appunto, altri significati emergono per effetto del discorso securitario che vi si sostituisce. Bauman [1998] scompone il bisogno di sicurezza di-stinguendone tre componenti fondamentali: la sicurezza esistenziale (security), quella cognitiva (certainty) e quella personale (safety). Nella società liquida, tutte queste figure della sicurezza sono costantemente in bilico sulle corde tese dell’insicurezza. Poiché la sicurezza esistenziale scompare sotto il peso del rischio generalizzato, e quella cognitiva cede di fronte all’incapacità di calcolo e di controllo dei rischi odierni, le ansie legate alle prime due figure della sicurezza finiscono per riversarsi tutte sulla terza, cosicché la figura dominante della sicurezza nel nostro vivere contemporaneo diventa proprio quella dell’incolumità personale rispetto alle minacce al corpo e alle cose. La personalizzazione sarebbe dunque, secondo Bauman, la linea di tenden-za della sicurezza oggi; ma la mappa semantica del concetto di sicurezza nel dibattito delle scienze sociali può essere ricondotta a tre dimensioni principali su cui questa tendenza si dispiega e che ispirano anche approcci analitici diversi. • Sicurezza ontologica – Giddens [1990] parla di sicurezza come la ricer-

ca di una vita esente da ogni rischio; è l’altra faccia di quello che chia-

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ma «cultura del rischio», dove il rischio corrisponde a una condizione generale di vita nella post-modernità e perde ogni accezione specifica, non è prevedibile, né può essere governato sulla base di calcoli attuariali. La sicurezza ontologica non corrisponde a tecniche di governo, ma ad un sentimento, ad un bisogno irrazionale di essere psicologicamente rassicurato. Sfocia inevitabilmente in una rappresentazione duale della società: una sicurezza impossibile da realizzare viene proposta come obiettivo per tutti, mentre una vita rischiosa diventa il privilegio, se non addirittura la virtù, di quei pochi che riescono ad affrancarsi da un tale bisogno irrazionale.

• Sicurezzanazionale–Segnaunritorno in forzadellaminacciaester-na: nemici, terrorismo, pandemie, dominano la politica internazionale e l’orientano verso guerre preventive, costruzione di fortezze, e simili. Qui la sicurezza si confronta con cambiamenti politici cruciali legati alla globalizzazione e al suo impatto sugli stati nazionali e i loro con-fini. Porta a leggi restrittive, ad un’amplificazione della sorveglianza e del controllo, una diminuzione delle garanzie e una diffusione di tecnologie informatiche e biometriche, una criminalizzazione dell’altro visto come il nemico. La sicurezza nazionale diventa la matrice di una figura adottata anche dal discorso sulla sicurezza interna, nelle varie forme di “guerra a” – alla povertà, all’esclusione, la tolleranza zero, ecc. Bigo [2011] considera inevitabile il prevalere della logica dello stato d’eccezione, dei confini, delle esclusioni: la crisi del modello assicurativo costringerà anche la sicurezza interna, affrontata in termini di forme di regolarità, a cederle il passo.

• Sicurezzaumana–Quisitrattainvecedellaminacciainterna.Lancia-ta dalle organizzazioni internazionali, questa figura della sicurezza è diventata popolare a partire dagli anni novanta per effetto dell’azione dell’ONU, la Commissione per la Sicurezza Umana, l’Unesco, ecc. Si tratta di un concetto altamente politicizzato, che implica la necessità di una corrispondenza fra la sicurezza, da un lato, e l’avanzamento dei diritti umani dall’altro; le politiche sono legittime solo se mirano alla sicurezza delle persone, sia in senso positivo rispetto ai loro bisogni, sia in senso negativo rispetto alle loro paure. Il corpo fisico viene trattato come il corpo politico dello stato nel concetto di sicurezza nazionale e un ampio spettro di questioni che lo riguardano diventano altrettante questioni di sicurezza: conflitti interpersonali, fame, malattia, povertà, inquinamento, migrazioni, violenza, alimentazione, ecc. Dal punto di vista normativo, l’ampiezza della sua applicazione dipende dal fatto che il concetto reagisce esplicitamente contro l’idea che le minacce principali

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vengano dall’esterno. Questo però lo rende un concetto debole dal pun-to di vista analitico, come hanno notato alcuni critici [Newman 2010], dato che potenzialmente ogni cosa potrebbe essere percepita come una minaccia alla sicurezza delle persone; per di più è un concetto che, secondo la logica dei diritti umani, astrae la sicurezza dal suo contesto culturale, cosa che rischia di inficiare ogni analisi della sicurezza, come osservava Mary Douglas [1992]. In ogni caso, opera sulla stessa linea di tendenza che indicava Bauman con il prevalere della safety: una con-dizione di insicurezza endemica tende a trasformarsi in un’ossessione per l’integrità della persona e dei suoi beni. Il corpo fisico diventa il bersaglio di ogni minaccia.

4. L’argomento di sicurezza

Pur nella varietà di accezioni e nella complessità semantica raggiunta oggi dal concetto di sicurezza, ritroviamo alcuni tratti comuni che possiamo con-siderare modalità caratteristiche del procedere di un discorso di sicurezza. Che si tratti di sicurezza nazionale o di sicurezza interna, di sicurezza da stato d’eccezione o di ordinaria amministrazione delle paure, questi elementi marcano la costruzione strategica del ragionamento in termini di sicurezza a tal punto da farne un vero e proprio “modello di argomentazione”. As-sumere un fenomeno sociale nella retorica della sicurezza significa passare per alcune operazioni discorsive fondamentali, che rappresentano gli ele-menti strategici su cui si costruisce il ragionamento in termini di sicurezza, indipendentemente dalla dimensione cui si applica. Ma sono davvero solo modalità di procedere del discorso, punti di appoggio nella costruzione di una retorica, privi di effetti di altro tipo?

Identificare una minaccia. Il discorso di sicurezza affronta il suo ogget-to, cioè un problema che crea allarme sociale, identificandone l’origine in una minaccia personificata. Identificare una minaccia consiste nell’indicare un Altro che è esterno alla situazione che appunto ne viene minacciata; si tratta dunque di una forma della logica amico-nemico destinata a generare la paura del nemico. In particolare nella dimensione interna della minaccia, l’Altro tende a designare delle persone concrete; anzi, tanto più è concreta la minaccia, tanto più l’argomento della sicurezza funziona e può proporre una soluzione per eliminarla. Una minaccia astratta come ‘il sistema’, tanto evocato in altri momenti storici, non appartiene al linguaggio della sicurezza, in quanto non consentirebbe di focalizzare le paure. Pur essendo identificata,

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la minaccia deve però restare indefinita, per evitare contraddizioni e rendere presentabile il discorso [Maneri 2006]. La minaccia prende così la forma prevalente di categorie sociali indicate come minacciose; chiunque apparten-ga a queste categorie è potenzialmente una minaccia: si è una minaccia per quello che si è, più che per quello che si fa. Attraverso la criminalizzazione di queste categorie, il discorso securitario rende accettabile la loro esclusione da diritti e garanzie [Pavarini 2006, p.36], secondo la logica dell’eliminazione della minaccia che vedremo fra poco.

Rilevare un rischio. Il rischio, osservava Mary Douglas [1992], svolge un ruolo importante, serve a proteggere i limiti simbolici della comunità. In relazione però a una strategia di identificazione della minaccia, il rischio che questa si attualizzi non può essere corso, va perciò tenuto fuori dalla comunità. Ora, rilevare un rischio non è un’operazione innocua sul piano so-ciale. Significa oggettivare l’origine della minaccia, riconducendola a fattori indipendenti dall’azione dei soggetti e influenzati da concorrenze statistiche; i destinatari del discorso securitario sono così messi in condizione di non sentirsi responsabili di fronte alla minaccia. Significa anche rafforzare quei meccanismi eccezionali destinati a prevenire l’attualizzazione del rischio e degli scenari che disegna, tanto più spaventosi per la natura propria dei “nuovi rischi”, incalcolabili nelle loro conseguenze. Cosicché diventa difficile verificare il carattere e l’entità del rischio rilevato dal discorso securitario.

Eliminare la minaccia. Il discorso di sicurezza propone di risolvere la situazione di allarme sociale attraverso l’eliminazione della minaccia; come nella logica amico-nemico, ripristinare la normalità implica che il nemico venga eliminato. A questo serve la criminalizzazione di certe categorie in-dicate come socialmente minacciose; il governo della sicurezza appare così strutturalmente connesso al governo dei nuovi processi di esclusione sociale [Pavarini 2006, p.34]. La promessa del discorso securitario, di eliminare la minaccia e con essa il senso di insicurezza in cui ci farebbe sprofondare, ha peraltro precise conseguenze dal punto di vista del modello argomentativo: comporta una esaltazione del ruolo dell’azione in sé, tende a valorizzare un governo delle cose di tipo decisionista, che non si attarda in giustificazioni, taglia corto alla discussione e al confronto, invoca la rapidità contro la len-tezza richieste da questi ultimi, mette in risalto un certo tipo di attori capaci di interpretare questa richiesta di decisione rapida [Huysmans 2004, p.336].

Queste tre operazioni disegnano i contorni di una situazione emer-genziale che costituisce la giustificazione e, al tempo stesso, il terreno

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del discorso securitario. Il ragionamento di sicurezza propone una lettura emergenziale dei fenomeni cui si applica; l’emergenza è una caratteristica implicita della figura stessa della minaccia, presuppone una rottura della normalità, installa una temporalità provvisoria, va necessariamente superata. Il solo fatto di individuare un fenomeno (il terrorismo, l’immigrazione) come una minaccia fa sì che quel fenomeno venga rappresentato come fuori dalla normalità, la quale, anzi, ne viene minacciata. L’insicurezza, che pure come abbiamo visto rappresenterebbe una condizione esistenziale ineliminabile, è per le politiche di sicurezza uno stato innaturale, drammatico, da eliminare.

Huysmans sottolinea che questo aspetto d’eccezione caratterizza sem-pre il discorso delle politiche di sicurezza, che si inseriscano o meno in un contesto di eccezionalismo. Anzi, sia nella dimensione temporale (solo tem-poraneamente), sia sotto il profilo del raggio di azione di queste politiche, e quindi del loro grado di pervasività o invece di concentrazione in alcune aree specializzate della politica, c’è un continuum che, su una scala di gradazioni, va dalle espressioni più radicali dell’eccezionalismo fino agli effetti incremen-tali di un’ampia varietà di pratiche di sicurezza. È il linguaggio stesso della sicurezza che conferisce un carattere di urgenza al suo oggetto e giustifica così il fatto che non ci sia spazio per il confronto, che richiederebbe tempi più lenti e ragionamenti più complessi, nel mentre esalta la capacità di agire come un valore in sé, producendo effetti di semplificazione su cui torneremo nei prossimi capitoli di questa prima sezione, e a cui contribuiscono, come rilevano Polizzi e Mozzana [infra], gli stessi saperi esperti chiamati in gioco per fondare l’analisi del carattere eccezionale.

Altri effetti di rilievo dal punto di vista sociale hanno a che fare con la costruzione di nuove categorie e nuove segmentazioni sociali. Intanto il formato del discorso di sicurezza permette di identificare gli attori legit-timati ad indicare minaccia, rischio e soluzione, in una parola a dire cos’è la sicurezza; nel contempo assegna agli altri il ruolo di pubblico, destinatario del messaggio di sicurezza. Siamo insomma lontani in questo modello argo-mentativo dal confronto fra ragioni a favore o contro, quelle che, per usare una metafora, dovrebbero animare un “Consiglio di sicurezza” di cui pure gli Stati avevano sentito il bisogno. Le categorie di attori includono in primo luogo i politici, i quali tendono a drammatizzare la minaccia per esaltare il proprio ruolo di protezione; qui è centrale la funzione di amplificatore svolta dai media che adottano in prima persona la drammatizzazione e la traduco-no in immagini e notizie che rendono concreta la minaccia [Ferrajoli 2010]. Ma altri attori entrano in gioco con forza nella costruzione della minaccia, come fa vedere Bigo [1996]: sono gli esperti di sicurezza, i professionisti della “gestione della minaccia”, forti delle loro conoscenze sui rischi che ne

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legittimano il ruolo. Non si tratta qui del ruolo dei saperi esperti chiamati a dare fondamento “scientifico” alla minaccia, ruolo che come vedremo me-glio nella sez. 2 (cf. in particolare il capitolo di de Leonardis e Giorgi) non appartiene solo all’apparato argomentativo del discorso securitario, ma più in generale a quello delle odierne politiche pubbliche locali. Nelle politiche di sicurezza emerge piuttosto la figura specifica dell’esperto di sicurezza che diventa un attore diretto della decisione, e si apre una competizione fra esperti e non esperti [Lupton 2006] che ha l’effetto di potenziare il discorso securitario. Gli esperti infatti hanno modalità d’azione diverse rispetto agli attori politici, in quanto funzionano sulla riservatezza delle fonti informative e non sulla comunicazione pubblica. La gestione quotidiana dell’insicurezza non chiede drammatizzazioni, il linguaggio tecnico-burocratico prevale su quello dell’emergenza; le pratiche funzionano su una logica incrementale che erode quotidianamente il quadro giuridico-politico, senza drammatiche invocazioni dello stato d’emergenza, realizzando quella «passiva diffusione della logica securitaria» [Campesi 2012] che è l’effetto principale del discorso securitario. Anche altri tipi di attori entrano in gioco, certo, quali ONG o gruppi di società civile in rappresentanza dei gruppi indicati come minaccia: ma meno sono forti, e più diventano un bersaglio, anzi, zittirli può aiutare ad ottenere consenso intorno alle misure proposte [Maneri 2006].

L’azione di costruzione della sicurezza ad opera di questi attori dà forma a sua volta alle categorie di problemi che vengono indicati come potenziali fonti di minaccia sociale. Come emerge dall’analisi dei repertori tematici proposta nel prossimo paragrafo, i temi riuniti sotto l’ombrello delle politiche di sicurezza sono molto diversi fra loro, differenze appiattite per il fatto stesso di ridurli alla sola dimensione minacciosa, appunto. Risulta impossibile ricostruire un significato univoco dell’oggetto di queste politiche, per la buona ragione che le categorie della sicurezza che utilizzano non servono a descrivere il problema; rappresentano piuttosto una problema-tizzazione della questione sicurezza che investe certi fenomeni e ne lascia in secondo piano altri; la loro geografia serve più a ricostruire il quadro di significato della sicurezza, che non a spiegare le minacce che ci circondano. Entrano in gioco anche fattori estrinseci; per esempio gli esperti, come fa notare Bigo [1996], possono farsi guidare da interessi di categoria e rivolgersi a quelle aree della sicurezza che risultano più competitive sul piano dei fi-nanziamenti. Né il discorso securitario si preoccupa di argomentare in modo esplicito le ragioni di elezione di un tema specifico a categoria di sicurezza; il suo carattere minaccioso è dato per scontato in quanto corrisponde ad una percezione diffusa, la quale può anche essere in sé ingiustificata, ma costituisce pur sempre la legittimazione su cui il discorso securitario si fonda.

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Riassumendo, il modus operandi del discorso di sicurezza può essere sinte-tizzato così: mette in relazione oggetti diversi, di volta in volta indicati come rischio, minaccia o soluzione. Si tratta di un discorso che ha una soglia argo-mentativa debole: le sue stesse caratteristiche lo costruiscono come un discorso che privilegia l’aspetto decisionale su quello dibattimentale, l’azione sulla di-scussione; la figura della minaccia su cui si costruisce non lo spinge a cercare di convincere razionalmente, ma lo marca in senso emotivo. Certo, come abbiamo riscontrato nello studio dei casi empirici che vedremo nei prossimi capitoli, il discorso securitario ricorre a strategie argomentative di varia natura, sia di validazione tecnico-scientifica delle sue tesi, sia di conferma psicologica della sua necessità, rincorrendo quella circolarità fra discorso sulla sicurezza e percezione dell’insicurezza di cui abbiamo già detto. Ma qui, preso al di fuori di un’applicazione diretta, vorremmo suggerire che è la sicurezza in sé che offre un modello di argomentazione, di cui abbiamo indicato i tratti salienti, e che viene oggi applicato in vari ambiti del discorso pubblico.

Per esemplificare in che modo il discorso securitario funzioni da modello di argomentazione prendiamo il caso dell’immigrazione che, pur essendo l’oggetto di politiche dedicate, quelle migratorie appunto, occupa ormai un posto di assoluto rilievo nelle politiche di sicurezza. L’immigrazione vie-ne trattata come una minaccia per lo stato e l’ordine pubblico (aumento del disordine urbano e della criminalità comune), una minaccia alla tenuta dell’identità culturale della comunità (fattore di frammentazione sociale e di incremento della violenza), una minaccia di natura socio-economica (com-petizione sul mercato del lavoro e sull’accesso a servizi e garanzie sociali). Il tema del deficit di sicurezza per l’apertura delle frontiere ha finito per imporsi come verità, attraverso un vocabolario ormai ben assimilato che parla di flussi, ondate, orde, invasioni, arrivi in massa, ecc. Come osservano Huysmans e Squire [2009], che si tratti di assumere l’immigrazione come una questione di sicurezza in riferimento alla sicurezza dello stato, secondo un approccio tradizionale delle relazioni internazionali, o in riferimento alla sicurezza del migrante individuale, come nella prospettiva della human security, in entrambi i casi si rafforza l’idea che governare con fermezza i movimenti migratori può aumentare la sicurezza, reificando così l’immigra-zione come minaccia. Questo permette di legittimare delle esclusioni, in par-ticolare l’esclusione dei migranti irregolari e dei richiedenti asilo; come nota il Rapporto della Global Commission on International Migration [GCIM 2005], nei confronti di questi gruppi di indesiderabili si crea un’aspettativa di “invasione” che è smentita dai numeri, rappresentando in realtà questi gruppi una parte molto ridotta dell’immigrazione, ma che si fonda su, e nello stesso tempo incrementa l’idea della loro pericolosità sociale. La loro

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importanza politica supera largamente la loro importanza numerica: sebbe-ne infatti i migranti irregolari abbiano solo violato norme che disciplinano l’accesso al territorio dello stato, tipica violazione senza vittima, vengono trasformati in una minaccia contro la sicurezza perché, come osserva Elspeth Guild [2009], testimoniano l’incapacità dello stato di controllare il proprio territorio e nello stesso tempo permettono di affermare la pericolosità sociale di chi si sottrae alle norme.

La costruzione del binomio sicurezza-immigrazione è significativa dei processi di costruzione sociale della minaccia: parlare di immigrazione in termini di flussi fa prevalere i controlli alla frontiera e di polizia sugli inte-ressi, per esempio, degli imprenditori, o su quelli demografici di un paese. Ma il controllo dei flussi apre anche contraddizioni con quella libertà di movimento che caratterizza le società contemporanee, la quale richiede sia garantita invece una fluidità: si tratta quindi di darsi nuovi strumenti di fil-traggio fra movimenti desiderabili e indesiderabili, flussi legittimi e illegittimi, che consentano una gestione differenziale della circolazione. La distinzione fra minaccia esterna e interna allora perde senso, la sorveglianza cresce e colpisce in modo selettivo, attraverso tecniche di controllo e di individua-zione della minaccia, profili di pericolosità, ecc. Il quadrillage sociale del territorio si rilassa per una maggioranza definita a priori e si rafforza per delle minoranze, come gli immigrati, e per dei luoghi particolari, come le periferie [Bigo, p.256]. Il controllo dei flussi permette di conservare l’idea di dominare il territorio, sebbene si sia ormai radicato il riconoscimento che i fenomeni migratori sono mossi da motivi strutturali e in quanto tali non sono comprimibili.

5. Le politiche di sicurezza in Italia

Le politiche di sicurezza si sono imposte di recente all’attenzione del le-gislatore e del Parlamento italiano e hanno conosciuto in pochi anni una notevole proliferazione. Omettiamo qui una descrizione analitica dell’iter che ha caratterizzato, in particolare fra il 2008 e il 2010, la produzione di leggi e norme che inquadrano le odierne politiche di sicurezza nel nostro paese; rimandiamo per la ricostruzione di questi passaggi politico-giuridici al prossimo capitolo. Il nostro compito qui è piuttosto quello di analizzare, alla luce di quanto detto nel paragrafo precedente sul discorso securitario come modello di argomentazione, come si costruisce questo discorso in Ita-lia, quali sono le sue strategie argomentative, quali i suoi effetti sociali e, se ce ne sono, di spostamento del concetto di sicurezza.

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Diciamo subito che i cosiddetti “pacchetti sicurezza” sono composti da una serie di decreti legge che mettono insieme quelle «misure urgenti in materia di sicurezza pubblica» che ne legittimano l’intervento a modifica della legislazione esistente, a cui rinviano. Per loro natura, dunque, come emergerà più nel dettaglio dalle analisi dei capitoli successivi, non si tratta di leggi organiche, ma di una serie di misure su temi disparati, tutti normati in altra sede legislativa, tutti però evidentemente considerati decisivi e ur-genti per la sicurezza. È questo un aspetto centrale del discorso securitario: assorbire al suo interno temi trattati sotto altri capitoli di legislazione per riproporli nel frame della sicurezza, il quale tende a presentarsi come preva-lente proprio in virtù di quella dimensione di urgenza che ne costituisce il nerbo. Guardiamo più da vicino questi temi, che costituiscono i repertori tematici delle politiche di sicurezza nel nostro paese.

a) Repertori tematici

La lettura delle principali disposizioni normative recenti in termini di sicu-rezza a livello nazionale dà subito la misura dell’ampiezza dei temi trattati nel quadro del discorso securitario. Qui di seguito una semplice raccolta sistematica dei settori di fenomeni sociali coinvolti e dei principali temi trattati per ogni settore.

L’immigrazione è senza dubbio il fenomeno più presente nei pacchet-ti sicurezza. Il Decreto 92/2008 tratta l’espulsione degli stranieri, l’affitto o ospitalità a stranieri in posizione irregolare, i Centri Identificazione Espul-sione, le Capitanerie di porto. La Legge 94/2009, che lo integra, contiene misure che riguardano l’espulsione degli extra-comunitari, l’allontanamento dei cittadini UE, la cittadinanza, l’ingresso irregolare, la protezione interna-zionale, i trasferimenti monetari, l’affitto a stranieri in posizione irregolare, la costituzione di un Fondo rimpatri, i ricongiungimenti familiari, il trasporto di stranieri illegali; introduce anche una tassa di rilascio del permesso di soggiorno, test linguistici e l’espulsione per flagranza di reato.

Il secondo grande tema del repertorio è il degrado urbano. La Legge 125/2008 tratta di vandalismo, incuria e occupazione abusiva di immobili, abusivismo commerciale, contraffazione merci, reati commessi sotto effetto dell’alcol, offese alla pubblica decenza. La Legge 94/2009 prende ad og-getto i graffiti nei centri urbani, gli addetti al controllo in locali pubblici di intrattenimento e spettacolo, il decoro delle strade, l’impiego dei minori per accattonaggio, le aggravanti per reati commessi in presenza o a dan-no di minori, la sottrazione di minore e il suo trattenimento all’estero, le

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caratteristiche tecniche degli strumenti di autodifesa, la prostituzione e lo sfruttamento; istituisce inoltre il registro dei senza fissa dimora, le cosiddette “ronde” (associazioni di cittadini che collaborano con le forze di polizia per il controllo delle vie e dei quartieri) e l’elenco prefettizio, oltre a prevedere provvedimenti relativi alla patente di guida.

Altro tema, peraltro direttamente collegato al degrado urbano, è quello della dimensione territoriale della sicurezza, che viene realizzata attra-verso il potenziamento dei sindaci. Il Decreto legge 92/2008 attribuisce al sindaco poteri di legiferazione, di attuazione e di sorveglianza in materia di ordine e sicurezza pubblica e istituisce i piani coordinati del territorio. Con la Legge 125/2008, i poteri conferiti al sindaco non riguardano più solo provvedimenti «contingibili e urgenti», ma si estendono anche a misu-re ordinarie e con effetti non temporanei – un passaggio, questo, di cui si discuteranno gli effetti nei capitoli successivi.

Un tema tradizionale di sicurezza è quello della criminalità orga-nizzata. Nel Decreto 92/2008 troviamo misure di legislazione antimafia. La Legge 94/2009 tratta di accertamenti relativi agli appalti pubblici, di sequestro dei beni e dell’amministrazione dei beni confiscati, del trattamen-to penitenziario, dello scioglimento di Consigli comunali per infiltrazioni criminali. Il Decreto legge 187/2010 si occupa della tracciabilità dei flussi monetari e del commissariamento Comuni.

Altro tema cruciale è quello della repressione. Oltre a tutta una se-rie di misure di inasprimento delle pene nei vari capitoli, il Decreto legge 92/2008 introduce il concorso delle Forze Armate nel controllo del terri-torio; il Decreto legge 187/2010 stabilisce che il Prefetto disponga il ricor-so alle Forze di polizia al fine di assicurare l’attuazione dei provvedimenti adottati dai sindaci.

Come si vede, la varietà dei repertori tematici è tale che l’oggetto si-curezza in sé sfuma in mille rivoli, si frammenta, come dicevamo, fino ad investire un ampio raggio di pratiche sociali; perde così ogni specificità e introduce una confusione che finisce per contaminare tutti i fenomeni cui si applica. Accanto a temi tradizionali come la criminalità, si estende a settori finora investiti da politiche pubbliche specifiche, che pure appaiono qui tutti egemonizzati dal discorso securitario in nome dell’urgenza; e proprio quest’urgenza giustifica che si adottino misure su fenomeni migratori, urbani e criminali, mettendoli tutti sullo stesso piano come altrettante fonti di mi-naccia sociale. Non si avviano nuove politiche specifiche, ma si interviene su normative in vigore limitandosi ad indicare inasprimenti delle pene o delle procedure come unica soluzione offerta al carattere minaccioso di questi fenomeni, mentre si affida al controllo del territorio, che sia condotto dalle

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forze di polizia, dai sindaci o dai cittadini stessi, l’unica strategia possibile per estromettere la minaccia, secondo un modello di militarizzazione della vita sociale.

b) Nuovi attori

Cambiano i problemi che diventano oggetto di politiche di sicurezza, cam-biano i comportamenti e i gruppi sociali che di volta in volta vengono additati come fonti di minaccia o vittime potenziali. Cambiano anche le figure che queste politiche chiamano in gioco affidando loro ruoli attivi nel modellarle e implementarle. Nuovi attori si affacciano in questo quadro della sicurezza, con ruoli diversi. Primi fra tutti i sindaci: proprio la centralità del territorio nell’individuazione, e successiva eliminazione della minaccia, li fa apparire come i depositari di una conoscenza intima dell’insicurezza che affligge le loro comunità e quindi come i garanti della sicurezza, ruolo che i sindaci vieppiù apprezzano anche perché le modalità di elezione diretta li spingono a cercare consenso elettorale. Sono un po’ sindaci e un po’ sceriffi, organizzano nuovi “Assessorati alla sicurezza” e vedono nello strumento delle ordinanze sindacali la via per rafforzare la propria discrezionalità e sottrarsi al dibattito consiliare, verso il quale esprimono d’altronde in molti modi la propria insofferenza. Il riconoscimento ai sindaci del potere di intervenire con provvedimenti non solo «contingibili e urgenti» (su cui insiste Andrea Molteni nel prossimo capitolo) ne normalizza questa funzione, anche se mette a rischio di delegittimazione tutta l’argomentazione d’urgenza su cui queste politiche si erano legittimate. Accanto ai sindaci, altri attori impor-tanti sono le forze di polizia di varia natura, fino alle Forze armate, che sono legittimate ad esercitare il controllo del territorio, e le ronde di cittadini, per quanto non armati, che sono disponibili a farsi carico di un ruolo gregario nell’esercizio di questo controllo.

Ma soprattutto, le nuove minacce che si addensano dentro le nostre vite urbane sono identificate in altrettante categorie di persone che rappre-sentano un rischio per gli altri. Troviamo innanzitutto gli immigrati, con le graduatorie interne cui ci hanno abituato ormai le politiche d’immigra-zione: extracomunitari più a rischio dei comunitari, romeni più degli altri comunitari, rom più a rischio di tutti, irregolari più a rischio dei regolari, e via declinando. Ma si distinguono anche i poveri, in particolare i senza fissa dimora e quelli dediti all’accattonaggio. Altre figure abituali del paesaggio urbano compaiono fra le categorie minacciose, dai graffitari ai frequenta-tori di locali serali, agli abitanti delle case popolari, agli occupanti di edifici

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pubblici o privati, per non parlare di prostitute e tifoserie organizzate. Certo, chi appartiene a queste categorie di persone può commettere dei reati e incorrere perciò nelle misure di repressione stabilite da codici e leggi; ma il solo fatto di figurare nelle categorie indicate da queste raccolte di “misure urgenti” significa fare un salto di qualità: si è additati preventivamente, si è eretti a minaccia sempre possibile, e per questo sottoposti a misure di controllo inasprito, indipendentemente dalle proprie azioni. Si rappresenta un pericolo in sé, per quel che si è, e non perché si è commesso qualcosa che è davvero pericoloso per gli altri.

E poi ci sono gli altri, le vittime potenziali delle minacce che proven-gono da queste categorie pericolose. Ci sono, anche se non se ne parla nei testi normativi; anzi, funzionano da riferimento, come vedremo nell’analisi delle interviste, per definire l’urgenza; sono quelli che si tratta di proteg-gere dall’insicurezza, di rassicurare rispetto alle minacce, sono i testimoni di quella percezione di insicurezza che non si pretende sia realistica, ma si vuole reale. Per lo più coincidono con persone socialmente deboli, di cui le politiche sociali stentano a farsi carico, e che ottengono a mo’ d’indennizzo un riconoscimento da parte delle politiche di sicurezza.

c) Nuove figure della sicurezza

Complessivamente dalla lista dei repertori tematici e degli attori coinvolti, possiamo rintracciare, accanto a modalità tradizionali della sicurezza che hanno soprattutto a che fare con la criminalità organizzata, alcune dimen-sioni inedite del concetto di sicurezza; nei prossimi capitoli le vedremo in-trecciarsi nei casi empirici studiati, vale però la pena qui di distinguerle, per meglio far emergere le trasformazioni semantiche che comportano.

La prima dimensione è quella di una sicurezza ravvicinata, o di prossimità. Da tempo ormai ci siamo abituati all’idea di una “polizia di prossimità” che ha prodotto pratiche del tipo dei vigili di quartiere. C’è qui l’idea che la sicurezza deve essere gestita nella comunità in cui si vive, sulla scia delle neighbourhoods organizzate statunitensi o delle politiques de la ville francesi degli anni ottanta. Alla comunità e ad ogni suo membro spetta la responsabilità delle condizioni in cui vive, e migliorarle, incluso migliorarne la sicurezza, dipende da ciò che ognuno di noi fa nel suo luogo di vita, nel suo entourage immediato. Qui si fa però un passo oltre, perché non è solo la sicurezza che deve essere gestita da vicino, ma è la minaccia stessa che ci è vicina: quello che ci è vicino è anche ciò che ci minaccia. Su questa base, il discorso securitario entra in settori di pratiche sociali e di comportamenti

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che riguardano il quotidiano dell’esistenza e li mette tutti sullo stesso piano, trattandoli come altrettante fonti di insicurezza. Dal commercio al tempo libero, dalla guida automobilistica alle abitazioni, dai trasferimenti monetari ai rapporti familiari, dall’assembramento all’alcol alla droga alla decenza, i rischi paiono annidarsi in ogni angolo dell’esistenza e materializzano mi-nacce laddove uno meno se le aspetterebbe, nella prossimità [cf. soprattutto Cammarata e Monteleone, infra]. Proprio questa vicinanza delle minacce alla nostra sicurezza giustifica d’altronde il ruolo nuovo attribuito ai sindaci, che sono considerati i protagonisti dell’intervento securitario perché sono sul territorio, e questo è di per sé motivo sufficiente a fondare la loro conoscenza delle domande di sicurezza e la loro capacità di controllo. Sebbene, come vedremo nel prossimo capitolo, tutti i dati utilizzati per argomentare le mi-sure di sicurezza siano dati nazionali (Ministeri, ISTAT), con buona pace della retorica della prossimità. Naturalmente le esistenze non si equivalgono, e quelle di certi gruppi sono identificate come più minacciose di altre; di conseguenza anche le condotte quotidiane di alcuni soggetti sono partico-larmente prese di mira dalla normatività prodotta dal discorso securitario.

La seconda dimensione inedita è quella della sicurezza urbana. An-che qui, non è certo la prima volta che si tematizza l’idea che l’aggregazione urbana provochi problemi di sicurezza specifici; tutta la costruzione delle città moderne è stata accompagnata dalla ricerca di una vita più sicura. Basti pensa-re alle politiche di igiene pubblica che hanno segnato l’Ottocento, che avevano tutte come obiettivo ultimo quello di rendere più sicure le città, riducendo il divario fra condizioni sociali molto diseguali, ma anche, inevitabilmente, molto ravvicinate [Sennett, 1974]. Ma lì appunto non si trattava di politiche di sicurezza, erano politiche d’igiene o di progettazione urbana; i loro effetti furono la bonifica dei quartieri poveri e grandi conquiste di civilizzazione come la rete fognaria, quella idrica o quella elettrica, e non la sorveglianza e la militarizzazione del territorio che accompagnano l’idea attuale della sicu-rezza urbana. Si chiarisce qui il senso di quello scivolamento che, abbiamo detto, rappresentano le politiche di sicurezza, per cui la sicurezza non sta nella soluzione di specifici problemi di vita collettiva. Piuttosto, una volta che questi problemi vengono descritti in termini di minaccia, la loro soluzione viene affidata al modello militare del discorso securitario, attraverso presidio, controllo del territorio e repressione. La L.125/2008 definisce precisamente la sicurezza urbana: è un «bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa nell’ambito delle comunità locali del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale». E in effetti, a ben guardare, le con-dotte di cui si tratta nella dimensione ravvicinata che abbiamo descritto più

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su si situano in particolare in un contesto urbano: vandalismo, incuria, abusi-vismo, spaccio, prostituzione, accattonaggio, sfruttamento minorile, violenza, autodifesa, senza fissa dimora, impianti sportivi, segnano altrettante linee di attraversamento, di segmentazione e di aggregazione delle nostre città. La sicurezza, che come abbiamo visto è minacciata non dall’esterno, ma da molto vicino, perde qui ogni tratto emergenziale, diventa ordinaria, dismette il suo carattere temporaneo e urgente per installarsi come una dimensione intrin-seca della vita collettiva; di converso, l’insicurezza diventa pervasiva, diffusa. Sotto questo profilo, il concetto chiave che organizza le politiche di sicurezza è quello del degrado urbano, visto non come la conseguenza di politiche urbane e sociali carenti, ma come la fonte diretta di pericolosità sociale che giustifica la diffusione di insicurezza e perciò stesso è il perno delle politiche di sicurezza. Per quanto ravvicinata e urbana, la sicurezza però dipende ancora dal controllo del territorio, sul modello militare che la caratterizza nella sua accezione più tradizionale; che sia affidato alle Forze armate o alle ronde di cittadini volontari, le modalità di rassicurazione sono legate al presidio militare della città che appare come il solo modo per far sentire che lo stato c’è, le istituzioni sono vicine e si fanno garanti della nostra sicurezza.

La terza dimensione inedita è quella della sicurezza culturale. Qui l’obiettivo del discorso securitario sono esplicitamente gli immigrati. Per una larga parte, il pacchetto sicurezza introduce modifiche alle leggi che costituisco no nel loro complesso la politica d’immigrazione italiana, che in questi anni anche nel nostro paese hanno assunto una loro consistenza au-tonoma. Temi come identificazione, espulsioni, ricongiungimenti familiari, rilascio permessi di soggiorno e simili, sono tutti normati dalle leggi che compongono la politica di immigrazione; non è chiaro perché debbano co-stituire addirittura la parte preponderante delle misure urgenti in materia di pubblica sicurezza. Lo stesso si può dire dell’acquisizione della cittadinanza da parte dei cittadini stranieri: l’inasprimento dei requisiti per accedere al diritto di conseguire la cittadinanza italiana per matrimonio con un citta-dino italiano, o l’imposizione di una tassa specifica per la presentazione della domanda, introdotti dalla L.94/2009 che modifica alcuni articoli della L.91/1992 che regola la politica di cittadinanza, in che misura possono co-stituire materia urgente di pubblica sicurezza? Eppure i pacchetti sicurezza creano una saldatura fra sicurezza e immigrazione, che ritroveremo nelle analisi dei prossimi capitoli e in particolare in quella di Chiara Marchetti. È una saldatura destinata a durare: la pericolosità sociale dell’immigrazione è rappresentata come una fonte di insicurezza in forza della sua visibilità (i suoi numeri massicci, e quindi la sua ingovernabilità), ma anche della sua invisibilità, in particolare con riferimento agli immigrati clandestini. Anzi,

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questi ultimi diventano l’ossessione del discorso securitario che lega la figura dell’immigrato irregolare a quella del criminale, almeno potenziale, e ritrova qui strategie più tradizionali di designazione del nemico. E in effetti il clan-destino finisce per impersonare la fonte principale di insicurezza percepita, almeno nell’analisi dei policy-makers della sicurezza.

La quarta dimensione è quella della sicurezza come incolumità pub-blica. Anche la sicurezza pubblica, se diventa fondamentalmente una materia di vita ordinaria che si gioca sullo spazio in cui viviamo e ci accompagna nelle nostre pratiche sociali, finisce per assumere la forma dell’incolumità - un concetto, questo, essenzialmente privato, legato com’è alla dimensione fisica corporea del soggetto. La sicurezza intesa come incolumità personale invoca la difesa da chi rappresenta la minaccia; cosicché anche gli strumenti di auto-difesa e le ronde di sorveglianza autorganizzate sono materia da politiche di sicurezza. Da una parte, dunque, si personalizza il senso di minaccia; dall’altra, sempre più gli spazi per la sicurezza sono spazi privati, o per lo meno non pubblici, e la sicurezza viene concepita come un bene privato, anti-statale, che dipende da negoziazioni di mercato, perché raro e in concorrenza, e da negoziazioni con le vittime [Pavarini 2006]. In effetti, gli attori che abbiamo intervistato rappresentano la sicurezza pubblica attraverso la paura dell’an-ziana di uscire di casa, della persona “normale” di salire sull’autobus sempre pieno di immigrati, o di passare davanti a un esercizio commerciale di fronte al quale stazionano più persone immigrate, e via discorrendo. È la paura di essere colpiti nel proprio corpo e nelle proprie cose che abita lo spazio pubblico e che giustifica l’intervento delle politiche di sicurezza a sanzionarne l’uso per certe categorie di persone, fino a “desertificarlo”, come verrà detto nel terzo capitolo, perché solo nell’assenza dell’altro la mia incolumità è davvero sicura. Nello stesso tempo, la sicurezza come incolumità rappresenta una dimensione particolarmente interessante per i media: le storie di vita sono un bel soggetto, richiamano un linguaggio emotivo, servono a canalizzare conflitti e intolleran-ze. In questa dimensione della sicurezza, i media diventano in effetti potenti attivatori del discorso securitario: si crea una forte alleanza con il discorso politico, che insiste sull’insicurezza per ottenere consenso elettorale e l’offre ai media perché intensifichino con il loro linguaggio emotivo la visibilità di una politica populista [Tonello 2008].

6. Sicuri di che?

L’evento su cui ci siamo interrogati, dicevamo all’inizio, consiste nel fatto che la sicurezza non è più l’obiettivo generale dell’organizzazione politica,

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quella condizione di garanzia pubblica rivolta a tutti indistintamente, ma è diventata l’oggetto di politiche specifiche destinate a produrla. Queste politiche di sicurezza alimentano un discorso securitario che tende a porsi oggi come egemonico, inquadrando fenomeni sociali disparati, presenta-ti tutti come problemi di sicurezza. Cosicché il discorso securitario finisce per coprire settori già oggetto di politiche specifiche, su cui produce effetti di framing socialmente rilevanti: li trascrive nel linguaggio della minaccia e dell’emergenza, li sottopone a misure preventive del rischio, propone come soluzione inasprimenti delle procedure e delle pene. Nella costruzione del discorso securitario, la sicurezza perde univocità e indivisibilità, si fram-menta nei mille rivoli dell’esistenza quotidiana, acquista significati inediti, si fa pervasiva; d’altro canto, però, si sperde nell’eterogeneità dei fenomeni cui si applica.

Come sostiene Albert Hirschman [1991, p.12] nell’analisi della reto-rica rivoluzionaria e contro-rivoluzionaria, gli imperativi del ragionamen-to determinano le modalità stesse del discorso. Gli imperativi dell’odierno ragionamento securitario (il linguaggio emergenziale, l’identificazione della minaccia, la valutazione del rischio, l’eliminazione della minaccia) fanno sì che il discorso giuridico-politico sulla sicurezza come sistema di garanzie ceda il passo, sotto il peso di un discorso di sicurezza caratterizzato da una logica di guerra [Gros 2012, p.229]; il carattere emergenziale lo porta a sottovalutare l’argomentazione razionale e a privilegiare l’azione rispet-to al dibattito, il modello militare lo spinge al decisionismo, l’obiettivo di costruzione della minaccia sociale lo indirizza verso modalità narrative di drammatizzazione emotiva.

La retorica propria del discorso securitario ha però anche degli effetti sociali che modificano le nostre pratiche e relazioni sociali. Abbiamo visto che costituisce di per sé un modello di argomentazione: propone linguaggi, modalità e categorie che penetrano nel discorso pubblico in modo più ampio, segnano il nostro modo di ragionare sui fenomeni sociali, incidono su molti altri settori di politiche. Produce dispositivi di riconoscimento a priori del carattere minaccioso, per semplice appartenenza a categorie sociali indicate come minacciose e additate alla pubblica paura. Le trasformazioni delle po-litiche penali e repressive tendono a indirizzare i conflitti verso quei gruppi socialmente deboli di cui si è identificata la pericolosità, additandoli come nemici pubblici, utilizzandoli per drammatizzare ulteriormente la paura. Si ricostituiscono così quelle “classi pericolose” di buona memoria, che l’orga-nizzazione solidaristica della sicurezza sociale sembrava aver definitivamente relegato nel passato, e il governo della sicurezza si rivela strutturalmente legato ai nuovi processi di esclusione sociale [Pavarini 2006, p.34].

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Se la chiave dell’argomento di sicurezza sta nella logica amico-nemico su cui si costruisce la narrazione dell’emergenza, ha senso chiedersi quali effetti possa avere sulla democrazia. Già Tocqueville aveva indicato nella paura una fonte di disinteresse per la politica e quindi un presupposto per svolte autoritarie [Ferrajoli 2011]. Come ricorda Huysmans [2004], risale al 1953 la denuncia di Franz Neumann nel suo saggio The concept of political freedom: se la paura del nemico diventa il «principio energetico» della politica, allora la democrazia è impossibile, indipendentemente dal carattere esterno o interno di quella paura. Oggi però, come abbiamo visto, il ricorso delle politiche al linguaggio della paura ha finito per strutturare un modello di argomentazione pubblica che ha ormai invaso i campi più disparati della vita sociale. Non si limita a caratterizzare momenti eccezionali della vita socio-politica, quando minacce straordinarie potrebbero giustificare reazioni di particolare intensità, forzatamente temporanee; il linguaggio della paura si presenta ormai come egemonico nel descrivere una condizione di vita ordinaria, in particolare urbana, nel suo quotidiano succedersi di eventi, nella sua normale tempora-lità. Non appartiene più allo “stato d’eccezione” e non ne possiede lo stesso carattere spettacolare; si è addomesticato, trasportando nelle nostre vite e nelle nostre abitudini un linguaggio (non solo metaforico), delle categorie di pensiero e delle rappresentazioni che erano emerse nello stato d’eccezione. Comincia ad avere perfino i suoi “dizionari” [Amendola, 2008], che nel co-struire un lessico ne suggellano la legittimità. Fra lo stato d’eccezione e quello ordinario c’è ormai una sorta di continuità, che ha un effetto incrementale delle pratiche destinate a rispondere alle paure quotidiane. Molto più dell’ec-cezionalismo, è questa continuità pervasiva che rappresenta la nuova figura della sicurezza e le conferisce una serie di sfaccettature inedite: i campi di detenzione, le procedure di controllo, le politiche dei visti, dell’accoglienza e della cittadinanza, le raccolte di dati, il quadrillage dello spazio pubblico, gli esercizi commerciali, gli assembramenti e le riunioni, l’esercizio delle libertà di opinione e di religione, tutto pare essere diventato oggetto potenziale di quelle misure urgenti che sono il cuore delle politiche di sicurezza.

Certo, la paura è sempre stata una risorsa del potere, Hobbes docet [Zolo 2011]. Eppure, qui l’utilizzazione politica della paura ha fatto un passo ulteriore. Intanto perché il discorso securitario seleziona i suoi oggetti: addita alle pubbliche paure la minaccia sociale rappresentata dal crimine di strada, commesso prevalentemente da soggetti emarginati, sminuendo la gravità di quelli commessi dai potenti – corruzione, frodi fiscali, falsi, riciclaggi, devastazioni ambientali, attentati alla salute, e simili. Poi perché offre la protezione dalla criminalità a compensazione della riduzione delle sicurezze sociali che il sistema pubblico di welfare aveva messo in piedi,

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indirizzando il sentimento diffuso di insicurezza sociale che deriva da quel-la perdita verso il deviante e il diverso. Infine, perché mette in moto una drammatizzazione dell’insicurezza che diventa una vera e propria «fabbrica della paura» [Ferrajoli 2010, p.120], costruisce nemici interni e esterni con-tro i quali si propone come garante della sicurezza e per questo legittima rotture di legalità, misure urgenti, pratiche emergenziali. Si tratta di quello che il giurista francese Denis Salas [2005] ha definito «populismo penale»: populismo, perché la minaccia criminale diventa il terreno privilegiato per il legame fiduciario fra rappresentanti e rappresentati; e populismo penale, perché gioca sull’illusione che il sistema penale e l’inasprimento delle pene possano bastare a produrre sicurezza.

Vediamo, in conclusione, qualche esito significativo delle trasformazioni legate al framing proposto dal discorso securitario e dalle politiche di sicurez-za; si tratta di esiti che si intrecciano e si rafforzano a vicenda, anche perché condividono una stessa direzione; vale però anche la pena di distinguerli per meglio cogliere la pluralità di livelli e, quindi, la pervasività di queste trasformazioni.

Un primo esito è la de-socializzazione della sicurezza, che non è più vista come una condizione costruita secondo modalità organizzate social-mente, ma come un sentimento, un bisogno di essere rassicurati rispetto alle paure che popolano il nostro spazio vitale. Questa decostruzione della sua dimensione sociale ha due effetti distinti di riduzione di scala della sicurezza. Da una parte, spinge la sicurezza verso la comunità: come abbiamo visto nella “sicurezza ravvicinata”, è lo spazio prossimo che racchiude le vere minacce per la nostra sicurezza e che va dunque controllato, presidiato, in definitiva liberato. Dall’altra parte, le trasformazioni semantiche tendono a far coincidere sicurezza con incolumità, passando, come osserva Zolo [2011 p.79], da una sicurezza positiva, riferita a legami di appartenenza collettiva e di solidarietà, ad una negativa, cioè «una sicurezza privata, ga-rantita dalle forze di polizia come incolumità individuale». In questo senso, possiamo riconoscere un effetto di individualizzazione della sicurezza, che non si riferisce più all’insieme della popolazione, ma al corpo individuale e alla sua incolumità appunto [è la stessa direzione in cui vanno le trasforma-zioni della sicurezza del lavoro, come fa vedere Vando Borghi più avanti]. La stessa categorizzazione dei soggetti minacciosi, in effetti, fa parte di una più generale tendenza a punire più l’autore del reato che il reato stesso, per effetto di quel parallelo processo di individualizzazione in corso nel diritto penale che porta ad esaltare il ruolo della vittima.

Un secondo esito è rappresentato da un processo di privatizzazione della sicurezza. L’incolumità infatti è un bene privato e produce una domanda

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di meccanismi di sicurezza altrettanto privati che spingono il mercato della sicurezza. Le prestazioni di sicurezza si misurano ormai sulla base del potere d’acquisto di ognuno, per cui, per esempio, nelle nostre città si distinguono quartieri ricchi superdotati e quartieri poveri privi di ogni standard di sicu-rezza. Nello stesso tempo, nuovi attori, come abbiamo visto, sono chiamati in gioco nelle politiche di sicurezza: non più solo le forze di polizia, né solo attori politici, soprattutto locali, ma anche esperti, tecnici. L’industria della sicurezza in effetti vive ovunque una crescita spettacolare, grazie all’aumen-to delle diseguaglianze, agli sviluppi tecnologici e alla privatizzazione delle esistenze. È responsabilità di ognuno dotarsi di strumenti per la propria sicurezza, anzi, viene incentivato – è il caso dei finanziamenti pubblici con-cessi agli esercizi commerciali che installano sistemi di videosorveglianza. Lo spazio pubblico finisce così per essere presidiato “privatamente”, in aggiunta al presidio di tipo militare disposto dalle politiche di sicurezza, e diventa una proiezione delle paure private.

Altro esito significativo è la tecnologizzazione della sicurezza: i rischi intesi come scenari catastrofici richiedono tecnologie d’intervento sempre più complesse, sempre meno controllabili e soprattutto sempre più sottratte al controllo politico. Anzi, le tecnologie di sicurezza vengono presentate come del tutto a-politiche, dirette da una logica esclusivamente tecnica, che finisce per abbassare le esigenze di controllo e di compatibilità con i diritti, come nel caso dell’impiego di tecnologie di controllo biologico.

Si tratta di esiti che non riguardano solo la sicurezza; non è difficile riconoscervi tendenze che orientano più in generale le trasformazioni delle politiche pubbliche ai nostri giorni, come apparirà anche alla luce delle analisi fornite nelle altre Sezioni del volume. Considerate sotto il profilo di strategie di re-framing, le politiche di sicurezza prolungano i propri effetti nelle nostre vite quotidiane. Il discorso securitario si rivela un modello di argomentazione che investe il discorso pubblico con le sue categorie, tipiche di una logica amico-nemico, e con l’urgenza di un agire emergenziale. Se consideriamo l’argomentazione una strategia efficace per incrementare la competenza dell’opinione pubblica, che riduce nel discorso pubblico il peso di pregiudizi e di dogmatismi morali [Rositi 2013, p. 32], allora il successo dell’argomento securitario appare come un punto forte di resistenza, in cui si mobilita meno competenza razionale che non difesa dalle paure e conservazione dei pregiudizi. Sotto questo profilo, rappresenta un potente supporto di quella crisi delle democrazie odierne, spinta dal logoramento di quel tessuto di solidarietà su cui si sono costruite e che mette oggi a rischio non solo la tenuta civica, ma anche proprio la sicurezza del nostro vivere insieme.

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Si è perso, nel discorso pubblico sulla sicurezza, quel legame fra sicu-rezza e libertà di cui parlava Michel Foucault, dove la sicurezza non è un modo generale di governo, ma dei meccanismi di compensazione dei rischi della libertà e quindi di costruzione delle condizioni di possibilità di una vita da individui liberi, con l’incertezza che inevitabilmente questa compor-ta. Nell’odierno discorso securitario, la sicurezza appare piuttosto legata al superamento della paura e, come tale, costituisce un paradigma a se stante, capace di orientare la politica, il discorso pubblico e perfino le esistenze di ognuno di noi. Le politiche di sicurezza mettono in atto questo progetto egemonico, in nome delle paure da cui vorrebbero curarci. Ma la retorica della paura viene rivitalizzata dal discorso securitario, assume nuove forme e nuove sfaccettature, soprattutto diventa una nuova razionalità dei rapporti sociali e politici, di cui vedremo nei prossimi capitoli alcuni esempi.

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La ragione securitariadi Chiara Marchetti e Andrea Molteni1

Introduzione

Nei vent’anni trascorsi dalla sua introduzione nel dibattito politico ed elet-torale italiano, il tema della sicurezza, in particolare nella sua declinazione di sicurezza urbana, ha progressivamente conquistato un posto di assoluto rilievo sul mercato delle argomentazioni politiche. Come in una sorta di sineddoche, questo termine pigliatutto ha finito per riassumere un insieme ampio e variegato di politiche e di pratiche di governo. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, essa dà nome alle politiche che riguardano la sicu-rezza dello stato e, allo stesso tempo, è utilizzata per spiegare e giustificare le politiche di sicurezza interna, quelle che regolano la pubblica sicurezza, la sicurezza urbana, l’ordine pubblico e le politiche criminali, ma anche le politiche che riguardano l’immigrazione, la sanità, la salute mentale, i servizi sociali, la protezione civile, l’alimentazione. Si è insomma venuto sempre più coagulando, intorno al termine “sicurezza”, un particolare ambito discorsivo che ha finito per sussumere differenti e ampi campi semantici, accomunati dal riferimento alla protezione dai pericoli e alla prevenzione dei rischi.

In questo capitolo cercheremo di ripercorrere e analizzare l’evolversi più recente del discorso politico sulla “sicurezza”, in particolare per quel che riguarda il triennio che va dal 2008 al 2010, cioè quel periodo che ha rappresentato la stagione delle ordinanze. Prenderemo in considerazione sia il discorso politico prodotto a livello nazionale in occasione delle iniziative legislative in materia di sicurezza, sia quello utilizzato a livello locale per giustificare o condannare l’adozione di politiche e strumenti securitari di regolazione dell’uso dello spazio pubblico e della convivenza urbana. La nostra ipotesi è che stiamo assistendo a una sorta di colonizzazione, sempre

1 Il presente capitolo è frutto del lavoro di ricerca e di riflessione comune: introduzione e conclusioni sono stati scritti congiuntamente, Andrea Molteni ha scritto il paragrafo 1 e Chiara Marchetti il 2.

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più marcata, da parte del discorso e delle politiche securitarie rispetto ad altri fenomeni e ambiti oggetto di regolazione giuridica e governo politico, tale da configurare l’imporsi di una vera e propria ragione securitaria. Ri-teniamo anche che questa progressiva occupazione del dibattito pubblico presenti alcune differenze a seconda del livello di governo del territorio che si prende in considerazione.

In particolare abbiamo sottoposto ad analisi due formazioni discorsive che ci sono parse mostrare, più di altre, i segni di questa estensione nell’uso di argomenti securitari. Nel primo paragrafo analizzeremo il discorso poli-tico che ha accompagnato un processo di devoluzione securitaria, col quale si è inteso accrescere i poteri del governo locale nel definire e amministrare i problemi della sicurezza nelle città e, contemporaneamente, ampliare il novero di fenomeni urbani governabili attraverso provvedimenti di urgen-za a carattere securitario. Nel secondo paragrafo – attraverso i casi studio dei dibattiti sul velo e sulle moschee – si approfondirà come le politiche di sicurezza siano entrate in stretto rapporto con il governo delle migrazioni, soprattutto nel caso in cui il fenomeno migratorio può essere associato a una religione minoritaria e via via più securitizzata, qual è l’Islam.

1. Sicurezza urbana e devoluzione securitaria

In Italia le politiche di sicurezza urbana si sono sviluppate negli anni ’90, con la nascita dei diversi progetti di “Città sicure” e con la progressiva definizione e implementazione di legislazioni e politiche locali di governo della sicurezza, contemporaneamente a un progressivo riassetto della di-stribuzione territoriale dei poteri in materia di ordine pubblico e di polizia amministrativa locale [Pavarini 2006; Selmini 2004]. Con l’elezione diretta del sindaco, dal 1993, il tema della sicurezza è entrato in maniera sempre più prepotente nell’agenda politico-elettorale locale. A partire dalle prime esperienze locali esso è poi divenuto, con la campagna elettorale del 1996, oggetto anche del dibattito politico nazionale.

Dalla costituzione dei Comitati per la sicurezza e l’ordine pubblico, fino alle recenti innovazioni legislative che hanno attribuito ai sindaci nuo-vi poteri «per difendere l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana»2, si è ormai prodotto un ampio corpus di discorsi politici e pubblici che hanno dato origine a una diversa declinazione e a differenti modi di argomentare il “problema” della sicurezza tanto in ambito nazionale come in quello lo-

2 Comunicato stampa del ministro dell’Interno del 5 agosto 2008.

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cale. Accanto a temi e repertori discorsivi che mantengono forti affinità ai diversi livelli (quelli che riguardano, ad esempio, la regolazione e il governo dell’immigrazione), emergono significative differenze nell’individuazione di ciò che costituisce un pericolo o un problema di sicurezza pubblica e delle strategie di intervento più utili per affrontarlo. In particolare, entro i limiti definiti dalle politiche nazionali e, attraverso queste, dai vincoli europei, è sempre maggiore il ruolo dei governi locali nel definire e amministrare il problema della sicurezza. Si tratta di un governo che si esercita nei diversi ambiti di autonomia locale – dalla pianificazione dello sviluppo urbano alla definizione delle politiche sanitarie e sociali, dalle pratiche di controllo capillare del territorio alla produzione di specifici strumenti normativi e am-ministrativi – e coinvolge una molteplicità di istituzioni e agenti (dai soggetti istituzionali, come le scuole e le strutture sanitarie, fino alle associazioni di cittadini e alle famiglie), operando attraverso la definizione e l’uso di un complesso eterogeneo di strumenti.

1.1. Dalla ridefinizione dei rapporti tra stato ed enti locali ai “pacchetti sicurezza”

È stato, a suo dire, Giuliano Amato a operare, come ministro dell’Inter-no, per introdurre nella legislazione italiana il concetto di sicurezza urbana definito come «un prodotto locale ottenuto grazie al lavoro comune dei diversi livelli di governo» [Amato 2010, p. 5]. Già nel 1998 comunque l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano aveva scritto che era neces-sario affrontare il problema della micro-criminalità, che era all’origine della sensazione di insicurezza, «con politiche di sicurezza urbana, non affidate esclusivamente alle forze di polizia ma basate su una pluralità di approcci e di apporti, su un intenso coinvolgimento delle amministrazioni locali e di ogni forma di rappresentanza dei cittadini» [Napolitano 2008, pp. 30-31]. La ripartizione delle competenze tra stato ed enti locali in materia di ordine pubblico e sicurezza si è andata via via definendo sul piano legislativo, sulla scorta delle esperienze condotte a livello locale e delle rivendicazioni portate avanti dagli amministratori di diverse città. I sindaci reclamavano maggiori poteri e più adeguati strumenti normativi e operativi per contrastare quelle che erano identificate come minacce all’incolumità della popolazione e al “diritto alla sicurezza” dei cittadini.

Il coinvolgimento degli enti locali nella definizione e attuazione delle politiche di sicurezza era, in effetti, iniziato già dagli anni ottanta, soprattutto attraverso forme di collaborazione tra le prefetture e le amministrazioni loca-

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li e, in alcuni casi, tra le forze della polizia di stato e le polizie municipali. La sede privilegiata e stabile di cooperazione dei diversi livelli del governo del territorio è rappresentata, a partire da quegli anni, dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica [Antonelli 2010]. Dall’inizio degli anni novanta, è stata poi introdotta la possibilità di definire e stipulare, sempre a livello provinciale, dei piani coordinati di controllo del territorio che possono coinvolgere anche le forze di polizia locale. Nel corso degli anni duemila sono stati perfezionati gli strumenti pattizi, coinvolgendo inizialmente le province e i maggiori centri urbani. Con il decreto legge 23 maggio 2008 n. 92, la possibilità di partecipare ai piani coordinati di controllo del territorio è stata estesa anche ai comuni che non rientrano nella definizione di “maggiori centri urbani”. Sia nella scorsa legislatura che durante quella in corso sono stati siglati numerosi patti con differenti enti locali, singoli o associati per aree territoriali omogenee, oltre ad accordi-quadro stipulati con l’ANCI, in rappresentanza di tutti i comuni associati. Nel frattempo, tra il 2001 e il 2009, molte regioni hanno promulgato leggi proprie in materia di sicurezza e di polizia amministrativa.

È entro questa cornice che, il 21 maggio 2008, il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha presentato l’insieme di provvedimenti che costituiscono il primo “pacchetto sicurezza” promosso dal quarto governo Berlusconi. Ai provvedimenti compresi nel pacchetto sicurezza ne sono stati poi affiancati diversi altri, dal coinvolgimento delle forze armate con compiti di vigilanza nel territorio alla discussa norma sugli “osservatori volontari” (le “ronde”), dai dispositivi emergenziali adottati per affrontare la questione degli inse-diamenti di comunità nomadi all’introduzione del “reato di clandestinità” e all’aumento del periodo massimo di detenzione nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). Fino alla promulgazione, nel novembre del 2010, di un secondo pacchetto sicurezza con cui si è inteso rafforzare il potere dei sindaci, imponendo al prefetto di disporre la collaborazione delle forze di polizia per assicurare l’attuazione delle ordinanze in materia di sicurezza urbana.

1.2. Il nuovo protagonismo dei sindaci

Il 9 marzo 2007 il sindaco di Milano, Letizia Moratti, rende pubblica una lettera indirizzata ai «cari concittadini, donne e uomini di Milano» che, con le loro segnalazioni, le hanno confermato «la sensazione che a Milano stia avanzando, a macchia d’olio, una ondata di illegalità», con molti quartieri «costretti a vivere giorno dopo giorno in un clima di paura per aggressioni, rapine nei negozi e nelle botteghe, violenze personali e degrado ambien-

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tale». Nella lettera le minacce sono chiaramente identificate: prostituzione, spaccio, violenza sulle donne, occupazioni abusive «delle strade, delle case e dei palazzi», rapine nei negozi, maltrattamenti ai bambini, sopraffazioni da parte di immigrati irregolari, degrado e, infine, truffe agli anziani. An-che il nodo politico è espresso chiaramente: «Milano, con responsabilità, fa la sua parte, ma chiede risposte concrete all’unico responsabile e garante dell’ordine pubblico delle nostre città: il Governo di Roma».

La lettera ha l’obiettivo di lanciare una fiaccolata cittadina, alla quale il sindaco di Milano invita anche i sindaci di altre città, per reclamare mezzi e risorse da impiegare localmente nel controllo del territorio e nel contrasto dei comportamenti individuati come fonte della percezione di insicurezza. Il 20 marzo il ministro dell’Interno Amato firma con l’ANCI e con i sin-daci delle città metropolitane un’intesa che impegna i contraenti a siglare, nei due mesi successivi, dei patti per la sicurezza, attraverso cui regolare la cooperazione tra stato ed enti locali. Il 26 marzo si svolge, comunque, la fiaccolata di Milano.

Tra settembre e ottobre il governo Prodi predispone un “pacchetto sicurezza”, composto di diversi disegni di legge, tra cui uno sulle nuove “Di-sposizioni in materia di sicurezza urbana”, che viene presentato durante il Consiglio dei ministri del 30 ottobre 2007. L’articolo 13 del progetto di legge propone di modificare l’articolo 54 del testo unico delle leggi sull’ordinamen-to degli enti locali, attribuendo al sindaco, tra l’altro, il potere di adottare «provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana»3. Il disegno di legge non arriverà al voto dell’assemblea per il termine anticipato della legislatura, ma la proposta sarà ripresa, pochi mesi dopo, nel primo pac-chetto sicurezza proposto dal nuovo ministro dell’Interno, Roberto Maroni.

Lo stesso giorno del Consiglio dei ministri viene stuprata e percossa a Roma Giovanna Reggiani, che muore in ospedale dopo un giorno di agonia. L’omicidio, commesso da un cittadino romeno alloggiato in un ac-campamento di baracche vicino al luogo dell’aggressione, dà il via a una vera e propria campagna di panico morale che ha come obiettivo nomadi (“rom”) e stranieri, in particolare romeni, e spinge il governo ad accelerare l’iter di uno dei disegni di legge previsti, trasformandolo in un decreto legge

3 Art. 13 comma 4 del progetto di legge n. 3278 presentato alla Camera il 30 novembre 2007. Il D.lgs. 267/2000 attribuiva già al sindaco, in veste di ufficiale di governo, il potere di adottare provvedimenti contingibili e urgenti, limitatamente però alla sola necessità di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini. È, da qui in poi, sull’aggiunta dei pericoli che minacciano la “sicurezza urbana” che si gioca partita relativa all’estensione dei poteri di ordinanza dei sindaci.

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immediatamente esecutivo, con l’obiettivo di consentire l’allontanamento dal territorio italiano, per ragioni di pubblica sicurezza, di cittadini europei.

Il 24 gennaio del 2008 il Senato respinge la risoluzione per la fiducia al governo guidato da Romano Prodi, ponendo di fatto fine alla XV legisla-tura. Le successive elezioni politiche portano all’insediamento, l’8 maggio, del nuovo governo Berlusconi.

Nel frattempo, il 7 aprile 2008, quindici sindaci di città medio-piccole siglano la Carta di Parma, con cui chiedono maggiori poteri di intervento in materia di sicurezza. Nelle premesse del documento i sindaci firmatari esprimono alcune presupposizioni, in particolare che:1) la sicurezza non riguarda solo i fenomeni di criminalità e illegalità ma

anche quelli di degrado e disordine urbano;2) gli enti locali subiscono, e non partecipano, alle decisioni o inerzie delle

politica nazionale in materia di sicurezza;3) le città di medie e piccole dimensioni hanno problemi di sicurezza

sottovalutati dagli altri livelli di governo;4) il numero di reati e di problemi “connessi alla sicurezza urbana” cresce

costantemente, a fronte di una scarsità cronica di risorse disponibili per contrastarli;

5) il «il problema della sicurezza urbana (…) è diffuso a tutte le realtà ur-bane e intrinseco alle dinamiche di sviluppo della città contemporanea».Da qui la necessità di agire anche in materia di sicurezza in base al

principio di sussidiarietà avvicinando «sempre più i dispositivi di prevenzione alla percezione dei cittadini», attribuendo maggiori poteri al Sindaco che gli consentano di adottare «provvedimenti in materia di ordine pubblico, relativi ai reati minori e ai temi del degrado fisico e sociale del territorio», ma anche rafforzando e formalizzando la collaborazione con il Prefetto, coinvolgendo i sindaci, anche quelli delle città non metropolitane, nei Co-mitati provinciali per l’ordine e la sicurezza e attribuendo loro un «ruolo di indirizzo nella programmazione e il coordinamento delle forze di polizia sul territorio comunale». La Carta formula poi una serie di altre richieste, da una maggior disponibilità di risorse per gli interventi locali a una inten-sificazione della «lotta alla clandestinità». Ma soprattutto con essa i sindaci chiedono di prevedere specifici reati, o di inasprire le pene, per quelle che sono considerate minacce per la sicurezza urbana (sfruttamento di minori in attività criminali e accattonaggio, danneggiamento e deturpamento, oc-cupazione abusiva di luogo pubblico). Le proposte della Carta di Parma non richiamano soltanto le rivendicazioni espresse dai sindaci delle città metropolitane già accolte nei disegni di legge del pacchetto sicurezza del 2007 (Amato), ma riecheggiano teorie che si sono consolidate nelle politiche

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neoliberiste in materia di contrasto alla criminalità e di governo della città, sperimentate sin dagli anni settanta in alcune metropoli degli Stati Uniti e riprese da diverse città europee [Wacquant 1999].

Il 21 maggio 2008 si svolge a Napoli il primo effettivo Consiglio dei ministri del nuovo governo Berlusconi. Dopo una campagna elettorale for-temente incentrata sulla questione securitaria, il primo punto all’ordine del giorno riguarda la presentazione di un “pacchetto sicurezza” che comprende un decreto legge, due disegni di legge, tre schemi di decreti legislativi (in ma-teria di migrazione e asilo), le linee di indirizzo per una proposta di legge di riordino della polizia municipale e la dichiarazione dello stato di emergenza per far fronte «alla situazione di estrema criticità che si è determinata in Campania, in Lombardia e nel Lazio per la presenza di numerosi cittadini extracomunitari irregolari e nomadi stabilmente insediati in talune aree».

L’articolo 6 del decreto legge n. 92 del 23 maggio 2008 modifica il testo unico sull’ordinamento degli enti locali rispetto a quelle funzioni di competenza statale che sono attribuite al sindaco (art. 54 d.lgs. 267/2000), introducendo la possibilità di adottare, in qualità di ufficiale di governo, «provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana». Il testo ricalca, anche in questo caso, quello del disegno di legge presentato alla fine del 2007 dal governo Prodi, ma è con questo provvedimento che inizia quella stagione delle ordinanze, durata fino al 2010, che ha visto i sindaci di molte città italiane adottare un migliaio di provvedimenti “anche4 con-tingibili e urgenti” [ANCI-Cittalia 2009; 2012]. Una stagione segnata da un forte protagonismo dei sindaci in materia di sicurezza, con un proliferare di ordinanze – come quelle sui veli islamici e sulle moschee di cui parleremo in seguito – a volte molto fantasiose e spesso considerate illegittime dai tribunali amministrativi e ordinari, a cui progressivamente hanno cominciato a rivol-gersi associazioni di cittadini e differenti livelli dell’amministrazione locale.

In questo modo si è inteso realizzare una sorta di devoluzione securitaria attraverso cui fosse possibile rendere percepibile quella «frizzante ebbrezza del federalismo che avanza» richiamata dal senatore Vallardi (LNP) nel corso della discussione in Senato della legge di conversione del decreto legge n. 92/2008. Questa frizzante ebrezza però non è stata percepita sempre in maniera conforme a quella espressa dalla maggioranza governativa (e, a dire il vero, anche da gran parte dell’opposizione), tanto che l’ANCI ha

4 Approfondiremo più avanti la breve storia della congiunzione “anche”, introdotta in sede di ratifica del decreto, con la legge 125/2008 e cancellata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 125 del 7 aprile 2011.

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indicato il biennio conclusivo di questa fase (2009-2010) come quello della «ricentralizzazione della sicurezza urbana» [ANCI-Cittalia 2012, p. 19].

1.3. Devoluzione securitaria

Questo nuovo discorso securitario, del quale abbiamo cercato di tracciare alcuni passaggi salienti, si è dunque formato nell’humus della retorica fede-ralista che ha caratterizzato la presenza della Lega Nord al governo. Nelle more del compimento della promessa della “devolution”, tanto sul piano politico quanto su quello fiscale [Antonini 2013], la questione securitaria ha finito per rappresentare una facile digressione che ha dato forma a una vera e propria devoluzione securitaria.

La devoluzione del governo della sicurezza al livello cittadino, e in particolare ai “sindaci eletti direttamente”, riuscita o meno che sia, ha avu-to alcuni caratteri particolari. Nell’analisi del corpus di documenti presi in considerazione per la ricerca sono emersi alcuni di questi caratteri, che hanno assunto una dimensione rilevante per un’analisi del discorso e degli argomenti securitari, oltre che delle trasformazioni del concetto di sicurezza. È interessante approfondire quali sono stati gli argomenti addotti per giusti-ficare la necessità o l’importanza di attribuire al sindaco (e far rientrare nelle competenze dell’ente locale) nuovi e più ampi poteri in materia di sicurezza urbana. Quello che emerge è un discorso peculiare che è legato sia alle trasformazioni di ordine più generale che hanno riguardato il rapporto tra governo nazionale e governo locale, sia, più in particolare, all’emersione, nel discorso pubblico, di nuove minacce (e di nuove figure minacciose) che riguardano la città e chiamano in causa l’amministrazione locale.

Le ragioni originarie del protagonismo dei sindaci in quest’ambito vanno ricercate nell’introduzione della loro elezione diretta e nella riforma costituzionale del 2001, che ha modificato significativamente i rapporti e le ripartizioni di competenze tra il governo nazionale e quello degli enti locali. Com’è anche ribadito nella relazione di accompagnamento al disegno di leg-ge presentato al Senato per la conversione in legge del “decreto sicurezza”:

«La riforma legislativa del 1993, che ha introdotto il sistema dell’elezione diretta dei sindaci, e quella del 2001, che ha modificato il titolo V della parte seconda della Costituzione, hanno portato alla rivendicazione, da parte degli enti locali, di un ruolo sempre maggiore anche in materia di ordine e sicurezza pubblica, in omaggio al principio di sussidiarietà e, dunque, all’opportunità di allocare funzioni e poteri pubblici ai livelli istituzionali più vicini al cittadino».

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La questione securitaria delle città riguarda solo in parte il fenomeno della criminalità. L’origine dei problemi di sicurezza urbana, nel discorso pubblico, concerne innanzitutto il fenomeno del degrado. I sindaci italiani hanno, a questo punto, imparato pienamente la lezione statunitense sulle “finestre rotte”. I due fondamenti su cui si fonda la teoria delle broken win-dows, che Wilson e Kelling pubblicarono sull’«Atlantic Monthly» nel 1982, affermano che:– dove ci sono degrado e incuria dei luoghi e delle proprietà nascono

inevitabilmente problemi di disordine urbano, si creano opportunità criminali e si diffonde una sensazione di pericolo;

– anche quei comportamenti che, pur non costituendo necessariamente un crimine, sono percepiti come una minaccia o un fastidio, contribu-iscono a creare un ambiente favorevole al crimine.A costituire una minaccia, oltre alle “finestre rotte”, che rappresen-

tano simbolicamente lo stato di degrado e di abbandono di un territorio, sono quelle persone riottose (disorderly) che spesso vengono trascurate dalle forze dell’ordine. Persone che non sono necessariamente «violente, né, per forza, criminali, ma individui loschi o turbolenti o imprevedibili: accattoni, ubriaconi, tossicomani, giovani attaccabrighe, prostitute, oziosi, e malati di mente» [Wilson e Kelling 1982]. Se si aggiungono i graffitisti (come fanno gli stessi Wilson e Kelling [2007] in una rivisitazione del proprio articolo pubblicata sulla medesima rivista venticinque anni dopo) e gli “immigrati clandestini”, ci si trova di fronte al catalogo pressoché esaustivo degli obiettivi di molte delle ordinanze dei sindaci in materia di sicurezza.

Il degrado riguarda poi quel «problema delle sacche di declino e di insicurezza» delle periferie milanesi che la candidata alla carica di sindaco, Letizia Moratti, aveva inserito nel suo programma elettorale del 2006. La Carta di Parma lo ha ribadito in maniera più chiara «la sicurezza deve essere garantita non soltanto per quanto riguarda fenomeni di criminalità organizzata ma anche in riferimento ad aspetti di fenomeni di criminalità, micro-criminalità e illegalità, presenti anche sotto forma di degrado e di-sordine urbano». Una considerazione che sarà ripresa più volte nel corso del dibattito parlamentare e che darà forma anche alle politiche securitarie locali [cfr. infra capitolo 3].

In ogni caso, al di là delle giustificazioni fornite in materia di degrado e criminalità urbana, quella in gioco è evidentemente soprattutto una questio-ne politica, che riguarda la “frizzante ebbrezza del federalismo che avanza”. C’è l’accordo politico sul federalismo alla base di questa delega di potere ai sindaci, una risposta al protagonismo dei sindaci che viene, almeno in materia di sicurezza, da un ministro dell’Interno della Lega, in un quadro

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generale in cui il federalismo avanza a tentoni. Per di più si tratta di una materia in cui è possibile riscontrare un’ampia convergenza politica, sia tra gli alleati di governo che con l’opposizione, dato che, come abbiamo visto, il progetto legislativo riprende in larga parte quello che era già stato proposto col pacchetto sicurezza presentato dal governo Prodi.

1.4. Nuove configurazioni del rapporto tra politiche sociali e politiche securitarie

Analizzando il discorso pubblico prodotto intorno al tema della sicurezza e del suo governo locale, durante quel periodo che abbiamo individuato come la stagione delle ordinanze, si riscontra un’inversione del nesso che per lungo tempo, a partire almeno dal secondo dopoguerra, ha legato disagio sociale e insicurezza. L’insicurezza viene infine rappresentata come causa di disagio sociale, piuttosto che come una sua conseguenza5. Un disagio che si può perciò alleviare con provvedimenti che rafforzano la capacità di intervento sulla sicurezza. Come ha dichiarato il senatore Berselli, relatore del disegno di legge di conversione del “decreto sicurezza”, introducendo il dibattito al Senato, il decreto rappresenta «la prima e più urgente risposta del nuovo Go-verno al diffuso disagio sociale determinato dal problema della sicurezza».

Alcune forme particolarmente gravi di disagio sociale ed abitativo ven-gono poi utilizzate per evocare situazioni e figure che si ritiene suscitino un profondo allarme sociale e per giustificare una legislazione maggiormente restrittiva, e repressiva, ad esempio nei confronti dei migranti irregolari. Nel corso di un’audizione davanti alla commissione Affari sociali della Ca-mera, il 25 giugno 2008, il ministro dell’Interno Maroni ha affermato, ad esempio, che:

«non è possibile accettare, in un Paese civile, che minori, bambini debbano essere costretti a convivere con i topi. Noi intendiamo intervenire per elimi-nare questo obbrobrio, affermando il diritto a stare di chi può stare, ma in condizioni decorose, e affermando altresì che chi non può stare deve tornare da dove è venuto, in base alle direttive europee e in base alle leggi».

Ma è soprattutto nel discorso politico-securitario locale, registrato nella nostra ricerca nelle città di Brescia e Milano, che diviene chiaro come la

5 Si tratta in ogni caso di un rapporto ambivalente, dato che il disagio è presentato con-temporaneamente, nel dibattito parlamentare, anche come una delle cause che, insieme al degrado e ai comportamenti “incivili”, ha contribuito ad accrescere un diffuso senso di paura.

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sicurezza “securitaria” abbia preso il posto di una sempre meno tutelata sicurezza sociale e sia devenuta prioritaria nell’attenzione e nelle politiche promosse dall’amministrazione cittadina. Come ha affermato, ad esempio, l’allora vicesindaco e assessore alla sicurezza del Comune di Milano De Corato quando lo abbiamo intervistato:

«primo dovere è garantire la sicurezza che è un bene non disponibile, condi-visibile. Poi dopo puoi pensare alla solidarietà, all’integrazione, ma la prima cosa da garantire è la sicurezza. Garantita la sicurezza, dici “Va beh, questa è una strada sicura, adesso parliamo di integrazione, vediamo questi qua...”. Ma se si mettono i due... i termini insieme non si combina nulla, non si fa né sicurezza e né solidarietà, si fa male ad entrambe».

Questa inversione accompagna la fine della “città del welfare” [Petrillo 2000], segnata anche dalla contemporanea ascesa dello stato penale; le po-litiche sociali vengono di fatto legate a quelle del mantenimento dell’ordine e subordinate all’intervento della polizia locale. L’assessore Rolfi ci ha ad esempio raccontato come a Brescia abbiano:

«fatto un progetto, che è stato particolarmente interessante – che la Cariplo ci ha finanziato – con alcune cooperative, finalizzato a identificare e conoscere, io dico così mappare, anche se il termine è un po’ bruttino, i tossicodipendenti presenti in città, conoscerne le esperienze personali, formare un nucleo del corpo di polizia locale a trattare, a dialogare con questi, non semplicemente fermandoli e identificandoli, che comunque serve, ma conoscendo la rete dei servizi presenti sul territorio per orientarli, per accompagnarli anche nelle comunità, nei punti incontro, eccetera eccetera».

Infine, questo rovesciamento dell’ordine del discorso dalla sicurezza sociale alla sicurezza securitaria è il risultato della crescita abnorme delle retoriche politiche incentrate sulla costruzione della minaccia criminale e di quelle che, nell’ambito di una nuova distribuzione dei poteri tra il governo nazionale e quello locale, hanno prodotto quello che abbiamo individuato come un processo di devoluzione securitaria. Milano e Bre-scia hanno senz’altro avuto un ruolo da protagoniste in questo processo. A Milano in particolare, si è registrato un ulteriore esempio della subor-dinazione degli interventi di politica sociale a quelli di sicurezza urbana, regolati attraverso le ordinanze. Nel novembre del 2008, il sindaco Moratti ha emanato, sulla base del “decreto Maroni”, sei ordinanze in materia di ordine pubblico, che riguardavano l’abuso di alcol, l’acquisto e l’uso di sostanze stupefacenti, l’accattonaggio, i graffiti, la prostituzione e la pub-blica decenza – presentate come «sei ordinanze contro il disagio insieme

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a un piano di sostegno sociale» in un comunicato stampa del Comune di Milano (4 novembre 2008). I testi delle ordinanze richiamano in effetti a più riprese la necessità di affrontare quelli che individuano come problemi prioritari per la sicurezza in città accompagnando l’intervento repressivo con delle risposte “sociali”. Tanto che alle ordinanze hanno fatto seguito alcuni “avvisi” della Direzione centrale famiglia, scuola e politiche sociali del Comune di Milano che subordinavano di fatto la possibilità di accedere ai finanziamenti comunali per la realizzazione di interventi sociali negli ambiti individuati dalle ordinanze (abuso di alcol, prostituzione, contra-sto al consumo e alla vendita di stupefacenti) all’esplicita adesione alle metodologie e alle linee di intervento definite dal Comune, compresa la disponibilità all’«affiancamento delle forze dell’ordine in fase di esecuzione delle precitate ordinanze».

1.5. Ontologismo securitario

Nel suo intervento di presentazione del disegno di legge di conversione del “decreto sicurezza” il secondo relatore, il senatore Vizzini, ha sottolineato che «la scelta del Governo individua nel sindaco il fulcro di una nuova si-nergia nella lotta alla criminalità, soprattutto in ragione della capacità che il sindaco ha di conoscere direttamente dal territorio le problematiche che affliggono la gente».

La conoscenza del contesto locale, delle sue problematiche e dei “biso-gni” espressi dai suoi abitanti giustifica, nel discorso parlamentare, la neces-sità che il sindaco sia direttamente coinvolto nei processi decisionali riguardo alle questioni di sicurezza e ordine pubblico, anzi che ne sia il fulcro; ma giustifica anche che gli si attribuisca l’autorità per agire di propria iniziativa quando ritenga, proprio sulla base di questa presupposta conoscenza, che esista un pericolo per la sicurezza urbana. Si tratta di un punto sottoline-ato anche nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, dove il sindaco è appunto definito come il “fulcro” della garanzia del diritto dei cittadini alla sicurezza proprio in virtù del fatto che «il sindaco è in grado, più di chiunque altro, di conoscere le problematiche sociali della realtà locale che incidono negativamente sul senso di sicurezza percepito dai cittadini e che possono dare luogo a problemi di ordine pubblico».

I sindaci possiedono dunque una conoscenza particolareggiata del ter-ritorio che, almeno per alcuni aspetti, deve essere migliore di quella dei prefetti, se proprio a loro si attribuiscono nuovi poteri in materia di sicu-rezza locale. Ma qual è e com’è prodotta questa migliore conoscenza dei

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problemi di sicurezza del territorio? Quali sono gli strumenti che i sindaci hanno a disposizione per rilevare i fenomeni su cui è utile intervenire con provvedimenti d’urgenza come le ordinanze?

Nel dibattito parlamentare questa “conoscenza”, che è rappresentata come connaturata al ruolo di amministratore locale, è giustificata sulla base di un ragionamento che pare tautologico: il sindaco, eletto dai cittadini, co-nosce il territorio che amministra proprio perché lo amministra, e dunque deve affrontarne quotidianamente i problemi. La migliore conoscenza delle questioni locali e delle situazioni che presentano un profilo di pericolosità nella città amministrata è conseguenza logica del fatto stesso di governarla. Si tratta di un fatto dato per scontato e inconfutabile, che costituisce una giusti-ficazione sufficiente per attribuire all’amministrazione locale maggiori poteri di controllo sul territorio. Di fatto però, i dati e le informazioni utilizzate nel dibattito parlamentare per giustificare necessità e urgenza di nuove norme in tema di sicurezza, e indirettamente di un rafforzamento dei poteri locali in materia, sono per lo più quelli pubblicati a livello nazionale, soprattutto nei rapporti periodici del ministero dell’Interno (ma anche dall’ISTAT o da altri istituti di ricerca, oppure quelli riportati nelle relazioni dei servizi di studio parlamentari o nei resoconti delle audizioni delle commissioni parlamentari), opportunamente selezionati e interpretati.

Anche al livello del governo locale questa capacità di conoscere il terri-torio, i suoi problemi e i pericoli che presenta è fatta derivare dalla presenza stessa sul territorio degli amministratori e della polizia locale, oltre che dalla loro capacità di ascolto dei cittadini. Le informazioni che guidano le scelte del governo locale in materia di sicurezza sono insieme più circoscritte – riguardano magari un quartiere particolare, una via, persino un singolo numero civico – e più eterogenee. Esse consistono nelle segnalazioni che provengono direttamente dagli operatori della polizia municipale, oppure che vengono indirizzate all’amministrazione o ai vigili da singoli o gruppi di cittadini, o ancora che sono presentate dai comitati di zona, magari attraverso petizioni e raccolte di firme. In qualche caso i dati sono raccolti e interpretati anche attraverso l’utilizzo di una “mappa del rischio” gestita dalla polizia municipale che raccoglie in forma geolocalizzata tutte le segna-lazioni provenienti dai comandi di zona. Anche se poi, nei fatti, le ordinanze non sono necessariamente legate ai dati rilevati, come nel caso di via Padova a Milano, dove, come ha spiegato Riccardo De Corato, «non c’erano stati grandi episodi di criminalità, l’ultimo episodio risale al ’98 quando fu am-mazzato il gioielliere Bartocci (…) in via Padova non succedeva nulla, però la signora anziana che davanti al phone center vede cento persone di colore ferme, ha paura. È la percezione, non c’è un cazzo da fare».

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1.6. Contingibili e urgenti, ma “anche” no

Nel corso del primo dibattito in Senato per la conversione in legge del decreto legge 92/2008 è stata introdotta, con un emendamento proposto dal governo, la congiunzione “anche” prima degli aggettivi “contingibili e urgenti” che qualificano i provvedimenti che il sindaco deve adottare, come ufficiale di governo, «al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana». Si tratta di un pas-saggio rilevante, perché tende ad ampliare, a partire dal discorso securitario, il potere di ordinanza dei sindaci a situazioni ‘ordinarie’, che non hanno carattere di contingibilità e urgenza, e quindi a ridefinire in termini ancor più radicali la distribuzione di competenze tra il governo locale e quello nazionale in questo ambito. Come spiega il ministro Maroni nel corso di un’audizione davanti alla I Commissione della Camera dei Deputati il 25 giugno 2008:

«introducendo la parola “anche” tra “provvedimenti” e “contingibili e ur-genti”, consentiamo al sindaco di emanare ordinanze “anche” contingibili e urgenti. Questo significa che possono anche non esserlo, dunque questa possibilità del sindaco può esplicarsi anche in assenza di quel grave pericolo che oggi è richiesto affinché egli possa emanare un’ordinanza. In altre parole, consentiamo al sindaco di intervenire, regolando con provvedimenti l’ordinato svolgersi dell’attività nel comune che governa, in particolare nel settore della sicurezza urbana. Penso che questa sia una svolta importante nel concetto di sicurezza, in quanto si introduce per la prima volta in modo istituzionale l’intervento del sindaco, come capo della comunità, al fianco delle forze di polizia per garantire un più efficace controllo del territorio».

Con l’inserimento di questa semplice congiunzione si è dunque inteso trasformare quello che era originariamente un potere straordinario in un mezzo ordinario di governo della sicurezza urbana e della città più in ge-nerale. Uno strumento proprio dello stato di eccezione, che doveva rendere possibile adottare provvedimenti extra ordinem per affrontare minacce attuali e incombenti, perde così le due caratteristiche che ne fissavano opportunità e limiti: i provvedimenti dei sindaci non debbono più essere né contingenti né urgenti. Dunque, non devono necessariamente trarre origine e giustifi-cazione dalla particolarità imprevedibile della situazione, né dal bisogno di intervenire immediatamente, in attesa di poter poi affrontare il pericolo con strumenti ordinari. Si tratta di una modifica sulla cui legittimità sono state espresse subito molte perplessità [cfr. ad esempio Italia 2010, pp. 36-37], confermate dalla sentenza n. 115 del 2011 con cui la Corte costituzionale

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ha dichiarato infine l’illegittimità di questa estensione di poteri, cancellando proprio la locuzione «anche» prima delle parole «contingibili e urgenti».

Di fronte a questa disposizione della Corte, oltre che all’annullamento di molte delle ordinanze da loro disposte, le amministrazioni locali hanno cominciato a rivolgere la loro attenzione verso i regolamenti Comunali e di Polizia locale, che permettono di reintrodurre in forma continuativa alcuni dei provvedimenti che erano stati disposti in via provvisoria con le ordinanze. È questa la strada prospettata anche dall’ultima pubblicazione dell’ANCI sul tema della sicurezza urbana, come è chiaro fin dal sottotitolo del volume: “Dalle ordinanze agli strumenti di pianificazione e regolamentazione della convivenza cittadina” [ANCI-Cittalia 2012].

1.7. Sicurezza urbana

Abbiamo già visto nel precedente capitolo che il ministro dell’Interno, come previsto dalla legge, ha definito con un apposito decreto, emanato il 5 agosto 2008, cosa si deve intendere per sicurezza urbana. Nel discorso legislativo essa non coincide, a questo punto, con l’incolumità dei cittadini – quella che il decreto definisce come “l’integrità fisica della popolazione” – ma fa riferimento a pericoli differenti, che non minacciano direttamente l’integrità fisica ma il tessuto urbano e sociale, per cui, come dice la relazione di ac-compagnamento al disegno di conversione in legge del decreto ‘sicurezza’: «si è ritenuto essenziale integrare la sfera di operatività del potere del sin-daco di adottare provvedimenti contingibili e urgenti nei casi in cui si renda necessario prevenire ed eliminare gravi pericoli non solo per l’incolumità pubblica ma anche per la sicurezza urbana».

Se da una parte questa definizione è coerente con il concetto di sicurez-za urbana per come si è sviluppato nel dibattito politico sul governo della “città sicura” [Selmini 2004], dall’altra l’aggettivo ‘urbana’ qualifica, come indicato nel primo capitolo, una forma nuova e specifica di problemi che riguardano la sicurezza nelle città e, contemporaneamente, istituisce nuovi soggetti e nuove situazioni che minacciano il tessuto urbano e sociale delle città, nuove categorie di persone e comportamenti da controllare, regolare o reprimere.

La questione del rapporto tra progettazione e gestione dello spazio urba-no e la sicurezza ha acquisito un ruolo particolare negli ultimi trent’anni, in coincidenza con l’affermarsi delle politiche neoliberiste, dapprima negli Stati Uniti e poi in Europa. Sebbene si tratti di un tema che ha accompagnato l’intera storia della città moderna, è solo con lo sviluppo, a partire dagli

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anni ottanta in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, delle politiche di “sicurez-za comunitaria”, che hanno posto l’accento sulle responsabilità locali nelle politiche di prevenzione del crimine [Garland 2001], che esso ha acquisito la fisionomia che ha oggi nei discorsi e nelle pratiche di governo locale. I problemi e le minacce individuate, anche grazie all’impegno finanziario di think tank liberisti come il Manhattan Institute [Wacquant 1999, trad. it. 2000 pp. 16-20], dalle nuove teorie sulla criminalità e sul disordine urbano sono man mano diventati, anche in Italia, gli obiettivi delle politiche securitarie locali e urbane. La New York del sindaco Rudolph Giuliani, con la sua “tolleranza zero” nei confronti dei comportamenti “incivili” o “fastidiosi” ritenuti causa di disordine e prodromi di più gravi forme di criminalità, ha rappresentato, ad esempio, il modello di riferimento per il governo cittadino milanese di Albertini e De Corato, ma anche per sindaci di centro-sinistra come Bassolino a Napoli [Wacquant 2000, p. 22], che ne hanno adottato sia i fondamenti teorici che le principali parole d’ordine.

Negli anni successivi, l’attenzione securitaria ai micro-fenomeni urbani si è consolidata, seppure non sempre né esclusivamente nel solco della “tol-leranza zero” newyorkese. Un recente manuale sul rapporto tra urbanistica e sicurezza [Cardia e Bottigelli 2011] individua cinque fattori di insicurezza urbana: il rischio di essere vittima di aggressioni o violenza, i comportamenti “incivili”, il degrado, la percezione di insicurezza legata a fattori ambientali, la paura come sentimento soggettivo. Formulati così genericamente sono questi i temi su cui i sindaci hanno fondato le proprie rivendicazioni per ottenere maggiori poteri nel governo della sicurezza locale. Possiamo osser-vare come sono declinati, più in dettaglio, nelle risposte che i sindaci hanno fornito a un questionario che l’ANCI ha rivolto loro allo scopo di individuare quei fenomeni che, nella loro opinione, creano maggiore allarme sociale:

«1. abuso di alcolici, schiamazzi e comportamenti molesti; 2. vandalismo, writers, danneggiamenti al patrimonio pubblico e privato; 3. degrado urbano di specifici luoghi della città (quartieri, caseggiati, stazioni, piazze, parchi pub-blici, edifici abbandonati); […] 4. consumo e spaccio di sostanze stupefacenti in aree pubbliche; 5. abusivismo commerciale e occupazione illecita di suolo pubblico; 6. prostituzione in aree pubbliche; 7. randagismo; 8. accattonaggio molesto; 9. il fenomeno del bullismo e delle bande giovanili» [ANCI-Cittalia 2009, pp. 38-39].

Queste sono dunque le minacce al quieto svolgersi della vita sociale che secondo gli amministratori locali richiedevano una maggiore capacità di in-tervento da parte dei sindaci e che sono state oggetto di numerose ordinanze in parecchie città italiane. Lo stesso decreto del ministero dell’Interno che

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ha definito, dal punto di vista legislativo, la sicurezza urbana, ha individuato anche, all’articolo 2, gli ambiti di intervento del sindaco coerenti con tale definizione:

«a) le situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili e i fenomeni di violenza legati anche all’abuso di alcool; b) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato o che ne impediscono la fruibilità e determinano lo scadimento della qualità urbana; c) l’incuria, il degrado e l’occupazione abusiva di immobili tali da favorire le situazioni indicate ai punti a) e b); d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano, in particolare quelle di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico; e) i comportamenti che, come la prostituzione su strada o l’accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o perico-loso l’accesso ad essi».

Ciascuna di queste ‘minacce’ individua anche una propria popola-zione minacciosa, individui e gruppi che accrescono, nel discorso politico almeno, il senso di insicurezza dei cittadini. Molti dei comportamenti che incutono timore o paura sono incarnati dalle fasce sociali più marginali, visibilmente presenti e attive nelle strade cittadine: mendicanti, piccoli spacciatori e consumatori di sostanze stupefacenti, o di alcol, e, soprat-tutto, migranti.

2. Discorsi e politiche securitarie in materia di migrazioni: identità, religione, sicurezza

L’accostamento tra immigrazione e sicurezza non è un fenomeno nuovo né esclusivamente italiano, come evidenziato da diversi autori che, riferendosi anche ad altri paesi dell’Unione Europea e agli Stati Uniti, hanno riscontrato un crescente processo di “securitizzazione” (processo già descritto nel primo capitolo della presente sezione), riscontrabile almeno a far data dall’attacco terroristico alle Torri Gemelle del 11 settembre 2001 e tale da far parlare di un sempre più diffuso “immigration-security nexus” [d’Appollonia 2012]6.

6 Sul rapporto tra immigrazione e sicurezza si vedano anche Buzan et al. 1998; Doty 2000; Düvell 2006; Givens 2008; Guild 2009; Huysmans 2006; Kaya 2009; Lehav et al. 2008.

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In Italia alcuni fattori, tra cui la presenza al governo di un partito dichiaratamente anti-immigrati come la Lega Nord (la prima volta già nel 1994), hanno favorito la pervasività dell’associazione tra immigrazione e sicurezza. La più recente legge organica sull’immigrazione, la n. 189 del 2002 nota come legge Bossi-Fini, ha avuto come primo firmatario proprio lo storico segretario della Lega Nord e, tanto nel dibattito che ne ha pre-ceduto l’approvazione, quanto nel contenuto del testo di legge, si riscontra un inasprimento delle condizioni di accesso e permanenza sul territorio italiano sia per gli immigrati regolari che, ancor più, per quelli irregolari. A un generale sentimento ostile all’immigrazione, diffuso in una parte della popolazione italiana, è andato associandosi un più specifico atteggiamento anti-islamico, quando non esplicitamente islamofobico. Da questo punto di vista sembra che la catastrofe delle Torri Gemelle abbia avuto una fun-zione amplificatrice di una tendenza in atto già da qualche anno [Schmidt di Friedberg 2007, p. 110]. Soprattutto, pare che espressioni pubbliche di odio, islamofobia e xenofobia su base etnica siano diventate maggiormente legittimate a livello pubblico, soprattutto in quelle regioni del nord e del centro dove vi è una maggiore incidenza di un attivismo politico xenofobo e di destra [EUMC 2002].

2.1. La normativa securitaria in materia di migrazioni

Più in generale negli ultimi anni la normativa italiana sull’immigrazione si è caratterizzata per una ‘persistente eccezionalità’. A parte gli obbligati – ma spesso tardivi – recepimenti delle direttive europee, i diversi governi italiani che si sono succeduti sembrano accomunati, se pur con accenti diversi, da una tematizzazione della questione migratoria all’insegna dell’urgenza e dell’emergenza e dall’elusione di politiche di più ampio respiro. Piuttosto che avviare lunghi e conflittuali processi legislativi in Parlamento, i politici hanno più facilmente attinto al generale senso di insicurezza che si diffondeva tra la popolazione – spesso strategicamente incanalato proprio verso i cittadini stranieri – per disciplinare anche in modo duraturo interi aspetti della vita sociale ed economica degli immigrati attraverso l’adozione di provvedimenti straordinari.

Ciò ha riguardato sia l’accesso al territorio nazionale, che la permanen-za legale nel paese. Per quanto concerne il primo aspetto, la diffusa percezio-ne degli immigrati come minaccia per la sicurezza ha favorito una politica internazionale segnata da numerosi accordi con paesi terzi, soprattutto della sponda meridionale del Mediterraneo, siglati quasi sempre senza un pas-

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saggio parlamentare e senza che i loro testi fossero resi noti pubblicamente. L’intenzione esplicita di questi accordi di cooperazione, riammissione, re-spingimento e/o rimpatrio è quella di contrastare l’immigrazione irregolare e il traffico di esseri umani, rendendo abbastanza evidente l’associazione tra irregolarità amministrativa e presunta pericolosità sociale, rafforzata dal 2001 in avanti dalla retorica della guerra al terrorismo [Marchetti 2009].

Per quanto riguarda il secondo aspetto, e quindi sul piano del governo delle migrazioni all’interno del territorio nazionale, la pervasività del discor-so securitario ha facilitato l’adozione di provvedimenti che hanno fortemente danneggiato almeno la popolazione immigrata residente. In questo contesto vanno, per esempio, interpretati alcuni provvedimenti contenuti nel già cita-to “pacchetto sicurezza”. Tra questi si segnalano l’introduzione del “reato di clandestinità” e dell’aggravante di clandestinità (che hanno per bersaglio gli stranieri residenti ma in condizione di irregolarità), l’aumento del periodo massimo di detenzione nei CIE fino a 180 giorni e anche il limite ai cosiddetti “matrimoni di interesse”: per acquisire la cittadinanza italiana non è più sufficiente il matrimonio, ma occorre che il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica. Anche in questi casi, prima ancora che una legge ordinaria, è stato un eterogeneo e fortemente politicizzato “pacchetto” di provvedimenti a introdurre importanti cambiamenti nella disciplina dell’immigrazione e della cittadinanza. Vanno poi letti nel senso della diffusione di un approccio securitario alle migrazioni anche le numerose proposte di legge o referen-dum che, se pure mai approvate, hanno contribuito ad alimentare il clima di sospetto e paura nei confronti degli immigrati.

Ma è a livello locale, in perfetta coerenza con la logica della devoluzio-ne securitaria che abbiamo descritto, che si osserva la maggiore e più varia diffusione di provvedimenti “eccezionali”, che arrivano talvolta persino a contrapporsi alla legge o al dettato costituzionale, e per questo a venire poi bocciati da tribunali amministrativi e/o Corte costituzionale. L’immigrazio-ne è stata regolata a livello locale con provvedimenti di diversa natura, come ad esempio la concessione del cosiddetto “bonus bebè”, un buono economi-co per i nuovi nati, ai soli bambini con almeno un genitore italiano, avvenuta nei comuni di Brescia, Adro, Palazzago e Tradate; oppure la proposta di sgravi fiscali alle sole giovani coppie italiane e il divieto di parcheggio alle auto di stranieri nel comune di Alzano Lombardo; o ancora il regolamento introdotto nel 2009 a Lucca, che vietava gli esercizi commerciali che ven-dessero cibo “riconducibile ad etnie diverse” [Bartoli 2012, p. 17].

Ancora una volta sono le ordinanze sindacali a rappresentare lo stru-mento che – almeno per una “stagione” – si è rivelato particolarmente

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attraente per le amministrazioni locali. Il nesso tra ordinanze e immigra-zione può non essere immediatamente evidente se si prende in considera-zione semplicemente il loro oggetto giuridico: una ricerca sulle oltre mille ordinanze emesse tra il 2008 e il 2009, per esempio, mette in evidenza come siano inferiori all’1% le ordinanze che regolano le modalità di iscri-zione anagrafica e i controlli sulle abitazioni utilizzate da persone immigrate [Chiodini 2009, p. 499; si veda anche ANCI-Cittalia 2009; 2012], un dato sicuramente limitato se paragonato ad altre tipologie di ordinanze (per es. il tema maggiormente disciplinato è il consumo e la somministrazione di bevande alcoliche, presente in circa il 13,6% dei casi esaminati). Tale nesso emerge però più nettamente nell’analisi del discorso politico e pubblico che accompagna la loro emanazione.

In generale è interessante notare che il più delle volte il target esplicito delle ordinanze non riguarda gli immigrati in quanto tali. Attraverso un preci-so stratagemma argomentativo, si fa piuttosto riferimento a principi generali e a categorie di persone non individuabili sulla base della nazionalità. Tuttavia, dietro l’apparente neutralità delle formule burocratiche, si nasconde spesso il tentativo di individuare in modo preponderante, quando non esclusivo, proprio una parte della popolazione immigrata, definita non in quanto tale (si incorrerebbe ancora più facilmente di quanto già non sia accaduto in ac-cuse di provvedimenti discriminatori), ma piuttosto in funzione delle attività svolte in un determinato territorio o di comportamenti assunti nello spazio pubblico. Spesso il modo in cui queste ordinanze sono state nominate dai media e sono entrate nel dibattito pubblico svela quali sono i veri soggetti destinatari delle ordinanze: le cosiddette ordinanze anti-kebab riguardano i titolari di esercizi commerciali di origine immigrata [Magrassi 2010]; le or-dinanze anti-ghetto puntano il dito contro quelle aree di una città in cui la concentrazione di immigrati e di loro attività economiche risulterebbe per alcuni troppo massiccia; e d’altra parte le ordinanze contro i lavavetri [Busatta 2010] o le ordinanze anti-borsoni hanno come destinatari prevalenti cittadini stranieri che in alcuni contesti si dedicano a queste attività.

Come vedremo meglio più avanti, anche le ordinanze volte a proibire l’uso in pubblico del velo islamico (in particolare il burqa e il niqab ma in alcuni casi anche la variante “balneare” nota con il nome di burkini) [Lo-renzetti 2010b] e quelle destinate a disciplinare o a limitare le attività o la stessa apertura di moschee e sale di preghiera islamiche non nominano quasi mai esplicitamente gli immigrati e talvolta nemmeno la religione islamica.

Inoltre, anche se non sono numerose, le ordinanze che coinvolgono più o meno direttamente gli immigrati sono spesso ordinanze dall’alto potere simbolico, tale da scatenare un vivace dibattito che talvolta dal livello locale

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è rimbalzato al livello nazionale, sia per quanto riguarda la risonanza nei media che le discussioni nelle aule parlamentari. Il fatto stesso che espressioni come ordinanze anti-kebab o anti-ghetto siano entrate nel linguaggio comune dimostra la capacità evocativa di simili provvedimenti e il loro ruolo in un più ampio dibattito, che spesso finisce col toccare i nervi scoperti della sicurezza e dell’insicurezza, di cui si è già discusso nel capitolo precedente, ma anche dell’identità e dei valori più o meno condivisi, della presunta inintegrabilità di certi gruppi di immigrati.

Si può quindi notare che – come accade anche per quelle ordinanze che non hanno come destinatari né espliciti né impliciti gli immigrati – le ordinanze emesse nell’epoca della devoluzione securitaria hanno avuto anche l’effetto di creare nuove “popolazioni pericolose”. Si è trattato di un’operazione di classificazione prodotta dalle stesse ordinanze sulla base di una localizzazione spaziale, dell’esercizio di determinate attività o per la pratica di certi comportamenti: non quindi necessariamente popolazioni preesistenti, ma create o ri-create ex novo, e divenute riconoscibili proprio perché definite dalle ordinanze.

2.2. Niente burqa, siamo bresciani

«Niente burqa, siamo bresciani…». Con questo motto provocatorio il Co-mitato “Quartiere sicuro”, molto attivo in viale Piave e nei suoi dintorni (il quartiere a est di Brescia), lancia nell’estate del 2010 una raccolta firme per chiedere «l’emanazione di una ordinanza che vieti di comparire in pubblico con il volto coperto sia parzialmente che in modo totale; il divieto di con-cessione di documento di identità a soggetti con volto coperto; l’inserimento nei regolamenti di musei, palestre, enti ed uffici pubblici od a partecipazione pubblica del divieto d’accesso esplicito a viso coperto qualora non vi fosse già inserita». Nel comunicato sottoscritto dalla coordinatrice Sara Balsamo si leggono anche le ragioni di tale urgenza: «Riteniamo indispensabile per motivi di sicurezza e come precauzione anti terroristica la mera applicazio-ne della […] normativa», ovvero l’applicazione del testo unico di Pubblica Sicurezza del 1931, che prevede il divieto di comparire mascherati in luogo pubblico, successivamente integrato dalla legge 152 del 1975 articolo 5. Anche se il testo del comunicato non fa esplicito riferimento al burqa e al niqab, né alla religione islamica, si chiede di intervenire proprio per limitare la possibilità delle donne musulmane di indossare qual si voglia forma di velo che copra parzialmente o integralmente il volto e renda pertanto difficoltoso l’immediato riconoscimento della persona che vi si celi.

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Al di là dell’interpretazione estensiva che viene data al dettato di legge e anche se la raccolta firme non ha avuto il seguito auspicato dalla sua promotrice, questa iniziativa mette bene in evidenza, tra le altre cose, una tematizzazione del velo cosiddetto “islamico” attraverso una diretta associa-zione a questioni di sicurezza, sottolineandone un legame apparentemente “naturale”, dato per scontato, con il fenomeno del terrorismo.

A questo si lega una tematizzazione dell’Islam nel suo complesso come questione di sicurezza. L’attenzione posta su un indumento indossato da donne che professano la religione islamica rivela in realtà l’intento di occu-parsi dell’intero universo musulmano, almeno per quegli aspetti che interes-sano più direttamente il rapporto con la società italiana. Non è un caso infatti che lo stesso Comitato “Quartiere sicuro” si sia distinto a livello locale anche per la battaglia contro la moschea di viale Piave, sempre a Brescia, di cui si parlerà più diffusamente nel prossimo paragrafo. L’iniziativa del Comitato e il protagonismo della sua portavoce sono quindi interessanti indicatori di un più ampio dibattito che ha riguardato – e riguarda ancora oggi – la disciplina del velo cosiddetto islamico e in particolare delle sue forme più integrali, denominate burqa e niqab. Anche se in Italia non abbiamo assistito a una vera e propria controversia del foulard islamico, come invece è avvenuto in Francia, già nel 1999 c’è stato un piccolo affaire del velo che ha coinvolto alcuni immigrati musulmani a Torino, scesi in piazza per protestare contro il rifiuto da parte della polizia di accettare come valide per i documenti le fotografie delle donne velate [Rivera 2005, p. 41]. Anche nel caso del velo, è interessante notare la strategia argomentativa che viene posta in essere: il ricorrente nesso tra Islam e sicurezza avviene per lo più attraverso una sineddoche non solo retorica o discorsiva, che permette di passare disinvol-tamente dal particolare (il velo) al generale (la religione islamica).

Il dibattito più recente intorno alla possibilità o meno di vietare l’uso del velo integrale ha come fonte giuridica primaria la legge n. 152 del 1975, nota anche come legge Reale dal nome del suo proponente. La legge in que-stione reca “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico” ed è stata varata in un particolare periodo storico – i cosiddetti “anni di piombo” – segnati dal terrorismo interno; per questo le disposizioni ivi contenute miravano a for-nire strumenti più efficaci per il contrasto e la prevenzione di atti terroristici. L’articolo 5 – come modificato dall’articolo 2, L. 533/1977 – vieta «l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo».

Con la fine degli anni di piombo, tuttavia, l’applicazione di questa legge e soprattutto il dibattito pubblico relativo alle disposizioni in essa con-

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tenute hanno attraversato una stagione di relativa calma. Bisogna attendere i primi anni 2000 perché si torni a parlare della legge Reale, soprattutto richiamando l’articolo relativo al divieto di travisamento del volto. Come abbiamo visto, il nuovo millennio si apre infatti con una riattualizzazione del dibattito sulla sicurezza interna e internazionale e con una rinnovata paura del terrorismo. La retorica e la pratica del controllo e dell’ordine pubblico sono nuovamente all’ordine del giorno, al punto da sdoganare per la prima volta in modo esplicito il nesso tra donne (velate) e sicurezza pubblica.

Una prima ondata di cosiddette “ordinanze anti-burqa” vede la luce nel 2004, quindi prima ancora dell’emanazione del pacchetto sicurezza. Facen-do esplicito riferimento all’articolo 5 della legge Reale, tali ordinanze esten-dono la sua applicazione anche ai “veli che coprono il volto”, prevedendo sanzioni pecuniarie fino a 500 euro [Parmigiani 2011, p. 213]. Questa prima stagione di ordinanze anti-burqa e niqab – che ha interessato ad esempio i comuni di Azzano Decimo (PN), Drezzo (CO), Biassono (MI), Calolziocorte (LC), Cantù in Brianza e Caronno Varesino (VA) – si esaurisce abbastanza rapidamente, tra il 2004 e il 2005, con il sopraggiungere degli annullamenti delle prefetture e dei Tar competenti. Queste prime ordinanze sono state giudicate illegittime non solo sul piano del contenuto – discriminazione reli-giosa – ma anche sul piano delle competenze, considerati i limitati poteri dei sindaci prima del compimento della devoluzione securitaria di cui abbiamo parlato. Tali atti giudiziari raffreddano gli spiriti di molti sindaci che avevano iniziato a cavalcare con una certa disinvoltura il clima di sospetto e paura nei confronti dell’Islam e che si erano fatti facilmente suggestionare dalla possibilità di utilizzare lo strumento dell’ordinanza per impedire ad alcune donne musulmane (o magari a uomini terroristi, nascosti sotto provvidenziali burqa) di rendersi irriconoscibili.

Basterà tuttavia aspettare qualche anno per trovare un repentino ritor-no alla ribalta del dibattito sul velo e sul divieto di travisamento del volto. Nel 2008, con l’approvazione del pacchetto sicurezza e l’ampliamento del potere dei sindaci, di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo, prende il via quella che abbiamo chiamato stagione delle ordinanze. Nella ridda di ordinanze emanate a partire dal 2008, trovano spazio anche numerosi provvedimenti volti a ribadire il divieto di occultamento del volto, facendo più o meno esplicitamente riferimento ai veli cosiddetti islamici e in parti-colare al burqa e al niqab7.

7 Tra i comuni attivi in questo senso si possono ricordare Camerata Cornello (BG), Alassio (SV), nuovamente Azzano Decimo (PN) e Drezzo (CO), e ancora Fermignano (PU), Brughe-

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Questa intensa attività a livello locale, che ha portato almeno una venti-na di Comuni ad avere ordinanze anti-burqa, ha dato un forte input anche al dibattito a livello nazionale, in sede parlamentare, dove tra l’aprile del 2008 e l’ottobre del 2010 sono state presentate ben 11 proposte di legge a modi-fica dell’articolo 5 della legge Reale. Nessuno dei proponenti – che vanno dalla Lega Nord al PDL, dall’UDC al PD – sembra mettere seriamente in discussione l’assunto che il contesto più appropriato per disciplinare l’uso del velo integrale da parte di donne di fede islamica sia una legge che reca “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”.

Il contenuto delle proposte di legge – in diretta dialettica con le ordinanze emanate a livello locale – è certamente interessante, sopratutto in quelle parti in cui si ipotizza l’introduzione del nuovo reato di “costrizione all’occultamento del volto” (che troverà poi posto nell’articolo 2 del Testo Unificato, a sintesi delle diverse proposte di legge presentate, redatto dalla Commissione Affari Costituzionali e illustrato all’assemblea della Camera nell’ottobre del 2011). Se da un lato le proposte di legge hanno come destinatario primo e diretto le donne che portano veli integrali, dall’altro lato sembra di non secondaria im-portanza per molti proponenti sottolineare che il vero bersaglio sono gli uomini che costringono le donne a indossarli. Provando a ricostruire il processo argo-mentativo sottostante a tale ragionamento, si nota come il punto di partenza siano i diritti delle donne, ovvero la prevenzione e la repressione di forme di violenza maschile nei confronti di donne sottomesse e umiliate. Questo innesto offre la giustificazione per introdurre provvedimenti che vanno a interessare in modo diretto persone di fede islamica, di cui si sottolinea in questo caso non la dimensione religiosa (che richiamerebbe direttamente il rispetto di di-ritti fondamentali) ma la dimensione della violenza, dell’arretratezza culturale, della mancanza di rispetto della libertà e dell’autodeterminazione delle donne. Non è un caso che il tema della violenza maschile nei confronti delle donne e la sua presunta correlazione con il fenomeno dell’immigrazione faccia già da sfondo all’emanazione dello stesso pacchetto sicurezza, tanto è vero che – come abbiamo già ricordato – l’omicidio di Giovanna Reggiani spinge il governo ad accelerare l’iter legislativo e fornisce la cornice argomentativa per proporre provvedimenti che restringono i diritti degli immigrati.

Più in generale, si può osservare che all’interno del dibattito che ha preso vita in sede parlamentare intorno alle proposte di legge, ma anche a livello locale in occasione dell’emanazione delle ordinanze, si sono affermati,

rio (MB), Montegrotto (PD), Varallo Sesia (VC), Peschiera Borromeo (MI), Codogné (TV), Cossato (BI), San Colombano al Lambro (MI), Casalpusterlengo (LO), Novara e Sesto San Giovanni (MI).

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tra gli altri, due ordini di discorso che si riconnettono efficacemente al tema della sicurezza.

Un primo si sofferma sul nesso diretto velo – sicurezza, ponendo l’accen-to sul travisamento del volto, come disposto per altro già dalla legge Reale, e facendo intuire l’esistenza di una correlazione tra la non identificabilità delle donne velate e la loro pericolosità sociale, che le renderebbe quindi una questione di “sicurezza pubblica”. Questo avviene anche se sono numerosi gli studiosi e i commentatori che – come fa per esempio Lorenzetti – mettono in questione l’ammissibilità e la stessa efficacia di una simile associazione:

«I divieti di indossare il burqa o il burqini non possono essere ritenuti funzio-nali alla tutela della sicurezza della collettività, della felicità o della serenità […]. La valutazione di proporzionalità lascia emergere come spesso potesse facilmente essere individuato uno strumento meno invasivo e «costoso» nei termini di compressione dell’interesse o del diritto concorrente. Anche per-ché, diversamente ragionando, si arriverebbe a consentire un sacrificio totale della libertà religiosa a fronte di un non ben precisato interesse alla sicurezza pubblica, che non può seriamente ritenersi in pericolo a causa del velo che copre il volto» [2010, p. 102].

In merito alla questione dell’identificabilità in senso stretto, oltretutto, la legge Reale dava già delle indicazioni generali e astratte in questo senso: vietava infatti «l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo». Una simile dizione ha permes-so fino a questo momento una corretta applicazione della norma tanto nei confronti di cittadini italiani, quanto di cittadini stranieri, ed eventualmente di donne musulmane più o meno integralmente velate.

Da dove nasce allora questa urgenza di prevedere un esplicito riferi-mento a indumenti come il burqa e il niqab? Oltretutto, anche il sottosegre-tario di stato all’Interno Alfredo Mantovano (in risposta all’interrogazione dell’on. Salvatore Vassallo, Commissione Affari Costituzionali del 26 luglio 2011) ha dovuto ammettere che sono indumenti scarsamente diffusi sul territorio italiano. Si può ipotizzare che la questione della riconoscibilità e dell’identificabilità stia diventando ancora più pressante in connessione al diffuso sospetto nei confronti dei fedeli di religione musulmana. La domanda non è più solamente “chi si nasconde sotto al velo?”, ma anche “che cosa si nasconde sotto il velo?”. Potrebbe esserci un uomo anziché una donna, potrebbe celarsi un o una terrorista, potrebbe nascondere una cintura di esplosivo o altre armi di offesa. Sono sospetti di questo tipo ad animare quella parte di dibattito che connette direttamente il velo alle politiche di sicurezza.

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Del resto, che nel discorso politico la sicurezza sia un valore in sé sembra quasi un assunto che non va nemmeno argomentato: il primato assegnato alla sicurezza (tanto a quella pubblica, quanto a quella urbana o personale) non necessita di particolari giustificazioni. Comunque nulla può essere an-teposto alla sicurezza, intesa come assenza di angosce e timori. In questo senso, le parole dell’on. Paola Binetti, allora appartenente al gruppo del Partito Democratico – pronunciate in occasione della discussione sulle linee generali del Testo Unificato – sono chiarificatrici: «Il diritto alla sicurezza non ammette sconti, neppure sconti di genere; impone, oggi, il rispetto più assoluto per la vita degli altri, che non devono fare i conti con le angosce e con i timori che li assalgono quando frequentano un luogo pubblico o quando entrano in contatto con un soggetto dall’aspetto ambiguo».

Un secondo ordine del discorso – anche se meno esplicito – connette il tema del velo con il fenomeno dell’immigrazione e il dibattito sulla cittadi-nanza. Se partiamo dal testo della legge come formulato nel Testo Unificato, troviamo un passaggio che si dimostra rivelatore. L’articolo 2 infatti introduce il reato di costrizione all’occultamento del volto, mentre l’articolo 3 propone che la condanna per questo reato precluda l’acquisto della cittadinanza.

Il nesso tra i due articoli viene ben sviscerato dall’on. Rosa Maria Vil-lecco Calipari che, nella discussione avvenuta alla Camera, li definisce “la ciliegina sulla torta”. L’articolo 3 infatti:

«istituisce un nuovo reato quando già nell’ordinamento esistono reati prin-cipali (questo sarebbe un reato secondario) che puniscono già questi com-portamenti, come la violenza privata (articolo 610 del codice penale), gli atti persecutori (articolo 612-bis del codice penale) o i maltrattamenti in famiglia verso minori (articolo 572 del codice penale). Non c’era nessuna esigenza di intervenire sulla materia, se non per colpire i cittadini immigrati che desid-erano far richiesta di cittadinanza».

Un tipico esempio di doppia pena del migrante, che si manifesta nei giudizi emessi sull’immigrato (e non solo in quelli pronunciati dai tribunali), radicandosi in quel “pensiero di stato” che per Sayad [2002, p. 372] era «la base antropologica su cui poggiano tutti i nostri pregiudizi sociali».

2.3. Moschee, garage e altri luoghi pericolosi

Il caso della moschea di viale Piave a Brescia e il conflitto – sociale, am-ministrativo e giudiziario – che si è giocato intorno ad essa mostra lo stret-to intreccio tra sicurezza pubblica e sicurezza urbana, e ancora una volta

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l’apparente espunzione della questione religiosa e della libertà di culto da un dibattito che ha in realtà come destinatari fedeli praticanti la religione islamica. Gli attori in gioco nella contesa della moschea – che ha avuto come esito anche una controversa ordinanza firmata dal responsabile del settore “Sportello unico dell’edilizia” il 7 aprile 2011, prima confermata dal Tar e poi bloccata dal Consiglio di stato – si richiamano da un lato a questioni di agibilità, vivibilità e sicurezza urbana, e dall’altro a questioni di sicurezza pubblica, come il rischio di terrorismo; da un punto di vista discorsivo, mettono così in secondo piano il fatto che il target delle proteste e dell’ordinanza sono per lo più cittadini stranieri, e tutti di fede islamica. In diverse occasioni pubbliche gli assessori tengono a precisare che in città sono già presenti due luoghi di culto islamico, ampi e riconosciuti, che garantiscono il diritto costituzionale di professare la propria religione e che pertanto a Brescia non sorgeranno altre moschee, senza che per questo vi sia alcun rischio di ledere i diritti dei fedeli musulmani.

L’ordinanza infatti fa innanzitutto leva sull’inadeguatezza del luogo – un box condominiale – scelto come sede del centro culturale islamico Min-haj ul quaran, inadeguatezza rilevata tecnicamente dai vigili del fuoco, ma portata alla luce grazie alle numerose proteste degli abitanti del quartiere e del palazzo. Nella conferenza stampa in cui è stata annunciata l’ordinanza, il vicesindaco e assessore alla sicurezza, Fabio Rolfi, e l’assessore all’urbani-stica, Paola Vilardi, tengono infatti a precisare che «si trattava di un luogo di culto mascherato da centro culturale; un modo di agire a cui i rappresentanti di associazioni come questa vogliono abituarci, trasformando, come avveniva in viale Piave, scantinati e garage in centri di preghiera»8.

Il provvedimento ingiunge al centro culturale di utilizzare gli spazi rispet-tando la destinazione d’uso autorizzata (ovvero “magazzino”). E per limitare l’uso del garage a ciò per cui è stato costruito viene dichiarata l’inagibilità sulla base delle numerose irregolarità riscontrate: ambienti troppo piccoli, ac-cessi limitati, mancata messa a norma degli impianti. Certo, il garage-centro islamico non era propriamente a norma e non sussistevano «i requisiti di sicurezza, igiene e salubrità, risparmio energetico dei locali e degli impianti»; ma sembra, d’altra parte, che si sia trattato di una sorta di applicazione selet-tiva della legge, frutto di un “accanimento burocratico” [Allievi 2010, p. 99] che prende di mira determinati luoghi e non altri, applicando correttamente norme esistenti, ma in modo selettivo alle sole moschee (ma la stessa cosa si potrebbe dire per i kebab o i phone center), con lo scopo di chiuderle.

8 Cfr. “Viale Piave, è arrivata l’ordinanza anti-moschea”, bsnews.it, 30 marzo 2011, http://www.bsnews.it/notizia.php?id=7433.

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D’altra parte sembra che, a essere molto rilevante socialmente e molto presente nel dibattito pubblico intorno alla moschea, più che il tema tecnico dell’agibilità, sia il problema riconducibile alla vivibilità e alla sicurezza del quartiere. Ancora una volta è la portavoce del Comitato “Quartiere sicuro”, Sara Balsamo, a ricondurre l’opposizione alla moschea a una questione di accessibilità e vivibilità, in primis del palazzo e in secondo luogo del quar-tiere nel suo complesso. In un’intervista realizzata nel corso della ricerca, Balsamo ha dichiarato:

«[Un centro di cultura islamica] in questo specifico luogo è pericolosissimo, perché l’ingresso della moschea, l’ingresso dei garage, e l’ingresso del palazzo è tutto nell’area garage, quindi in questo spiazzo, che quando c’è il venerdì di preghiera, viene riempito completamente […]. Il problema non riguarda solo Brescia, riguarda tutta l’Italia, e sono più di 700 le situazioni di garage che hanno una destinazione d’uso magazzino e vengono usati come moschea, mettendo a rischio sicurezza pubblica di tutti, valutiamo perché. A me non risulta che ci siano tante chiese nostre dove ci sia sotto o sopra un intero palazzo di condomini».

La moschea costituirebbe un problema di sicurezza per cittadini che ri-siedono nei suoi pressi e che subirebbero le condizioni di degrado, disturbo della quiete pubblica ed eccessivo affollamento legate alla frequentazione del centro culturale islamico in particolare nei giorni e negli orari della preghiera.

Il caso della moschea di viale Piave presenta molti elementi in comu-ne con altri casi di opposizione locale alle moschee. Si può innanzitutto osservare che spesso si assiste a una sorta di paradosso della visibilità: non sono le grandi moschee, i grandi centri islamici (quelle che in Francia sono state chiamate mosquées cathédrales, contrapposte alle mosquées de proximité) a creare i maggiori problemi; anzi, luoghi di questo genere a volte diventano addirittura elemento di vanto e di attrazione, esibiti persino dalle autorità locali, come è accaduto a Rotterdam e a Barcellona. Sono piuttosto le pic-cole moschee, che ufficialmente non sono nemmeno tali, a suscitare tensioni e conflitti, spesso perché per volontà degli stessi fedeli o più spesso degli amministratori sono collocate in aree già degradate o periferiche, oppure in quartieri che hanno un’alta percentuale di immigrati residenti, verso i quali la popolazione autoctona esprime anche in altri modi atteggiamenti di intolleranza o di esclusione (e viale Piave a Brescia rientra certamente in questa casistica). Da un certo punto di vista, quindi, l’ostilità evidente contro le moschee di quartiere – fenomeno in crescita in quasi tutti i paesi europei – è un sintomo di una più generale difficoltà a rapportarsi alla popolazione immigrata. Come ebbero a dire già nel 1999 Zolberg e Litt

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Woon, l’Islam diviene una metafora dell’immigrazione e l’immigrazione una metafora di pericolo. Come si è visto per la questione del velo, anche nel caso dei conflitti sulle moschee si assiste allo scivolamento dal tema della religione a quello dell’immigrazione, attraverso il quale il nesso con la sicurezza ne esce rafforzato. Anche le interviste realizzate nel corso della ricerca confermano come nell’immaginario della popolazione locale spesso il fenomeno dell’immigrazione finisca col sovrapporsi e fagocitare le più limitate questione relative all’Islam, praticato solo da una parte degli immi-grati residenti. Alla domanda su quali fossero i problemi sociali principali del quartiere, Sara Balsamo risponde:

«Eh…gli extracomunitari, è il primo. È il primo e il fondamentale problema […]. Noi ci siamo ritrovati un quartiere invaso da persone prive di permesso di soggiorno, appartamenti che ufficialmente erano chiusi, intestati a italiani, che la notte vedevano un andirivieni che sembrava di essere in stazione. Questo è un danno enorme, perché in questo momento è difficilissimo af-fittare o vendere un appartamento in questa zona. C’è la moschea… C’è un’agenzia che ci ha contattato e fa “signora, noi abbiamo problemi, c’è la moschea, appena dico che è viale Piave dicono: c’è la moschea, no no, di lì ce ne andiamo”».

Da un certo punto di vista quindi la moschea va chiusa (o non ne vanno aperte di altre, come infatti prevede l’ultimo Piano di Governo del Territorio del Comune di Brescia) non perché si abbia un problema esplicito con la religione islamica, ma perché a far problema è l’immigrazione che sembra abbinarsi quasi naturalmente a insicurezza, degrado e invivibilità. Questo scivolamento pare in linea con la teoria delle broken windows citata nei para-grafi precedenti: taluni comportamenti contribuirebbero di per sé a creare un ambiente favorevole al crimine, anche se non costituiscono reato. A contare è piuttosto il senso di minaccia o di fastidio che suscitano nella popolazione autoctona, e la conseguente percezione di un aumento dell’insicurezza e del degrado. Da questo punto di vista, gli assembramenti di fedeli nell’ora della preghiera – anche se a detta degli stessi oppositori riguardano non più di un centinaio di persone nei momenti di maggiore frequentazione – sono più che sufficienti per suscitare la mobilitazione popolare.

Sotto certi aspetti, quindi, l’insicurezza urbana attribuita alla presen-za di moschee sembra intrinsecamente legata al fatto che siano luoghi di culto essenzialmente frequentati da immigrati. Sicuramente l’Italia, più di altri paesi europei, nonostante l’ormai consolidata presenza di altre religioni ed altre nazionalità, conserva una visione quasi ottocentesca da stato nazionale, in cui va mantenuta il più possibile intatta, per lo meno in

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apparenza, l’unità tra popolo, stato e territorio, e la supposta omogeneità di nazionalità, lingua e religione. Tuttavia pare esistere una specificità con-nessa alla religione islamica e ai suoi praticanti, e non ad altre componenti della popolazione immigrata. L’Islam viene con maggiore frequenza con-siderato come un’intrusione illegittima nell’Europa “cristiana” [Zolberg e Litt Woon 1999, p. 5]. Va citata a questo proposito l’ordinanza emessa nel comune di Rovato (BS) già nel 2000, attraverso cui veniva imposto il «divieto ai non professanti la religione cristiana di accedere ai luoghi sacri e di culto della predetta religione, in regime di reciprocità ed in attuazio-ne di protezione della morale giustificato dall’interesse pubblico». Veniva conseguentemente istituita «un’area di protezione e sicurezza pari a mt.15 lineari intorno ai luoghi sacri e di religione cristiani», in virtù della «ne-cessità di salvaguardare i valori cristiani dalla incessante contaminazione di altre religioni». Al di là della palese inapplicabilità del dispositivo, è interessante sottolineare l’uso del termine contaminazione, che rende bene l’idea di una presunta identità intatta e pura, da preservare [Cammarata 2012, pp. 160 ss.].

L’accento su questioni di sicurezza nazionale e terrorismo sembra molto più marcato nei confronti dei musulmani di quanto non lo sia nei confronti di fedeli di altre religioni. Per esempio, nella già citata conferenza stampa tenutasi in occasione dell’emanazione dell’ordinanza sulla moschea, gli as-sessori Rolfi e Vilardi dichiararono che «la diffusione di circoli culturali di carattere religioso può rappresentare un problema di sicurezza, anche in considerazione delle tensioni legate al mondo islamico organizzato, nel quale non mancano imam esaltati ed estremisti che fanno proselitismo proprio all’interno di questi centri culturali»9.

Il sospetto nei confronti degli immigrati di fede islamica li rende dei “sorvegliati speciali”, costantemente sottoposti a controlli e indagini, ancor più di quanto non lo siano gli altri immigrati. Nei confronti dei musulmani sembra essere diffusa una presunzione di inintegrabilità, oltre che di mag-giore rischio per la società ospitante. Questo può essere in parte legato a una maggiore “visibilità” pubblica degli immigrati di fede islamica, che li rende meno facilmente esposti a quella forma di “assimilazione attenuata” di cui parlano Zolberg e Litt Woon: «La “neutralità” dello stato, che consente agli immigrati che praticano un’altra religione di organizzarsi ma solo se lo fanno in modo tacito e persino in esplicita conformità ai modelli autoctoni, configura una sorta di assimilazione attenuata» [1999, p. 16].

9 Cfr. “Viale Piave, è arrivata l’ordinanza anti-moschea”, bsnews.it, 30 marzo 2011, http://www.bsnews.it/notizia.php?id=7433.

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Nel 2009 nel comune di Trenzano, sempre in provincia di Brescia, il sindaco Andrea Bianchi ha emesso un’ordinanza che mostra come questo clima di sospetto possa tradursi in dispositivi amministrativi. Questa ordinan-za – avente per oggetto «la disciplina delle riunioni pubbliche o in luoghi aperti al pubblico da parte di associazioni, comitati o enti che perseguono scopi culturali, religiosi o politici. Disposizioni congiunte in tema di ordine pubblico e sicurezza» – si distingue in parte da quelle adottate da altre am-ministrazioni comunali (tra cui, come si è visto, quella di Brescia). La sua particolarità è data dal fatto che, oltre alla previsione di specifici requisiti in materia di idoneità dei locali utilizzati, l’ordinanza elenca alcuni obblighi, tra i quali, in particolare, spiccano l’obbligo di preavviso per riunioni e cerimonie e l’obbligo di esprimersi, durante le stesse, unicamente nella lingua italiana. Anche se non esplicitata nel testo dell’ordinanza, che mantiene invece un generico riferimento a «riunioni pubbliche di associazioni, comitati o enti che perseguano scopi culturali, religiosi o politici», la sua finalità – sottolineata nel corso di un’intervista dall’avv. Massimo Gilardoni – sarebbe stata quella di «poter preventivamente conoscere il contenuto in questo caso dei sermoni che questi associati e aderenti alla fede islamica pronunciavano, recitavano in occasione, appunto, delle preghiere, soprattutto la preghiera del venerdì».

Proprio la paura che quel centro fosse o si trasformasse in una moschea illegale, con possibili rischi di infiltrazioni terroristiche, ha spinto il sindaco a emanare l’ordinanza, che imponeva obblighi e restrizioni solo apparente-mente universalistici, ma di fatto mirati a limitare l’esercizio delle confessioni religiose non cattoliche e, nello specifico, di quella islamica. Il presunto universalismo che caratterizza il nostro ordinamento, solo apparentemente rispettato dal testo dell’ordinanza, può essere sospeso quando si tratta di Islam e musulmani. L’obbligo di usare la lingua italiana nel culto – di cui si è molto discusso anche al di là del caso Trenzano – non vale per nessun altro, che siano «anglicani inglesi, luterani tedeschi, cattolici filippini, pen-tecostali nigeriani, ebrei, italiani che prediligono il latino» [Allievi 2010, p. 154]. Come fa notare ancora Allievi,

«lo stesso si può dire dell’ipotesi di costituzione di albi degli imam con auto-rizzazione preventiva: se un controllo è evidentemente ragionevole, portarlo a principio ci pone immediatamente di fronte al fatto che tali albi non esistono per preti, pastori, rabbini, anziani dei testimoni di Geova, predicatori di Scien-tology, guru e leader religiosi vari, e costituirebbero un’ingerenza negli affari interni delle comunità religiose impensabile se applicata ad altri» [ibidem].

È questo eccezionalismo dell’Islam ad apparire in tutta la sua evidenza nei casi di conflitti sulle moschee, così come nei dibattiti sull’uso del velo

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islamico. L’Islam e i musulmani sono considerati due volte “eccezionali”: in primo luogo perché assimilabili al mondo dell’immigrazione, e in secondo luogo perché associabili al fenomeno dell’estremismo e del terrorismo.

2.4. Quando religione vuol dire insicurezza

Il dibattito sull’Islam in Italia ha fatto spesso emergere posizioni semplificate e approssimative, che mostrano una scarsa conoscenza dell’Islam reale e del mondo dell’immigrazione; tale dibattito sembra piuttosto avere avuto una funzione identitaria ed assolutoria (noi siamo democratici, loro no) [Schmidt di Friedberg 2007, p. 107]. In questo quadro, si è visto come la dimen-sione locale assuma una particolare importanza, anche perché il nesso tra immigrazione e (in)sicurezza riguarda tra le altre cose la percezione di una minaccia all’identità locale e alla presunta omogeneità culturale e religiosa delle comunità.

Da un punto di vista argomentativo, poi, è interessante rilevare come i provvedimenti adottati – ma anche i discorsi pubblici dei diversi attori coinvolti – evidenzino il tentativo di mettere il più possibile tra parentesi ogni riferimento diretto alla religione per non incorrere apertamente in atti di discriminazione. Frequentemente nelle interviste, così come dei dibattiti consiliari e parlamentari intorno alle questioni del velo e delle moschee, tro-viamo affermazioni del tipo: «non sono islamofobico», «il burqa non c’entra niente con l’Islam», «non neghiamo che i musulmani debbano avere i loro luoghi di culto». Intenzioni dichiarate, che possono essere smentite dalle frasi successive, mantenendo intatto l’effetto di offuscamento prodotto da una simile strategia argomentativa. Allo stesso modo si tenta di esorcizza-re la questione della libertà religiosa richiamandosi a principi universali o nascondendo il vero target dei provvedimenti dietro un linguaggio neutro che sembra non identificare nessuna popolazione o classe in particolare. In questo modo tuttavia si rende ancora più evidente il nesso tra immigrazione e sicurezza: una volta sbarazzatisi dello scomodo oggetto “religione”, quello che resta sono le persone, ovvero gli immigrati.

I casi del velo e delle moschee mostrano un’interessante articolazione del tema della sicurezza. È con l’Islam che la Sicurezza con la “esse” ma-iuscola, la sicurezza di stato, torna prepotentemente sulla scena, anche se con una declinazione diversa rispetto a quella degli anni settanta. Questioni di ordine pubblico e rischi di estremismo, connessi al possibile proliferare di cellule e di infiltrazioni di carattere terroristico, tornano nuovamente alla ribalta, ma finiscono col riconnettersi in modo inedito al tema della sicurezza

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urbana e personale, soprattutto quando dal piano nazionale, della sicurezza internazionale e del governo delle migrazioni, si scende al piano locale del governo del territorio e del controllo delle persone. Il ritorno sulla scena della sicurezza pubblica, per come è stato presentato in questo capitolo, non sembra pertanto in contraddizione con un processo di “securitizzazione” che mette in relazione la stessa sicurezza pubblica alla sicurezza urbana. La securitizzazione, come processo di costruzione sociale, mostra uno sposta-mento «dalla protezione dello stato alla protezione della società, al punto che la protezione della società da qualsiasi “male” è diventato il pilastro del discorso sulla sicurezza in un modo che ha reso popolare lo stesso termine sicurezza in tutte le sfere della vita» [Kaya 2009, p. 8].

Ed è proprio attraverso questo processo che luoghi e individui pericolosi possono essere individuati preventivamente attraverso indicatori approssima-tivi, ma amministrativamente molto efficaci: l’appartenenza (vera o presunta) alla umma islamica, la frequentazione di un centro di preghiera, l’esibizione pubblica di un velo che potrebbe nascondere qualunque cosa. L’analisi delle politiche e dei dispositivi che hanno per oggetto il velo islamico e le moschee sembrano da questo punto di vista emblematiche.

3. Conclusioni

Diversi temi centrali nel dibattito politico ed elettorale sono sempre più fre-quentemente presentati entro l’ampio campo semantico definito dalla paro-la “sicurezza”, che riassume un insieme eterogeneo di fenomeni, pratiche, meccanismi e istituzioni, descritte come necessarie e capaci di affrontare e gestire forme ormai generalizzate di rischio. Ciò dà origine a una particolare “economia delle protezioni” i cui repertori argomentativi pubblici, spostandosi dal tema delle protezioni sociali a quello della protezione civile, semplificano e condensano i problemi complessi posti dalle insicurezze e li tematizzano in termini di minaccia, innescando così quelle richieste di misure eccezionali e urgenti che sono alla base dei processi di securitizzazione [Buzan et al. 1998].

Analizzando, nel recente dibattito politico italiano, il formarsi e trasfor-marsi del discorso pubblico riguardo a temi diversi – come quelli legati al governo dell’immigrazione, della criminalità, del disagio sociale, del degrado urbano, delle periferie e perfino della libertà di espressione religiosa – abbia-mo osservato l’emergere di una “ragione securitaria” che ha finito per giu-stificare e modellare le innovazioni politiche e legislative che, nella stagione delle ordinanze, hanno riguardato tutti questi diversi ambiti di intervento e regolazione politica, sia a livello nazionale che a livello locale.

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Nulla spiega, ad esempio, il clima di ostilità e di sospetto preventivo nei confronti dei migranti meglio dei timori prodotti da “minacce simboliche” (come quelle legate all’integrità nazionale e alla sicurezza della società); in-vece, l’impatto di dimensioni misurabili, come la percentuale di immigrati residenti in un certo territorio, il loro tasso di criminalità, la loro vicinanza/distanza culturale dagli autoctoni, il prodotto interno lordo e le condizioni economiche di un determinato paese, non sembrano avere una correlazio-ne certa e costante con la percezione negativa del fenomeno migratorio. Secondo d’Appollonia, si produce così una situazione circolare, tale per cui «gli immigrati sono percepiti come una minaccia alla sicurezza sulla base di paure alimentate da preoccupazioni di tipo meramente speculativo, relative a valori e identità» [d’Appollonia 2012, p. 47]. È proprio una simile circo-larità, che somiglia molto a una profezia che si autoavvera, a caratterizzare l’imporsi della “ragione securitaria” che abbiamo provato a descrivere in questo capitolo. Si tratta di fatti sociali che diventano dominio del registro argomentativo della sicurezza innanzitutto perché sono ridefiniti in termini di “pericolo” e di “rischio”, e sono così fatti oggetto di politiche dedicate. Questa dinamica non è certamente esclusiva del governo delle migrazioni. Molto spesso, come abbiamo visto, si riscontra un simile processo sia per quel che riguarda in generale l’estensione dei poteri dei sindaci in materia di sicurezza urbana, che nel caso particolare della presenza visibile di fedeli islamici nelle città italiane: questi diversi oggetti del dire e dell’agire politico hanno subito un’opera di re-framing utile a giustificare l’adozione di misure e azioni che eccedono rispetto ai normali confini dei provvedimenti politici. In quest’ottica la “securitizzazione” di una determinata questione pubblica è effetto di una pratica discorsiva che ne fa una questione di sicurezza non perché essa costituisca necessariamente un’effettiva minaccia, ma perché è detta e argomentata in questi termini. La “ragione securitaria” diventa il lin-guaggio corrente della politica e finisce con l’occupare un numero crescente di campi e settori, senza più bisogno di un ancoramento documentato alla realtà, se è vero – come è stato argomentato nel primo capitolo – che, in un’epoca di “frustrazione securitaria”, il raggiungimento di una maggiore sicurezza non contribuisce in realtà a ridurre il senso di insicurezza, ma piuttosto induce a individuare un numero crescente di “bersagli mobili” verso cui puntare l’attenzione.

A livello nazionale la ragione securitaria si è caratterizzata in particolare per il suo obiettivo prevalentemente strategico, ben esemplificato, ad esem-pio, dalle parole pronunciate dal ministro Maroni di fronte alla Commis-sione giustizia della Camera, quando ha affermato che prevedere un reato di “immigrazione clandestina” aveva soprattutto lo scopo di permettere di

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procedere più agevolmente a espulsioni immediate dei cittadini stranieri. Nella sua declinazione locale essa ha invece avuto per lo più obiettivi simbo-lici, legati a una certa retorica federalista e alla necessità dei sindaci e delle amministrazioni locali di mostrarsi capaci di intervenire efficacemente per risolvere i fenomeni (ordinari) di microcriminalità e di micro-conflittualità urbana. Ma un atto linguistico, come hanno ben spiegato Austin [1962] e Searle [1969], ha sempre un carattere performativo e produce effetti con-creti. In questo caso presentare fenomeni ordinari del governo urbano in termini emergenziali ha fatto sì che abbia finito per prendere il sopravvento il principio di prevenzione, quello per cui, come ha notato Sofsky, «si ridu-cono le libertà prima che siano minacciate» [2005, p. 155]. Lo sguardo si è concentrato in questo modo sui segni premonitori del pericolo, piuttosto che sulle sue cause, e le origini del disordine sociale e della “percezione di insicurezza” sono state attribuite, in termini di rischio, a soggetti, popolazio-ni, luoghi e situazioni particolari. Il discorso securitario mostra dunque tutte le caratteristiche di quello che Hacking [2007] ha chiamato “nominalismo dinamico” e presiede alla costruzione di nuove categorie di persone che presentano i caratteri di categorie morali.

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La sicurezza al tempo delle ordinanze. Potere locale e discorso pubblico

di Roberto Cammarata e Raffaele Monteleone 1

Introduzione

La stagione delle ordinanze sindacali e della loro diffusione virale come strumento di governo della sicurezza urbana è finita. La sentenza n. 115 emessa dalla Corte Costituzionale il 4 aprile del 2011 ha infatti limitato il potere dei Sindaci di emanare ordinanze a tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana ai casi in cui sussistano presupposti di contingibilità e urgenza, a condizione della temporaneità dei loro effetti e comunque nei limiti della concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare2.

Tuttavia, le ordinanze “riformate” hanno prodotto effetti che vanno al di là di quelli strettamente legati all’applicazione – più o meno efficace – dei dispositivi stessi. Le modifiche introdotte con il disegno di legge 92/2008 (il cosiddetto “pacchetto sicurezza”) convertito nella legge 125/2008 di modi-fica all’art. 54 del decreto legislativo 267/2000 (Testo unico sugli enti locali, TUEL) hanno attribuito allo strumento delle ordinanze sindacali nuovi po-teri e competenze facendogli assumere rilievo giuridico, politico e mediatico.

1 Gli autori hanno condiviso il lavoro di ricerca e di riflessione teorica all’interno dell’unità di ricerca dell’Università degli Studi di Milano coordinata da Giovanna Procacci. Raffaele Mon-teleone si è occupato in particolare dello studio di caso milanese, mentre Roberto Cammarata ha seguito quello bresciano. Raffaele Monteleone ha curato la stesura materiale dei paragrafi: Introduzione, 3.2.1, 3.3, 3.5, Roberto Cammarata quella dei paragrafi: 3.1, 3.2.2, 3.4, 3.6. Il pa-ragrafo 3.7 “Considerazioni conclusive”è stato scritto in modo congiunto da entrambi gli autori.

2 La pronuncia rivisita l’alveo dei poteri dei sindaci in materia di ordine pubblico e sicu-rezza, stabilendone una limitazione rispetto alle originarie previsioni del DLgs n. 267 del 18 agosto 2000, TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, come sostituito dall’art. 6 del DL 23 maggio 2008, n. 92, recante Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, convertito con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, della L. 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui consente che il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotti provvedimenti a “contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato”, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minaccino la sicurezza urbana, anche fuori dai casi di contingibilità e urgenza.

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Nella sua formulazione originaria, come abbiamo già visto nel capitolo precedente, l’art. 54 comma 2 del TUEL limitava il potere di ordinanza ai Sindaci, quali Ufficiali di Governo, in vista della tutela dell’incolumità dei cittadini, subordinandone l’esercizio alla presenza dei presupposti di “con-tingibilità” ed “urgenza” delle misure e specificando il carattere provvisorio degli effetti delle ordinanze, cui ricorrere esclusivamente in mancanza di altri mezzi adeguati alla tutela del pubblico interesse.

La nuova formulazione dell’art. 54 comma 4 del TUEL ha invece sta-bilito che: «Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minac-ciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana», introducendo elementi di significativa discontinuità col passato ed identificando due differenti tipologie di ordinanza. Accanto alle ordinanze contingibili ed urgenti, sono state in-fatti previste ordinanze a tutela della sicurezza urbana che potevano essere adottate dai Sindaci anche in difetto dei requisiti stringenti individuati in passato dalle disposizioni di legge.

Con l’aggiunta della congiunzione “anche”, il legislatore ha modificato nella sostanza significato e presupposti di emanazione delle ordinanze sin-dacali, trasformando atti considerati dalla giurisprudenza come extra ordi-nem in uno strumento ordinario per dettare discipline limitative anche non contingenti. In altre parole, da strumento extra-ordinario per la soluzione di problemi di natura emergenziale, le ordinanze sono divenute strumenti straordinari (e straordinari strumenti) per la soluzione di problemi ordinari, ovvero provvedimenti diretti alla disciplina di fenomeni riscontrabili gene-ralmente [Cassatella 2010, pp. 157-188].

In letteratura è riconosciuto come la nuova formulazione dell’articolo ab-bia aperto de facto la strada all’emanazione di ordinanze che non intervengono su situazioni eccezionali, ma piuttosto dettano prescrizioni di carattere genera-le, astratte e potenzialmente stabili nel tempo, che si qualificano come atti di eccezione permanente e diffusa che conferiscono ai Sindaci nuovi poteri, ampi e soggetti a discrezionalità [Corvaja 2010; Cassatella 2010; Lorenzetti 2010a].

Le ordinanze così concepite, in altre parole, si configuravano come un vero e proprio strumento ordinario per dettare discipline limitative, in alcuni casi con carattere di stabilità nel tempo, assumendo a volte un dichiarato intento anticipatorio rispetto ad iniziative legislative in corso, altre volte ponendosi invece in contrapposizione alle scelte dal legislatore [Corvaja 2010, pp. 45 ss.].

Il processo di attribuzione di nuovi poteri in materia di sicurezza urbana ai sindaci è stato simbolicamente sancito da una conferenza stampa del 5

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agosto 2008 dell’allora Ministro dell’interno Roberto Maroni, che dichiarava di attendersi da parte dei Sindaci «idee creative sulla sicurezza». Il discorso pubblico attorno alla questione della sicurezza urbana subirà significative trasformazioni con la conseguente proliferazione di provvedimenti a livello locale. In effetti, da quel momento le ordinanze sindacali conosceranno una diffusione senza precedenti, regolando le materie più disparate. Saranno impiegate, ad esempio, per disciplinare l’abuso di sostanze stupefacenti e di bevande alcoliche, l’accattonaggio e il bivacco, i graffiti, la prostituzione, persino l’utilizzo della lingua italiana nel corso di riunioni pubbliche e l’ob-bligo di carta o permesso di soggiorno per contrarre matrimonio, l’orario di apertura di pubblici esercizi all’interno di contesti territoriali perimetrati, la cessione in locazione di immobili privati, l’accesso e l’uso di luoghi adibiti a riti e funzioni religiose.

Come abbiamo visto nel primo capitolo, considerare e ricomprendere nella categoria “sicurezza” le innumerevoli e diverse materie disciplinate dalle ordinanze ha finito con il dilatare a dismisura l’ambito di riferimento e di applicazione di questo concetto, fino a trasformarlo in un “contenitore” tautologico e onnicomprensivo capace di attrarre, assimilare e semplificare temi e problemi tanto eterogenei quanto complessi. Il discorso securitario è divenuto un potente sistema di framing, composto di pratiche discorsive e non, con una tendenza egemonizzante sul dibattito e l’azione pubblica in grado di alimentare indefinitamente la stessa domanda di sicurezza. Le con-seguenze di questo sfondamento securitario vanno oltre il portato e l’efficacia delle stesse ordinanze, con effetti e implicazioni per la qualità dell’argomen-tazione e dell’intelligenza pubblica su problemi di rilevanza collettiva che discuteremo in queste pagine. La stagione delle ordinanze ha prodotto difatti trasformazioni significative e persistenti sulle ragioni e le stesse categorie per pensare le politiche, con caratteristiche e dinamiche per certi versi inedite che meritano di essere analizzate. In questo capitolo tracceremo alcune linee interpretative che saranno sviluppate e approfondite con riferimento a due casi di studio sui quali si è concentrata la nostra ricerca.

1. Il discorso delle ordinanze: caratteristiche, dinamiche ed effetti per l’argomentazione pubblica

Già ad una prima e superficiale osservazione delle caratteristiche che as-sume il discorso pubblico generato dalle ordinanze, risulta evidente come il loro semplificato iter di emanazione consenta di eludere i meccanismi di controllo propri del dibattito politico che solitamente precede l’emanazione

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di provvedimenti normativi e che rende più qualificata l’argomentazione pubblica attorno ad essi. Il confronto attorno alla necessità e ai contenuti dell’ordinanza si consuma, infatti, nell’ambito di arene diverse rispetto a quelle assembleari e pluraliste della rappresentanza democratica. I tempi e le modalità non sono prevedibili e rispondono a logiche diverse dal dibattito tra posizioni differenti come dovrebbe garantire il confronto sull’opportunità e l’efficacia delle disposizioni, discutendo presupposti e nessi tra problemi e soluzioni. Il confronto avviene solitamente in sede tecnico-politica, tra il Sindaco (o l’assessore competente) e i responsabili del Settore sicurezza dell’amministrazione (comandante della Polizia locale e tecnici di settore) ed eventualmente, ma non necessariamente, nell’ambito politico ristretto della Giunta comunale. Il confronto tecnico frequentemente si traduce nell’asse-gnazione da parte del Sindaco o dell’Assessore alla sicurezza di un mandato di stesura del testo dell’ordinanza al responsabile di settore e in un confronto con la dirigenza amministrativa (Direttore generale e/o Segretario comu-nale) in merito alla correttezza formale del provvedimento da assumere. Di fatto, spesso, tale iter risulta essere particolarmente breve, limitandosi alla traduzione in norma della volontà di un singolo amministratore pubblico di incidere in un determinato settore della vita pubblica (e privata) con effetti più o meno diretti nell’ambito dell’ordine pubblico o della sicurezza. Nei contesti dei piccoli Comuni di provincia, si riscontrano anche esperienze di stesura congiunta dell’ordinanza da parte del Sindaco o dell’Assessore competente con i responsabili tecnici di settore, dove i primi si occupano del corpo dei principi o “valori” che intendono esprimere e dell’esplicita-zione degli obblighi o dei divieti, mentre ai secondi viene lasciato il compito del confezionamento formale e dell’esplicitazione dei riferimenti normativi pertinenti.

L’utilizzo dello strumento ordinanza elimina quindi, di fatto, la necessità di mantenere quel livello di complessità e qualità argomentativa che dovreb-be essere necessario quando si tratta di assumere decisioni basate su inter-pretazioni di fatti sociali complessi e che toccano direttamente la vita della collettività e dei singoli. Se non c’è un contradditorio, se non c’è un’arena pubblica istituzionale in cui confrontare diverse letture della realtà e diverse proposte di soluzione ai problemi sociali, è evidente che chi è responsabile della stesura dei testi può – almeno in prima battuta – non preoccuparsi troppo della coerenza, dell’efficacia e della tenuta logico-formale del discorso interno ai provvedimenti con cui interviene d’imperio sul trattamento di problemi di rilevanza pubblica.

Proprio per questo la legge prevede uno stringente obbligo di motivazio-ne del provvedimento. Già lo prevedeva riguardo alla fattispecie del potere di

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ordinanza come previsto ante 2008, in quanto configurato nell’ordinamento come un potere straordinario (extra ordinem) esercitabile in deroga ai principi di stretta legalità, tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi, con rilevanti ricadute su libertà e diritti garantiti. Tanto più tale obbligo avrebbe dovuto essere interpretato come stringente nella nuova versione del potere di ordinanza in materia di sicurezza urbana introdotta nel 2008 che, togliendo allo stesso il carattere di straordinarietà dovuto alla necessaria con-tingibilità e urgenza delle ragioni del suo utilizzo, rendeva di fatto ordinario il potere esercitabile in deroga ai principi suddetti. Molti Sindaci, invece, hanno interpretato tale facoltà come «esonero dalla stessa individuazione dei presupposti concreti della propria azione» [Cassatella 2010, p. 173], tanto che è opinione comune nella dottrina ritenere buona parte di quei provve-dimenti carenti proprio dal punto di vista dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione secondo i canoni previsti dalla legge.

Dalla nostra prospettiva, ciò che più conta è il sottrarsi a quella che Romano Tassone ha chiamato la “funzione democratica” della motivazione, ritenendo che «l’indicazione delle ragioni del provvedere sia essenziale per rendere edotto il cittadino – cives – delle scelte compiute dall’amministra-zione, anche in vista di un controllo diffuso della sua attività» [Romano Tassone 1987, p. 52]. Assolvere tale obbligo significa fornire al cittadino «le espresse ragioni della decisione, in vista della loro discussione e critica, oltre che della formazione di un’opinione pubblica in argomento». Come sostie-ne Cassatella [2010, p. 162], tale funzione assume rilevanza più sul piano sociologico che su quello strettamente giuridico, in quanto la motivazione puntuale dell’ordinanza viene a costituire «il banco di prova della serietà delle misure adottate dal Sindaco di fronte all’uditorio pubblico», e ciò risulta tanto più necessario quanto più le scelte si presentano cariche di politicità.

È anche grazie a questa interpretazione impropria di questo nuovo potere, inizialmente concesso alle autorità locali da chi aveva il diritto/dovere di un controllo sulla legittimità del suo utilizzo (si veda in proposito l’indulgenza manifestata a riguardo dalle Prefetture), che numerosi Sindaci hanno colto l’occasione per evitare o ridurre ai minimi termini il dibattito pubblico nelle fasi di ideazione, redazione ed emanazione delle ordinanze, dando origine in molti casi a disposizioni manifestamente infondate, illogiche o, dal punto di vista giuridico, palesemente illegittime, che hanno potuto comunque essere emanate e produrre, per un certo tempo, i loro effetti.

In molti casi i contenuti delle ordinanze sono stati anticipati a mez-zo stampa poco prima che il sindaco avesse materialmente firmato l’atto. Questo momento spesso coincide con, o segue come risposta immediata (non solo istantanea, ma soprattutto non mediata), quello della costruzione

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pubblica del problema e si presenta come una dimostrazione di efficienza politico-amministrativa: pronta individuazione e messa in atto delle risposte che si ritengono più adeguate per eliminare o ridurre l’insicurezza reale o percepita dovuta al fenomeno che si intende contrastare. L’arena mediatica tende così a sostituire quella istituzionale come spazio in cui si produce il discorso pubblico attorno alla necessità, ai contenuti e ai possibili effetti del provvedimento. Il discorso pubblico che caratterizza questo contesto comunicativo assume il più delle volte la forma della contrapposizione tra le posizioni dei proponenti o estensori del provvedimento, che ne difendono le ragioni, e quelle di chi vi si oppone. I motivi degli oppositori possono essere di volta in volta specifici o generali, dove trovano spazio tanto le posizioni di portatori (individuali o collettivi) di interesse “toccati” dall’or-dinanza (ad esempio i commercianti e le loro rappresentanze di categoria), quanto le posizioni di associazioni o movimenti di cittadinanza attiva che, in particolare sugli aspetti che chiamano in causa effetti di tipo discrimi-natorio, si mobilitano per contrastarla. Solitamente questo dibattito prende forma all’indomani dell’emanazione dell’ordinanza o tutt’alpiù all’indomani dell’anticipazione della decisione già assunta dal Sindaco di procedere con la sua emanazione. A quel punto, il confronto non ha alcuna funzione di condivisione e/o controllo preventivi sulla sussistenza delle condizioni di necessità, sulla rispondenza a principi e norme sovraordinate, o sugli esiti attesi dal provvedimento. In generale, si registra la tendenza del dibattito a strutturarsi come contrapposizione tra opinioni favorevoli e contrarie, in molti casi argomentate in modo semplicistico e con ancoraggi espliciti a posizioni ideologiche, in altri, al contrario, particolarmente ricche di riferi-menti a dati, esperienze dirette e saperi esperti.

Una delle principali conseguenze della scarsa o cattiva qualità dell’ar-gomentazione riscontrabile nei processi di adozione e nei testi di questi provvedimenti è l’incremento dell’argomentazione ex post, quella che prende avvio solo successivamente alla loro emanazione. Tutta la stagione delle or-dinanze è stata caratterizzata, in effetti, da un significativo spostamento del dibattito pubblico sulla sicurezza, dal periodo precedente, a quello successivo all’emanazione dei provvedimenti.

Il discorso pubblico che prende forma solo a ordinanza adottata, oltre che nell’arena mediatica, si sviluppa in modo particolare dentro e attorno a un’arena istituzionale non politica, quella giudiziaria. Ne è prova il sorpren-dente numero di ricorsi che, in conseguenza della scelta delle organizzazio-ni di cittadinanza attiva di impugnare i provvedimenti in sede giudiziaria, hanno portato all’annullamento di numerose ordinanze, ben prima che la citata sentenza della Corte Costituzionale ne decretasse la fine. Si è assistito

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pertanto a una giuridicizzazione del discorso pubblico, che si riverbera non solo sul testo delle ordinanze (con abbondanza di riferimenti a sentenze pre-gresse e argomentazioni esplicitamente tese a evitarne conseguenze negative in termini di validità dell’atto), ma anche e soprattutto su quanto avviene in seguito alla sua adozione. In altre parole, il discorso pubblico si è spostato dal tema dell’efficacia delle azioni a quello della legalità dei provvedimenti che le hanno istituite, con effetti significativi per la validità degli stessi. Que-sto rapido processo di giuridicizzazione del dibattito e dell’argomentazione pubblica attorno al tema della sicurezza urbana si è esteso anche alla sfera del dibattito mediatico e a quella del confronto politico, alimentandole.

In questo senso, si può dire che la diffusione delle ordinanze, da un lato, ha prodotto un impoverimento del dibattito pubblico e una svaluta-zione delle sedi politico-istituzionali in cui si dispiegava tradizionalmente l’argomentazione e il confronto tra diverse parti sociali e, dall’altro lato, ha reso maggiormente centrali altre sedi di confronto e dibattito – come quel-la giudiziaria – che, sebbene anch’esse pubbliche e istituzionali, implicano una trasformazione del registro dell’argomentazione in senso maggiormente “tecnico” e meno “politico”.

Ed è proprio sul crinale tra natura “tecnica” e “politica” del discorso che si possono avanzare alcune altre considerazioni in termini di qualità dell’argomentazione. Da un lato, infatti, è nella natura stessa di un atto amministrativo come l’ordinanza presentarsi con uno stile argomentativo di tipo tecnico e giuridico, anche quando la genesi e l’intento dei provvedimenti sono chiaramente di tipo politico, nel senso più stretto di produzione del consenso politico. Da questo punto di vista, già diversi osservatori hanno evi-denziato come le motivazioni delle ordinanze spesso disattendano i principi generali dell’ordinamento, ovvero quelli di ragionevolezza, proporzionalità e coinvolgimento dei potenziali destinatari delle misure (principio dell’audi alte-ram partem) [Cassatella 2010, p. 169]. I riferimenti alle risultanze di istruttorie preliminari sono anch’essi spesso generici, con richiami ad accertamenti, segnalazioni e valutazioni poco precisi e non trasparenti. Dall’altro lato, però, sono proprio la genesi e l’intento prettamente politici che incidono fortemente e negativamente sulla qualità tecnica dell’argomentazione. Come scrive Cassatella [2010, p. 172] spesso «i Sindaci legittimano, attraverso il ricorso ad un linguaggio e stile espositivo marcatamente atecnico, vicino alle suggestioni del linguaggio politico, alcune scelte effettuate nell’interesse della collettività». In questo senso, come si è detto, è proprio dall’argomentazione interna ai documenti (e dal discorso pubblico che si sviluppa attorno ad essi) che si palesa come molti di questi provvedimenti rispondano più a logiche di marketing politico e di costruzione del consenso elettorale, piuttosto che

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agire come reali strumenti di deterrenza di fenomeni che generano reale insicurezza [ivi, p. 164-165].

Come avremo modo di vedere con riferimenti ai casi studio della nostra ricerca, ciò risulta di particolare evidenza laddove agli obiettivi esplicitati a motivazione del documento si sommano obiettivi diversi, impliciti non solo nel particolare dispositivo, ma anche più in generale nella concezione stessa dello strumento dell’ordinanza. Sono obiettivi che l’argomentazione ufficiale elude o cela dietro quelli esplicitati, che in generale però riemergono nel discorso pubblico, nella sua articolazione complessa e circolare tra le are-ne tecniche, politiche, giudiziarie e mediatiche. Vediamo allora come ciò è avvenuto nella recente esperienza concreta di due città lombarde: Milano e Brescia.

2. Fare sicurezza con le ordinanze: potere locale e argomentazione pubblica a Milano e Brescia

La nostra ricerca si è concentrata sull’analisi dell’argomentazione pubblica sviluppatasi a partire dall’adozione di alcune ordinanze in materia di sicu-rezza urbana in due distinti contesti: la città di Milano e quella di Brescia. L’indagine ha riguardato tanto l’argomentazione “interna” ai testi delle or-dinanze, quanto il discorso pubblico che esse hanno generato o contribuito ad alimentare e mettere in forma, tenendo sotto osservazione in particola-re le trasformazioni nelle rappresentazioni e nelle pratiche di esercizio del potere locale generate dalla loro introduzione come strumenti di governo della sicurezza urbana.

Presentiamo di seguito i contesti analizzati e le disposizioni adottate dalle rispettive amministrazioni comunali, attraverso la discussione di quattro distinte chiavi interpretative sul rapporto tra qualità dell’argomentazione pubblica e potere locale, suscettibili di dare risalto ad alcune delle principali metamorfosi e torsioni che hanno caratterizzato la cosiddetta “stagione delle ordinanze”.

La prima riguarda la costruzione di problemi e soluzioni nelle ordinanze e nel discorso sulle ordinanze; la seconda attiene al rapporto tra i processi di elaborazione dei provvedimenti e loro appropriatezza nella regolazione delle specifiche materie su cui intervengono; la terza presenta e discute le implicazioni di una modalità emergente di “governo attraverso le ordinan-ze”; la quarta e ultima chiave interpretativa, infine, si concentra sull’uso dell’ordinanza come strumento di governo demagogico e immediato (non mediato) e su come, nella sfera pubblica, si organizzino (e contrappongano)

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elementi di consenso e dissenso attorno alle disposizioni amministrative e alle issue che incorporano e veicolano.

2.1. Il “caso” di via Padova e le ordinanze anti-degrado e per la sicurezza urbana a Milano

Il 13 febbraio del 2010 un giovane egiziano di 19 anni Hamed Mamoud El Fayed Adou (detto Aziz) viene accoltellato e ucciso da un cittadino peru-viano durante una lite in via Padova davanti all’ingresso del Parco Trotter. È il tragico epilogo di una discussione tra alcuni giovani nordafricani e sudamericani iniziata su un autobus della linea 56. Poco dopo la morte del ragazzo, in via Padova si scatenano disordini, un centinaio di connazionali di Aziz danneggerà attività commerciali gestite da cittadini sudamericani, segnaletica stradale ed automobili, sino a scontrarsi con la polizia intervenuta per riportare sotto controllo la situazione.

Sembra che la rabbia sia esplosa per la lentezza nei soccorsi prestati al giovane e perché, una volta costatatene il decesso, nell’attesa del magistrato di turno non sarebbe stato consentito dar seguito al rito funebre islamico che prevede la purificazione del defunto in tempi rapidi.

Via Padova, la strada in cui si consuma il delitto di Aziz, si trova nell’area nord-est della città all’interno di una porzione di territorio delimitata da due grandi arterie di collegamento tra il centro di Milano e la periferia: viale Monza e via Palmanova. È una lunga via rettilinea facilmente percorribile a piedi, caratterizzata dalla elevata presenza di attività commerciali, vicina al centro città, ben servita dalla rete dei trasporti pubblici, in cui sono molto radicati la presenza e l’attivismo della società civile, del tessuto associativo e di realtà del privato sociale.

È un ambito territoriale storicamente meta di flussi migratori prima interni e, a partire dagli anni Ottanta, provenienti da paesi stranieri. Se-condo i dati del settore Statistiche del Comune di Milano, dal 1997 al 2009 gli stranieri regolari residenti nell’area sono passati da 747 unità a 3.308, senza dar luogo a fenomeni di segregazione per paese di provenienza. Nel quartiere la varietà delle tipologie edilizie è composita, mentre la presenza di edilizia residenziale pubblica assai ridotta. La proprietà degli immobili è articolata e offre una quota consistente di alloggi dati in locazione, so-prattutto di taglio medio piccolo [Arrigoni 2010, pp. 163-189]. Secondo una ricerca condotta dal Comitato di cittadini Vivere Zona 2, su 438 attività commerciali censite solo 111 sono di proprietari stranieri e, allo stato attuale, i commercianti italiani controllano le attività più qualificate

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e redditizie3. Le scuole pubbliche del quartiere hanno una percentuale di alunni stranieri che varia dal 40% al 48%, tuttavia questa percentuale è costituita per il 90% da alunni nati in Italia.

Nelle ore immediatamente successive alla morte di Aziz e agli scontri nel quartiere, iniziano le attività di framing sui “fatti di via Padova”. Il vice-sindaco di Milano con delega alla sicurezza, Riccardo De Corato, è il primo a prendere la parola di fronte alla stampa: il grave fatto di cronaca diviene la prova dello stato di emergenza prodotto dai flussi migratori: «Credo che il migliore termine per rappresentare la situazione che si è determinata in via Padova sabato sera è quello di Far West tra bande di nordafricani e sudamericani. […] Questo accoltellamento testimonia che i numeri dell’im-migrazione quando sono troppo alti è difficile governarli». (Corriere della sera, 13 febbraio 2010).

A queste parole fa seguito l’immediata presa di posizione di Matteo Salvini, eurodeputato e capogruppo della Lega nord al Consiglio comunale di Milano, che inscrive quanto accaduto nel quadro del dibattito politico nazionale e suggerisce la linea di intervento dei “rastrellamenti”: «Ho già segnalato al ministro Maroni questa situazione di emergenza, occorrono controlli ed espulsioni casa per casa, piano per piano» (ibidem). Lo stesso Salvini propone di introdurre nel nostro ordinamento una norma analoga alla legge Koller, una legge svizzera che regola attraverso un sistema di quote cantonali la vendita delle case agli stranieri non residenti per salvaguardare il consumo di suolo. L’idea di Salvini è, però, di impedire l’acquisto di immo-bili ed esercizi commerciali a tutti gli stranieri (compresi quelli residenti): «se per esempio nel quartiere cinese di via Paolo Sarpi si impedisse di compare casa e negozi a chi viene da fuori Italia ci sarebbero meno problemi». (Il Sole24Ore, 16 febbraio 2010).

Due giorni dopo l’omicidio di Aziz il centrodestra organizzerà in via Padova una fiaccolata «di solidarietà ai residenti e ai negozianti» cui pren-deranno parte alcuni parlamentari. Gli slogan dei manifestanti hanno come bersaglio clandestini e magistrati, questi ultimi accusati di non applicare le norme sulle espulsioni introdotte con la legge Bossi-Fini. Dal 16 febbraio, anche alcuni talk show politici sulle reti televisive nazionali dedicheranno spazio a questa vicenda, che sarà in alcuni casi impropriamente collegata alla rivolta dei braccianti di Rosarno e alle émeutes nelle banlieues francesi.

L’argomentazione pubblica che segue i fatti di via Padova sarà scandita dagli incessanti comunicati stampa del vicesindaco Riccardo De Corato.

3 La ricerca a cui si è fatto riferimento può essere consultata al seguente indirizzo: http://www.ilponte.it/ricerca%20via%20padova.pdf

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Modalità, tono e stile comunicativo dei comunicati stampa hanno come modello di riferimento diretto i bollettini di guerra e continueranno a ritmo sostenuto, rafforzando il framing interpretativo della prima ora, proponendo una qualificazione di problemi e soluzioni costante nel tempo. Per interve-nire sui problemi di sicurezza del quartiere, il 18 marzo saranno annunciate due ordinanze “per contrastare il degrado urbano e tutelare la sicurezza e la legalità nell’ambito territoriale via Padova-parco Trotter”, attraverso la regolamentazione degli orari di apertura e chiusura di diverse categorie di esercizi commerciali e il controllo dei requisiti di agibilità e igiene degli immobili offerti in locazione4.

Il comunicato stampa che accompagna la loro introduzione precisa che l’obiettivo dell’ordinanza sindacale 14/2010 sull’orario di apertura delle attività commerciali è: «ridurre i problemi di sicurezza urbana e di ordine pubblico che si verificano spesso a tarda notte, fuori dai pubblici esercizi. Situazione confermata dai continui reclami dei cittadini e dagli interventi delle Forze di Polizia». L’ordinanza 15/2010 relativa ai contratti di locazione vuole invece «prevenire il sovraffollamento abusivo negli appartamenti dati in affitto o in uso e […] poter identificare in ogni momento le persone che li occupano».

2.2. Le ordinanze bresciane contro il degrado e per la sicurezza al Carmine e alla Mandolossa

Il 7 e il 13 dicembre del 2010 il sindaco di Brescia Adriano Paroli emette due ordinanze che hanno per oggetto «Misure relative ad attività economi-che, atte a prevenire e contrastare il degrado urbano nonché a tutelare la sicurezza urbana e l’incolumità pubblica» in due differenti zone della città: la prima riguarda «il complesso commerciale S11 di via Valsaviore-Via Val-camonica» nella zona della Mandolossa; la seconda è rivolta alla «zona S. Faustino-Rua Sovera-Battaglie», il cuore del quartiere del Carmine. Le due

4 Più precisamente le ordinanze sono: la n. 14 del 18 Marzo 2010 recante “Misure relative ad attività economiche atte a prevenire e a contrastare il degrado urbano, nonché a tutelare la sicurezza urbana e l’incolumità pubblica nell’ambito territoriale denominato via Padova-Parco Trotter” e la n. 15 del 18 Marzo 2010 recante “Misure atte a prevenire e contrastare il degrado urbano nonché a tutelare la sicurezza urbana e l’incolumità pubblica nell’ambito territoriale denominato via Padova-Parco Trotter”. I provvedimenti vengono presentati come disposizioni sperimentali ed entrano in vigore il 25 marzo 2010 con validità inizialmente fissata sino al 31 luglio 2010, saranno poi prorogati sino al gennaio del 2011 con alcune modifiche sulla definizione dei territori soggetti a queste disposizioni.

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ordinanze impongono, rispettivamente per un periodo di 6 mesi la prima e di 4 mesi la seconda, delle restrizioni agli orari di apertura di esercizi pub-blici e attività commerciali nella zona individuata, con orari differenziati a seconda del tipo di attività.

Si tratta di due zone molto diverse tra loro, non solo da un punto di vista urbanistico. La prima è sostanzialmente un anonimo piazzale lungo una delle arterie viarie esterne al centro cittadino, dove insiste un complesso commerciale caratterizzato da un’intensa frequentazione serale e notturna, dovuta alla storica presenza di diversi esercizi di produzione e sommini-strazione di alimenti e bevande, con apertura fino alle prime ore del matti-no. È luogo di ritrovo di discotecari affamati in cerca dell’ultimo spuntino notturno, circondato da benzinai, capannoni artigianali e concessionarie di automobili. Un luogo che cambia faccia e presenze dal giorno alla notte, quando la laboriosa piccola impresa lascia spazio ai nottambuli del diverti-mento, con tanto di nutrita presenza di prostitute lungo le strade.

La zona oggetto della seconda ordinanza è invece una porzione di un quartiere del centro storico cittadino, il Carmine, quartiere popolare che ha subìto nelle ultime decadi una forte redistribuzione in senso multietni-co della popolazione residente e della presenza commerciale. Oggi, chiusa la stagione delle ordinanze, il Carmine è al centro di un nuovo processo di trasformazione che lo sta portando ad essere il quartiere dell’arte (con l’apertura di numerose gallerie di arte contemporanea), della cultura (con la presenza particolarmente attiva di una sala polifunzionale – ex cinema a luci rosse – che ospita rassegne cinematografiche, spettacoli teatrali, con-certi ed eventi culturali di ogni tipo), delle culture (con le oltre 60 diverse nazionalità presenti) e ora della nuova movida bresciana, grazie all’apertu-ra di numerosi locali “di tendenza”. Nelle cronache locali, il Carmine è oggetto di svariate definizioni, che possono sembrare contraddittorie tra loro, ma che riflettono in realtà le tante anime di un quartiere complesso e particolarmente vitale. Si passa così dal quartiere malfamato e insicuro al «laboratorio reale di intercultura», dal felice esperimento di convivenza a «ghetto abitato e frequentato da spacciatori e scippatori». (Corriere della Sera – Brescia 03/06/2012 e 21/06/2012)

Cosa hanno quindi in comune queste due zone così diverse tra loro, per essere accomunate da provvedimenti analoghi di restrizione degli orari di apertura degli esercizi pubblici e delle attività commerciali presenti? Sicu-ramente una frequentazione serale e notturna fattore di potenziale disturbo della quiete pubblica; una storica presenza (anche se non esattamente nelle porzioni di vie oggetto del provvedimento) di attività di prostituzione e di spaccio di stupefacenti, che le porta a condividere la definizione di “zone

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degradate”; e la presenza di attività commerciali gestite da stranieri, cosa che, come vedremo, ha fatto parlare di provvedimenti mirati a colpire pro-prio la loro presenza.

3. La costruzione dei problemi nelle ordinanze e nel discorso sulle ordinanze: semplificazione,

banalizzazione, inevitabilità

Le ordinanze sindacali sono strumenti amministrativi redatti facendo riferi-mento ad un formato piuttosto standardizzato e rigido: di norma il registro utilizzato è burocratico e tecnico, mentre da un punto di vista logico il testo delle disposizioni è scandito in tre sezioni: premessa, argomentazione, conclusioni. Nella premessa, introdotta dall’espressione “visto che…”, viene descritto in termini generali il fenomeno o problema su cui si intende interve-nire. Nella sezione del documento aperta dall’espressione “considerato che…”, viene invece qualificato in modo più preciso il fenomeno e argomentate le motivazioni che giustificano l’introduzione delle disposizioni amministrative. Nelle conclusioni si “ordina che...”, presentando soluzioni ed interventi che sostanzieranno l’atto amministrativo.

Come abbiamo accennato, sebbene le ordinanze in quanto tali non ne-cessitino di molta argomentazione, i nuovi poteri e competenze attribuiti a questo strumento dalle modifiche di legge richiederebbero di giustificare con maggiore puntualità le motivazioni su cui si fondano gli atti ammini-strativi a tutela della sicurezza urbana, tanto più che possono essere adottati dai Sindaci anche in difetto dei requisiti di contingibilità e urgenza, essen-do venuta a cadere la “causa di forza maggiore” che ne rappresentava la giustificazione. La nostra ricerca ha rivelato al contrario come i temi e i problemi che pertengono alla sicurezza urbana vengano tematizzati nelle ordinanze attraverso schemi semplificanti poveri di argomentazione e usati in modo ricorsivo: in questo modo, uno strumento tecnico che dovrebbe essere discrezionale e flessibile, diviene di fatto rigido e standardizzato nelle modalità di qualificazione di problemi e soluzioni. Come abbiamo già avuto modo di anticipare, l’obbligo di motivazione delle ordinanze imporrebbe, al contrario, l’onere di dimostrare la necessità di introdurre specifiche disposi-zioni per regolare un altrettanto specifico fenomeno suscettibile di mettere in pericolo la sicurezza urbana.

La tutela del decoro urbano e il contrasto del disordine sociale sono gli argomenti principali al centro delle ordinanze milanesi e bresciane, che intervengono su elementi che alimenterebbero il senso di insicurezza dei

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cittadini e potrebbero costituire minacce, fattori di rischio o condizioni crimi-nogene. Il pericolo non è dunque interpretato come l’effetto di un evento o di condotte individuati in modo puntuale, si interviene piuttosto in termini di anticipazione sulla presunta “pericolosità” di condotte, popolazioni, territori.

In generale può essere ricostruita una sequenza standard nella costru-zione dei problemi regolati dalle ordinanze (problem setting): le situazioni di degrado urbano favorirebbero fenomeni criminosi con risvolti per l’ordine pubblico. Questa catena causale viene assunta come un dato naturale e presentata nella sua inevitabilità senza essere argomentata (su inevitabilità e naturalizzazione si vedano, in questo volume, i contributi di de Leonardis e Giorgi e di Polizzi e Mozzana).

Così, nella premessa della cosiddetta “ordinanza affitti” milanese, le situazioni di degrado urbano che pure non vengono definite, paiono ine-vitabilmente connesse a fenomeni criminosi con sicuri risvolti per l’ordine pubblico: «Vista la necessità di prevenire e contrastare tali situazioni di de-grado che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi, quali spaccio di sostanze stupefacenti, risse, assembramenti, danneggiamenti, con conseguenti risvolti sull’ordine pubblico». Nell’ordinanza bresciana che impone restrizioni all’orario di apertura degli esercizi commerciali nel quartiere del Carmi-ne, invece, la qualificazione del degrado urbano viene esplicitata e sarebbe cagionata dalle «precarie condizioni degli immobili», «dall’aggregazione spontanea a tutte le ore attorno agli esercizi commerciali, in particolare di gruppi di cittadini prevalentemente extracomunitari», oltre che da reati o «episodi criminosi» (quali l’abusivismo commerciale, il traffico di sostanze stupefacenti e in particolare le violazioni delle leggi sull’immigrazione). Da tale degrado conseguirebbero, secondo la scansione standard, pericoli per la «sicurezza urbana», favorendo «l’insorgere di fenomeni criminosi». Stan-do al testo dell’ordinanza, quindi, in quel quartiere il susseguirsi di «epi-sodi criminosi» (elementi costitutivi del degrado) favorirebbero l’insorgere di «fenomeni criminosi» (motivi dell’insicurezza), per cui risulta necessario intervenire sui primi per «prevenire l’aggravarsi» dei secondi. Il degrado cioè non sarebbe nulla di diverso dall’insicurezza, ma viene costruito come categoria a se stante che individua e definisce il problema e giustifica l’in-tervento normativo come soluzione.

Nella motivazione dell’ordinanza “affitti” milanese, l’omicidio di Aziz viene mobilitato per giustificare la necessità d’intervento sull’intero conte-sto perimetrato (l’ambito territoriale Padova-Trotter) e collegato in modo forzoso, e non argomentato, alla cessione di immobili in affitto a cittadini stranieri «come risulta anche dai recenti fatti di cronaca che si sono ma-nifestati nell’ultimo mese; valutati gli effetti devastanti del fenomeno sulla

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sicurezza urbana della suddetta zona, conclamati tra l’altro anche da efferati episodi criminali […], oggetto di grande attenzione da parte degli organi mass mediatici e che sono causa di allarme sociale nella popolazione; dette situazioni sono in parte riconducibili al fenomeno della cessione in uso ille-gittimo degli immobili, con conseguente grave sovraffollamento».

Nell’ordinanza milanese sull’orario di apertura delle attività commercia-li viene invece esplicitato un collegamento tra «numerosi clienti ed avventori, i quali si soffermano a consumare cibi e bevande, fino a tarda ora» e «pro-blemi di sicurezza urbana e ordine pubblico, cagionati o aggravati dall’abuso di sostanze alcoliche da parte degli avventori, tra i quali si sono registrati episodi di violenza, anche gravissimi e recenti, che hanno destato grande allarme sociale», sebbene l’omicidio del giovane egiziano fosse avvenuto di giorno, lontano da esercizi pubblici e non fosse collegato all’abuso di alcol.

Le condotte “incivili” vengono assimilate ai reati, come suggerito dal ricorso all’espressione «commissione di comportamenti indecorosi». Gli inter-venti delle forze dell’ordine successivi all’omicidio diventeranno prove della pericolosità del quartiere: «la gravità della situazione del plesso è compro-vata dagli esiti delle azioni congiunte delle forze di polizia», un esempio, questo, di fallacia argomentativa nota come “campione non significativo” dal momento che qualunque territorio sottoposto a controlli mirati e non episodici avrebbe fatto registrare una dinamica analoga.

La qualificazione dell’insicurezza urbana appare in questo genere di disposizioni amministrative complessivamente piuttosto vaga e quasi data per scontata. I fattori di rischio e le situazioni che originerebbero degrado non vengono descritti in modo puntuale, ma evocati genericamente e attra-verso elementi di banalizzazione. Nella sezione dedicata alla motivazione, dove si dovrebbe giustificare l’introduzione dei provvedimenti, sono ricor-renti tautologie e fallacie argomentative. Non appaiono chiari ma piuttosto indeterminati, se non del tutto incoerenti, i nessi causali fra problemi e soluzioni. Le locuzioni utilizzate nelle motivazioni delle ordinanze appaiono inoltre generiche, i supporti probatori attraverso i quali vengono individuati i fattori di rischio per l’incolumità pubblica deboli e carenti, spesso la natura pregiudizievole delle condotte o dei fenomeni su cui si interviene viene assun-ta come un implicito, non fornendo un adeguato supporto argomentativo.

Nelle ordinanze milanesi, così come in quelle bresciane, il contenimento dell’orario di apertura delle attività commerciali è finalizzato ad «agevolare attività di presidio» del territorio da parte delle forze di polizia, «ai fini di sicurezza urbana e libera fruizione degli spazi pubblici» (Milano) piuttosto che «ai fini di prevenzione e repressione di attività e condotte illecite» (Bre-scia). Nell’ipotesi sposata da queste disposizioni, si assume pertanto che una

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minore presenza di cittadini all’interno degli spazi pubblici sia un fattore che contribuisce alla sicurezza urbana, fino ad arrivare, nel caso milanese, all’affermazione paradossale per cui la «libera fruizione degli spazi pubblici» sarebbe garantita da una misura di interdizione della principale modalità con gli stessi vengono abitualmente fruiti. La ratio di questo tipo di provvedimento si palesa laddove vengono richiamate «esigenze di corretta fruizione degli spazi urbani», con un evidente slittamento semantico verso un registro di tipo morale, che si presume fondato su un implicito e ampio consenso sociale.

Le ordinanze frequentemente perimetrano territori per intervenire su specifiche popolazioni e regolare i modi di utilizzo dello spazio pubblico. L’individuazione di precise attività commerciali controllate di norma dall’im-prenditoria etnica (take away, kebab, centri massaggi, phone centre), comune ad entrambi i casi studio, e la perimetrazione di un territorio abitato soprattutto da immigrati in cui rendere i controlli sui contratti di locazione particolar-mente rigidi, come è avvenuto a Milano, afferma nei fatti un trattamento differenziale che classifica popolazioni come fattori di rischio e soggetti re-sponsabili del degrado e dell’insicurezza urbana.

L’ordinanza sul Carmine interviene ad esempio solo su alcune porzioni di vie in cui è maggiore la concentrazione di esercizi commerciali gestiti da stranieri come testimoniato anche da un articolo apparso sulle pagine di Bresciaoggi:

«Lo spicchio di Carmine interessato dai provvedimenti restrittivi sugli orari di chiusura delle attività riguarda loro, gli immigrati. Nell’ordinanza non è ovviamente scritto in modo esplicito, ma basta fare una passeggiata in zona per rendersi conto che in questa area le attività sono in gran parte gestite da commercianti di nazionalità non italiana. [...]. Per i negozi «diurni» gestiti da italiani cambierà poco o nulla trattandosi di attività che non hanno il loro picco di clientela durante la serata. La sostanza del provvedimento riguarda bar e kebaberie, che dovranno chiudere alle 22, e phone center, il cui coprifuoco sarà dalle 20». (Bresciaoggi, 14/12/2010 p. 9)

La stessa cosa vale per l’ordinanza bresciana sull’area commerciale di via Vallecamonica, dove la perimetrazione sembra fatta per escludere dalle restrizioni imposte l’unico commerciante italiano interessato al provvedi-mento: «le fornerie interessate dal provvedimento (che non hanno mai ri-spettato la chiusura) sono solo due su tre, e accusano: «Siamo colpiti perché stranieri, mentre Frank (sull’altro lato della strada) lo risparmiano perché è italiano» (Bresciaoggi, 31/01/2011 p. 11).

Nelle ordinanze analizzate nel caso studio milanese è centrale il richia-mo ad una destinazione “predefinita” e differenziale nell’uso dello spazio

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pubblico. L’ordinanza sulle attività commerciali, come abbiamo detto, fa riferimento a «esigenze di corretta fruizione degli spazi urbani» a cui i cittadini non riuscirebbero ad accedere in modo sicuro, un’affermazione paradossale sulla fruizione degli spazi pubblici perseguita attraverso una misura di interdizione nell’uso di questi spazi: «situazioni pregiudizievoli per la sicurezza urbana […] ovvero turbare gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici cui sono destinati, oppure ne rendono pericoloso l’accesso ai cittadini, con conseguente grave danno alla pace sociale».

La costruzione dei problemi nelle ordinanze e nel discorso sulle ordinan-ze, riconosce come leve per l’intervento pubblico esclusivamente le politiche della sicurezza; le ragioni delle politiche appaiono molto povere, scarsa-mente argomentate e unidimensionali. Come testimonia questo frammento di intervista con l’Assessore De Corato: «Perché noi possiamo fare tutto a Milano, possiamo anche trasformarla: tanto verde, tante... però se uno ha paura ad uscire dalla porta di casa, non c’è niente. Per cui la sicurezza è fondamentale e con la sicurezza non si può... non si può mettere la sicurezza con l’integrazione, la sicurezza con la solidarietà, sono... io ritengo che la sicurezza è la sicurezza». Una simile retorica della sicurezza rappresenta una tautologia che divora altre possibilità di tematizzazione dei problemi di rilevanza collettiva, una potente cornice interpretativa in cui si inscrive e che orienta tutta l’azione dell’amministrazione cittadina.

4. One best way: reiterazione e indifferenza ai luoghi nell’uso dello strumento ordinanza

L’omologazione delle strutture discorsive all’interno delle ordinanze e la ri-produzione di “stereotipi”, nel senso etimologico di “stampi tipografici”, per descrivere i rapporti tra rischi/problemi/soluzioni si sono accompagnate ad un ampio fenomeno di imitazione ed emulazione delle ordinanze da parte delle amministrazioni locali, in particolare nel nord Italia. Il processo di riduzionismo argomentativo, caratterizzato dalla ripetizione degli stessi clichés indifferenti alla specificità di problemi e luoghi su cui si interviene, ha – di fatto – favorito il successo e la diffusione di questo strumento amministrativo. Le ordinanze per così dire “fatte al ciclostile” sono fungibili, proprio perché contengono quegli aspetti di banalizzazione e semplificazione del nesso tra problemi e soluzioni che abbiamo tratteggiato; in altre parole, la genericità dei testi ne favorisce la generalizzabilità.

Come ha rilevato Anna Lorenzetti [2010a, p. 99], ciò ha prodotto non poche distorsioni del principio di uguaglianza formale previsto dal nostro or-

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dinamento, laddove esso postula «che debbano essere trattate allo stesso modo situazioni analoghe e differentemente situazioni diverse». Molte ordinanze si pongono in contrasto proprio con tale principio, disciplinando e sanzionando in modo analogo casi differenti o in modo differenziato casi analoghi.

È esattamente quanto è avvenuto nei casi da noi presi in esame con le ordinanze milanesi e bresciane. Le ordinanze milanesi sono state prese a modello dall’amministrazione bresciana, nella convinzione che quella fosse la “ricetta” migliore, la soluzione ottimale da proporre e seguire per con-trastare il “degrado” e la conseguente produzione di insicurezza registrata in alcuni quartieri della (ma potremmo dire delle) città. Una sorta di “one best way” di tayloriana memoria, con cui dare le medesime risposte a quelli che vengono considerati come medesimi problemi, indipendentemente dalle specificità dei luoghi e dalle non poche differenze che li contraddistinguono, dal punto di vista della loro conformazione urbanistica, della loro identità storica nel contesto cittadino, della loro composizione sociale e delle moda-lità di fruizione degli spazi.

Il tentativo bresciano è semmai stato quello di migliorare tecnicamente il testo del provvedimento, in modo da evitare allo stesso la sorte giudiziaria che già avevano avuto le ordinanze milanesi. Intervistato dal quotidiano Bresciaoggi (14/12/2010 p. 8), il Vicesindaco di Brescia precisa che «nel redigerle non ci siamo limitati a fare un copia e incolla dei provvedimenti meneghini, ma li abbiamo approfonditi sulla base delle sentenze del Tar, puntando a restringere il campo d’azione e ad evitare accuse di discrimi-nazione, tanto è vero che i nostri provvedimenti non riguardano solo le attività straniere ma anche quelle italiane». Analizzando però i reali effetti delle ordinanze bresciane (senza limitarsi all’analisi formale del dispositivo) è facile osservare come quest’ultima precisazione del vicesindaco Rolfi non vi corrisponda affatto, se non per il caso di un circolo ricreativo espressione del mondo antagonista locale presente in una delle vie del Carmine oggetto delle restrizioni, dalla cui denuncia è poi peraltro scaturita la sentenza che ha dichiarato illegittima anche quell’ordinanza.

La stessa modalità di azione ha portato alla riproduzione di provvedi-menti fotocopia riferiti a zone e luoghi assai diversi all’interno del medesimo contesto cittadino. Abbiamo già osservato, ad esempio, introducendo il caso-studio bresciano, come la cosa sia avvenuta con riferimento alle ordinanze che hanno limitato gli orari di apertura di attività ed esercizi pubblici in due zone assai diverse della città come lo storico e centrale quartiere del Carmine e una pressoché anonima area commerciale di periferia (quartiere Mandolossa). Zone diverse, ma accomunate – come si è detto – dalla pre-senza di attività commerciali gestite da stranieri.

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«Siamo consapevoli del fatto che si tratta di provvedimenti forti, ma la sicurezza viene prima di tutto», commenta il vicesindaco Rolfi, specificando che le due ordinanze temporanee sono figlie dei numerosi problemi di ordine pubblico verificatisi nelle zone in questione, dove la consuetudine a utiliz-zare i negozi e i locali come luogo di ritrovo anche serale avrebbe portato in più occasioni alla necessità di far intervenire la polizia locale per sedare liti, risse e altri fenomeni di disturbo. «In queste ordinanze temporanee non c’è alcun accanimento, ma soltanto la volontà di migliorare la vivibilità dei quartieri interessati», puntualizza l’assessore, precisando che se otterranno il risultato sperato esse potranno essere ritirate o al contrario estese, non solo nella loro durata, ma anche per andare ad abbracciare altri quartieri della città, «sempre tenendo conto, naturalmente, delle diversità strutturali che esistono tra zona e zona» (Bresciaoggi, 14/12/2010 p. 8)

Vediamo allora in che modo si sarebbe tenuto conto delle «diversità strutturali» tra le zone oggetto delle ordinanze emanate. La premessa su cui si basano tutte le considerazioni e i dati che vengono portati a sostegno della necessità di emanare tali provvedimenti è che, in entrambe le zone oggetto delle restrizioni, «i pubblici esercizi, e in generale le attività econo-miche, sono diventati luogo di aggregazione spontanea a tutte le ore» e che tale situazione, «a prescindere dall’attività svolta», incida «negativamente sulla civile convivenza nonché sul degrado urbano». Ciò rende «necessario, dunque, procedere a contrastare tali situazioni di degrado che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi e prevenire l’aggravarsi». Tale argomen-tazione viene riportata tale e quale in entrambe le ordinanze, con una sola, piccola, ma significativa differenza. Mentre nell’ordinanza che riguarda il quartiere Carmine l’aggregazione spontanea sarebbe composta «in parti-colare di gruppi di cittadini prevalentemente extracomunitari», per quanto riguarda l’area di via Vallecamonica l’ordinanza recita testualmente «gruppi di cittadini», senza ulteriore specificazione. In effetti, la frequentazione di tale area nelle ore serali e notturne riguarda prevalentemente giovani ita-liani, ed è forse per questo che si è voluto eliminare il riferimento diretto ai cittadini extracomunitari. Il riferimento all’immigrazione, però, non viene meno nel testo dell’ordinanza. Poco dopo, infatti, il testo recita (con un’argo-mentazione generica e non suffragata da riferimenti a dati oggettivi): «dalle attività di controllo e monitoraggio del territorio si è spesso riscontrato che tra i frequentatori di tali luoghi, e esercizi commerciali, vi sono stati immi-grati clandestini, nonché si sono verificati episodi criminosi». Dalla lettura delle due ordinanze bresciane non emergono altre differenze che vadano nella direzione di una differenziazione degli interventi in base alle «diversità strutturali» delle rispettive zone.

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Anche a Milano l’intervento sul singolo quartiere è inteso come una sperimentazione da generalizzare ad altri contesti territoriali e come un laboratorio in cui mettere a punto protocolli d’intervento e saperi operativi sul trattamento dell’“emergenza immigrazione”. De Corato insiste sul ca-rattere di modello che ha via Padova e che assumono quindi gli interventi su quel quartiere:

«via Padova può rappresentare un modello, perché? Perché quello che ma-gari è l’immigrazione media nel nostro paese, Via Padova è 2-3 anni avanti. Quindi i problemi di oggi, sono quelli che avrà il resto della città, il resto della Lombardia […]quello che sta avvenendo lì è importante da utilizzare come modello per capire quello che può accadere tra 5 anni anche in altre parti della città».

Viene pianificata la generalizzazione delle disposizioni a tutti i cosiddetti “quartieri a rischio”: Sarpi, Corvetto, Corso Lodi, Imbonati-Comasina. Così il 18 maggio 2010 la Giunta dà il via libera alle ordinanze “antidegrado” per via Sarpi, che riprendono “alla lettera” il modello d’intervento sperimentato in via Padova; il 26 luglio sarà la volta del quartiere Corvetto, l’11 agosto di corso Lodi, mentre il primo di ottobre le ordinanze saranno estese all’ambito territoriale via Imbonati e Comasina5.

Le ordinanze sono divenute, a tutti gli effetti, uno strumento di gestione ordinaria e sine die della sicurezza urbana utilizzato in quartieri diversi (e in diversi quartieri), caratterizzati da una presenza consistente di immigrati, e quindi – seguendo l’attività di framing dell’amministrazione – automaticamen-te esposti a processi di “degrado urbano” che metterebbero a repentaglio l’incolumità dei residenti. Ce lo spiega bene Riccardo De Corato, allora vicesindaco di Milano: «Noi abbiamo adottato le ordinanze in alcune vie ad alta, forte, presenza etnica: via Padova, dove ormai gli italiani sono un sparuta minoranza, dove c’è una forte presenza cinese, sudamericana e araba, dove c’era stato, due anni fa, un accoltellamento e un’uccisione di un ragazzo».

A parità di ricetta applicata, i risultati ottenuti in luoghi e situazioni così diverse non sono però gli stessi. A Milano, in via Padova, gli effetti delle due ordinanze, combinate ai pattugliamenti congiunti forze dell’ordine-esercito, sortiscono come risultato principale la crescita esponenziale dei controlli e delle identificazioni dei cittadini stranieri e la desertificazione dello spazio pubblico. Oltre ai centocinquanta uomini delle forze dell’ordine messi a

5 I riferimenti sono alle ordinanze 19 e 20/2010 su via Sarpi, alle ordinanze 34 e 35/2010 su via Corvetto, all’ordinanza 38/2010 su Corso Lodi e alle ordinanze 46 e 47/2010 su via Imbonati e Comasina.

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disposizione della città di Milano per rinforzare l’organico, anche il Comu-ne assegna risorse straordinarie alla Polizia Locale per rendere possibile il controllo sul rispetto delle ordinanze sindacali. I controlli serrati sul territorio vengono descritti da alcuni testimoni privilegiati da noi intervistati come qualcosa di «bruttissimo da vedere», dove gli stranieri venivano continua-mente fermati: «succedeva veramente molto spesso e a volte era proprio non dico imbarazzante, ma ti sentivi a disagio […] avevi questa sensazione, di giorno, assolutamente di militarizzazione; di notte, deserto» (Lella Trapella, Amici del Parco Trotter).

L’ordinanza sulle attività commerciali produce l’effetto di svuotare le strade e provocare un danno economico a tutti gli esercenti, rafforzando i caratteri di stigmatizzazione del quartiere e aumentando il senso di insicu-rezza nei cittadini:

«i commercianti della via Padova, […] dopo quindici giorni dall’introduzione dell’ordinanza erano ostili non soltanto perché avevano una ricaduta negativa rispetto all’utilità commerciale, ma perché andava in qualche modo ad ap-pesantire l’immagine di luogo degradato che loro stessi magari avevano ma che diventava insopportabile». (Carlo Bonaconsa, Comitato Vivere in Zona 2)

Gli stessi commercianti hanno l’impressione che, anche grazie alle or-dinanze, la loro sia divenuta una «zona commerciale di serie B» dove le loro licenze valgono meno delle altre, dove viene «leso il diritto all’iniziativa privata», impedendo loro di «lavorare alle condizioni degli altri», in una sorta di «ghetto commerciale» (Federico Chendi, Bar Ligera).

A Brescia, invece, l’impatto reale delle ordinanze viene visto in genere come relativamente blando, risultante per lo più in un aumento dei controlli effettuati dalle forze di polizia sulle attività commerciali per verificare il ri-spetto di quanto disposto e comminare le eventuali sanzioni amministrative.

Maria Luisa Venuta, docente all’Università Cattolica di Brescia e resi-dente al Carmine, ritiene che l’ordinanza non abbia prodotto alcun effetto reale in termini di sicurezza, o percezione di sicurezza, nel quartiere:

«se un turista fosse passato prima dell’ordinanza, durante l’ordinanza e suc-cessivamente all’ordinanza, non avrebbe notato nulla, nulla di diverso, se non una chiusura di un’unica associazione, di un unico affaccio su strada in quel tratto di via e qualche passaggio di ronda dei vigili che controllavano se chiudevano o meno».

Anche in zona Mandolossa, stando a quanto riportato da un quotidiano locale, non si sono riscontrati particolari cambiamenti con l’entrata in vigore dell’ordinanza, se non per due esercenti stranieri. Più che sul contrasto a

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fenomeni di degrado e sul miglioramento delle condizioni generali di sicurez-za della zona, l’ordinanza avrebbe inciso, alterandolo, «sul florido mercato notturno di brioches e pizzette della zona»: due delle tre attività presenti nel complesso commerciale, infatti, hanno numero civico in via Valsaviore e devono pertanto rispettare l’ordinanza, chiudendo alle 22; il loro dirimpet-taio risulta invece ubicato in via Valcamonica ed è esentato dalle restrizioni d’orario. I primi due esercizi sono gestiti da commercianti di origine pakista-na, che dichiarano di essere stati multati rispettivamente nove e cinque volte nell’arco di un mese e mezzo dall’entrata in vigore dell’ordinanza, il terzo è gestito da un italiano e ha potuto continuare a lavorare in orario nottur-no senza alcuna sanzione. «E la sicurezza?», si chiede il giornalista autore dell’inchiesta: «I nottambuli di ogni nazionalità continuano a frequentare la zona» e «gli ‘stranieri’ fanno uno più uno e parlano di ordinanza studiata contro di loro». (Bresciaoggi, 31/01/2011 p. 11)

Tutto ciò dovrebbe far riflettere su quanto quella ricetta fosse davvero “l’unica soluzione ottimale” alle questioni cui si cercava di dare una risposta efficace. A meno che l’efficacia non vada misurata su un terreno diverso da quello del contrasto a fenomeni che producono insicurezza, spostandosi su quello della produzione del consenso politico, dove il demagogico «appello alle passioni» [Bentley 1908, trad. it. p. 283] garantisce risultati sempre degni di nota. In questo caso il pharmakos individuato e prescritto alla collettività (ma forse sarebbe meglio dire alla comunità) non è altro che il sacrificio (in termini di uguaglianza di diritti) dello «straniero interno». Un’operazione questa, che pur mutando nelle modalità e nelle forme, è riconoscibile nella storia come l’opzione più praticata (e probabilmente più efficacie) per co-struire o rinsaldare vincoli politici [Escobar 2009, pp. 76 ss.].

5. Governare con le ordinanze?

A prescindere dal loro specifico contenuto, le ordinanze hanno rappresen-tato per gli amministratori locali un importante strumento di attribuzione di nuovi poteri e competenze in materia di sicurezza urbana. Il vicesindaco di Milano De Corato, intervistato a questo proposito, le considerava come uno strumento utile soprattutto in chiave prospettica perché rappresentavano un primo concreto trasferimento di potere ai Sindaci:

«Sì, no, sono utilissime, anzi io credo che... non dico che dobbiamo imitare quello che fanno in America, cioè che i sindaci... sono i capi della polizia, perché questo un paese serio avrebbe dovuto fare [...] Adesso ha avuto le ordinanze ma, insomma, sono piccole cose […].Noi eravamo su una strada,

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col Governo Berlusconi, di dare maggiori poteri ai Sindaci ed è quella la strada perché l’interfaccia per il cittadino è il Sindaco, non è il Questore…».

Questa opinione è condivisa da Fabio Rolfi, vicesindaco di Brescia con delega alla sicurezza, che reclama poteri legislativi in materia di sicurezza per le amministrazioni locali:

«il pacchetto sicurezza ha riconosciuto dei poteri amministrativi, non c’è ombra di dubbio, però li ha innestati su un quadro legislativo che è ancora predatato, che […] riconosce ancora in capo unicamente allo stato il potere di andare a legiferare, o di andare a limitare anche in via amministrativa, se non per casi eccezionali, spazi di libertà del cittadino. Questo è il punto, questo è che non condivido. […] Ci sono una serie di problematiche differenti, e non si può pensare che dal Parlamento si possa normare e regolamentare e governare questi problemi. Quello che serve riconoscere è uno spazio di azione che è legislativa all’azione dell’ente locale nel campo della sicurezza».

Lo strumento ordinanza è stato utilizzato per introdurre disposizioni limitative attraverso un semplice atto amministrativo oltretutto emesso da un organo monocratico: «Perché consentiva rapidità di intervento, efficacia, e possibilità di creare la norma ad hoc, e pragmatismo, che è quello che la politica oggi deve dare, quello che la gente chiede dalla politica, intervenire a risolvere il problema». (Rolfi)

La disponibilità di un dispositivo flessibile e immediatamente fungibile per regolare materie direttamente e indirettamente connesse al tema della sicurezza urbana ha favorito la diffusione e il ricorso alle ordinanze per obiettivi sia di governo dei territori, sia di costruzione e gestione del con-senso, senza sottovalutare infine gli aspetti di produzione performativa di un immaginario sulla città e sulle relazioni sociali, aspetti tra loro circolarmente collegati.

Le ordinanze antidegrado milanesi e bresciane, ad esempio, non erano finalizzate sul piano fattuale a concrete esigenze di contrasto della crimi-nalità, quanto piuttosto alla costruzione di un dispositivo amministrativo in grado di scoraggiare la presenza di cittadini stranieri nei contesti territoriali perimetrati, attraverso un inasprimento dei controlli dispiegati contempora-neamente su spazi pubblici e privati (nel caso di Milano), oltre che sulle at-tività commerciali gestite dall’imprenditoria etnica. L’obiettivo della “messa in sicurezza” dei quartieri è stato perseguito cercando di svuotare – in modo tempestivo anche se temporaneo – strade, parchi, condomini e negozi dalla presenza straniera. In questo modello di sicurezza urbana, rendere insicuro e inospitale il quartiere per i cittadini stranieri avrebbe dovuto relativizzare la percezione di insicurezza dei cittadini italiani, come testimoniato dalle

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parole di De Corato e dal Presidente della Circoscrizione Centro di Brescia Flavio Bonardi:

«Molte volte no, molte volte non c’era un fenomeno. Per esempio, in via Padova il problema non era... non c’erano stati grandi episodi di criminalità, l’ultimo episodio risale al ’98 quando fu ammazzato il gioielliere Bartocci, ma in via Padova non c’è... il problema è l’ammassamento di enormi... di numeri che sono numeri insopportabili. […] Ecco, il problema non era la delin... ma “sono troppi”». (De Corato)

«Cioè, non è che siamo nel Bronx, tanto per citare, o siamo nelle periferie di Parigi, ecco. È una situazione un po’ diversa, è più una percezione, in alcuni casi, che un vero problema». (Bonardi)

Il passaggio chiave in questi dispositivi era restituire ai cittadini italiani, quasi sempre qualificati come “residenti”, la sensazione della presenza dello stato, che viene fatta coincidere in modo esclusivo con le attività di presidio del territorio e di controllo dell’ordine pubblico:

«Queste misure delle ordinanze, dei militari, hanno fatto sì che nelle periferie di Milano si... si allentasse... si fosse un po’ allentata la tensione, non è che abbiamo risolto i problemi però si erano notevolmente allentata la tensione e soprattutto la presenza di questi uomini, con le ordinanze, hanno dato l’im-magine alla cittadinanza di una presenza di uno stato, delle forze dell’ordine, che non era solo una presenza, così, saltuaria…». (De Corato)

Sempre a proposito di obiettivi di governo del territorio nel caso mila-nese, in particolare, l’ordinanza affitti introduce un protocollo operativo delle forze dell’ordine finalizzato ad effettuare controlli sistematici nelle abitazio-ni degli immigrati, avvalorando l’ipotesi che il principale obiettivo politico dell’amministrazione fosse la lotta senza quartiere ai cittadini stranieri.

L’attenzione attribuita dall’amministrazione milanese alla comunicazio-ne pubblica (via comunicati stampa) sulle ordinanze deve far riflettere; non è affatto scontato che - quasi quotidianamente - si intervenga pubblicamente su disposizioni che, tutto sommato, assumono (o dovrebbero assumere) una rilevanza modesta nel complesso delle politiche di governo di una metro-poli. Quello che appare in gioco, nella realtà dei fatti, non è tanto e solo l’applicazione di una misura amministrativa in un quartiere complesso, ma la messa in visibilità di una specifica modalità di trattamento dei problemi urbani fondata sulla ragione securitaria. La militarizzazione del territorio in questo quadro è giustificata dalla presunta pericolosità delle popolazioni che lo abitano (o lo “colonizzano”), ovvero gli immigrati a volte clandestini

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comunque delinquenti, in una rappresentazione della realtà fondata sulla re-torica della paura del diverso.

In tutte le prese di posizione pubbliche di De Corato, la condizione di clandestinità, essa stessa by-product della legislazione italiana sulla regolazione dei flussi migratori, viene supposta come un dato naturale, che altrettanto inevitabilmente porterebbe al degrado e all’insicurezza e costituirebbe un fattore predittivo della “tendenza a delinquere” di soggetti socialmente pe-ricolosi per la loro intrinseca inclinazione al crimine:

«a Milano ci sono 50.000 clandestini e questo è un nucleo ovviamente […] dal quale nascono vari fatti […] di delinquenza criminale, predatoria, di vario tipo. Perché 50.000 persone senza documenti quando va bene fanno lavoro nero, quando va bene fanno l’elemosina, quando va male, nella stragrande maggioranza dei casi, diventano persone pericolose in quanto ovviamente per vivere e sopravvivere si dedicano a delle attività criminali».

Le ragioni che avrebbero portato l’amministrazione milanese a intro-durre le ordinanze sono state qualificate dai testimoni privilegiati intervistati come legate ad esigenze di marketing politico: «per dare l’idea che la giunta […] ci sarebbero state le elezioni a breve e il concetto della sicurezza passato in Italia e non solo a Milano […] quello lì era il modello vincente, pacchetto sicurezza» (Arcangela Mastromarco, Polo Start1) e di competizione eletto-rale interna al centrodestra: «anche chiaramente una lotta un po’ interna fra la Lega e un’ala del PDL per far vedere chi era anche più risoluto in certe questioni. Quindi, anche in vista elettorale, c’è stato De Corato che ha voluto far vedere i muscoli e ha detto faccio l’ordinanza più a destra, più pesante che ci possa essere e la faccio in via Padova chiaramente». (Federico Chendi, Bar Ligera)

Anche nelle parole del vicesindaco di Brescia Rolfi sono espliciti i rife-rimenti alle supposte esigenze e richieste dei cittadini che – nell’orizzonte politico degli amministratori locali – spesso coincidono con il proprio elet-torato di riferimento:

«bisogna normare e fare in modo che vi sia il punto di incontro tra due esi-genze: fare comunità, fare attività economica e comunque riposar la notte. E questo è il difficile ruolo di governo di questi fenomeni nuovi, che rientrano nella sicurezza oggi, come la intendono i cittadini, nelle città […] è quello che ti chiede la gente, perché qui rischi veramente l’anarchia, il caos».

Le considerazioni del Comandante della Polizia locale di Brescia Ro-berto Novelli si concentrano, invece, sull’efficacia delle disposizioni e fanno riferimento alle motivazioni di natura elettoralistica che hanno portato ad

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introdurle: «se noi guardiamo tutte le ordinanze che sono state emesse in Italia, sono ordinanze che effettivamente della sicurezza urbana fanno ridere […] alcune ordinanze erano solo folcloristiche, ma anche demenziali […] c’erano anche magari valenze di natura più politica da questo punto di vista».

Per concludere, è interessante riportare l’attenzione sull’uso performa-tivo del linguaggio nelle ordinanze. La costruzione nei testi di problemi e soluzioni, difatti, mette in scena e suggerisce una definizione di ciò che è desiderabile, stabilisce e organizza un ordine sociale delle aspirazioni dei cittadini, oltre a proporre una precisa idea di città e delle relazioni sociali (si veda, a questo proposito, in particolare il contributo di de Leonardis e Giorgi in questo volume). Le ordinanze non sono solo dispositivi amministrativi da analizzare per coerenza logica e qualità dell’argomentazione, il linguag-gio assume una valenza generativa. Categorie, classificazioni e rapporti di causa/effetto, dati per scontati all’interno dei testi, circolano nel discorso pubblico sul governo della città e sulle modalità di accesso e fruizione dello spazio pubblico, con conseguenze importanti per la qualità dell’argomenta-zione pubblica e della stessa convivenza democratica.

L’argomentazione nei testi normativi oggetto di indagine è stata messa sotto osservazione per come costruisce e fa circolare frames interpretativi, classificazioni, che meritano di essere considerati per la loro rilevanza all’in-terno del discorso e della riflessione pubblici su priorità, forme e modali-tà del governo urbano. Tra le finalità dei documenti non devono dunque essere sottovalutati gli aspetti di meta-comunicazione di figure di un uso desiderabile dello spazio urbano, criteri di inclusione/esclusione nell’uso di beni pubblici, coerenti con la costruzione di un modello di città preciso. Il discorso pubblico veicolato dalle ordinanze determina, infatti, effetti di realtà nella sfera pubblica, le espressioni contenute nei dispositivi sono modi di descrivere (e di prescrivere) la realtà.

L’analisi delle ordinanze sindacali milanesi e bresciane è particolarmen-te proficua in questa prospettiva di osservazione. La selezione e la qualifica-zione di temi e materie oggetto di intervento, infatti, propone con nitidezza una “visione di città” e di società che circola e contribuisce ad alimentare il discorso pubblico. Si tratta di un modello di città neo-liberale a “tolleranza zero” in cui vengono stigmatizzate e represse condotte considerate come fattori potenzialmente “criminogeni” che contribuiscono al disordine sociale, sono di ostacolo alla libera fruizione degli spazi pubblici e sono responsabili dello scadimento della qualità dell’immagine della città. Questi strumenti mettono in scena un simulacro di città ordinata e virtuale, e si potrebbe con-tinuare giocando con l’etimologia di quest’ultimo attributo, popolata da virtus che si presume coincidano con una moralità “pubblica” data per scontata.

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Lo stesso concetto di decoro urbano propone un’immagine di città «da cartolina», in cui lo spazio urbano è tanto più ordinato quanto svuotato di relazioni e desertificato [Carrer 2010, de Leonardis e Giorgi in questo vo-lume]. La città densa e frammista appare in prospettiva esposta al rischio di un processo di scomposizione e semplificazione di modi e luoghi del vivere urbano ad usi rigidamente mono-funzionali, destinati ed agiti da popolazioni rigorosamente distinte, con diritti differenziali di accesso allo spazio pubbli-co. Con un gioco di parole, si potrebbe dire che le ordinanze anti-degrado rischiano di produrre nei fatti un degrado dello stesso concetto di urbanità.

6. Vox Dei? Vox populi! Dall’atto d’imperio al reframing della società civile

L’Amministrazione comunale di Milano, prima di arrivare all’emanazione for-male delle ordinanze sull’ambito territoriale Padova-Trotter, aveva convocato ad un tavolo di lavoro le principali realtà della società civile, del mondo asso-ciativo e del privato sociale attive nel quartiere. A proposito di questo percorso partecipativo attivato dall’amministrazione, alcuni intervistati che vi avevano preso parte raccontano che da quel primo incontro con il sindaco erano usciti «con la parola data che entro il 31 di marzo si sarebbe costituito un tavolo con i dirigenti comunali. Nel frattempo, a cominciare a farci capire che forse non era questa la strada, sono arrivate le ordinanze». (Carlo Bonaconsa, Comitato Vivere in Zona 2). L’intenzione espressa dal sindaco era di coinvolgere nel percorso i vari settori dell’amministrazione interessati (politiche sociali, scuola, sicurezza, urbanistica, sport e tempo libero), in modo che ognuno potesse pre-sentare un progetto per la zona da realizzare poi insieme a cittadini, operatori e associazioni. Quell’intenzione, però, non si è mai trasformata in pratica, lasciando invece spazio ai provvedimenti assunti con le ordinanze.

Interpellato su ciò e sull’iter che ha portato all’emanazione delle ordi-nanze, il vicesindaco De Corato ha risposto sostenendo che:

«Il dibattito, no, il dibattito era in città, si vedeva dai numeri, dai dati, da che cosa succedeva nelle strade. La Giunta è fatta di persone che vivono a Milano per cui sapevano qual era la situazione, si decideva insieme al Sindaco e alla Giunta (…) ma diciamo che noi recepivamo quelle che erano le richieste dei Consigli di zona, i Comitati di quartiere, i cittadini che ci segnalavano le situazioni che si verificavano sulle strade».

Un’altra voce da tenere in considerazione per valutare il reale spessore del confronto pubblico che avrebbe contribuito a definire i contenuti dei

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provvedimenti è quella dei commercianti. Quelli da noi intervistati non le-sinano giudizi critici all’amministrazione, sostenendo che il coinvolgimento delle associazioni di categoria – per quanto attiene l’ordinanza sulle attività commerciali – è avvenuto senza un vero percorso di condivisione delle misu-re da adottare: «non c’è stata nessuna comunicazione scritta, cioè noi siamo venuti a sapere di queste ordinanze, dell’entrata in vigore, solo dai giornali» (Federico Chendi, Bar Ligera). Va infine considerato che i commercianti stranieri, i principali portatori d’interesse cui era rivolta l’ordinanza, non sono stati nemmeno convocati al tavolo di confronto.

Ciononostante, nel comunicato stampa del 21 maggio 2010 De Corato cerca di accreditare le ordinanze riferendo di avere incassato il sostegno di residenti e commercianti. Cita il consenso manifestato dal presidente dell’as-sociazione Via Padova Futura e ribadisce che la volontà dell’amministra-zione è quella di rafforzare i «presidi di sicurezza» e «restituire vivibilità al quartiere e serenità a residenti e commercianti», sottolineando come siano proprio questi ultimi a chiedere «che i controlli delle Forze dell’ordine venga-no estesi anche nel secondo tratto di via Padova, dopo il ponte ferroviario».

Nell’aspro dibattito tra opposte qualificazioni di problemi e soluzioni, il vicesindaco cerca la legittimazione anche della società civile e, a questo fine, riferisce del consenso tributatogli dall’associazione “Via Padova Futura” che, peraltro, pur essendo considerata vicina all’amministrazione, non ha risparmiato in seguito valutazioni severe sugli esiti delle ordinanze.

A Milano, pertanto, il percorso partecipativo annunciato dal sindaco si è svolto per così dire pro forma (convocazione di un tavolo che ha visto il proprio lavoro scavalcato dai provvedimenti del sindaco, coinvolgimento solo di facciata delle associazioni di categoria, presa d’atto informale di segnalazioni e richieste provenienti da cittadini, comitati e consigli di zona) e il vero dibattito pubblico, che ha assunto anche toni accesi, si è svolto so-stanzialmente nell’arena mediatica, senza produrre grandi risultati in termini di reale influenza sulle scelte dell’amministrazione.

A Brescia, invece, non si è registrato nemmeno un simile confronto. La scelta è stata letteralmente calata dall’alto, senza alcun coinvolgimento né della società civile, né degli organismi decentrati della stessa amministrazio-ne. A spiegarlo molto chiaramente è il presidente della circoscrizione centro, Flavio Bonardi (non un avversario politico del sindaco, ma un autorevole esponente dello stesso schieramento e partito politico):

«c’è stata qualche lamentela solita dei cittadini e così via, e su quelle lamentele dei cittadini l’amministrazione, in questo caso l’assessorato, ha ipotizzato un intervento. Poi, in questi casi non ci sono particolari pareri da chiedere alla circoscrizione, piuttosto che ai cittadini o altro, quindi si è proceduto alla re-

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alizzazione dell’ordinanza. Quindi, non è stato un documento di discussione, diciamo così, in un’assemblea, un incontro con le associazioni delle categorie o altro. So che il vicesindaco ha parlato con alcune realtà, come le associazioni dei commercianti, la Confesercenti, […] non è che ci potesse essere da parte di queste realtà il totale appoggio a questo tipo di ordinanza […] è stata una scelta dell’amministrazione, […] voluta anche dai cittadini che hanno fatto, chiaramente, una serie di segnalazioni. È ovvio che non è stato fatto un referendum per sapere se andava fatto, non è stata fatta l’assemblea, però se in una lettera con 20 firme […] sono stati evidenziati seri problemi, da lì si è partiti dicendo “dobbiamo fare così”».

Per poter avanzare valutazioni attorno al discorso pubblico che prece-de l’emanazione delle ordinanze, dobbiamo innanzitutto considerare come l’elemento che maggiormente incide sulla qualità dell’argomentazione da esse prodotta risieda proprio in una caratteristica “intrinseca” allo strumento stesso. L’ordinanza è un dispositivo emanato d’imperio dal Sindaco, qua-le ufficiale di governo, senza alcuna necessità di confronto e condivisione assembleare e senza alcun obbligo di dibattito pubblico preventivo. Con l’ordinanza l’autorità pubblica ordina, e tale ordine è esercizio, come si è visto, di un potere attribuito a un organo politico-amministrativo monocra-tico; per sua natura, non contempla la necessità di sottoporre il processo decisionale a un trasparente confronto pubblico nell’ambito di un organo collegiale elettivo e rappresentativo di una pluralità di posizioni. Dal punto di vista dell’argomentazione questo implica una parsimonia argomentativa propria dello strumento, prima ancora che delle intenzioni di chi lo utilizza.

È evidente come l’abuso del potere di ordinanza comporti non poche conseguenze sulle rappresentazioni e sulle dinamiche reali dell’esercizio del potere locale, andando a incidere su (e, di fatto, modificando) pratiche che pog-giano su principi cardine dell’ordinamento democratico. Secondo Cassatella:

«Tale situazione sembra incidere sulla stessa struttura dello Stato sociale di diritto […] in cui non sussistono decisioni automaticamente ed acriticamente conformi agli interessi di una astratta «collettività», considerata invece, nella recente prassi, quasi come data per scontata, quando non fatta surrettizia-mente coincidere con la porzione di corpo elettorale che appoggia l’attività politico-amministrativa del Sindaco». (Cassatella, 2010, p. 187).

Alcuni dei soggetti da noi intervistati hanno fatto riferimento a una sorta di “ritorno al Medioevo”, sia per la frammentazione del diritto, sia per la prevalenza di un potere diretto e indiscriminato esercitato da quello che potrebbe essere assimilato a un “signore feudale”. Livio Neri, di Avvocati per niente, sostiene per esempio l’importanza «che venga accertato e definito

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qual è il diritto, e che quindi il singolo comune non si senta feudatario di quel territorio da poter decidere le leggi in quel piccolo territorio».

La dinamica del potere attivata dalla facilità di utilizzo delle ordinanze promuove una rappresentazione del circuito tra produzione normativa e produzione del consenso auspicabilmente chiuso e impermeabile a fattori esterni. In altre parole, gli agenti (sindaci, assessori e politici locali) che adottano e difendono nel discorso pubblico tale impostazione delle politiche di sicurezza, interpretano spesso il loro agire come se dovesse essere tenuto al riparo da quelli che vengono considerati come tentativi antidemocratici di intromissione indebita da parte di soggetti esterni (associazioni di cittadi-nanza attiva, magistrati) non titolati a modificare o impedire la realizzazione di quella “volontà” perché non eletti e legittimati dal consenso popolare.

In questo senso, per quei sindaci l’ordinanza diviene uno strumento “demagogico”, dove a questo termine non viene attribuita l’accezione di deriva o «pericolo caratteristico della democrazia» [Cooper 1838, p. 101], ma quella avalutativa di «tecnica indispensabile della lotta politica» con la quale il leader si conquista la «fiducia e la fede delle masse» [Weber 1919; trad. it., pp. 78 ss.]6. È così che lo strumento ordinanza viene utilizzato come se incarnasse la vox populi, pur manifestando al tempo stesso tutte le caratteristiche dell’atto d’imperio non mediato.

Tale prospettiva, che si propone come un appello a una sorta di “de-mocrazia reale”, esprime in realtà un’avversione ai principi, alle forme, ai limiti e ai vincoli che configurano lo stato di diritto, oltre che la scarsa cultura giuridica dei soggetti con responsabilità istituzionali che la adottano.

Di segno opposto sono invece quelle esperienze che, proprio nei territori in cui maggiore è stata la pressione delle ordinanze in materia di sicurezza urbana, si sono affacciate sulla scena della discussione pubblica per opporsi alle forme e ai contenuti della “devoluzione securitaria”, per avviare in vario modo attività di reframing e di contrasto nei confronti della stigmatizzazione dei luoghi e dei soggetti colpiti da quelle politiche. Si va dalle singole prese di posizione pubbliche a raccolte di firme contro le ordinanze, dalla costitu-zione di comitati di quartiere all’attivazione di soggetti di cittadinanza attiva già presenti nel contesto locale e nazionale per promuovere ricorsi all’auto-rità giudiziaria. È proprio questa reattività e questo attivismo della società civile che hanno dato impulso alla risposta dell’ordinamento nei confronti di un processo di nemmeno troppo lenta erosione dei suoi principi generali e delle garanzie poste a tutela dei diritti fondamentali.

6 Sul concetto di “demagogia” cfr. L. Canfora, “Demagogia. Nel mondo antico e moderno” in Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani, 1992.

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Vale la pena, anche in questo caso, soffermarsi su quanto è avvenuto nei casi presi in esame. A Milano, già nel 2008, ben prima quindi della for-male emanazione delle ordinanze su via Padova, ma giusto in concomitanza con l’avvio di quella stagione, nasce il Comitato Vivere in Zona 2, che ha tra i suoi obiettivi quello di lavorare alla progettazione di interventi per la promozione e la riqualificazione del quartiere e che si impegnerà da subito per contrastare la stigmatizzazione della via come dei suoi abitanti stranieri e italiani. Nel febbraio 2009 viene organizzato un incontro pubblico in cui viene presentato un lavoro di analisi degli articoli riguardanti il quartiere apparsi sui principali quotidiani nazionali e di decostruzione dei meccanismi di produzione delle notizie:

«un’analisi di tutta una serie di articoli che ha potuto comprovare che interi passaggi di un articolo, ad esempio, scritto nel 2003 venivano riportati nel 2009 proprio paro paro, copiando dati, etc. L’ho fatto sia sui dati riportati, sia sulle fonti che venivano citate. Erano sempre gli stessi personaggi, quat-tro personaggi che raccontavano sempre le stesse cose». (Carlo Bonaconsa, Vivere Zona2)

Nel maggio di quello stesso anno, il Comitato aveva organizzato un convegno intitolato “via Padova, finestra aperta sul mondo” aperto alla par-tecipazione di rappresentanti di Comune, Provincia e Regione e di soggetti della società civile. Il percorso di attivazione della rete per la costruzione di una festa di via Padova precede dunque di circa un mese l’omicidio di Aziz e buona parte dei soggetti appartenenti al “progetto festa” sono stati chiamati a partecipare al tavolo di lavoro voluto dal Sindaco Moratti prima che venissero emanate le ordinanze.

L’Amministrazione non darà seguito agli impegni assunti al termine di questo incontro, ovvero l’istituzione di una cabina di regia inter-assessorile per la costruzione di progetti integrati su via Padova ed una nuova riconvo-cazione del tavolo fissata il 31 marzo 2010, alimentando il senso di frustra-zione e la disillusione della società civile attiva nel territorio. Al contrario il 6 marzo 2010 in un nuovo comunicato De Corato polemizza con le prime mobilitazioni in solidarietà con gli stranieri:

«Mentre in via Padova le Forze dell’ordine continuano i massicci controlli con-tro il degrado del quartiere, arrestano clandestini spacciatori, in piazza sfilano i supporter di coloro i quali hanno sempre difeso chi si pone al di fuori della legalità: irregolari, abusivi, gang sudamericane, islamici pro Hamas, nomadi abusivi, asilanti di ‘professione’. Un’improbabile difesa d’ufficio sotto il finto ombrello del razzismo».

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Inizia, nella sostanza, una battaglia simbolica sulla definizione di pro-blemi e soluzioni tra l’amministrazione e i cittadini che si oppongono alle ordinanze. Nel quartiere le reazioni alle ordinanze sono immediate, i primi a mobilitarsi sono un piccolo gruppo di commercianti ed in particolare il Bar Ligera, un locale abbastanza noto nel quartiere per le sue attività culturali. La prima risposta organizzata della società civile è una manifestazione tenu-tasi il 29 aprile 2010, convocata come “Passeggiata liberatoria”, che unisce cittadini e commercianti sotto lo slogan “Chi ama via Padova?”. È l’inizio delle attività di reframing costruite nel e dal quartiere. Chi manifesta lo fa per dire: «noi le ordinanze non le vogliamo perché la realtà che vogliamo costruire è una realtà di prevenzione e di valorizzazione delle tante ricchezze presenti nel territorio».(Carlo Bonaconsa, Vivere in Zona 2)

L’introduzione delle ordinanze fa anche da catalizzatore per le riunioni della “rete festa”, che lavora nella prospettiva di costruire una progettazione politica dal basso sul quartiere, attraverso la partecipazione dei cittadini. In parallelo, anche i commercianti si aggregano attorno all’idea che le ordi-nanze non siano uno strumento adeguato per intervenire sulle criticità del quartiere. I soggetti coinvolti nell’organizzazione della festa lavorano per accendere «i riflettori sulle eccellenze che ci sono in questa zona […] facen-do un’azione, fondamentalmente, di lobbying culturale».(Luisa dell’Acqua, Cooperativa Comin)

Il 22 ed il 23 maggio 2010, la scommessa di aggregare il quartiere intorno ad una festa prende vita sotto lo slogan “Via Padova è meglio di Milano”, che definisce in modo inequivocabile la volontà di fornire una rappresentazione alternativa a quella “istituzionale” e mediatizzata di que-sto territorio. È un’operazione importante e significativa dal punto di vista simbolico, tanto da stimolare la reazione del vicesindaco De Corato che con un comunicato stampa ribadisce quanto sia «illusorio pensare che bastassero meno controlli e un po’ di buonismo per risolvere d’incanto i problemi de-terminati dagli enormi flussi immigratori» e come «senza la presenza delle forze dell’ordine e senza le ordinanze che comportano maggiori presidi la situazione andrebbe fuori controllo».

Il percorso di reframing ha però iniziato a decostruire la caratterizzazione dell’ambito territoriale via Padova-Parco Trotter come “territorio a rischio”, cristallizzata nei dispositivi e nei discorsi che hanno accompagnato l’intro-duzione delle ordinanze. A detta dei testimoni da noi intervistati, il quartiere «ha risposto in maniera forte», contestando «l’immagine di via Padova come la casbah, il ghetto» (Arcangela Mastromarco, Polo Start1) e sperimentando nuove forme di aggregazione e di progettazione sociale che producono effetti tanto sull’auto-percezione di abitanti e operatori della zona:

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c’è anche un aspetto positivo se vogliamo, cioè, nel male... ci ha un po’ unito di più, ci ha anche fatto essere un po’ orgogliosi, ci ha fatto venir fuori

Federico Chendi, Bar Ligera

quanto sul discorso pubblico e sulle rappresentazioni esterne

sia all’interno delle realtà associative sia presso la stampa e l’opinione pubbli-ca, e anche presso realtà politiche del territorio che cominciano a interessarsi sulla via Padova, che la considerano come un pezzo di territorio importante della Zona 2, non marginale, su cui si stanno scommettendo in qualche modo anche i destini futuri dei progetti di immigrazione di Milano

Carlo Bonaconsa, Comitato Vivere in Zona 2

Tutto ciò fornisce l’impressione che un simile percorso, il discorso pub-blico e le pratiche di cittadinanza attiva da esso attivate, possano avere vita ben più lunga di quelli originati e veicolati dalle misure di contrasto al de-grado, di tutela della sicurezza urbana e dell’incolumità pubblica presenti nelle ordinanze.

A Brescia, invece, sebbene la questione del degrado del Carmine fosse all’attenzione dell’opinione pubblica da diversi anni, l’estemporaneità con cui è balzata agli onori della cronaca la decisione di emettere le ordinanze che hanno imposto restrizioni agli orari di apertura degli esercizi pubblici in quel quartiere e alla Mandolossa ha generato dinamiche diverse nel discorso pubblico e nelle pratiche di reframing. Le reazioni immediate, i commenti a caldo che si sono letti sui giornali nei giorni successivi alla pubblicazione delle ordinanze hanno registrato un’immediata polarizzazione delle posizio-ni tra favorevoli e contrari, tra sostenitori della necessità di un intervento definito “anti-ghetto” (così come battezzato dallo stesso vicesindaco Rolfi) e oppositori di quello che era visto come un provvedimento “coprifuoco”.

La reazione a caldo da parte delle associazioni locali dei commercianti è comune e condivisa e può essere riassunta in un atteggiamento critico ma prudente, in attesa di verifiche e approfondimenti. Il presidente locale di Confesercenti, Piergiorgio Piccioli, ritiene che le ordinanze emesse lascino «spazio a molte riflessioni e a parecchie preoccupazioni» e dichiara: «Così su due piedi non posso certo dire di essere contento, ma per un giudizio più approfondito mi riservo di analizzare nel dettaglio i documenti». Prudente ma critica è anche la reazione del presidente di Ascom, Carlo Massoletti, che dichiara:

«se da un lato condividiamo il tentativo dell’amministrazione comunale di porre fine a episodi di disturbo e criminalità in particolari quartieri della nostra città è pur vero che procedendo con provvedimenti di questo tipo si rischia di

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essere poco chirurgici e di non riuscire a distinguere bene le realtà che creano problemi da quelle che invece non ne pongono, ma al contrario costituiscono un naturale sistema di difesa del territorio. […] Si tratta comunque di inter-venti di natura sperimentale e sono certo che come tali andranno verificati sul campo, così da poter poi dibattere su eventuali esiti e possibili modifiche»

La prudenza e l’apertura al dialogo dimostrata dai rappresentanti delle associazioni di categoria viene meno quando ad essere interpellati sono di-rettamente gli esercenti della zona, tra i quali il giudizio prevalente è quello che descrive i provvedimenti come l’ennesima azione anti-immigrati.

La prima attività di vero contrasto al provvedimento si ha con l’iniziativa di raccolta firme per dire «No al coprifuoco», che ha preso il via l’indomani dell’entrata in vigore dell’ordinanza e che è stata stimolata proprio da alcuni baristi (italiani) del quartiere che, pur trovandosi al di fuori dall’area interes-sata dall’ordinanza, si sono detti preoccupati dal «rischio desertificazione» dell’intero quartiere. «No al coprifuoco, sì all’aggregazione in città»: inizia in questo modo l’appello sottoscritto da oltre 400 persone che recita:

«Noi siamo contrari a questo provvedimento, che mette in discussione e a repentaglio la possibilità di sopravvivenza di diverse attività commerciali già colpite dalla crisi. E siamo contrari, soprattutto, perché riteniamo che la si-curezza pubblica non si tuteli con l’imposizione di improbabili “coprifuoco”. Al contrario, siamo convinti che la sicurezza collettiva possa essere fortemente incentivata dall’aggregazione e dalla socialità che i luoghi riescono a espri-mere. E questo è ancora più vero in un quartiere problematico e complesso come il Carmine».

L’appello ricorda che «esistono già numerose norme, anche di carat-tere penale, che permettono di intervenire laddove si riscontrino situazioni di illegalità» e che «imporre la chiusura alle 22 di bar e ristoranti non fa crescere la sicurezza, serve solo a creare disagio alle attività commerciali e ai residenti. E a creare un clima, questo sì, di insicurezza».

Alla raccolta di firme segue prontamente un ricorso presentato al Tar di Brescia dall’associazione Radio Onda d’urto che gestisce un circolo cul-tural-ricreativo proprio nella zona interessata dall’ordinanza. Il 15 novembre 2011, il Tar ha accolto il ricorso dell’associazione. Secondo i giudici l’ordi-nanza, che impone restrizioni di orario a tutti i locali, indiscriminatamen-te, «senza limitarsi alla repressione delle singole situazioni fuori norma», è illegittima, in quanto il sindaco non ha la facoltà di esercitare tale potere. Per essere considerato legittimo, secondo il Tar, un simile intervento «deve essere basato su esigenze effettivamente contingibili e urgenti, e comunque proporzionato ai problemi rilevati nell’analisi della situazione di fatto». Il

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Tribunale sottolinea che così facendo il Comune mette invece «sullo stesso piano fenomeni tra loro distinti (criminalità, clandestinità, disturbo della quiete pubblica, assembramenti molesti o sospetti, violazione delle licenze commerciali e delle norme igienico-sanitarie) e comprime indistintamente tutte le attività economiche esistenti collegabili direttamente o indiretta-mente a cittadini stranieri». Ritiene pertanto l’ordinanza discriminatoria, in quanto collettivizza «le responsabilità su base statistica, senza limitarsi alla repressione delle singole situazioni fuori norma», e aggiunge che così facendo «il costo dell’intervento di contenimento del degrado urbano viene ingiustamente addossato ai soggetti che contribuiscono meno alla formazio-ne del problema». E questo, precisa il Tribunale, è proprio il caso di Radio Onda d’urto, alla quale «non può essere attribuito alcun collegamento con le cause di degrado e di pericolo per la collettività».

Accantonata l’ordinanza, nel quartiere è rimasto per qualche tempo il desiderio di «prendere l’idea… visto che si era valutato [il concetto di] anti-ghetto, di andare a vedere quali sono gli elementi di forza del quartiere da questo punto di vista. Uno di questi è quello di avere nello stesso quartiere soggetti residenti italiani, soggetti residenti immigrati e soprattutto molti saperi diversi. Allora l’idea era quella […] di cercare un modo di incanalare queste forze all’interno di forme di riqualificazione anche culturale, […] che mettessero in relazione queste nuove forme di immigrazione con i saperi che portano alla città». (Maria Luisa Venuta)

A differenza di quanto è avvenuto a Milano, però, tanto il discorso pubblico, quanto le pratiche di fruizione dei luoghi nel quartiere hanno preso ben presto altre strade. Da un lato, è avvenuto quanto descritto da Maria Luisa Venuta: «quello che ho visto legato all’ordinanza è un dibattito molto informale […] e temporaneo. Quando si è risolto il problema si è in qualche modo accantonata la situazione che l’aveva fatta scaturire… non è partito da quello una vera azione politica e di intervento, di lavoro sull’o-pinione pubblica, […] o al Comune perché intervenissero in altro modo». Dall’altro lato, con il venir meno delle restrizioni, si è assistito a una vera e propria esplosione della vita ricreativo-culturale del Carmine che – come si è detto introducendo il caso-studio bresciano – in pochi mesi si è trasformato nel centro della movida serale della città. Tanto che l’Amministrazione nel gennaio 2013 ha emanato un’ordinanza di tutt’altro genere: quella che ha ampliato la ZTL (Zona Traffico Limitato) a molte vie del quartiere nelle ore serali e notturne, per evitare il sovraffollamento di automobilisti in cerca di un parcheggio vicino ai numerosi locali pubblici che hanno aperto in zona. Gli avventori, in questo caso, sono principalmente ragazze e ragazzi italiani, così come italiani sono i gestori dei locali. La priorità dell’amministrazione

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e dei residenti non è più il contrasto al “degrado”, ma ai fenomeni di “di-sturbo della quiete pubblica”, e la percezione di insicurezza si è spostata dal rischio per l’incolumità personale a quello di non trovare parcheggio quando si rientra a casa la sera.

7. Considerazioni conclusive

Come abbiamo ricordato, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 115 del 4 aprile 2011 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 54, comma 4, modificato dal “pacchetto sicurezza 2008”, riconducendo il potere di ordinanza dei sindaci in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana alle sole ordinanze contingibili ed urgenti.

La Corte, in particolare, dopo aver chiarito che le ordinanze sindacali cosiddette ordinarie non avrebbero comunque potuto derogare a norme legislative o regolamentari vigenti, ha interdetto il potere sindacale perché in contrasto con gli artt. 23 e 97 della Costituzione. La Corte sostiene che tali ordinanze «incidono per la natura delle loro finalità (incolumità pub-blica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio) sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati», e che la nostra Costituzione impone che «nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base alla legge».Secondo la Consulta, inoltre, la norma contrasta con l’art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto: «lede il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci».

Non si può però negare che uno degli effetti di lunga durata prodotti dalla stagione delle ordinanze riguardi la produzione e diffusione di nuove “classi pericolose” che potranno continuare a essere riconosciute e utilizzate politicamente anche se lo strumento che ha contribuito a generarle non è stato accantonato.

Come ha evidenziato Anna Lorenzetti [2010a, p. 109], le ordinanze hanno dato vita a «un modello di doppio binario punitivo a carico di gruppi di soggetti ritenuti potenzialmente lesivi di interessi (astratti o concreti) della maggioranza della popolazione, quasi delineando una prospettiva punitiva soggettiva». Molte ordinanze «sembrano voler realizzare un prestabilito or-

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dine sociale, comprimendo le molteplici differenti componenti della società, attraverso l’introduzione di divieti caratterizzati non sulla base delle condotte ma degli attori delle stesse»[ivi, 2010, p. 94].

Ed è proprio su considerazioni come queste che si sono basate anche numerose sentenze dei tribunali ordinari che hanno annullato tali ordinanze, ribadendo che il potere pubblico può intervenire nella sfera di libertà del soggetto privato solo sulla base di una previsione di legge.

E oggi che non ci sono più le ordinanze nella forma che era stata in-trodotta dai pacchetti sicurezza? Quale eredità è rimasta? Si può dire che la “stagione delle ordinanze” sia effettivamente superata? Si può innanzitutto dire che le ordinanze hanno contribuito a uno “sfondamento” del tema si-curezza, che è avvenuto tanto a livello nazionale, quanto a livello locale, che ha riguardato il piano della politica, della comunicazione, fino a quello della percezione individuale e sociale dello spazio pubblico. Si può immaginare che in tempi di grave crisi economica come quella che stiamo attraversando, la paura nei confronti del diverso e la spinta a mettere in campo provvedimenti repressivi e di esclusione possano continuare a ribadire la necessità di simili politiche di sicurezza. La trasposizione, operata da diverse amministrazioni locali, di molti contenuti presenti nelle ordinanze in strumenti più solidi dal punto di vista sia giuridico sia politico come i Regolamenti di polizia urba-na, mostra come quello “sfondamento” sia ben lungi dall’essere riassorbito.

Al tempo stesso, però, non si può non considerare una dinamica di segno opposto, che in diversi casi si è verificata proprio nei territori toc-cati direttamente da un’ordinanza. Come si è visto, infatti, è accaduto che quartieri, vie o zone della città, finiti sotto stretto controllo in nome della sicurezza – e che secondo quel meccanismo circolare già descritto sono stati anche oggetto di ordinanze e di una ribalta mediatica negativa – abbiano in un certo senso avviato un processo che va nella direzione di un’inversione di segno dello “stigma securitario”. Può essere letto in questo senso l’intero processo che ha portato alla festa di via Padova e allo slogan “Via Padova è meglio di Milano”, o ciò che sta avvenendo nella zona del Carmine a Brescia, dove proprio il venir meno della pressione politica e mediatica provocata dalla cosiddetta “ordinanza coprifuoco” ha permesso di liberare nuove energie che hanno, in pochi mesi, cambiato l’immagine, gli equilibri e le istanze del quartiere.

In questo senso la “stagione delle ordinanze” ha generato anche un maggiore coinvolgimento nel dibattito pubblico (sebbene quasi esclusiva-mente sotto forma di confronto ex post) da parte di “normali” cittadini, che probabilmente non si sarebbero mobilitati nelle forme e nelle strutture classiche della partecipazione politica o associativa, ma che toccati diret-

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tamente dalle misure adottate e dal “cattivo nome” assegnato al quartiere in cui vivono o lavorano, hanno reagito, si sono informati con maggiore attenzione, hanno partecipato ad assemblee e manifestazioni, si sono formati delle opinioni più articolate e consapevoli, al punto di praticare forme anche innovative e impreviste di cittadinanza attiva. Da questo punto di vista, si può dire che sono state proprio le reazioni di questi soggetti a fornire pezzi di argomentazione pubblica laddove le ordinanze ne avevano ridotto la qua-lità. E c’è ragione di credere che – se pure in forme e con un’intensità che allo stato attuale è difficile prevedere – questa “produzione argomentativa” e questa maggiore inclinazione alla partecipazione nello spazio pubblico possa continuare anche quando i riflettori sulla stagione delle ordinanze si saranno definitivamente spenti.

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sezione seconda

Una città neo-liberale. L’argomentazione in atto pubblico

tra norma, fatto e finzione

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Presentazione

“How to do things with words” : questa celebre questione di John Austin va presa tanto più in conto là dove le parole in questione sono profferite in atto pubblico, e da un’autorità pubblica che in tal modo fissa norme – come sui terreni di ricerca che abbiamo indagato e a cui ci appoggeremo in questa Sezione del volume. Gli atti in questione sono testi normativi di governo della città, che fissano interventi e politiche alla scala urbana.

Il richiamo ad Austin è un buon punto di avvio per illustrare in breve l’ambito delle questioni che ci apprestiamo ad affrontare qui. Il potenziale performativo delle parole, generativo di pratiche, che Austin ha messo in luce è del tutto evidente quand’esse siano usate per fissare norme – non a caso questi spazi di parola (pubblica) si chiamano “atti”. È del resto notoriamente il diritto, il linguaggio della legge, che ha egemonizzato la produzione di norme con cui si esercita un’autorità di governo, nel formato dell’imperio. Ma la nostra esplorazione non si poteva accontentare di questa evidenza, non foss’altro perché è ormai altrettanto noto che quel linguaggio si è nel frattempo indebolito, e quell’autorità non ha più un potere imperativo, non regolamenta più, ma piuttosto regola. Lo scenario, infatti, è quello della governance, un modo di governare la città che opera “a distanza”, non per atti imperativi appunto, bensì coinvolgendo una varietà di enti e agenti nella gestione di politiche pubbliche. Di questo dato di contesto daremo conto in breve nel Primo dei capitoli di questa Sezione1. Il richiamo ad Austin è dun-que specialmente appropriato: con le parole – e i discorsi – che istituiscono politiche pubbliche non si richiede di sottostare a un ordine, ma un altro genere di normatività vi si esercita, più performativa che imperativa. Che corrisponde all’arte di governare come “condotta di condotte” di cui parla

1 Precisiamo tuttavia da subito che non entreremo nel merito dell’ampia e variegata di-scussione scientifica sulla governance, né prenderemo posizione in merito. Misura di pru-denza vuole che ci si attesti a considerare la “governance” una nozione ombrello, come del resto si dice. Anche noi ne facciamo e ne faremo uso, approfittando della sua ospitalità. Ma tenendo allo stesso tempo a mente – questa è la misura di prudenza – che benché, o forse perché ospitale, non per questo essa è innocua. Ci pare che, nella sua indeterminatezza stia il segreto della sua diffusione, nel lasciare fluire i discorsi nell’indeterminato, nell’indiffe-renza alle differenze: un tratto, questo, che riconosceremo nei discorsi delle politiche che ci apprestiamo ad esaminare.

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Foucault. Un’ordinanza del sindaco per l’appunto “ordina”, forma limite del potere d’imperio: eppure, come s’è già cominciato a vedere nella Prima Sezione a questo proposito, anche nelle ordinanze la forza normativa si è spostata su un altro piano, o quanto meno non si esaurisce soltanto in ciò che vi si ordina. Perciò la nostra esplorazione va a cercare, in questo come in altri atti pubblici, come si esprima questa forza normativa: con quali pa-role – quale vocabolario, lessico, argomenti, e in quali formati argomentativi; parlando di che cosa e dentro quali registri discorsivi, quando per esempio l’argomento è la città; e quale autorità si esercita in quegli atti, e attingendo a quali grammatiche giustificative.

Abbiamo focalizzato l’attenzione su atti normativi relativi a politiche urbane della città di Milano, nel periodo della giunta Moratti. In questa focalizzazione confluisce un patrimonio di ricerche condotte nel corso degli ultimi dieci anni sulle politiche di welfare (sociali, sanitarie, abitative) in diversi contesti regionali e locali, e guardando a differenti regimi di go-vernance2. In quest’ambito, con indagini comparative su diversi strumenti di policy, abbiamo messo a fuoco in particolare il “modello lombardo di governance” e il regime di welfare della Regione Lombardia, ivi comprese politiche alla scala urbana con riguardo a Milano. L’enfasi sulla “libertà di scelta”, la declinazione del principio costituzionale della sussidiarietà con la privatizzazione e la mercatizzazione di molti servizi, delineano i tratti – del resto noti – di un regime di governo di stampo neo-liberale. Così come ne costituisce un tratto quel “governo debole” della città che abbiamo riscon-trato a Milano, guardando alle sue politiche urbane [de Leonardis 2010]. Qui mettiamo dunque a frutto ciò che dalle nostre ricerche è emerso sul

2 Abbiamo dato conto dei risultati di queste ricerche per l’essenziale nelle seguenti raccolte: Bifulco 2003; Bifulco 2005; Bifulco et al. 2006; Monteleone 2007; Bricocoli, de Leonardis, Tosi 2009, concernenti due ricerche d’interesse nazionale consecutive su questi temi; De Leonardis, Negrelli, Salais 2012, a conclusione della partecipazione al progetto Europeo Capright. Altri riferimenti verranno citati man mano. È questa l’occasione per ringraziare Diana Mauri, Raffaele Monteleone e Andrea Molteni, che pur non figurando tra gli autori di questa Sezione hanno dato contributi importanti in tutte le fasi della ricerca di cui qui diamo conto. Ringraziamo inoltre i partecipanti alle attività del Laboratorio di Sociologia dell’Azione Pubblica Sui Generis dell’Università di Milano Bicocca, ivi compresi i numerosi seminari e incontri nei quali si è discusso di questioni pertinenti alla riflessione sviluppata qui. Un grazie particolare per i loro contributi alla discussione a Patrick Le Galès, Tommaso Vitale, Tamar Pitch, nonché ai colleghi del Politecnico di Milano – Massimo Bricocoli, Paola Savoldi, Giovanni Hänninen, Piercarlo Palermo – per le numerose occasioni di scambio e confronto sulle politiche urbane. Altrettanto riconoscenti siamo nei confronti dei componenti delle altre équipe del progetto Prin su “La qualità dell’argomentazione pubblica” – primo fra tutti Franco Rositi, che l’ha coordinata – con i quali abbiamo discusso diversi passaggi importanti del percorso di ricerca e di elaborazione.

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Una città neo-liberale 131

modo in cui questa impronta agisce nel configurare i dispositivi (o “stru-menti”) normativi delle politiche sulle materie sociali in genere, e su quelle che pertengono al governo della città in particolare. E abbiamo proseguito l’esplorazione su questa impronta neo-liberale, concentrando per l’appunto l’attenzione su alcuni testi normativi emanati dal governo Moratti a Milano. Ci interessava infatti andare a studiare da vicino come questa impronta si esprima nelle parole e nei discorsi che vi sono fissati, e quale tipo di nor-matività vi si sprigioni.

Operando dei carotaggi su questi testi, e mettendo in prospettiva com-parativa (e diacronica) ciò che portavamo alla luce, abbiamo raccolto indizi di un tratto di fondo che ricorre, con diverse sfaccettature, nell’argomentare in materia di scelte pubbliche sulla città: nel rapporto tra argomenti fattuali (le cose stanno così) e argomenti normativi (si deve fare questo) si produce uno slittamento dell’assertività che è propria del normativo. Essa si esprime non tanto sul piano di ciò che va fatto quanto su quello della definizione della situazione. I vincoli che questi atti istituiscono poggiano su enunciati che non concernono la loro validità normativa (come accade con il lin-guaggio giuridico) bensì semmai il loro valore di verità, o di veridizione. Sembra esser qui all’opera quel collasso della distinzione tra piano cognitivo e piano normativo, tra dati di fatto e norme, che da più parti è già stata messa in evidenza nelle ricerche sul formato della normatività nella gover-nance neo-liberale, e sul complementare formato delle basi di conoscenza e informazione su cui poggia. Richiameremo queste ricerche nel capitolo 1. Mentre nel capitolo 2 questo collasso verrà ancorato da Mozzana e Polizzi al contesto dei cambiamenti che investono il ruolo delle competenze tecnico-scientifiche e il loro rapporto con la politica. Ma diciamo qui subito che ci è parso importante mettere sotto osservazione come si configuri quella realtà dei fatti nei discorsi sulla città, in questi testi, e come essa acquisti un potere normativo. L’elaborazione concettuale di questo interrogativo è affidata al capitolo più propriamente teorico (capitolo 3) di Paola Molinatto che, facendo dialogare diversi approcci, ne argomenta la rilevanza: è nel formato della, e nel riferimento alla realtà che si gioca la depoliticizzazione su cui qui ragioniamo, là dove anche si neutralizza la critica.

Sul piano analitico, abbiamo isolato due registri discorsivi nei quali entra in gioco il riferimento al reale. Il primo poggia su, o piuttosto evoca l’autorità di saperi esperti, l’argomentare scientifico, e il criterio dell’og-gettività, la prova dell’evidence che ne giustifica le pretese di verità. Questo registro discorsivo presenta i processi di trasformazione della città come dati, li tratta come tendenze oggettive e naturalizzate e in quanto tali inevitabi-li. Nei primi due capitoli illustreremo e discuteremo numerose tracce del

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registro dell’inevitabile – ciò che la città sarà è già dato – anche su terreni eterogenei. E vedremo come con esso si giustifichino le scelte in materia di governo della città che in questi atti normativi si fissano. Per esempio la “sostenibilità” di cui si parlerà nel capitolo 2 viene argomentata non come una scelta politica, ma come uno stato di necessità. Un aspetto saliente da segnalare fin d’ora è che, se di scelte si tratta, esse risultano tuttavia del tutto depurate da riferimenti a valori e fini – partigiani, ovvero politici – da perseguire nel governare la città con quegli atti, e altrettanto da riferimenti ad azioni, al fare pratico e politico per trasformare la città in base a quei fini e valori. Questo vistoso depotenziamento della dimensione politica del governare è del resto coerente con il presupposto neo-liberale dell’ordine sociale spontaneo e con il conseguente ripudio di intenzioni politiche e pre-tese costruttiviste di cui von Hayek è stato il massimo portavoce.

Il secondo registro discorsivo attiva un altro livello di realtà, che chiama in causa la prefigurazione della città con lo strumentario della simulazione. Quest’altra realtà, fittizia, non è inevitabile, bensì seducente; o meglio essa alimenta un argomentare suadente, seduttivo. Il registro della seduzione fa leva sull’immaginario (o piuttosto sul meraviglioso, come vedremo) e allestisce una rappresentazione della città da desiderare. Non siamo lontani dal lin-guaggio pubblicitario. Anche di questo registro discorsivo si rilevano tracce numerose: soprattutto, ma non soltanto, nel formato delle immagini a corredo dei testi, che abbiamo indagato come anch’esse un modo di argomentare. Lo analizziamo da prospettive diverse in tutti e tre i Capitoli, rintracciando nel seduttivo – del rendering di complessi residenziali come delle immagini del “verde” che s’irradia nella città – una specifica forza normativa che si esercita nell’indicare a che cosa, e come aspirare. Un risvolto importante della presenza di questo registro discorsivo in atto pubblico, su cui riflettia-mo sia nel primo che nel terzo capitolo, concerne un secondo collasso che si verifica sul terreno del rapporto con il reale: un collassare della tensione tra rappresentazione e realtà, “tra mappa e territorio”. In questa indistinzione viene di nuovo meno la politica, nel suo essere un vocabolario per riconoscere e trattare questa tensione, con ciò consentendo un grado di riflessività nella discussione pubblica, come si argomenta nel capitolo 3. Anche nel registro della seduzione - precisamente in ragione di questa indistinzione su cui fa leva, nel risolversi della questione del vero nel “verosimile”, come mostra Paola Molinatto – rileviamo un altro tratto saliente del neo-liberalismo, là dove esso invita a partecipare allo spettacolo della città, e alla “società dello spettacolo”, sottraendosi alle contingenze della vita urbana reale, all’incontro con le differenze che fanno la città, da Aristotele in poi. In cambio viene meno la partecipazione alla città come comunità politica.

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Memori di Austin ci soffermiamo su singole parole, indaghiamo com’es-se punteggino l’argomentazione. E ne ricaviamo un’altra forte impressione. Anzitutto colpisce – lo vedremo – la genericità delle molte parole chia-ve che ricorrono – come “sostenibilità”, “sicurezza”, “decoro”, “identità”: l’indifferenza a qualificazioni e differenze, il riduzionismo, l’appiattimento della pluralità di significati, la sospensione del discorso e del conflitto sulla loro interpretazione. Esse pretendono di essere autoevidenti, ed evidente-mente condivisibili. Ritroviamo qui traccia di quelle “idee troppo generali” che Franco Rositi nel capitolo introduttivo del I volume [Rositi 2013] ha richiamato da Tocqueville: nelle quali si esaspera la tendenza tipicamente moderna a produrre generalizzazioni attraverso la classificazione dei fe-nomeni, nonché nella spiegazione causale e nella definizione dei valori. Delle scorciatoie nei processi di “risalita in generalità”, che ne disattivano il potenziale conflittuale. Un tratto che, come mostra Rositi, fa cadere quella tensione riflessiva dell’andirivieni tra generale e particolare che è propria della democrazia; e che alimenta quella “debolezza cognitiva” che è fattore rilevante dell’indebolimento della democrazia stessa [in proposito si veda anche Donolo 2009 e 2011]. Ma colpisce anche la reiterazione di queste parole “troppo generali”: insieme con il ripetersi di sequenze discorsive, il ricorso a sigle, acronimi, numeri e codici, segnala un grado elevato di stereo-tipizzazione del linguaggio. Un’economia di argomenti e una ritualizzazione del linguaggio che non possono non inquietare: tracce linguistiche simili a quelle che Viktor Klemperer ha puntigliosamente repertoriato nel nazismo, tracce del potere persuasivo di un potere totalitario.

Il “Piano di Governo del Territorio” è uno degli atti normativi con cui ci siamo misurati. E “Piano” è una parola intrigante. Per un verso fa specie rilevare che così si definisca un atto pubblico relativo al governo della città neo-liberale, essendo la pianificazione un modo di governare che evoca all’opposto una vocazione costruttivista, un progetto politico collettivo. E se poi se ne richiama la versione estrema, nei “Piani Quinquennali” sovietici, si rafforza l’impressione di un paradosso. Tutto il contrario di un governo debole e a distanza, che si limiti a fornire un assist all’operare dell’“ordine sociale spontaneo”. Ma esaminando la legislazione europea, Alain Supiot [2010] ha dato corpo all’ipotesi che a partire dal crollo del blocco sovietico (con la riunificazione della Germania e l’allargamento a Est dell’Europa) si sia prodotta in realtà una convergenza, una combinazione nelle tecnologie di governo che mette a profitto il know how della pianificazione: nel governo con gli obiettivi allestito dal programma del New Public Management, al cuore del programma neo-liberale. E Supiot ne rileva il potenziale autoritario, antidemocratico. Per parte nostra ci è parso significativo trovare, nel governo

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della città di Milano, un Piano senza il Pianificatore. Ovvero depurato di una presenza, responsabilità, scelta e azione di forze collettive che lo rendano riconoscibile come strumento di un governo politico. La depoliticizzazione è in effetti il filo conduttore che emerge dalla nostra indagine, e che ritorna con risvolti diversi in tutta questa Seconda Sezione, come una costante nel modo in cui sono argomentate e giustificate le misure normative istituite con gli atti pubblici di governo della città; la vediamo prodursi attraverso i due registri discorsivi che dicevamo, nonché nell’economia di parole e nel loro uso ritualizzato.

In fatto di parole ci soccorre qui Lewis Carol per bocca di Humpty Dumpty: “Chi comanda le parole?”. A complemento di quello di Austin, quest’altro quesito ci suggerisce dove cercare la depoliticizzazione nel go-verno della città neo-liberale. Là dove, nella metamorfosi delle parole che abbiamo cominciato a vedere, si disattiva la questione di chi parla e in nome di chi – la questione democratica della rappresentanza, per via politica. Per via, più precisamente, di quella “ragione politica” che sollecita la discussione pubblica ponendo, confrontando e combinando questioni di verità e que-stioni di valore, o di giustizia, nelle scelte e nelle azioni di governo [Rositi 2013; Besussi 2012]. In gioco vi è quel potere di naming che, già da Hobbes, sappiamo essere cruciale: la depoliticizzazione delle parole indebolisce la rappresentanza precisamente a fronte di questo potere – e in questo mette a repentaglio la democrazia.

O.d.L.

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1

Sulle tracce della depoliticizzazione nel governo della cittàdi Ota de Leonardis e Alberta Giorgi 1

Introduzione

Come cambia la politica con il passaggio dal governo alla governance? Come cambiano le arene politiche, gli attori, i temi, i repertori dell’azione poli-tica, con questo nuovo modo di governare che, come è stato detto, agisce “a distanza”, tramite reti, che “fa fare” piuttosto che “fare”? Come cambia la politica quando i poteri di governo si esplicano attraverso il disegno e l’implementazione di politiche pubbliche?

Intorno a questo passaggio dal governo alla governance si è sviluppato molto lavoro di ricerca, elaborazioni teoriche e discussioni, nonché – sul terreno normativo – un lavoro di modellizzazione e di ingegneria rego-lativa. Se ne parla molto, da prospettive tra loro diverse e a proposito di questioni e situazioni molto eterogenee tra loro, osservando arrangiamenti istituzionali differenti in materia di governo della cosa pubblica, e anche chiamando in causa implicazioni differenti – messa a repentaglio o invece rivitalizzazione – per la democrazia, intesa come regime politico di governo ma anche misurata sulle pratiche e sulle “abitudini del cuore” che queste pratiche alimentano.

I cambiamenti in questione sono comunque di ampia portata – su que-sto c’è accordo – e innescano dinamiche trasformative della politica, su piani e in modi differenti. Detto in termini molto generali, là dove s’instaura una forma di governance con le politiche si può registrare volta a volta tanto politi-cizzazione quanto, viceversa, depoliticizzazione: per un verso, si riscontrano

1 Il lavoro è frutto di un’intensa collaborazione tra le due autrici. Tuttavia, dovendo ade-guarci alla regola accademica che vige in ambito sociologico, in Italia, attribuiamo le parti del capitolo come segue: l’Introduzione e la 1ª Parte sono state scritte insieme; il paragrafo 1 della 2ª Parte e le Conclusioni sono state scritte da Alberta Giorgi, Ota de Leonardis ha scritto il 2° e il 3° paragrafo della 2ª Parte.

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dinamiche di rivitalizzazione della politica, in quanto questa venga letta nell’allargamento della partecipazione dei cittadini sulle questioni che le po-litiche intendono affrontare e nell’intensificazione della discussione pubblica con il coinvolgimento di una pluralità di voci – da cui anche la democrazia trae vantaggio, come osservano per esempio March e Olsen [1995, p.214; Bifulco e de Leonardis 2006]; o invece si segnalano dinamiche di depo-liticizzazione: quando questioni oggetto di scelte pubbliche sono sottratte alla discussione, al conflitto e al compromesso tra punti di vista partigiani; quando si depotenziano i processi di traduzione (e mediazione) di valori e fini in obiettivi politici; e quando le scelte stesse vengono fondate su criteri di legittimità differenti dal loro essere un compromesso politico – tra cui, come poi vedremo, sulla pretesa oggettività dell’evidence scientifica che le giustifica.

Di queste dinamiche di depoliticizzazione ci occupiamo qui, inquadran-dole in quell’ordine sociale “neo-liberale” che emerge dalle metamorfosi del capitalismo2. Nella parte I di questo capitolo richiamiamo alcuni tratti essenziali delle trasformazioni che accompagnano l’instaurarsi della governan-ce con le politiche, con l’intento di mettere meglio a fuoco matrici e forme di depoliticizzazione delle scelte di governo. Si tratta, in un certo senso, di fornire un “contesto” per l’analisi dei “testi” – gli atti pubblici su cui lavore-remo nella Parte II, guardando al modo in cui sono argomentate, e fissate, quelle scelte di governo. Guardiamo anzitutto agli studi che si sono sviluppati attorno alle trasformazioni del discorso politico, delle arene e degli attori coinvolti, dal momento che si tratta appunto di indagare la depoliticizzazione che si esprime nel depotenziamento della discussione pubblica. I cambia-menti investono in effetti prioritariamente la natura discorsiva della politica, il suo essere un linguaggio per dialogare, per discutere di problemi e di fini collettivi, e per giustificare decisioni e azioni; in tal modo trasformando la «cacofonia di significati disparati» in confronti e accordi sulle parole [March e Olsen 1995, p. 223], ovvero trasformando la molteplicità eterogenea delle persone costitutiva della città in una comunità politica: poiché, come dice HannahArendt, la politica emerge negli “intervalli”, nello spazio “in-between” delle relazioni tra soggettività molteplici e differenti [Arendt 2001, pp. 39-43]. Il depotenziamento della discussione pubblica sulle scelte di governo che questi studi segnalano, passa per la mediatizzazione dell’arena politica, la personalizzazione del potere, l’antipartitismo e il populismo, la diffusione

2 Su queste metamorfosi il riferimento principale è il lavoro di Boltanski e Chiappello 1999, sul quale tornerà Paola Molinatto, nel capitolo 3 di questa sezione. Si vedano anche Jobert 1994; Hood 1995. Si tenga presente che la depoliticizzazione, così inquadrata, costituisce un filo conduttore dell’intera sezione.

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di tutte quelle forme di partecipazione politica che si traducono nell’espres-sione di una preferenza all’interno di un ventaglio di opzioni date – il “mi piace” di facebook.

È sul terreno dei discorsi intorno alle politiche che andiamo a rilevare tracce di questi cambiamenti della politica innescati dalla governance attraver-so le politiche: precisamente negli atti pubblici, nei testi normativi che quelle politiche istituiscono, dove dunque quei discorsi si fissano e fissano significati e ragioni per l’azione. Vogliamo prendere sul serio i discorsi per ciò che essi ci dicono dei cambiamenti in atto: come ha segnalato Hirschman nel suo lavoro storico sulle retoriche della rivoluzione e della reazione, è soprattutto là dove questi cambiamenti incidono sulla dimensione istituzionale – come in questo passaggio dal government alla governance – che i discorsi, e le retoriche che li egemonizzano, sprigionano tutto il loro potenziale generativo. In circostanze di questo tipo è nei discorsi che, come osserva Nicoletta Bosco richiaman-do appunto Hirschman, «si gioca la partita a proposito delle caratteristiche dell’ordine sociale che alla fine prenderà forma.» [Bosco 2012, p. 19].

Attingiamo poi ad un secondo filone di studi che rileva aspetti importan-ti della depoliticizzazione delle scelte di governo sul terreno del normativo, nei cambiamenti che investono la configurazione delle norme in cui si fissano le scelte di governo. Ci appoggiamo soprattutto sugli approcci che suggeri-scono di mettere in conto i modi in cui questioni da regolare con l’azione pubblica sono qualificate e definite (e misurate) perché queste definizioni (e misurazioni) fanno parte integrante dei vincoli normativi che quell’azione pubblica va a istituire.

Guardando specificamente alle metamorfosi della politica nella gover-nance con le politiche, questi studi hanno messo in luce dinamiche di depo-liticizzazione nella configurazione delle basi di conoscenza sulle materie che quelle politiche trattano. È agli elementi di conoscenza e informazione – alla loro pretesa oggettività, all’evidence che forniscono sulla realtà dei fatti – che viene conferito il compito di giustificare la scelta sull’azione da intraprendere su quella realtà3. Questi studi sulla configurazione delle basi di conoscenza delle scelte pubbliche, per esempio sul formato e l’uso dei numeri, segnalano un tendenziale collasso della distinzione tra piano cognitivo e piano normati-vo – del dualismo tra fatti e norme, se si vuole; un collassare dell’assertività, che è propria di un atto normativo, dalle norme alla constatazione dei fatti.

La seconda parte del capitolo (II) sviluppa l’indagine sulle dinamiche di depoliticizzazione delle scelte di governo a partire dalla ricerca sull’argomen-tazione in atto pubblico brevemente presentata nella Premessa al volume.

3 A questa chiave di lettura si appoggia anche Vando Borghi nella terza sezione del volume.

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I testi normativi sui quali abbiamo condotto la ricerca regolano politiche urbane, e dunque parlano della governance della città che attraverso quelle politiche si esplica; e trasmettono immagini di quale città, quale società urbana da essa prenda forma; soprattutto, quale città intesa come comu-nità politica. In un certo senso usiamo l’analisi dei discorsi come una lente d’ingrandimento che porta in luce tracce di cambiamento nel vocabolario delle decisioni politiche sulla città; questa lente induce a cercare queste tracce, e a riconoscerle, nel dettaglio delle parole e delle espressioni usate per argomentare obiettivi, scelte e azioni.

Come già anticipato, la città in questione è Milano, colta nelle parole e nelle immagini fissate in quegli atti normativi, all’apogeo della stagione della governance neo-liberale della Giunta Moratti. Si potrebbe dire che la depoliticizzazione che si delinea dagli indizi, pur diversi, che abbiamo repertoriato sul terreno discorsivo e che andiamo a discutere, si qualifica come correlativa a una governance nella quale vengono prese decisioni politiche senza avere l’aria di farlo [de Leonardis 2010]. Per inciso va aggiunto che per-ciò quelle decisioni hanno un basso grado di legittimazione democratica, quale invece si esplica nel mantenere pubblicamente visibile l’esercizio di un potere di governo.

È per l’appunto su questa forma di depoliticizzazione che si concentra la nostra attenzione. Guardando al passaggio in cui una decisione politica diventa atto pubblico di governo, sembra che a rendere inapparenti le de-cisioni (e i fini e i valori che le muovono) contribuiscano cambiamenti nel rapporto tra le norme che vi si fissano e i fatti, la realtà dei fatti; e nel modo in cui quest’ultima viene chiamata in causa e configurata, in quell’atto nor-mativo. Sta qui una chiave della depoliticizzazione. Quest’ipotesi verrà ulte-riormente articolata e argomentata nei capitoli successivi di questa Sezione – e anche inquadrata, da Paola Molinatto nel capitolo 3, nella cornice delle questioni circa il rapporto tra verità e politica (e il posto della critica) che il riferimento alla realtà inevitabilmente chiama in causa. In questo capitolo cominciamo col tracciare questa pista. Nel corso della nostra esplorazione sull’argomentare in atto pubblico sulla città incontreremo diversi livelli di realtà dispiegati4; incontreremo combinazioni di realtà fattuali e realtà fit-tizie, costruite con il dato o con la simulazione, oggetto di descrizioni o di prefigurazioni – mentre tende a svanire invece il riferimento alla realtà in-tesa come oggetto dell’azione sociale, della sua opera trasformatrice, dell’ars edificandi propriamente politica.

4 Per un’analisi dei passaggi tra diversi livelli di realtà che avvengono nei processi di deli-berazione pubblica in regime democratico si veda Donolo [2013].

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Nel primo paragrafo di questa Parte II, l’attenzione si concentra sulla configurazione che assume il fattuale nei discorsi in atto pubblico sul governo della città di Milano. Vedremo in che modo la normatività delle scelte collassi sul terreno della constatazione della realtà dei fatti, là dove il discorso d’autorità poggia sulla pretesa oggettività di quest’ul-tima. Come vedremo, il lessico e il formato argomentativo conferiscono inevitabilità alle scelte di governo sul futuro della città; esse appaiono dettate dalla necessità, con l’effetto dunque che il loro carattere politico ne risulta sterilizzato.

Ma abbiamo anche rilevato che il potere esercitato con quegli atti normativi più che legittimarsi si mimetizza: non solo si nasconde, ma si rappresenta come qualcosa d’altro. Di mimesis – e di “capitale mimetico” – parla lo storico della cultura Stephen Greenblatt per qualificare un potere d’imporre rappresentazioni che avvolgono quel potere in un’aura mitica [1992]. Esso emerge dalla sua analisi delle rappresentazioni del “Nuovo Mondo” che ne accompagnano la Conquista: è messo all’opera il capitale culturale dell’Europa, pienamente dispiegato, come moltipli-catore di visioni, ragioni e spiegazioni che s’impongono sui Popoli di quel mondo5. La ricerca di Greenblatt, qui rapidamente richiamata, è interessante per noi perché lavorando sulle narrazioni dei Conqui-stadores, esploratori e missionari (a cominciare dai Diari di Colombo) mostra i trucchi argomentativi – comprese plateali menzogne – con cui viene fatto passare per dato di realtà l’immaginario della conquista. Il possesso su terre e popoli passa per la loro trasfigurazione nel regno del “meraviglioso”, oggetto di stupore, di wonder, di desiderio, su cui poi si scatenano, come dicevamo, le potenze simboliche della cultura europea nel produrre, appunto, rappresentazioni mitiche: a cominciare dalla Città dell’oro per continuare con il mito dell’innocenza, e così di seguito. Nel discorso della Conquista il denso armamentario della meraviglia che circonda i Popoli del Nuovo Mondo funziona da dispositivo cruciale del loro assoggettamento – e fino al punto dell’annientamento. Che di questo si sia trattato è beninteso verità storica, ma nel rapporto con la realtà che s’instaura con il discorso del meraviglioso sono in gioco piuttosto realtà fittizie. Come mostra Greenblatt, la “meraviglia” di cui l’Altro è

5 Qui siamo agli albori del capitalismo ma, sostiene Greenblatt, a contatto con una sua matrice importante, la «connessione cruciale tra mimesis e capitalismo» che si è espressa nella sua presa globale, dal colonialismo in poi; con il capitalismo «la produzione e circolazione di rappresentazioni ha raggiunto una spettacolare e virtualmente ineludibile (inescapable) ma-gnitudo» [1992, p.6]. Tesi che sono risonanti con altre, che richiameremo più avanti, tra cui quelle di Débord sulla “società dello spettacolo”.

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oggetto libera dall’onere di riconoscerlo implicato in una relazione con Noi, e di riconoscere in quest’ultima l’esercizio di un dominio.

Ebbene, questo mimetizzarsi del potere nel meraviglioso suggerisce una direzione anche per noi, per continuare la nostra esplorazione sui discorsi in atto pubblico nei quali l’esercizio di un potere resta implicito, inapparente: è, infatti, una città a suo modo meravigliosa quella che si delinea negli atti di governo della città di Milano – in particolare nel loro repertorio iconografico. Nel quarto paragrafo vedremo appunto come essa prenda forma, lavorando sulle tecniche del rendering con le quali si allesti-scono rappresentazioni di progetti urbani. Indaghiamo il segreto della loro seduttività. In prima istanza, è evidente il ricorso al repertorio argomenta-tivo del marketing, che del resto corrisponde all’obbiettivo dell’ “attrattività” della città che guida le politiche urbane: tanto più là dove essa venga intesa secondo i parametri del mercato e degli investimenti, come notoriamente accade nella configurazione neo-liberale della governance.

Ma la seduzione si rivela essere un meccanismo più sottile: i progetti urbani rappresentati con il rendering hanno la consistenza di una fiction, o di uno spettacolo in cui si è invitati a rappresentarsi. Le realtà fittizie con-fezionate per illustrare quei progetti allestiscono un mondo immaginario che incanta, che attrae precisamente in quanto promette un distacco dalla realtà, e dalla realtà della vita urbana in particolare. Una fuga dalla città, in un certo senso, in quanto sia intesa come comunità politica. È, questo, un registro discorsivo diverso da quello, già incontrato, del fattuale, della realtà “oggettiva” che conferisce i tratti della necessità, dell’inevitabilità alle scelte politiche in materia di città; il riferimento alla realtà è rovesciato, e poteri e scelte scompaiono per un’altra via.

Beninteso, stiamo parlando di atti normativi istituiti da poteri di gover-no. Se nel registro dell’inevitabile abbiamo riconosciuto un collassare della normatività sul terreno del fattuale – che cosa si debba fare è incorporato nella constatazione – qui, nel confezionamento di simulacri, la normatività si esprime nell’idealizzazione di modelli di vita che dicono a che cosa si debba aspirare e come, in materia di città. I vincoli normativi istituiti in questi atti danno forma al futuro della città. Mentre nel registro dell’inevitabile il futuro della città è indicato come già là, inscritto in processi di trasformazione che vanno da sé e come tali da assecondare, nel registro del rendering il futuro è frutto di una simulazione anticipatoria, dislocato in una realtà fiabesca già disponibile, basta desiderarla – un mondo in sé compiuto, “chiavi in mano”. Comunque, il futuro così configurato non chiama all’azione. In entrambi i casi esso smette di essere materia di discorsi, scelte e azioni propriamente politiche sulla città che si vuole collettivamente costruire. Nel paragrafo

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conclusivo tireremo le fila attorno ai contrappunti e intrecci tra queste due diverse forme di depoliticizzazione di cui abbiamo raccolto indizi nel di-scorso pubblico fissato in atti normativi.

1ª Parte. Il contesto dell’argomentazione: metamorfosi della politica

Sarebbe senz’altro fuori luogo impegnarsi a dar conto della portata dei cambiamenti che la governance con le politiche ha innescato nell’assetto complessivo dell’azione pubblica. I percorsi di ricerca in materia che abbia-mo alle spalle, insieme con gli approcci e le elaborazioni con cui ci siamo confrontati, restano sullo sfondo. Ma ne traiamo supporti per mettere a fuoco metamorfosi della politica che depotenziano il carattere politico – materia di discussione pubblica – delle scelte di governo fissate in atto pubblico. Focalizziamo l’attenzione su due terreni d’indagine: cambiamenti del di-scorso politico, delle arene e dei vocabolari, attorno all’esercizio di poteri decisionali, di governo, in materia di scelte pubbliche; e cambiamenti nella configurazione delle norme che queste scelte fissano.

1. Come cambia il discorso politico

Molte analisi si occupano di ragionare sulle trasformazioni della sfera po-litica. Possiamo evidenziare tre elementi di questa trasformazione: il muta-mento della gerarchia tra le diverse arene discorsive implicate in processi di decisione politica; il mutamento del rapporto tra gli attori che fanno politica; il mutamento dei vocabolari e delle grammatiche del discorso politico. In termini di arene, si evidenzia una crescente preponderanza della sfera me-diatica come ambito del discorso politico [per una rassegna teorica si vedano Mazzoleni e Schultz 1999; Schultz 2004] – Manin [1995], per esempio, parla di “democrazia del pubblico”, per distinguerla da un sistema in cui le forme d’intermediazione politica preponderanti erano costituite da collettivi politici (prevalentemente i partiti). Nell’arena mediatica nuove forme di co-municazione politica “a senso unico”, come media e sondaggi d’opinione, tendono ad affermarsi a scapito dei tradizionali canali di comunicazione, caratterizzati da una maggiore interazione.

Il secondo elemento di trasformazione riguarda i rapporti tra gli attori: in un contesto discorsivo mutato, caratterizzato da comunicazioni politi-che unidirezionali, crescono forme di personalizzazione della politica – e

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i discorsi dei politici sono caratterizzati dalla ricerca del rapporto diretto con “i cittadini” e “gli elettori” e dalla rivendicazione di qualità morali di onestà e trasparenza [sul processo di personalizzazione della politica si vedano, per una rassegna teorica, Garzia 2011; McAllister 2007]. Dall’altro lato cresce da parte di cittadini ed elettori la richiesta di trasparenza e di responsabilizzazione del personale di governo [per una rassegna teorica e storica sull’accountability nei regimi democratici si vedano Przeworski, Stokes e Manin 1999; per una recente rassegna sulla sfiducia verso la classe politi-ca si veda Dogan 2005]. Rosanvallon [2008], per esempio, per evidenziare il mutamento delle forme di rapporto tra rappresentanti e rappresentati parla di passaggio dalla «democrazia del confronto» ad una «democrazia dell’accusa» [p. 15]. In particolare, negli anni recenti è cresciuta la sfiducia verso i partiti e il sistema di rappresentanza politica e si è manifestata in un dissenso reattivo crescente [che molti definiscono antipolitica – per una rassegna si vedano Mete 2010; Mastropaolo 2000] e nella sempre maggiore richiesta di accountability.

Infine, il terzo elemento riguarda le grammatiche del discorso politico, che combinano l’attenzione al parlante e al contenuto del discorso: in par-ticolare, ai fini della nostra analisi sembra rilevante ricordare la trasparenza e la valorizzazione della partecipazione diretta dei cittadini alla gestione politica per quanto riguarda il contenuti; l’onestà e l’estraneità rispetto alla classe politica tradizionale per quanto riguarda il profilo del parlante; l’im-mediatezza e la capacità di adattarsi ai tempi dei media per quanto riguarda i caratteri del discorso [per una rassegna delle analisi del discorso politico si vedano Battegazzorre 2013; Corradi 2013].

Il discorso politico è una pratica sociale – inserita all’interno di ordi-ni discorsivi, cioè di ambiti che ne delimitano codici e vincoli [Fairclough 1989]. In questa prospettiva, la nostra analisi è finalizzata in primo luogo a mettere in luce quali sono i codici discorsivi considerati legittimi all’interno dell’arena analizzata. In secondo luogo, l’ordine discorsivo è una messa in forma, una cristallizzazione, delle relazioni di potere all’interno di una de-terminata arena: perciò studiare le contestazioni relative all’ordine discorsivo ci dice qualcosa a proposito della legittimità o meno (e delle trasformazioni) dei rapporti di potere all’interno dell’arena considerata. In altre parole, studiamo chi parla – cioè i rapporti tra i diversi attori evocati nei discorsi normativi (esperti, governanti, cittadini), di cosa si parla – cioè quali sono i temi che entrano nel discorso politico, e come si parla – cioè quali sono i vocabolari e gli argomenti del discorso politico: in breve, ci concentriamo sulle grammatiche argomentative del discorso politico. In questa prospettiva, le domande di ricerca si confrontano con le trasformazioni del discorso po-

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litico, per indagarne gli effetti nelle dinamiche politiche locali. I processi di mediatizzazione della politica, l’affermazione della democrazia del pubblico, la sfiducia nei confronti della classe politica e l’attenzione verso accounta-bility e partecipazione caratterizzano anche l’arena decisionale relativa alle politiche urbane.

2. Come cambiano le norme

In coerenza con quel governare “a distanza” che contraddistingue la go-vernance – che “fa fare” (e “lascia fare”), che coinvolge in partnership e promuove “partecipazione” – cambia anche la consistenza delle norme che regolano le politiche. Là dove lo Stato si fa “animatore” [Donzelot, Estèbe 1994] o “enabler”6 e l’azione di governo si esercita indirettamente attraverso gli “strumenti”, le norme esercitano un potere non più tanto nella forma dell’imperio – l’imperio della Legge – quanto piuttosto nella forma dell’in-centivo e del vincolo all’azione. Sono, insomma, norme che non “regola-mentano”, bensì “regolano”, come osserva Alain Supiot [2010], attingendo dunque debolmente al diritto – del resto quest’ultimo, in quanto linguaggio per tradurre in norme imperative scelte politiche ha perduto centralità.

Dalla letteratura di ricerca su queste trasformazioni si delinea un diverso regime discorsivo che giustifica le norme, e legittima l’autorità di governo che le fissa. Non si fa più tanto riferimento alla legge, al weberiano dominio legale-razionale che giustifica con il rispetto delle procedure la traduzione di scelte politiche in norme: queste ultime ora si giustificano come “strumen-ti” per gli obiettivi di governo. Siamo infatti in presenza di “governo con l’obiettivo”, come Thévenot qualifica questo assetto istituzionale guidato dal programma del New Public Management [Thévenot 2010]. Come hanno osservato Lascoumes e Le Galès vi viene conferita centralità agli “stru-menti”, a dispositivi normativi ad alta densità tecnica e tecnologica, come tipicamente standard, protocolli, indicatori [Lascoumes, Le Galès 2004]. Là dove le politiche richiedono lessici e know how specializzati il vocabolario delle norme tende a collassare su misure e vincoli tecnici. Così configu-rati, questi dispositivi funzionano da «piloti invisibili» dell’azione pubblica [Lorrain 2004], che mascherano il potere normativo esercitato: nel loro essere apparentemente neutrali, essi hanno il vantaggio di «depoliticizzare

6 Su queste trasformazioni dello Stato che abbiamo indagato soprattutto sul terreno del welfare, si vedano soprattutto le elaborazioni di Lavinia Bifulco 2005 capitolo I, nonché il suo studio sull’amministrazione pubblica, Bifulco 2008.

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questioni fondamentalmente politiche», deviando discussioni e accordi sui mezzi invece che sui fini [Lascoumes, Le Galès 2004, pp. 26-27; v. anche Brunsson e Jakobsson 2002]. I fini a loro volta, ridefiniti come “obiettivi”, non recano più traccia della discussione politica da cui hanno preso forma. Gli obiettivi funzionano da parametri normativi – il benchmarking ne è un’e-spressione emblematica – attorno a cui le scelte politiche, le norme in cui si fissano nonché le azioni cui danno luogo, sono riconfigurate nel frame dell’“accountability”, della valutazione, come già dicevamo. Nel proliferare di dispositivi di valutazione, a tutti i livelli e in tutti i settori di policy (con il cor-redo di poteri, procedure burocratiche ed expertise), Power [1999] individua il formarsi di un ordine sociale fondato sull’audit. Nel linguaggio normativo della valutazione che traduce i fini (politici) in obiettivi (normativi) conta – cioè è importante – solo ciò che si può contare, computare, calcolare; e contabilizzare: nella matrice economico-aziendale del New Public Management, il bilancio vi funziona da modello – come del resto sappiamo dall’inedita autorità costituzionale della parità di bilancio.

È stato osservato che questa nuova normatività dell’azione pubblica si accompagna a cambiamenti nel formato e nell’uso delle basi di conoscenza e informazione su cui essa poggia. In materia c’è un denso lavoro di elabora-zione concettuale e di ricerca che si è addensato soprattutto in Francia negli ultimi trent’anni attorno all’approccio delle convenzioni e alla teoria della giustificazione7. Questi studi hanno per un verso messo in luce il fatto che le basi di conoscenza per istituire norme – categorizzazioni, classificazioni, indicatori e misurazioni dei dati di realtà – costituiscono convenzioni cogni-tive risultanti da discussioni e compromessi politici; e hanno poi mostrato come l’azione pubblica orienti le condotte degli attori nelle arene di policy – prima ancora che con i vincoli che istituisce – dispiegando un potere di naming, di conferire nomi e qualificazioni a situazioni e problemi oggetto di quelle politiche, un potere che per l’appunto fissa ciò che deve essere assunto come un dato di fatto. È precisamente su questi intrecci tra basi cognitive e norme che questi studi segnalano un cambiamento che investe sia la costru-zione e il formato delle prime che il loro uso nel fondare le seconde, e nel quale la normatività dell’azione pubblica tende a spostarsi, a collassare, sul cognitivo, sull’autorità oggettiva dei dati di fatto certificati. Le ricerche che in questa prospettiva si stanno sviluppando sui cambiamenti che investono la quantificazione, la costruzione e l’uso dei numeri – statistici, anzitutto – ci consegnano indicazioni importanti sulla portata e le implicazioni di

7 I cui testi fondativi sono rispettivamente: Eymard-Duvernay 2006 e Boltanski e Thévenot 1991.

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questo cambiamento, cognitivo e normativo insieme. Essi segnalano come l’«oggettività meccanica» dei numeri, fonte di «fiducia» come ha mostrato Theodor Porter [1995; v. anche Espeland e Stevens, 2009] venga ora as-sunta come argomento normativo per legittimare scelte e azioni di governo. Che su di essi si basano e si giustificano non più (solo) come informazioni bensì piuttosto come prescrizioni: diventano «indicatori di performance». In questa veste i numeri, dice Desrosières [2011], «retroagiscono» sugli attori impegnati nelle arene di policy, i quali si trovano a dover «aggiustare» i fatti della realtà perché corrispondano ai numeri, agli indicatori di performance a cui ci si deve «allineare». Ai numeri è ora affidato un potere normativo, là dove essi fissano un vincolo performativo.

Diventa poi anche importante seguire l’indizio dei numeri per portare in luce il proliferare di codici, indici, protocolli, standard, pacchetti di dati, sigle e acronimi: un impoverimento del vocabolario per giustificare l’azione pubblica, un’economia di parole, un’indifferenza a qualità e qualificazioni [si vedano Mozzana e Polizzi, in questo volume]. Come rileva Alain Supiot, questo vocabolario cifrato, una sorta di neo-lingua, rimpiazza il vocabola-rio del diritto, lo disattiva precisamente là dove esso alimenta «l’esercizio della facoltà di giudizio», dove media la discussione pubblica in materia di «qualificazione» e «interpretazione» dei fatti [Supiot 2010, pp. 77-78]. La normatività che s’impone è oggettivata in vincoli meccanici, poveri di consistenza semantica. Un governare senza governanti, si potrebbe dire, che presenta similitudini inquietanti con la “tirannia senza tiranno” di cui parla Hannah Arendt, e che richiameremo più avanti.

Nell’insieme questi studi suggeriscono di porre attenzione all’instaurarsi di un ordine autoreferenziale, di una “circolarità” [Salais 2009] tra descri-zione della realtà e prescrizione di come operare su di essa. Il dualismo tra fatti e norme tende a collassare. Là dove si producono questi collassi tra il fattuale e il normativo, questa circolarità tra loro, questa indifferenziazione, viene meno lo spazio per la discussione – e per la messa in discussione – tra i fatti e le norme, lo spazio delle interpretazioni, della pluralità delle prospettive sulla realtà, e della critica; ovvero viene meno quella tensione che è materia e ragion d’essere della politica come regime discorsivo della deliberazione democratica.

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2ª Parte. Fissare norme negli strumenti: scorciatoie argomentative

1. Assertività: il governo della città con l’inevitabile

Sulla base delle ricerche condotte in questi anni su diversi strumenti di po-licy, in questo paragrafo ci concentriamo sulle grammatiche argomentative del discorso di governo. In particolare, in primo luogo esploriamo l’uso della scienza (evocata) nella forma dell’expertise, per giustificare le scelte politiche: mostreremo come la giustificazione delle scelte sia demandata ad un’autorità impersonale – e quindi, implicitamente, non arbitraria. Le scelte pubbliche promosse nei documenti normativi che hanno costituito la base di analisi sono argomentate sulla base di argomenti di expertise che costruiscono una lettura “naturalizzata” della dinamica sociale (ed in quanto tale con la pretesa di essere non ideologica). In secondo luogo, le scelte pubbliche emergono come non-scelte: l’expertise nomina e crea il reale, ne delimita i confini e i problemi e, soprattutto, indica le soluzioni possibili – le uniche soluzioni possibili. In questo senso, la struttura argo-mentativa del discorso normativo assume la forma dell’inevitabilità – che ipotizziamo essere una tendenza del discorso politico contemporaneo della città neoliberale.

Chi parla: un governo senza soggetto

L’analisi della produzione normativa relativa alle politiche pubbliche in am-bito urbano è finalizzata a evidenziare le connessioni tra la struttura discor-siva che argomenta e giustifica le scelte pubbliche e le trasformazioni della politica. La traccia che si vuole seguire riguarda la dimensione dell’asserti-vità: le scelte pubbliche fissate nei documenti normativi relativi al governo della città sono argomentate sulla base di prove “scientifiche” che come tali assumono un carattere di autorità.

Il Piano di Governo del Territorio (PGT) è uno strumento che, in Lom-bardia, sostituisce il Piano Regolatore e costituisce il quadro normativo che indirizza e delinea lo sviluppo della città: contiene un documento che delinea la visione strategica e di indirizzo, un piano di regole e norme di attuazione. All’interno dei vincoli normativi, il PGT delinea la strategia di sviluppo a partire da un’analisi della città esistente8.

8 La forma specifica che esso assume è diversa nelle diverse città lombarde: qui come già detto guardiamo a quello della città di Milano.

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Il primo elemento dell’analisi è consistito nell’individuare chi parla: se il PGT interpreta la volontà politica di chi governa e la traduce in norma tecnica, è rilevante chiedersi chi è il soggetto del Piano, chi è legittimato a decidere in merito alla pianificazione urbana e quali sono le fonti e i criteri della sua legittimazione [si veda Molteni 2012].

Nel PGT sembra emergere un governo senza soggetto: o meglio, il soggetto principale del Piano è il Piano stesso. Il PGT si articola intorno a tre attori: l’amministrazione pubblica, i cittadini e, appunto, il Piano.

L’attore pubblico è definito attraverso la sua funzione, come “Comu-ne” o “Amministrazione” (non si parla mai di giunta, sindaci, assessori, amministratori, funzionari...). La regia dell’amministrazione si caratterizza come una forma di gestione delle trasformazioni urbane, è un’attività ca-ratterizzata come necessità. Nel Documento di Piano (DdP), per esempio, si afferma che:

«l’Amministrazione Pubblica si deve muovere per rispondere (in un’ottica anche sussidiaria) alle reali e molteplici esigenze di chi abita oggi la città, cercando di prevedere i bisogni che si genereranno nel prossimo futuro, a seguito delle trasformazioni sociali oggi in atto» [DDP p. 36].

«L’Amministrazione [...] intende operare in modo chiaro e trasparente su ogni decisione che investe l’interesse pubblico. […] Una Pubblica Amministrazione non più interprete di un programma normativo indifferente ai luoghi ed ai contesti, ma capace di anticipare e di guidare i processi di trasformazione» [DDP 53-54].

Si rintraccia in questi estratti il riferimento ai grandi temi richiamati nella parte I: la trasparenza e l’accountability, il governo per obiettivi, un governo che regola e non regolamenta, che “fa fare”. L’attività di governo dell’amministrazione è descritta come un’anticipazione dei bisogni sulla base delle trasformazioni sociali in atto. L’amministrazione, si dice, non interpreta un programma ma risponde alle esigenze di chi abita la città. Gli abitanti, i cittadini, sono del resto descritti come interessati alla partecipazione:

«Viviamo in una metropoli in cui i cittadini sono particolarmente attenti, con una forte propensione alla partecipazione pubblica e all’utilizzo dei media per dare voce alle proprie urgenze o, più semplicemente, opinioni» [DDP p. 36].

Ma si sa già che cosa essi vogliono, rendendo di fatto superflua la par-tecipazione stessa che si esprime in un formato predeterminato della voice: «I cittadini chiedono case, servizi, attrezzature collettive e verde pubblico» [DDP p. 41]. Per fare fronte alle esigenze dei cittadini e anticipare le trasfor-

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mazioni già in atto l’amministrazione si affida agli esperti – gli estensori del Piano, che personifica l’expertise – sulla base di input generici che prevedono la volontà di fare di Milano una città attrattiva, vivibile ed efficiente [Molteni 2012]. Si dispiega qui il già citato management con gli obiettivi.

Nel PGT si racconta un governo di fatto senza soggetto, senza piani-ficatore: il governo assume la forma di una gestione di forze trasformative “naturalizzate”. L’amministrazione pubblica ha affidato agli esperti l’indivi-duazione di bisogni e strategie per disegnare la città futura – ma gli esperti definiscono la città futura come una città già presente, che deve solo essere scoperta. Si tratta di un’attività di governo che si configura come una gestione nel solco di necessità oggettive – o, meglio, oggettivate. In altre parole, manca dal discorso la dimensione delle scelte politiche. Il PGT come documento normativo sembra fondare la sua legittimazione non su una dimensione politica di scelte condivise, ma sul fatto di essere basato su un’analisi oggettiva della realtà.

Il lessico esperto e l’expertise

Il Piano sembra dunque personificare l’expertise, per cui la città è «analiz-zata e progettata per quartieri». Il PGT assume un ruolo maieutico, nella misura in cui porta alla luce la città invisibile che già esiste, e un ruolo di agente facilitatore delle trasformazioni che ha portato alla luce attraverso l’analisi e la lettura della città.

Il PGT, in tutte le sue articolazioni, è un soggetto agente, che agisce in maniera strategica, ha intenti e obiettivi, ma anche ambizioni. I verbi che accompagnano il PGT, all’interno del testo, sono verbi attivi, per cui il Piano: analizza il territorio (legge, esplora, vede), e propone una visione stra-tegica (propone, prevede, promuove, assicura, conferma, definisce, progetta, individua e localizza, fonda l’attuazione, adotta, determina, agisce...) – in definitiva ha «un cuore pulsante».

Il Piano, quindi, emerge come un soggetto agente. Il suo ruolo, tuttavia, non è un ruolo politico: è quello, invece, dell’esperto che aiuta la politica a leggere la realtà. Una realtà che è presentata come un dato di fatto, che deve essere “scoperta” attraverso una lettura attenta. In questo senso il Piano ha un ruolo maieutico: porta alla luce l’invisibile che già esiste. L’expertise è quindi una forma di sapere specialistico che mostra alla città (e ai cittadini) quello che la città è già, ma che non vede. La città descritta nel PGT ha una dimensione “elementare” e “invisibile”: è una città che già esiste e che deve essere scoperta, per sviluppare sull’esistente la città futura e alternativa. Nelle parole degli estensori del PGT, infatti, Milano è formata da “cinque città” caratterizzate da diversi modi di abitare – e tali città vanno ricono-

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sciute e ridefinite per dare all’insieme un’identità specifica. Si tratta de: la città “storica”, la parte centrale; la “città reticolare” a est; la “città stellare” ad ovest; la zona del parco sud e, infine, la zona nord che si collega con la Brianza. L’identità delle cinque città va costruita sui NIL (Nuclei di identità locale), cioè aree con un carattere autonomo.

«aree che corrispondono alle varie identità culturali e sociali, secondo una logica di appartenenza al quartiere e di riconoscimento in una centralità e che coprono l’intero territorio milanese» [DDP p. 38]; «i criteri di identificazione delle centralità sul territorio sono connessi all’individuazione dei luoghi urba-ni ad alta frequentazione pedonale […] concentrazioni locali di commercio come criterio identificativo della centralità» [DDP pp. 71-72].

Anche in questo caso i NIL esistono già, hanno già un’esistenza territo-riale, e il lavoro del Piano è quello di portarla alla luce, attraverso “l’ascolto”. L’ascolto della città si appoggia alla matrice dei servizi, un artefatto tecnico che, insieme agli strumenti di analisi di contesto, ricostruisce e stima i biso-gni presenti e futuri della popolazione. Le basi informative del Piano sono quanto più possibile “oggettivate”.

Il capitolo di Mozzana e Polizzi [vedi infra] affronta in maniera più siste-matica il ruolo e l’utilizzo della scienza come “scientificità evocata”, in questa sede ci preme sottolineare la forma della conoscenza scientifica che funziona come prova d’autorità. Nel PGT, la conoscenza dei fatti urbani è caratterizzata come una forma di “ascolto” e “lettura” della città, che utilizza anche simu-lazioni e proiezioni di scenari possibili [si veda il paragrafo 3] e, soprattutto, si basa su un «flusso continuo di dati e informazioni riguardo alla città, alle popolazioni che la abitano e percorrono, ai loro bisogni […] La raccolta e l’elaborazione di dati quantitativi, indicatori e standard, e la messa all’opera di strumenti tecnici attraverso cui registrarli, organizzarli e distribuirli, servono per definire i ‘bisogni proiettivi’ della città» [Molteni, 2012, p. 101]. Le basi informative del Piano, le basi scientifiche, sono oggettivate e standardizza-te, quantificate e rese misurabili. Anche i dati definiti qualitativi, che sono i “fabbisogni percepiti” dalla popolazione [si veda DDP], sono costruiti come dati di esperienza certificati da indagini statistiche – percezioni non mediate, percezioni immediate – e quantificate, standardizzate, oggettivate. Nelle parole dei critici del PGT la percezione è trasformata in dato di realtà e messa in relazione con i criteri discorsivi del marketing urbano:

«Una possibile chiave di lettura del Pgt è quella di un aggressivo apparato retorico, un ‘ordine del discorso’ finalizzato alla creazione del consenso at-torno a una nuova ‘ideologia urbana’. [...] l’‘esperienza’ di chi fruisce del

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servizio è un altro elemento centrale in una corretta pianificazione del sistema complessivo […] L’esperienza è strettamente legata alla ‘percezione’. Se io in quanto fruitore ho la ‘percezione’ che il dato servizio funziona male (o bene), quella ‘percezione’ è in una certa qual misura la mia ‘realtà’.... Magari, il dato analitico o statistico ci dice altrimenti, però ancora, se i cittadini hanno una percezione diversa, questa percezione diventa dato altrettanto significativo che la presunta oggettività dell’input analitico» (Federico Acuto, Polimi)9.

Il dato informativo è legato ad una valorizzazione della percezione geo-referenziata e riaggregata nella matrice dei servizi. Le percezioni individuali sono riorganizzate non attraverso una mediazione politica, bensì tecnica – la matrice dei servizi, appunto, che misura e ri-compone e, allo stesso tempo, oggettivizza le percezioni, trasformandole in realtà attraverso un dispositivo “esperto”. L’analisi del bisogno si costruisce attraverso tre approcci: analitico (analisi delle informazioni), modellistico (proiezioni e stime) e di contesto (analisi descrittivo-interpretativa). Il denso apparato tecnico-statistico ride-finisce gli obiettivi strategici della città in obiettivi “tecnici”, espressi nella forma di bisogni, la cui gerarchia di priorità è definita dagli esperti – e non dalla politica [si veda Molteni 2012].

Il posto della politica: naturalizzazione delle scelte

Fin qui abbiamo analizzato gli attori e le grammatiche di argomentazione del Piano, mentre ora ci concentriamo sulla sua dimensione politica. Il PGT avrebbe appunto il compito di disegnare la città futura e di pianificare le scelte politiche, ma come si parla di politica nel piano? E qual è il posto della politica, lo spazio delle scelte collettive?

Le politiche di cui si parla riguardano prevalentemente la sostenibilità (politica energetica, politica di non consumo di suolo...), l’organizzazione (dei tempi e dei servizi), il perseguimento di obiettivi d’integrazione e, naturalmente, la politica fondiaria. Manca, cioè, la dimensione della po-litica come scelta collettiva. Le scelte per il governo della città non sono declinate al futuro, bensì al passato: sono scelte già fatte, già valutate. Nel complesso rapporto tra tecnici e politici, la decisione scompare. Le scelte sono il risultato delle dinamiche della città, della “visione” che muove il Piano e da cui il Piano muove. In questo senso si esprime nella circolarità citata nei paragrafi precedenti: la visione che muove il piano deriva da

9 La discussione tra alcuni urbanisti in merito al Piano di Governo del Territorio della città di Milano si trova all’url: http://www.dpa.polimi.it/index.php?id=pgt. Per ulteriori ap-profondimenti, Arcidiacono e Pogliani 2011.

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una lettura esperta dei bisogni, che rinforzano la visione stessa [vedi anche Mozzana e Polizzi, infra]. Nel dibattito pubblico intorno al PGT questo aspetto viene da più parti sottolineato. Il Piano senza soggetto, nelle parole dei critici, nasconde il potere definitorio e gli interessi a cui risponde. Il Piano presenta una visione (indiscussa, perché positiva e implicitamente desiderabile). Tale visione si colloca in una realtà e la scelta di fondo, mai tematizzata, è quella di accompagnare le dinamiche del reale: il Piano definisce tali dinamiche come processi che vanno da sé, inevitabili, non come scelte o strategie.

«[il PGT oppone] alla figura dell’urbanista e del regolatore pubblico che “disegnano la città”, quella di una città il cui sviluppo territoriale e volume-trico è guidato dalle forze di mercato [...] Si osserva che le azioni messe in campo corrispondono spesso a obiettivi non dichiarati o non argomentati, che occorre pertanto individuare induttivamente. Uno per tutti: che corrisponda a interesse pubblico la crescita di popolazione fino ai livelli dei primi anni Ottanta» [Aprà e Engel, Istituto Nazionale di Urbanistica]10

Le forze della trasformazione che l’expertise individua e sulla base delle quali definisce, all’interno del Piano, la direzione che la città sta prendendo, nelle parole dei critici, sono le forze di mercato. Come sottolinea la citazione riportata, l’ideologia (nel senso di prospettiva politica di partenza) scompare e gli obiettivi politici si opacizzano: manca nel Piano proprio la dimensione politica del confronto, della discussione, del conflitto. Eppure, il Piano è un atto politico: disegna una strategia, include visione e valori. Il potere non trova spazio nel Piano e le attività di governo sono caratterizzate (quan-do, raramente, lo sono) come “negoziali” – una negoziazione che avviene direttamente tra soggetti privati. Le scelte che rimangono aperte, da fare, sono quelle dei privati – espressione, appunto, della loro “libertà di scelta” – come cittadini-consumatori rispetto ai servizi o come attori economici in merito all’utilizzo dei suoli. Il processo partecipativo non è una discussione in termini di obiettivi e di strategie, ma la possibilità di esprimere delle ne-cessità. Il PGT, quindi, si configura come la soluzione esperta che i tecnici forniscono “chiavi in mano” a politici e cittadini. I cittadini non esprimono, nel Piano, domande politiche (valori, obiettivi), ma bisogni e necessità, che sono raccolte, schedate e riorganizzate. Si esprime, cioè, una doppia forma di depoliticizzazione: non solo nella forma degli obiettivi, che sono naturalizzati e quindi non messi in questione, ma anche sul piano delle scelte – che si tra-sformano da scelte politiche in scelte tecniche, oggettivate. Il PGT costruisce

10 V. alla nota 8.

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un discorso performativo nella misura in cui ha una delega in chiave d’autorità ed incarna un potere. Manca un “noi” politico – la comunità è costruita come comunità di cittadini, governata in maniera imparziale. In altre parole, la legittimità politica del Piano si fonda precisamente sulla negazione del suo carattere politico e sulla valorizzazione di un impianto tecnico.

Come elaborato nei paragrafi precedenti, strumenti e standard e dati di conoscenza non sono neutri: portano in sé, cristallizzata, una sintesi di valori, finalità e visioni politiche – tuttavia inapparente. L’ipotesi del collasso tra piano cognitivo e piano normativo trova conferma nell’analisi dei testi normativi relativi al governo della città. Il governo della città è presentato come un’attività in larga parte impersonale (il Piano senza soggetto, come dicevamo) e oggettivata, che risponde ad esigenze gestionali connesse a tra-sformazioni che sembrano inevitabili. Gli obiettivi di governo sono affer-mati, non argomentati, e assumono caratteri d’implicita desiderabilità, una desiderabilità che è, appunto, oggettiva, indiscussa. Le fonti di informazione sulle dinamiche urbane e sulle trasformazioni della città sono quanto più possibile standardizzate e oggettivate.

2. Seduttività: le regole dell’attrazione 11

Nei testi normativi del governo della città di Milano, ciò che quest’ultima si appresta a diventare viene argomentata come un dato inevitabile. Abbiamo visto come tra fattuale e normativo si produca un collasso, un trasferimento del normativo nell’assertività delle argomentazioni fattuali; e il depotenzia-mento nella forma dell’oggettività della politica in quanto vocabolario del potere, delle possibilità, del conflitto e dell’accordo, delle scelte e dell’azione. La Milano futura (la città-arcipelago dei NIL) è già là, si tratta di constatarne le caratteristiche, e di assecondarla. Ma la si può anche prefigurare, o più propriamente sognare. C’è, infatti, un altro aspetto dell’argomentazione in questi atti di governo che vogliamo ora esaminare, perché pertinente al no-stro filo conduttore, la configurazione che vi assume la realtà, il rapporto con la realtà su cui poggiano gli atti di governo della città e la forza normativa che esercitano. Nei testi che abbiamo esaminato ci sono vistose tracce di un altro registro argomentativo nel quale il fattuale non è appiattito sul neces-sario e l’inevitabile, bensì invece scompare, sostituito dal fittizio (né vero né falso, bensì finto). La realtà che in tal modo viene argomentata è all’opposto

11 Il titolo richiama l’omonimo romanzo di Bret Easton Ellis [edizione italiana Einaudi, 2004], e in particolare il suo registro stilistico.

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di quella descritta come inevitabile e naturalizzata: è una simulazione; ma l’aspetto che più attira l’attenzione è che la realtà evocata in questa veste sprigiona un altro potenziale generativo, normativamente denso: la sedu-zione di una realtà fittizia, di «un paese delle meraviglie», come nota uno dei critici [Barazzetta, DIAP12] e come dicevamo nell’introduzione citando Greenblatt. Vedremo che anche lungo queste tracce si ritrova all’opera un depotenziamento della politica, nel senso inteso. Di nuovo, in altra forma, l’azione è sospesa e l’esercizio del potere scompare dal discorso, si mimetizza.

Per seguire queste tracce bisogna prendere in considerazione oltre al testo scritto, alle parole, anche le immagini. Il repertorio iconografico – map-pe, disegni, carte, scenari, ecc. – fa evidentemente parte integrante di questi testi normativi, trattandosi di materia urbanistica; lo abbiamo analizzato anch’esso come parte integrante della forma argomentativa13.

Metamorfosi dell’artificiale

Secondo gli studiosi di urbanistica che si sono occupati delle forme e delle tecniche di rappresentazione visiva nella costruzione di piani e proget-ti, negli ultimi vent’anni si è prodotto un cambiamento, «una sterzata», «una svolta che ha caratteri radicali rispetto alle raffigurazioni, pur molto diverse, che hanno costellato la storia dei piani urbanistici a partire dalla seconda metà dell’800.» [così Patrizia Gabellini 2010, p. 85, in un testo che raccoglie le fila di questi studi]. A parere di Gabellini questa sterzata è stata impressa «quando l’urbanistica ha intrapreso la strada performativa, quando si è diffuso il convincimento che la costruzione di scenari, visioni, immagini fosse il nuovo terreno da praticare per comunicare il futuro di un territorio in cambiamento». La prefigurazione è certo un compito pre-cipuo dell’urbanista, che per l’appunto elabora e presenta anche in forma grafica dei progetti. Ma in questo orientamento le immagini «sembra stia-no perdendo il loro spessore, la profondità dei loro significati possibili... si appiattiscono...» [Anceschi, citato in Gabellini 2010, p. 89]. L’urbanistica ha assorbito i formati pubblicitari, come infatti sospettavamo osservando le immagini in questione, che più che richiamare l’armamentario classico dell’urbanistica ricordano il marketing. Benché parte integrante di un atto pubblico, esse non sono significativamente diverse da quelle dei depliant del mercato immobiliare, nel quale i cosiddetti developer devono trovare clienti (e soprattutto investitori) per i loro complessi di edilizia privata. Esse hanno

12 V. alla nota 8.13 Il tema di questo paragrafo, in una versione più ampia in interlocuzione con gli studiosi

di urbanistica, è già stato anticipato in de Leonardis [2013].

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finalità «seduttiva», osserva ancora Gabellini, con ciò «favorendo lo smar-rimento del punto di vista...» [p. 89].

È importante segnalare che questo orientamento è stato senz’altro favorito dallo straordinario sviluppo di tecnologie e software per il computer design. Che ha cambiato il modo di fare i progetti. Si va perdendo il rapporto artigianale con l’oggetto, quello della mano che disegna sul foglio, magari proprio una visione, e altrettanto quello del plastico. Su questa perdita di conoscenze anche pratiche, e sulle sue implicazioni bisognerebbe richiamare il lavoro di Richard Sennett sull’«uomo artigiano» [Sennett 2008]. Questi skill, che qualificano un rapporto col mondo, sono sostituiti dai software: che creano un oggetto pura-mente virtuale e che, attingendo a un repertorio di elementi preconfezionati, favoriscono la standardizzazione delle immagini, se non la serialità. Essi ali-mentano modi irriflessi di operare: diventando inoperanti quelle conoscenze, vengono meno anche le condizioni per implicarsi nelle, e per sorvegliare le, operazioni di astrazione dall’esperienza sensibile (dei luoghi, dei materiali, della situazione, nonché dell’immaginazione) con le quali l’urbanista prova a tradurre quell’esperienza sulla carta, nel disegno e nella mappa. Una realtà fittizia anch’essa, ma la cui matrice “artigianale”, pratica, aiuta a rendere visibile e argomentabile che di questo si tratta: “la mappa non è il territorio”.

L’astrazione viene delegata a, e sostituita dal, sistema informatico; e scompare alla vista: la metafora della «scatola nera» che Bruno Latour ha introdotto per rappresentare la chiusura del processo di codificazione del sapere è qui specialmente pertinente. Al posto dell’astrazione c’è il rendering. Questa tecnica di confezionamento d’immagini, che conosciamo da film di animazione, videogiochi, giochi di ruolo, giochi strategici, e simili, è appli-cata a rappresentare un progetto e una promessa di un’azione, nel governo della città: via simulazione. Il rendering è il formato oggi più diffuso delle immagini urbanistiche, la simulazione del prodotto finito del progetto, su tre dimensioni. Qui il rapporto con la pubblicità è diretto, i depliant di complessi residenziali ne fanno largo uso e tanto più i siti degli studi di urbanistica che presentano i loro progetti; ma anche nelle immagini contenute nel PGT di Milano – che è un atto pubblico – si riconoscono tracce vistose del registro del rendering, e del suo lato seduttivo, in modo più esplicito per esempio in quelle a corredo della progettazione dei «raggi verdi», su cui si soffermano anche Mozzana e Polizzi in questo volume.

Il video su «Parco Occidentale» che mettiamo sotto osservazione, a titolo di esempio14, ci apre la strada per esplorare come si parli di città nel

14 Alle spalle c’è anche un lavoro sul rendering dei complessi residenziali analizzati da Bricocoli e Savoldi [2010; 2013].

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formato argomentativo del rendering. Vi si parla di un grande progetto di sviluppo immobiliare in campo residenziale su una delle aree di sviluppo più rilevanti indicate dal PGT, a ovest-sud ovest della città, in prossimità del capolinea Bisceglie della metropolitana “rossa”. Metri cubi edificabili, senz’altro; ma anche sogni. Nel video si sorvola un’area verde tipicamente padana, con un fontanile, piste ciclabili che l’attraversano (e una Barbie in bicicletta), c’è la scuola materna, il solito centro polifunzionale, i campi di calcetto, le residenze con i loro nomi e i loro criteri costruttivi che rispetta-no i canoni della “sostenibilità”, e altro ancora, nonché contrafforti e muri intorno alle residenze. Senza dimenticare il centro commerciale. E ci sono le due “torri” (una parola del gergo urbanistico che meriterebbe di essere analizzata): sono anch’esse circondate da un terrapieno o un muro, terroso, rossiccio. E si chiamano: Bianca e Neve. Un sogno che fa tornare bambini, complice anche la voce suadente, in risonanza con le immagini che scor-rono15. L’insieme richiama alla mente l’«osceno» di Baudrillard, là dove «il vero... può trasparire da tutta la potenza del falso», come «il più vero del vero» [1983, p. 76].

Diciamo dunque, per cominciare, che il rendering, come tecnologia della simulazione, si presta bene al confezionamento di realtà fittizie. Nel disegno 3D prodotto con questi software, che consente di confezionare in modo pressoché automatico le rappresentazioni urbanistiche, è proprio la terza dimensione che, paradossalmente, scompare. Si produce un appiatti-mento. Mentre è venuta meno, come abbiamo visto, la visibilità dell’opera-zione “artigianale” di traduzione nelle due dimensioni della carta, delle tre dimensioni (e oltre) di cui è fatta la città, intesa come collettività umana, ora viceversa le tre dimensioni sono già lì, rappresentate nella simulazione, preconfezionate – non più un’opera collettiva, quale appunto è la città. Scompaiono alla vista i passaggi tra i diversi livelli di realtà, mentre il sapere tecnico che li media perde spessore: con «lo smarrimento del punto di vista», per riprendere l’espressione di Gabellini, e perciò anche con il dissolversi di quella pluralità possibile dei punti di vista grazie alla quale, come dice Hannah Arendt, certe operazioni di astrazione «sono viste da tutti», sono materia pubblica. Peraltro è curioso e andrebbe indagato il fatto che questo appiattimento si accompagni ad un’altra novità: queste nuove rappresen-

15 Il sito nel quale si promuoveva il progetto con il video è stato chiuso (il video è comunque reperibile all’url: http://www.youtube.com/watch?v=j9Ep1ZW1PT8). Parco Occidentale è uno dei tanti progetti interrotti, a Milano, per indagini della magistratura su questioni am-bientali (mancate bonifiche, in questo caso) o per fallimenti finanziari. Una moria di progetti, c’è quasi qualcosa di sistematico, se non di intenzionale, su cui occorrerebbe riflettere.

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tazioni urbanistiche si popolano di umani, e di pratiche d’uso (simulacri, beninteso, come per l’appunto le Barbie in bicicletta).

Insomma, nel rendering si esprime una trasformazione del sapere nel suo rapporto con il potere. Sono tecniche e saperi complessi e scientifica-mente fondati quelli che sovrintendono al confezionamento di simulazioni di città con il rendering. I programmi informatici che vengono applicati si basano su modelli matematici, o più precisamente sulla geometria. Salvo il fatto che questi programmi – i matematici sono noti per il loro sense of humor – in inglese si chiamano impostor, e come tali sono pubblicizzati in internet. Interessante l’esibizione di questo nome, che meriterebbe un’esplorazione a parte, così esplicita da ricordare il lancinante aforisma di Guy Débord: «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» [1992, p. 19].

Un impostor è tanto più efficace tecnicamente quanto più “realistica” è la realtà fittizia che riesce a “rendere”, quanto più l’impostura è riuscita. Su questo modo di qualificare come “realistiche” immagini costruite al com-puter converrà tornare più avanti, ma intanto è interessante anche notare il ricorso alla tecnica di inserire dentro la costruzione virtuale al computer immagini tratte da fotografie o filmati – dunque “vere”– senza soluzione di continuità16: un occhio un po’ più attento nota la differenza tra immagini vere e finte, ma questo innesto, invece di produrre un indebolimento della simulazione, la rafforza. O piuttosto produce un ibrido nel quale questa differenza collassa, diventa irrilevante, e anzi si rafforza l’indifferenza nei confronti della distinzione tra fattuale e simulato, tra vero e finto.

La simulazione di città che in questo modo il progetto urbanistico mette in scena produce un simulacro di città. La città costruita assomiglia al ren-dering, come nella mostra fotografica di Giovanni Hänninen, Rendering the city: le foto di complessi residenziali, piazze ed edifici trasmettono un senso di irrealtà simile a quello delle immagini artificiali prodotte con i programmi del rendering. Una “città del simulacro”, si potrebbe dire parafrasando Jean Baudrillard, e richiamando la svolta nel rapporto del potere col simbolico da questi evidenziata17. Il simulacro va oltre non soltanto la rappresentazione come copia che si pretende fedele al reale, ma anche oltre la tensione tra rappresentazione e realtà e il plurisecolare regime discorsivo attorno alle pretese di verità; e rimpiazza il reale con “l’iperreale”. La simulazione che

16 Nel video del «Parco Occidentale» che usiamo come esempio l’accessibilità dell’area in questione viene rappresentata con riprese di uno spezzone di traffico cittadino quotidiano comprensivo dell’immagine di un normale autobus urbano.

17 Per parte sua Castel registra l’avvento del simulacro lavorando sulla centralità del re-lazionale emergente nella gestione dei problemi sociali [v. Castel 1982, cap.2; v. anche de Leonardis, 2012].

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produce simulacri non appartiene all’ambito della rappresentazione, che combina problematicamente il segno, il significato e il significante, non è una rappresentazione falsa perché non è rappresentativa bensì “iperrealizzante”, è priva di referente e autosufficiente. Siamo nel pieno dell’appiattimento.

Baudrillard segnala questa svolta proprio nel rapporto tra mappa e territorio, poiché «è la mappa ormai che precede il territorio...». Ma vale la pena citare Baudrillard per esteso18:

«Oggi l’astrazione non è più quella della mappa, del doppio, dello specchio o del concetto. La simulazione non è più quella di un territorio, una sostanza o un essere referenziale. È la generazione via modelli di un reale senza origine o realtà: un iperreale. Il territorio non precede più la mappa, né le soprav-vive. Piuttosto, è la mappa che precede il territorio [...] Il deserto del reale stesso. Ma non è più questione di mappa o territorio. Qualcosa è scomparso: la differenza sovrana tra loro che guida l’astrazione [...] Non più questione di specchio e apparenza, del reale e del suo concetto; con più coestensività immaginaria: piuttosto, è la miniaturizzazione genetica la dimensione della simulazione. Il reale è prodotto da unità miniaturizzate, da matrici, banche dati e modelli di comando – e con ciò può essere riprodotto un numero infinito di volte».

Dove “la mappa precede il territorio”, dove cioè l’astrazione viene costruita senza l’onere di dar conto del rapporto con la realtà da cui astrae, precisamente lì cambia il ruolo dei saperi e il loro rapporto col potere. Cambiano i processi di astrazione ad essi affidati, e l’artificiale che questi processi costruiscono: le fiction “realistiche” e “iperreali”, la società del simulacro per l’appunto. E il potere che attraverso l’artificiale si esercita scompare, diventa oggettivo. O, piuttosto, questo artificiale fa perdere le tracce delle soggettività che lo hanno costruito, del suo essere un artefatto umano convenzionale, della sua matrice politica. E del potere che vi si dispiega: questo di nuovo ci ricorda la figura della “tirannia senza tiranno” di Hannah Arendt, a proposito del legame tra menzogna e politica su cui torneremo più avanti.

Le seduzioni della performance

Tutto ciò che Truman fa, in The Truman Show, sono performance in un grandioso rendering, la sua vita si svolge in uno spettacolo. E lo spettacolo

18 Baudrillard lavora sull’allegoria di Borges (Sull’esattezza nella scienza) di un grande Impero che fa costruire ai suoi cartografi una mappa grande tanto quanto il suo territorio, e quando l’Impero si dissolve solo la mappa resta [Baudrillard 1998, pp.166-184].

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potrebbe costituire ciò a cui invitano i simulacri di realtà del rendering19. Almeno se si segue Débord, per il quale la “società dello spettacolo” è l’altra faccia della medaglia del «capitale ad un grado tale di accumulazione da diventare immagine»: «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine svolge su se stesso, il suo monologo elogiativo» [Débord 1992, p. 32].

È interessante notare che in questa visione straordinariamente anti-cipatrice (Débord scriveva nel 1967) un posto di rilievo – la VII parte del libro – occupa il riferimento, per l’appunto, alla “gestione del territorio”, presentandola come una leva cruciale di quella trasformazione della società in spettacolo operata dal capitalismo che cerca di mettere a fuoco. Il capi-talismo spettacolare mette al lavoro l’urbanistica «a rifare la totalità dello spazio come suo proprio decoro» [Tesi 169].

Il decoro: è Tamar Pitch che, con la consueta acutezza, l’ha messo a tema come un principio d’ordine molto attuale che si dispiega soprattutto nel discorso sulla città [Pitch, 2013, cap. 3; v. anche Cammarata e Monteleone, intra]. Di decoro urbano parlano senz’altro le immagini di città formattate nel rendering. E cominciamo ad intravvedere il risvolto performativo della seduttività che vogliono esercitare. Nel marketing urbano, come nel video di cui parlavamo; ma anche nelle immagini, di formato non così smacca-tamente pubblicitario, a corredo di quel Piano di Governo del Territorio della città di Milano: nelle immagini dei “raggi verdi” in modo evidente, ma anche in quelle dei NIL, nel loro essenziale bianco-e-nero. Con i rendering il Piano «lavora a una fictio che si fa paesaggio quotidiano: su misura di un cittadino ridotto a qualcosa tra il bamboccione e il tifoso, comunque analfabeta in fatto di regole della convivenza civile e, per dirla con Gadda, in preda all’uggia e al cattivo gusto [...] nell’intento evidente di dare un’idea della tavola imbandita per gli immobiliaristi (con gli amministratori a fare da maggiordomi)» [Consonni, DIAP]20.

Poiché è la pubblicità il registro discorsivo che ricorre alle armi della sedu-zione si potrebbe dire, semplicemente, che il rendering risponde all’esigenza di attrarre clienti per la città, di promuoverne l’“attrattività” e per essa gli inve-stimenti, e ciò in coerenza con le spinte diffuse e potenti alla mercatizzazione comunemente riconosciute come un tratto costitutivo della città neo-liberale. Tuttavia, a questo punto, alla luce del percorso fatto, dobbiamo e possiamo

19 Per inciso, anche il mercato immobiliare che allestisce queste sceneggiature è preso a sua volta nel gioco virtuale della finanza, del denaro senza referente, degli affari fatti su simulazioni [si veda su questo Orléan 2011]. C’è qualche rapporto, o qualche isomorfismo tra i simulacri di città costruiti con il rendering e la potenza virtuale della finanza, che bi-sognerebbe approfondire.

20 V. alla nota 8.

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tentare di dire qualcosa di più, sulla seduzione e sulla sua performatività. La congettura che avanziamo è che la seduttività si annidi nell’attrazione

della performance, qui intesa nel suo significato teatrale, nel sogno di essere attori possibilmente protagonisti di uno spettacolo. Il rendering dei complessi residenziali, invita a esibirsi, come in un reality show, in performance che ce-lebrino il decoro. Ma anche, sotto l’influenza degli estremismi argomentativi di Débord e di Baudrillard, non si fa fatica a pensare i NIL come invito ad esibirsi nella performance di “cittadini attivi” che curano e difendono il loro Nucleo d’Identità Locale – cioè il loro territorio. E a coltivarne per l’appunto il decoro – contro il “degrado” che lo minaccia [v. su questo ancora Pitch, 2013 e Cammarata e Monteleone, intra].

La seduttività si propone come una chiave per indagare il segreto del coinvolgimento delle persone. Essa si esprime al livello virtuale, fa leva su una fiction, un reality show appunto, che invita le persone ad immaginare, e a immaginarsi in quella fiction21. Qui sembra essere in gioco un ordine sociale che esercita il suo potere di coinvolgimento, la sua egemonia, organizzando le aspirazioni22. Vi si dice a cosa aspirare, come, e perché; ma soprattutto se ne offre la realizzazione bell’e pronta, chiavi in mano. Non si tratta più di aspirare a qualcosa che non c’è ancora ma che diventa una “possibilità reale” se ci si coinvolge nell’impegno collettivo ad argomentarla, perseguirla e rivendicarla – là dove dunque le aspirazioni sono mediate da pratiche e vocabolari politici – : qui il possibile è già costruito e a disposizione, non c’è bisogno di nessun processo collettivo, di pluralità dei punti di vista e discussioni, né di farsi un’esperienza pratica del rapporto tra aspirazioni e realtà, poiché tra le une e le altre c’è un rispecchiamento senza mediazioni, riunificate nelle immagini di un bel complesso residenziale che garantisce la sicurezza, la sostenibilità e il verde. Salvo che si tratta di una realtà fittizia che realizzandosi dà luogo a un simulacro di vita sociale. E il coinvolgi-mento in e attraverso questo simulacro opera con un trade off nel quale le persone hanno aspirazioni a portata di mano in cambio di una vita sociale simulata, che richiede di esibirsi in performance di una scenografia già data. Ciò che in questo scambio viene messo da parte è la possibilità di incidere sulla realtà sociale insieme agli altri, e viene piuttosto suggerito di ritirarsi

21 Citando Zizek: «Nella società consumistica del tardo capitalismo anche la reale vita sociale acquisisce in qualche misura l’aspetto di un falso organizzato, con i nostri vicini che si comportano nella vita reale come attori e comparse sul palco. Di nuovo, la verità definitiva dell’universo utilitarista de-spiritualizzato del capitalismo è la de-materializzazione della stessa vita reale, il suo rovesciamento in uno spettacolo spettrale» [2002 p. 13].

22 Alludiamo qui al lavoro di Appadurai sul rapporto tra democrazia e aspirazioni [Ap-padurai 2011; v. anche de Leonardis, Deriu 2012].

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in un ambiente del tutto virtuale, depurato degli eccessi, delle tensioni, delle contingenze della vita; là dove la soggettività si riduce, come dice Zizek, a «stucchevole capriccio».

3. Immagini realistiche e inversioni del costruttivismo23

Il rendering – dicevamo prima – fornisce immagini “realistiche”, che tuttavia non corrispondono ad alcuna realtà, quale che sia. Questo realismo concer-ne la costruzione, non la rappresentazione; è realistica la costruzione dell’im-magine, non il rapporto che essa ha con una realtà che vuole rappresentare. Si produce dunque una discontinuità in ciò che s’intende per “realismo” delle immagini, rispetto ad esempio alla fotografia e al denso patrimonio di discussioni circa la sua capacità di dire la verità, di fornire prove sulla realtà dei fatti, nel corso del novecento. Le immagini, dice Didi-Huberman, tornato di recente sulla questione del realismo e del costruttivismo delle immagini24, sono comunque costruite, sono sempre un “montaggio” che convoca un insieme complesso di elementi in tensione tra loro, su cui si apre la possibilità di provare a dar conto del reale: la prova qui è intesa come tentativo, dice Didi-Huberman, o come traccia. Viceversa,

«Se s’ignora questo lavoro dialettico, ci si espone a non comprendere nulla e a confondere tutto: confondere il fatto col feticcio, l’archivio con l’apparenza, il lavoro con la manipolazione,, il montaggio con la menzogna, la rassomi-glianza con l’assimilazione [...] L’immagine non è né nulla né tutto, e non è nemmeno una, e neanche due. Essa si dispiega nell’ambito del minimo di complessità prodotto da due punti di vista che si affrontano sotto lo sguardo di un terzo» [Didi-Huberman 2003, p. 189]. (corsivi nostri)

23 L’inversione a cui il titolo si riferisce evoca il «totalitarismo invertito», di cui l’attuale «democrazia amministrata (managed)» è il «volto sorridente» nell’analisi di Sheldon Wolin [2008] delle trasformazioni del sistema politico negli Stati Uniti dell’era dei Bush.

24 Quanto ciò che esse rappresentano possa costituire una prova di realtà, e viceversa quanto stia già, come di consueto, nell’occhio dell’osservatore; di che cosa queste immagini sono una testimonianza, quando e come esse rendono visibile l’invisibile e l’inimmaginabile, e quanto l’immaginazione, e quando, sia una forma di conoscenza: questi sono alcuni degli interrogativi che vi vengono sollevati. Il terreno di discussione è quello di come rappresentare l’orrore, la questione della rappresentabilità dell’umano là dove quest’ultimo viene drastica-mente negato, come ad Auschwitz-Birkenau. Le quattro foto scattate dal Sonderkommando su cui Didi-Huberman lavora, proprio nella materialità della situazione in cui sono state scattate e poi fatte uscire dal campo, ci implicano nello sforzo di immaginare, come parte della responsabilità di cercare di sapere, di capire. Tutto al contrario del “realismo” del rendering.

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Questo “minimo di complessità”, comprensivo di un “terzo”, vale senz’al-tro anche per quella costruzione “artigianale” delle immagini urbanistiche implicate nella rappresentazione di un progetto pubblico di città che, diceva-mo, il rendering by-passa. La distanza dalla realtà, qui, si configura come un distacco, un’indifferenza al rapporto con essa. In questo caso il “montaggio” di una realtà fittizia è diventato indifferente ad un confronto col reale, e a questioni di verità, ed è perciò anche indifferenziato rispetto alla “menzogna”. La costruzione perde l’ancoraggio nell’esperienza, con ciò disattivando gli interrogativi, tanto epistemologici quanto politici, su ciò che si sta costruendo.

Sappiamo che l’argomentare, tanto più in atto pubblico, è parte inte-grante della costruzione sociale della realtà. Con le parole si fanno cose. E anche con le immagini. Ma qui, nella città fittizia, la combinazione che lega la realtà costruita all’argomentazione su di essa delinea un passaggio: sem-bra all’opera qualcosa come un costruttivismo esasperato; o forse piuttosto un’inversione del costruttivismo. Su questa congettura conviene soffermarsi.

L’idea che la realtà sociale – essendo costruita, non data, non inevitabile (sic!) – la si possa anche trasformare, smontare e costruire diversamente, è materia prima della politica. Quella «capacità creativa dell’azione» che, come ricorda Hannah Arendt [1972], è propria della politica, coinvolge nell’«immaginare che le cose potrebbero essere diverse da quello che sono in realtà» (anche deformando i fatti, anche con la menzogna, precisa Arendt). Del resto, è il “costruttivismo” che von Hayek rinfaccia al governo politico, in quanto impedisce il libero fluire di un «ordine sociale spontaneo».

Quell’idea della realtà come possibile ha anche guidato processi di cam-biamento sociale di segno emancipativo, e con effetti di allargamento della democrazia, come è accaduto nel II dopoguerra e con le lotte per lo sviluppo del welfare, anche in Italia – non per caso una fase storica d’intensa politiciz-zazione dei discorsi e delle pratiche che si esprimevano in quei processi. Una stagione, peraltro, di grande fioritura di approcci ed elaborazioni di orienta-mento costruttivista – e decostruzionista – sul piano epistemologico, attorno a come «si fanno» si disfano, si rifanno, «mondi», per usare l’espressione di Nelson Goodman (che guarda anzitutto al linguaggio). Queste elaborazioni erano alleate del cambiamento in quanto mantenevano aperta la possibilità della critica della realtà, dell’ermeneutica radicale della sua “datità” che ne porta alla luce l’ideologia, e la mette in discussione; una postura critica che anzitutto metteva in guardia dall’assertività. Come dice ancora Goodman, ciò che sappiamo sulla realtà dei fatti è soltanto:

«che non si dà una distinzione precisa tra fatto e convenzione, ma che questa distinzione è importante; che la linea tra fatto e convenzione si muove molto

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spesso e può essere tracciata dovunque ma non a capriccio; che piuttosto che essere i fatti a determinare come li possiamo prendere, come li prendiamo determina i fatti – ma che è meglio che facciamo attenzione a come li pren-diamo [...] Afferrare correttamente i fatti è relativamente facile, purché si abbia in mente che i fatti sono paradossali» [Goodman, Elgin 1988, p. 100].

Nel costruttivismo così inteso, la questione del rapporto con il reale, in termini sia di conoscenza, e di attribuzione di significati, sia di azione (po-litica) resta una questione aperta. E ci si può soltanto approssimare a quale sia la verità a proposito della realtà. Invece, il costruttivismo che si dispiega nelle realtà fittizie, nella città del simulacro, proprio questa questione oblitera. Come abbiamo appena detto, esso è applicato nel prescindere dalla realtà, e nel costruire indifferenza ad essa. L’attenzione è deviata su una realtà per così dire “altra”. Una interpretazione di questo passaggio potrebbe attingere al suggerimento di Sheldon Wolin [2008, capitolo 1] di considerare tale realtà come costruita nella forma e con il vocabolario del “mito”. Appoggiandosi a Vernant, Wolin lo rintraccia là dove il discorso fornisce «risposte senza formulare esplicitamente i problemi». Il mito, aggiunge Wolin «presenta un racconto di exploit non un’argomentazione o una dimostrazione. Non rende il mondo intellegibile, ma soltanto drammatico» [ivi, p. 10]. La drammatizza-zione sembra effettivamente essere un tratto riconoscibile nello spettacolo dei complessi residenziali costruito con il rendering. Potremmo anche aggiungere, in via d’ipotesi, che questa versione del costruttivismo che allestisce spettacoli – non rappresentazioni ma simulacri – è al servizio di un potere espressivo, più che funzionale (ovvero che pretende di giustificarsi con argomenti razionali).

Una seconda chiave interpretativa potrebbe attingere alla storia in mate-ria di costruzione di falsi. La storia mostra che il confezionamento di falsi al fine di accreditare un’interpretazione ufficiale di eventi rilevanti è una pratica di lunga data e consolidata, a ridosso di poteri fondati sul segreto e l’opaco. Al falso più famoso, i Protocolli dei savi di Sion25 Carlo Ginzburg ha dedicato un capitolo, il 10°, del suo Il filo e le tracce, il cui sottotitolo è, significativa-mente: “Il vero, il falso, il finto” [Ginzburg 2006]. Ginzburg dimostra che la costruzione di questo testo è una derivazione diretta, un’applicazione, di un trattatello francese di teoria politica di cinquant’anni prima nel quale l’autore, Maurice Joly, vuole smascherare nel regime di Napoleone III una forma di “dispotismo” inedita che combina l’acclamazione popolare con il controllo più totale dell’informazione: decifrando, dice Ginzburg, «un fenomeno di lunga

25 Il documento confezionato nei primi anni del ’900 come prova di un complotto ebraico, pluto-giudaico, per il controllo del mondo, di cui il nazismo ha fatto largo uso.

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durata, che in forme diverse arriva fino a noi» [ivi, p. 195]. Questa rilettura dei Protocolli suggerisce di prendere in conto come in questo “dispotismo” entri in gioco la falsificazione, o meglio la creazione di una realtà fittizia. Infatti i Protocolli non sono soltanto falsi – posto che falso sia l’opposto di vero – essi sono anche finti. Ed è precisamente questo aspetto – suggerisce Ginzburg – che “arriva fino a noi”. Forse, fin dentro la “normale” vita pubblica di una società democratica, le sue politiche e i suoi governi locali, quando questi ricorrono al confezionamento di realtà fittizie – a un modo di costruire realtà alternativo alla politica e alla lotta politica democratica.

Questo costruttivismo, finalizzato a sbarazzarsi sia della realtà dei fatti che dell’ancoraggio nell’azione (politica) trasformatrice, segna una discon-tinuità rispetto al rapporto – sempre problematico – tra vero e falso, in cui si dispiega la politica come registro di discorso sul problema del potere. In merito si tornerà ancora nel capitolo 3 [Molinatto, infra]. Qualcosa cambia anche nelle caratteristiche e nell’uso della menzogna in politica: essendo la menzogna uno dei «mezzi legittimi per obiettivi politici lungo tutta la storia», come sostiene Arendt e come già ricordavamo. Questo cambia-mento è precocemente segnalato da Hannah Arendt nel suo lungo sag-gio Sulla menzogna in politica, nel quale analizza i documenti del Pentagono sulla guerra in Vietnam declassificati nel ’69, e nel quale evoca la figura della «tirannia senza tiranno». La sua indagine fa emergere fattispecie di menzogna inedite. Quei documenti non solo mentono in modo sistematico ma soprattutto, ignorando ciò che emergeva dal sistema informativo stesso, fabbricano scenari fittizi a sostegno degli obiettivi volta a volta proclamati a giustificazione della guerra. Come questa fabbricazione avvenga richiama da vicino ciò che abbiamo scoperto studiando il rendering. Arendt fa vedere in azione in queste costruzioni gli «specialisti della soluzione di problemi», i loro saperi e le loro tecniche in materia di modellizzazioni matematiche, simulazioni e teoria dei giochi: questo tipo di conoscenze viene impiegato per confezionare immagini della realtà voluta in modo che questa concordi con le loro modellizzazioni, «scartando così mentalmente la contingenza sconcertante della realtà». «Gli specialisti della soluzione di problemi [...] si sforzano di sbarazzarsi dei fatti e sono convinti di poterlo fare perché si tratta di realtà contingenti». E per questa via essi varcano il limite della falsificazione costruendo una realtà fittizia senza più alcun rapporto con i fatti. L’importante sono gli effetti di realismo, «psicologici» dice Arendt, dove l’unica cosa che conta è «la realtà soggettiva». Anche questo, forse, “arriva fino a noi”; e anche questo fa parte della sostituzione della politica con altri mezzi nell’esercizio di poteri di governo.

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4. Conclusioni

Nei testi normativi che abbiamo esaminato la città che vi prende forma si configura come non soltanto inevitabile, ma anche seducente. Alla norma-tività del fattuale come un dato inevitabile che emerge dalle argomentazioni in parole scritte, si affianca quella del fittizio come seduttivo che caratterizza le immagini, là dove queste esprimono, sul piano argomentativo, un invito a esibirsi in un simulacro di vita urbana. Ciò che accomuna questi due modi di fabbricare la realtà della città, riunificati in uno stesso testo normativo, è che in entrambi è disattivato il regime discorsivo della politica, del potere, delle ragioni e della volontà di trasformare quella realtà. Essi convergono nel produrre la depoliticizzazione del discorso sulla città e sul suo governo; e nel sottrarre alla città quella “discorsività” che è propria di una sfera pubblica democratica [Privitera 2012]. Ciò che a questo proposito è venuto emergendo nell’analisi dei testi normativi offre tracce significative di frames rilevati dagli studi sul discorso politico che accompagna le metamorfosi della sfera politica e delle istituzioni di governo, impresse dal neo-liberalismo; tracce, più precisamente di come l’ideologia neo-liberale si dispieghi, di come penetri nelle pratiche correnti e faccia presa nel dar forma a quella che Castoriadis chiamerebbe «l’istituzione immaginaria della società» – della città, nel nostro caso; in questo configurandosi come “ordine del discorso.” Su queste tracce ci soffermiamo ora brevemente, per concludere.

Abbiamo visto anzitutto come risulti assente il registro argomentativo delle scelte sulla città che si vuole collettivamente costruire, quel registro che chiama in causa valori e fini, che li argomenta e pretende di giustificarli in queste scelte (tanto più quando, come in un testo normativo, esse devono “valere in piena generalità”). Sia nel registro seduttivo che in quello dell’i-nevitabile viene a cadere l’onere politico di giustificare le scelte di governo, come tali vincolanti. Non solo i due registri discorsivi sono tra loro coerenti: sono strettamente connessi. Nel Piano – “senza Pianificatore”, come abbia-mo visto – non ci sono soggetti politici che prendono posizione, e non c’è traccia dei processi politici di cui le scelte in questione sono l’esito – l’esito cioè di compromessi raggiunti a valle di discussioni e conflitti tra punti di vista e interessi diversi. Se di scelte si tratta su di esse non si conviene, esse non si configurano come materia di consenso (e di dissenso). Il registro seduttivo e quello dell’inevitabilità si combinano, appunto, nel sostituire la dimensione del consenso politico alla base delle scelte: mentre il registro argomentativo dell’inevitabilità rende queste ultime obbligate, il seduttivo provvede a confezionarle nel formato della scelta di mercato. Queste scelte attraggono, persuadono, e se convincono – diventando così scelte di gover-

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no – non è per consenso bensì per adesione. Siamo fuori dal registro della scelta politica: c’è qualcosa di paradossale nel legame che qui s’intravvede tra quella “libertà di scelta” bandiera del nuovo ordine liberale della società, e questa situazione di non-scelta che il registro dell’inevitabile istituisce, come abbiamo visto. E ne abbiamo toccato con mano la normatività. “There is no alternative”: questo argomento del discorso neo-liberale dai governi di M. Thatcher in poi, variamente studiato dai teorici della politica, è una forma importante del discorso politico contemporaneo. L’acronimo TINA, intro-dotto da Thatcher alla fine degli anni ’80 e ripreso recentemente da David Cameron, indica che non esiste alternativa «al modo dei mercati capitalistici di articolare i processi sociali, le soggettività, e le differenze (prodotti, modi di produrre, località ecc. differenti). In altre parole, TINA rappresenta il progetto neoliberale dell’integrazione disciplinare attraverso il corpo sociale globale. TINA sostiene che non c’è alternativa ai mercati capitalistici: tutta l’azione umana deve essere da essi coordinata.» [De Angelis 2007, p. 156]. Al discorso TINA si contrappone l’acronimo TAMA (There are many alternatives), coniato dai partecipanti ai World Social Forums per evidenziare le possibilità alternative di coordinare e organizzare le differenze. Due aspetti della rifles-sione intorno a TINA risultano rilevanti ai nostri fini. Primo, la relazione con il fattuale: la logica del discorso neoliberale impone una lettura univoca ed inevitabile della realtà. Secondo, la gestione delle differenze: come nei discorsi normativi che hanno costituito il nostro terreno di ricerca, TINA propone l’organizzazione delle differenze intorno a forze esterne e, anche in questo caso, inevitabili, non trasformabili.

Del resto, anche il governare nell’emergenza che si va instaurando, tanto più con la “crisi”, prosegue nello stesso solco. Le tracce che di questo frame abbiamo rilevato nel caso esaminato segnalano come la sua assertività agisca appoggiandosi a pretese constatazioni di realtà di fatto, enunciati di verità. Che per l’appunto sostituiscono con l’oggettività scientifica a priori quel rapporto complesso e rischioso con la verità che la politica non può eludere. Forse qui ci troviamo di fronte a qualcosa di simile alle pretese, cui si riferisce Antonella Besussi [2012], di «una relazione privilegiata con la verità» che caratterizzano credenze – come quelle religiose – fondate su una forma di «rivelazione». E forse si potrebbe aggiungere che queste verità divenute univoche, «unambiguous» come dice Wolin [2008, p. 7] disattivano la pluralità dei punti di vista sulla realtà, creando unanimità.

Se mai c’è ancora spazio per visioni diverse e scelte tra alternative di-verse nelle quali i cittadini siano coinvolti, queste si esprimono su prodotti – preconfezionati, chiavi in mano come dicevamo – nello stampo della scelta del consumatore e nel frame della pubblicità. Del resto, anche in questo si

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riconosce quel marchio del discorso neo-liberale che è stato rilevato per esempio da Fairclough [1989] là dove sostiene che:

«La politica dei partiti, nell’essere condotta in misura sempre maggiore at-traverso un discorso pubblico monodirezionale sui media, sul modello della pubblicità, sta sempre più recedendo da un discorso bidirezionale, faccia-a-faccia. L’andare porta a porta, il dibattito e gli argomenti politici, gli incontri politici, stanno perdendo la loro rilevanza nell’ambito del discorso politico. Sotto l’impatto della generalizzazione dei rapporti economici di consumo, la politica di partito sta perdendo la sua base nella vita delle persone. Il coin-volgimento delle persone nella politica è sempre meno in quanto cittadini, e sempre più in quanto consumatori; e il fondamento della partecipazione sono sempre meno le comunità reali di appartenenza, e sempre più gli equivalenti politici delle comunità di consumo, che i leader politici costruiscono per i cittadini» [p. 211].

In questa prospettiva uno dei modelli del discorso politico è il registro pubblicitario: nella struttura argomentativa, spesso ellittica e basata sull’im-mediatezza; nei repertori, come nell’uso delle immagini e nella costruzione di un immaginario seduttivo; nella forma delle relazioni che costruisce, che sono a senso unico.

È importante in proposito sottolineare ciò che è emerso dalla nostra indagine. Abbiamo visto come il formato argomentativo per immagini – nel rendering dei complessi residenziali, ma anche nella mappa dei NIL – faccia collassare il dualismo tra mappa e territorio, ed elida la tensione intrinseca alla rappresentazione (e alla rappresentanza). E abbiamo visto di questo appiattimento gli esiti di infantilizzazione, la seduttività delle favola, del meraviglioso, un mondo incantato che assomiglia al paese dei balocchi. Forse su questo modo di organizzare simbolicamente le aspirazioni collettive, il rapporto con il futuro, si misura la forza – ma anche la miseria – dell’e-gemonia che il neo-liberalismo riesce ad esercitare.

In ogni caso, tra eletti ed elettori, tra politici e cittadini s’istituisce un vincolo non di consenso bensì di adesione – a stati di necessità o a prodotti preconfezionati. Quell’adesione senza mediazioni che, peraltro, caratterizza il populismo; e in cui il conflitto, la “partigianeria”, che sono propri della politica assumono un valore negativo, e la forma processuale del dibattito si concentra sulla composizione di istanze trattate come “date”. Sono del resto tendenze note che abbiamo già richiamato nella parte I. E sono noti gli effetti di deresponsabilizzazione rispetto alle scelte politiche. Da un lato, gli eletti sono politicamente de-responsabilizzati perché assumono la funzio-ne di rappresentare esigenze espresse da una maggioranza – che tuttavia

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è tale per addizione, non per composizione, per “aggregazione” non per “integrazione” [v. March e Olsen 1995]. Dall’altro gli elettori, i cittadini, sempre più sono invitati a esprimere opzioni individuali, in forma privatisti-ca, essendo esentati dall’onere di partecipare a processi collettivi e politici di confronto, costruzione e messa in forma di ciò su cui si tratta di esprimersi. Lo abbiamo rilevato anche a proposito delle procedure di “ascolto” con le quali sono stati costruiti i dati che conferiscono “oggettività” alle scelte, nel Piano di Governo del Territorio. In quanto l’ascolto è rivolto ai “bisogni” dei cittadini esso precostituisce il formato della loro voce, della loro parteci-pazione. Intanto, si partecipa a costruire un elenco di bisogni, ciascuno per sé, non a costruire insieme e conflittualmente un progetto di città; e poi, i bisogni attivano il linguaggio della necessità, per differenza rispetto ai diritti che invece chiamano in causa le libertà – anzitutto la libertà (politica) di prender parola per dire ciò che sarebbe giusto fare in materia di città, e ciò che sarebbe importante conoscere per quel fare.

D’altro canto abbiamo visto come l’inevitabile e il seduttivo elidano ciascuno a suo modo la dimensione dell’azione sulla realtà, la sua gene-ratività, il suo statuto politico. Scompare per l’appunto il fare, l’agire che costruisce i fatti sociali – e la città come fatto sociale, «frutto di un’immensa cooperazione» diceva Durkheim. Un altro costruttivismo si va profilando, che a questa cooperazione sottrae visibilità pubblica, e contestabilità di ciò che essa crea, e dunque riflessività. Questa è l’ultima delle indicazioni che traiamo dalle nostre esplorazioni, e che vogliamo consegnare alla discussione sulla de-politicizzazione del discorso sulla città.

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2

Forme d’uso del sapere esperto nell’argomentazione delle scelte politiche

di Carlotta Mozzana e Emanuele Polizzi 1

1. Introduzione

L’ipotesi che sta alla base della presente ricerca, come illustrato nella pre-messa a questa parte, è che nell’argomentazione di diverse politiche pub-bliche contemporanee sia in atto un processo di collasso della dimensione normativa su quella cognitiva.

Seguendo questa ipotesi, il collasso si basa per una parte rilevante sull’u-tilizzo di argomenti che presuppongono una larga autonomia dei processi di trasformazione sociale dalla volontà politica e morale di chi governa. In altre parole, la società si trasforma da sé, spontaneamente, seguendo delle tendenze insite nella natura stessa dei soggetti e degli agglomerati sociali, come le città. In questa cornice, alla politica non resta che accompagnare le trasformazioni spontanee, senza ostacolarle, e le argomentazioni di tipo normativo vengono sovente considerate come “ideologiche” (si vedano i contributi di de Leonardis e Giorgi e Molinatto in questo volume). Se dun-que il processo di trasformazione sociale “va da sé”, allora diventa centrale, nel processo di policy making e nella sua argomentazione, il ruolo dei saperi esperti, cioè di coloro che hanno la legittimità pubblica per leggere le ca-ratteristiche e le trasformazioni “autonome” della citta. È la loro parola che consente alla politica di presentare le scelte come obbligate in quanto considerate le uniche tecnicamente possibili. Sono cioè i supporti “tecnici” a rendere possibile la depoliticizzazione delle scelte e l’adozione di strumenti altrettanto “tecnici” di governo.

1 Nell’ambito di un lavoro congiunto, sono da attribuirsi a Carlotta Mozzana i paragrafi 2.2, 3.1, 4.2 e 5.2 e a Emanuele Polizzi i paragrafi 2.1, 3.2, 4.1 e 5.1, mentre Introduzione e Conclusioni sono frutto di un lavoro a quattro mani. Gli autori desiderano ringraziare per il prezioso supporto nella parte di ricerca attinente al Tavolo per la salute mentale Diana Mauri, e per il continuo confronto Ota de Leonardis, Alberta Giorgi, Paola Molinatto, Andrea Molteni e Raffaele Monteleone.

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Tali saperi esperti possono assumere diverse forme. Normalmente le due forme più diffuse di questo ruolo sono quelle degli scienziati, cioè studiosi (spesso accademici accreditati) che prestano il loro bagaglio di conoscenze al decisore politico, e quelle dei tecnocrati, cioè alti funzionari pubblici che in virtù della loro esperienza e della conoscenza che hanno del funziona-mento della macchina del governo, possono accreditare come possibili o impossibili alcune scelte.

In questo capitolo vogliamo mettere sotto osservazione proprio il ruolo assunto dai saperi esperti e dalle argomentazioni presenti nelle politiche e nel dibattito su di esse in due campi specifici di politiche locali a Milano, come già specificato: la pianificazione urbana, con l’analisi del Documento di Piano di Governo del Territorio, adottato dalla Giunta Moratti nel 2010, e la programmazione delle politiche di salute mentale, con l’analisi del do-cumento istitutivo del Tavolo per la Prevenzione e Sicurezza nell’area della Salute Mentale (da qui in poi “Tavolo per la Salute Mentale” o “Tavolo”) adottato nel 2009 dal Comune di Milano.

Si è quindi anzitutto guardato all’argomentazione usata in questi docu-menti di politiche, individuandovi le tracce di elementi di inevitabilità, per-suasività e genericità. Si è cioè guardato all’argomentazione utilizzata come qualcosa di relativamente autonomo dagli attori che la utilizzano [Perelman e Oblrecht-Tyteca 1958; Wright Mills 1940] e che tuttavia si riproduce e produce degli effetti sulla strutturazione del campo di azione degli attori. Per quanto riguarda la persuasività dell’argomentazione, se è vero che è implicito in questa l’obiettivo di persuadere il pubblico a cui ci si rivolge [Bobbio 1966], le forme che questa assume, come vedremo, sono diverse e diverse le conseguenze che ne derivano.

In secondo luogo si è cercato di osservare, in chiave processuale, se e come questo tipo di argomenti, e più in generale l’uso depoliticizzante dei saperi esperti, sia stato riprodotto e confermato, o al contrario scalzato da forme diverse di argomentazione, nel dibattito che ha seguito l’emanazione di questi documenti di politiche nei due casi.

In terzo luogo si è messo a fuoco lo specifico tipo di coinvolgimento che i tecnici hanno avuto nella costruzione delle politiche in questione e il modo in cui i politici vi si sono rapportati. È importante qui precisare che i due casi esaminati sono molto differenti, sia per area di politiche a cui si applicano, sia per le modalità specifiche di argomentazione, di dibattito e di coinvolgimento dei tecnici utilizzate. Non si è voluto quindi fare una comparazione per somi-glianza tra i due casi. Si è anzi voluto evidenziare come, anche in politiche così diverse che hanno utilizzato tecniche di argomentazione differenti, si sia giunti a simili esiti di neutralizzazione della dimensione normativa e politica e a una conseguente opacizzazione del ruolo della politica.

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1. I casi studio: il Tavolo salute mentale del Comune di Milano e la trattazione del verde pubblico nel PGT di Milano

Presentiamo qui i due casi studio di politiche dell’Amministrazione comuna-le milanese che abbiamo analizzato dal punto di vista delle argomentazioni che ne hanno sostenuto l’istituzione: il Tavolo salute mentale e il Piano di Governo del Territorio di Milano (PGT).

1.1 Il Tavolo per la Salute Mentale

Nel novembre 2008 il Comune di Milano, e in particolare l’Assessore alla Salute Landi di Chiavenna, propone di istituire un “Tavolo per la preven-zione della pericolosità sociale”. Si tratta di un protocollo con cui il Comune propone alle autorità sanitarie, alle forze dell’ordine e alle organizzazioni del terzo settore di collaborare per prevenire comportamenti pericolosi delle persone con disturbi mentali.

Questo Tavolo nasce nel contesto di un clima di allarme sociale, molto alimentato negli ultimi anni da alcuni fatti di cronaca nera messi in gran rilievo dai media nazionali e che coinvolgono come autori persone affette (o presunte tali) da disturbi mentali (vedi anche Cammarata e Monteleone [infra]). La Giunta milanese del tempo, già molto sensibile agli argomenti securitari come soluzione degli episodi di microcriminalità presenti in città, su questo nuovo fronte di insicurezza spende molte risorse simboliche, in discorsi e slogan, e risorse materiali, in politiche e programmi. In partico-lare l’assessore alla salute, che ha la delega sul tema delle disabilità ed è proveniente dalla tradizione politica della destra (Movimento Sociale, poi diventato Alleanza Nazionale, poi confluito nel PdL), decide di dare a questo Tavolo un gran rilievo politico e comunicativo, non avendo il suo assessorato altre deleghe importanti.

Mentre i rappresentanti delle autorità sanitarie e delle forze dell’ordine accettano la proposta di protocollo del Comune, il mondo delle associazioni e del terzo settore milanese lo rifiuta in maniera netta e unanime. Diverse prese di posizione di queste organizzazioni criticano ferocemente il progetto, accusandolo di colpevolizzare le persone con disturbi mentali e di volerle solo neutralizzare anziché curare.

Di fronte a questo primo coro di critiche il Comune non muta i carat-teri della proposta, se non nel titolo del Tavolo, che diventa “Tavolo per la Prevenzione e la Sicurezza nell’Area della Salute Mentale”.

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Dopo un anno di altre critiche da parte delle associazioni e di silenzio da parte del Comune prende avvio l’attività del Tavolo, consistente di fatto nell’istituzione di un corso di formazione per le forze dell’ordine e di soccor-so milanesi (Polizia di Stato, Carabinieri, Polizia locale, operatori del 118), svolto da psichiatri e avvocati, per spiegare come agire in maniera tempestiva nelle situazioni di pericolosità sociale delle persone con disturbi mentali.

La vicenda si conclude di fatto con il termine di questo corso, che coincide con il termine della legislatura consiliare. Alle elezioni del 2011, con il cambio di giunta comunale, il Tavolo viene soppresso e la nuova am-ministrazione si propone di ricostruire un rapporto di collaborazione con le organizzazioni del terzo settore che operano nel campo della salute mentale.

1.2 La trattazione del verde pubblico nel Piano di Governo del Territorio di Milano

Innanzitutto l’epilogo: nel novembre 2011, pochi mesi dopo essersi insediata, la nuova Giunta Comunale di centro sinistra ha revocato il PGT approvato dalla precedente Giunta guidata dal Sindaco Moratti appena prima delle ele-zioni. Dal punto di vista del governo della città, infatti, sul Piano si giocavano da un lato una definizione di città che avrebbe dato forma agli interventi dei successivi cinque anni e dall’altro una partita politica rilevante: Milano era infatti rimasta per decenni (dal 1980) senza un Piano che consentisse di regolarne lo sviluppo e la crescita, alternando soluzioni emergenziali e parziali a politiche dell’annuncio [Palermo 2011]. La posta in gioco sul PGT è stata dunque una diversa visione politica di sviluppo della città: in una situazione di vuoto normativo protratta per qualche decennio, dare forma al nuovo Piano di Governo del Territorio significava infatti definire le linee di sviluppo della Milano futura.

Se l’iter per l’approvazione definitiva del PGT ha preso avvio all’indomani dell’emanazione della Legge Regionale n°12 dell’11/3/2005, il lavoro di defini-zione del Piano si è concentrato nel periodo dal 2009 al 2011: dopo una prima fase di stesura del Piano stesso, in cui la Giunta si è avvalsa della collaborazione e direzione di uno studio di architetti e urbanisti, Metrogramma, si è arrivati alla sua adozione il 13 luglio 2010. A questa è seguita la fase delle osservazio-ni: sono state chiamate a esprimersi in merito la Provincia, l’ASL e l’ARPA e parallelamente, come vedremo, anche i cittadini hanno potuto presentare osservazioni per modificare al Piano. Questa fase di presentazione, chiusasi a novembre 2010, è stata intensa e partecipata: sono giunte 4765 osservazioni a un documento ritenuto da più parti inadeguato e tacciato di consegnare Milano

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nelle mani della speculazione edilizia. La risposta della Giunta Comunale alle osservazioni è stata tuttavia guidata dalla necessità di chiudere il processo pri-ma delle elezioni comunali, con l’accoglimento di una limitata parte di queste, passate alla fine di un lungo dibattimento in Consiglio Comunale.

Le elezioni amministrative di fine maggio hanno poi visto un cambia-mento della Giunta Comunale, e la nuova Amministrazione, come accenna-to all’inizio, ha provveduto a revocare il PGT e a rimettere sotto esame le osservazioni pervenute, approvandone circa il 40% e modificando in parte l’assetto del Piano.

In questa sede si guarderà al documento approvato alla fine del mandato della Giunta Moratti (febbraio 2011), e si faranno solo alcuni richiami alla sua nuova versione emendata dalla Giunta Pisapia e approvata definitiva-mente a novembre 2012. In particolare si metteranno sotto osservazione il trattamento del verde pubblico, le argomentazioni che lo accompagnano e le forme d’uso del sapere esperto che ne delineano le trasformazioni. Infatti questo presenta, come vedremo, forme argomentative interessanti in merito al collasso tra cognitivo e normativo e alle modalità con cui il sapere esperto viene utilizzato a supporto dell’argomentazione.

2. Forme di argomentazione

La prima dimensione a cui guardare per indagare quali siano le forme d’uso del sapere esperto nelle attuali politiche per la città è quella dell’ar-gomentazione. Dunque verranno messi sotto osservazione i due documenti istitutivi evidenziando le modalità con cui il sapere esperto entra in gioco nell’argomentare scelte e decisioni di natura politica, e come viene declinato.

Quello che è emerso dall’analisi è che le principali forme argomenta-tive a cui si lega il sapere esperto sono tre: quella dell’inevitabilità, quella della persuasività (che si declina in seduttività e in scientificità evocativa nei documenti analizzati) e infine quella della genericità. Come vedremo le tre forme non sono mutuamente esclusive e distinte l’una dall’altra ma al contrario in diverse occasioni si mescolano dando luogo ad argomentazioni in cui coesistono più livelli di lettura.

2.1 Il PGT di Milano: inevitabilità, seduttività e genericità

Come emerge anche dalle analisi di de Leonardis e Giorgi e Molinatto [infra], le trasformazioni urbane che vengono presentate nel Piano di Go-

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verno del Territorio hanno uno spiccato carattere di inevitabilità. Questo riguarda soprattutto la direzione che hanno preso e verso cui muovono i mutamenti, che, anche per quanto riguarda il verde pubblico, sembra delineare i contorni di una città neo-liberale, in continua crescita ed espan-sione e senza un chiaro governo politico (nonostante lo slogan “Milano per scelta” in cui manca chiaramente un soggetto agente, come nota anche Palermo [2011]).

Questo non cambia nel momento in cui si guarda al verde pubblico. Il suo trattamento muove tra argomentazioni di inevitabilità e seduttività, che a loro volta sono legate a due specifiche definizioni del verde che si trovano all’interno del Documento di Piano: la prima, legata all’inevitabilità, è quella del verde pubblico come “vuoto”2 che viene contrapposto al “pieno” delle aree costruite; la seconda, che richiama la seduttività, definisce le aree verdi come “servizio”, in quanto uno dei punti chiave della dotazione di servizi del territorio (p. 44 Documento di Piano, DDP). Il sapere esperto, in entrambi i casi, viene utilizzato per definire il verde, finendo in questo modo per trac-ciare una direzione necessaria da un lato, e immaginifica dall’altro, attraverso la mediazione di un’ulteriore questione chiave, quella della “sostenibilità”.

Per quanto riguarda la prima definizione, quella del verde come “vuoto urbano”, essa consente, seguendo l’argomentazione del Documento di Piano del PGT:

«di mettere in luce una città invisibile e tuttavia sostanziale per la qualità della vita urbana di Milano e dei suoi abitanti di oggi e di domani» [p. 30, DDP].

In questo passaggio un ruolo fondante è dato alla questione della so-stenibilità:

«il Piano poggia le sue ambizioni sulla sostenibilità e qualità dei “vuoti urbani” come prospettiva di certezza e garanzia futura per i suoi cittadini» [p. 42, DdP].

È dunque la sostenibilità che rende fondante la rilevanza del verde pubblico inteso come vuoto urbano. E ad affermare questa cosa non è solamente “il Piano” che come osservato anche da de Leonardis e Giorgi, è l’unico soggetto presente e agente. Come emerge dallo stralcio che segue, sono soprattutto “gli inglesi” che concordano con questa impostazione; il sapere esperto in questo caso prende le forme dell’argomento d’autorità, utilizzato tuttavia in modo molto generico, senza specificazioni di sorta:

2 Si veda il capitolo di Molinatto in questo volume per una più ampia trattazione della dicotomia pieni/vuoti nel PGT di Milano.

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«La discriminante principale per occuparsi di sostenibilità sin dalla scala ur-banistica, come dicono gli inglesi, è non consumare verde. […] I cittadini chiedono case, servizi, attrezzature collettive e verde pubblico» [p. 41, DDP].

L’esperto quindi non ha connotazione disciplinare o un qualunque ri-chiamo di tipo bibliografico, ma solamente geografico, per alludere a un’im-postazione verso il verde pubblico di tipo anglosassone. Questa posizione però non solo non viene ulteriormente argomentata, ma nemmeno espli-citata: il richiamo serve a presentare la situazione come necessaria e non discutibile, e dunque non si tratta di una presa di posizione politica e di per sé passibile di messa in discussione, ma di una posizione oggettiva, necessaria per il fine ultimo di essere “sostenibili”.

Questo si evince anche dalla trattazione del consumo di suolo come previsto dal Piano. In merito a questo, l’utilizzo del sapere esperto attra-verso il richiamo agli indicatori («il PGT assume uno specifico indicatore numerico di controllo del consumo di suolo attraverso l’indicatore della superficie urbanizzata» [p. 42, DDP]), si combina a un generico appello a valori comuni inderogabili, condivisi e indiscutibili, come appunto la soste-nibilità ambientale:

«La risorsa del suolo e la sensibilità ambientale sono valori inderogabili. […] Il primo è un vincolo strutturale e, per chiara scelta politica, la città non intende consumare altro suolo ai suoi margini, a meno di non intaccare le risorse ambientali della corona periurbana; il secondo valore, invece, è pretta-mente culturale, poiché ogni luogo, ogni paesaggio, sia esso urbano o naturale, possiede specifiche caratteristiche e identità, e ciò è incontrovertibile» [p. 54 DDP]; e ancora «Il suolo è una risorsa limitata e per questo preziosissima» [p. 42, DDP].

La scarsità del suolo come risorsa non viene argomentata in alcun modo, non ci sono dati che la certificano se non un richiamo alle mappe, con quel che questo comporta in termini informativi, come evidenziano de Leonardis e Giorgi [infra]. Il suo continuo consumo viene dato per scontato e reso inevitabile anche attraverso l’uso di figure esplicative [fig. 2]. La scarsità di suolo e la necessità di agire in modo sostenibile sono infatti una “condizione strutturale e strutturante” del Piano stesso: poggiano su un argomento di valore implicito e dunque non sostenuto né politicamente né da elementi, analisi, dati chiari e discutibili. La forza di questa trattazione sta proprio nell’assertività che le dà forma, che presenta la situazione come un dato di fatto e come tale la tratta. In questo senso, la necessità di prestare attenzione al verde pubblico e l’importanza della sostenibilità dei progetti sono presen-tati con caratteri di ineluttabilità, pena la distruzione dell’ambiente urbano:

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«Milano non si può permettere di consumare ancora suolo, e pertanto adotta il consumo-zero come principio tendenziale, che deve avviare una seria po-litica di sostenibilità in grado di ridisegnare una città più attrattiva, dotata di una vera e propria strategia ambientale alla scala urbana e regionale» [p. 42, DDP].

L’argomentazione avviene quindi per necessità: è la descrizione della situazione del verde in quanto tale che porta a quelle trasformazioni urbane, ed è dunque inevitabile che la situazione evolva in quello specifico modo, a discapito di ogni discussione e messa a tema della rilevanza/irrilevanza di alcune scelte. Il verde come vuoto, e la necessità di applicare una politica volta alla sostenibilità, non sono proposte e nemmeno vengono presentate come scelta politica: così è, e data questa situazione la risposta della città non può che essere quella descritta dal Piano. E l’utilizzo del sapere esperto che accompagna queste posizioni è grossolano e generico, poiché non porta conoscenze a supporto dell’argomentazione ma serve a descrivere situazioni rendendo così le scelte compiute come ineluttabili.

Per quanto riguarda poi la dimensione della persuasività nell’argomen-tazione nel caso del verde nel PGT, essa si declina come seduttività, ed è mediata dalla definizione del verde pubblico come “servizio”. Anche in que-sto caso il concetto di sostenibilità è la chiave dell’argomentazione: il verde è concepito e descritto come un servizio alla città e della città e attraverso i raggi verdi, che servono per la mobilità, e i grandi parchi extraurbani, che servono per il tempo libero, costruisce la struttura della città e ne definisce identità e relazioni. Il PGT infatti

«ritiene indispensabile individuare un sistema del verde pubblico con le rela-tive attrezzature su cui ritrovare i nuovi rapporti sociali della comunità inse-rita, che sia in grado di mettere in relazione tutti gli attuali episodi di verde attrezzato e non, attualmente esistenti sul territorio comunale» [p. 44, DDP].

Il registro in questo caso si modifica: se la necessità è ancora parte dell’argomentazione («è necessario mettere a sistema gli spazi aperti e ren-derli attraversabili, percepibili, affinché diventino parte della vita quotidiana della città» [p. 75, DDP]), la leva qui è l’attrattività della città, la sua possi-bilità di crescere e svilupparsi, potenzialmente senza fine. Il verde pubblico, in questa visione tipica della città neo-liberale, viene argomentato come “funzionale” al resto della città e alla possibilità di richiamare interessi. È qui in gioco la “vendita” della città, il suo posizionamento in un mercato internazionale in cui le questioni del verde e della sostenibilità sono criteri rilevanti per la qualità della vita.

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Ma non solo. Nonostante venga presentato come tale, il citato sistema del verde non è una realtà, e non lo sono nemmeno i raggi verdi. Si tratta invece di una costruzione, di una realtà fittizia, creata ad arte nel Piano di Governo del Territorio, e che viene messa in evidenza nella figura 3. Non si tratta di un falso, poiché poggia su dati reali (i parchi cittadini e regionali esistono, alcuni progetti per quelli futuri erano già avviati all’epoca3), ma si tratta di spazi difficilmente collegabili4 che vengono fittiziamente messi a sistema per ricreare una realtà seduttiva, in modo da rendere le trasfor-mazioni, oltre che inevitabili, attraenti. Il sistema del verde, nelle parole del Piano, dovrebbe infatti essere

«capace di connettere tutte le aree verdi, esistenti e di progetto, e le aree naturalistiche esterne alla città, attraverso degli elementi lineari (viali alberati, percorsi pedonali e ciclabili, sponde di canali, parterre verdi); un sistema che vuole massimizzare gli effetti delle stesse aree verdi sulle condizioni ambientali della città (microclima, qualità dell’aria, ciclo naturale dell’acqua) ed elevare il livello della biodiversità, considerata un indicatore decisivo della qualità dell’ambiente urbano. Il verde avrà un’importanza prioritaria per trattenere le polveri sottili, assorbire il CO2, produrre ossigeno e rinfrescare l’ambiente in modo da garantire una città più sana e vitale. In verde avrà come valore intrinseco un aumento dei livelli di biodiversità al fine di poter creare un si-stema di spazi urbani che raccolgano tutta la naturalità dei parchi di cintura metropolitana, incanalandoli verso il centro della città consolidata. Anche un paesaggio eterogeneo come quello di Milano può essere progettato in futuro attraverso logiche ecologiche» [DDP, p. 78].

Il registro che si utilizza è persuasivo, e si accompagna a un tono dell’ar-gomentazione quasi suadente: anche qui ritroviamo la rilevanza della soste-nibilità come richiamo a un’argomentazione normativa indiscutibile, davanti alla quale qualunque questione perde peso e che opacizza le scelte politiche rendendole poco visibili e pubbliche. Questa argomentazione si rafforza poi attraverso l’utilizzo di un sapere esperto che rimane implicito, e la cui funzione è descrivere una situazione (il ruolo del verde come purificatore naturale e come indicatore di qualità, l’importanza della biodiversità,) ren-dendola così ancora più necessaria e inevitabile.

3 Come ad esempio il Parco Verga e il Parco del Portello, inaugurati dalla Giunta Pisapia ma in cantiere già con la Giunta Moratti.

4 Come osservano anche Arcidiacono e Pogliani, se si analizzano i progetti degli otto raggi verdi e del sistema tout court, molti dei tracciati che sarebbero da riqualificare e valorizzare si trovano in condizioni che non permettono trasformazioni con l’inserimento di verde e alberature [Arcidiacono e Pogliani 2011b, p. 181].

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A fianco di queste, un’altra caratteristica della trattazione del sapere esperto sono poi la genericità e la scarsa accuratezza (a proposito di gene-ricità si veda anche il contributo di Borghi in questo volume). Come si può osservare negli stralci sopra analizzati, questo è riportato senza riferimenti che lo rendano riconoscibile e dunque discutibile. A questo si aggiunge una sorta di stereotipizzazione del linguaggio: la sostenibilità viene utilizzata come valore-ombrello mai esplicitato, a cui nessuno può opporsi e che rende le trasformazioni e le “scelte” che nel piano vengono fatte ancora più inevitabi-li, come evidenziano anche de Leonardis e Giorgi [infra]. La “sostenibilità” della situazione funziona come argomento di valore e d’autorità [Perelman e Olbrecht-Tyteca 1958], e sembra avere un potente effetto di ritematizzazione delle problematiche sociali: focalizzando l’attenzione su un principio astratto, generale e decontestualizzato, toglie spazio ad argomenti relativi a questioni sociali, politiche e di cittadinanza e in questo senso sposta il discorso e rende opache le scelte che in questa direzione vengono effettuate. Questa stereo-tipizzazione si declina anche in una sorta di semplificazione reiterata degli argomenti, appunto come emerge con la questione della sostenibilità: il Piano procede per slogan, per parole chiave (un altro esempio è quello dei NIL, i Nuclei d’Identità Locale che nel Piano vengono definiti come una realtà inve-ce di essere una delle possibili letture di questa) che non richiedono ulteriori spiegazioni in quanto autoevidenti e che rendono il messaggio facilmente comprensibile, condivisibile e, appunto, scarsamente discutibile.

2.2 Inevitabilità e scientificità evocata nel Tavolo per la Salute Mentale

Anche nel caso del documento di premessa al Tavolo per la Salute Mentale si possono ravvisare caratteri argomentativi di inevitabilità, persuasività e genericità.

In particolare, la forma argomentativa per inevitabilità si riscontra qui nella grande quantità di richiami a dati epidemiologici sul fenomeno del disagio psichico a Milano. Sono in generale gli argomenti di tipo fattuale a prevalere, cioè quelli basati su evidenze empiriche e oggettive (o presentate come tali). Sono invece lasciati in disparte, o come mero cappello introdut-tivo, gli argomenti di tipo normativo, cioè quelli che si basano su principi, e in quanto tali su preferenze discutibili.

I dati epidemiologici presentano il disagio psichico in città come una realtà quantificabile e individuabile in indicatori precisi. Tramite i dati espo-sti sul disturbo psichico la realtà assume, per l’appunto, i caratteri di un dato, e dunque è un punto di partenza non discusso, e non discutibile. Non

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si discute per esempio il modo in cui tali dati vengono rilevati, né la loro fonte, né si contestualizzano tali dati in alcun modo (per esempio per fascia sociale, per genere o per età):

«I disturbi mentali sono molto diffusi: secondo recenti studi epidemiologici, nel corso di un anno circa ¼ della popolazione generale soffre di un disturbo psichico clinicamente significativo, comprendendo in questa stima anche i disturbi da abuso di alcool o di sostanze e le conseguenti comorbilità, oggi prevalenti soprattutto nell’osservazione delle fasi acute di malattia».

Analogamente, emerge il registro dell’inevitabilità in quella parte del documento in cui si individua il problema specifico a cui il Tavolo intende rispondere e cioè il supposto aumento di fenomeni di aggressività da parte delle persone con disagio psichico. I termini che vengono utilizzati sono infatti quelli dell’evidenza:

«Appare sempre più evidente infatti come, in questi ultimi anni, si sia modi-ficata l’espressione della sofferenza psichica e dei disturbi mentali, con una prevalenza di manifestazioni comportamentali “a corto circuito” e a rischio di agiti aggressivi, dovuti alla preoccupante ed ingravescente diffusione di abuso di alcol e sostanze stupefacenti».

L’inevitabilità emerge però anche in altro modo, ossia attraverso una forma di oggettivazione delle percezioni dei cittadini (vedi: de Leonardis e Giorgi e Procacci [infra]; Corradi [2013]). Le percezioni cioè vengono presentate come fossero dei dati oggettivi, capaci di giustificare un allar-me sociale per un fenomeno percepito come pericoloso. Si dice infatti, senza specificazioni di alcun tipo, che le istituzioni comunali

«hanno ricevuto numerose segnalazioni di cittadini che vivono grandi preoc-cupazioni personali legate alla convivenza con persone che hanno compor-tamenti pericolosi».

Nella stessa linea, il documento sostiene che

«quello della pericolosità sociale è un fenomeno direttamente connesso alla percezione e al bisogno di sicurezza dei cittadini, quale presupposto per un pieno e sereno sviluppo della persona umana sia nella sua dimensione indi-viduale che in quella sociale».

L’uso dei dati statistici epidemiologici e le percezioni diffuse di perico-losità fondano dunque l’argomento dell’inevitabilità dell’intervento pubblico in tema di prevenzione della salute mentale nella forma del Tavolo.

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Accanto all’inevitabilità, si può individuare un altro esito nell’argomen-tazione a sostegno di questo strumento di politiche sulla salute mentale. Esso è riconducibile alle dimensioni della seduttività e della genericità. Si tratta dell’evocazione di riferimenti scientifici generici ma tali da conferire un’aura di autorevolezza all’argomento stesso. Tali riferimenti sono spesso privi di specificazione e talora prescindono addirittura dall’argomento che si vuole proporre. Nel seguente caso, ad esempio, il riferimento scientifico in questione ha un contenuto che contrasta con gli obiettivi stessi del Tavolo (cioè giustificherebbe semmai una considerazione delle persone affette da disturbi psichici come vittime più che come autori di violenze), tuttavia viene utilizzato lo stesso in un’argomentazione che mira a giustificarne l’istituzione:

«Recenti ricerche, MacArthur Study e lo studio di Choe e collaboratori, ef-fettuate nei paesi anglosassoni, confermano che le persone affette da disturbi mentali non agiscono comportamenti aggressivi e violenti in misura maggiore rispetto alla popolazione generale, ma che più frequentemente sono vittime di molestie, malversazioni, aggressioni e violenze, con un rapporto tra essere vittima e essere autore di aggressione/violenza di 6 a 1».

Come si vede, sono state citate delle ricerche senza che ne siano det-tagliati gli esiti e si fa riferimento, come nel caso del PGT, a un generico mondo anglosassone come garanzia di autorevolezza e rigore.

Sempre nella cornice dell’evocatività, può essere letto l’uso dei dati nume-rici. Esso infatti avviene per lo più senza riferimento alle fonti, e dunque in una forma che sembra mirare più a evocare uno scenario che a giustificare delle scelte di politiche. Nel documento allegato a un comunicato stampa dell’As-sessore Landi di Chiavenna a supporto della scelta di istituire il Tavolo si dice:

«Si stima che siano circa 320.000 le persone a Milano che almeno una volta hanno sofferto di un disturbo psichico di cui il 65% (208.000 circa) sono donne. Nel 2007, oltre 100.000 interventi nei Pronto Soccorso milanesi per disturbi psichici: il 30% per disturbi d’ansia. In particolare tra 22.000 e 55.000 le persone che soffrono di disturbo panico e il 70% (tra 15.000 e 38.000) sono donne che hanno mediamente 36,7 anni…Circa il 20% della popolazione tra 0-18 anni si trova in un momento della vita ad affrontare un disturbo psichico, 36.000 tra bambini e ragazzi».

In questo tipo di argomentazione, ciò che si può evidenziare, più che l’uso solo evocativo del dato scientifico, è la mancanza di argomentazioni di tipo normativo, cioè di affermazioni esplicitamente basate su valori ritenuti preferibili, e quindi discutibili. A rimanere, invece, sono quasi solo argomenti basati su presunte verità evidence based.

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Un esempio che conferma il prevalere, nelle politiche di salute men-tale, di questa impostazione argomentativa si trova nel Piano triennale sulla salute mentale contenuto nel Piano di Zona 2009-2011, prodotto dal medesimo assessorato da cui è nato Tavolo per la Salute Mentale.

Anche in tale documento di programmazione infatti si trova ampia traccia dell’utilizzo di registri argomentativi che puntano sulla dimensione dell’inevitabilità privilegiando gli elementi fattuali a quelli normativi e gli elementi dell’evocazione ricorsiva dei dati numerici epidemiologici come base evidente (e quindi non discutibile) delle scelte. Esso ha un impianto dell’argomentazione prevalentemente descrittivo, fattuale-scientifico e foca-lizzato sui singoli progetti più che su una visione complessiva. Non vi sono elementi di riflessione sui propri servizi ma solo sulle patologie crescenti nella popolazione.

La specificità argomentativa di questo documento programmatorio appare ancora più evidente se la si mette a confronto con il documento programmatorio sulle politiche sociali prodotto sempre dal Comune di Milano nel 2001, ai tempi dell’Amministrazione Albertini, quando As-sessore alle politiche sociali era Tiziana Maiolo. Quest’ultimo infatti è un documento corposo (72 pagine), che prende in considerazione anzitutto alcuni elementi di scenario del campo dei servizi, afferma alcuni principi guida e poi concentra l’attenzione soprattutto sulle caratteristiche, le pro-blematiche e le sfide della psichiatria a Milano. Il documento inoltre uti-lizza un’argomentazione prevalentemente normativa (giuridica e valoriale) e fattuale esperienziale ed è invece quasi completamente assente l’argo-mentazione scientifica o anche solo la sua evocazione. Sono poi presenti numerosi spunti di riflessione sui propri servizi e una strategia processuale per affrontare i temi critici.

Tanto nel PGT che nel Tavolo per la Salute Mentale i registri argomen-tativi utilizzati tendono a comprimere la dimensione normativa a favore di una mera presa d’atto di una realtà già data, di cui va solo registrata e semmai valorizzata l’esistenza. Da questo deriva quindi l’inevitabilità delle scelte politiche. Vi sono certamente differenze nei modi in cui l’inevita-bilità prende forma nei due casi in oggetto: nel caso del Tavolo a questa si affianca la persuasività in cui giocano un ruolo rilevante gli elementi di scientificità (effettiva o solo evocata); nel caso del PGT hanno invece maggior peso gli elementi di seduttività, basati sull’utilizzo di grandi parole chiave indiscutibili nella loro genericità. Ma entrambe le argomentazioni vanno nella stessa direzione, quella di un collasso della dimensione nor-mativa su quella cognitiva.

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3. Forme di dibattito pubblico

Per indagare l’ipotesi di collasso della dimensione normativa sulla dimensio-ne cognitiva e il ruolo dei saperi esperti in questo processo è utile guardare non solo ai tipi di argomentazioni utilizzati dall’amministrazione nei docu-menti con cui sono state giustificate le proprie politiche di pianificazione urbana e di programmazione degli interventi in materia di salute mentale, ma anche a quello che è successo dopo. È in questo modo, infatti, che si può capire se e come questo collasso viene riprodotto e diventa egemone nel discorso politico o se al contrario è messo in discussione e vengono proposte altre forme argomentative. È in questa direzione che sono state messe sotto osservazione anche le argomentazioni utilizzate nel dibattito pubblico che è seguito all’adozione di quelle politiche, in particolare nei documenti che sono seguiti all’approvazione del Piano di Governo del Territorio e all’istituzione del Tavolo per la Salute Mentale.

3.1. Il dibattito sul Tavolo

Il caso del Tavolo per la Salute Mentale, come anticipato sopra, ha trovato diversi oppositori, sia sul lato istituzionale (i consiglieri comunali di opposi-zione) che su quello associativo (le organizzazioni di famigliari e di operatori del settore). Abbiamo quindi analizzato i documenti presentati da questi diversi soggetti, sotto forma di comunicati stampa, interrogazioni consiliari e prese di posizioni pubbliche e sottoscritte.

Consideriamo qui, a tal proposito, due esempi dell’argomentazione de-gli attori del dibattito, rispettando l’ordine del discorso usato dagli stessi attori (sono state tolte le parti non argomentative dei documenti).

Il primo riguarda l’interrogazione che due consiglieri comunali dell’op-posizione, Giuseppe Landonio e Patrizia Quartieri, hanno sollevato nel di-cembre 2008 nei confronti dell’Assessore Landi di Chiavenna, in cui si critica la scelta di istituire il Tavolo. Vediamone gli argomenti principali:

– Si afferma che la legge non prevede più il termine di pericolosità sociale se non per specifiche persone che abbiano già commesso reati:

• «che il concetto di pericolosità sociale correlato a «persone affette per qualunque causa da alienazione mentale» (art.1) trovava definizione nella Legge 14 Febbraio 1904, N. 36 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”»

• «che la Legge 180/1978, poi recepita dalla Legge 833/1978 ha cassato quel riferimento abrogando – nell’Art. 11 – gli “articoli 1, 2, 3 e 3-bis della legge 14 febbraio 1904, n. 36, concernente ‘Disposizioni sui manicomi e sugli

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alienati’ e successive modificazion” e così pure “l’articolo 420 del Codice Civile, gli articoli 714, 715 e 717 del Codice Penale”».

• «che la legislazione 180/833 ha pertanto superato l’intento di pubblica sicurezza, non comparendo in esse alcun riferimento al concetto di peri-colosità».

– Si mette in questione la giustificazione di talune affermazioni:• «…fin dal suo titolo anticipa un discorso pervaso da affermazioni non giusti-

ficate né fondate scientificamente e generative di forte stigma nei confronti delle persone con diagnosi psichiatrica».

– Si afferma che la categoria di pericolosità non ha fondamento scientifico:• «invoca una particolare pericolosità delle persone con diagnosi psichiatri-

ca grave, senza che ciò abbia un qualsivoglia fondamento scientifico, dal momento che ricerche internazionali hanno provato come la pericolosità di questi soggetti sia pari a quella delle persone ritenute “normali” nei confronti di atti efferati, quanto imprevedibili».

Il secondo documento che vogliamo portare ad esempio delle posizioni critiche rispetto al Tavolo che si sono esposte pubblicamente e ufficialmente è una presa di posizione del febbraio 2010 del Forum Lombardo sulla salute mentale, rivolta alle Autorità coinvolte e alla città. In questo documento si critica aspramente il Tavolo, in particolare per i seguenti motivi:

– I servizi sanitari, nell’impianto del Tavolo, sono resi funzionali alle esigenze di ordine pubblico:

«assegnando loro compiti di segnalazione e controllo, i servizi sanitari sono intesi (e ci si propone di usarli) come “braccio sanitario” delle istituzioni de-putate alla pubblica sicurezza».

– L’individuazione dei casi pericolosi è affidata non a criteri clinici rigorosi ma di senso comune:

«i criteri indicati per definire le persone da segnalare sono riferiti non a severi e condivisi parametri clinici, ma all’arbitrio delle opinioni soggettive degli operatori e di singoli cittadini, con il risultato che la pericolosità sociale è fatta diventare un costrutto del senso comune».

– Gli assunti dell’accordo violano alcuni principi fondamentali: libertà di scelta, consenso informato, diritto alla privacy, negano autonomia e re-sponsabilità ai cittadini con diagnosi psichiatrica e disconoscono il valore della relazione di fiducia tra medico, paziente e famiglia:

«Tali assunti, oltre a violare la libertà di scelta, il consenso informato e il diritto alla privacy, che sono alla base dell’organizzazione della sanità lombarda, e a negare autonomia e responsabilità al cittadino con diagnosi psichiatrica,

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disconoscono il valore della relazione terapeutica che non è solo medico → paziente, ma anche il suo rovescio, e nella psichiatria di comunità, anche molto di più (famiglia, reti sociali). Ne escono danneggiati, lacerati, sviliti i rapporti di fiducia reciproci che alimentano il percorso del miglioramento e della guarigione. Va aggiunto che i servizi pubblici di assistenza psichiatrica assumerebbero una configurazione e un’immagine tali da allontanare proprio quelle persone utenti che maggiormente potrebbero trarne beneficio».

– Le regole proposte sovraccaricherebbero gli SPDC (Servizio Psichia-trico Diagnosi e Cura), che verrebbero usati per tempi lunghi, trasforman-dosi di fatto i nuovi manicomi, senza peraltro la legittimità:

«Va considerato che se si adottassero le regole proposte, gli Spdc milanesi scoppierebbero rapidamente e non a caso, perché pensati in funzione di servizi di psichiatria comunità. Infatti, per riuscire a contenere tutti i soggetti presunti pericolosi , secondo i criteri del Comune di Milano, perché affetti da disturbi mentali, bisognerebbe pensare a riaprire spazi più grandi, dove trattenere i pazienti anche per tempi lunghi, quindi a gestione manicomiale. E non a caso, perché gli assunti da cui parte la proposta del Comune di Milano, vale a dire la presunzione di pericolosità e l’incapacità civile a carico dei folli, sono quelli su cui si basava la legge manicomiale del 1904, che, giustamente, indi-cava il manicomio come il presidio più importante dell’assistenza psichiatrica pubblica. Ma nel 1904 erano più seri perché sapevano trarre conseguenze coerenti con tali premesse».

– La pericolosità dei cittadini con diagnosi psichiatrica è un pregiudizio perché le statistiche dimostrano che essi sono meno offensivi della media della popolazione:

«Quello della pericolosità dei cittadini con diagnosi psichiatrica è un mero pregiudizio, essendo il loro indice di delinquenza inferiore a quello della popolazione intera, come dimostrato da tutte le statistiche raccolte in proposito in Italia e nel mondo. Semmai sono proprio i sofferenti – in particolare le donne – a soffrire di un ampio ventaglio di variegate vio-lenze nel corso della loro vita. Sarebbe come se su tutti gli abitanti del nostro paese venisse condotta un'indagine preventiva per prevenire il loro ipotetico delinquere».

Come si vede, in questi documenti emerge come gli oppositori del Ta-volo facciano un uso maggiore, rispetto al documento dell’amministrazione comunale di presentazione del Tavolo, di argomentazione normativa, sia di tipo giuridico, cioè facente riferimento a leggi, che valoriale, cioè facente riferimento a principi. Molto usata è anche l’argomentazione di tipo espe-rienziale, cioè basata su dati di realtà derivanti dall’esperienza sul campo, e di

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argomentazione logica, che cioè mette in luce le contraddizioni interne al do-cumento dell’amministrazione. Non mancano tuttavia, anche in questo caso, degli elementi di evocatività del dato scientifico, dove ad esempio si evocano “ricerche internazionali”, senza qualificarle. Inoltre, la presentazione dei dati come fatti non discutibili è riscontrabile talvolta anche negli oppositori al Tavolo. Si ravvisa cioè, in alcune prese di posizioni critiche nei confronti del Tavolo, uno stampo per certi versi affine a quello del Comune stesso. Si intravede infatti un’analoga modalità di utilizzo del dato scientifico come elemento non discutibile. In questo tipo di argomentazione si evidenziano magari dati differenti rispetto a quelli evocati dai promotori del Tavolo, ma non si mette in discussione una sorta di monopolio dell’expertise psichiatrica nel prendere parola. Ciò è emerso soprattutto in convegni pubblici che si sono avuti sul tema, nei quali anche molti tra gli interventi critici si basava-no su un uso generico e aproblematico di dati epidemiologici. Vi è tuttavia una differenza tra questa tendenza nell’amministrazione comunale e nei suoi oppositori. Se infatti in questi ultimi tra il “momento tecnico” e quello normativo si nota soprattutto una separazione, nella quale le due dimensioni non entrano mai in discussione reciproca, negli interventi dell’Assessorato, la discussione sui principi sparisce quasi, occupata dalla sola presentazione di dati tecnici che, da soli, avrebbero dovuto giustificare le scelte politiche. In questi casi, cioè, la dimensione normativa finisce per collassare sulla di-mensione tecnica5. Tale collasso della dimensione normativa sembra essere legato anche alla particolare vicenda della disciplina psichiatrica, in Italia ma non solo. Da parte di una rilevante parte del corpo medico psichiatri-co, infatti, vi è stata storicamente una frequente resistenza a contaminare e mettere in discussione la propria expertise con altre discipline e con visioni più “sociali” della malattia [Foucault 2003; Castel 1979; de Leonardis 1990].

3.2 Dopo il PGT: le osservazioni e il Documento politico di indirizzo per il governo del territorio

Una delle fasi per l’approvazione del Piano di Governo del Territorio, così come stabilito dalla Legge Regionale n°12 dell’11/3/2005, è quella delle os-servazioni: dopo aver depositato i diversi documenti di cui questo è composto (Documento di Piano, Piano dei Servizi e Piano delle Regole) e averli resi

5 A questo proposito, rimane da capire, in ogni caso, se tale collasso sia uno stadio avanzato di una scissione tra il momento politico e quello tecnico, o se questi due esiti rimangano indipendenti gli uni dagli altri.

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pubblici, alcuni attori istituzionali (come Provincia, ASL e ARPA) e tutta la cittadinanza hanno un mese per presentare indicazioni per la modificazione di tali documenti. Il Comune è tenuto a rispondere alle osservazioni con specifiche controdeduzioni e solo dopo questa fase il PGT può essere defi-nitivamente approvato in Consiglio Comunale. Le osservazioni sono quindi una forma istituzionalizzata di confronto tra il Comune, alcune istituzioni e i cittadini, che possono esprimere pareri e suggerire cambiamenti al Piano di Governo del Territorio cittadino.

La storia del PGT di Milano merita un ulteriore approfondimento: la fase di presentazione delle osservazioni da parte della cittadinanza è stata caratterizzata da una forte mobilitazione sia di tipo istituzionale (da parte dei partiti dell’opposizione e in particolare di alcuni consiglieri), sia di tipo associativo, che da parte di singoli cittadini. In particolare associazioni e partiti dell’opposizione hanno messo a disposizione le loro risorse per dare un supporto di tipo tecnico e normativo alla stesura delle osservazioni. Alla conclusione dei trenta giorni di tempo per la loro presentazione, sono state presentate, come accennato anche sopra, 4.765 osservazioni, esaminate nel periodo successivo dalla Giunta, che ne ha approvate il 7,3%. Questa decisione ha dato avvio quindi a un dibattito sulle effettive possibilità di partecipazione dei cittadini alla progettazione della città. Ed è stato anche su questo punto, infatti, che si è giocata la decisione della nuova Giunta Comunale di centro sinistra, insediatasi dopo le elezioni del 29 e 30 mag-gio 2011, di revocare il Piano appena approvato dal Consiglio Comunale e di rivalutare le osservazioni presentate. L’Amministrazione ha dunque elaborato un Documento politico di indirizzo in proposito e ha istituito una Consulta Tecnico-Scientifica (il cui ruolo sarà affrontato meglio nel paragrafo successivo) che si è occupata della rilettura delle osservazioni e delle corrispondenti controdeduzioni. A questo processo si è affiancato un calendario di incontri e scambi con la cittadinanza e le associazioni del territorio da parte dei membri della Consulta e dell’Assessore de Cesaris in merito alle linee di cambiamento del Piano, il cui epilogo è stato l’acco-glimento di circa il 40% delle osservazioni e la conseguente modificazione di alcuni punti del PGT.

Quello che interessa in questa sede è capire se nel dibattito pubblico relativo al Piano e alla sua approvazione l’impianto argomentativo utilizzato dall’Amministrazione Comunale sia stato contestato o ci sia stata al contrario la sua riproduzione. Per farlo saranno presi in considerazione due tipi di documenti: da un lato alcune osservazioni relative al verde pubblico (sono state considerate in particolare quelle che richiamassero le questioni del consumo di suolo e della sostenibilità ambientale); dall’altra il Documento

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politico di indirizzo per il governo del territorio (DPIGT) approvato dalla Giunta Pisapia il 13 ottobre, che avrebbe dovuto dare le linee d’indirizzo, appunto, per la revisione delle osservazioni.

Per quanto riguarda quest’ultimo non sembra che ci sia un effettivo scar-to argomentativo. Nonostante in alcuni punti la sostenibilità venga definita con l’utilizzo di aggettivi («sociale e ambientale»), permangono ambiguità e vaghezza nell’affrontarla. Da un lato viene connessa al processo democratico e di governo della città, ma senza che questo collegamento sia reso esplicito e argomentato:

«Un orizzonte di sostenibilità sociale e ambientale dello sviluppo urbano va, dunque, in parallelo con una democratizzazione della città e dei suoi mecca-nismi di regolazione» [DPIGT, p. 2].

Dall’altro è sì uno degli obiettivi che guidano le scelte di rielaborazio-ne del Piano, e dunque viene assunta come posizione politica della giunta relativamente all’ambiente e quindi alla trattazione del verde pubblico, ma, nonostante questo, rimane un concetto vago e indefinito che richiama un generico valore di protezione dell’ambiente e del territorio cittadino.

In questo quadro, poi, si inserisce l’argomentazione per inevitabilità che la sostenibilità sembra portarsi dietro. La scarsità delle risorse rende neces-sarie alcune scelte, e in primo luogo quella di attuare progetti “sostenibili”:

«La prima questione è quella ambientale ed energetica, che chiama la città, anche attraverso la mobilitazione di nuove risorse tecnologiche, a farsi carico della costruzione di un nuovo e meno dissipativo modello di sviluppo urbano (si pensi al tema fondamentale delle bonifiche come chiave di volta verso la possibilità di riusi selettivi e capaci di risparmiare suolo urbanizzato). Inoltre, essa ci costringe a ripensare il governo della mobilità e della accessibilità della città nelle sue diverse parti» [DPIGT, p. 2].

Nella sua genericità, la sostenibilità continua quindi a essere una que-stione di per sé normativamente densa, che definisce un unico modo di agire come necessario, e dunque orienta in termini di inevitabilità l’argomenta-zione. Richiama il frame del rischio [Douglas e Wildavsky 1982] e dunque l’oggettivazione di una certa situazione definita come “insostenibile” e la parallela affermazione di un’azione che politicamente va presa, pena un pericolo imminente (di qualunque natura esso sia).

La situazione non sembra differire per quanto riguarda le osservazio-ni. Lo strumento in sé ha una struttura che richiede una qualche forma di giustificazione pubblica, ma non necessariamente questa si declina nel richiamo a una norma: spesso il richiamo è a un principio, a un dato, o

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alla scarsa logicità del Piano stesso. È interessante in questo caso analizzare le osservazioni relative al consumo di suolo e alla sostenibilità ambientale, in cui in molti casi viene utilizzata la retorica della perversità [Hirschman 1991]. Le osservazioni mettono infatti in luce come l’azione perseguita dalla Giunta Comunale andrebbe infatti nella direzione opposta, cioè quella di consumo del suolo, l’esatto contrario dell’obiettivo proclamato:

«in alcuni casi si può sostenere che la “macchina operativa” del Piano (elabo-rati grafici e norme prescrittive) produca verosimilmente un esito opposto a quello enunciato, in termini di aumento reale di consumo di suolo” (Osserva-zioni Acli, Arci, Legambiente). E ancora “si chiede di stralciare dagli Ambiti di rinnovamento urbano o dal Tessuto urbano consolidato le aree ad uso agricolo della Cascina Molinetto, destinazione che contrasta con l'obiettivo dichiarato di ‘consumo zero’ del suolo» [Osservazione di M.M.].

È soprattutto nelle osservazioni presentate (o sostenute) da partiti dell’opposizione e da associazioni di varia natura che è presente il richiamo a norme specifiche:

«Negli ATU e ATIPG devono essere raggiunte le percentuali di verde sul totale dell’area […] al fine di raggiungere il limite di legge di 24 mq/ab fissato dal DM 1444/68, la cui validità in Lombardia è stata affermata dal Tar lombardo. […] Si chiede di aumentare i mq previsti nel rapporto ambientale in modo da raggiungere il totale richiesto» [Osservazioni Rete dei Comitati Milanesi].

Ma allo stesso tempo dati e classificazioni esperte sono utilizzati in modo generico e vago, senza esplicitazioni, rimandi o chiarimenti. Questi vengono richiamati senza essere approfonditi e contestualizzati, ma come se la sola menzione avesse la forza di sostenere la controargomentazione e scardinare quella del Piano:

«Il calcolo di questo indice è confuso ed aleatorio, tenuto conto che il riferimento assunto in Regione Lombardia per gli usi del suolo è il repertorio DUSAF, il cui ultimo aggiornamento (gennaio 2010) fissa al 78% la percentuale di suolo ‘urbanizzato’ nel perimetro amministrativo di Milano all’anno 2007. Nessuna delle trasformazioni indicate dal piano è in grado di assicurare la transizione da ‘suolo urbanizzato’ a una qualunque altra classe del ‘non urbanizzato’ secondo la classificazione europea Corine Land Cover (CLC), quindi il dato di una riduzione del consumo di suolo come effetto dell’attuazione del PGT è sem-plicemente impossibile ed aleatorio» [Osservazioni Acli, Arci, Legambiente].

Anche nel caso del verde pubblico nel Piano di Governo del Territorio, così come nel Tavolo salute mentale, si può dunque ravvisare un utilizzo

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più marcato e contestualizzato di argomentazione di tipo normativo, sia di tipo giuridico che valoriale. Molto utilizzata, poi, è l’argomentazione di tipo logico, che mira a evidenziare i passaggi contraddittori all’interno del Piano, in particolare per quanto riguarda le osservazioni relative all’utilizzo di suolo. Tuttavia il registro dell’inevitabilità rimane molto forte e anche l’argomentazione della Giunta Pisapia in merito corre il rischio di collassare su questo riproducendo forme argomentative che depoliticizzano il dibattito. A questo si aggiunge una forte genericità nell’utilizzo del sapere esperto, che viene richiamato anche in questo caso in modo strumentale e aproblematico.

Nonostante dunque si possa ravvisare un cambiamento di registro ar-gomentativo nei documenti che hanno accompagnato il dibattito pubblico in merito al Piano, che potrebbe essere definito più di tipo politico, alcune forme argomentative e usi del sapere esperto sembrano persistere e ripro-dursi, con il rischio di impoverire ulteriormente la discussione politica.

4. Forme di coinvolgimento dei tecnici

Un altro modo per guardare all’uso dei saperi esperti nell’argomentazione delle scelte politiche è quello di analizzare le forme con cui avviene il coin-volgimento dei “tecnici”, ossia di coloro che in virtù della loro competenza scientifica e/o della loro funzione nell’apparato istituzionale, vengono con-siderati capaci di offrire un contributo di conoscenza appunto “tecnica” rispetto alla materia specifica di cui trattano le singole politiche. Si vuole mettere a fuoco, in altre parole, la posizione che assumono i “tecnici” nel processo di produzione delle politiche e come il loro contributo venga uti-lizzato per giustificare la qualità delle politiche stesse (vedi Procacci [infra]).

Si tratta di un tema che recentemente, e in particolare con l’esperienza del Governo Monti, è stato molto presente nel dibattito pubblico italiano nei termini dell’opportunità di lasciare spazio per ruoli di governo ai tecnici, in un periodo di discredito della classe politica, o di dotare i governi politici di una maggior caratura tecnica. Questo affidarsi ai tecnici in tempi di emergenza, esperienza peraltro non nuova nel corso della storia italiana degli ultimi due decenni (si ricordino le esperienze analoghe dei Governi Ciampi e Dini), è leggibile come un’espressione di una più ampia tendenza presente nel contesto pubblico italiano ad attribuire anche nel campo delle politiche una speciale autorevolezza, quasi un'aura sacra, alle figure dei “tecnici”, intesi normalmen-te come esperti accreditati da curriculum accademico o comunque da una legittimazione istituzionale. È proprio ipotizzando una tendenza di questo tipo che abbiamo letto i casi studio presi in esame in questa analisi e le forme di

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coinvolgimento che vi vengono assegnate ai tecnici. Tali forme non appaio-no necessariamente come egemoni nel processo effettivo di produzione delle politiche. Non è questo d’altronde l’oggetto principale del nostro interesse. Ciò che interpella il nostro tema è il fatto che la forma di coinvolgimento di questi tecnici assume un rilievo speciale nell’argomentazione a supporto delle politiche, cioè nella loro giustificazione pubblica.

La principale caratteristica che il coinvolgimento che analizzeremo mette in luce è la loro neutralità, da cui deriva un’apparente oggettività. I tecnici in questione, pur entrando di fatto nel merito di scelte politiche, quindi opi-nabili e dipendenti da presupposti normativi, vengono chiamati in causa per ratificare o per operare scelte nella prospettiva di una loro fondazione scienti-fica, affinché essa sia considerata poi non discutibile e “certa”. L’expertise dei tecnici viene utilizzata alla stregua di uno “strumento di governo” [Le Galès e Lascoumes 2004], ossia come un mezzo che viene presentato dai decisori politici come neutro. Pur in questa apparente neutralità, tali strumenti di fatto preordinano le opzioni possibili su cui il decisore politico può scegliere. La decisione di avvalersi del supporto di tecnici delimita le opzioni in campo ma lasciando apparentemente ancora aperte le diverse opzioni. Vi è così una scarsa visibilità della scelta, essa sì politica, che viene fatta adottando un certo strumento. Questo affidarsi dei politici ad alcuni strumenti tecnici per gestire le proprie politiche pubbliche assume dunque i caratteri di un’opacizzazione [Lorrain 2004; Brunsson e Jakobsson 2002] e può avvenire con forme diverse di coinvolgimento, a seconda dello strumento specifico di politiche che si vuo-le mettere in campo. Nel presente paragrafo prenderemo in considerazione tre forme di coinvolgimento: quella del tavolo tecnico, usata soprattutto nel caso delle politiche di salute mentale e quelle della consulenza esterna e della Consulta Tecnico-Scientifica, usate nel caso della produzione del PGT.

4.1 Dalla separazione alla strumentalità nelle politiche per la salute mentale

La prima forma di coinvolgimento da discutere è dunque quella del tavolo. Con esso designiamo quelle modalità di costruzione delle politiche che pre-vedono, da parte di un organo esecutivo (e nel caso delle amministrazioni locali da parte di un assessorato), la convocazione di una serie di incontri rivolti a una platea di attori coinvolti in un settore specifico di politiche pubbliche, normalmente divisi in tre tipi: i funzionari dell’amministrazione nel settore in esame che portano le esigenze amministrative, i rappresentanti delle organizzazioni del territorio coinvolte nelle politiche stesso (detti anche

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stakeholder) che portano gli interessi e le istanze della “società civile” e infine gli esperti del settore, che portano la competenza necessaria per analizzare problemi e soluzioni possibili.

Una caratteristica insita in questi tipi di luoghi di discussione è l’appa-rente simmetria e apertura dello spazio assegnato ai partecipanti. Essendo la loro funzione quella di facilitare un ampio e libero confronto di idee e di contributi di analisi e di proposta da parte dei partecipanti, i tavoli si presentano come luoghi dove non ci sono, almeno sul piano della dispo-sizione dei posti, degli attori subordinati agli altri. Essi si differenziano da altre forme di ascolto, come l’audizione o la consulenza, proprio perché tutti coloro che sono invitati hanno la possibilità di parola e di discussione di quanto dicono gli altri. Anche il convocatore del tavolo, cioè l’assessore o un suo luogotenente, si pone, almeno sulla carta, più come un modera-tore che come un dominus della discussione. Questa mancanza di precisi dislivelli gerarchici dovrebbe favorire la libertà della discussione e il fluire delle idee. Il messaggio che viene veicolato dalla proposta di un tavolo è: “la discussione è aperta”. Il ruolo dei tecnici, in questa ottica, è quello di fornire un contributo di conoscenza da proporre ai partecipanti per istruire una discussione o per poter fornire un feedback alle proposte che vengono sollevate dagli altri attori in termini di fattibilità e di impatto possibile. Essi cioè sono chiamati in quanto in grado di dare un parere tecnico, dunque autonomo e indipendente rispetto a quanto gli attori politici e amministrativi si attendono.

Già ragionando però sulla forma della convocazione a un tavolo, emer-ge una sua natura ambigua. È infatti l’assessore, nella sua discrezionalità a decidere chi invitare e chi no. Egli inoltre, svolgendo il ruolo di moderatore, ha anche il potere di decidere l’agenda della discussione e il diritto di chi prende la parola. Il tavolo quindi è una forma di coinvolgimento che ha alcuni caratteri di apertura e simmetria, ma in una forma comunque vinco-lata alla discrezionalità del potere politico. In quanto tale, essa consente una minore libertà di discussione rispetto ad arene più aperte, come il dibattito pubblico in forma di convegno o di forum.

Passando dall’analisi della forma tavolo in astratto a quella del Tavolo del caso specifico che abbiamo preso in esame, quello del Comune di Milano per la prevenzione e la salute mentale, ci troviamo di fronte ad una confi-gurazione del rapporto tra gli attori che, pur mantenendo formalmente le caratteristiche di apertura e simmetria tipica dei tavoli, di fatto ne stravolge i principi. Vediamo come ciò avviene.

In primo luogo, il Tavolo non ha avuto una funzione di discussione libe-ra e aperta in quanto la sua stessa istituzione si è basata su alcune premesse

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che di fatto indirizzavano la discussione verso un orientamento molto preciso di tipo contenitivo cioè teso a prevenire il problema dei possibili compor-tamenti pericolosi delle persone con disturbi psichici. Il Tavolo ha quindi assunto, fin da subito, una funzione di ratifica delle impostazioni già presen-tate dall’amministrazione e di organizzazione dei corsi di formazione alle forze dell’ordine e degli operatori del 118 conseguenti a quell’impostazione.

In secondo luogo l’apertura del Tavolo stesso non è stata realmente assicurata. Alcuni degli attori principali infatti, come i rappresentanti del-le organizzazioni dei famigliari dei pazienti, non hanno accettato l’invito perché non ne hanno condiviso i presupposti. Essi hanno quindi declinato l’invito dell’Assessore Landi a essere presenti, fino a che non fossero mutati i termini della premessa. A partecipare sono stati quindi, oltre i dirigenti dell’Assessorato, i primari dei Dipartimenti di Salute Mentale di Milano e i dirigenti delle forze dell’ordine (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Polizia Locale).

Per quanto riguarda la presenza degli esperti essa è stata limitata ai primari dei Dipartimenti di Salute Mentale presenti sulla città di Milano. Si tratta di figure che hanno un’indipendenza solo limitata dall’Assessorato che ha convocato il Tavolo (dipendendo invece dalle Aziende Ospedaliere, controllate dalla Regione Lombardia). Pur non dipendendo funzionalmente dal Comune infatti, i Dipartimenti di Salute Mentale hanno sempre gestito progetti sociali con fondi di provenienza comunale, dedicati proprio all’a-spetto sociale della psichiatria. Essi quindi si sono trovati in una situazione di non piena libertà nel rifiutare un invito del Comune a partecipare ai lavori del Tavolo. Nonostante ciò, in una prima fase del Tavolo, quando il suo titolo richiamava esplicitamente la matrice securitaria e contenitiva (Tavolo per la prevenzione della pericolosità sociale), anche alcuni primari avevano declinato l’invito a parteciparvi, dato il loro disaccordo coi suoi presupposti.

Anche la simmetria tra i partecipanti dunque, in virtù del presupposto fondativo del Tavolo e della scarsa indipendenza dei tecnici, è stata molto ridotta. L’Assessore infatti, oltre al ruolo di moderatore, ha esercitato un ruolo egemone sulla discussione, ritagliando la discussione in relazione a degli scopi prestabiliti anche nei dettagli e dunque negando al Tavolo il ca-rattere di luogo di discussione aperta. Di fatto quindi il Tavolo in questione si rivela come un luogo dove gli esperti non esercitano un ruolo di discussione tecnica, quanto di ratifica tecnica di decisioni politiche.

Ciò che emerge dall’esperienza del Tavolo è dunque una forma di coin-volgimento presentata come aperta ma di fatto molto vincolata a presupposti politico-ideologici dettatati dall’amministrazione. D’altronde i tecnici che in questo caso sono stati coinvolti, cioè i primari, hanno avuto una funzione di

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accreditamento del Tavolo come un luogo qualificato, in grado di apportare un contributo di competenze alla discussione sul tema della prevenzione per le persone con disturbi di salute mentale. Ciò ha permesso di giustificare le scelte che il Tavolo ha assunto, cioè di fatto l’istituzioni di un corso di formazione per gli operatori delle forze dell’ordine e del 118 rispetto al tema della prevenzione dei comportamenti aggressivi delle persone con disturbi psichici.

Questo coinvolgimento dei tecnici configura un quadro dei rapporti tra tecnici e politici che potremmo definire di tipo mutuamente strumentale: l’Assessorato anziché confrontarsi con l’expertise dei primari, la utilizza per legittimare le proprie impostazioni ideologico-politiche. I primari d’altronde, pur assistendo a un uso strumentale del loro sapere, vengono in questo modo valorizzati pubblicamente (e spesso anche retribuiti per il loro contributo di tecnici), in quanto vengono assurti a dispensatori di conoscenze scientifiche che da sole giustificano le politiche. Possiamo però notare, a questo proposito, come anche all’interno del mondo dei tecnici in questione, cioè gli psichiatri responsabili di unità organizzative dei Dipartimenti di Salute mentale, vi siano atteggiamenti e concezioni diverse del rapporto con la politica. Mentre infatti alcuni propugnano un’idea di scienza medica che propone letture più biologiste e deterministiche della malattia, tali da giustificare un approccio nel quale i soggetti non vengono tanto visti in relazione al loro contesto so-ciale quanto alla loro natura interna, altri affermano una visione nella quale l’attenzione è posta più sulla relazione tra soggetti e contesto relazionale e sociale nel quale sono inseriti. È nei confronti dei primi che la politica appare più disposta ad assegnare, almeno nel momento argomentativo, una delega nella lettura dei problemi e nell’adozione di soluzioni di policy.

L’indagine svolta ha messo in luce come questo tipo di rapporto di strumentalità tra tecnici e politici abbia però avuto un'evoluzione nel tempo. Se infatti andiamo a vedere quale sia stato il rapporto tra questi nel corso degli anni a Milano nel campo delle politiche sulla salute mentale, emerge come esso possa essere suddiviso in due fasi.

Verso le metà degli anni ’90, con l’avvento della Seconda Repubblica (a Milano, in particolare con la Giunta leghista di Formentini e poi con l’alleanza Forza Italia-An della Giunta Albertini), la presenza dei politici nel processo di discussione delle politiche in questo settore era molto defilata e ai tecnici (cioè scienziati e operatori) scelti veniva di fatto delegata la pro-gettazione dei servizi e degli interventi. Gli assessori che si sono alternati in questi anni non sembrano aver indirizzato le politiche e i piani ma li hanno lasciati costruire ai tecnici (esterni o interni all’Assessorato), e semmai li hanno solo utilizzati nella misura in cui potevano offrire loro uno spazio di

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visibilità e di consenso. Ciò da una parte ha dato grande libertà ai tecnici di sperimentare e intraprendere propri programmi d’azione (di matrice più o meno medicalizzante o più o meno deistituzionalizzante), dall’altra ha indebolito la percezione, tanto tra i tecnici quanto tra i politici, della valenza intrinsecamente normativa delle diverse opzioni tecniche in campo e quindi della necessità di affiancare a una valutazione di appropriatezza scientifica, una valutazione di opportunità normativa (nel senso ampio e politico del termine).

Nella seconda fase, iniziata verso la metà degli anni 2000 e inaugurata dal nuovo corso della Giunta Moratti, la mancanza di un reale rapporto di indirizzo e filtro da parte dei politici sui tecnici sembra essersi evoluta nel senso di un uso più strumentale della scienza da parte del decisore politico, nell’elaborazione dei piani e delle politiche sulla salute mentale. Con la Giunta Moratti abbiamo assistito cioè alla quasi totale cancellazione dei programmi e delle pratiche elaborate negli anni precedenti, per lasciare il posto a un utilizzo selettivo di alcuni esperti (cioè noti psichiatri o avvocati) che fossero funzionali a una linea politica scelta a priori dall’Assessorato.

Si è trattato, in un certo senso, di un nuovo protagonismo della politica rispetto alla platea di operatori, ma non come rivendicazione di un ruolo maggiore degli argomenti normativi nelle discussioni tecniche, bensì di un utilizzo della scienza e del dato statistico epidemiologico come giustificazione self-evident di una politica. Una politica che dunque nasconde i propri pre-supposti normativi dietro a una patina, indiscutibile seppur solo evocativa, di scienza. Le scelte vengono quindi fatte in nome di una maggiore efficien-za tecnica o, come è stato detto da alcuni attori, di un “efficientamento” delle risorse. In altre parole, la visione normativa e l’ideologia della nuova leva di dirigenti politici si sono affermate proprio sulla base di un presunto approccio de-ideologizzato alla costruzione di politiche. Per fare ciò, ci si è appoggiati sugli approcci del sapere psichiatrico che maggiormente de-problematizzano il rapporto con i pazienti, sovrastimandone o assolutiz-zandone le componenti biologiche e genetiche e gli aspetti di controllo e custodia degli interventi. Proprio questi approcci, ad esempio, sono stati alla base del corso rivolto alle forze dell’ordine da parte di psichiatri e avvocati scelti dall’Amministrazione comunale, all’interno delle attività del Tavolo.

Il rapporto di mutua strumentalità tra tecnici e politici a cui abbiamo assistito in occasione della vicenda del Tavolo si inserisce in un trend di più lungo periodo nel quale la dialettica tra politici, portatori di una componente normativa alle decisioni, e tecnici, portatori di una componente cognitiva alle decisioni, si è sempre più allentata: in una prima fase lasciando a questi ultimi una grande autonomia progettuale, in una seconda fase dando a essi

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un ruolo di giustificatori tecnici di scelte obbligate dalla realtà emergente dai dati: in questo caso i dati epidemiologici presentati nel paragrafo 3.

4.2 Consulenza e Consulta Tecnico-Scientifica: dalla chiusura all’apertura del sapere esperto

Il Piano di Governo del Territorio ha avuto una storia particolare per quan-to riguarda le forme di coinvolgimento dei tecnici a supporto per la sua stesura. Due sono quelle riconoscibili: quella della consulenza, usata dalla Giunta di centro destra guidata dal sindaco Moratti e dal suo Assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli; e quella della Consulta Tecnico-Scientifica (CTS), utilizzata invece dalla Giunta di centro sinistra guidata dal sindaco Pisapia e dall’Assessora all’Urbanistica Ada Lucia de Cesaris. Si tratta di due situazioni diverse che insistono sul medesimo Piano di Governo del Territorio: in una prima fase l’Amministrazione Comunale si è avvalsa di una consulenza effettuata da uno studio privato di architetti e urbanisti, Metrogramma; per il riesame delle osservazioni, dopo il cambio di Giunta, l’Assessorato all’Urbanistica si è invece avvalso del supporto del Centro Studi PIM (centro per la Programmazione Intercomunale dell’area Metropolitana di Milano), un’«associazione volontaria di Enti locali, nata nel 1961, che svolge attività di supporto operativo e tecnico-scientifico nei confronti sia dei soci che di altri enti e società pubbliche, attraverso la realizzazione di studi, piani e progetti in materia di programmazione territoriale, infrastrutturale, ambientale e in tema di sviluppo socio-economico locale»6. Sono soci del centro studi PIM le Province di Milano e di Monza e Brianza, e più di 60 comuni dell’area, tra cui il Comune di Milano.

Diversi, come emerge anche dalle differenti fasi di coinvolgimento, sono stati i ruoli: Metrogramma è stato incaricato dal Comune di Milano della stesura del Piano di Governo del Territorio, diventando successivamente re-sponsabile della direzione scientifica del Piano, mentre il centro studi PIM ha sottoscritto con il Comune un Programma di collaborazione7 mirato a definire un supporto alla verifica delle osservazioni presentate dai cittadini e alla predisposizione di controdeduzioni tramite la predisposizione di una Consulta Tecnico-Scientifica. C’è dunque una differenza di fondo tra le due forme di coinvolgimento, che non riguarda soltanto la forma vera e propria che questa ha assunto, ma anche il materiale e la fase in cui hanno lavorato.

6 Dal sito del Centro Studi http://www.pim.mi.it/ (ultima consultazione 02.01.2013).7 Stipulato in data 7 settembre 2011.

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La forma attraverso cui si è strutturata la relazione tra il Comune di Milano e lo studio Metrogramma è stata dunque quella della consulenza, cioè una relazione duale, tra il committente e il suo affidatario, e nello spe-cifico in questo caso tra un soggetto pubblico per definizione, il Comune di Milano, e un soggetto privato, uno studio di architetti e urbanisti. Si tratta di una forma di relazione che dà origine a un legame di tipo mercantile, basato su una compravendita (in questo caso di un sapere esperto): il Co-mune compra conoscenza, che viene venduta da uno studio di architetti e urbanisti, Metrogramma.

I rischi in questo genere di relazione possono essere due, quello della scarsa indipendenza del consulente rispetto al committente, dal momento che stipula con lui un contratto di compravendita di un servizio che genera una forma di autoreferenzialità rispetto a quanto viene scambiato dalle parti, e quello della deresponsabilizzazione del committente. Nel caso del PGT troviamo entrambe queste declinazioni. In primo luogo, infatti, lo studio Metrogramma nella costruzione del Piano di Governo del Territorio ha portato avanti un’idea di città di tipo neoliberale (a crescita continua, incentrata su relazioni di mercato di tipo immobiliare e sull’attrazione di interessi privati sull’area) confermando quasi pedissequamente l’impo-stazione rispetto allo sviluppo della città propria della giunta Moratti e delle Amministrazioni precedenti [Arcidiacono e Pogliani 2011b]. Invece di porsi in un’ottica di confronto con il sapere esperto, la Giunta e l’Asses-sorato di competenza hanno dunque utilizzato le conoscenze scaturite dal coinvolgimento dei tecnici per giustificare e rendere legittime impostazioni prettamente politiche.

In secondo luogo, il Comune ha a sua volta utilizzato i lavori e le analisi dello studio Metrogramma come evidenza di una trasformazione urbana in atto inevitabile, consegnando in modo fittizio la capacità di decidere il futuro della città al sapere esperto. Sul piano dell’argomentazione, infatti, non viene riconosciuta la primogenitura del Comune per l’idea di città che sta alla base del Piano: come osservano de Leonardis e Giorgi [infra] e Palermo [2011], il soggetto del Piano è il Piano stesso, non c’è un soggetto pubblico agente che si prende carico di portare avanti un’idea precisa e forte di città. Ne deriva quindi un circolo vizioso sotterraneo: il Comune si deresponsabilizza portando come evidenza le linee di sviluppo indicate dallo studio Metrogramma, il quale a sua volta si assume il ruolo di ammantare di expertise l’idea del Comune riguardo a Milano e al suo futuro di sviluppo.

Con il cambiamento della Giunta Comunale, come accennato sopra, il PGT è poi stato revocato e si è proceduto a una riesamina delle osserva-zioni fatte dai cittadini. Col fine di supportare quindi la nuova giunta nella

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revisione del PGT, il Centro Studi PIM ha costituito una Consulta Tecnico-Scientifica composta da urbanisti, economisti e geografi, la maggior parte dei quali provenienti dal mondo accademico.

La necessità di dare un forte segnale politico di discontinuità rispetto all’operato della giunta precedente, soprattutto per quanto riguardava il confronto con e l’ascolto dei cittadini, ha fatto sì che il ruolo della Consulta sia stato concepito e argomentato nel dibattito sul PGT in questo senso. Il sapere esperto ha quindi avuto il ruolo di messa in forma e traduzione delle osservazioni fatte dai cittadini in modo da poter rivalutare il “contributo collaborativo” apportato dalla cittadinanza alla “formazione degli atti del PGT” attraverso la presentazione delle osservazioni [DPIGT]. La CTS è stata quindi concepita con una funzione di raccordo tra i cittadini, la poli-tica e i tecnici: avendo come compito quello di esaminare le osservazioni, organizzarle e predisporre le corrispettive controdeduzioni in modo da mo-dificare il PGT sulla base di queste, è stata investita pubblicamente del ruolo di mediazione e traduzione delle istanze portate avanti dalla cittadinanza.

Sia la consulenza che la consulta rischiano però di agire attraverso un processo di blackboxing [Latour 1987], in cui il prodotto del coinvolgimento (il sapere esperto) diventa una scatola nera ben definita, fredda e stabile a cui ci si può appellare ma che non si può discutere. Nel caso della consulenza effettuata dallo studio Metrogramma questo è avvenuto: si è trattato di un sapere indiscutibile, e in questo senso spogliato del suo carattere politico e sociale. Lo stesso non si può dire dell’operato della Consulta Tecnico-Scientifica: la revisione delle osservazioni è stata accompagnata da incontri di confronto con cittadini e associazioni che hanno innescato processi di scambio e un dibattito tra tecnici, cittadini e politici.

A differenza di quanto accaduto per il Tavolo salute mentale e per la consulenza dello Studio Metrogramma in cui si registra un rapporto tra tecnici e politici costruito in modo mutuamente strumentale, nel caso della CTS l’utilizzo strumentale del sapere esperto da parte dell’Amministrazione Comunale è stato ridotto dall’apertura del processo di dibattimento delle osservazioni ai cittadini.

Sembra dunque che le diverse forme di coinvolgimento politico dei tecnici non definiscano univocamente il modo in cui il sapere esperto e il ruolo stesso dei tecnici vengono concepiti. In entrambi i casi, infatti, il com-pito dei tecnici sembra sia quello di far apparire come dovute delle scelte che invece sono politiche e dunque discrezionali, e in questo senso il sapere esperto ratifica decisioni politiche senza metterle in discussione o aprire scenari differenti. Non necessariamente tuttavia la forma del coinvolgimento comporta un esito tecnocratico e apolitico delle scelte che da quella forma

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di coinvolgimento discendono. Vi sono infatti forme di coinvolgimento po-tenzialmente aperte al confronto tra punti di vista tecnici e politici diversi, come ad esempio quella del Tavolo. Anch’esse però sembrano essere state utilizzate come strumento di conferma di una diagnosi e di una scelta di policy predefinite.

Il rapporto tra politici e tecnici che si configura nei casi analizzati ap-pare dunque improntato a una mutua strumentalità: i primi demandano al sapere esperto la capacità di decidere, di fare delle scelte eminentemente politiche; i secondi acquisiscono un ruolo sempre più rilevante nel policy making, quantomeno da un punto di vista pubblico, come abbiamo visto succedere anche a livello nazionale.

Questo tipo di argomentazione e di utilizzo strumentale di scienza e tecnica poggia su una tendenza generale a concepire queste ultime come qualcosa di capace di determinare, sic et simpliciter, delle scelte politiche. Si giunge così a ridurre al minimo, o a un ruolo solo retorico, la dimensione normativa e politica delle scelte di policy.

5. Considerazioni conclusive sulla qualità dell’argomentazione pubblica

Il ruolo del sapere esperto nell’argomentazione delle scelte politiche assume dunque diverse forme e si gioca a diversi livelli: non solo quello vero e pro-prio dell’argomentazione, ma anche nelle modalità di coinvolgimento dei tecnici (e in come questo coinvolgimento viene giustificato) e lascia tracce nel dibattito pubblico che su queste scelte viene fatto.

Come osservato, le forme dell’inevitabilità e della persuasività sono quel-le maggiormente utilizzate dal punto di vista argomentativo: anche se con declinazioni differenti nei due casi, quelle che sono a tutti gli effetti scelte politiche vengono presentate come dati di fatto, e il sapere esperto viene utilizzato a supporto della descrizione della situazione, ammantando di ine-vitabilità l’orientamento (eminentemente politico) all’azione. La persuasività poi è costruita non solo attraverso il ricorso a dati scientifici scarsamente referenziati e generalmente non discutibili, ma anche con l’utilizzo di slogan e parole chiave generiche. Questo tipo di stereotipizzazione del linguaggio opacizza ulteriormente il processo politico e le scelte effettuate, che rimango-no indefinite dietro all’utilizzo evocativo di grandi valori riconosciuti collet-tivamente come condivisibili (come la questione della sostenibilità) o di dati scientifici che fungono da argomento d’autorità (come nel caso del Tavolo per la Salute Mentale). Il ridurre a dati, da un lato, o a slogan, dall’altro,

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lavora nella medesima direzione, in altre parole quella della semplificazione del messaggio politico, che viene svuotato e depoliticizzato.

Il ruolo dei tecnici risulta infatti schiacciato su una relazione mutua-mente strumentale: essi avvallano ricostruzioni generiche e approssimative facendo apparire come obbligate delle scelte che invece sono discrezionali. Il rapporto che si instaura tra politici e tecnici (siano essi medici, urbanisti o architetti) sembra essere scarsamente dialettico: se anche ci sono scuole, impostazioni e forme della collaborazione che più di altre sembrano a priori prestarsi a questo utilizzo, nella pratica questa relazione si muove sempre più nella direzione di un appiattimento della voce dei tecnici, che viene usata col solo scopo di ratificare decisioni già prese [Ceretti e Cornelli 2013].

Le forme argomentative non sembrano poi differire molto nel dibattito che è seguito alla presentazione del Tavolo per la Salute Mentale e del Piano di Governo del Territorio: una certa approssimazione ed evocatività nell’u-tilizzo del sapere esperto, l’ineluttabilità delle trasformazioni, la genericità e semplificazione del linguaggio politico emergono anche dai documenti che hanno animato la discussione politica successiva. Il collasso della dimensio-ne normativa su quella cognitiva sembra quindi riprodursi e persistere nel discorso politico, e le forme argomentative rimangono, seppur con alcune differenze, le medesime.

Si tratta di modalità facilmente riscontrabili anche in altri campi e ad altri livelli di governo: come viene utilizzato il concetto di sostenibilità nel Piano di Governo del Territorio di Milano, si pensi all’utilizzo della “sus-sidiarietà” da parte della Regione Lombardia, che da quasi un ventennio è diventata la soluzione a qualunque problema si presenti in materia di politiche sociali. E allo stesso modo, nonostante l’attuale Amministrazione Pisapia mostri segnali di cambiamento rispetto alla Giunta precedente, l’uti-lizzo di parole chiave e modalità persuasive e generiche (in senso soprattutto attrattivo) è una tendenza con cui fare i conti. Questo tipo di argomenta-zione, attraverso un meccanismo di path dependency, tende infatti a persistere e si riproduce nonostante la specifica volontà politica di mutare l’approccio precedente. Questo si può riscontrare nel processo che ha portato alla defi-nizione dell’ultimo Piano di Zona di Milano, in cui è prevalso l’uso di parole chiave (come apertura alla città, rete e territorialità) anziché sistematiche analisi e confronti con gli operatori sul processo di produzione dei servizi.

L’affidarsi ai tecnici dunque non fa parte di un percorso di confronto con diversi saperi per costruire una politica e delle politiche solide e partecipate: la dimensione dialettica sembra essere scomparsa, per lasciare spazio a un utilizzo mutuamente strumentale di questo percorso. Il collasso tra dimensio-ne cognitiva e dimensione normativa rende le scelte politiche opache e in un

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certo senso le privatizza perché toglie loro il carattere della discutibilità: nel momento in cui ci si sposta dal piano della norma a quello della descrizio-ne, il bisogno di giustificare pubblicamente le posizioni assunte viene meno e l’argomentazione diventa povera e sbrigativa, limitando ulteriormente la possibilità di dibattere pubblicamente e mettere alla prova le scelte effettuate.

In questo processo i tecnici si prestano a, e il sapere esperto viene utilizzato per, supportare lo slittamento argomentativo verso la semplifica-zione: invece di instaurare e supportare forme di confronto e dibattito e da queste far discendere una posizione, l’argomentazione politica attraverso il ricorso al sapere esperto si impoverisce, perdendo ulteriormente i caratteri di discutibilità. In una parola, si depoliticizza. Questo genere di processi può essere inscritto nel più generale impoverimento del discorso politico e del livello della comunicazione politica in generale [Crouch 2004]. In una situazione di sfiducia da parte della cittadinanza verso questo genere di istituzioni e verso le persone che guidano il governo della città, la politica si appoggia a slogan per cercare di essere persuasiva, e a tecnici e dati per cercare di essere credibile.

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Simile al vero. Registri argomentativi della città neoliberale

di Paola Molinatto

Like all of Napoleon’s speeches, it was short and to the point. [Orwell 1945]

La realtà «stessa» non parla da sé, ha bisogno di portavoce – cioè appunto di interpreti motivati, che decidono come rappresentare una mappa su un territorio a cui hanno avu-to accesso attraverso mappe più antiche. [Vattimo 2012]

Introduzione

Non è difficile osservare, nella discussione che oggi impegna le scienze sociali, e più in generale le Humanities, un interesse inedito per la realtà. Proveniente da più parti, da molteplici punti di osservazione, messa in campo con stru-menti analitici e concettuali di tipo diverso, la sollecitazione a interrogarsi su ciò che è reale (o possiamo presumere tale), sulla sua consistenza e i suoi formati, è reiterata e generalizzata. Naturalmente non sfugge, a una prima ricognizione, come una parte significativa di tale dibattito sia condotto all’in-segna, per un verso, della constatazione di un collasso cognitivo che investe quelli che sono, o dovrebbero essere, i “fatti” (siano essi di natura individuale, sociale, storica o scientifica), per un altro, di un simmetrico auspicio per un ritorno alla realtà, pensato alla stregua di un back to home, a un solido ancoraggio; costi quello che costi – si potrebbe aggiungere1.

1 Non è possibile dar conto in questa sede dell’ipotesi di una svolta realista; mi limiterò pertanto a richiamare un ventaglio di riflessioni, che costituisce un background condiviso tra gli autori di questa Sezione. Tra i lavori più di frequente emersi nella discussione, si vedano quelli di Vattimo [2009, 2012], Ferraris [2012], Boltanski [2012, 2009, 2008], Wolin [2008], Putnam [2004], Žižek [2002], Boltanski e Chiapello [1999], Baudrillard [1981]. L’ipotesi di Ferraris, secondo cui stiamo assistendo a un riposizionamento del pendolo del pensiero, «che nel Novecento inclinava verso l’antirealismo nelle sue varie versioni (ermeneutica, postmoder-nismo, “svolta linguistica”, ecc.), [e che] con il tornante del secolo si [sarebbe] spostato verso

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Non ho qui motivi sufficienti per mappare e analizzare le diverse sfaccet-tature di questo desiderio di realtà, che d’altra parte esigerebbe un lavoro di ricerca dedicato; ciò che invece mi interessa è intercettarne alcuni aspetti, e so-prattutto mostrarne la rilevanza ai fini della nostra indagine, riguardante forme e metamorfosi dell’argomentazione pubblica, in materia di politiche e di governo della città. Prenderò dunque a prestito una singola tesi (critica) all’interno del dibattito realista in corso, che ha tra l’altro il pregio di evidenziarne la valenza politica (oltre che ontologica ed epistemologica, come si conviene), e che consi-ste nell’invitare a pensare nella direzione «di una consumazione dell’oggettività in quanto effetto di dominio» [Vattimo 2012, p. 10], di cui mi propongo di esplorare possibili convergenze con le risultanze analitiche della nostra ricerca.

1. Argomentazione pubblica e consumo di oggettività

Scegliere una chiave interpretativa di questo genere, per inquadrare il tema della qualità del discorso politico e del discorso sulle politiche, non è però sen-za conseguenze. Per cominciare, contribuisce a indebolire un’ipotesi virtuosa, spesso diffusa in ambienti progressisti; e cioè che la crisi delle democrazie oc-cidentali (caratterizzata da fragilizzazione della rappresentanza, mancanza di vision, degrado del ceto politico, oligopolismo dei media) richieda e possa essere contrastata con urgenti e auspicabili iniezioni di sobrietà, razionalità e giu-stificazione nella discussione pubblica. Non certo perché di perorazioni in tal senso, che trovano riscontro in un numero crescente di studi volti a evidenziare errori, anomalie e distorsioni argomentative [D’Agostini 2010; Cantù e Testa 2006, Cantù 2011], ma soprattutto di “buona” comunicazione, non vi sia o non si avverta a sufficienza il bisogno; quanto in ragione di un ideale norma-tivo (habermasiano) di democrazia2, intesa come comunicazione sociale non opaca e non ostacolata, per l’appunto trasparente, a cui tale prospettiva rimanda. L’ipotesi che a colmare, o almeno attenuare, il deficit di qualità argomentativa che affligge il dibattito politico nelle società del nuovo capitalismo – e che in-veste il nostro Paese in modo particolare – possa contribuire un monitoraggio “esperto” della sfera pubblica e delle pratiche discorsive che le danno corpo (magari da parte di filosofi, sociologi o altri professionisti), come si comprende, difficilmente può servire la causa di una società aperta3, tesa a incrementare il

il realismo (anche qui, nei suoi tanti aspetti: ontologia, scienze cognitive, estetica come teoria della percezione, ecc.)», almeno in termini descrittivi, sembra convincente [2012, p. IX].

2 Per una critica delle nozioni di sfera pubblica e democrazia in Habermas cfr. Vattimo [2003, 2012].

3 Il riferimento è a La società aperta e i suoi nemici di Popper, del 1945. Vattimo [2012, pp.

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proprio grado di riflessività, a riconoscere la natura propriamente politica delle decisioni pubbliche, o a rendere effettivo l’accesso e la partecipazione ai processi decisionali di cerchie sempre più ampie di popolazione. Detto altri-menti, troppa insistenza sul rapporto verità/politica, laddove il primo termine sia sinonimo di corretta concatenazione logico-deduttiva, e/o di aderenza e corrispondenza ai fatti (nel senso di adaequatio), non è scontato che conduca alla riscoperta e alla riaffermazione di “buona” politica, ossia di un confronto, anche aspro, sulle risorse collettive che possono favorire e nutrire la capacità di aspirare di ciascuno [Appadurai 2011].

Ciò non significa ritenere che bugie, inganni e dissimulazioni che in Italia, come altrove, hanno inquinato la discussione pubblica e la memoria collettiva, favorendo affari, illegalità diffusa, corruzione, stragismi, siano da considerarsi fisiologici o in qualche misura compatibili con lo svolgersi della vita democratica. E neppure che, in questo quadro, si possa rinunciare alla discussione e alla giustificazione dei temi e delle istanze concorrenti nella sfera pubblica. Il punto è forse un altro; e riguarda principalmente il modo con cui interroghiamo il rapporto verità/politica nel suo complesso – di cui Hannah Arendt, raccontando il processo Eichmann, e poi studiando i retroscena della guerra americana in Vietnam, fu tra i primi a cogliere l’importanza [1963, 1971] – benché, con qualche evidenza, esso risulti dif-ficilmente comprimibile nei binari dell’adaequatio.

Non è un caso che esperienze paradigmatiche in questo campo, come quella della Truth and Reconciliation Commission del Sud Africa post-apartheid, ab-biano mostrato come la volontà di accertare crimini politici, violenze di Stato e gravi violazioni di diritti – dunque verità e responsabilità oggettive –, richiedesse altrettanta determinazione nel rendere giustizia agli attori di un immenso conflitto sociale; e, anche per questo, abbia potuto concretizzarsi in pratiche di pacificazione collettiva, ancorate a un difficile lavoro di ricomposizione della memoria nazionale e sostanziate da misure di riparazione e/o compensazione per le atrocità commesse [Minow 1998]. Per quanto, in tali situazioni, cono-

177 e ss. e 2009, pp. 18 e ss.] ne aggiorna la lettura, esplorando possibili implicazioni della critica popperiana al platonismo politico, che successivamente mette a frutto nell’articolare la proposta di una “politica senza verità”: «La conclusione a cui voglio giungere è che la verità come assoluta, corrispondenza oggettiva, intesa come ultima istanza e valore di base, è un pericolo più che un valore. Conduce alla repubblica dei filosofi, degli esperti, e al limite allo Stato etico, che pretende di poter decidere quale sia il bene vero dei cittadini anche contro la loro opinione e le loro preferenze. Là dove la politica cerca la verità non ci può essere democrazia. […] Naturalmente, una politica senza “verità” non è solo e necessariamente una politica democratica, può essere anche una politica dispotica che, invece di andare oltre la metafisica, arretra semplicemente al di qua della stessa scoperta e rivendicazione, certo anch’essa metafisicamente ispirata, dei diritti naturali dell’uomo» [2009, pp. 25 e 51-52].

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scere la verità su quanto accaduto costituisca una condizione indispensabile per qualsivoglia tentativo di ricomposizione sociale, sono piuttosto «motivi di giustizia» a essere fatti valere e a risultare più stringenti. Minow, d’altra parte, ha ricordato come la Interim Constitution del 1994 richiamasse il concetto tra-dizionale di ubuntu, «che significa umanità, o un senso di comunità inclusiva che valorizza tutti» [p. 52], ma anche la pluralità dei registri linguistici (etnici, religiosi, comunitaristici, terapeutici, giuridici) accreditati dalla stessa Com-missione, nonostante le critiche di attori e osservatori della realtà sudafricana. La mixité degli argomenti e delle ragioni mobilitate, che spesso qualifica tali esperienze (pur senza scioglierne le contraddizioni), ne è un elemento chiave proprio per la connotazione intrinsecamente politica, riscontrabile anche in contesti nazionali meno profondamente lacerati. Più in generale, si potrebbe dire che, perché vi sia «dialogo sociale», come osserva Vattimo, «bisogna poter offrire argomenti», sottolineando tuttavia come questi siano

«per lo più argomenti “ad homines”, richiami alle nostre convinzioni comuni, che il discorso quotidiano e il dominio mediatico dell’ideologia dominante troppo spesso dimenticano e nascondono; si tratta di riferimenti alla storia e all’esperienza che condividiamo con i nostri simili (il gruppo, la società, la stessa umanità che ci appare in questo momento storico), piuttosto che di evidenze matematiche, principi apodittici; insomma del “senso comune” nel significato più alto del termine» [2009, p. 28].

Riposizionare in questa prospettiva il rapporto tra politica, politiche e forme di veridizione significa ritenere che, se non la “bontà” delle politi-che, almeno quella delle loro giustificazioni abbia principalmente a che fare con la propensione a far leva su – ma anche ad attivare – un repertorio di sensibilità, preferenze, motivi, convinzioni, che sono parte del serbatoio di significati di una collettività. È ciò che, ad esempio, Appadurai chiama «aspirazioni», e considera «legate a più ampie idee etiche e metafisiche, che derivano da diffuse norme culturali» [2011, p. 19], e che, da parte sua, Rositi riconnette significativamente alla tradizione retorica, e al «canone retorico», inteso come quella «disciplina che, in determinate condizioni sto-riche, accompagnava uditorio e lòcutore, ne costituiva il comune sapere e la comune norma linguistica e comunicativa» [2013, p. 9]. Il richiamo a Vico è illuminante, perché è in un certo senso lo stesso che guida la rivalutazione dei concetti della tradizione umanistica da parte di Gadamer [2000]4; per il

4 Rositi [2013] inscrive tale rivalutazione nel solco dei lavori di Perelman e Olbrechts-Tyteca [1958] e di Fumaroli [1980], invece che nella linea Gadamer-Vattimo che viene esplorata in questo capitolo. I punti di convergenza sono tuttavia numerosi, nelle intenzioni

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quale cultura e senso comune sono innanzitutto sinonimi di Bildung, pensiero anti-dogmatico, e in una certa misura edificante (nell’accezione proposta da Rorty)5, e i processi di veridizione non sono separabili da istanze etico-politiche. Dopotutto, come argomenta Vattimo, noi non rigettiamo le prove del possesso di armi chimiche da parte dell’Iraq di Saddam Hussein esibite da Colin Powell nel 2003, di fronte al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, solo perché oggettivamente false, ma anche perché non riteniamo giusta la guerra che esse avrebbero dovuto giustificare [2009, p. 7]; dunque, non esclusivamente in base ad aspettative di verità come conformità, oggettività, ma per un insieme più ampio di ragioni, non ultima un’altra idea di convi-venza civile e di regolazione dei conflitti internazionali.

L’eclissi della tradizione retorica, umanistica, nella quale erano per altro presenti dispositivi che assicuravano il passaggio tra particolare e universa-le – si pensi che, ancora per Hegel, «avere cultura» significava trascendere la propria particolarità, e quindi divenire capaci di pensare i punti di vista dell’altro; non così, invece, per quelle «idee generali» su cui si sofferma Toc-queville, richiamate da Rositi –, e che Gadamer imputa all’affermarsi di una coscienza estetica per la quale il bello è divenuto un valore a sé stante, «distinto da ogni altro tipo di valore, conoscitivo, etico, politico»6, e la retorica un semplice camouflage del discorso [Barthes 1970; Rositi 2013], è allora da in-tendersi convergente con un ampio processo di erosione dell’oggettività, o di de-oggettivazione del reale, per il quale, già secondo Nietzsche, «il “mondo vero” finì per diventare favola» [Vattimo 2012, pp. 134].

Osservate da questo punto di vista, condizioni diffuse di «fragilità co-gnitiva» [Rositi 2013, p. 7], che oggi permeano e minano le democrazie occidentali, prima di costituire, a seconda dei punti di vista adottati, inci-

di fondo, oltre che nel merito. A comiciare dal ruolo assegnato all’eloquentia, intesa nella dimensione propriamente etico-politica, anziché tecnica. Come suggerisce questo passaggio di Verità e metodo, con cui Gadamer introduce la sua discussione sul sensus communis: «La difesa dell’umanesimo che Vico intraprende [in De nostri temporis studiorum ratione] è mediata, come già dice il titolo, attraverso la pedagogia dei gesuiti ed è diretta contro Cartesio e insieme contro i Giansenisti. Questo manifesto pedagogico di Vico, come il suo progetto di “scienza nuova”, è fondato su antiche verità. Egli si richiama infatti al sensus communis e all’ideale umanistico dell’eloquentia, momenti che erano già vivi e presenti nell’antico concetto della saggezza. Fin da allora il “ben parlare” (εὖ λέγειν) è una formula di duplice significato e non soltanto un ideale retorico. Significa anche dire il giusto, il vero, e non solo l’arte di dire bene qualcosa» [2000, p. 63].

5 Rorty [1979, cap. 8]; per una discussione su questi temi, mi permetto di rinviare a Molinatto [2008].

6 Sui concetti di cultura e di coscienza estetica in Gadamer [2000] si vedano pp. 43 e ss. e Parte prima, I, 2, e per quest’ultima citazione Vattimo [1985, p. 130].

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denti di percorso e/o vere e proprie deformazioni dell’odierna vita politica tratteggiano e corrispondono all’apertura storica e politica nella quale siamo «gettati». Un simile esito, che costituisce anche uno dei risvolti più significa-tivi della tesi da cui siamo partiti, ossia di un consumo di oggettività come effetto di dominio, non implica guardare all’attuale deficit di qualità dell’argomentazio-ne pubblica come a un orizzonte storico-politico dato, come tale imprescin-dibile; e ancor meno svalutare le ragioni che orientano le nostre preferenze (anziché un ideale normativo) per alcuni stili comunicativi invece di altri, la cui collusione con culture e orientamenti di tipo populista, per esempio, è manifesta. Semmai, nel ribaltare il luogo comune che individua nei discorsi e nelle rappresentazioni un mero correlato, o una superfetazione, del potere politico, l’ipotesi di Vattimo suggerisce il confronto con una filiera di studi, esemplificabile dalle ricerche condotte da Michel Foucault [1997, 2004] e da Louis Marin [1981, 1986, 1993] sulla genesi del discorso politico della modernità, in cui il rapporto tra verità e potere, potere e discorso, discorso e rappresentazione viene inserito in una cornice di maggiore complessità.

Approfondiremo meglio in seguito come questi studi, e soprattutto quel-li contigui di Gérard Genette [1969] sulla verosimiglianza, possano fornire spunti, indicazioni e strumenti analitici per un’analisi dell’argomentazione pubblica in materia di politiche urbane, in particolare sul tema del falso, del finto e del verosimile, e sul ruolo che in essi riveste la rappresentazione. Quanto all’analisi foucaultiana dei modi di veridizione nel pensiero greco antico, a cui sono dedicate le ultime lezioni pronunciate al Collège de Fran-ce [2008, 2009], su cui ha opportunamente richiamato l’attenzione Rositi [2013], potrebbe essere interessante ricordare come essa sia introdotta dalla lettura di un breve testo di Kant, Was ist Aufklärung?, del 1784, che Foucault conclude con questa considerazione: è riflettendo sulla formazione di una nozione di Publikum e sul darsi di un rapporto inedito con il proprio tempo, con il moderno, e quindi con la Rivoluzione, che in Kant si accreditano nuove questioni filosofiche. Sul piano del pensiero, e della sua vocazione intimamente critica, ciò implica lo spostamento da un’interrogazione sulle condizioni di possibilità per una conoscenza vera a un’indagine che ha per oggetto quella stessa «apertura»7 nella quale le nostre esperienze si danno

7 “Apertura” è qui un termine chiave, designa infatti l’orizzonte storico e politico nel quale soltanto si dà qualcosa come una conoscenza, e fa il paio, dunque, con quella di “attualità”. Con le parole di Foucault: «È una tradizione che pone la questione di: che cos’è l’attualità? Qual è il campo attuale delle nostre esperienze? Qual è il campo attuale delle esperienze possibili? Non si tratta di un’analitica della verità, ma di ciò che si potrebbe chiamare un’on-tologia del presente, un’ontologia dell’attualità, un’ontologia della modernità, un’ontologia di noi stessi» [Foucault 2008, p. 22].

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e sono rese possibili. Foucault inquadra il successivo sviluppo della filosofia lungo la linea spezzata che separa un’analitica della verità da «un’ontologia dell’attualità», sostenendo le ragioni (prevalenti) di quest’ultima [2008, pp. 21-22]. Come si può osservare, non siamo distanti dall’approccio con cui abbiamo cercato di inquadrare il nostro tema.

2. Formati e prove di realtà nel modo di dominazione attraverso il cambiamento

Per poter essere fatta interagire con i temi della nostra ricerca, la tesi sul consumo di oggettività come effetto di dominio necessita di essere precisata e circostanziata quanto alle specifiche forme di dominazione.

Le scienze sociali sono oggi sostanzialmente concordi nel qualificarle, se pure con accenti diversi, in termini di neocapitalismo [Sennett 1998; Boltanski e Chiapello 1999]. Non è tuttavia nell’intento di questo paragrafo fare il punto o mettere ordine nella letteratura sociologica dedicata a questi temi; e tanto meno affrontare il delicato argomento del rapporto modernità/capitalismo [Borghi 2012]. Ciò che invece mi propongo di fare è mostrare (e discutere) come in alcuni orientamenti delle scienze sociali – penso soprattutto agli svi-luppi più recenti della sociologia pragmatica francese [Boltanski 2008, 2009, 2012] – non solo la relazione tra forme di dominio e processi di oggettivazione sia messa a tema, bensì costituisca il nucleo centrale di una riflessione critica sul nuovo capitalismo. Più precisamente, dopo un breve inquadramento, cercherò allora di analizzare come si configurino formati e prove di realtà nel modo di dominazione attraverso il cambiamento, che Boltanski ritiene fondato sull’«alleanza improbabile tra necessità e volontà (volere ciò che deve in ogni caso avvenire) che caratterizza l’ideologia liberale del potere nell’età del capitalismo avanzato» [2008, p. 138], e che oggi informa in modo decisivo il discorso delle politiche.

Topiche

Concentrati sull’osservazione degli attori sociali, e del modo in cui, in azione, producono, costruiscono, fanno e disfano incessantemente la realtà sociale di cui sono parte, i sociologi di orientamento pragmatico hanno in genere asse-gnato importanza allo studio delle competenze (semantiche, argomentative, critiche, performative) di cui dispongono gli attori, a scapito di descrizioni più o meno complessive, o cartografiche, della società, che caratterizzano le teorie classiche della dominazione [Boltanski 2009, cap. II]. Muovendosi in

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quest’ottica e ridefinendo la sociologia come una disciplina di tipo metacri-tico, che «raggiunge il suo obiettivo quando offre un quadro soddisfacente delle competenze sociali degli attori», gli scienziati sociali che si riconoscono nel programma di una sociologia pragmatica della critica hanno puntato a «una modellizzazione degli equipaggiamenti cognitivi e deontici, ossia delle competenze, di cui occorre supporre l’esistenza per comprendere il modo in cui gli attori pervengono – malgrado le dispute che li oppongono, ma anche, per essere più precisi, tramite tali dispute – a coordinare le loro azioni o a far convergere le loro interpretazioni» [p. 49].

Si tratta di una focalizzazione particolarmente interessante, specie per il nostro oggetto di studio; non soltanto per la rilevanza che attribuisce alle operazioni mediante le quali gli attori descrivono, interpretano e discutono della realtà nel suo farsi (che è ciò che i linguisti chiamano indessicalità, la produzione di senso in situazione), ma soprattutto per l’attenzione rivolta agli schemi generativi e ai repertori di motivi, argomenti e giustificazioni, a cui essi attingono. A maggior ragione poi, se si considera che in De la justifi-cation [Boltanski e Thévenot 1991], il tentativo di individuare quell’insieme di regole comuni, in forma di competenze, in base a cui si determinano conflitti, accordi e compromessi, parte da un’analisi di alcune opere clas-siche del pensiero politico, considerate in senso stretto come topiche, ossia come collezioni di argomenti organizzati e logicamente coerenti. Iscrivendo il modello delle cités e delle grandeurs nel solco della tradizione retorica (che è di Aristotele, Cicerone, Vico), e articolando l’indagine intorno all’idea che «la retorica comprenda la politica», anziché costituire «una tecnica al suo servizio» [p. 88]8, Boltanski e Thévenot aggiungono alcuni tasselli importanti al percorso che cerchiamo di delineare. Oltre a fare da contrappeso alla matrice strutturalista che contraddistingue l’approccio pragmatico (come mostra il richiamo alla linguistica generativa e al suo progetto universalista), l’accento posto sulle radici storico-politiche dei repertori di giustificazione, e così della stessa dimensione normativa, mostra la centralità, anche per le scienze sociali, del rapporto privilegiato che intercorre tra argomentazione e sensus communis; è per altro in questo senso che mi sembra si possa cogliere l’indicazione a ricomprendere la dimensione politica in una sfera più ampia, che è quella della retorica (qui intesa con riferimento alla Bildung e alla sua

8 Più precisamente, Boltanski e Thévenot inseriscono questa alternativa in una frase inter-rogativa, ma la discussione che ne segue mi sembra autorizzi questa chiave di lettura [1991, p. 88]. Si consideri, inoltre, che a mediare l’innesto della retorica nell’impianto di De la justification è soprattutto l’opera di Skinner [1978], autore del successivo Reason and Rhetoric in the Philosophy of Hobbes, del 1996, a conferma del rilievo assunto da questa tradizione in un ampio spettro di posizioni filosofiche del ‘900.

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vocazione civilizzatrice)9, invece del contrario. Ma soprattutto fornisce in-dicazioni utili a orientare l’analisi delle trasformazioni dell’argomentazione pubblica in materia di politiche: per un verso, richiamando l’attenzione sui criteri di accettazione, e risalita in generalità, di prove e giustificazioni, più che misurarne il grado di conformità alla realtà (e quindi di adaequatio), per un altro, analizzando arrangements e compromessi tra argomenti, repertori e cités, quali si producono all’interno di specifiche forme statuali e modi di dominazione, dando così vita a nuove configurazioni ideologiche.

Le ricerche più recenti di Boltanski si muovono soprattutto in quest’ul-tima direzione. Portando avanti l’indagine intrapresa con Chiapello ne Le nouvel ésprit du capitalisme [1999], e aggiornandola con la messa a punto di una teoria (semantica) delle istituzioni [2009, 2012] che insiste sulle intera-zioni tra dispositivi di governance dello Stato-nazione e processi di messa in forma e/o di costruzione della realtà, tali ricerche costituiscono un quadro ricco e articolato, all’interno del quale approfondire il tema del consumo di oggettività nel capitalismo contemporaneo che fa da filo conduttore alla nostra discussione.

L’imperativo al cambiamento

Da questo punto di vista, l’aspetto più rilevante della riflessione condotta da Boltanski sulle istituzioni del nuovo capitalismo – benché non priva di un’inclinazione realista (per criticare la realtà, gli attori devono infatti poter far leva su un’esteriorità, il mondo, inteso come una realtà più vera)10 – consiste nell’aver mostrato non solo il convergere, verso la fine del XIX secolo, di

9 «Occorre dunque risalire al di là della critica cartesiana alla retorica, oggi completa-mente integrata nell’uso peggiorativo del termine […] – scrivono Boltanski e Thévenot – [e] ricordarsi del ruolo assegnato dagli antichi alla retorica, nella fondazione dell’ordine politico, ruolo che Cicerone, nel De oratore, riassume così: “Quale altra forza (se non l’eloquenza) ha potuto radunare in uno stesso luogo gli uomini dispersi, strappandoli alla loro vita rozza e selvaggia, per condurli al nostro attuale grado di civilizzazione, fondare società, farvi regnare le leggi, i tribunali, il diritto?”» [1991, p. 88].

10 L’opposizione realtà/mondo, su cui Boltanski incardina la sua teoria delle istituzioni solleva non pochi problemi; in particolare, l’idea che il mondo costituisca una “realtà” più originaria (e perciò meno costruita) della realtà comunemente intesa. Nell’ottica teorica in cui abbiamo discusso finora, viceversa, «il mondo è un fenomeno, cioè un ordine di cose che il soggetto entra attivamente a costruire. In Kant, tuttavia, c’era ancora l’idea che le strutture a priori del soggetto fossero uguali in tutti gli esseri razionali finiti. Nel Novecento, dopo Heidegger, queste strutture vengono riconosciute nella loro radicale storicità» [Vattimo 2012, p. 86]. Per un approfondimento su questo punto e, più in generale, sulla teoria delle istituzioni di Boltanski cfr. i contributi di de Leonardis [2011] e Rositi [2011].

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istituzioni statuali e scientifiche intorno a un medesimo progetto di defini-zione della realtà, che corrisponde a ciò che Foucault ha chiamato biopolitica, ma anche come esso abbia modificato in profondità lo stesso rapporto tra dominazione e critica, quale si è configurato nella storia recente del welfare. Basti pensare al ruolo assunto dalle scienze sociali, e in particolare dalle discipline statistiche, nel determinare (nonché giustificare) decisioni, scelte e azioni di carattere (invece) politico. «Alla rivendicazione critica “tutto è politico” – che ha segnato la nostra giovinezza (ma, già, con un carattere reattivo)», scrive allora Boltanski,

«si è risposto – in modo sempre più forte man mano che il tempo passava – con l’affermazione secondo la quale tutto è scientifico, cioè ricondotto all’autorità degli esperti. Si può vedere in questo spostamento, da una definizione della politica fondata su un compromesso tra, da una parte, i rappresentanti del popolo investiti del ruolo di portavoce e, dall’altra, gli esperti che rivendicano l’autorità della scienza, verso una definizione della politica quasi del tutto subordinata al potere di expertise, un autentico cambiamento di regime politico e un nuovo modo di dominazione» [2009, p. 185].

Boltanski ne individua il punto di snodo negli anni Ottanta, con l’im-porsi di un capitalisme gestionnaire, a cui corrisponde un modo di dominazione capitalistico-democratico, o complesso, il cui tratto distintivo (al contrario dei modi di dominazione semplici, in cui l’attività repressiva fa tutt’uno con la negazione della realtà, e quindi della critica, e lo sforzo delle istituzioni è rivolto al mantenimento dello status quo), consiste nel fare del rifiuto della violenza e dell’idea stessa di dominazione, ma soprattutto dell’affermazione della necessità e improrogabilità del cambiamento, il proprio punto di forza. Obiettivo di tale analisi è allora mostrare come l’imporsi di un modo di dominazione attraverso il cambiamento si ancori a un importante processo di disattivazione (via assorbimento e incorporazione) di argomenti e reper-tori critici, che appartengono al registro politico – e perciò svuotandolo, coerentemente a una governance neoliberale in cui, preferibilmente, come scrivono de Leonardis e Giorgi, «vengono prese decisioni politiche senza avere l’aria di farlo» [infra].

Lo si può vedere innanzitutto considerando i tratti delle politiche e delle retoriche che sostanziano questo tipo di governance, che Boltanski e Chiapel-lo descrivono all’insegna della creatività, della flessibilità e dell’innovazione [1999, cap. II]. È infatti in nome di un cambiamento (quale che sia) che si mettono in campo e si legittimano le politiche; ed è in ossequio a questo imperativo che la realtà è pensata essenzialmente in trasformazione, mallea-bile e aperta alle nuove esigenze. Non a caso, in qualità di parola d’ordine,

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il cambiamento vive tanto di indeterminatezza quanto di necessità. Se, da una parte, è predicato come tale (tanto da renderne irrilevante il verso o la direzione), indicando soprattutto una condizione (di cambiamento continuo, perpetuo) – il che spiega perché «non è che tendenziale», ma anche che «il suo carattere necessario non è attuale ma futuro», tant’è che preferibilmente lo «si annuncia» [Boltanski 2008, pp. 140-141] –, d’altra parte, si insiste, con altrettanta enfasi, sulla necessità di «volerlo subito»11, di assecondare al meglio, e fin da «ora, questo cambiamento che si imporrà a tutti, ma più tardi, inevitabilmente», ma anche sul carattere non arbitrario di tale realtà, che si presenta variamente voluta dai mercati, dallo spread, dalla troika, dalla necessità di rifinanziare il debito pubblico (per restare alla cronaca dell’ultimo anno) e, in ogni caso, da forze percepite o ritenute impersonali [2009, pp. 194-195]. Nondimeno, ciò che l’imperativo al cambiamento (o il suo annun-cio) prefigurano è da ritenersi «al tempo stesso ineluttabile e auspicabile» [ibidem]; mostrando fin d’ora che «la posta in gioco è rendere le nuove forme di accumulazione seducenti ai loro occhi», agli occhi dei cittadini, come d’altra parte è richiesto dalla «dimensione eccitante di ogni spirito [del capitalismo]» [Boltanski e Chiapello 1999, p. 60], a cui, probabilmente, non è estraneo quel «meraviglioso» degli albori del capitalismo (vedi Greenblatt), che Ota de Leonardis e Alberta Giorgi è [infra] chiamano in causa nella loro analisi.

Fin qui i tratti principali del topos del cambiamento; di cui l’experti-se tecnico-scientifica, non marginalmente, è parte in causa: nell’indicare le caratteristiche di un processo che è in corso, benché tendenziale, che «ancora non si conosce, o non del tutto», e che chiede quindi di essere tratteggiato, almeno nelle sue linee essenziali, da «esperti attrezzati con una scienza sociale (economia, demografia, sociologia, statistica, scienza politica) e [da] centri di elaborazione dati e previsione (istituti di statistica, osservatori del cambiamento, think thank, ecc.)»; ma anche nel certifica-re come esso sia agito da «forze impersonali e inesorabili», stringenti, costrittive – il che permette «di subordinare la volontà degli attori, che sono in posizione dominante [quali i governanti e i vari responsabili delle policies], alle leggi inscritte nella natura delle cose» [Boltanski 2008, p. 141 e 2009, p. 195].

11 «Même si le changement n’est que tendanciel, il faut bien le vouloir de maintenant». Boltanski [2008, p. 141] coglie qui un elemento chiave, e cioè l’estrema fruibilità di questa topica, nient’affatto relegabile alle sole istituzioni o ai soli rappresentati di formazioni politiche di orientamento conservatore e neoliberale. «Le changement, c’est maintenant» è stato lo slogan ufficiale della campagna per le presidenziali di François Hollande nel 2012, e lo stesso av-verbio di tempo riecheggia nella formula «Adesso!», scelta da Matteo Renzi per le primarie del Partito Democratico, che si sono tenute al termine dello stesso anno.

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Tuttavia, a ben vedere, ciò che saperi ed esperti supportano, non è solo una governance che assolve ai vincoli di giustificazione dell’azione politi-ca propri delle società capitalistico-democratiche evocando la «fatalità del probabile» [ibidem]; se è vero che le politiche del cambiamento, nell’assor-bire la contraddizione performativa che le fonda, e che consiste nel fare di una necessità una volontà, agiscono innanzitutto sulla realtà, trasformandola12. Trasformare la realtà, invece di negarla, sottoporre la realtà a un processo di trasformazione continua, con impiego di dispositivi «che intervengono a modificare, alternativamente, ora i formati di prova, ora la realtà, costruita e validata dall’esito delle prove, ora il mondo» [2009, p. 194], è in questo senso una modalità dell’azione politica altrettanto conforme, connaturata, a un tipo di dominazione neoliberale che ha nella presa sulla realtà, prima ancora che sui capitali, sui territori e/o sulle popolazioni [Boltanski e Chiapello 1999, pp. 41 e ss.], uno dei suoi tratti salienti.

Boltanski ne descrive efficacemente il modo di operare nelle politiche, cogliendo nei processi di depoliticizzazione e deoggettivazione due trends com-plementari, che partecipano a una medesima logica di neutralizzazione di istanze e argomenti critici; di cui gli atti normativi su cui verte la nostra indagine, implementano e generalizzano gli usi e i formati, nell’individuare soluzioni e declinazioni proprie. Ne discuteremo meglio nei prossimi para-grafi. Per il momento, basti segnalare (in forma di promemoria), come le retoriche e gli strumenti di questa governance di orientamento costruttivista, espressione di un «totalitarismo invertito», come suggeriscono de Leonardis e Giorgi, lavorino per ciò stesso su un duplice versante: da un lato, cercando di rendere (se non desiderabile) almeno accettabile la realtà così com’è, dall’altro lato, operando al fine di rendere la realtà conforme alla sua rappresentazione tendenziale, o futura, ossia (in qualche modo simile) a ciò che deve essere. Nel primo caso, come scrive Boltanski, «il ruolo della politica non può che essere marginale», e spesso

«si riduce ora a una gestione strategica dell’informazione (per non dire della propaganda), ora a una sorta di medicina palliativa. Il suo campo si riduce alla questione di sapere, da una parte, come far “passare il messaggio” in modo da renderlo accettabile, il più delle volte dissimulando gli effetti prevedibili delle misure adottate, e, dall’altra parte, come saranno (o meno) attenuate, e, a quale costo, le “sofferenze” sopportate da “coloro che non possono stare al passo”» [2008, p. 143].

12 Difficile non pensare, in tema di incorporazione della critica, a Marx e all’XI delle Tesi su Feuerbach. È per questa stessa ragione che preferisco parlare di contraddizione performativa, anziché ermeneutica, come fa Boltanski [2009, cap. IV].

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Nel secondo caso, la politica si fa innanzitutto rimodellando la realtà: per esempio, puntando sugli effetti performativi dovuti all’impiego di standards e indicatori di performance, come nel caso del benchmarking; ma anche facen-do leva sulle frenesie e sugli attriti alimentati dalle retoriche della crisi, in ordine alle quali

«i momenti di panico, di disorganizzazione, di disorientamento morale, di si-salvi-chi-può […], di anomia, giocano un ruolo importante; [e] vanno di pari passo con periodi apparentemente calmi, propizi alla moltiplicazione di interventi puntuali sulla realtà o tecnici sui formati di prova che, accumu-landosi […] confezionano la realtà quale si mostrerà di nuovo, con il tratto di una necessità implacabile, nel corso della crisi seguente» [2009, p. 203].

3. Economia delle giustificazioni nel governo urbano

Non ci sarebbe probabilmente bisogno di risalire all’idea di città, e di go-vernance, che prende forma nel disegno urbanistico e nelle rappresentazioni cartografiche del XVII e XVIII secolo – che si tratti dei centri urbani della Francia nord-occidentale (Richelieu, Nantes), o della mappa di Parigi di Gom-boust, studiati da Foucault [2004] e Marin [1981], oppure delle città della letteratura utopica [Marin 1973; Ginzburg 2002] – per sottolineare lo stretto legame che intercorre tra ragione geometrica e ragione politica, per altro ancora ri-scontrabile in numerose espressioni del pensiero urbanistico del Novecento (da Gropius ad Abercrombie, Le Corbusier, Niemeyer, per fare qualche esempio). Ma è un buon punto di partenza per chiarire come cercherò di guardare ai formati di argomentazione e giustificazione delle politiche urbane della città di Milano al centro della nostra indagine, per rintracciarvi (o meno) elementi di depoliticizzazione e deoggettivazione riconducibili al frame neoliberale; e cioè scandagliando gli strumenti per governare di cui si è dotata l’Amministrazione comunale alla ricerca di elementi che aiutino a far emergere il tipo di nor-matività che vi è presupposta, a cominciare dai modi in cui essa si sprigiona.

Certo, il Piano di Governo del Territorio [2010] è un atto intrinsecamente normativo, istituito da una legge regionale [L. R. Lombardia 12/2005], con cui la Giunta in carica regola, stabilisce criteri, pone limiti e indirizza lo sviluppo della città, dunque uno strumento di governance urbana per eccel-lenza (che si inserisce in una lunga stagione di messa a punto di strumenti per l’azione pubblica sul territorio, e su varia scala13). Ed è altrettanto un ampio

13 Basti pensare a strumenti quali i patti territoriali, i piani di zona o i contratti di quar-

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documento di programmazione, che richiede, e per altro esprime, un elevato livello di articolazione e argomentazione – che si situa dunque all’estremo opposto delle ordinanze in un ipotetico continuum di strumenti [Cammarata e Monteleone infra] –, a cui l’Amministrazione ha assolto affidando la dire-zione scientifica, e la relativa stesura, allo studio di progettazione urbanistica «Metrogramma» di Milano. Nondimeno, come evidenziano gli studi che compongono questa Sezione, si tratta di uno strumento di policy che si con-traddistingue soprattutto per la mancanza di disegno, in senso tanto urbanistico quanto politico, in conformità a una governamentalità che opera «a distanza, senza governanti», a un «diritto che non regolamenta più, ma piuttosto re-gola» [de Leonardis e Giorgi infra], e a una scientificità che fa da sfondo, ma appunto in modalità solo evocative o comunque deboli [Mozzana e Polizzi infra]. È dunque lavorando sul registro narrativo, in cui questo insieme di elementi si compongono, che intendo ricercare tracce della normatività che il Piano esprime. In quest’ottica, sposterò l’attenzione dal rapporto tra saperi esperti e discorso politico, che come abbiamo visto costituisce un elemento chiave della governance neoliberale, alle regole di traducibilità reciproca di questi discorsi, nell’intento di evidenziare i meccanismi che lavorano inter-namente ai testi, assicurandone così la convertibilità e la saldatura reciproca. D’altra parte, se Le roi et son géomètre è il titolo di uno studio di Louis Marin [1981], che di per sé la dice lunga sulla solidità e sulla complessità di questo rapporto, nel merito, esso è anche un accurato lavoro di lettura del Plan de Paris realizzato da Gomboust nel 1652, per conto di Luigi XIV, in cui ciò che Marin fa risaltare, attraverso l’analisi iconografica e testuale, affiancata dall’osservazione di unità di misura e personaggi microscopici sparsi tra le foglie che incorniciano la mappa, è il darsi di uno spazio di intelligibilità comune, tra discorsi concorrenti, nel quale «l’ordine della regola metrica fonda l’ordine della norma e della legge, ma altrettanto vi è assoggettato» [p. 218]14; in tal modo, suggerendo una messa a fuoco, e insieme un’indicazione di lavoro, che può risultare utile anche in questo contesto.

Proverò dunque a ragionare sul Piano di Governo del Territorio (PGT) della città di Milano cercando di far emergere la grammatica che presiede al racconto della città di Milano e delle sue trasformazioni. E lo farò occupan-domi soprattutto del Documento di Piano, che è di respiro più programma-

tiere: per un inquadramento si veda il volume curato da Monteleone [2007], e in particolare i capitoli di Centemeri, Bricocoli, de Leonardis e Monteleone; sul rapporto governance/strumenti cfr. Lascoumes e Le Galès [2004].

14 Una scansione ad alta definizione della mappa di Gomboust, che ne consenta la leggi-bilità, si trova sul web all’indirizzo indicato in Fonti e Documenti.

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tico (tenendo però a mente anche altri testi, come il Piano Strategico della città di Torino, di dieci anni prima15).

Simile al vero

La bassa intensità del registro retorico-espressivo e lo sviluppo frammen-tato dell’argomentazione, cui concorre l’iterazione di brandelli, segmenti e scansioni di mappe della città e del suo territorio (ben 170 in 378 pagine complessive), a una prima lettura, è ciò che definisce la cifra stilistica del Documento di Piano.

Da questo punto di vista, lo scarso tenore argomentativo sembra inserirsi in un trend più generale di impoverimento del discorso politico, urbanistico e architettonico sulla città. È d’altra parte un tema ricorrente nella letteratura urbanistica, che sottolinea l’abbandono del disegno urbano, il prevalere di narrazioni concentrate sul dettaglio, mistiche dell’abitare e new ecologisms, ma soprattutto la difficoltà dell’articolarsi di un discorso pubblico sulla città, che rimane afasico, variamente preda, come suggerisce Bianchetti, di progettisti antiquari, cultori del progetto elastico o nostalgici del radicalismo [2008, cap. 5]. Non è un caso che l’attenzione tenda a spostarsi sul territorio, inteso come una «grande metafora di una società che cambia i propri modelli, le proprie preferenze, i propri desideri» [p. 30], più funzionale, e in fondo coerente, all’ipotesi di una città in franchising, o di una ville franchisée [Mangin 2004], spesso disegnata dalla sola collocazione strategica di centri commerciali. Non sorprende allora che all’indebolimento del discorso urbanistico abbia fatto da contrappeso il tentativo di pensare e sperimentare la città come un tutto riconoscibile. Ne troviamo indizi nella fioritura capillare degli urban centers (seppure già indice di questa difficoltà), ma soprattutto nell’interesse delle Amministrazioni comunali, a partire dagli anni Novanta, per le politiche di

15 Il richiamo all’esperienza di Torino va precisato. Non allude a una comparazione quale richiederebbe un’indagine sociologica (non essendo questo il caso), né all’individuazione di un insieme di atti normativi, ai fini della costruzione di un corpus di testi. Più semplicemente, nel corso della nostra indagine, il lavoro svolto dall’Amministrazione torinese ha costituito un punto di riferimento, rappresentando una tappa significativa nel passaggio dai vecchi Piani Regolatori Generali Comunali (PRGC) alla messa a punto di nuovi strumenti urbanisti (quali i Piani Strategici e i Piani di Governo), nonché per la concomitanza con un Grande Evento, che fa da sfondo agli interventi delle Amministrazioni di ambedue le città (Olimpiadi invernali 2006 ed Expo 2015). È dunque in qualità di testo che costituisce il precipitato di un’esperienza di governance urbana che vi farò occasionalmente riferimento nel corso della discussione. Per un inquadramento delle vicende politiche torinesi e l’articolazione di un’i-potesi di governance through government, si vedano Belligni e Ravazzi [2013].

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branding, ispirate sia a un modello nord-americano, che tende a inglobare la ricerca di un’interfaccia visiva, o di una corporate identity per le città, nelle pratiche di marketing, sia a un modello di matrice anglosassone, più informato ai valori etici e sociali della progettazione partecipata [Bonini Lessing 2010].

Con il risultato che alcune città europee hanno scelto di presentarsi come vere e proprie persone artificiali, sempre più capaci di «agire proget-tualmente, modellando “la propria personalità” in modo da accentuarne gli aspetti di unicità e differenza», rafforzando indirettamente «l’idea secondo la quale l’individuo arriverà a scegliere la città che più gli somiglia – o almeno così vuole la “narrazione”» [p. 89]. Un esempio, quasi letterale, di questa costruzione identitaria, via personificazione, si trova nelle scelte di brand della città di Amsterdam (basti pensare al logo «I AMsterdam», poi replicato con Be Berlin); così come in quelle di Torino, città a forte identità fordista, che ha invece optato per la mancanza di continuità percettiva tra gli eventi ospitati (Olimpiadi 2006, World Design Capital 2008, Terra Madre 2010-), rischiando scarsa riconoscibilità, ma a vantaggio di una pluralità di artefatti comunicativi, ritenuti più capaci di esemplificare la portata delle sue trasformazioni [Bonini Lessing 2010, pp. 91 e ss.].

Se dunque la vaghezza progettuale che il Piano deliberato dall’Ammi-nistrazione milanese esprime è indice di una difficoltà più diffusa, e ben si inserisce in questo quadro, ciò non impedisce di interrogare più a fondo la narrazione della città che emerge dai suoi testi, e che, in linea di massima, sembra rispondere a una «grammatica della verosimiglianza». È un’ipotesi di lavoro che vorrei provare ad approfondire, e mettere a frutto, attingendo al patrimonio di ricerca della teoria letteraria, e in particolare alla riflessio-ne di Gérard Genette [1969], su cui di recente ha richiamato l’attenzione Boltanski [2012, cap. V]16.

Per inquadrare la questione, è importante sottolineare come il verosi-mile sia un concetto normativo per eccellenza. Genette lo spiega bene fin dall’inizio, scartando l’idea che si tratti di una semplice approssimazione del vero, e mostrando come la teoria classica lo inscriva nella sfera del sollen, di ciò che deve essere, nella duplice accezione che assume in molte lingue indo-europee, ossia di obbligo e di probabilità. D’altra parte, è per l’appunto la stretta connessione, se non «l’amalgama tra le nozioni di verosimiglianza e buone maniere» [p. 72], tra la valenza normativa del discorso e la sua conformità alle istanze del “decoro” – la cui rilevanza nelle retoriche politiche è stata

16 L’interesse di Boltanski per la grammatica della verosimiglianza, e per la riflessione di Genette, non ha strettamente a che vedere con i temi discussi in questo capitolo; benché, ri-guardando la definizione di realtà fittizie, quali i complotti [2012], non vi sia del tutto estraneo.

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evidenziata da Tamar Pitch [2013] –, che Genette mette al centro della sua analisi, imperniata su una querelle letteraria del XVII secolo, relativa al Cid di Corneille e a La Princesse de Clèves di Mme de La Fayette, dove la questione è se non sia “sconveniente”, oltre che “improbabile” (o poco verosimile), come emerge dalla lettura di tali opere, che una donna (Chimène) voglia sposarsi con l’assassino di suo padre (solo una figlia “snaturata” lo farebbe), così come, per i costumi dell’epoca, che una donna faccia (Mme de Clèves) del marito un confidente, o confessi al marito di essere innamorata di un altro. Le dispute seicente-sche sulla verosimiglianza (che riguardino l’opportunità di un certo soggetto narrativo, o invece l’importanza di non scioccare il lettore quando non sia indispensabile), svolgono allora un ruolo chiave nel mettere in evidenza «il contenuto di norme o giudizi di essenza che l[a] costituiscono» [p. 74], e che nella finzione narrativa classica, come traspare dagli esempi riportati, coin-cide con le buone maniere, e/o con «tutto ciò che è conforme all’opinione del pubblico». Il che comporta che «questa “opinione”, reale o supposta», presieda alla costruzione del racconto, e finisca per coincidere «abbastanza precisamente [con] ciò che si definirebbe oggi un’ideologia, vale a dire un corpo di massime e pregiudizi che nel suo insieme costituisce una visione del mondo e un sistema di valori» [p. 73]; oppure, meglio ancora, come suggerisce Boltanski, che ne fornisca la grammatica, vale a dire l’insieme di quei «sistemi impliciti di costrizioni di cui deve tenere conto l’enunciazione […] al fine di rendere l’enunciato accettabile» [2012, p. 299].

Che quindi il giudizio di inverosimiglianza consista nell’identificazione di «un’azione senza massima», senza rapporti, o comunque sganciata da «un corpo di massime recepite come vere dal pubblico cui [il racconto] è indirizzato» [Genette 1969, pp. 75-76], non fa che ribadire l’ipotesi secondo cui il verosimile si alimenta (appropriandosi) del sistema di norme e valori che lo informa. Ma, allo stesso tempo, permette di evidenziarne il peculia-re rapporto con la realtà: che coincide con un’operazione che è, insieme, di appiattimento e idealizzazione del reale – probabilmente non dissimile dall’operare dei modelli matematici impiegati nella produzione delle im-magini virtuali e realistiche dei rendering urbanistici [de Leonardis e Giorgi infra] –, che ripulisce la scena narrativa da quell’insieme di contraddizioni, singolarità, difetti e accidenti che viceversa punteggiano il racconto storico; a conferma dell’adagio, riportato da Genette, secondo cui «la stravaganza è un privilegio del reale» [1969, p. 74]17.

17 La misura della distanza tra la stravaganza del reale di cui parla Genette e la precisione del dettaglio (di ombre e colori) dei rendering urbanistici è in certo senso ciò che fotografa la mostra Rendering the city di Giovanni Hänninen [2011]

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Se con queste chiavi di lettura torniamo a esaminare il tenore argomen-tativo degli atti normativi con cui l’Amministrazione della città di Milano delinea il proprio progetto di governance non abbiamo difficoltà a scorger-vi tratti riconducibili al registro conformista della verosimiglianza, di cui troviamo tracce nella mediocrità delle scelte lessicali e concettuali, nella predilizione per modalità dicotomiche di organizzazione degli argomenti, nel richiamo generico a valori diffusi e/o a parole d’ordine. Si pensi alla descrizione di Milano come città suddivisa in “cinque foglie”, a cui corri-sponde una lettura del territorio metropolitano ripartito in cinque differenti settori e morfologie urbane (centro storico e quattro aree cardinali: nord, est, sud, ovest); all’evocazione di “raggi” (verdi e ciclabili), “porte” e “archi” (verdi, di nuovo), greenway, rotonde, ring, o ancora di “epicentri” («un modo figurato – si legge nel Documento di Piano – per spiegare l’effetto “ad eco” di una trasformazione urbana sul tessuto non interessato direttamente da tale sviluppo») [p. 68 n. 30]; alle opposizioni pieno/vuoto, lento/velo-ce, città-storica/città-territorio, città-pubblica/città-privata, intorno a cui si strutturano gli argomenti a sostegno della necessità dei cambiamenti (già in atto e futuri); al richiamo di valori assunti come condivisi, o che si impon-gono da sé, e che prendono variamente i nomi di ascolto (vs partecipazione), creatività (vs progettualità), flessibilità (vs trasformazione), identità (vs storia). Ma anche il ricorso frequente a toni “impressionistici”, che ben si congeniano con la consistenza particolarmente eterea di alcune ipotesi – quale l’idea di uno sviluppo sostenibile della città, da sostanziarsi mediante una progressiva riduzione del consumo di suolo [cfr. fig. 2], che il Piano delinea in forme quasi propiziatorie, come sottolineato da Mozzana e Polizzi [infra] –, può probabilmente essere letto in questa chiave. Sono infatti “impressioni” di svi-luppo, “sembianze” di una città in divenire (auspicabile, possibile, a portata di mano) che si delineano all’interno di una narrazione che è alla ricerca di una sua coerenza, ma nell’accezione ideologica di cui si diceva, più che nell’indicazione di interventi volti a realizzare finalità e obiettivi, ciò di cui il Piano si compone18.

18 Ne è un esempio il capitolo 5, dedicato alla sostenibilità economico-finanziaria delle azioni di pianificazione e sviluppo individuate dal Piano: nel giustificarne le scelte in base a sole proiezioni di incremento demografico, indicate in forma di “forchette” (min/max) – cui è comunque premesso che «Milano diventa grande quanto vuole e può essere grande» – così come nell’assicurarne la sostenibilità economica con strategie volte, senza ulteriori specifi-cazioni (se si esclude che si tratta di dispositivi di perequazione urbanistica), a «minimizzare l’impegno finanziario dell’Amministrazione […] e a massimizzare l’efficacia ed efficienza del processo anche grazie al ricorso a diverse forme di coinvolgimento degli operatori (strumenti di partenariato pubblico privato e sussidiarietà)». Il tutto accompagnato dalla considerazione

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Scenari urbani

Si comprende forse meglio, in questa prospettiva, perché il Documento di Piano prediliga una narrazione della città in forme vicine alla messa in scena o alla costruzione di scenari (non a caso, se si considera che già per Aristotele la dimensione propria del verosimile era quella del teatro). Si tratta infatti di un’attitudine argomentativa che è ben più di un mero veicolo di approssima-zione e genericità, che costituisce piuttosto un efficace strumento cognitivo, nell’accorciare le distanze tra la città attuale e quella futura, e quindi tra ciò che è e ciò che dev’essere, in una logica rispondente alle istanze della gover-nance neoliberale. Lo si può constatare nel capitolo 4, per esempio; dove l’argomentazione a sostegno dei 15 “grandi progetti di interesse pubblico” individuati dal Piano consiste (e si riduce) nell’allestimento di altrettanti “scenari di progetto” – vale a dire riarticolazioni del territorio, della viabilità o degli spazi verdi, tratteggiati in forma di rendering grossolani19 –, ma, in ogni caso, di “immagini”, la cui funzione principale, scrivono de Leonardis e Giorgi, consiste nell’invitare gli abitanti della città «ad immaginare, e a immaginarsi in quella fiction», se non persino «a esibirsi, come in un reality show, in performance che celebrino il decoro» [infra].

Ma lo si può osservare ulteriormente, considerando l’allestimento di sce-nari (di trame, o di racconti urbani, più o meno verosimili) da un punto di vi-sta propriamente narrativo; mettendo a fuoco il rapporto che questa tipologia

che «i continui avanzamenti e affinamenti prodotti dagli Uffici di Piano [non dettagliati in altro modo], nonché la natura esplorativa dello studio, suggeriscono di assumere con cautela le successive elaborazioni, finalizzate a restituire un quadro di massima della sostenibilità finanziaria del PGT». Sulle proiezioni di sviluppo demografico, cfr. DDP, tabella p. 324.

19 Si tratta d’altra parte di una posizione espressamente rivendicata dallo studio Metro-gramma, in un’apposita nota, e sostenuta da una citazione di Bernardo Secchi: «Oggi occorre accettare la sfida di un percorso più difficile che si svolga contemporaneamente in molte direzioni ed a diversi livelli, che attraversi le scale del tempo e dello spazio fisico, sociale, delle istituzioni e del potere. In questo nuovo viaggio di formazione non siamo del tutto privi di viatico. Il principale a me sembra l’idea di una continua, paziente costruzione di scenari: “cosa succederebbe se….”, questo è uno scenario. In una società democratica ed aperta ognuno è libero di avanzare proposte e di motivarle ricorrendo agli argomenti che più ritiene opportuni. Dobbiamo anche accettare la dimensione retorica delle società contemporanee, il flusso di immagini verbali e visive, seducenti o terrorizzanti, che cercano di indurci ad accettare o rifiutare alcuni possibili aspetti del nostro futuro come del nostro passato. Ma il compito di ogni intellettuale che pretenda legittimazione, architetti ed urbanisti compresi, è quello di sottoporre ognuna di queste immagini ad un severo vaglio critico trasformandole appunto, contemporaneamente alla costruzione di visions e di progetti, in scenari. Come ho più volte cercato di dire non si tratta di un cambiamento metodologico, ma di una radicale rivoluzione epistemologica» [DDP, p. 186].

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di testi intrattiene con il sistema normativo e valoriale (o di verosimiglianza) dal quale dipende, e di cui costituisce in qualche misura un caso particolare. È in questa prospettiva che Genette sottolinea come nei generi letterari po-polari (poliziesco, western, feuilleton) «le convenzioni di genere funzionino come un sistema di forze e costrizioni naturali, alle quali il racconto obbedisce senza percepirle, e a fortiori senza nominarle» [1969, p. 76], individuando, di conseguenza, nel rapporto muto che le narrazioni intrattengono con i loro vincoli uno dei tratti distintivi della verosimiglianza. Traendo origine dal patto che l’opera stabilisce con il suo pubblico (per cui tutti sanno che cos’è un western), questa relazione determina infatti due caratteristiche di questo registro argomentativo: per un verso, l’economia delle giustificazioni, da intendersi innanzitutto come uso parsimonioso delle stesse (in quanto superflue), riscon-trabile nella tendenza all’implicito e nella prevalenza del registro assertivo, per un altro, la produzione del consenso. È infatti tale rapporto – scrive Genette in Figure II – ciò «da cui [deriva] l’agrément [la gradevolezza] ben percepibile delle opere “verosimili”, che spesso compensa, e oltre, la povertà e la piattezza della loro ideologia: [dal] relativo silenzio del loro funzionamento» [p. 77].

Se dunque in questo mix di realismo, conformismo, scarsità di giusti-ficazioni e propensione al consenso, possiamo cogliere un risvolto del con-sumo di oggettività che investe l’argomentazione pubblica nelle società del nuovo capitalismo (e, nello specifico, il discorso delle policies), nondimeno è altrettanto importante mostrare come esso costituisca un potente collante tra il discorso della governance e quello dell’expertise. Dipingere una realtà verosimile, anziché promuovere e farsi carico di un progetto tecnico-politico sulle materie in oggetto, secondo l’ipotesi che stiamo cercando di mettere a fuoco, ne costituisce in questo senso non solo uno dei principali punti di saldatura, ma anche la grammatica che li accomuna. Nel caso del PGT, specie se investigato con il supporto della riflessione di Genette, possiamo allora vedere come la depoliticizzazione che informa la costruzione del Do-cumento di Piano, si nutra, in modo circostanziato, puntuale, del rapporto muto che il racconto verosimile instaura con i suoi formanti, e che, in questo caso, sembra procedere principalmente silenziando i discorsi, e/o (talvolta) si-lenziandone la provenienza, assicurandone in tal modo livelli elevati di fruibilità e commensurabilità. È un aspetto difficile da fare emergere, a fronte della cappa di verosimiglianza che appunto avvolge il Piano e la sua narrazione, ma di cui è possibile trovare qualche indizio in prossimità degli snodi, dei punti-cerniera, delle zone franche e dei terrains vagues del testo (quali incipit, note, citazioni, omissioni, schemi e immagini).

In primo luogo, osservando come l’expertise urbanistica, i suoi con-tenuti specifici e il repertorio di saperi ed esperienze che la costituiscono,

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venga incorporata nel Documento di Piano. È il caso, in particolare, della suddivisione della città in «nuclei di identità locale» (o NIL), costruita sul calco concettuale e iconografico del «cestino delle uova» (o “eggs-in-a-basket” diagram), introdotto dallo storico County of London Plan di Abercrombie e Forshaw del 1943 [cfr. fig. 1 e fig. 4], con cui il Piano introduce l’ipotesi di un’articolazione della città in zone «non più delimitate da confini di com-petenza amministrativa, ma in aree che corrispondono alle varie identità culturali e sociali» [PGT, p. 35], benché in assenza di un qualsivoglia riferi-mento (e quindi di valutazioni comparative, giustificazioni, negoziazioni sul merito, ecc.) all’esperienza londinese e al contesto storico-urbanistico in cui è maturata. Ma lo si può notare anche nel caso del «sistema del verde», e dei relativi «raggi verdi», la cui scarsa consistenza progettuale si amalgama bene con l’evocazione (grafica e lessicale) del repertorio utopico delle Garden Cities di Howard e della Cité radieuse di Le Corbusier, di cui i raggi sembrano mantenere traccia, e condensare l’esperienza, in forma di ibrido lessicale [cfr. fig. 3]. Si tratta di elementi (o meglio di “spie”, “segnali”) che invece di ritenere variamente ascrivibili a genericità, bassa qualità argomentativa, peculiarità di genere, possono forse più proficuamente essere inquadrati nel dispositivo narrativo del verosimile. Da questo punto di vista, i molti riferimenti al vocabolario e alla letteratura urbanistica cui allude il PGT, per quanto sotto-traccia, e in modalità spurie, variegate, eclettiche (o forse proprio per questo), svolgono infatti una funzione precisa nell’accreditare, gli aspetti più propriamente ideologici del discorso tecnico-scientifico, se è vero, come sostiene Boltanski, che

«questi racconti e queste esperienze disparate costituiscono una sorta di en-ciclopedia da cui è possibile trarre elementi di informazione più o meno stabilizzati che si intrecciano con le informazioni differenti con cui la trama compone il nuovo racconto proposto. È [allora] probabile che un nuovo rac-conto sia tanto più accettabile quanto più contenga un alto numero di elementi suscettibili di presentare analogie con gli elementi già stoccati» [Boltanski 2012, p. 306].

A maggior ragione, se la decontestualizzazione informa la presenza del discorso dell’expertise nel PGT, costituendone al tempo stesso uno dei mo-tori del suo agrément, e quindi del consenso (o almeno di depotenziamento del conflitto, viste le molte critiche ricevute dal Piano), il discorso politico risulta più propriamente silenziato. L’assenza di qualsiasi contenuto di tipo politico, così come di riferimenti all’azione dell’Amministrazione, in un testo che (vale la pena ricordarlo) ne condensa in modo programmatico, regolativo e normativo la governance, ne è il segno più evidente. Ma lo

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si può vedere forse meglio attivando una piccola comparazione, e cioè mettendo a confronto due diverse modalità di giustificazione dell’azione di governo (a Torino e a Milano), rispetto ad atti normativi di pianificazione e sviluppo urbano.

Nel primo caso, si tratta della dichiarazione resa in Consiglio comu-nale dal Sindaco Valentino Castellani, nel 1998, nella fase propedeutica alla definizione del Piano Strategico di Torino (del 2001), di cui costituisce l’incipit, cui segue una dettagliata ricognizione del complesso iter politico, sociale e partecipativo, nonché dei documenti preparatori, che ne hanno determinato la stesura. Vale la pena riportarla e leggerla pressoché nella sua interezza:

«L’avvio degli studi per il Piano strategico per la promozione internazionale di Torino avviene in questo momento non solo come conseguenza logica e coerente rispetto all’impostazione programmatica dell’Amministrazione, ma anche in risposta preventiva al pericolo reale, in assenza di decisioni adeguate, di restare ai margini di un movimento di rinnovamento che vede le più attive amministra-zioni urbane europee lanciare programmi e progetti per migliorare la loro visibilità sul piano internazionale […]. La decisione del governo locale di predisporre un Piano strategico per Torino è in armonia con un crescente interesse che le istituzioni nazionali e comunitarie hanno nei confronti di quello che è il più grande patrimonio di ricchezza del continente Europa: le sue città, cariche non solo di problemi ma anche di storia, infrastrutture e risorse […]. I vantaggi che Torino e il suo intero sistema territoriale sapranno offrire diventeranno decisivi per lo sviluppo della città e di tutto il Piemonte. Per queste ragioni, l’Amministrazione ritiene che sia giunto il momento di ampliare la promozione della città a livello in-ternazionale, e conta di raccogliere intorno a questo obiettivo le migliori forze della città» [Piano strategico 2001, pp. 10].

Nel secondo caso, si tratta invece della dichiarazione dall’Assessore allo Sviluppo del Territorio del Comune di Milano, Carlo Masseroli, posta in apertura al video Manifesto per Milano (realizzato dallo studio Metrogramma) [2008], con cui viene ufficialmente presentato il PGT:

«Milano sta vivendo un momento magico: è stata scelta come città dell’Expo e sta ripianificando se stessa: la novità è che tutto il piano della città si muove intorno all’interesse pubblico, e per noi si manifesta attraverso tre infra-strutture: portare Milano da città radiale, città in cui c’è un unico centro, a città reticolare, in cui ogni periferia diventa centralità; il secondo sistema è il sistema ambientale: il verde raddoppierà e soprattutto sarà interconnesso, in modo che ogni punto della città sarà collegato all’altro attraverso dei percorsi che siano ciclo-pedonali; infine, il terzo sistema della città pubblica è il sistema dei servizi: sia quelli di tipo locale, che devono essere raggiunti

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a piedi, gli asili, le scuole, ecc, sia quelli di tipo sovralocale, che dovranno essere agilmente raggiungibili attraverso le infrastrutture pubbliche. I tre sistemi rappresentano la città pubblica, intorno alla città pubblica nascerà la città privata, nasceranno i nuovi City Life, i nuovi Santa Giulia, i nuovi Garibaldi-Repubblica, la città della moda – è la città del 2015, che nei prossimi anni riusciremo a vedere».20

È un buon esempio di silenziamento delle prerogative politiche dell’a-zione di un’Amministrazione pubblica, ma anche di come il discorso tecnico e quello politico, per questa stessa via, assicurino la loro reciproca tradu-cibilità. Come dovrebbe essere emerso nel corso della discussione, oltre a produrre scenari conformi al decoro (neoliberale), nell’ambito delle politiche, il ricorso al registro argomentativo del verosimile si mostra infatti uno stru-mento particolarmente adatto a saldare le spinte alla scientificizzazione e alla depoliticizzazione proprie della governance, per altro proprio nel lavorare alla messa in forma di una realtà “verosimile”, quanto ovvia, irrinunciabile e cogente, dunque secondo modalità più che rispondenti ai dettami delle po-litiche del cambiamento. In questo senso, più che produrre vuoti simulacri, il verosimile è un buon alleato del dominio, e della sua presa sulla realtà (contro il possibile).

Non è un caso che sia da questa stessa “economia” che la narrazione della città e delle sue trasformazioni, quale emerge da uno strumento come il PGT, trae gran parte la sua redditività [p. 97]21, in termini di attrattività e consenso, o – il che è lo stesso, come abbiamo visto – di una normatività che agisce muta. Questa economia non attiene infatti solo all’uso parsimonioso di argomenti e giustificazioni, di cui si è detto, ma alla sua stessa economia di funzionamento del racconto. Se il verosimile si giustifica, si motiva, tende infatti a farlo a posteriori, e preferibilmente in forma di alibi. Parafrasando Genette, potremmo allora dire che la motivazione, nel giustificare il verosi-

20 Il video illustra in modo sintetico i contenuti del PGT, ma anche il processo che ha portato alla realizzazione di una mappa-scultura tridimensionale (ispirata al nastro di Möbius), che ne sintetizza l’idea di progetto, opera dell’artista trentino Giampietro Carlesso, presentata alla Mostra Internazionale di Architettura, per la Biennale di Venezia 2008.

21 La formula di marca strutturalista, semiotica, usata da Genette per sintetizzare la sua analisi sulla verosimiglianza, benché oggi decisamente desueta, se non di stile vintage, mi sembra colga nel segno. Posto che vi sia una correlazione tra l’“economia” di un racconto e la misura della sua efficacia, per ogni “valore” (V) di un racconto, la sua redditività, secondo Genette, sarà allora il risultato di una sottrazione: dove la “funzione” (F) cui esso assolve è da intendersi come un ricavo, e la sua “motivazione” (M), o giustificazione, invece, come un costo. Da cui la formula generale V = F – M, che, applicata al racconto verosimile, per il quale M è uguale a 0, tale che V = F – 0, per cui V = F, mostra gli evidenti vantaggi di una «motivazione implicita, e che non costa niente» [1969, p. 98].

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mile, più spesso ne maschera il carattere artificiale, rafforzandone gli effetti realistici. O, meglio ancora, con le sue parole:

«il per-ché [parce que] è incaricato di far dimenticare il per-cosa [pour quoi]? – e dunque di «naturalizzare, o di realizzare (nel senso di: far passare per reale) la finzione, dissimulando ciò che essa ha di concertato […], ossia di artificiale: in breve, di fittizio. Il capovolgimento di determinazione che trasforma il rapporto (artificiale) mezzo-fine in un rapporto (naturale) causa-effetto, è lo strumento stesso di questa realizzazione, evidentemente necessaria per il con-sumo attuale, il quale esige che la finzione sia presa per un’illusione, anche imperfetta e a mezzo servizio, di realtà» [1969, p. 97].

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sezione terza

Sicurezza e lavoro. Discorso pubblico,

basi informative e pratiche sociali

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Presentazione

Al centro di questa parte del volume si trova il tema del rapporto tra sicurez-za e lavoro, che è il terreno di ricerca su cui si è esercitata l’attività di un terzo gruppo di lavoro1. Quale ordine del discorso è all’opera in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro? Di quali basi informative si avvale tale discorso pubblico e come, viceversa, esso è andato trasformando e riconfigurando quelle basi informative? Quali altri possibili forme di voice si danno in questo campo del sociale e in che modo esse sono abilitate – o, al contrario, invalidate – nella definizione delle basi informative pertinenti il discorso pubblico e, per quella via, nel processo di formazione di decisioni collettivamente vincolanti in merito a una materia così rilevante? In che modo questo ordine del discorso istituisce corsi d’azione (e quali) e ne rende improbabili altri? In che misura le basi informative hanno effetti di tipo performativo sul piano delle pratiche dei soggetti coinvolti, contribuendo così a produrre quei comportamenti che vanno poi a misurare come dati di realtà?

Queste, e altre ancora più circoscritte e specifiche, sono le domande che hanno orientato il lavoro di ricerca su questo versante delle questioni che ruotano attorno al tema della sicurezza. Naturalmente, pur esercitandosi su luoghi e situazioni sociali empiricamente circoscritti – nei modi e con le risultanze che il primo capitolo di questa sezione restituisce nel dettaglio – questo sforzo di ricerca attraversa e si confronta con diversi processi più complessivi. In primo luogo, infatti, è l’oggetto stesso della ricerca ad esigere una prima problematizzazione. La presunta auto-evidenza di tale oggetto – la sicurezza del lavoro – in effetti si dilegua non appena si comincia ad interrogare, invece di assumerle come basi della riflessione, le categorie e il vocabolario all’opera nel discorso pubblico e nei dispositivi (norme, stan-dard, certificazioni, procedure e pratiche organizzative, etc.) in cui esso si cristallizza. Cosa vuole dire “essere sicuri” [Castel 2004; Borghi, Grandi 2013] in uno scenario sociale – quale quello non solo del nostro paese ma, più in generale, del capitalismo reticolare come sistema sociale comples-sivo [Streeck 2012] – in cui è semmai l’insicurezza complessiva [Murgia,

1 L’Unità di ricerca del Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’economia dell’Università di Bologna è stata coordinata da Vando Borghi e ha visto la collaborazione, a vario titolo, di Barbara Giullari, Roberto Rizza, Mila Sansavini e Lucilla Spinelli.

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La ragione poLitica236

Armano 2012] a costituire la cifra all’insegna della quale prende forma l’esperienza che i soggetti fanno del lavoro? Un primo aspetto del fenomeno indagato che esige di essere tenuto in vista, dunque, è la definizione stessa di sicurezza: il modo in cui la coppia concettuale sicurezza/insicurezza al lavoro viene ritagliata, produce significative implicazioni in merito a cosa sta dentro e cosa rimane fuori dal cono di luce della ricerca stessa. Anche per questa ragione si è scelto di utilizzare un approccio che, conferendo spessore storico alle modalità con cui tale ritaglio avviene nel presente, consentisse di “problematizzare” quanto tende a presentarsi con l’aura della oggettiva naturalità del reale.

Il campo della sicurezza – la cui mappa si presenta assai articolata, per la pluralità dei soggetti che sono all’opera in esso, per la molteplicità dei piani (locale, regionale, nazionale e internazionale) che si combinano e intersecano continuamente, per l’affollamento di dispositivi vari (standard, certificazioni, testi di legge, direttive europee, raccomandazioni di diversa provenienza, etc.) che lo strutturano – emerge dalla ricerca come un campo di tensione, che incide sulla traiettoria di qualsiasi corpo sociale lo attraver-si. Una tensione che si produce nel confronto e nel conflitto tra modalità diverse di rispondere alle domande che abbiamo ricordato più sopra e che rimandano, in definitiva, ad una diversa concezione del rapporto tra salute degli individui, organizzazioni e lavoro. Questa tensione è quanto, appunto, si tenta di mettere qui a fuoco: l’analisi consente di rintracciare, tra l’altro, una significativa trasformazione nel paradigma all’interno del quale (anche) quel rapporto è stato storicamente declinato, vale a dire il paradigma della prevenzione.

Si tratta di mutamenti che, investendo direttamente il campo di analisi qui circoscritto al rapporto tra lavoro e salute, si intrecciano a processi di trasformazione più profondi e trasversali a diverse sfere dell’esperienza so-ciale. In primo luogo, sono mutamenti che hanno a che fare con il processo di individualizzazione. Perno fondamentale del nostro orizzonte di senso sociale, il processo di individualizzazione ha conosciuto una radicale tra-sformazione delle modalità attraverso le quali esso entra in gioco nel lavoro [Honneth 2010]. Se, in modo sempre più intenso, è sul terreno stesso della produzione di soggettività che fa presa il capitalismo delle reti per ripro-dursi ed espandersi ulteriormente [Borghi 2011], anche il modo in cui la salute e il benessere dei soggetti al lavoro è agito, ne viene coerentemente rimodellato. L’attivazione e l’occupabilità, in quanto terreni di messa alla prova dell’individuo, costituiscono allora la cornice in cui diviene natura-le assumere anche la sicurezza come ulteriore parametro di verifica del-la responsabilità individuale. Una individualizzazione senza capacitazione

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Sicurezza e lavoro. DiScorSo pubblico, baSi informative e pratiche Sociali 237

sembra cioè all’opera anche in relazione al rapporto tra sicurezza e lavoro. Inoltre, queste trasformazioni si inseriscono in una dinamica di privatizza-zione della sicurezza, che non ha a che fare solo con quanto appena deli-neato (l’essere sicuri come affare e dovere morale privato degli individui), ma anche con una progressiva dilatazione del peso e del ruolo degli attori privati nella regolazione, formale e sostanziale, di materie e ambiti sociali in altre circostanze definiti come tipicamente propri dell’azione pubblica. Al fondo di questi mutamenti si trova una questione di grande rilevanza, non a caso presente (esplicitamente o implicitamente) anche nelle altre sezioni di questo volume, vale a dire quella delle basi informative delle politiche e, più in generale, della riflessione collettiva sulla giustizia sociale. Chi ha voce nel processo di messa a punto delle informazioni rilevanti, quali conoscenze risultano pertinenti nell’influenzare i processi di decisione collettiva, che tipo di rapporto si stabilisce tra saperi esperti e codificati e saperi quotidiani, dell’esperienza: il rapporto tra sicurezza e lavoro costituisce un terreno privi-legiato per cercare di comprendere il modo in cui le risposte a tali questioni vanno trasformandosi e le implicazioni che tali trasformazioni hanno per la vita degli individui.

I due contributi raccolti in questa sezione seguono il filo di questi temi, concentrandosi sull’analisi delle risultanze della ricerca di terreno nel caso del primo dei due capitoli, e cercando poi di inseguirne le implicazioni di fondo nel secondo.

V.B.

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1

Il campo della sicurezza sul lavorodi Barbara Giullari, Roberto Rizza, Mila Sansavini 1

Premessa

Il discorso pubblico sul rapporto tra lavoro e sicurezza e le sue trasformazioni prende forma nell’intreccio tra una pluralità di attori individuali e collettivi, dispositivi normativi, istituzionali ed organizzativi. Nell’esplorare l’interdi-pendenza e la multidimensionalità degli elementi coinvolti nel rapporto tra sicurezza e lavoro, tenteremo di evidenziare i diversi frames interpretativi e l’influenza che questi ultimi giocano nel dare forma ad altrettanti modelli di legittimazione nelle pratiche organizzative in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro. É in questa cornice che sottoporremo ad analisi i materiali scaturiti da un’articolata esperienza di ricerca empirica le cui principali risultanze conducono a mettere al centro della riflessione il più ampio legame tra la concezione della salute e sicurezza degli individui e i mutamenti dei rapporti sociali di lavoro nelle organizzazioni economiche nel capitalismo contemporaneo.

1. Lavoro e sicurezza in una prospettiva di campo

Il rapporto tra sicurezza e lavoro può essere indagato a partire dal modo in cui esso si configura sul terreno della circolarità fra discorsi, pratiche e istituzioni. Lo spazio pubblico, cioè «la sfera dove si articolano gli interessi comuni e si amministrano le differenze non è mai una realtà precostituita» [Innerarity 2008, p. 10; Calhoun 1998] ed è, a differenza di quanto tal-volta è stato assunto nel dibattito scientifico, un orizzonte sociale generale di esperienza in cui la dimensione lavorativa (e le problematiche ad essa

1 Questo lavoro è il frutto di una prolungata e intensa discussione tra gli autori. Roberto Rizza ha scritto i paragrafi 1 e 4, Mila Sansavini i paragrafi 2 e 3, Barbara Giullari il pa-ragrafo 5 e relativi sotto-paragrafi. Il paragrafo 6 è stato scritto congiuntamente da Barbara Giullari e Roberto Rizza.

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La ragione poLitica240

connessa) gioca un ruolo assai significativo [Davis 2005; Krause 2005; Negt, Kluge 1993; Negt 2007]. Il modo in cui il lavoro è tematizzato nel discorso pubblico, le grammatiche di giustificazione che prestrutturano le modalità di implicazione degli individui in ambito lavorativo, forniscono i frames, i modelli di legittimazione e gli orizzonti di plausibilità che rendono possibili le trasformazioni concrete delle pratiche sociali e istituzionali concernenti il lavoro [Castel 2007; Boltanski, Chiapello 1999]. Allo stesso tempo, le pra-tiche ed i contesti d’azione situati (le imprese, in cui il rapporto tra lavoro e sicurezza è concretamente agito), a loro volta costituiti non solo da attori, ma anche da processi organizzativi, interventi istituzionali, dispositivi di cer-tificazione e così via, rappresentano spazi di rielaborazione, riproduzione e trasformazione di quei frames e di quelle grammatiche.

È proprio all’interno di questa reciproca influenza tra organizzazione sociale del lavoro [Borghi, Rizza 2006] e discorso pubblico che ci sforzeremo di cogliere il modo in cui viene configurandosi il tema della sicurezza2. A questo scopo utilizzeremo il costrutto di ‘campo’, che vanta una lunga tra-dizione sociologica. Pensare in termini di campo – spiega Bourdieu [1992: 66] – significa pensare in maniera relazionale. In termini analitici un campo può essere definito come una rete o una configurazione di relazioni oggettive tra posizioni. Queste posizioni sono definite nella loro esistenza e nei condi-zionamenti che impongono a chi le occupa - agenti o istituzioni – dalla loro situazione (situs) attuale e potenziale all’interno della struttura distributiva delle diverse specie di potere (o di capitale) il cui possesso governa l’accesso a profitti specifici in gioco nel campo stesso.

All’interno del campo della sicurezza interagiscono vari attori (imprese, organizzazioni pubbliche, associazioni di categoria, associazioni professio-nali, sindacati) che si contaminano vicendevolmente e che contribuiscono a definire standard di riferimento relativi a differenti dimensioni (per esempio le politiche di gestione del personale, lo sviluppo di nuovi prodotti/servizi, la ricerca di nuove soluzioni per la risoluzione di problemi etc.) che hanno un’influenza decisiva sulla ricerca di soluzioni più appropriate [DiMaggio, Powell 2000]. L’analisi del campo della sicurezza va perciò ricondotta al ruolo giocato da tutti gli attori rilevanti: legislatori, fornitori, consumatori,

2 Nel dettaglio il tema della sicurezza sul lavoro è stato esplorato nel corso di un’indagi-ne empirica che ha previsto la realizzazione di una serie di interviste semi-strutturate con testimoni significativi locali (esperti afferenti alle varie dimensioni di quello che definiremo il campo della sicurezza che operano sul territorio emiliano-romagnolo) e di alcuni studi di caso in organizzazioni attive nella regione Emilia-Romagna, all’interno delle quali sono state effettuate interviste con i vari attori coinvolti nella gestione e salvaguardia della salute e del benessere (lavoratori, RLS, RSPP…).

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Il campo della sIcurezza sul lavoro 241

enti regolatori, altre organizzazioni che producono beni o servizi simili, associazioni professionali; soggetti che sono portatori di frames interpretativi e di orizzonti di plausibilità su ciò che si deve intendere per sicurezza sul lavoro con evidenti ricadute sui contesti di azione situata. L’analisi dell’a-dozione dei dispositivi relativi alla sicurezza sul lavoro comporta pertanto la ricostruzione di un vero e proprio pezzo di storia della società in cui il cambiamento si verifica [Bonazzi 2000]. Il campo è quindi determinato dal livello istituzionale e la sua strutturazione è definita da quattro vettori: i) la crescita dell’interazione tra soggetti collettivi e non, presenti nel campo; ii) l’emergere di strutture interorganizzative di dominazione e di modelli di coalizione ben definiti; iii) la crescita delle informazioni con cui i soggetti operanti in un campo hanno a che fare; iv) il formarsi tra i membri del campo della consapevolezza di essere coinvolti in un’impresa comune.

L’azione incrociata di tutti gli attori presenti nel campo è spesso la causa della crescente omogeneizzazione nei criteri guida e nelle conseguenti pratiche interne al campo stesso. Tali processi di isomorfismo, pur rappre-sentando un importante fenomeno, sono tuttavia secondo Powell [1991] solamente una parte delle tendenze presenti in un campo; è infatti necessario anche mettere a fuoco le fonti di eterogeneità, che dipendono dal dissenso tra i membri di un campo sull’interpretazione dei criteri relativi all’adozione dei criteri di sicurezza. Il campo della sicurezza, di conseguenza, risente sia dell’influenza di quel particolare ambiente dominato da un apparato simbolico-culturale cui gli attori devono conformarsi allo scopo di ottene-re sostegno e legittimazione, sia di quel particolare ambiente denominato tecnologico che invece impone soprattutto alle organizzazioni presenti nel campo valutazioni sulla base dei risultati raggiunti. I due ambienti non si escludono a vicenda, ma operano pressioni diversificate, contribuendo alla formazione di due dimensioni ‘decoupled’: una conforme al raggiungimento di standard di efficienza/efficacia, l’altra corrispondente a requisiti di tipo procedurale e cerimoniale. Le attività che si strutturano all’interno del cam-po della sicurezza sono quindi il prodotto di una costante interpretazione e reinterpretazione delle pressioni provenienti dagli attori individuali e col-lettivi che vi operano.

Di seguito cercheremo di chiarire come è composto il campo della sicurezza, quali siano gli attori che lo abitano, quali i frames interpretativi adottati e le modalità argomentative proposte in riferimento alla sicurezza sul lavoro, allo scopo di evidenziare le pressioni isomorfe, ma anche i processi riflessivi e pro-attivi nell’ambito delle pratiche situate.

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2. La dimensione normativa

Il nostro obiettivo in questa sede non è tanto quello di ricostruire le princi-pali tendenze evolutive in materia di normativa sulla salute e sicurezza sul lavoro ma di soffermarsi sul quadro legislativo attuale, che rappresenta la cornice entro cui è stata svolta l’analisi empirica. La ricostruzione di seguito proposta cercherà di disvelare il discorso pubblico che le normative veicolano a proposito della sicurezza del lavoro.

Il 9 aprile del 2008, in virtù di un rinnovato interesse per la salute e sicurezza sul lavoro3, viene emanato il D.Lgs. n.81 che abbozza il nuovo disegno regolativo italiano sul tema: il decreto sviluppa ulteriormente il le-game fra sicurezza ed organizzazione del lavoro, già peraltro enfatizzato con il decreto 6264, così come il carattere sistematico della prevenzione.

«La 626 è una legge rivoluzionaria, perché cancella la visione tayloristica. Tay-lor diceva tutto il potere ai dirigenti. Taylor diceva gli operai devono portare in fabbrica la forza muscolare e niente di più e non pensare a niente perché a pensare ci pensano i dirigenti. La 626 introduce una visione ben diversa perché dice che il lavoratore è il primo responsabile della sicurezza verso se stesso e verso i suoi compagni di lavoro e lo chiama a partecipare, a dare il suo contributo di intelligenza e professionalità per la soluzione ed il miglio-ramento della sicurezza» [Referente servizio di formazione e consulenza]

Gli aspetti di maggiore innovazione del decreto n. 81/08, noto anche come Testo Unico sulla Salute e Sicurezza con i suoi 306 articoli, sono sintetizzabili nelle seguenti dimensioni: a) l’estensione del campo di appli-cazione della tutela; b) la revisione del sistema di valutazione dei rischi; c) la promozione della cultura della prevenzione; d) il potenziamento delle

3 Fra le motivazioni di questo rinnovato interesse per il tema vanno ricordati: il forte impatto mediatico provocato da alcuni tragici eventi come ThyssenKrupp a Torino o Truck Center a Molfetta, l’intollerabilità del perdurare di una vecchia piaga quale è quella degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, la sensibilità espressa da parti autorevoli del mondo politico-istituzionale, a cominciare dal Presidente della Repubblica.

4 Il D. Lgs. 626/94 rappresenta una svolta nell’ordinamento italiano, obbligando le aziende ad assumere un atteggiamento di consapevolezza e responsabilizzazione nei con-fronti dell’organizzazione del lavoro, a partire da una nuova accezione di lavoratore, non più inteso come semplice manovale privo di capacità intellettuali, ma come soggetto com-piuto e pensante, corresponsabile della sicurezza sul lavoro. Il decreto recepisce, seppure in modo tardivo e frammentario, alcune direttive europee, in primis la ‘direttiva quadro’ 89/391/CEE, che propone una gestione rinnovata di natura ‘sistemica’, orientata cioè all’inclusione della problematica della sicurezza nell’ambito dell’intero processo organiz-zativo [Grassani, 2006].

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rappresentanze dei lavoratori; e) la razionalizzazione del sistema di vigilanza; f) la revisione delle sanzioni; g) le norme sugli appalti.

Entrando più nel dettaglio, si afferma il principio universalistico delle tutele a partire dalla definizione stessa del soggetto destinatario, ovvero il lavoratore identificato come «persona che, indipendentemente dalla tipolo-gia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari» (art. 2, lett. a). La normativa preven-zionistica viene così applicata «a tutti i lavoratori e lavoratrici, subordinati e autonomi5, nonché ai soggetti ad essi equiparati».

Si ampliano al contempo i concetti di salute e di rischio. Il primo non appare più limitato ad una dimensione ‘negativa’ di assenza di malattia, in-fermità o infortunio, ma viene inteso come uno «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale» (art. 2) secondo la storica definizione dell’Organiz-zazione Mondiale della Sanità (1948). In quest’ottica, la tutela della salute e la valutazione dei rischi si estendono sino ad includere la dimensione sociale e psicologica, comprendendo gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari quali quelli collegati allo stress lavoro-correlato. In merito a quest’ultimo tipo di rischio, è opportuno accennare alla circolare ministeriale del 18 no-vembre 2010 in cui vengono fornite alcune direttive generali alle imprese presenti sul territorio italiano, nell’ottica di favorire la tutela della salute individuale sul lavoro. La circolare individua infatti una serie di aspetti che le imprese devono sottoporre a costante valutazione: i «fattori di contenuto del lavoro» (l’ambiente di lavoro e le attrezzature, i carichi e i ritmi, l’orario di lavoro), i «fattori di contesto del lavoro» (l’autonomia decisionale dei/lle lavoratori/trici, i conflitti inter-personali, i modi attraverso cui avviene la comunicazione sul luogo di lavoro) e gli «eventi sentinella» (assenze per malattia, procedimenti, sanzioni e lamentele avvenute per ragioni legate al benessere e alla salute dei/lle lavoratori/trici). Il concetto di sicurezza viene progressivamente esteso sino a raggiungere ambiti più ampi come la qualità del lavoro e la soddisfazione per l’attività lavorativa.

Il decreto propone così per la prima volta una definizione di «valuta-zione dei rischi» intesa come «valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’orga-

5 Diversamente, il campo di applicazione soggettivo del d.lgs. 626/1994 era condizionato da una definizione di lavoratore ancora strettamente legata al concetto di subordinazione giuridica, laddove si faceva esplicito riferimento alla «persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro (…) con rapporto di lavoro subordinato anche speciale».

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nizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il pro-gramma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza» (art. 2, lett. q). Una definizione, che facendo esplicito richiamo all’organizzazione in quanto sede e fonte di rischi, pare evocare una prospettiva interpretativa di matrice organizzativa.

Vengono inoltre specificati gli elementi da riportare nel documento di valutazione dei rischi, in specie le procedure per l’attuazione delle misure di prevenzione-protezione e i ruoli/attori che sono ad esse adibiti. È infine proposta una visione della prevenzione come ‘fenomeno partecipato’ da tutti i componenti dell’organizzazione con un contestuale potenziamento del sistema di rappresentanza, i cosiddetti RLS. Gli obblighi e le responsabilità dei vari soggetti richiamati dal legislatore si declinano in quello che possia-mo definire come il sistema di prevenzione aziendale regolato dal Capo III del Titolo I del d.lgs. n. 81/2008, in cui lo stesso termine ‘sistema’ evoca l’idea di un’articolazione che presume la ‘partecipazione’ di tutti i soggetti coinvolti e che, al contempo, postula l’adozione di una serie di procedure predefinite. Fra esse spicca il ruolo della formazione e dell’informazione dei lavoratori in materia di sicurezza sul lavoro e in relazione ai rischi che essi corrono nell’ambiente in cui operano.

Per quanto riguarda sia la dimensione ispettiva che quella repressiva, si estende la responsabilità amministrativa e penale delle persone giuri-diche (di cui al decreto legislativo n. 231 del 2001) per i casi di lesioni causate da negligenze in relazione alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, valorizzando i modelli integrati di organizzazione e gestione delle politiche di sicurezza in azienda come fattori esimenti della stessa responsabilità6.

I successivi interventi normativi in tema di sicurezza sul lavoro proposti dalla nuova maggioranza governativa di destra, paiono invertire la linea di tendenza inaugurata dal d.lgs. n. 81: così il d.l. n.112/2008 abroga la norma secondo cui gli organi di vigilanza del Ministero del Lavoro, anche su segna-lazione delle amministrazioni pubbliche secondo le rispettive competenze, potevano adottare provvedimenti sospensivi dell’attività imprenditoriale in presenza di reiterate violazioni della disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale. Mentre il successi-

6 Questa disposizione se da un lato può avere fornito un impulso all’adozione di modelli integrati di gestione della sicurezza sul lavoro in un’ottica di miglioramento complessivo delle condizioni di lavoro, dall’altro, come sottolineato da alcuni testimoni intervistati, ha originato un «mercato improprio dove si compra l’esimenza» (Referente associazione sindacale).

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vo decreto legislativo 106/2009, correttivo del d.lgs. 81/20087, ridefinisce l’apparato sanzionatorio attenuando in molti casi la più severa previsione punitiva, depenalizzando alcune omissioni formali, tanto da essere denomi-nato emendamento ‘salva-manager’. In questo modo il decreto promuove una corresponsabilizzazione nella gestione della sicurezza a tutte le figure presenti a livello aziendale, con una evidente proiezione delle responsabilità ‘verso il basso’, in linea con il ‘Libro bianco sul futuro del modello sociale’ approvato dal Consiglio dei Ministri nel maggio del 2009 e con la campagna mediatica sulla sicurezza sul lavoro che è seguita8. Alle parti sociali e agli Enti Bilaterali è demandato il compito di avviare iniziative per la gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro ed è promossa l’adozione di percorsi di certificazione di conformità delle aziende. Un aspetto su cui non mancano critiche e perplessità, in virtù del rischio che si dia avvio ad un mercato peraltro poco controllato di certificazioni senza una reale attenzione alla sostanza.

3. Gli attori

Dopo avere sintetizzato i principali elementi relativi alla dimensione nor-mativa in tema di salute e sicurezza sul lavoro, ci concentreremo ora sulla mappatura degli attori implicati nella sua implementazione all’interno del-le organizzazioni, nonché sulle figure chiave che compongono il variegato arcipelago degli enti pubblici e privati che a vario titolo e con diversi livelli di coinvolgimento svolgono compiti ispettivi, di controllo, di regolazione normativa, di consulenza e di formazione.

7 Inoltre il decreto ridefinisce la figura del medico competente che poiché «collabora, se-condo quanto previsto dall’art. 29 comma 1 con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria», funge sostan-zialmente da consulente del datore di lavoro soprattutto per ciò che riguarda il processo di valutazione dei rischi, piuttosto che da medico deputato al rilascio dei giudizi di idoneità, con la previsione di specifiche sanzioni in caso di mancata collaborazione. In secondo luogo, introduce le visite mediche preventive in fase cosiddetta pre assuntiva o precedente alla ripresa del lavoro quando l’assenza si sia protratta per oltre 60 giorni.

8 Emblematiche sono le parole di un nostro interlocutore, che coglie una «regressione in atto» e sottolinea come «le trasformazioni del mercato del lavoro hanno spezzettato le esperienze lavorative, la capacità di essere soggetto contrattuale, per cui c’è un indebolimento collettivo dei lavoratori […] La salute dei lavoratori in tutto l’impianto mentale odierno è affidata all’impresa, ma l’impresa essendo un soggetto pieno di conflitti di interesse non può essere il soggetto che fa tutto: delegare tutta la gestione della sicurezza all’impresa senza dei contrappesi è estremamente pericoloso» (Referente Associazione sindacale).

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Il ‘campo della sicurezza sul lavoro’ è così costituito da un insieme multivocale ed eterogeneo di attori che nel corso degli anni ha subito un progressivo ampliamento a seguito dell’evoluzione normativa, della nascita di nuove istituzioni e/o organizzazioni, dell’affidamento di nuove funzioni ad organismi già esistenti. Esso si compone anche di una moltitudine di attività ed azioni riconducibili a varie dimensioni: normativa, ispettiva e repressiva, tecnica e consulenziale, formativa ed educativa.

Procedendo a cascata si possono individuare nel ‘campo della sicurez-za sul lavoro’ diversi attori che corrispondono a differenti livelli legislativi: internazionale, europeo, nazionale e locale, seppure la nostra attenzione si soffermi più nel dettaglio sugli ultimi due. La funzione di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro spetta in primis allo Stato che la esercita attraverso il Ministero della Salute, il quale definisce nel Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) gli obiettivi triennali di salute del nostro paese concertandoli con le Regioni. Il Ministero opera nel contesto istituzionale sancito dalla riforma della Costituzione del 2001 che ha attribuito potestà concorrenti in materia di «tutela e sicurezza sul lavoro» alle Regioni stesse, le quali, in base al Decreto legislativo 81/2008, hanno assunto un ruolo ancor più evoluto e complesso. Mediante «relazioni stabili e strutturate con gli Organismi di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro ed un sistematico coordinamento tra gli Enti pubblici competenti in materia (la Direzione regionale del lavoro, l’Inail, l’Inps, i Vigili del fuoco, nonché con Associazioni di rappresentanza degli Enti Locali: ANCI-Associazione Nazionale Comuni Italiani e UPI-Unione Province Italiane)», le Regioni devono infatti indirizzare, programmare e coordinare le attività di pre-venzione assicurando la realizzazione di iniziative di comunicazione, in-formazione, formazione ed assistenza dirette ai lavoratori e alle imprese e devono garantire la programmazione e il coordinamento dell’attività di vigilanza realizzata dai Dipartimenti di Sanità Pubblica delle Aziende USL (Monterastelli 2010). Si realizza così un’ulteriore tappa del processo di decentramento già avviato nelle linee ispiratrici della Legge 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale e nel successivo processo di riordino degli anni ’90, che attribuiva all’istituzione regionale un ruolo fondamentale nella programmazione, organizzazione e gestione dei servizi sanitari.

Proprio al fine di garantire la completa attuazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, il d.lgs. n. 81/2008 ha istituito presso il Ministero della salute tre diversi organismi, concorrendo con ciò ad una rivisitazione del sistema istituzionale della prevenzione:

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– il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro9, che riveste una rilevanza strategica sia in termini di coordinamento delle attività di vigilanza che di azione politica;

– la Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro10 tesa alla promozione della cultura della prevenzione e la qualificazione delle azioni in materia, mediante azioni di valutazione ed analisi dei problemi applicativi della normativa, formulazione di proposte di miglioramento, validazione di buone pratiche, predisposizione di procedure standardiz-zate e di criteri per la valutazione dei rischi;

– il Coordinamento tecnico interregionale della prevenzione nei luoghi di lavoro che definisce linee di indirizzo ed elabora documenti, proposte ed iniziative a livello coordinato ed in sinergia con i Ministeri, gli Enti, gli Istituti centrali, le Associazioni e le Parti sociali coinvolte.A questi organismi si affianca il Sistema informativo nazionale per la prevenzio-

ne11 (SINP) nei luoghi di lavoro, istituito dall’art. 8 del decreto 81/2008 con l’obiettivo di gestire dati ed informazioni utili alla programmazione, indirizzo e valutazione dell’efficacia delle attività di prevenzione degli infortuni e delle

9 Si tratta di un Comitato nazionale di indirizzo e di coordinamento che, in base ai dettami dell’art. 5 del D.Lgs. 81/2008, funge da “cabina di regia”, raccogliendo in parte le eredità della Commissione centrale di coordinamento dell’attività ispettiva e di controllo degli adempimenti fiscali, contributivi e di sicurezza nei luoghi di lavoro (D.M. 23.09.99 del Ministero del Lavoro). È presieduto dal Ministro della Salute ed ha una composizione mista: due membri dello stesso Ministero, due rappresentanti del Ministero del lavoro e della Previdenza Sociale, uno del Ministero dell’Interno e del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, cinque membri delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano, nonché un componente per gli enti Inail, Ispesl e Ipsema che partecipano però con una funzione puramente consultiva.

10 La Commissione si compone di un membro designato da nove Ministeri (Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, della Salute, dello Sviluppo Economico, dell’Interno, della Difesa, delle Infrastrutture, dei Trasporti, delle Politiche Agricole alimentari e forestali, della Solidarietà Sociale), di un membro della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di dieci rappresentanti delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e di Bolzano individuati dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano, di venti esperti indicati in misura paritaria dalle organizzazioni sin-dacali e datoriali più rappresentative. A costoro possono aggiungersi membri di altri istituti pubblici che hanno competenza in materia ed eventuali altri esperti in settori di interesse per i lavori della Commissione.

11 Il Sistema è costituito da una pluralità di soggetti istituzionali: i Ministeri del Lavoro e della Previdenza Sociale, della Salute, dell’Interno, dalle Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano, nonché Inail, Ipsema, Ispesl, con il supporto del Cnel e il contributo di or-ganismi paritetici e istituti di settore. Anche le parti sociali possono consultare periodicamente i flussi informativi elaborati dal SINP, con l’eccezione di quelli relativi alle attività di vigilanza.

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malattie professionali, così come all’orientamento e alla pianificazione delle attività di vigilanza mediante l’uso integrato dei dati al momento disponibili nei sistemi informativi dei vari enti e la creazione di apposite banche dati unificate.

In ambito regionale vengono poi assegnati compiti specifici in tema di promozione del benessere nei contesti di lavoro al Comitato regionale di coordinamento delle attività di prevenzione e vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che svolge attività di orientamento e pianificazione delle attività di vigilanza e prevenzione, così come attività di formazione, informazione, comunicazione e assistenza, fornendo suggerimenti operativi e tecnici volti alla riduzione del fenomeno infortunistico e delle malattie professionali, alla valorizzazione di comportamenti tesi a migliorare i livelli di tutela della salute e della sicurezza, e all’Ufficio operativo regionale che vanta fra le sue funzioni la predisposizione di programmi congiunti e condivisi di vigilanza in materia di igiene e sicurezza sul lavoro e la definizione delle priorità di intervento nei settori lavorativi.

Come già anticipato, l’attività ispettiva e di controllo, sia essa program-mata o richiesta dall’Autorità Giudiziaria, spetta ai Dipartimenti di Sanità Pubblica delle Aziende USL e in essi alle Unità Operative di Prevenzione e Sicu-rezza negli ambienti di lavoro (UOPSAL12). L’obiettivo ultimo è di contribuire alla prevenzione delle malattie professionali e degli infortuni sul lavoro e pertanto al miglioramento del benessere del lavoratore mediante la vigilanza sul campo, la verifica dell’applicazione delle norme in materia di igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro, la misurazione dei fattori di rischio chimici o fisici, il riconoscimento delle cause e delle responsabilità in caso di evento infortunistico. Tale competenza, prima dell’entrata in vigore della Legge 833/1978, era svolta esclusivamente dal Ministero del Lavoro tramite la figura dell’Ispettorato del lavoro, che conserva ancora oggi alcune funzio-ni seppure limitatamente a specifici settori produttivi tra cui quello edile. All’attività ispettiva di contrasto a fenomeni di criminalità legati allo sfrut-tamento del lavoro e di rispetto delle condizioni di sicurezza collaborano contestualmente il Nucleo dei Carabinieri per la tutela del lavoro e dei Vigili del fuoco. Sul terreno della vigilanza viene in questo modo confermato l’assetto plurale già tratteggiato dal d.lgs. n. 626/1994, con il conseguente rischio di sovrapposizione fra interventi e interpretazioni difformi, da cui l’esigenza di un’opera di coordinamento alla quale sembra in parte rispondere la ‘nuova’

12 Una precisazione sembra in questa sede opportuna: il servizio assume varie denomina-zioni nelle singole Regioni, pertanto troviamo indistintamente UOPSAL, SPSAL, SPreSAL, Spesal, SPISAL, Spisll, UOML etc.

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Commissione per gli interpelli istituita con il decreto 81/2008 e chiamata a fornire criteri interpretativi della disciplina in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Lo stesso Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali assume alcuni compiti e responsabilità in tema di promozione della salute e sicurezza ne-gli ambienti di lavoro. Nello specifico, il Ministero ha istituito un ‘Fondo speciale infortuni’ che consiste in fondi di ricerca destinati allo sviluppo e al perfezionamento di studi ed analisi sulle discipline infortunistiche e di medicina sociale, nonché un ‘Fondo di sostegno per i familiari delle vittime di gravi infortuni sul lavoro’ con lo scopo di fornire un tempestivo supporto ai familiari dei lavoratori, assicurati o meno, vittime di incidenti sul lavoro. Inoltre, al suo interno due Direzioni si occupano della tutela della sicurezza sul lavoro: la Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro e la Direzione generale per l’attività ispettiva. La prima vanta fra le sue competenze la verifica dell’applicazione della legislazione attinente alla sicurezza e alla salute sui luoghi di lavoro e la disciplina dei profili di sicurezza nell’impiego sul lavoro di macchinari ed impianti industriali; la seconda invece dirige e coordina le attività di vigilanza e controllo in materia di tutela delle condizioni di lavoro, ivi compreso il rispetto della legislazione attinente la sicurezza.

Accanto a queste istituzioni vanno annoverati altri importanti enti pubblici con competenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro (art. 9) che esercitano le proprie attività, anche di consulenza, in una logica di sistema con il Ministero della Salute, il Ministero del Lavoro, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. In primo luogo l’INAIL - Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro - che in qualità di gestore dell’assicurazione obbligatoria contro gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali raccoglie e registra i dati relativi agli eventi infortunistici, concorrendo alla realizzazione di studi e ricerche volte alla riduzione del fenomeno e alla promozione della ‘cultura della sicurez-za’. In quest’ottica la sua attività comprende anche importanti iniziative mirate alla formazione e consulenza a sostegno della piena applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, così come al finanziamento di imprese, soprattutto piccole e medie, che dimostrano di investire nella prevenzione. Inoltre, per effetto della manovra economica varata dal Governo Berlusconi nel 2010 (legge n. 122 del 30 luglio del 201013), l’INAIL ha acquisito le funzioni precedentemente svolte dagli istituti dell’ISPESL, Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, e dell’IPSEMA, Istituto di previdenza per il settore marittimo. Laddove il primo,

13 Il 2010 segna la nascita del Polo della salute e della sicurezza sul lavoro, risultato dell’in-corporazione di questi tre istituti.

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organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale, ha da sempre svolto attività di documentazione e ricerca in tema di prevenzione e tutela della salute, di formazione, informazione e consulenza, fungendo al con-tempo da focal point italiano nel network informativo dell’Agenzia europea per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro14; il secondo, oltre a gestire l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali del settore marittimo, ha promosso studi, ricerche, progetti di investimento e formazione in materia di salute e sicurezza dei lavoratori del mare. In estrema sintesi, a seguito della più recente riforma che ha coin-volti gli assetti dei diversi organismi, le molteplici attività dell’INAIL sono riconducibili a quattro macroaree di intervento: la vigilanza, lo sviluppo del ‘patrimonio informativo15‘ e la gestione tecnica del SINP, le attività di consulenza, informazione, assistenza e formazione (complessivamente la diffusione della cultura della prevenzione sul lavoro, mediante una pluralità di strumenti e dispositivi: opuscoli, prodotti multimediali, testi dedicati, convegni e seminari), il sostegno economico alle imprese (attraverso pro-grammi di adeguamento delle strutture organizzative alle norme sulla si-curezza e progetti per favorire l’implementazione degli obblighi formativi).

Ed ancora ricordiamo l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro (ANMIL) che, a partire dal 1943, svolge compiti di rappresentanza e tutela delle vittime di infortuni sul lavoro (mutilati ed invalidi del lavoro), nonché delle rispettive vedove ed orfani.

Ma soprattutto il ‘campo della sicurezza’ si compone di una moltitudine di enti di certificazione, composto da una miriade di enti ed organismi atti a verificare e attestare l’implementazione di un Sistema di gestione della sicurezza e della salute dei lavoratori nelle aziende o l’adesione a standard riconosciuti, internazionali e/o nazionali tali da garantire l’esimenza rispetto alla responsabilità amministrativa16; inoltre, è stato istituito l’organismo unico nazionale di accreditamento denominato ACCREDIA. Riconosciuto dallo Stato nel dicembre 2009 Accredia possiede la specifica responsabilità di ac-creditare la competenza tecnica e l’idoneità professionale degli operatori di valutazione della conformità (Laboratori, Organismi, Enti di certificazione) delle aziende, accertandone la rispondenza a regole obbligatorie e norme

14 L’European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA) viene costituita nel 1996 dall’Unione europea con sede a Bilbao, in Spagna, come principale punto di riferimento per la sicurezza e la salute sul lavoro.

15 In termini di sviluppo del ‘patrimonio informativo’ non possiamo non menzionare anche l’ISTAT-Istituto nazionale di statistica, che fra le varie analisi annovera anche rilevazioni sull’esposizione a fattori di rischio.

16 Si veda a tale proposito il paragrafo successivo.

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volontarie, garantendo così il valore e la credibilità delle certificazioni (com-prese le certificazioni sulla sicurezza sul lavoro, lo standard Ohsas 18001).

«Accredia è l’ente nazionale unico di accreditamento, si occupa di certificare gli organismi certificatori. Accreditare è una funzione riservata dall’UE alla verifica di conformità verso requisiti specifici di quegli organismi che certifi-cano le aziende a fronte di norme come la 9001, la 14000, la 18001 in tema di salute e sicurezza sul lavoro o i laboratori di prova […] Mentre per gli organismi di certificazione non esiste quest’esigenza di monopolio, per l’ente di accreditamento, che è un’autorità a tutti gli effetti, il braccio operativo di un’autorità, è necessaria al fine di evitare che possano esservi approcci di dumping rispetto alle regole» [Referente Accredia]

Questo insieme composito di attori costituisce quella che possiamo de-finire come un’arena istituzionale la cui attività si manifesta in primis nella promulgazione di una serie di norme, regolamenti e testi derivati (atti in-terpretativi e/o attuativi delle norme, circolari, linee guida) che tendono a diffondere credenze socialmente legittimate cui adeguarsi su che cosa si debba intendere per sicurezza sul lavoro facendo leva soprattutto su alcuni concetti: responsabilità, imputabilità e punibilità. Parallelamente si collocano i dispositivi prodotti dal microcosmo dei tecnici, degli esperti e dei certifica-tori sotto forma di standard tecnici, certificazioni e check-list, che tendono a proporre un ‘discorso’ ingegneristico fatto di quantificazione del rischio e alimentato da una razionalità di tipo tecnico-scientifica.

Ad arricchire ulteriormente il ‘campo della sicurezza sul lavoro’ contri-buiscono le organizzazioni di rappresentanza, aziendale e sindacale (com-presi i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza - RLS), che con le proprie visioni promuovono attività di informazione, assistenza, consulenza e supporto utili allo sviluppo della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro sia a livello sia nazionale che locale.

La sinergia e l’impegno di questi due distinti mondi confluiscono inoltre nell’attività dei cosiddetti ‘organismi paritetici17‘ (o enti bilaterali) che offrono attività di formazione, informazione e controllo nelle diverse realtà locali volte alla promozione del benessere dei lavoratori. Agli organismi bilaterali è attribuita anche, in base all’art. 51 comma 3-bis del D.lgs 81/08 integrato dal D.lgs 106/09, la funzione di asseverare, in collaborazione con soggetti specializzati e operanti nel settore, i modelli di organizzazione e gestione

17 Il termine paritetico indica l’equa presenza delle parti sociali, laddove la bilateralità si manifesta in una pratica in cui le stesse parti si impegnano a sottrarre al conflitto alcune tematiche ed obiettivi di interesse comune su cui operare congiuntamente (fra i quali la prevenzione dei rischi professionali e la promozione della sicurezza sul lavoro).

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della sicurezza (SGSL) scelti dalle aziende richiedenti, ossia verificarne l’ef-ficace attuazione, controllando che gli interventi adottati soddisfino tutti gli obblighi giuridici, laddove l’asseverazione di fatto ha efficacia esimente ai sensi della legge 231 con i relativi benefici.

«Questo è un punto molto delicato nella normativa […] questo discorso degli enti bilaterali, di questa attività di sopralluogo che potrebbero fare con attività di certificazione, con punti molto ambigui perché si dice che se l’ente bilaterale certifica addirittura l’Asl non dovrebbe più fare vigilanza in quelle aziende, quindi si aprirebbero spazi di discrezionalità ed ambiguità enormi» [ex direttore SPSAL]

Nel campo della sicurezza non possiamo inoltre non ricordare l’arcipelago della formazione e delle consulenze. Le attività formative ed educative nei confronti della sicurezza sul lavoro hanno assunto con l’evoluzione legislativa una posizione sempre più centrale nella promozione e sviluppo della cultura della prevenzione. Molteplici sono gli enti e le organizzazioni18 che offrono servizi di consulenza, formazione ed informazione su questo specifico tema; così come molteplici sono i corsi che la normativa prevede, rivolti ai differenti attori corresponsabili della sicurezza; ed ancora molteplici sono i dispositivi e gli artefatti che ne scaturiscono: manuali, opuscoli, depliant informativi, pro-dotti video ed altro, veicoli di informazioni, competenze e professionalità. Tali prodotti derivano da un complesso lavoro di traslazione basato sulla trasforma-zione e diffusione del sapere e sul trasferimento della conoscenza da un luogo all’altro. Essi possono rappresentare anche un tentativo di condizionamento delle pratiche di lavoro esistenti costituendone di nuove (Nicolini 2001, p. 104).

Si tratta di un microcosmo che raccoglie un mix sfaccettato di esperti, cultori e professionisti di diversa matrice – tecnico-ingegneristica, giuslavo-rista, organizzativa – e negli ultimi anni, a partire dall’introduzione dell’ob-bligo di inserire nella valutazione dei rischi anche quelli psico-sociali come lo stress lavoro-correlato, anche psicologica. In quest’ottica si inquadrano attività ed interventi posti in essere dall’Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna (seminari, convegni, opuscoli, orientamenti19), al fine di formare, informare

18 Esiste persino l’Associazione Nazionale Formatori della Sicurezza sul Lavoro - ANFOS che pro-muove a favore dei soggetti formatori attività di informazione, studio e ricerca, nonché ini-ziative, convegni e seminari tendenti a favorire la crescita professionale degli aderenti. Inoltre, fornisce servizi di consulenza e formazione su tutto il territorio nazionale.

19 Ci riferiamo principalmente all’orientamento per gli Psicologi in merito alle valutazioni e agli interventi previsti dal Dlgs. 81/2008 dal titolo «Buone pratiche di intervento sullo stress lavoro-correlato» che riprendendo le parole di un testimone significativo intervistato nasce per rispondere alle domande avanzate da colleghi: «Come dobbiamo fare? Come dobbiamo

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e fornire supporto ai colleghi che trattano questo tema e promuovono la qualità del lavoro e del benessere dei lavoratori.

Sempre rimanendo a livello locale, fra gli organismi di consulenza e formazione ricordiamo il SIRS – Servizio Informativo Rappresentanti dei Lavora-tori per la Sicurezza – che rappresenta una peculiarità del territorio regionale emiliano-romagnolo e prende vita nel 1998 su impulso delle organizzazioni sindacali e dell’amministrazione provinciale bolognesi, con l’obiettivo di of-frire assistenza, informazione, formazione e supporto ai Rappresentanti dei Lavoratori per la sicurezza (RLS).

«È un servizio nato per dare supporto, informazione, formazione –se richiesta – ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza in provincia di Bologna. È nato con questo obiettivo attraverso accordi fra le aziende Ausl di Bo e Imola, la provincia di Bologna e le organizzazioni sindacali più rappresen-tative (CGIL, CISL, UIL). A queste si sono poi unite in un secondo tempo e attualmente ne fanno parte: l’Inail di Bo, la DPL di Bo e il comune di Bologna» [Referente SIRS – Servizio Informativo dei Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza]

Ed infine non possiamo non citare la Fondazione Istituto per il Lavoro – IpL di Bologna che per quasi un decennio ha promosso e svolto attività di studio e ricerca sui temi del lavoro, con un’attenzione particolare alla promozione della qualità e della sicurezza sul lavoro, diffondendo conoscenze tecnico-organizzative ed esperienze positive negli otto Rapporti annuali sui temi del-la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro in Emilia Romagna. Un’esperienza questa che si è tuttavia conclusa per carenza di risorse, a dimostrazione che «la salute e sicurezza è un tema che non paga da un punto di vista politico-elettorale» (Referente associazione sindacale), neppure in ambito locale. Oggi la realizzazione e gestione di sistemi informativi e osservatori in tema di sicurezza sul lavoro sono state accorpate alle funzioni di Nuova Quasco, società consortile degli enti pubblici della Regione Emilia-Romagna con un evidente cambiamento di approccio che privilegia il dato oggettivo e quantitativo anziché la lettura organizzativa e multidisciplinare.

L’intreccio nella produzione dei dispositivi sin qui descritti, esito dell’in-terazione fra l’insieme multiforme di attori che abbiamo tratteggiato, con-

comportarci?, per fare chiarezza, per incoraggiare verso alcuni tipi di intervento, ma anche per chiarire che è difficile improvvisarsi psicologi del lavoro. Abbiamo elaborato questi orientamenti che sono un buon modo di rispondere e anche una presentazione esterna: la comunità degli psicologi dice quali sono secondo lei i criteri che, indipendentemente da ciò che chiede la legge, per una buona pratica professionale è utile considerare. Segnala quali sono le caratteristiche e gli strumenti utili, segnala quali sono gli standard sotto i quali, se il processo di valutazione scende, lo rende meno affidabile» (Psicologo del lavoro).

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corre alla definizione di volta in volta prevalente di ‘sicurezza sul lavoro’: rispetto e formale applicazione della legislazione vigente, responsabilizzazio-ne, imputabilità e punibilità, interpretazione dei fattori di rischio, etica della professione. In questa direzione la sicurezza sul lavoro sembra configurarsi come il risultato finale di un processo di costruzione collettivo, e in quanto tale dinamico e contingente: «una costellazione di potere e poteri» [Nicolini 2001, p. 114].

Tuttavia a concorrere a questa costruzione è anche il corpo di attori chiave entro ogni singolo contesto organizzativo (pubblico e privato), ai quali sono attribuiti specifici ruoli, competenze, profili formativi. In sintesi, sulla base della più recente normativa di settore essi sono20:– Datore di lavoro: l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio

dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’espe-rienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la per-sonalità morale dei lavoratori (art. 2087 c.c.). Sulla base del ruolo, delle responsabilità e del regime sanzionatorio a carico del datore di lavoro si evidenzia un quadro variegato di attività obbligatorie che in sintesi riguardano: l’organizzazione della struttura per sicurezza; l’analisi/valu-tazione di tutti i rischi e la programmazione del piano di miglioramento della sicurezza; la gestione della sicurezza sul lavoro; la sorveglianza sulle condotte aziendali in materia. In particolare, il datore di lavoro deve precisare la struttura organizzativa per la sicurezza all’interno della propria azienda, individuando i vari soggetti, tra i quali: il Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, i Dirigenti della sicurezza, i Preposti della sicurezza, gli Addetti per l’emergenza;

– Dirigente: persona che in ragione delle competenze professionali e di po-teri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa. Nella gestione della attività aziendale deve attuare la politica, le linee guida e le indicazioni di carattere generale fornite dal datore di lavoro, anche organizzando l’attività lavorativa e vigilando sull’operato dei preposti;

– Preposto: persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende all’attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale ‘potere di iniziativa’. So-vrintende e vigila sull’osservanza della legge e disposizioni aziendali in

20 Cfr. Decreto n. 81/2008.

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materia di sicurezza, garantisce l’attuazione delle disposizioni ricevute, controlla che le disposizioni impartite vengano osservate da parte dei lavoratori, segnala ai vertici aziendali eventuali pericoli non adeguata-mente gestiti o carenze nei sistemi di protezione;

– Servizio di Prevenzione e Protezione (SPP): insieme delle persone, si-stemi e mezzi esterni o interni all’azienda finalizzati all’attività di pre-venzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori. Il servizio provvede: all’individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale; all’elabora-zione, per quanto di competenza, delle misure preventive e protettive e dei sistemi di controllo di tali misure; ad elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali; alla proposta di programmi di informazione e formazione dei lavoratori; partecipa alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica; a fornire ai lavoratori le informazioni relative alla sicurezza.

– Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP): persona (interna o esterna all’azienda, a seconda del tipo di azienda) in possesso delle capacità e dei requisiti professionali previsti dalla normativa, desi-gnata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il Servizio di prevenzione e protezione dai rischi. Tale figura collabora con il datore di lavoro, il medico competente e il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza alla realizzazione del Documento di valutazione dei rischi; partecipa inoltre insieme al medico competente ed al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza alla riunione periodica indetta annualmente dal datore di lavoro.

– Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (R.L.S.): persona eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro, al quale il datore di lavoro deve garantire la formazione necessaria per gestire i rapporti con i lavoratori per questioni che riguardano la salute e la sicurezza sul lavoro. Il Rappresentante è eletto dai lavoratori, con diverse modalità, a seconda del numero di dipendenti occupati nell’azienda: le aziende che occupano non più di 15 lavoratori, votano il Rappresentante scegliendolo tra i dipendenti, mentre le aziende che contano più di 15 lavoratori, eleggono il Rap-presentante per la sicurezza all’interno delle rappresentanze sindacali aziendali.

– Lavoratore: persona che, indipendentemente dalla tipologia contrat-tuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un

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datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari.

– Medico competente: insieme al RSPP ed ai RLS è responsabile del conseguimento degli obiettivi prefissati dal sistema di gestione della si-curezza aziendale; concorre sinergicamente alla definizione di nuovi piani, programmi e procedure volti al miglioramento dei livelli di salute e di sicurezza.

4. Le pressioni isomorfe

A seguito di questa rapida mappatura degli attori con le rispettive funzioni e responsabilità che costituiscono il campo della sicurezza, ci soffermeremo ora sulle forze presenti all’interno ed all’esterno del campo della sicurezza per cogliere le pressioni esercitate nell’orientare i comportamenti concreti dei soggetti e nella definire le concrete condizioni di lavoro entro le quali prendono forma gli attributi di salute e sicurezza. In questo quadro la cornice normativa, peraltro già sinteticamente tratteggiata nel primo paragrafo, ha un ruolo essenziale poiché veicola l’adozione di standard internazionali e/o nazionali, procedure di certificazione, oltre a premere per l’introduzione di modelli organizzativi codificati.

Il testo unico 81/2008 all’articolo 30 definisce appunto il ‘modello di organizzazione e gestione della sicurezza’ come «sistema organizzativo per gestire in un’ottica di prevenzione e di miglioramento continuo le problema-tiche relative alla salute e sicurezza dei lavoratori e di tutti i soggetti esposti ai rischi associati alle attività dell’azienda». Sintetizzando, si tratta dell’insieme complesso di pratiche e funzioni integrate volte ad un obiettivo comune, che nel caso specifico è il miglioramento della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e il conseguente raggiungimento dell’ambizioso obiettivo del ‘rischio zero’. Lo stesso articolo attribuisce a tali modelli organizzativi una effica-cia esimente rispetto alla responsabilità amministrativa prevista dal D. Lgs. 231/01 purché definiti in conformità a standard nazionali o internazionali rappresentati dalle Linee Guida UNI INAIL e dalle norme BS OHSAS 18001. La procedura di certificazione presume pertanto l’adesione da parte dell’organizzazione ad uno specifico standard di riferimento che si compone di un insieme rigoroso di procedure afferenti alla garanzia della qualità della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro, a partire dalla cogenza ed osservanza della normativa nazionale sulla tutela dei lavoratori dai rischi (prescrizioni sulle macchine, il rumore, le radiazioni, l’ergonomia etc.).

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Quanto detto, unitamente alla natura volontaria della certificazione21, lascerebbe presumere che la condivisione di un sistema di gestione della sa-lute e sicurezza sul lavoro (SGSL) equivalga ad un concreto interessamento verso il miglioramento continuo delle condizioni di lavoro. Calandosi però nei luoghi di lavoro che sono stati studiati, si possono cogliere ambivalenze, tensioni e difformità di lettura. In effetti sappiamo che seppure il concetto di standard è generalmente ricondotto a una semplice norma, regola o a una linea guida astratta e generale da seguire, esso assume una propria caratterizzazione nelle pratiche quotidiane ed entro uno specifico contesto d’uso a seguito di un processo di re-interpretazione locale e situato [Brunsson Jacobsson 2000]. Di certo, il meccanismo di certificazione può rappresentare un ‘valore aggiunto’ per le aziende aderenti e sulle sue potenzialità concor-dano i nostri interlocutori.

«Secondo me varia il valore della certificazione da caso a caso, quindi non c’è un valore assoluto di questo sistema, perché se la certificazione viene vista da alcune aziende, anche che conosciamo, come un reale strumento per migliorare la qualità complessiva, quindi comprendere all’interno tutte le problematiche che riguardano la sicurezza e la salute dei lavoratori, allora va bene, è uno strumento utile perché metodologicamente offre dei percorsi, degli strumenti di verifica, delle autovalutazioni, delle valutazioni esterne. Se invece è un problema di immagine, non serve a nulla, e ne troviamo di questi casi […] non obbligatoriamente le due logiche vanno di pari passo. Quindi diciamo che è uno strumento utile ma solo se viene inserito in un processo di cambiamento della cultura dell’impresa» [Direttore Spsal-Servizio preven-zione sicurezza ambienti di lavoro]

Come si evince dalla testimonianza sopra riportata, l’adozione di uno standard, che in questo caso specifico consiste in un particolare sistema di gestione della sicurezza, può essere motivata da un mix complesso ed articolato di ragioni, di natura organizzativa interna, di massimizzazione economica, di matrice culturale, ma anche derivanti da pressioni isomor-fe esterne dell’ambiente istituzionale che premono per adeguamenti ritua-li dell’organizzazione a criteri legittimati socialmente [DiMaggio, Powell

21 A tale proposito riportiamo le parole di un intervistato: «La certificazione è nata come processo volontario, indipendente rispetto agli aspetti normativi con un solo vincolo, ossia che la certificazione rivolta ad un sistema di gestione non può sussistere in assenza di una conformità legislativa, cioè uno dei primi presupposti e requisiti è la conformità alle leggi cogenti. Quindi si parte dalla conformità per le leggi cogenti e da lì ci si muove per poter andare a valutare lo sviluppo dell’organizzazione in un’ottica di efficacia e pro-attività, ma non è possibile prescindere dal fatto che l’organizzazione deve essere in primis conforme alle leggi» (Referente Accredia).

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2000]. Nei primi casi, le ragioni sono riconducibili alla ricerca della pre-venzione, al miglioramento della qualità del lavoro e della produttività; nei secondi invece le logiche sono maggiormente orientate alla proiezione del brand e dell’immagine aziendale verso l’esterno: il mercato, i clienti e i potenziali investitori. In questo senso la scelta di aderire ad uno standard è strettamente connessa ai vantaggi in termini di legittimazione che esso può apportare all’organizzazione che decide di adottarlo.

Spesso la logica ritualistica di mero calcolo costi-benefici prevale sulla spinta etico-morale di responsabilità verso la salvaguardia dell’integrità psi-co-fisica dei lavoratori, impulso per altro richiamato dalla Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro come principio fondamentale per le imprese che vogliono contribuire a una società migliore [2001]. In questo quadro l’entrata in vigore del d.lgs. 81/2008, che come già accennato pre-vede all’articolo 30 che questo adempimento garantisca all’azienda l’esonero rispetto alle pesanti sanzioni della responsabilità amministrativa in caso di incidente o grave infortunio, ha dato vita ad un vero e proprio ‘mercato della certificazione’, in cui a società serie e accreditate22 si affiancano realtà di dubbio valore. La consulenza viene così a rappresentare uno degli anelli deboli della catena della sicurezza, in quanto, anche se non accreditata, non è soggetta a particolari controlli, eccetto la presunta attenta valutazione che l’imprenditore dovrebbe rivolgere almeno alle sue referenze.

«Il meccanismo della certificazione è una grande invenzione: in un paese serio di tipo calvinista io certifico quello che faccio, faccio quello che scrivo e scrivo quello che faccio, prendo tutto sul serio, in Italia invece c’è un’altra logica di fondo, quella dell’adempimento burocratico: per cui non faccio l’Iso 9001, la Sa8000, la OSHAS 18001 perché voglio darmi uno sviluppo organizzativo migliore e avere una maggiore efficacia gestionale, ma mi certifico per essere in regola […] L’art. 30 dell’81 dice che se succede un guaio in azienda e l’azienda ha adottato un sistema di salute e sicurezza ha l’esimenza dalla re-

22 Come si evince da una testimonianza raccolta: «Fondamentalmente lavorare sotto accreditamento significa rispettare delle regole che sono all’interno del regolamento tecnico RT12 di Accredia, che sono regole molto stringenti dal punto di vista di ore da spendere, giorni da spendere in azienda per la verifica ispettiva, che, confrontando i tempi con quelli di altri standard tipo la qualità e l’ambiente sono molto di più e questo è un peso per le aziende perché significa spendere di più, perché le verifiche poi costano e noi vendiamo verifiche, che significa che ci facciamo pagare per giorni di verifica ispettiva. Per cui per le aziende è una certificazione che costa di più. Dal punto di vista dell’ente di certificazione questo comporta sicuramente un impegno maggiore di gestione della pratica anche perché l’art. 12 è abbastanza dettagliato su quello che dobbiamo andare a vedere in azienda e quindi ci dà dei paletti, oltre al numero di giornate, molto stringenti» (Referente Società di certificazione). Di contro, però «ottenere una certificazione da un ente accreditato, quindi aderire a standard e regolamenti tecnici più rigorosi e dettagliati […] offre maggiori garanzie […] perché il mondo accreditato segue delle regole che a volte sono più pesanti ma la pesantezza è giustificata dalla garanzia».

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sponsabilità amministrativa, il datore di lavoro o il titolare o l’amministratore delegato, questo cos’ha originato? La nascita di un mercato improprio dove si compra l’esimenza, e siamo dentro ad una logica di questo tipo» [Referente Associazione sindacale]

Non è un caso se l’utilizzo delle certificazioni per i SGSL da parte delle aziende ha subito una crescita esponenziale, in specie negli ultimi due anni, passando da 140 a 1667 fra il 2002 e il 2009, per salire a 5.566 nel 2011 [Di Nunzio 2011].

Lo stesso panorama imprenditoriale si configura come multiforme e sfaccettato al suo interno, con ai due poli aziende virtuose orientate ad un miglioramento continuo e imprese mosse semplicemente dalla ricerca di sconti ed agevolazioni.

«Altro che la mano invisibile di Smith, qui occorre una mano molto presente e che mena forte, perché sennò il tentativo di guardare il tutto in un’ottica esclusivamente economica e di denaro fa sì che ad aziende davvero virtuose si mescolino realtà che sono squallide dal punto di vista della sicurezza e che hanno una visione riduttiva soltanto legata alla ricerca dell’agevolazione con una logica assistenzialistica e che poi porta invece a non avere una cultura della sicurezza» [Referente Accredia]

Proprio l’efficacia esimente viene riconosciuta fra le principali motiva-zioni che hanno condotto una delle realtà esaminate ad avviare il processo di certificazione Ohsas 1800123, o meglio viene indicata come «la spinta definitiva» in quanto percepita come ulteriore forma di tutela dell’impresa, enfatizzando così il prevalere di una lettura ancora strumentale. Tale processo di certifica-zione, descritto da più voci come complesso e rigoroso, comprendente rigide regole e monitoraggi ripetuti ed estende senza dubbio, ed è bene sottolinearlo, anche la sensibilità verso il tema della sicurezza sul lavoro, spesso riducendo la probabilità di incidenti, con conseguenti risparmi economici ed umani e possibilità di accesso a polizze assicurative più vantaggiose.

23 L’acronimo OHSAS sta per Occupational Health and Safety Assessment Series ed identifica uno standard internazionale per il sistema di gestione della Sicurezza e della Salute dei Lavora-tori. Si tratta di uno standard emanato nel 1999 dal BSI e rivisto nel 2007 al fine di poter essere oggetto di certificazione di conformità da parte di un organismo terzo indipendente. La certificazione OHSAS attesta l’applicazione volontaria, all’interno di un’organizzazione, di un sistema che permette di garantire un adeguato controllo riguardo alla Sicurezza e la Salute dei Lavoratori, oltre al rispetto delle norme cogenti, requisito fondamentale per la conformità. Le aziende che hanno ottenuto la certificazione possono accedere ad uno sconto del premio assicurativo, nonché, come già accennato, in caso di incidenti gravi, l’esimenza dalla responsabilità amministrativa.

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«Il vantaggio della certificazione è stato sicuramente il fatto che è aumentata la sensibilità verso il tema, altra cosa importante, il progetto di certificazione Ohsas 18001 è nato contestualmente all’implementazione del sistema di gestione e con-trollo 231 e questo ha fatto sì che contestualmente si sia attivato lo svolgimento di audit sistematici di tutte quante le aree aziendali, in particolar modo per quello che riguarda la sicurezza ed effettivamente si è visto che il fatto di andare a fare degli audit formali in presenza del dirigente in tutte le aree aziendali ha sicura-mente contribuito ad aumentare l’attenzione al tema e farlo passare in alto nella gerarchia delle cose da fare […] La motivazione, la spinta definitiva l’ha data l’inserimento del reato in materia di sicurezza nei reati compresi dal decreto 231, proprio perché l’81 prevede e riconosce che i sistemi conformi alla normativa Ohsas abbiano valore esimente per la responsabilità dell’impresa e quindi l’or-ganismo di vigilanza ha proposto al consiglio di amministrazione questa misura come ulteriore forma di tutela della società e il consiglio di amministrazione ha valutato positivamente la cosa» [Dirigente RSPP]

Come spesso accade però, fra le norme, gli standard, le regole e la realtà (o meglio, gli ‘standard in pratica’) esistono margini di scarto. In effetti, le testimonianze di lavoratori, sindacalisti e RLS raccolte sottolineano il loro scarso coinvolgimento nella gestione della sicurezza sul lavoro: non solo una limitata partecipazione/consultazione da parte della direzione per l’accesso ad informazioni in merito a salute e sicurezza in favore dei diretti interessati, ma anche una ridotta attenzione verso la comunicazione trasmessa dall’alto verso il basso, come si vedrà in maniera più approfondita nel paragrafo 5. Si produce così una sorta di contraddizione rispetto al loro ruolo proattivo, riconosciuto e sostenuto dalla normativa in vigore in tema di sicurezza sul lavoro, situazione che trasmette la convinzione dei lavoratori intervistati se-condo la quale il processo di certificazione abbia in primis un valore formale, di immagine, di marketing e di visibilità esterna.

«Penso la volontà di essere maggiormente tutelati, perché la certificazione comporta l’adeguamento a determinati standard per cui si è tutelati in caso di infortunio o incidente. In questo senso rappresenta anche un valore aggiunto per i lavoratori? Direi di no, mi sembra solo una questione di immagine e garanzia per l’azienda a fronte di eventuali infortuni, diciamo in maniera molto schietta “per pararsi il cosiddetto”. Di recente l’azienda ha anche preso un premio per il possesso di una certificazione particolare che hanno solo poche aziende in Italia. Non dico che le basi non ci siano, sicuramente ci sono, però…» [Lavoratore 2]

Ed ancora, se l’adesione ad un SGSL non prevede obbligatoriamente il diritto dei lavoratori ad influire sulla valutazione dei possibili miglioramenti, nel già citato art. 30 del T.U. si legge un esplicito riferimento alla «con-

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sultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza24», procedura poco diffusa nella realtà indagata, o meglio troppo spesso assimilabile ad un semplice ‘adempimento formale e di facciata’ che di certo non rafforza la dimensione collettiva e partecipata del modello organizzativo prospettato dalla normativa. Si tratta di una dimensione fondamentale sia perché la «prevenzione dei rischi è tema sul quale gli interessi di lavoratori e datori di lavoro convergono», sia perché «i saperi utili per gestire le situazioni pericolo-se sono detenuti (seppure in modo frammentario) da tutti gli attori», anziché essere appannaggio esclusivo di specialisti aziendali [Golzio 2009, p. 14].

Il prevalere della forma sulla sostanza si rileva nei due studi di caso realizzati, ma soprattutto risalta in una delle due realtà, quella al cui inter-no è presente un modello organizzativo integrato denominato World Class Manufacturing (WCM) finalizzato al perseguimento della qualità totale, del miglioramento continuo, dell’eliminazione di ogni spreco, della massima flessibilità nel rispondere alle richieste di mercato. Si tratta in estrema sintesi di una versione ‘occidentalizzata’ del modello giapponese della lean-production fondato sui pilastri del just in time e dell’autoattivazione-coinvolgimento dei lavora-tori. Il WCM è costituito da dieci pilastri tecnici o di attività (ossia processi di miglioramento strutturati che devono essere presenti in azienda) fra cui viene annoverata la Safety. Ogni pilastro è orientato ad aggredire qualsiasi tipo di perdita o spreco (di energia, di spazio, di risorse o di tempo) ed è soggetto a valutazioni (audit) di natura quantitativa che attribuiscono un punteggio ad un mix di fattori. Nel caso della Safety, come si vedrà in ma-niera più approfondita nel contributo di Borghi, ci si riferisce al numero di infortuni avvenuti in azienda, al numero delle medicazioni, all’analisi dei costi-infortuni e così via.

La sicurezza sul lavoro rappresenta dunque uno dei fondamenti di que-sto modello organizzativo che, almeno sulla carta, pone «la PERSONA al centro del sistema fabbrica-sicurezza», attribuendo ad ogni singolo soggetto «il ruolo di PROTAGONISTA», poiché «con le tue mani, con le tue idee, con il tuo mestiere, la Safety può essere sviluppata e migliorata!25».

24 Non si tratta di una prescrizione di poco conto visto che l’art. 50 del T.U. prevede che il RLS sia consultato in merito: alla valutazione dei rischi e alla individuazione, program-mazione e verifica della prevenzione nell’organizzazione; alla designazione del responsabile e degli addetti al servizio di prevenzione, alle attività di prevenzione incendi, al primo soc-corso, alla evacuazione dei luoghi di lavoro e alla designazione del medico competente; alla organizzazione della formazione. E la consultazione non coincide e non si esaurisce nella semplice informazione, bensì comporta uno scambio di notizie e conoscenze che contribu-iscono al processo decisionale.

25 Dichiarazioni tratte dal manualetto sul WCM distribuito in azienda ad ogni lavoratore.

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Ma proprio questa valorizzazione delle individualità, questa centralità del dipendente all’interno del ‘sistema fabbrica’, questo continuo dialogo e scambio di informazioni perdono concretezza nell’agire situato, nelle pratiche quotidiane di lavoro. Nei fatti gli stessi lavoratori e i loro rap-presentanti denunciano una loro scarsa inclusione e partecipazione26 nel processo di miglioramento continuo in tema di salvaguardia della salute e sicurezza sul lavoro, riconoscendo non solo di «aver poca voce in capitolo» ma anche di essere soggetti ad un vero e proprio clima di vessazione e di «intimidazione» derivante dal fatto di sentirsi costantemente sotto accusa in caso di incidente.

E in effetti dalle testimonianze raccolte emerge la prassi largamente diffusa volta all’attribuzione delle cause degli infortuni alla distrazione, alla disattenzione o alla negligenza dei singoli lavoratori, senza la minima analisi organizzativa dell’accadimento, come si vedrà in maniera più dettagliata nel paragrafo 5. Ma, come ci ricorda Catino [2012], «quando le catene causali sono limitate a difetti tecnici e fallimenti individuali, le risposte conseguenti volte a prevenire un evento simile in futuro sono ugualmente limitate: hanno lo scopo di risolvere il problema tecnico e sostituire o riqualificare la persona responsabile», nell’erronea convinzione che in questo modo il problema di fondo sia stato eliminato.

«Soprattutto sulla questione infortuni, tende semplicemente a togliere qualsiasi colpa all’azienda e ad addossare tutto sul lavoratore, a prescindere da quello che accade, e infatti ormai eravamo arrivati ad un punto tale che qualsiasi infortunio ci fosse era sempre motivato da distrazione dell’addetto, lui met-teva sempre che la causa era stata disattenzione o distrazione e via dicendo […] insomma non ci devono essere infortuni, se ti fai male significa che ce l’hai con l’azienda, quindi per loro è sempre solo un aspetto motivazionale: sei insoddisfatto, hai fatto apposta a farti male, e se ti va bene eri disattento» [Sindacalista RLS 2]

La retorica individualistica della colpa trova d’altronde una esplicita conferma nell’ultimo spot pubblicitario lanciato dal Ministero del Lavoro italiano (come si vedrà più nel dettaglio nel contributo di Borghi), che a partire dallo slogan «Sicurezza sul lavoro. La pretende chi si vuole bene» e dai continui richiami alla dimensione privata, personale e familiare, propo-ne una associazione diretta fra la sicurezza e il volersi bene, rischiando di

26 Il valore della partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze viene confermato anche dalla letteratura in materia, che ne sottolinea l’utilità nella risoluzione dei problemi relativi alla sicurezza sul lavoro e il rilievo nel miglioramento dei risultati e degli effetti con-creti [Walter al. 2005].

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offuscare la visione collettiva, organizzativa del fenomeno come fatto sociale. A questo proposito le critiche espresse sia da parte dei testimoni significa-tivi, sia dei lavoratori intervistati che non esitano a valutare la campagna pubblicitaria come scorretta e fuorviante, pur riconoscendole, in alcuni casi, il merito di attirare l’attenzione al tema della salute e sicurezza sul lavoro.

«Si dice che è il lavoratore che deve badare alla propria sicurezza, ovvia-mente c’è una punta di vero in questa affermazione, perché in base all’art. 20 ogni lavoratore è responsabile della sua sicurezza e di quella degli altri, ma quando? Quando è stato adeguatamente formato ed informato, quando conosce l’organizzazione del lavoro e quando il datore di lavoro, il dirigente e i preposti hanno fatto quello che prevede per loro la legge […] non facciamo delle campagne assurde e devianti, perché deviano il problema sui lavoratori […] La campagna deresponsabilizza tutta la catena della dirigenza aziendale scaricando tutto sul lavoratore: ti sei fatto male, è colpa tua, non vuoi bene a tuo figlio… La logica di rete e di relazione in questo modo cade, perché tutto è ricondotto al singolo lavoratore» [Referente SIRS – Servizio Informativo dei Rappresentanti dei lavoratori per la Sicurezza].

Come sarà ulteriormente messo in luce nel prossimo paragrafo, questa logica individualistica tende a tradursi in visioni protettive rispetto al tema della tutela della salute e sicurezza negli ambienti di lavoro, finalità allineate alle strategie del WCM volte al raggiungimento di «zero incidenti». Una finalità che tuttavia si limita ad una prospettiva meramente aziendalista di massimizzazione della produttività, secondo l’equazione: «meno infortuni, meno sprechi, più produttività».

5. I processi e i dispositivi organizzativi

Nei paragrafi precedenti sono stati illustrati la cornice normativa, gli attori e le loro funzioni, le pressioni isomorfe che agiscono all’interno del va-sto ‘campo della sicurezza’. In tale spazio si confrontano-scontrano diverse visioni del rapporto tra sicurezza e lavoro presenti nel discorso pubblico; così come altrettanta rilevanza assumono le criticità proprie delle fasi di implementazione delle norme e delle politiche rispetto alla realizzazione sostanziale dei dispositivi prescritti dalla normativa, in vista di un concreto godimento dei diritti e il soddisfacimento dei bisogni delle persone in termini di sicurezza [Barrett 2004; Pressman, Wildavsky 1984]. A questo proposito, ci occuperemo ora della dimensione organizzativa (con riferimento a con-crete realtà aziendali); da un lato allo scopo di mettere in luce gli spazi di tensione ed ambivalenza che rimandano alla circolarità tra caratteristiche dei

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processi decisionali per la definizione di politiche in materia di sicurezza e le dinamiche situate di implementazione nei vari contesti produttivi; dall’altro tenteremo di mettere in evidenza la reciproca influenza tra la dimensione organizzativa della sicurezza sul lavoro e le forme del discorso pubblico sul tema. Alla luce di tali complicati intrecci sarà interessante osservare come e in quali condizioni organizzative le relazioni tra i differenti attori, strumen-ti e dispositivi si trasformino in azione, incrementando (o meno) relazioni virtuose nel rapporto tra lavoro e sicurezza.

Nel corso del lavoro sul campo si è dunque tentato di cogliere i tratti più significativi del percorso non lineare e denso di contraddizioni in cui si inscrivono le dinamiche attraverso le quali ha via via preso corpo il tema della sicurezza, traducendosi in pratiche sociali, strategie di intervento, dispo-sitivi organizzativi che istituzionalizzano le visioni della sicurezza in ambito aziendale.

Il focus delle osservazioni che seguono sarà dunque concentrato intorno ai principali elementi che caratterizzano i processi organizzativi, nel corso dei quali attori, dispositivi e strumenti legati al rapporto lavoro/sicurezza fissano norme e regole di condotta, veicolando significati e rappresentazioni [Lascoumes, Le Galés, 2004]: angolo di osservazione privilegiato per cogliere alcuni tra i diversi punti di vista che contribuiscono ad alimentare il processo di costruzione del discorso pubblico su sicurezza e lavoro.

Come illustrato nelle pagine precedenti, l’attuale cornice normativa in tema di sicurezza prevede una poderosa premessa di impostazione genera-le che «stabilisce le regole del gioco»: il sistema organizzativo per la sicurezza fondato sull’informazione, la prevenzione, la formazione. É in particolare dagli anni ’90 che ha iniziato a diffondersi una logica di tipo funzionalista, attenta al rapporto tra trasformazioni normative e impatto socio-organiz-zativo «orientata sull’organizzazione della sicurezza e il risk management27» come sottolineato da più di un intervistato.

I dispositivi normativi impostati da quel momento toccano al cuore la dimensione organizzativa, puntando sulla definizione di procedure, sulla formazione, sull’informazione, sul controllo dei processi di sicurezza. In tale ottica, gli operatori devono essere posti nelle condizioni di intervenire non solo sugli oggetti (fattori strutturali, ambientali, tecnologici), ma anche sui processi organizzativi, di pari passo con le più ampie trasformazioni dei

27 Un altro testimone significativo afferma a questo proposito: «[...] si cercava di capire anche l’organizzazione, anche se il ricercatore si poneva sempre dall’alto senza approcciarsi attraverso la percezione dei lavoratori» [Ricercatore, esperto del tema sicurezza sul lavoro], sollevando un tema sui cui si ritornerà nelle pagine seguenti.

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sistemi produttivi. Nel corso della ricerca sono stati colti differenziati punti di vista rispetto al funzionamento, alle potenzialità e alle criticità del siste-ma organizzativo della sicurezza così come prescritto dalle norme vigenti, oltre al rischio che esso sia destinato a rimanere «sulla carta», o applicato in maniera meramente formale, per «essere a norma», in relazione ad altrettanti elementi di ordine istituzionale, culturale, sociale, etc., che di seguito tente-remo in sintesi di illustrare.

Anche se a partire da principi e presupposti differenziati, se non tal-volta dicotomici, sono così state messe a nudo le criticità insite in una let-tura meramente ‘ingegneristica’ riguardo all’implementazione del sistema organizzativo della sicurezza, secondo un programma prestabilito, la cui evoluzione possa essere interpretata come meccanica e lineare. Si tratta di un orientamento che pervade in particolare specifici approcci politico-manageriali – ispirati a logiche di efficienza economica, all’applicazione di sistemi standardizzati di certificazione, a rigidi sistemi sanzionatori, etc. – tesi ad identificare il rapporto sicurezza/lavoro come un elemento neu-tro ed appropriabile sulla scorta di una ‘naturalizzazione’ di imperativi utilitaristici di stampo economico, indifferente a valori, simboli e significati, ai rapporti sociali e di potere, al nesso tra cognizione ed azione [Bifulco 2002]. Al contrario, ogni attore coinvolto ha espresso, in modo più o meno esplicito e consapevole, idee ed opinioni che rimandano ad altrettante ‘cul-ture della sicurezza’28 la cui (condivisione) e diffusione è riconosciuta, in modo altrettanto unanime, presupposto/punto di partenza per la concreta realizzazione di qualsivoglia azione volta a promuovere la sicurezza del lavoro nelle imprese. Quest’ultima, come più volte richiamato nel corso di questo lavoro, contribuisce a ridefinire la stessa istituzione-lavoro ed i rapporti sociali da essa supportati.

Per tentare di ricondurre all’interno di uno schema interpretativo uni-tario la ricchezza di materiale conoscitivo raccolto nel corso del lavoro di ricerca, si ritiene utile organizzare la riflessione intorno ad alcune questioni che richiamano passaggi importanti della complessa produzione normativa e del più ampio discorso pubblico sul tema. Il tentativo è di mettere così in luce le tensioni presenti nei terreni di disputa intorno a questi oggetti (quali attori in gioco, dispositivi, etc.), presenti tanto a livello politico-istituzionale

28 A titolo di esempio della molteplicità di voci su questo tema: «Dal punto di vista normativo l’attenzione è crescente però non basta un buona norma, ben venga ma non è sufficiente, anche perché bisogna aprire tutto il tema dei controlli, ma non riusciremo mai ad arrivare ad un numero di controlli tale, anche se ci fossero più risorse. Si tratta invece di costruire le risposte nella cultura, nei valori, nella sicurezza come valore» [Psicologo del lavoro e formatore].

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ed accademico e scientifico, quanto a livello di singolo campo di azione (ambienti lavorativi) in cui la sicurezza viene pragmaticamente interpretata.

5.1 “Visioni” a confronto sul rapporto tra organizzazione del lavoro e organizzazione della sicurezza

Nel corso del nostro lavoro ci siamo imbattuti in modi di interpretare l’esi-genza di agire sull’organizzazione del lavoro che richiamano approcci omni-comprensivi alla sicurezza. Così come efficacemente testimoniato da più di un lavoratore, agire alle fondamenta della sicurezza significa prima di tutto «aiutare l’operaio a lavorare bene»29. Nei contesti organizzativi si confrontano accezioni sul ruolo assegnato alla sicurezza nei luoghi di lavoro in base alle quali la sicurezza è parte integrante della qualità dell’organizzazione del lavoro [Gosetti 2012], cui si contrappongono modelli interpretativi in cui la sicurezza assume un ruolo subalterno alle esigenze produttive. Sono infatti diffuse opinioni sulla sicurezza sul lavoro basate su una logica strumentale alle performance economiche delle imprese. In questo senso agire per promuo-vere la sicurezza rappresenta un elemento per il miglioramento continuo dell’organizzazione a vantaggio della produttività, agendo su leve gestionali volte ad incrementare e promuovere la «cultura sul lavoro e della direzione» [Re-ferente Accredia], superando la logica del mero adempimento normativo.

Tuttavia, produttività e sicurezza sul lavoro appaiono, sulla base di altre testimonianze, come poli antitetici: nella scala dei valori la sicurezza non è mai al vertice e si colloca in posizione subalterna rispetto alle necessità della produzione. Tale situazione si rispecchia nel dominio di un paradigma legalistico di interpretazione del problema che considera la sicurezza sul lavoro un mero adempimento formale e procedurale. È la cosiddetta «logica dell’essere a norma» più volte richiamata nel corso di questo lavoro, che pervade in particolare i contesti organizzativi meno strutturati ed attrezzati per fare fronte a dinamiche competitive e di concorrenza. Come è stato te-stimoniato da referenti per la sicurezza di associazioni di categoria è il caso ad esempio delle piccole imprese in cui da un lato un incidente sul lavoro può avere aspetti devastanti, sia dal punto di vista dell’impatto a livello di rapporti umani la cui intensità è generalmente elevata, sia dal punto di vista dell’incidenza economica; dall’altro, la competitività di queste imprese è

29 In questo senso è interessante notare come la percezione della sicurezza da parte dei lavoratori testimoniate nel corso dell’indagine rimandi a definizioni che ne ampliano siste-maticamente la portata rispetto alle sfere di vita.

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legata al mantenimento di un’elevata efficacia prestazionale sul brevissimo periodo. In questa logica tende a prevalere una visione burocratico-formale della sicurezza, un onere che si frappone al raggiungimento degli obiettivi in termini di produttività.

In altre parole, i dispositivi e i processi organizzativi legati alla sicu-rezza non sono considerati «sbagliati» o «inutili in sé», piuttosto «un lusso che non ci si può permettere» in un contesto economico determinato da elevata competitività.

Ciò che pare scarseggiare è dunque una visione della sicurezza come investimento sulla qualità dell’organizzazione, che può comportare vantaggi anche da un punto di vista economico, oltre che umano, soprattutto nel lungo periodo. Il miglioramento della salute e della sicurezza sul lavoro con-tribuisce infatti a garantire il successo e la sostenibilità delle imprese nonché, nel lungo termine, il proliferare delle economie30; così come testimoniato da più di un interlocutore, la sicurezza ha un costo che sui tempi medio-lunghi si rivela del tutto recuperabile: è la mancanza di sicurezza a presentare costi molto maggiori. Nonostante le numerose iniziative da parte di organismi pubblici, a partire da quelli europei, a sostegno della pianificazione aziendale in materia, scarseggia la lungimiranza e la percezione che investire sulla sicurezza, a fronte dei costi sul breve periodo, presenterà vantaggi, anche economici, sul medio e lungo periodo.

In questo quadro, la crisi economica in corso costituisce un’aggravante. La ricattabilità di cui oggi sono vittima tanti lavoratori per effetto delle scar-se opportunità occupazionali, dell’indebolimento dei rapporti contrattuali e della più generale subalternità nei confronti della domanda di lavoro, porta infatti gli stessi lavoratori a prestare minore attenzione ai rischi per la sicurezza e a subire situazioni di pericolo, così come testimoniato in modo eloquente da un attore coinvolto nell’indagine:

«Con il contratto che sappiamo, ti viene puntato il coltello addosso e ti viene detto: «o lavori in queste condizioni o io ti chiudo lo stabilimento», e uno a malincuore mette una croce anche dove non la vorrebbe mettere. […] uno va su un’impalcatura e dice «mi serve il caschetto, la giuntura» e gli rispon-dono «se vuoi lavorare è così, sennò io ne prendo un altro»; una persona ha

30 Nella maggior parte dei paesi, il costo degli infortuni sul lavoro e delle malattie profes-sionali è compreso tra il 2,6% e il 3,8% del prodotto interno lordo (PIL) e si tratta di un costo che grava sulle singole aziende. Come illustrato da un testimone significativo, dall’ulti-ma Indagine condotta dalla Commissione parlamentare sugli infortuni sul lavoro in Italia è emerso che il costo degli infortuni sul lavoro fra spese legali, assicurative, mancata produzione, conflittualità e risarcimenti, si aggirava intorno ai 52000 miliardi di lire.

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bisogno di lavorare per cui cosa fa? Ma quindi di cosa stiamo parlando? Il problema è che il lavoratore è l’ultima ruota del carro in tutti i sensi» [Sin-dacalista RLS n.2].

Il diritto a lavorare in condizioni di sicurezza viene così quotidianamen-te negoziato, in modo informale, con i datori di lavoro, in un rapporto che risente della costante minaccia della possibile perdita del lavoro a causa di scelte di de-localizzare la produzione in contesti meno vincolanti dal punto di vista degli adempimenti formali in tema di sicurezza su lavoro.

5.2 Fare sicurezza nelle organizzazioni: il sistema delle responsabilità

Il legislatore (vedi par.2) ha tratteggiato un’articolata architettura rispetto al sistema della responsabilità aziendale in tema di sicurezza, pensata per conferire stabilità all’organizzazione, valutazione, gestione, formazione/in-formazione/addestramento e controllo costante della sicurezza sul lavoro, attraverso l’individuazione di una fitta trama di responsabilità piuttosto chia-ramente definite31: uno schema di ruoli e connessi diritti e doveri, laddove decade il confine tra soggetti “attivi” e “passivi” in relazione alle condizioni di sicurezza. Così come sinteticamente illustrato nelle pagine precedenti, il corpus normativo vigente in tema di sicurezza sul lavoro ruota intorno al principio della responsabilità che ogni lavoratore ha nei confronti della propria sicurezza e di quella degli altri; per conferire effettività a tale con-dizione occorre che ognuno sia stato adeguatamente formato ed informato rispetto all’organizzazione del lavoro che caratterizza il contesto aziendale nel quale opera; così come è essenziale che il datore di lavoro, la dirigenza e le altre figure di riferimento realizzino ciò che prevede la legge. In tale ottica il dettato normativo propone dispositivi potenzialmente in grado di giungere a condizioni di corresponsabilità nei confronti della sicurezza all’interno di un’impresa. Ciò a patto di ‘prendere sul serio’ l’articolata trama di relazioni tra differenziati ruoli e funzioni. Tra le criticità segnalate con più evidenza a questo proposito vi sono le difficoltà nel promuovere all’interno delle organizzazioni processi decisionali orientati a spezzare dinamiche di attribuzione individualizzata di responsabilità, rivolte all’e-sclusivo coinvolgimento dei singoli attori, a partire da coloro che svolgono specifici ruoli in relazione alla sicurezza. L’inefficacia dei dispositivi di

31 Anche se sono state apportate modifiche significative, soprattutto ad alcuni dispositivi previsti dal TU 81 (vedi par. 2).

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coordinamento e l’applicazione di modelli di organizzazione del lavoro improntati su rigide procedure conduce a situazioni di scontro e conflitto tra i diversi attori e ruoli coinvolti (RSPP/RLS/Organi di vigilanza, ecc.):

«L’Rspp per ogni infortunio che accade si vede calare il punteggio del suo pilastro32; è ovvio che fa di tutto affinché gli infortuni o non vengano ri-conosciuti come tali, per cui ogni infortunio che accade sostanzialmente lo contesta, fa una relazione e la manda all’Inail, oppure semplicemente fanno del pressing sul lavoratore: quindi se uno si fa male e va in infermeria, dopo 3 secondi l’Rspp è in infermeria, chiede cosa è successo, non è niente…per cui si è creato un certo clima...» [Sindacalista RLS n. 3].

Il problema dei rapporti tra le diverse figure (cor)responsabili della si-curezza riflette la diversa storia istituzionale che le ha via via costituite e l’intreccio di rapporti sociali sottostanti ed in particolare le trasformazioni che nel tempo hanno investito il ruolo degli organismi di rappresentanza dei lavoratori sul tema. Negli anni ‘60 del secolo appena trascorso erano i Consigli di fabbrica ad occuparsi della sicurezza sul lavoro, i quali agivano in stretta collaborazione con i Servizi comunali di medicina del lavoro e/o delle Unità sanitarie locali che tuttavia non detenevano funzioni di controllo e vigilanza, di competenza dell’Ispettorato del Lavoro. Nei contesti in cui, ad esempio, erano stati istituiti i Consorzi socio-sanitari si interveniva, senza potere ispettivo, nell’ambito dell’applicazione dell’articolo 9 dello Statuto dei lavoratori, in seguito alla stipula di un accordo sindacale. Tale distribuzione di responsabilità era il frutto di un serrato confronto tra le parti sociali, in cui il potere di contrattazione delle organizzazioni di rappresentanza costituiva la variabile cruciale affinché nei vari contesti aziendali si affermasse atten-zione al tema della sicurezza; situazione che inevitabilmente penalizzava il vasto mondo della piccola e piccolissima impresa, in cui la presenza sindacale storicamente è stata più debole. Le figure che a quel tempo si occupava-no di sicurezza nelle aziende non detenevano alcun potere giuridicamente sancito. Pertanto i margini di azione dipendevano dall’esito dei processi di riconoscimento della rilevanza delle problematiche della sicurezza nel corso delle pratiche di contrattazione, istanze favorite da congiunture economiche favorevoli e viceversa. Si deve alla normativa più recente l’introduzione nei contesti aziendali di figure che rappresentano i lavoratori rispetto alla tutela della sicurezza, sottraendone così la presenza, o meno, all’esito delle pratiche contrattuali e dunque al legame diretto con le organizzazioni di rappresen-

32 Il riferimento è qui al sistema World Class Manifacturing già illustrato nei paragrafi precedenti.

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tanza dei lavoratori. Questo processo di istituzionalizzazione ha da un lato garantito il presidio delle funzioni sulla sicurezza in azienda; dall’altro ha però condotto ad un restringimento del ruolo giocato dal sindacato all’in-terno delle imprese sul medesimo tema, non ultimo indebolendo storiche relazioni di cooperazione inter-istituzionale.

Accanto ai richiamati processi di stabilizzazione, nei tempi più vicini, lo sviluppo di relazioni cooperative necessarie a promuovere la tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro è ostacolato dalle trasformazioni dei rappor-ti di lavoro all’interno delle imprese all’insegna della precarizzazione, in parte sostenuta dalle pratiche di sub-appalto che porta alla frantumazione dei cicli lavorativi in reti inter-organizzative rispetto alle quali è difficile ricomporre il più complessivo sistema delle responsabilità.

Alla luce delle caratteristiche delle pratiche contestuali di regolazione del lavoro sono emerse suggestioni interessanti rispetto al modo in cui più generalizzati processi di individualizzazione degli stili di vita e di lavoro si riflettono sulle modalità di inserimento lavorativo (a livello contrattuale, etc.), sulla freneticità dei ritmi di lavoro e di vita, sul senso di appartenenza ad una comunità di lavoro e sul rapporto tra pari, oltre che, come in parte già osservato, sull’incisività e la rilevanza del ruolo delle organizzazioni dei lavoratori e dei processi di sindacalizzazione, problemi ricorrenti nelle ar-gomentazioni raccolte tra i nostri interlocutori.

Inoltre, il progressivo indebolimento della dimensione collettiva delle condizioni lavorative rende difficoltoso intraprendere percorsi di azione condivisi ed efficaci. Al di là di momenti, spesso rituali, di programmazione negoziata a livello territoriale ed istituzionale delle azioni in tema di sicu-rezza sul lavoro, i diversi soggetti si ritrovano ad agire in totale autonomia, o solitudine; il confronto tra parti sociali ed interlocutori di diverso livello assume talvolta l’aspetto di inedite ‘lotte di classe’, conseguenze paradossali dei richiamati processi di mutamento, amplificate dalle più recenti condi-zioni di acuta crisi economica. Così come efficacemente posto in luce dal referente di un Organismo pubblico di vigilanza:

«[è] una diretta conseguenza di questa attuale situazione del mondo del lavoro, che addirittura i soggetti che la legge tutela, cioè i lavoratori (qualunque sia il loro rapporto di lavoro), ci vedono come controparte [...] dalle imprese non siamo mai stati visti molto positivamente, però abbiamo avuto un periodo di grande sostegno da parte dei lavoratori perché questi ci hanno sempre vissuto, in ogni caso, come dei presidi a loro tutela. Adesso non è che non ci vedano come tali, sono consapevoli che noi non andiamo lì a far dei danni a loro, però insomma sono talmente incastrati in questo sistema che spesso in gioco c’è la loro sopravvivenza lavorativa, e allora non ci vedono più con grandissimo

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favore perché potremmo costituire l’elemento che va a squilibrare quel precaris-simo equilibrio nel quale vivono ed operano…Ce ne sono anche di quelli che dicono: “beh insomma se non venite da noi è meglio perché abbiamo l’azien-da in crisi e quindi se venite voi la fate chiudere”… Sono 36 anni che faccio questo mestiere e non ho mai fatto chiudere un’azienda, non abbiamo questa facoltà» [Direttore Spsal – Servizio prevenzione sicurezza ambienti di lavoro].

Rispetto alle criticità che caratterizzano i processi di implementazio-ne dei sistemi di organizzazione della sicurezza nei luoghi di lavoro, si confrontano punti di vista che sottolineano l’occasione spesso mancata, all’interno delle imprese, di valorizzare il coinvolgimento e l’attenzione crescente attribuita dalla normativa ai dirigenti del Servizio di prevenzio-ne e protezione ed ai preposti cui compete il ruolo di regia rispetto alla messa in condizioni di lavorare in sicurezza. A questo proposito è ritenuta fondamentale la funzione che tali organismi e figure assumono in primo luogo rispetto a percorsi di riconoscimento, legittimazione e comunicazio-ne efficace dei temi legati alla sicurezza, affinché essa divenga oggetto di discussione rilevante all’interno del contesto lavorativo. É laddove risiede il potere economico-direttivo-disciplinare che occorre mettere in moto meccanismi volti ad attivare la consapevolezza della rilevanza dei temi legati alla sicurezza, affinché essa divenga patrimonio dell’organizzazio-ne e delle comunità di pratica [Wenger 2000] al suo interno [Gherardi, Nicolini 1997b; Gherardi, Nicolini 2004]: in tal senso si rivelano efficaci comportamenti che assumono il significato di vera e propria testimonianza nell’assunzione di comportamenti sicuri, in una sorta di «processo a cascata33 a partire dal datore di lavoro poi via via attraverso i dirigenti e i preposti» [Psicologo del lavoro e formatore].

Le testimonianze raccolte presso i lavoratori lamentano sovente il ti-more che l’enfasi lessicale posta sulle parole chiave rispetto al come pro-muovere la sicurezza sui luoghi di lavoro, efficacemente sintetizzate nel brano di intervista che segue, rilasciata da un dirigente di un’importante organizzazione imprenditoriale, nasconda comportamenti di de-responsa-bilizzazione del management aziendale, che proprio richiamando istanze di partecipazione e attivazione da parte dei lavoratori tenda così a sottrarsi ai propri compiti.

33 Ciò è particolarmente significativo in relazione alle dimensioni aziendali: nelle PMI i responsabili della sicurezza sono datori di lavoro i quali per consuetudine e (cattive) abitudini consolidate e per sopravvivere ai ritmi frenetici imposti dal mercato non mettono in atto o delegittimano di fatto comportamenti sicuri: «io ho lavorato 20 anni nell’artigianato [...], la con-correnza porta a sottovalutare la sicurezza…» [Lavoratore 9].

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«partecipazione perché deve essere un processo condiviso da tutti, non sono accettate e accettabili esclusioni o autoesclusioni; responsabilità perché ognu-no all’interno del suo ruolo deve avere ben chiari quelli che sono i suoi diritti e i suoi doveri, quindi se esiste un preciso dovere da parte del datore di lavoro di garantire al lavoratore condizioni di lavoro sicure, esiste dall’altra parte un preciso obbligo del lavoratore di non essere soltanto soggetto passivo e desti-natario di qualcosa ma di essere soggetto proattivo; coscienza intesa come la necessaria attenzione in ogni momento della propria vita, non soltanto nel momento del lavoro, di quelli che sono i propri gesti e delle possibili conse-guenze dei proprio gesti, cioè operare con attenzione e capacità di previsione; conoscenza perché ovviamente senza la conoscenza non siamo in grado di utilizzare gli altri strumenti» [Referente Area sindacale di Associazione di categoria]

Questi aspetti sono stati approfonditi nel corso delle interviste sotto-ponendo ai lavoratori, sotto forma di vignette, situazioni ipotetiche in cui era descritto un incidente avvenuto su un luogo di lavoro, richiedendo agli intervistati di esprimere una valutazione rispetto alla situazione tratteggiata. Ebbene, i lavoratori hanno sempre richiamato la dirigenza alle sue respon-sabilità:

«la responsabilità è di chi ha predisposto la struttura che non ha segnato la situazione di pericolo, per cui il datore di lavoro, dopodiché a cascata ognuno doveva vigilare che il lavoratore non agisse in quel modo, o me-glio, non passasse da quel punto, ma è in primis un problema di mancata segnalazione» [Lavoratore 4]

Tra gli attori che giocano un ruolo chiave nel definire e dare stabilità alla struttura delle responsabilità in tema di sicurezza sul lavoro vi sono gli Enti ispettivi e di Vigilanza, rispetto alla cui azione sono state richiamate moltepli-ci lacune e criticità, riconducibili a diversi ordini di problemi: innanzitutto la cronica insufficienza di risorse che limita il numero dei controlli; al contrario l’esigenza condivisa è che le attività ispettive divengano meno incostanti e superficiali, diffuse in ogni settore, efficaci sia nell’assegnare sanzioni in caso di inosservanza delle regole sulla sicurezza, sia per incrementarne l’efficacia in termini di deterrenza, a vantaggio della responsabilizzazione diffusa tra tutti gli attori aziendali: dai proprietari, agli imprenditori, ai lavoratori dipendenti. Tra i fattori di debolezza di tali organismi occorre ricordare l’introduzione di più generali processi di de-regolamentazione del lavoro: è ad esempio il caso delle deroghe introdotte sugli orari di lavoro che rendono in parte inefficaci gli interventi degli Ispettorati del lavoro anche in tema di sicurezza. Le considerazioni più amare riguardano tuttavia la dimensione

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culturale su cui va ad incardinarsi l’operato di questi Enti, in cui un mix tra il paternalismo e il poliziesco rappresenta l’orientamento diffuso nel comportamento di molti tra gli attori coinvolti, a scapito della diffusione di un autentico senso di responsabilità nei confronti della sicurezza sul lavoro.

Si tratta di circostanze che lasciano intravvedere un vero e proprio degrado culturale del senso della responsabilità, che a parere di più di un interlocutore espone a rischio il godimento del diritto costituzionale alla salute: in un contesto in cui la pubblica amministrazione fosse totalmente deprivata dell’autorità sanzionatoria e della deterrenza occorrerebbe infatti fare affidamento sul senso di responsabilità dei singoli, con forti dubbi sulla sostenibilità del sistema.

Il richiamo a modi di intendere la sicurezza sul lavoro alla stregua di un’imposizione ci conduce a prendere in considerazione un altro rilevante fattore di criticità che riguarda le concrete modalità di implementazione dei sistemi di sicurezza all’interno delle organizzazioni. Nella costruzione di condizioni di sicurezza sul lavoro sembra infatti quasi sempre mancare un elemento: il ruolo attivo dei lavoratori-destinatari della sicurezza, il quale tende ad essere considerato come un mezzo formale, più o meno obbligato (v. la figura dell’RLS) per usufruire delle opportunità offerte dalla legislazione, invece che un fine delle politiche per la sicurezza, componente costitutiva del benessere dei lavoratori.

La mancata problematizzazione nei processi organizzativi rispetto all’in-troduzione di condizioni di sicurezza in azienda attraverso istanze realmente partecipative conduce così ad una personalizzazione della sicurezza sul la-voro. In tali circostante prevalgono approcci di ‘misurazione dei compor-tamenti’ individuali che tendono a fare risalire le cause di un evento infor-tunistico a errati comportamenti individuali, legati a singole procedure34, non a complessi processi organizzativi che chiamano in causa la costruzione sociale di pratiche significanti. Il risultato è il prevalere di un modello basato sulla cosiddetta «cultura della colpa», guidato cioè da una logica di tipo accusatorio [Catino 2006; 2008], tesa ad individuare i soggetti negligenti, responsabili dell’accaduto, da rimuovere dalla loro posizione. All’interno dei contesti osservati, il richiamo alla responsabilità diviene dunque sovente sinonimo di colpevolizzazione35, in particolare dei singoli lavoratori:

34 Su questo aspetto è opportuno richiamare l’attenzione sul crescente successo di visioni della sicurezza sul lavoro basate su approcci comportamentistici e individualizzati, come il behaviour based safety (http://nuke.bbs-italia.org/).

35 Paradigmatiche a questo proposito sono le testimonianze dei lavoratori in relazione al sistema WCM.

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«non è che dobbiamo essere migliori amici, ma fra Rls e Rspp ci dovrebbe essere anche un certo rispetto e riconoscimento reciproco di quelli che sono i ruoli. Invece abbiamo visto che lui semplicemente, soprattutto sulla que-stione infortuni, tende semplicemente a togliere qualsiasi colpa all’azienda e ad addossare tutto sul lavoratore, a prescindere da quello che accade, e infatti ormai eravamo arrivati ad un punto tale che qualsiasi infortunio ci fosse era sempre motivato da distrazione dell’addetto, lui metteva sempre che la causa era stata disattenzione o distrazione e via dicendo» [Sinda-calista RLS n.3].

Un simile modello dà per scontato la «distrazione» o «negligenza» dei singoli, senza mettere in discussione le condizioni delle attrezzature, l’ade-guatezza delle procedure, l’effettiva disponibilità di informazioni per l’ese-cuzione dei compiti, il possesso di una formazione appropriata e in questo senso la gestione della sicurezza rischia di tradursi in una semplice delega di responsabilità sul piano individuale, sul singolo lavoratore.

Tale meccanismo di fondo si traduce talvolta nell’offerta di servizi di sostegno personalizzato ai singoli lavoratori in materia di sicurezza, il cui impatto è destinato ad incrementare la desertificazione delle arene pubbliche di discussione all’interno dei luoghi di lavoro, lasciando spazio a rivendica-zioni perlopiù particolaristiche, così come esemplificato dalle parole di un lavoratore intervistato:

«ad un certo punto l’azienda si era inventata una cosa che si chiamava “lo Sportello dell’autista”, per cui periodicamente alcuni dirigenti dei vari settori si presentavano [...]. Io personalmente non ci sono mai andato perché penso che spesso diventasse un luogo in cui gli autisti si scagliavano, che diventasse un luogo aperto a tutta la serie di lamentele, questa cosa poi è stata sospesa» [Lavoratore 6].

Il problema, a nostro avviso, è che il paradigma della colpa, unitamente ad eterogenee dinamiche di personalizzazione, concentrandosi sull’errore umano e sulle esigenze meramente individuali, di fatto non permette l’af-fermarsi di una adeguata «cultura della sicurezza», intesa quale insieme complesso di routine organizzative, azioni quotidiane, abitudini e pratiche di lavoro che prendono forma in uno specifico contesto sociale e che sono orientate alla tutela del benessere individuale e organizzativo [Gherardi, Nicolini e Odella 1997].

Si tratta di processi il cui innesco implica la presa di distanza da una lettura meramente formale e strumentale della sicurezza, che sovente si con-cretizza in un’attribuzione delle responsabilità volta ad agire prioritariamen-te sulle cause prossime: per esempio in caso di infortunio non è riconsiderato

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l’intero sistema organizzativo e messe in relazione le sue diverse parti e fasi, quelle durante le quali si mettono a punto i dispositivi di prevenzione e di protezione con quelle successive e precedenti. Sono solo le fasi immediata-mente precedenti all’evento infortunistico che ricevono la massima atten-zione da parte dei responsabili aziendali alla sicurezza, nella convinzione che intervenire sulla possibilità di limitare i danni rappresenti la strada più efficiente. La gestione della sicurezza sui luoghi di lavoro si concentra così sull’uso dei dispositivi di protezione che rappresenta un formidabile stru-mento di controllo [Dubreuil e Gautier 2011] e di attribuzione di sanzioni nei confronti dei singoli, (ir)responsabili dell’uso più o meno corretto dei dispositivi stessi.

«La nuova figura [RSPP n.d.r.] ha la fissa della protezione, la prevenzione zero; quindi succede un infortunio, l’occhiale non è sufficiente, piuttosto ti do la maschera da sub, per dire... ti sovra-protegge, ma non si sforza minima-mente di capire la causa, la radice dell’infortunio e di come prevenire a monte [...] questo però è la dimostrazione di una concezione distorta della sicurezza e non è positivo perché si insiste sui dispositivi di protezione individuale, che da un lato va bene, però se non hai il dispositivo, come dire, sei colpevolizzato subito» [Sindacalista RLS 3].

Dare priorità all’individuazione di dispositivi organizzativi con funzioni per lo più protettive senza scalfire le cause remote, per intervenire sulle quali sarebbe necessario mettere in discussione l’organizzazione del lavoro nel suo complesso, rappresenta dunque l’altra faccia della medaglia del “paradigma della colpa” che nelle pratiche organizzative osservate incarna una visione semplificata dell’implementazione di un sistema della sicurezza a livello di impresa.

Le modalità attraverso le quali i dispositivi di protezione nei con-fronti dei rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro sono praticamente utilizzati e fatti applicare all’interno dei contesti lavorativi suggeriscono, così come sarà ampiamente argomentato nel saggio di Borghi [infra], l’avvio di una sorta di metamorfosi del binomio protezione-prevenzione, in direzione di una re-interpretazione paradossale del paradigma della prevenzione, fulcro della rappresentazione contemporanea del rapporto tra lavoro e sicurezza.

Proseguiamo ora nella disamina degli elementi necessari per esplorare la dimensione organizzativa della sicurezza, affrontando un’ulteriore que-stione chiave strettamente legata a quanto fino ad ora osservato: il processo attraverso il quale all’interno delle organizzazioni si effettua la valutazione dei rischi per la sicurezza.

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5.3 Dispositivi di policy alla prova: il Documento di valutazione dei rischi

Il processo di valutazione dei rischi rappresenta un elemento fondamentale tra quelli di più recente introdotti dalla normativa; strumento attraverso il quale prevedere, in ottica preventiva, le possibili situazioni di pericolo ri-spetto al quale è percezione condivisa da più di un intervistato che non sia ancora sufficientemente diffusa una lettura adeguata. In tale ottica occorre superare atteggiamenti densi di fatalismo, come se gli incidenti sui luoghi di lavoro rientrassero indistintamente nella categoria dei cosiddetti «atti di Dio» ad indicare eventi «assolutamente imprevedibili, contro cui non è possibile far nulla»; al contrario è necessario intraprendere la strada volta ad incrementare le capacità di cogliere i punti di debolezza nei processi lavorativi che possono essere causa di incidenti e infortuni.

Assumere un approccio alla sicurezza nelle organizzazioni fondato sull’i-dea di valutazione dei rischi significa agire prima di tutto sulle cause remote degli agenti responsabili di condizioni di non-sicurezza, applicando così una logica autenticamente preventiva e non di mera protezione:

«ad esempio il rischio chimico o la valutazione del rumore – gli 82,3 decibel medi sparsi su otto ore – [...] servono solo per capire un numero per comprare una cuffia adeguata, ma per capire tutto quello che c’è in termini di studio, di calcoli serve un ingegnere, per chi legge in azienda è semplicemente un dato: ‘82,3 decibel’ per cui mi serve il tappo in cera o il tappo con l’archetto e vado a comprare quello, faccio il foglio di consegna e ho adempiuto a tutto quello che dovevo fare sul rumore. Ma non è quella la valutazione sul rumore: la valutazione sul rumore è andare a vedere se si può ridurre» [Referente Area Ambiente e Sicurezza-Associazione di categoria].

In ultima istanza ciò implica ricomporre cesure fallaci36 tra sicurezza e lavoro, prestando attenzione all’organizzazione del lavoro complessiva che a sua volta, se oggetto di osservazione riflessiva da parte degli attori organiz-zativi «si trascina dietro valutazione e prevenzione dei rischi (compresi quelli legati allo stress lavoro-correlato)» [Psicologo del lavoro e formatore]. Nelle argomenta-zioni degli attori portatori di una visione ad ampio raggio del rapporto tra sicurezza e lavoro si coglie infatti la consapevolezza che l’architrave della sicurezza sul lavoro poggia su due pilastri: il primo è la valutazione del rischio e il secondo è l’organizzazione della sicurezza nei luoghi di lavoro. La stabilità di questa architettura di base non è in funzione né delle di-

36 Sicurezza che riguarda non il come si lavora, ma ‘il farsi male’, il rischio infortunio e in ultima istanza esclusivamente il lavoro manuale.

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mensioni dell’impresa, né questione meramente tecnica o di mera ‘messa a norma’ delle attrezzature con le quali si lavora. Si tratta piuttosto di cogliere la relazione di interdipendenza tra i diversi elementi, ugualmente indispensabili: tra il come si lavora, dove e con cosa si lavora. Se si assume questa prospettiva, fare sicurezza rappresenta un percorso complesso, le cui difficoltà di attivazione scontano l’inadeguatezza culturale della maggior parte degli attori coinvolti, nell’illusione che la strumentazione scientifica sia in grado di compensare deficit di tipo cognitivo rispetto alla lettura del problema [Lanzara, 1993], rispetto all’esigenza di compiere vere e proprie diagnosi organizzative in grado di cogliere le pratiche lavorative complessive attraverso nuove lenti.

Dal canto suo la normativa (Dlgs 81/2008, art.28) fornisce un vero e proprio ‘strumento di policy’ dedicato alla valutazione dei rischi: il Documento di valutazione dei rischi (DVR)37.

Come sottolineato da coloro che sono stati coinvolti nell’indagine, si tratta di uno strumento importante, seppure non esente da critiche, so-prattutto rispetto ai processi di messa in opera. Esso rappresenta sovente la quintessenza di un approccio meramente formale alla sicurezza: un distillato di informazioni tecniche, generalmente redatte da consulenti esterni38, fun-zionali alla ‘messa a norma’ qui ed ora delle aziende. In queste ‘versioni’ del DVR la definizione e la valutazione dei rischi è l’esito di riduzionistiche relazioni tra mansioni, caratteristiche fisiche dell’ambiente di lavoro, attrez-

37 Il Documento, oltre ad una data certa (per sottolineare le esigenze di aggiornamento al mutare delle condizioni di lavoro), deve riportare:a) una relazione completa sulla valutazione di tutti i rischi presenti sul posto di lavoro sia

in merito alla sicurezza che alla salute dei dipendenti, tenendo conto di tutte le ore di lavoro. Questa relazione sulla valutazione dei rischi deve riportare anche i criteri adottati per la valutazione;

b) le misure di prevenzione e protezione messe in atto ed elencare i dispositivi di protezione individuali forniti ai lavoratori;

c) un elenco delle misure ritenute opportune per garantire un miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;

d) le procedure che si intendono adottare per attuare le misure previste per la messa in sicurezza del posto di lavoro. Inoltre è necessario indicare quali persone (in possesso delle competenze adeguate) all’interno dell’azienda hanno il compito di provvedere a tali adempimenti;

e) i nominativi di: responsabile del servizio di prevenzione e protezione, medico competente e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza o di quello territoriale. A questi bisogna aggiungere l’elenco delle mansioni che possono esporre i dipendenti a rischi particolari, per cui è necessaria una particolare competenza, esperienza e addestramento.

38 Scelta giustificata dai rappresentanti di associazioni di categoria: l’intervento di persone esterne all’azienda è una forma di garanzia e tutela da forme illecite di autocertificazione.

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zature utilizzate. Come è stato in più di un’occasione fatto notare, è quasi sempre assente anche il riferimento a qualsivoglia valutazione del rischio mancato, del mancato infortunio, oscurando così le concrete condizioni organizzative nelle quali livelli di bassa rischiosità sono inferite unicamente dal numero di infortuni ‘conclamati’. Dalle testimonianze raccolte è emerso quanto poco sia praticato il reporting degli errori e tanto meno la valuta-zione delle condizioni organizzative che possono assecondare o ostacolare il verificarsi di incidenti. Tale situazione favorisce una modalità interpre-tativa che non contribuisce all’effettivo miglioramento delle condizioni di sicurezza, impedendo così la creazione di una ‘cultura della sicurezza’ in cui l’errore può divenire, se analizzato adeguatamente, un’opportunità di apprendimento e di cambiamento [Gherardi, Nicolini 2004; Catino 2002; Catino, Albolino 2008]39. Come numerose testimonianze hanno contribuito a mettere in evidenza, la redazione di questo Documento potrebbe rappre-sentare l’avvio di un processo complesso in cui giocano un ruolo importante le specificità presenti all’interno di ogni singolo contesto e situazione. Ciò significa innanzitutto individuare le fonti di pericolo dalle quali fare sca-turire regole e procedure; in secondo luogo si tratta però di promuoverne la traslazione nel sistema culturale vigente [Gherardi 2009] in cui sono incardinate consolidate routine lavorative e schemi cognitivi rispetto a cosa sia da considerarsi o meno pericoloso, etc.

Nonostante le difficoltà e le resistenze, è parere pressoché unanime che redigere tale Documento in maniera attenta e non unicamente strumentale ad adempimenti formali potrebbe rappresentare un’occasione per promuo-vere un rapporto virtuoso tra sicurezza e lavoro. Tuttavia, così come è stato sottolineato da più di un attore nel corso del lavoro sul campo, la normativa e le modalità di applicazione più consolidate di questo strumento veicola-no una concezione di processo di valutazione dei rischi (oggetto del DVR) funzionale alla mera ‘messa in sicurezza’ degli ambienti di lavoro, locuzione

39 Con il concetto di near misses o mancati infortuni si intendono quegli eventi che potrebbero determinare un infortunio, che concretamente non si verifica, la cui analisi però consente di prevenire potenziali incidenti e di agire su condizioni di insicurezza, aumentando l’affidabilità del sistema organizzativo. Sulla rilevanza dell’analisi dei mancati infortuni sono emblematiche le parole di un testimone significativo intervistato: «è mancato infortunio perché nessuno si è fatto male, perché non c’era nessuno, il perché era successo era abbastanza semplice da capire, ci siamo messi a parlare […] a valutare la cosa, va bene è andato tutto bene, ma quanto tempo hai perso per raccogliere i cavi rotti, il materiale lesionato, verificare il materiale lesionato, rimettere a posto il palanco […] alla fine quanto tempo hai perso e quanti soldi hai sprecato perché non hai applicato la procedura sui carichi sospesi che era stata stabilita?’ […] Questo secondo me è il punto in cui dovremmo agire perché altrimenti faremmo sempre una fatica tremenda nel gap fra una naturale propensione a cercare di fare le cose al meglio possibile e a vederla solo come perdita di tempo» [Referente area Ambiente e sicurezza-Associazione di categoria].

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che rimanda all’individuazione e all’utilizzo di dispositivi volti unicamente a proteggere dai rischi, anziché tentare di eliminare le cause del rischio stesso, attraverso la prevenzione. Quest’ultima, come è stato più volte osservato, rimanda all’esigenza di porre al centro dell’attenzione il profilo organizza-tivo complessivo del lavoro in un’azienda, attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione di tutta la comunità di lavoro. Da quanto è emerso nel corso della ricerca, il livello di condivisione del processo di elaborazione dello strumento è assai deficitario. Il coordinamento è affidato per lo più al Responsabile Servizio Protezione e Prevenzione (RSPP), con un formale coinvolgimento dei Rappresentante dei lavoratori per la Sicurezza (RLS); così come è assai diffuso il ricorso all’affidamento a società di servizi nel campo della rilevazione dei rischi, ognuna specializzata in altrettanti campi (per esempio rumori, sostanze chimiche etc.). Generalmente l’organizza-zione aziendale si occupa del coordinamento e del supporto (logistico, informativo, etc.) verso i soggetti incaricati delle attività tecniche di va-lutazione; queste ultime vengono perlopiù eseguite applicando sistemi di classificazione standardizzate dei rischi, nonostante, come ricordato da più di un testimone i maggiori rischi per la sicurezza, soprattutto in alcuni settori e contesti aziendali, si stiano spostando da quelli più tradizionali, ai rischi del cosiddetto 4° gruppo: legati all’organizzazione del lavoro, allo stress lavoro-correlato, all’età, alle differenze di genere, alla provenienza, etc.

Così come si è tentato fino a qui di mettere in luce, l’utilizzo situato del dispositivo DVR, le modalità di messa in forma delle relazioni tra attori e ruoli cui conduce, può dunque raccontare molte cose circa la trasformazione in azione (oppure no) delle intrinseche potenzialità in termini di coinvolgi-mento dei lavoratori e di condivisione di contenuti ed è quest’ultimo aspetto su cui ci concentreremo di seguito.

Rispetto a questo tema, il leitmotiv di una parte significativa delle con-siderazioni effettuate dai lavoratori intervistati, pur provenendo da punti di vista differenziati, rimanda all’esistenza di enormi criticità circa le forme di partecipazione dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro, in relazione alle tematiche della sicurezza e più in generale alla vita organizzativa, che in parte sono già emerse. I lavoratori intervistati hanno raccontato di non essere stati coinvolti nemmeno nelle fasi istruttorie del DVR in cui si rac-colgono le informazioni utili alla valutazione dei rischi.

Anche a fronte di pareri di sufficiente soddisfazione per i livelli di ‘mes-sa in sicurezza’ del proprio ambiente lavorativo, la percezione diffusa nei contesti lavorativi indagati rimanda all’insufficienza dei processi di dialogo e confronto tra lavoratori e management e tra gli stessi lavoratori; ciò conduce all’elaborazione di visioni della sicurezza «a proprio uso e consumo», a scapito

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dell’elaborazione di visioni condivise a sostegno di processi di evoluzione dei modelli organizzativi all’insegna della sicurezza.

La norma prevede una riunione periodica (annuale) al fine di mettere in relazione gli attori della prevenzione: a tal proposito le esperienze concrete raccontano di momenti vuoti e formali o di aperto conflitto, condizioni che difficilmente conducono a processi di miglioramento, incrementando al contrario l’effetto-delega da parte di una parte consistente dei lavoratori.

Come già in parte illustrato, molti lavoratori lamentano scarse possibilità di discussione collettiva delle condizioni di lavoro e poche occasioni di con-fronto che possano portare i lavoratori stessi ad elaborare proposte migliora-tive. Gli scarsi momenti di incontro previsti dalla normativa non coinvolgono la totalità dei lavoratori, ma esclusivamente i Rappresentanti per la sicurezza e costituiscono momenti puramente formali, nel corso dei quali l’ordine del giorno e gli oggetti della discussione sono unilateralmente stabiliti da parte datoriale. Le informazioni illustrate consistono quasi unicamente in dati medi tratti dalle relazioni stilate dal medico competente; difficilmente vi è occasione di discutere e confrontarsi su situazioni concrete di lavoro, che in quanto tali sfuggono alle misurazioni standardizzate [Salais 2012] previste dai protocolli in tema di sicurezza.

Inoltre, l’individualizzazione dei rapporti di lavoro, quale tratto unifi-cante delle pratiche lavorative che influenza anche il campo della sicurezza assume una molteplicità di sembianze: i flussi di conoscenza e di scambio di informazioni rispetto alle criticità che caratterizzano l’organizzazione del lavoro tendono ad essere unidirezionali e “personalistiche”: è solo con fatica che è possibile ristabilire la necessaria bi-direzionalità, la cui efficacia dipen-de anche dalla capacità dei rappresentanti dei lavoratori di gerarchizzare le domande della totalità della forza lavoro presente in azienda, così come spiegato da un testimone:

«hanno messo queste famose “Cassette della sicurezza” dove il lavoratore scrive problematiche e quant’altro, però davvero è una cosa che scrivi, la metti lì dentro e finisce lì. Qualcuno all’inizio ci aveva anche provato e creduto, poi si sono demoralizzati, perché ti scrivo questa cosa, non ho risposte, non ho nemmeno un riscontro pratico, perché magari non hai il tempo di rispondere però mi dimostri che ne tieni conto… quindi in genere raccoglievamo noi determinate istanze, le portavamo in riunione quando ci incontravamo come cosiddetto team della sicurezza, perché parlare con il solo Rspp ci siamo resi conto che era inutile, quindi abbiamo preteso che ci fossero degli incontri allargati alla presenza del datore di lavoro, che nel nostro caso è il direttore di stabilimento, per lo meno così ponevamo il direttore di stabilimento di fronte a problemi concreti, solo che quando ci

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sono questi incontri non puoi presentarti con una sorta di lista della spesa, devi selezionare le cose più gravi» [Lavoratore RLS 1]

Ciò che pare in sostanza emergere è la separazione sistematica tra i saperi tecnici legati all’introduzione di condizioni di sicurezza e i saperi e le esperienze dei lavoratori, oggettivati in un ruolo passivo, negati di autono-mia nel processo di produzione di basi informative e dunque marginalizzati nelle arene in cui prende forma il discorso pubblico sulla sicurezza. In altri termini, latita la capacità di voice [Hirschman 1982] dei lavoratori, requisito essenziale perché sia effettiva la conversione di risorse erogate (in termini di sicurezza) in capacità praticate (mutuando il concetto di capability introdotto da Sen [1992]: viene meno, in altri termini, quella capability for voice degli attori sul campo [Bonvin e Favarque 2006]. Nei contesti organizzativi indagati ai lavoratori non è riconosciuto il potere di esprimersi circa le basi informative in azione nelle scelte di giustizia sottese alle politiche per la sicurezza sul la-voro. Il prevalere della mera dimensione formale della partecipazione, intesa come adempimento imposto dall’esterno, la svuota dei contenuti sostanziali, che potrebbero invece essere declinati nel riconoscimento dei saperi e delle conoscenze pertinenti le condizioni di sicurezza.

«non ti coinvolgono nemmeno nelle scelte che fanno che riguardano diretta-mente te, ti passano sopra con delle decisioni prese a livello unilaterale, […] ed è un peccato perché dentro ai nostri impianti ci sono persone che hanno un patrimonio di conoscenza fatta sul campo che se fossero ascoltate o rese più partecipi… purtroppo forse non porterebbero alla certificazione Iso, ma ad una situazione di benessere lavorativo senza pari» [Sindacalista RLS n.1].

Non sono assenti esempi di esperienze virtuose, nel corso delle quali sono stati individuati inediti (e non previsti dalla normativa) dispositivi al fine di migliorare la cooperazione organizzativa e la sicurezza: é ad esempio il caso, di sotto riportato, in cui sono state individuate, sulla base delle spe-cifiche pratiche di lavoro, figure organizzative che fungono da trait-d’union tra i lavoratori ed i responsabili della sicurezza in azienda:

«Il nostro capo [...] su tutti gli operai manutentori ha scelto tre persone come responsabili dei manutentori stessi, tre dialogatori che fungono da interfac-cia fra l’azienda, il capo e noi, fra cui rientro anche io per gli elettricisti. Sono figure importanti anche se non riconosciute a livello economico, però anche in consegna di lavori, lavori che possono essere rischiosi, si parla con il team leader, si lasciano le consegne al team leader, per cui o per iscritto o a voce ci spieghiamo tutto il lavoro fatto in modo da poter seguire l’altro sapendo già quello che ha fatto. Questa è una cosa buonissima che ha fatto

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questo capo ed ha avuto i suoi risultati perché il lavoro gira meglio, si ha più collaborazione, si ha più informazione, diciamo che siamo il punto di riferimento per gli altri colleghi» [Lavoratore 9].

Tra i fattori di criticità rispetto al coinvolgimento dei lavoratori a parte-cipare ai processi decisionali volti alla definizione dei rischi e delle modalità più efficaci per contrastare le condizioni che rendono il lavoro non sicuro, sono state più volte richiamate le condizioni socio-economiche contingen-ti (crisi economiche, volatilità dei mercati, etc.), che incidono nel dettare le priorità nell’agenda delle strategie aziendali, a scapito delle modalità di coinvolgimento dei lavoratori. Come molti tra i lavoratori coinvolti hanno testimoniato, è sempre più difficoltoso, all’interno dei luoghi di lavoro, ri-uscire ad ottenere ascolto su questioni che non siano strettamente legate alla situazione contingente, in un momento in cui le priorità riguardano la dimensione contrattuale dei rapporti di lavoro. In tali circostanze gli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro passano in secondo piano, pur a fronte di una cogente normativa in materia. A fronte dei deficit di comunicazione all’interno dei luoghi di lavoro, anche le retoriche sulle poten-zialità delle più recenti tecnologie di comunicazione (intranet, sms, etc.) per quanto in via di diffusione, paiono non scalfire le ben più (vetero) modalità relazionali (ad es. gli ‘ordini di servizio’ affissi in bacheca) improntate su rigidi rapporti gerarchici ancora saldamente in funzione.

Come abbiamo fino a qui illustrato, le carenze sistematiche nei flussi comunicativi e negli strumenti di coordinamento riguardano dunque i pro-cessi organizzativi volti all’elaborazione di uno dei più innovativi dispositivi previsti dalla normativa: il Documento di valutazione dei rischi. Il coinvolgi-mento dei lavoratori e la disposizione di iniziative ad hoc in tema di sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro giungono infatti sulla scia di emergenze e fatti eclatanti, per agire sulle cause prossime, senza scalfire più complessi sistemi organizzativi e sociali40.

5.4 Apprendimento organizzativo e sicurezza: il ruolo della formazione

Gli elementi di tensione e criticità, ma anche le potenzialità che fino a qui si è tentato di mettere in evidenza rispetto alle modalità attraverso le quali

40 Assai significative sono le considerazioni effettuate dagli autisti intervistati circa il rap-porto tra le condizioni di (in)sicurezza del proprio lavoro e più generali strategie in termini di politiche urbanistiche (viabilità, traffico, etc.), fino al tema del deterioramento delle relazioni di cittadinanza.

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il rapporto tra sicurezza e lavoro è pragmaticamente interpretato all’inter-no dei luoghi di lavoro rimandano, infine, ad un ulteriore tema rilevante tra quelli intorno ai quali ruotano le nostre osservazioni: la relazione tra formazione e sicurezza.

La normativa in materia vede infatti nella formazione uno dei pilastri del sistema, al fine di rendere ‘consapevole’ e (in)formata le responsabilità di ognuno rispetto alla sicurezza sui luoghi di lavoro41.

Ciò ha condotto ad un enorme dispendio di energie economiche e professionali42 che a loro volta rappresentano una delle forze cardine che agiscono all’interno del ‘campo della sicurezza’, mettendo a disposizione del discorso pubblico forme argomentative incisive rispetto a ciò che significa sicurezza sul lavoro. É dunque interessante in primo luogo analizzare le modalità attraverso le quali avviene la formazione alla sicurezza nei luoghi di lavoro osservati.

In generale, dalle testimonianze raccolte, la formazione risulta l’anello debole del sistema, drammaticamente scarsa, non solo rispetto ai temi della sicurezza, ma in generale, come modalità per promuovere l’inserimento dei nuovi arrivati, per mantenere e rafforzare le competenze acquisite, al fine di scongiurare processi di obsolescenza delle professionalità:

«Non c’è formazione in generale, io in 30 anni credo di aver fatto 4/5 giorni di formazione in tutto, qualcosa sul rapporto con l’utenza, ad un certo punto gli è venuta questa idea, ma non c’è formazione né sui mezzi, né sui percorsi, arriva un nuovo mezzo, teoricamente lo dovresti vedere tu, […] da noi non viene fatta formazione, anche in tema di sicurezza, in orario di lavoro, non viene fatta anche se dovrebbe essere fatta» [Lavoratore 1].

Nel corso di questo lavoro sono state analizzate da diversi punti di vista le criticità cui in generale è legata la tendenza diffusa nelle organizzazioni a circoscrivere il tema della sicurezza sul lavoro a specifici adempimenti, ruoli etc.; viceversa ogni tentativo di andare oltre la pura formalità conduce verso forme di ricongiungimento del tema della sicurezza con la riflessione e l’azione nei confronti delle più generali condizioni e rapporti di lavoro. Tali considerazioni riguardano anche la questione della formazione. Gli attori coinvolti nell’indagine esprimono efficacemente il legame tra formazione

41 Cfr. art.37 del D.lgs81/80.42 «[...] una montagna di soldi, 5 milioni di euro (una parte proviene dal governo quando è stato fatto

l’art. 81, come lancio della nuova era, e una parte da fondi regionali) per la prima operazione di formazione verso tutte le figure: salute e sicurezza per gli immigrati, i datori di lavoro, gli Rspp, gli Rls, questa operazione parte perché alimenta anche un sistema di agenzie formative che fremono su qualsiasi argomento» [Referente Associazione sindacale].

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in ingresso (affiancamento, tutorato43, etc.), qualità del lavoro e sicurezza e di come, nel tempo, anche a causa del prevalere di logiche di massimiz-zazione dell’utilità sul breve termine, la situazione non presenti segni di miglioramento. Come è noto, le opportunità di accedere ad informazioni e alla formazione sul lavoro sono strettamente correlate con le caratteristiche del lavoratore e dell’azienda nella quale opera [Gallina, 2010; Isfol, 2012]: specularmente ciò accade nel caso della formazione per la sicurezza, rispetto alla quale risulta deficitaria la costruzione di strumenti di comunicazione/informazione/formazione ad hoc, adatti per raggiungere i diversi interlocuto-ri44 (differenti per condizioni contrattuali, tipologia aziendale, etnia, cultura del lavoro etc.).

In materia di sicurezza la scarsità si combina con la frammentarietà dei percorsi formativi, circostanza ancora più grave se si considera che lo scopo è quello di creare ex novo ruoli ad hoc, rivestiti da lavoratori che svolgono altre mansioni. Questo problema riguarda in particolare i Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza i quali, come già più volte emerso, rappresentano gli attori più deboli tra quelli che popolano il campo della sicurezza, in ter-mini di potere e anche di solidità di bagaglio formativo. La normativa infatti prevede un minimo di trentadue ore di formazione di base, con l’aggiunta di una quota compresa tra le quattro e le otto ore di formazione per ogni anno di esercizio del ruolo, in base al numero di dipendenti dell’azienda in cui si opera. Come si può ben constatare si tratta di una quantità davvero irrisoria, tenuto inoltre conto del fatto, come testimoniato da più di un interlocutore, che la formazione è somministrata in maniera statica, pret-tamente laboratoriale, distaccata dai concreti contesti lavorativi; pertanto inadeguata per cogliere le costanti trasformazioni nelle quali i diversi ruoli di responsabilità rispetto ai processi di prevenzione e protezione sono eser-citati. In questo senso è allora appropriato riferirsi alle dinamiche formative alla sicurezza in termini etero-direzione e de-constestualizzazione. Ciò che i lavoratori raccontano è la scarsa conoscenza dei luoghi di lavoro e delle pratiche che li contraddistinguono da parte di coloro che hanno il compito, attraverso la progettazione di appositi moduli formativi, di incrementare le capacità di ognuno di prevenire e fronteggiare i rischi per la sicurezza sui

43 «All’inizio, quando sono entrato in questo stabilimento mi hanno fatto fare per circa un anno o quasi di affiancamento a gente più esperta, mentre per le ultime assunzioni non è stato fatto ed è mancata un pochettino questa cosa; ma a noi serve proprio per conoscere le macchine, per conoscere come agire […], come muoverti in azienda in sicurezza, come andare nei posti in sicurezza, come andare a mettere apparecchiature in sicurezza per gli altri, per cui l’affiancamento è utile» [Lavoratore 9].

44 Nonostante tale aspetto sia specificamente affrontato dalla normativa in materia: cfr. art.37 del D.lgs81/80, c.13.

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luoghi di lavoro; tanto che l’addestramento sulla sicurezza riguarda sovente l’utilizzo di presidi di protezione che per i lavoratori si rivelano di intralcio nello svolgimento dei propri compiti e pertanto del tutto o quasi inutilizzati, con grave rischio per la propria salute, così come efficacemente testimoniato da un lavoratore ascoltato:

«Io non ho mai visto nessuno dell’azienda girare sull’autobus per vedere e rendersi conto esattamente di come è la situazione, perché loro ragionano e valutano solo per sentito dire, però se loro volessero intervenire seriamente dovrebbero avere una visione della situazione. Non puoi farmi un corso senza neanche sapere esattamente quali sono le problematiche, almeno vieni a vedere qual è la realtà» [Lavoratore 2].

Come già osservato, la scarsa importanza generalmente attribuita ai processi di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori alla vita organiz-zativa sui temi della sicurezza (e non solo) si accompagna all’insufficiente riconoscimento delle istanze e dei saperi di cui gli stessi lavoratori sono por-tatori ed espressione; di volta in volta sostituiti da sistemi di classificazione e misurazione messi a punto altrove. In tale cornice l’utilizzo dei dispositivi formativi previsti dalla normativa in materia di sicurezza è teso a veicola-re una sistematica affermazione della distinzione tra conoscenza e azione, lontani dall’idea che la conoscenza scaturisca principalmente dall’azione e non esclusivamente dalla diffusione di informazioni o dall’insegnamento [Gherardi, Nicolini 2004; Giullari 2010]. Tale cesura si rivela particolar-mente dannosa e controproducente nel momento in cui la progettazione e la relativa formazione del sistema organizzativo della sicurezza sono affidati a soggetti disembedded rispetto alle pratiche lavorative nei confronti delle quali sono chiamati ad agire. La scarsità di momenti di aggregazione e condivi-sione rispetto alle principali problematiche aziendali rispetto alla sicurezza si ripropone in particolare rispetto alla possibilità di uno scambio tra pari sulle pratiche di lavoro, che il management tende perlopiù a sostituire con interventi formativi di esperti. In tali diffuse pratiche vediamo all’opera un modo di concepire la formazione in sintonia con un’idea di organizzazione fondata sulla separazione tra il decidere e l’agire [Bolognini, 2012]; a tali approcci si contrappongono letture in base alle quali ogni azione compe-tente (che consente cioè all’organizzazione di funzionare, ai diversi livelli) [Santoianni, Striano, 2003; Cambi, 2004; Meghnagi, 2006, Giullari, 2006] riflette in vario modo l’universo dei processi di apprendimento di cui è tessuto l’ambito organizzativo [Gherardi, Nicolini, 2004]. In tale ottica al centro delle dinamiche formative si collocano i processi di apprendimento e le modalità di costante acquisizione di conoscenze: l’apprendimento è

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infatti legato all’interpretare, al processo attraverso il quale ci si appropria delle informazioni raccolte, riconducendole ad un proprio modo di legge-re la realtà [Pichierri, 2005]. Nell’apprendere l’organizzazione modifica i propri repertori di competenze: conoscenze, modelli di azione, strategie e procedure operative stabilizzate nel tempo. In sistemi complessi auto-correzione e apprendimento non sono tuttavia associabili a programmi prestabiliti, meccanici, lineari. La conoscenza organizzativa tende infatti a coagularsi in un sapere di tipo pratico, prevalentemente tacito, forma-lizzato solo in particolari circostanze, incorporata nelle procedure e nelle strategie operative, ancorata all’esperienza individuale e collettiva che si fa del contesto in cui si è situati [Bifulco 2002]. Prende così corpo la prospettiva culturale e sociale dell’apprendimento organizzativo (di cui la ‘formazione alla sicurezza’ rappresenta una specifica declinazione) che si è sviluppata intorno all’idea di learning-in-organizing; la quale, in un’ottica di superamento di nette e dicotomiche distinzioni tra conoscenza e azione, tra formazione e lavoro, concepisce l’organizzazione come fenomeno emergente da pratiche collettive di sapere-in-azione, in cui i processi di apprendimento sono distribuiti nelle comunità coinvolte nella creazione, nell’innovazione e nell’utilizzo di corpi di conoscenze specialistiche, embedded nelle relazioni sociali, nei contesti materiali, negli artefatti simbolici, nelle istituzioni che regolano la vita organizzativa stessa [Gherardi, Nicolini, 2004]. Seguendo questa impostazione, la formazione rappresenta un tassello fondamentale nel divenire dei processi di apprendimento organizzativo, processo intersog-gettivo che agisce innanzitutto sulle dinamiche di definizione dei problemi, oltre che sulla ricerca condivisa di soluzioni, superando la dicotomia tra cognizione ed azione, chiave di volta affinché la sicurezza sul lavoro esca dal registro della mera formalità e dell’etero-direzione. La realizzazione di inedi-ti percorsi formativi può così divenire un trait-d’union per attivare processi di co-costruzione di circuiti virtuosi tra sicurezza e lavoro nelle organizzazioni e infine di democrazia.

A livello operativo e di implementazione di concrete strategie di azione, come efficacemente dichiarato da più di un intervistato, è forte l’esigenza di ripensare i flussi di comunicazione, le modalità di partecipazione dei lavoratori:

«invertire la piramide […], partire davvero da un ascolto della base, da una maggiore formazione, ma una formazione che tenga conto delle richieste, delle problematiche dei lavoratori, quindi una formazione reciproca, non semplicemente educativa, non semplicemente un format che io ti devo di-stribuire […] e questa manca ancora in azienda, assolutamente» [Lavoratore 10].

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In questa ottica, suggestioni interessanti riguardano l’individuazione delle metodologie formative più efficaci basate sul coinvolgimento dei la-voratori, sull’alternarsi di momenti formalizzati e momenti maggiormente informali, in grado di valorizzare ed interrogare pratiche lavorative conso-lidate di sapere-in-azione:

«dove le persone possono dire la loro e ricevono risposte, non risposte preco-struite ma specifiche, se io faccio questo posso farlo in aula, fuori dall’aula, in parte con lezioni frontali, in parte con contenuti di carattere normativo, ma in gran parte con metodologie didattiche attive e su contenuti che riguar-dano i rischi reali, quindi la formazione progettata a partire dal documento di valutazione dei rischi, non solo a partire dagli articoli della normativa» (Psicologo del lavoro e formatore).

Laddove apprendere ad apprendere [Bocchi 2010] rappresenta la diret-trice fondamentale proposta alla riflessione e alle pratiche di quanti si occu-pano di formazione sul lavoro, configurandosi quale attività di promozione e sostegno delle differenti figure professionali per lo sviluppo di quelle capacità [Sen, 1992] che pongano gli individui nella condizione di poter scegliere e condizionare le proprie strategie di azione. In questa ottica è forte l’esigenza di potenziare metodologie e relazioni di apprendimento più attive ed attente anche alla dimensione emotiva, il cui obiettivo non sia esclusivamente quello di impartire ricette e soluzione di specifici problemi («nella situazione ‘a’ devi fare ‘b’»), ma la promozione di forme di apprendimento dell’appren-dimento, così come efficacemente testimoniato da un responsabile della formazione per la sicurezza:

«imparare che il miglior dispositivo di protezione individuale non è il caschet-to, ma quello che sta sotto al caschetto, la nostra testa, la nostra capacità di ragionamento. […] le persone fanno in quel modo non perché glielo dico, li obbligo perché se non fanno così li sanziono o non vengono premiati, però se non controllo e mi giro magari cambiano […] ma perché hanno capito e sono convinte che quello sia il modo; allora anche quando troveranno una situazione n+1 a cui non hanno una risposta precostituita potranno costruirla o chiedere a chi li aiuta a trovare una risposta corretta […] il coinvolgimento presuppone anche questo, il fatto che le risposte non siano solo prese per come sono, ma trovino il consenso reale, la comprensione reale da parte dei destinatari» [Psicologo del lavoro e formatore].

Muovendosi in tale direzione la formazione sulla sicurezza si allontana dall’essere un mero sostegno organizzativo all’attribuzione di responsabilità a livello individuale da un lato, o di comportamenti organizzativi esclu-sivamente attenti alla conformità normativa dall’altro, per intraprendere

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l’attivazione di processi di sviluppo organizzativo nella convinzione che «non si impara la sicurezza, bensì si imparano pratiche di lavoro più o meno sicure» [Gherardi, Nicolini e Odella 1997].

6. Riflessioni conclusive

L’analisi che abbiamo svolto indagando il rapporto tra sicurezza e lavoro si è concentrata sulla circolarità tra discorsi e pratiche. L’utilizzo del concetto di campo ci ha permesso di tenere conto contemporaneamente della pluralità di attori che interagiscono nella definizione dei dispositivi legati alla sicurezza sul lavoro, di evidenziare i frames, i modelli di legittimazione, gli orizzonti di plausibilità attorno ai quali tali attori elaborano il ‘discorso pubblico’ sul tema della sicurezza sul lavoro, ed infine di mostrare la traduzione di questi frames e modelli di legittimazione in pratiche organizzative.

Attraverso la ricostruzione della dimensione normativa abbiamo così cercato di interpretare e decodificare ‘il discorso pubblico’, la visione del-la sicurezza sul lavoro che la stessa normativa propone. È prospettato un ampliamento dei soggetti coinvolti nella gestione della sicurezza sul lavoro che parrebbe prefigurare una consapevolezza della complessità dei processi organizzativi implicati. Essi infatti vanno dalla fase ispettiva a quella repres-siva, da quella tecnica a quella consulenziale, da quella formativa a quella valutativa. È riconsiderato il ruolo di lavoratore, che non è più il solo salariato con contratto a tempo indeterminato, ma anche il lavoratore autonomo o formalmente autonomo (collaboratori) o con contratto a termine. È respon-sabilizzato, anche penalmente, il datore di lavoro, così come il management rispetto alla messa a punto di dispositivi per la sicurezza. Sono ampliati e attualizzati i concetti di salute e di rischio con nuovi adempimenti volti alla rilevazione del rischio e alla sua attenta valutazione per mezzo di un appo-sito documento esteso anche alla dimensione psicologica legata allo stress.

E tuttavia abbiamo sottolineato, oltre a un più recente allentamento della severità della normativa in relazione a eventuali inadempienze che proietta le responsabilità verso il basso alleggerendo quelle dei vertici, l’e-sito non scontato dell’elaborazione normativa, poiché i dispositivi previsti e i processi innescati sono resi operativi dall’insieme multiforme ed etero-geneo di attori presenti nel ‘campo della sicurezza sul lavoro’, ognuno dei quali portatore di ruoli, competenze, profili formativi, culture diverse. Una costellazione di potere e di poteri abbiamo detto, che rende l’applicazione della legislazione vigente un processo di costruzione collettiva, dinamico, imprevedibile e contingente. È a questo livello allora che spicca l’importanza

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della dimensione organizzativa, dal momento che l’analisi dei processi di implementazione dei dispositivi sulla sicurezza in azienda rappresenta un punto di osservazione privilegiato per cogliere l’eterogeneità delle forze che attraversano il ‘campo della sicurezza sul lavoro’. Forze che non costituiscono lo sfondo delle pratiche organizzative, ma che contribuiscono a dare loro forma. Come si è tentato di illustrare, alcune forze rivestono carattere ag-gregante, altre tendono invece a frammentare il campo: pressioni coercitive di origine normativa improntate ai principi della prevenzione si combinano con pressioni provenienti da ambienti manageriali che spingono per l’appli-cazione di soluzioni organizzative votate all’efficienza e alla produttività in un generale indebolimento della dimensione collettiva. Interessi e punti di vista di attori collocati su differenziati livelli di potere (dirigenza, lavoratori, organizzazioni sindacali, organismi di vigilanza, consulenti, formatori, enti di certificazione) si confrontano in un gioco che spesso si rivela a somma zero.

Il discorso sulla sicurezza all’interno dei contesti organizzativi analizzati tende così ad assumere un carattere perlopiù rituale, di facciata, svuotato di sostanza rispetto all’avvio di processi in grado di superare la logica della mera protezione e della ‘messa in sicurezza’ formale. Emerge, di conseguenza, un fenomeno riconducibile al processo di de-coupling. Di fronte all’incertezza e all’opacità, le organizzazioni si sdoppiano, adottando dispositivi e avviando azioni riorganizzative di facciata, volte per lo più alla proiezione esterna del brand aziendale, mentre le pratiche concrete non vengono per nulla mutate. Ne possono costituire degli esempi alcuni processi di certificazione che si limitano a un valore formale, di immagine e di marketing, resi van-taggiosi dall’introduzione del legame, previsto dalla normativa, tra l’acqui-sizione della certificazione e la possibilità di sconti sul premio assicurativo o dall’adozione del principio dell’esimenza, che alleggerisce la responsabilità amministrativa in caso di incidenti gravi.

Una delle conseguenze è la personalizzazione del rischio: in assenza di un processo profondo di riorganizzazione volto a determinare condizioni di sicurezza a tutti i livelli dell’organizzazione, tende a prevalere la retorica individuale della colpa in caso di incidenti: come abbiamo visto, se le catene causali sono limitate a difetti tecnici e fallimenti individuali, le risposte con-seguenti saranno limitate, riconducendo il problema ad un problema tecnico che può essere risolto sostituendo o riqualificando la persona responsabile. In quest’ottica però, la mancata tematizzazione della sicurezza come problema collettivo e dell’organizzazione nel suo complesso, fa venire meno l’apporto che le competenze specifiche dei lavoratori potrebbero offrire, allargando così le basi informative utili per l’adozione di politiche e dispositivi concreti per la sicurezza sul lavoro. Ne fa le spese anche la formazione alla sicurezza,

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elemento centrale della normativa, che trascurando il sapere esperto che potrebbe essere veicolato dagli stessi lavoratori si decontestualizza rispetto ai luoghi di lavoro all’interno dei quali si vanno a configurare rischi specifici.

Tuttavia, il materiale di ricerca analizzato lascia intravvedere come proprio a livello meso e micro-organizzativo emergano potenziali di tra-sformazione del ‘campo della sicurezza sul lavoro’. In tal senso assumono rilevanza pratiche situate, innescate da fattori di origine sia endogena che esogena rispetto ai contesti lavorativi, volte a spezzare l’individualismo delle relazioni di lavoro che si riflette nell’attribuzione altrettanto individuale delle responsabilità in tema di sicurezza. Tali tendenze potrebbero promuovere modalità partecipative dei diversi attori, in primo luogo dei lavoratori, al fine di condividere la definizione delle basi informative pertinenti alle con-dizioni di sicurezza, presupposto affinché, in un effetto ‘campo’ appunto, emerga l’interdipendenza e la multidimensionalità degli elementi coinvol-ti nel rapporto tra sicurezza e lavoro ben oltre l’applicazione formale di dispositivi protettivi dettata dalla normativa, verso strategie in grado di saldare prevenzione e abbattimento dei rischi tramite interventi riflessivi sull’organizzazione del lavoro nel suo complesso.

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Prevenzione e soggettivazione: metamorfosi del rapporto tra lavoro e sicurezza

di Vando Borghi

«È sicuro? [Is it safe?]»Laurence Olivier a Dustin Hoffmann,

ne Il maratoneta, 1976

Introduzione

Il tema del rapporto tra lavoro e sicurezza va collocato in un preciso campo di tensione, di fatto circoscritto entro i confini di quello è stato definito come il paradigma della prevenzione. Questo campo di tensione è a sua volta sog-getto ad una metamorfosi che ne trasforma l’articolazione interna e il senso complessivo. Nel mettere a fuoco il mutamento che ha investito un fattore fondamentale del discorso pubblico sul rapporto tra lavoro e sicurezza, vale a dire le basi informative che lo sorreggono e lo alimentano, cercheremo di comprendere il senso e la direzione di tale metamorfosi. Quest’ultima si rivela di cruciale rilevanza, dal momento che investe non solo il mondo del lavoro in senso stretto, ma anche un terreno ben più generale, che pure è diventato fattore fondamentale della riproduzione stessa della logica del capitalismo contemporaneo, vale a dire il processo di soggettivazione.

1. Le basi informative del discorso su sicurezza e lavoro: una breve “storia al presente”

Questa nostra riflessione ha lo scopo di problematizzare il rapporto tra sicurezza e lavoro, così come esso si manifesta nell’esperienza che ciascuno ne fa nei con-testi della propria attività. Usiamo qui il termine “problematizzare” facendo un preciso riferimento al modo in cui Robert Castel [1994] – richiamandosi al lavoro di Foucault – ha efficacemente definito l’analisi sociologica che prende in esame la relazione tra la superficie del presente e la profondità storica degli

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elementi che la configurano. «La problematizzazione – affermava Foucault [cit. in Castel 1994, pp. 237-8] – non è la rappresentazione di un oggetto preesistente, o la creazione attraverso il discorso di un oggetto che non esiste. È la totalità delle pratiche discorsive e non discorsive che portano qualcosa nella scena della verità e della falsità e lo stabiliscono come un oggetto per la mente». Anche se la dimensione storica svolge un ruolo di primo piano in questa specifica pratica teorica della problematizzazione, è Castel stesso [1994, p. 238] a sottolineare che una sua caratteristica essenziale è che il «punto di partenza dell’analisi e l’orientamento che la dirige sono la situazione presente e il modo in cui la questione è formulata oggi».

Oggetto di questa nostra problematizzazione è il rapporto tra basi informa-tive e discorso pubblico in merito alla sicurezza sul lavoro. Il discorso pubblico si presenta, va rintracciato e va indagato in una molteplicità di forme e fattispecie. In gioco sono i testi di legge e le forme di regolazione collettiva, i contratti ma anche le basi extra-contrattuali che rendono questi ultimi effettivi e praticabili [Perulli 2011], i dispositivi e la modulistica operante all’interno della «cittadinanza organizzativa» così come viene determinata nei luoghi di lavoro, le attività di certificazione, gli standard, la formazione sui luoghi di lavoro, l’informazione statistica e così via, in quanto a loro volta incorporano categorie, classificazioni e strutture di giudizio circa il significato dell’essere sicuri. Questo complesso insieme si salda in uno «stile di pensiero», per riprendere la concettualizzazione di Ludwig Fleck [1983], che «non concerne solo una certa forma di spiegazione, o cosa sia spiegare, ma riguarda pure cosa c’è da spiegare» [Rose 2007, p. 12]1. Le basi infor-mative alimentano il (e, in un processo di causazione circolare, sono a loro a volta alimentate dal) discorso pubblico e ne costituiscono dunque parte integrante. Il riferimento, qui, è al patrimonio concettuale elaborato dal capability approach di Amartya Sen2, nel quale il ruolo delle basi informative

1 A tale proposito Rose [2007, p. 12, trad. nostra] sottolinea: «Uno stile di pensiero è un modo specifico di pensare, vedere, praticare. Implica la formulazione di affermazioni che sono possibili e intelligibili soltanto entro quel modo di pensare. Gli elementi – termini, concetti, asserzioni, riferimenti, relazioni – sono organizzati in configurazioni di una deter-minata forma che valgono come argomentazioni e spiegazioni. I fenomeni sono classificati e ordinati secondo criteri di significatività. Certe cose sono designate come prove e raccolte e utilizzate secondo determinate modalità. Soggetti sono scelti e reclutati. Sistemi modello sono immaginati e assemblati. Macchine sono inventate, e successivamente commercializzate, per produrre misure e rappresentazioni quali grafici, diagrammi, tabelle. Tutto questo è legato all’interno di complesse modalità pratiche comegli esperimenti e gli studi clinici ».

2 Oltre al lavoro di Sen stesso (per una ricognizione d’insieme della sua prospettiva, vd. Sen, 2010), sono fondamentali alcune ricerche che hanno ulteriormente sviluppato il tema della qualità delle ‘basi informative’ che alimentano le politiche [de Leonardis, 2009]: si

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come terreno cruciale nel determinare il processo di formazione di decisioni collettivamente vincolanti e, quindi, come terreno fattuale di esercizio di criteri di giustizia, viene tematizzato ed enfatizzato [Bonvin, Favarque 2005].

Quello che segue, dunque, è un abbozzo di problematizzazione, cioè di “storia al presente” del modo in cui è venuto evolvendo e trasformandosi questo rapporto tra basi informative e discorso pubblico in merito alla que-stione della sicurezza al lavoro. Non una ricostruzione storica sistematica ed esaustiva, dunque, ma un approfondimento delle molteplici possibilità storiche (quelle prevalse, quelle minoritarie, quelle possibili ma sconfitte) incorporate nella complessa trama del nostro oggetto d’analisi (il rapporto tra basi informative e discorso pubblico su sicurezza e lavoro), così come esso ci si presenta ai giorni nostri. A tale proposito possiamo identificare quattro fasi storiche:– una prima fase, pre-novecentesca, compresa tra i) un primo periodo,

dall’Unità d’Italia fino alla metà circa degli anni Ottanta del dicianno-vesimo secolo, durante il quale il problema della sicurezza nel nascente ambito industriale è sostanzialmente ignorato, e ii) un secondo periodo, dalla seconda metà degli anni Ottanta, in cui lo stato introduce alcune minime forme di tutela (più di facciata che sostanziali), peraltro siste-maticamente svuotate di significato o vanificate (per assenza di forza di imposizione agli industriali e/o di regolamenti attuativi adeguati e coerenti). Il clima ideologico e culturale, che nella fase precedente aveva reso vani anche i tentativi di introduzione di minime forme di tutela (almeno del lavoro minorile), nel secondo periodo era andato evolvendo nella direzione di un dominante macchinismo industriale e di una “uto-pia tecnicistica” che saldava e consolidava le molte resistenze politiche e culturali a questo genere di regolamentazione e, più in generale, a tutto ciò che andava a ledere gli interessi dei gruppi industriali. Tale quadro si conferma anche quando (1898), nonostante tutto, viene ottenuta la promulgazione di una legge di tipo assicurativo che, per quanto avanza-ta ed esemplare, sarà fortemente indebolita nel senso appena indicato;

– una seconda fase, a partire dalla prima metà del Novecento, che si carat-terizza per l’approvazione di un numero assai più corposo di interventi legislativi a favore dei lavoratori e a tutela della loro salute. La montante

vedano le attività dei networks di ricerca rinvenibili in www.capright.eu e www.workable-eu.org, nonché alcune pubblicazioni direttamente o indirettamente connesse a tali reti di ricerca [Bonvin, Favarque 2008; de Munck, Zimmerman 2008; de Leonardis, Negrelli, Salais 2012; Bifulco, Mozzana 2011]. Abbiamo recentemente cercato di enfatizzare la centralità di que-sta prospettiva di lavoro e la proficua possibilità di intrecciarla con altri archivi e patrimoni cognitivi in [Borghi 2012].

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“questione operaia”, nonché la crescente capacità organizzativa di un partito di classe e di un sindacato assai attivo, costrinsero lo stato a prendere provvedimenti in grado di assecondare le richieste sostenute anche da una forte ondata di scioperi all’inizio del secolo. Ancora una volta tuttavia, e nonostante la concretezza di alcuni risultati (l’istituzione, ad esempio, dell’Ufficio del lavoro e del Consiglio superiore del lavoro), l’“utopia socio-positivistica” che aveva contribuito ad alimentare quella stagione di avanzamenti legislativi si esaurirà presto e il ricorso a mo-tivazioni di ordine economico per attenuare gli effetti della nuova legi-slazione contribuirà a indebolirne significativamente la portata. Intorno agli anni ’50, comunque, la medicina del lavoro ottiene una crescente istituzionalizzazione ma, per quanto concerne la nostra prospettiva di analisi, tesa a mettere a fuoco la questione delle basi informative e del loro rapporto con il discorso pubblico,va sottolineato un aspetto chiave. Anche in un quadro di riconoscimento istituzionale della medicina del lavoro, infatti, si conferma la separazione persistente e sistematica tra soggetto (in questo caso i saperi tecnici dei medici e degli studi anche epi-demiologici e più in generale del sapere scientifico) e oggetto (i lavoratori, le cui condizioni ed esperienze sono appunto oggetto di quelle ricerche)della conoscenza e della produzione di basi informative del discorso pubblico su sicurezza e lavoro. In questa fase, in cui la medicina del lavoro si inserisce in un impianto meramente assicurativo della tutela della salute nei luoghi di lavoro, emerge con tutta chiarezza lo «scarto esistente tra il fenomeno della salute operaia così come è rappresentato dalle malattie professionali riconosciute e quello accertato con criteri diversi, e comunque tali da superare alcuni limiti convenzionali posti dal sistema assicurativo» [Carnevale, Baldasseroni 1999, p. 152]; in tale contesto

«[solo] in parte i risultati di tali indagini mettevano in luce delle malattie professionali o effetti negativi del lavoro e quindi indirettamente condizioni di nocività si trasformavano in occasioni di prevenzione. Il più delle volte gli stessi lavoratori rimanevano all’oscuro dei risultati degli studi che li avevano interessati [c.vo nostro], risultati che circolavano invece solamente nella stretta cerchia degli addetti ai lavori, i medici, senza neanche interessare altri tecnici, impiantisti, addetti alla sicurezza che avrebbero potuto, specie se sollecitati, mettere in atto iniziative capaci di correggere o eliminare le cause a monte di quelle malattie. L’opera degli autori in sostanza rimaneva in un ambito assistenziale e previdenziale, ai margini di una stretta logica assicurativa delle malattie professionali, e comunque all’interno della propria disciplina e del proprio ruolo professionale e tecnico»[Carnevale, Baldasseroni 1999, p. 154].

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In questa cornice, le basi informative e il discorso pubblico che ad esse attinge si fondano su una rigida e marcata dicotomia tra il soggetto (il sapere esperto dei medici) – che di quella conoscenza ne stabilisce codici, criteri di pertinenza, vocabolario, modalità di classificazione, scala di priorità, rapporto con le pratiche e così via – e l’oggetto (i lavoratori, le loro esperienze e conoscenze), nella sua duplice veste di campo d’os-servazione su cui quel soggetto consolida e sviluppa il proprio sapere esperto, e di destinatario degli effetti diretti e indiretti della conoscenza prodotta. In entrambi i casi, l’oggetto – vale a dire i lavoratori, la loro esperienza delle condizioni e del contesto di lavoro – è appunto reificato nel suo ruolo passivo, negato di ogni competenza, di ogni capacità di voice sul processo di produzione ed uso di quelle basi informative e dunque reso irrilevante o comunque marginale nelle arene in cui il discorso pubblico prende forma. L’enfasi su questo punto non sembri eccessiva: è proprio su tale terreno, come si vedrà, che verranno a realizzarsi le prin-cipali trasformazioni nella fase successiva e che avverranno profonde revisioni (involuzioni?) nella fase attuale. Tuttavia, tornando al periodo in esame, la rilevanza di tali basi informative e della modalità della loro costruzione comincia ad essere evidente in quella fase storica e, allorché tra il 1952 e il 1956 prende corpo un nuovo assetto normativo ed una nuova corrispondente struttura istituzionale, il movimento operaio ne rimarca proprio a tale proposito i limiti più gravi. «Il singolo lavoratore in base alla nuova norma diventava formalmente, a garanzia della sua salute, creditore di ‘informazioni’ da parte del datore di lavoro circa i fattori di rischio presenti nel luogo di lavoro. Nulla era detto però sul diritto dei lavoratori in quanto soggetto collettivo e organizzato a partecipare alla tutela della propria salute e sicurezza» [ivi, p. 199]. La consapevolezza, infatti, della rilevanza del tema delle basi informative e del modo in cui esse vengono effettivamente costituite era venuta crescendo, in quegli stessi anni, non solo nelle organizzazioni sindaca-li, ma anche tra i lavoratori: inchieste, descrizioni dettagliate, racconti orali, documentazione qualitative approfondite e così via, cominciano ad affiancare i dati quantitativi raccolti dai medici del lavoro, con una intensità che travalica il ristretto ambito della questione della salute sul lavoro e che testimonia il diffondersi di una vera e propria questione di giustizia cognitiva [Visvanathan 2009] nel nostro paese;

– una terza fase, che coincide con «un significativo cambio di paradigma nella concettualizzazione della salute», impostosi «nel corso degli anni Sessanta, quando si superò la ‘monetizzazione del rischio’ per mettere al centro degli interventi di prevenzione il lavoratore» [Di Nunzio 2011, p.

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25]. Come vedremo, emerge già in questa fase quello che costituisce anche nel periodo successivo, cioè nella fase attuale, il frame del discorso pubblico, non solo riguardo la sicurezza in ambito lavorativo, ma anche la salute più in generale, vale a dire il paradigma della prevenzione. Ma su questo, sulle ambivalenze di tale paradigma e sulle sue articolazioni e contraddizioni interne ci soffermeremo nella seconda parte di questo saggio. Ciò che è invece importante già qui sottolineare, in relazione a questa terza fase, è la profonda trasformazione che si impose in quel periodo (tra gli anni ’60 e ’70) in merito alla costruzione delle basi di informazione e conoscenza del discorso su lavoro e salute, una trasformazione nei contenuti e nei metodi che ebbe effetti significativi di tipo complessivo e strutturale. In modo schematico, possiamo sintetizzare così l’aspetto di maggior rilievo: si compie in quella fase un inedito processo di capacitazione3 dei soggetti (anche) nell’ambito della produzione del discorso pubblico; capacitazione alimentata attraverso un coinvolgimento dei soggetti stessi nella costru-zione delle basi informative (e, di conseguenza, delle decisioni collettive). Naturalmente è un processo punteggiato da momenti di conflittualità sociale, di contraddizioni interne, di ambiguità, ma che nel suo insieme promuove una cruciale «risalita in generalità»4 di esperienze individuali e private: è così che diviene possibile trattare problemi e bisogni di sicurezza e benessere come questioni pertinenti la res publica e dunque di declinarli nel vocabolario dei diritti, promuovendo un effetto che si riverbera an-cora oggi, nel nostro presente. È in quella stagione ed in quel passaggio politico-culturale, oltre che scientifico, ad esempio, che maturano le con-dizioni, e si danno le esperienze locali che ne costituiscono una prima sperimentazione, per la realizzazione del Sistema sanitario nazionale. La centralità della trasformazione del senso e delle modalità di costituzione delle basi informative del discorso pubblico appare evidente nella ricostru-zione storica del percorso di quei due decenni circa. All’inizio degli anni ’60, su impulso di un primo lavoro di inchiesta, artefice Emilio Pugno, si

3 Naturalmente non è questa – la capacitazione – la chiave di lettura utilizzata dalla lettera-tura che pure ha messo a fuoco quella fase storica e gli aspetti su cui ci soffermiamo; tuttavia, il termine e l’apparato concettuale che esso evoca (il capability approach; la capacity for voice) non sono qui convocati a caso: essi consentono una rilettura dei processi storico-sociali in cui la rilevanza delle basi informative e del rapporto tra soggetto e oggetto della produzione della conoscenza, aspetti spesso trascurati, assumono un rilievo di primo piano per la comprensione dei processi di riproduzione e trasformazione della società, delle politiche (del lavoro e non solo) che in quei processi entrano in gioco (cfr. ad esempio, de Leonardis, Negrelli, Salais 2012) e della stessa capacità critica che le scienze sociali possono esprimere [Borghi 2012].

4 Per la centralità di questo concetto, concernente la trasformazione di un problema di ordine privato in una materia di azione pubblica, cfr. [de Leonardis, Bifulco 2005].

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costituisce un collettivo di ricerca composto da operai, tecnici, sindacalisti, medici del lavoro, guidati e coordinati da Ivar Oddone, che indaga la salute nei luoghi di lavoro e impone una propria egemonia sulla defini-zione dell’oggetto e sulle pratiche conoscitive per indagarlo. Il successo e l’efficacia nell’affermare un proprio, nuovo e critico, vocabolario per la definizione, la lettura e quindi anche per l’azione relativamente al tema della salute nei luoghi di lavoro, ha direttamente a che fare (anche) con le caratteristiche del discorso pubblico che si andava imponendo. Quel gruppo riesce infatti a esprimere un modello politico-tecnico che trae vantaggio «dal tradurre in frasi semplici ed efficaci concetti talvolta com-plessi, fino a farne slogan come ‘la salute non si vende’, i ‘quattro gruppi di fattori di rischio’, la ‘non delega’, il ‘gruppo omogeneo’, la ‘validazione consensuale’, i libretti sanitari e di rischio, i registri dei dati ambientali e biostatici». L’esercizio della capacità di voce – cioè di protesta ma anche di ridefinizione del merito delle questioni in gioco e delle parole con cui dirle – dei soggetti che fanno diretta esperienza del problema in questione, è pienamente assunta dalla Cgil nel conflitto e nella negoziazione e favo-risce la constatazione, da parte dei diretti interessati, che «le condizioni di lavoro non sono ‘oggettive’, date una volta per tutte ma possono essere cambiate con effetti apprezzabili anche immediatamente» [Carnevale, Baldasseroni 1999, p. 235]. È significativo che, in quella fase, uno dei prin-cipali ambiti di ciò che rinominiamo qui come processo di capacitazione sia costituito dall’introduzione e dalla realizzazione dell’esperienza delle 150 ore. Spazio di valorizzazione del punto di vista dei diretti interessati nel processo di costruzione delle basi informative e di conoscenza e, allo stesso tempo, ambito in cui viene consolidata e intensificata la «capacità di aspirare»5 dei lavoratori, con effetti significativi di interrogazione e di innovazione dei saperi codificati, le 150 ore rappresentano il «terreno di confronto principale dei due mondi, quello scientifico e quello operaio» e introducono il diritto «inizialmente acquisito dai lavoratori metalmec-canici e chimici, di completare il proprio iter scolastico con le licenze dell’obbligo, ma anche di ampliare la propria capacità d’intervento sulla realtà di lavoro attraverso corsi monotematici svolti nel cuore stesso dei luoghi della produzione culturale, le Università» [Carnevale, Baldassero-

5 Ci si riferisce qui ad una concettualizzazione proposta da Appadurai [2011], nella quale la cultura è ridefinita come una specifica capability, cioè il terreno nel quale prende forma – o meno – la possibilità di immaginare un futuro più dignitoso e giusto e di cercare di praticarlo già nel contesto di vita presente. La «capacità di aspirare» si alimenta così della capacità di voice e delle esperienze in cui i soggetti riescono a «praticare il possibile» [de Leonardis, 2011; de Leonardis, Deriu 2012].

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ni 1999, p. 246-7]6. L’insufficienza della norma in sé e la centralità del coinvolgimento dei lavoratori nella produzione delle basi conoscitive e informative per il trattamento delle questioni della salute e della sicurez-za fu una acquisizione fondamentale del gruppo di ricerca torinese, che rappresentò, nelle parole di Accornero [1992, p. 138], «l’unico pregevole tentativo di rinnovamento culturale» del sindacato. Nella ricostruzione storica delle «lotte per l’ambiente di lavoro», dal dopoguerra agli anni novanta, effettuata da M.L. Righi [1992, pp. 629-30] questo passaggio-chiave è identificato con parole che vale la pena riportare direttamente, anche perché evidenziano con chiarezza la rilevanza che travalica le co-ordinate temporali entro cui si origina:

«I lavoratori, infatti, partendo dalle loro esperienze, fornivano contributi co-noscitivi originali alla scienza medica; essi si orientavano spontaneamente a una valutazione epidemiologica delle conseguenze dell’ambiente sulla salute, molto più efficace della medicina del lavoro tradizionale, basata essenzialmen-te sui nessi causali tra sostanze chimico-fisiche e patologie […] attraverso la ridefinizione del soggetto della ricerca essa cercò di formulare i lineamenti di una vera rivoluzione scientifica, tale da essere in grado di interpretare dati prima ignorati dalla medicina (come la percezione soggettiva della fatica), e di prevedere uno spettro più ampio di fenomeni […]. La valorizzazione teorica dell’esperienza operaia prospettava in termini nuovi anche il ruolo degli intellettuali. Non si trattava semplicemente di diffondere ‘il’ sapere a chi non l’aveva, ma di elaborare metodi e linguaggi che consentissero una comunicazione tra universi cognitivi diversi, superando visioni spontaneistiche da un lato e divulgative dall’altro. Malgrado i termini chiave di questo lessico sottolineassero soprattutto l’autonomia del gruppo operaio (‘non delega’ e ‘validazione consensuale’) – dando origine anche a equivoci e contestazioni – il modello originario valorizzava, modificandole, le specificità e gli apporti di entrambe le componenti di ricerca».

La consapevolezza del potenziale trasformativo derivante dall’espansio-ne della capacità di voice dei lavoratori non era così presente e consapevole, in precedenza, neppure nel sindacato e questo aspetto «fu considerato

6 La centralità di questo aspetto è evidente in se stesso, ma anche in relazione agli sviluppi che su questo stesso terreno si sono avuti nella fase contemporanea. Può essere utile riportare qui una considerazione tra le tante raccolte nel corso delle interviste condotte nella ricerca: «Ho avuto occasione di fare moltissima formazione perché nel 2003 ci sono state le specifiche per chi fa questo lavoro, che è ridicola, perché considera che in Emilia Romagna per aprire una lavasecco occorrono 1000 ore di lezione, per fare l’RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, n.d.r.), una persona che si dovrebbe occupare professionalmente della salute delle persone, il percorso minimo è 28h +12h+ 24h, in totale di una sessantina di ore, mi sembra che ci sia una sproporzione enorme» (esperto sicurezza presso CNR)

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a lungo solo uno strumento più efficace di organizzazione del consenso e non una risorsa per il governo della crescente complessità del ciclo produttivo» [ivi, pp. 623-4]. Tuttavia è evidente la rilevanza di questa fase per il superamento della monetizzazione dei rischi per la salute e il riconoscimento della partecipazione dei lavoratori alla costruzione delle basi conoscitive e informative cui anche il discorso pubblico attinge. In gioco sono il vocabolario e la grammatica che danno corpo a tale argomentazione ed il conflitto «per il monopolio della rappresentazione legittima del mondo sociale» [Bourdieu 1991, p. 12] che sul terreno di tale discorso si svolge7. A proposito di questa posta in gioco risultano quanto mai emblematiche le parole usate da Bruno Trentin [1970, pp. 257-8], nel suo intervento al congresso nazionale della Fiom nel 1970, per distinguere il “normale” lavoro sindacale di denuncia di casi di in-sicurezza e/o nocività e la più ambiziosa produzione di nuove e diverse basi informative del discorso pubblico:

«la conoscenza dei fatti, delle loro conseguenze, il dibattito politico sulla por-tata e le implicazioni di determinati fattori di nocività in un dato reparto, in una data fabbrica creano la coscienza della necessità della lotta non per avere un’indennità ma per mutare le condizioni di lavoro e, se occorre la fabbri-ca. Le commissioni di inchiesta che abbiamo conquistato in molte fabbriche possono divenire lo strumento per questa conoscenza collettiva; ma anche al di là delle commissioni di inchiesta, collettivi di operai e di studenti di medicina, di sociologia, possono elaborare, anche con mezzi di informazione approssimativi, delle indagini di massa, confrontarne i risultati con le assem-blee dei lavoratori, nella fabbrica, portare questi risultati fuori dalla fabbrica, coinvolgendo la responsabilità di tutte le forze che possono essere mobilitate per un intervento anche esterno; isolare così di fronte all’opinione pubblica quel padrone che tentasse di legittimizzare una organizzazione del lavoro la quale si regge sulla menomazione della salute e spesso sul rischio per la vita degli operai. Questa è una cosa diversa della denuncia che noi facciamo, anche quando citiamo dati statistici generali, certo impressionanti ma pur sempre astratti,

7 Per una posizione critica di quelli che alcuni osservatori consideravano eccessi sindacal-movimentisti vd. G. Berlinguer [1973: 15]: «Consensualità e soggettività degli operai. Ma quante volte queste componenti essenziali, prima trascurate, una volta scoperte sono state assolutamente contrapposte alla direzione politico-sindacale e all’oggettività delle conoscenze scientifiche? (…) ( anche nel termine non delega, e nella conseguente richiesta di autogestione della salute, vi è certo una acquisizione positiva (…). Non credo, tuttavia, che la salute possa essere autogestita dai lavoratori: perché sia protetta in modo efficace, occorre il concorso di forze assai vaste, la trasformazione molto profonda dei rapporti sociali (…) I medici, le altre categorie sanitarie, lo Stato con il sistema delle autonomie locali, le università, gli istituti di ricerca hanno un ruolo che non è da comparse (…) gruppo omogeneo non è solo quello di un reparto o di un’azienda, ma quello di un territorio, di una regione…».

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lontani dalla coscienza delle masse e tali quindi da non chiamare direttamente in causa le responsabilità e le scelte di azione di ciascuno. Si tratta di un salto di qualità che non abbiamo mai fatto. A me pare determinante, se vogliamo, come lo affermiamo, portare questi temi fuori dalla fabbrica e saldarli con una lotta più generale di riforma e trasformazione della società»

– La quarta fase ci porta infine ad occuparci del presente. Ma, come dicevamo all’inizio di questa embrionale genealogia del modo in cui la «merce che discute» [Morandi, 1978] è andata trasformando la propria capacity for voice sul terreno della salute nei luoghi di lavoro, la «problema-tizzazione» della realtà in cui siamo immersi consiste proprio nell’analisi delle storie, effettive e potenziali, che appunto nel presente – come dato e come orizzonte di possibilità – confluiscono. Si tratta cioè di far emergere e mettere in chiaro l’interazione tra i passaggi sopra richiamati (soprat-tutto quelli più recenti), ciò che di essi (del possibile da essi dischiuso) giace nelle pieghe del presente, da una parte, e lo stile di pensiero che domina, che fa autorità e quindi i criteri di pertinenza, le forme di classificazione, i codici e i saperi esperti che lo innervano, dall’altra. Se già in quella che abbiamo indicato come la terza fase della nostra perio-dizzazione emerge il paradigma della prevenzione, che pure caratterizza anche il nostro attuale orizzonte di esperienza [Pitch 2008; Carnevale, Baldasseroni 1999, ultimo cap.; Di Nunzio 2011; Gosetti 2012], occorre allora capire la pluralità delle articolazioni interne a tale paradigma, rintracciando l’evoluzione dei rapporti tra queste differenti articolazioni ed esplicitando le differenti temporalità che sono sempre coesistenti e incorporate in un fenomeno sociale8 e che una indagine finalizzata alla “problematizzazione” di quel fenomeno deve far emergere.

2.2 Il discorso della prevenzione: genesi e mutamento

La portata delle trasformazioni che abbiamo identificato con la terza fase della nostra periodizzazione, è stato sottolineato, va oltre l’ambito circoscritto alla sicurezza del lavoro. Nella sua Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea [1994], Cosmacini sottolinea come l’attenzione ai temi dell’in-

8 Sewell [[2008a, 2008b] identifica tre temporalità che attraversano strutturalmente i fenomeni sociali e che dunque devono essere indagati per comprenderne il significato attuale: quella che rimanda alle condizioni strutturali preesistenti di lunghissimo respiro; quella della storia congiunturale di media portata temporale; quella degli eventi, delle «azioni strategiche o volontarie contingenti».

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quinamento dell’acqua e dell’aria e, in generale, alla salubrità dell’ambiente urbano, derivano di fatto da una estensione della coscienza sanitaria matu-rata nelle fabbriche negli anni ’60 e ’70. Si impone in quegli anni una con-cezione della salute che andrà a dare corpo a un più generale e trasversale paradigma della prevenzione. È questo paradigma ad alimentare alcuni dei mu-tamenti sociali e istituzionali più significativi della nostra società, i cui effetti sono chiaramente rinvenibili in diverse istituti (nel senso sociologico, ancor prima che amministrativo) della nostra vita collettiva, essendo la prevenzione configuratasi «come un obiettivo e un motore fondamentale così della ricerca scientifica come delle riforme sociali» [Pitch 2008, p. 40]. Ma occorre su-bito precisare che la «modalità prevalente delle pratiche e delle politiche di prevenzione» che emerge in quegli anni e che si consolida e istituzionalizza nei decenni successivi, è «una modalità per l’appunto sociale, collettiva e pubblica. Sono le istituzioni a farsi carico della prevenzione, piuttosto che gli individui, ed essa si indirizza verso rischi considerati sociali, a partire dalle cause delle malattie (…): l’ethos prevalente si rivolge nei confronti di ciò che è collettivo, sociale, e sono per l’appunto in gran parte le istituzioni a farsene carico» [ivi, pp. 40-1]. Gli indizi e le tracce su cui richiameremo l’attenzio-ne, così come quanto emerge dall’analisi svolta nel saggio di Giullari, Rizza e Sansavini [infra], fanno pensare invece ad un mutamento nello stile di pensiero entro cui quel paradigma viene interpretato e al dispiegamento di meccanismi discorsivi orientati all’attivazione di altri corsi d’azione.

Ciò che, infatti, pare delinearsi con una certa chiarezza è un processo di trasformazione di un paradigma fondativo del discorso pubblico quale è quello della prevenzione. Dopo averne messo a fuoco più sopra il percorso di emersione – riassumibile nel passaggio dalla monetizzazione del rischio all’istituzionalizzazione della prevenzione (nel campo della sicurezza del la-voro) – proviamo ora ad interpretare tracce e sintomi correnti della profonda trasformazione che la caratterizza nel contesto attuale. Naturalmente, si tratta di un quadro sociale complesso, articolato, ambiguo, ambivalente – come indicato con chiarezza dalla mappatura del campo della sicurezza effettuata nella ricerca alla base di questa riflessione [cfr. Giullari, Rizza e Sansavini, infra] – nel quale sono compresenti, e talvolta conflittuali, logiche e pratiche riconducibili a stili di pensiero che appartengono a fasi differenti della trasformazione. Troviamo tracce di questi differenti stili di pensiero nello stesso apparato di regolamentazione giuridica del campo attualmente vigente (il cosiddetto Testo Unico sulla Salute e Sicurezza). Ma è dall’analisi d’insieme del campo sociale in questione (che non è quindi esauribile sul piano della lettera del testo di legge), dall’indagine del modo in cui questa compresenza di logiche argomentative e sociali attraversa lo stile di pensiero

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e i meccanismi del discorso sulla sicurezza, e si manifesta nelle esperienze dei diversi soggetti, che è possibile comprendere il significato delle trasfor-mazioni in corso.

In termini estremamente schematici: il campo della sicurezza è attra-versato da una tensione, che impregna anche i dispositivi (standard, target, sistemi di certificazione, etc.) che operano in esso e allo stesso tempo precosti-tuiscono le basi informative di cui quel campo e quella tensione si alimentano; una tensione che scorre tra due polarità attorno alle quali il discorso pubblico si è venuto addensando nel tempo. Da un lato, infatti, si delinea una polarità del discorso ancorata ad una concezione residuale: sicurezza come assenza di rischio più o meno grave, come requisito funzionale alla piena ed efficiente realizzazione di una performance produttiva ed organizzativa, performance la cui logica intrinseca non è in alcun modo condizionata o condizionabi-le da obiettivi di sicurezza, essendo quest’ultima semmai un adempimento (burocratico) da espletare; dall’altro, una polarità che fa invece riferimento ad una concezione di sicurezza come diritto alla salute nei luoghi di lavoro e di salute come benessere psico-fisico, come riconoscimento dell’integrità e della dignità degli individui, alla cui concreta definizione (generale e situata) ed al cui pratico apprendimento (secondo una vasta letteratura che va dalla “deliberative inquiry” di Dewey agli studi sulla dimensione pratica della cultura della sicurezza nelle organizzazioni [Gherardi, Nicolini, Odella 2001) i soggetti coinvolti devono poter partecipare attivamente. In questo secondo caso, la sicurezza diviene parte di un lavoro (non di un lavoratore) di cui ci si prende cura, di un buon lavoro, di una complessiva concezione del fare bene e con qualità le cose e del prendersi cura, attraverso il lavoro, dell’ambiente circostante e di ciò di cui esso è fatto, si tratti di aspetti materiali o immateriali. Queste due polarità animano dunque, due modi di declinare, nel discorso pubblico, i diritti, la salute e le relazioni che devono intercorrere tra essi (per quanto concerne, nel nostro caso, nell’ambito del lavoro). Proviamo allora a riprendere alcuni dei sintomi più significativi della trasformazione che, nel campo di tensione qui circoscritto, pare attualmente in corso.

a. Sintomi e spie linguistiche: verso una neo-lingua?Come spesso accade, il linguaggio rappresenta il terreno in cui più preco-cemente è possibile rinvenire le tracce di una trasformazione in profondità nella qualità stessa dei processi sociali. Nel linguaggio, infatti, non è sem-plicemente in gioco la produzione di forme simboliche che esauriscono i loro effetti sul piano della comunicazione. Sono invece proprio i dispositivi del discorso all’opera che attivano scenari plausibili per l’azione e contribu-iscono alla costruzione di «regimi di verità», secondo pratiche che hanno

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conseguenze molto concrete: «il governo di un’‘economia’ diventa possibile solo grazie a meccanismi discorsivi che rappresentino il campo da governare come intelligibile, con confini e caratteristiche suoi e con componenti lega-te in maniera più o meno sistematica» [Rose 2007, p. 33]. I «meccanismi discorsivi» che di fatto ridefiniscono e reinterpretano il paradigma della prevenzione dischiudono uno spazio da mappare, classificare, teorizzare, trasformare in obbiettivi di ricerca, investimento, perseguimento di vantaggi competitivi. Non è tanto questione di distorsione di un linguaggio altrimenti condiviso: «è più una faccenda di produzione e configurazione di verità che non di manifattura e marketing di falsità» ed è proprio in relazione a questo processo che la biopolitica, della quale anche il paradigma della prevenzione è parte integrante, «diventa bioeconomia» [Rose 2007, p. 32]. Nuovi termini, acronimi, espressioni di gergo tecnico che assurgono a senso comune, nuovi usi di parole familiari, espressioni inedite (e chiunque si sia avventurato nel campo della sicurezza del lavoro ha potuto constatare la massiccia presenza di tutto ciò): l’emergere di una vera e propria neo-lingua segnala spesso che è all’opera un mutamento che si manifesta in primo luo-go nei modi di ritagliare le finestre linguistiche di accesso all’esperienza del mondo, ma che, in modo più strutturale, ha a che fare con trasformazioni epistemiche, del modo in cui le forme di conoscenza del mondo attivano determinati corsi d’azione e ne emarginano o interdicono altri. Lo slitta-mento di determinati termini da un ambito linguistico all’altro, infatti, non è mai privo di effetti: il linguaggio di una specifica sfera linguistica e sociale «può anche eclissare, soffocare, ‘colonizzare’ l’ambito di arrivo» [Porsken 2011, p. 136]. Soprattutto laddove a prendere il sopravvento è il linguaggio astratto degli esperti, l’effetto di disabilitazione dei cittadini e dei lavoratori è particolarmente intenso [Illich et al. 2008]: da un lato, tale linguaggio «rende il mondo pianificabile e lo spiana in modo che possa essere progettato con il tecnigrafo» [Porsken 2011, p. 149]; dall’altro, esso «serve a nascondere la realtà», impedendo «alla fantasia di avere un ruolo nella vita delle persone» e ignorando ciò che esse «vivono e sentono, le loro storie di vita» [ibidem].

Per esemplificare tale quadro possiamo servirci di due indizi tratti dai materiali della ricerca sul campo. Il primo è quello rappresentato dal ter-mine ‘esimenza’: asse di raccordo tra la dimensione pubblica (i codici di legge) e quella privata (le forme di certificazione volontaria)9, esso attiva

9 «In base al lavoro stimolato dal Presidente Napolitano e voluto dal governo Prodi si definì che era applicabile alla salute e sicurezza sul lavoro l’ambito del d.lgs. 231 per la responsa-bilità amministrativa (il giudice penale per le imprese) e già questo ambito di applicazione individuato dall’art. 30 del d.81 ha portato ad un collegamento diretto fra quello che poteva

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e istituisce un confine invisibile, ma con conseguenze concrete sul campo della sicurezza. Per esimenza (che, giustamente, il correttore automatico del foglio elettronico di cui ci stiamo servendo sottolinea in rosso) si intende un traguardo, da perseguire attraverso un insieme di adempimenti e procedure, il quale, una volta formalmente certificato, mette l’impresa ed i suoi attori al riparo da eventuali conseguenze in caso di incidenti. Si tratta di un vero e proprio processo di attivazione di corsi d’azione [Weick 1997], innescato da dispositivi del discorso pubblico, sotto forma di decreto legislativo, con effetti significativi consistenti, di fatto, nella promozione di una serie di “rituali di verifica” [Power 2002] standardizzati che, come esemplifica efficacemente il primo dei due brani di intervista qui riportati, non implicano un effetto sulla sicurezza dell’ambiente di lavoro, quanto piuttosto una protezione dalle eventuali conseguenze per chi è responsabile delle attività condotte in quello stesso ambiente.

«c’è un gran mercato sulla 18001, quindi dal testo unico, dal 15 maggio 2008 l’interesse è cresciuto: ora dire che in questo ci sia una motivazione etica è dire una bugia, magari c’è e in alcune aziende sicuramente è vero, però nella maggior parte, quindi nella gran massa di chi ci fa richiesta di certificazione, c’è l’interesse all’esimenza della responsabilità amministrativa;[…] noi andiamo a valutare un sistema di gestione che se implementato e mantenuto può essere efficace per l’esimenza 231, quindi capisci che, se il sistema viene certificato, siamo un attore importante in questo iter, quindi prima dell’articolo 30 in effetti la certificazione della sicurezza non era così pesante per un ente di certificazione, un po’ perché c’era poco mercato e un po’ perché non essendoci l’esimenza era un sistema come tanti altri […] Quindi è cambiatissimo il ruolo degli enti di certificazione perché noi pos-siamo essere chiamati a testimoniare in un processo per la responsabilità amministrativa e non solo, possiamo essere anche chiamati durante le inda-gini. Abbiamo avuto come ente di certificazione tre decessi in azienda nostra cliente certificata sotto accreditamento, noi eravamo a postissimo, eravamo dentro le regole di accreditamento, sono ancora in corso le indagini però ne

essere l’approccio legislativo/giuridico e l’approccio volontario perché vengono richiamati come modelli organizzativi o tecno-organizzativi per poter avere l’esimenza rispetto alla 231 la linea guida UNI-INAIL (che però difficilmente può essere oggetto di certificazione poiché essendo linea guida utilizza il condizionale) e il British Standard 18001 dove invece le prescrizioni sono ben chiare e individuate. Non che con questo il 231 sia soddisfatto perché occorre che ci sia un modello gestionale, quindi un codice etico, un codice anche sanzionatorio, con un organo di vigilanza. Però è uno strumento per poter concretizzare il modello con cui l’organizzazione effettivamente mantiene sotto controllo e vigila in primis sulla corretta applicazione di aspetti di salute e sicurezza sul lavoro. Con il d.81 si delinea la fusione fra il mondo volontario e il mondo cogente»[ispettore Ente Nazionale Unico di Accreditamento, 20-21).

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siamo usciti bene noi e anche il nostro cliente perché durante le indagini si sta capendo che la responsabilità forse era del suo committente» (Referente Società di certificazione).

Nella scena in cui «in azienda nostra cliente certificata» ci sono stati tre decessi», ma «ne siamo usciti bene noi e anche il nostro cliente» ci sono chiari elementi che rimandano a quanto Ota de Leonardis e Alberta Giorgi [infra] osservano a proposito di trucchi argomentativi attraverso i quali si producono realtà fittizie. Un’offerta di realtà fittizie che produce la propria domanda: il rischio che si sia creato un «mercato improprio», che risponde alla domanda «dove si compra l’esimenza?»10, emerge con evidenza nel corso dell’indagine. Diversi interlocutori registrano, a questo proposito, ciò che tecnicamente si definisce “effetto di trasposizione dei fini” [Scott, 1992], in base al quale quanto più si intensifica l’enfasi sui mezzi e sulle procedure (formali), tanto meno si persegue nella sostanza l’obbiettivo per cui sarebbero stati adottati quegli strumenti:

«Faccio questo esempio: quando un funzionario di vigilanza va in un’azienda a vedere come stanno applicando la norma, la 626 o l’81, vanno là e dicono, hanno una checklist “mi fa vedere l’attestato che l’rls ha fatto il corso?”, ce l’ha, “mi fa vedere il corso antincendio?”, e questa è tutta follia, tutta follia, perché dovrebbe essere ribaltato in questo modo: l’ispettore entra in azienda e dice “mi fa vedere come siete organizzati per la sicurezza” […]. Voglio vedere come siete organizzati, come state facendo l’applicazione, entrare nel cuore vero del problema, non solo sulla carta, questo è l’errore che ormai si trascina perché poi il discorso diventa ancora più perverso perché poi entra in gioco anche la magistratura, perché quelli che si occupano di vigilanza sono sottoposti all’interpretazione dei giudici, cioè loro vedono nei tribunali e nelle cause che il giudice vuole vedere l’attestato, se non ha l’attestato niente e giudica in funzione di quello, anche lì il giudice non va al cuore del proble-ma, “aveva l’attestato, a posto”, per cui c’è tutto questo discorso di necessità di un profondo cambiamento, se vogliamo far crescere sicurezza dobbiamo cambiare modo di vedere le cose, adesso le vedono in questo modo qui, vanno a vedere se sono state fatte le carte e non se l’organizzazione è stata creata» (ex-Responsabile sicurezza per una grande impresa, attualmente responsabile Area sicurezza in ente di formazione e consulenza)

Un secondo indizio, ancora più evidente dato il rilievo con cui questo tema ricorre nella pubblicistica di settore e l’enfasi che viene posta su una sua precisa e quantitativa misurazione in tutte le organizzazioni, è quello che ha che fare con lo stress lavoro-correlato. A questo proposito pare assai

10 Dall’intervista a responsabile settore sicurezza Cgil ER, 6.

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calzante quanto affermato dallo studioso dell’organizzazione del lavoro Ives Clot, laddove egli sottolinea come anche il tema del benessere psicosociale sul lavoro viene fatto slittare, da questione di cura dei contenuti e delle forme del lavoro, a questione di responsabilità individuale nella cura di se stessi. «È un po’ come se si aprissero, nelle imprese, in materia di salute mentale al lavoro, dei “corridoi umanitari” sul terreno delle “guerre economiche”. È, in effetti, la funzione stessa – scrive Clot [2011, p. 41] – dei piani d’azione contro i rischi psicosociali: aggiungere la gestione dei rischi ai rischi della gestione, estendendo ulteriormente il campo del management all’ingegneria psicologica. Su questa strada è lo stress dei lavoratori che occorre curare, mentre è il lavoro che è malato, perché ai lavoratori è impedito di prender-ne cura». Come fa notare Angelo Salento [2013], da una concezione che assume l’organizzazione del lavoro, l’impresa e le organizzazioni in generale, come entità date, come black box dei cui contenuti e della cui razionalità non è dato modo di discutere, discende in modo complementare l’idea «di una concezione propriamente psicologico-individuale del cosiddetto stress lavoro-correlato, e di un’enfasi sui cosiddetti rischi psico-sociali tutta orien-tata a trattare il malessere del lavoro come malessere del lavoratore».

In un contesto internazionale di crescita dell’attenzione, anche scien-tifica, alla dimensione psicologica e alle questioni del benessere e della sa-lute associate a tale dimensione, nell’ottobre 2004 le parti sociali europee (sindacati e imprese) sottoscrivono un Accordo Quadro europeo sullo stress lavoro-correlato che viene recepito nel nostro paese ad inizio giugno 2008. Accordo assai generico nella definizione del proprio oggetto, delle cause che ne sarebbero all’origine e delle metodologie per affrontarlo, esso ha prodotto in ciascun paese una forte discussione sulle modalità con cui interpretarlo e renderlo operativo. In una circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali11, comunicata non solo per i canali ufficiali ma assai spesso allegata da imprese private alla loro proposta economica di corsi ed attività per ot-temperare agli obblighi di legge (si veda, ad esempio, il testo del fax spedito di recente a migliaia di scuole con cui un’impresa privata, corredandola con la circolare citata, introduceva la propria proposta ed il relativo tariffario: Fig. 1), la «valutazione preliminare» del rischio di stress, obbligatoria per tutti, viene identificata con «la rilevazione di indicatori oggettivi e verificabili, ove possibile numericamente apprezzabili» [c.vo nostro].

11 Così è identificata dallo stesso Ministero: «lettera circolare in ordine alla approvazione delle indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato di cui all’ar-ticolo 28, comma 1-bis, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, e successive modifiche e integrazioni».

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“Gentile Dirigente Scolastico,come certamente ricorderà, a norma del d.lgs. 81/2008 e ss.mm., l’Isti-

tuto da Lei diretto deve svolgere una valutazione del rischio stress lavoro-correlato presso tutti i dipendenti (corpo docente e personale ATA), nonché presso gli studenti impegnati in attività di laboratorio.

In caso di inottemperanza sono previste sia sanzioni pecunariesia san-zioni penali a Suo carico, per inadempienza alla normativa sulla sicurezza su luogo di lavoro (626 e ss.mm.). Potrà verificare quanto detto attraverso il provveditorato o anche semplicemente consultando internet.

La nostra azienda – su cui potrà avere informazioni al sito www.etc, dove troverà copia della normativa e delle principali interpretazioni giuridiche – è in grado di fornirLe gli strumenti per eseguire quanto richiesto dalla legge entro 30 gg. dalla sottoscrizione dell’incarico, che può essere affidato direttamente in quanto di modico importo.

I costi variano tra i 170 e gli 850 Euro oltre Iva, a seconda del livello di approfondimento idoneo al suo istituto. In caso di suo interesse o per maggiori informazioni La prego di contattarmi ai seguenti indirizzi (…).

Mi scuso per la brevità e i toni di questa e-mail, ma dobbiamo avvertire diverse migliaia di scuole in pochi giorni, e purtroppo è necessario mettere subito in vista gli obblighi giuridici.

Roma, 29 settembre 2010

Cordialmented.ssa XY

(Responsabile Area Marketing XXX)

Figura 2.1 – Proposta economica relativa alla valutazione dello stress lavoro-correlato

In ambito istituzionale (ad esempio su scala regionale), in un contesto generale che va nella stessa direzione sopra richiamata di enfatizzazione di dati oggettivati e quantificati12, questo ha portato, tra l’altro, alla formazione

12 Uno dei testimoni significativi intervistati, nel fare una ricognizione di come nella Re-gione Emilia Romagna si sia passati da una logica istituzionale di un tipo ad un’altra per quanto concerne la costruzione e il trattamento delle basi informative sul tema della sicurezza, sottolinea la diversità tra un Istituto operante negli scorsi decenni, nel quale ci si «impegnava proprio a cercare di sviluppare il tema della salute e sicurezza andando oltre la dimensione numerica degli infortuni cercando di puntare sulle determinanti sociali, quindi di capire quale era il peso o quanto incidevano aspetti come il contratto, la nazionalità, il genere, e in che modo l’organizzazione del lavoro impattava sulle condizioni di lavoro, quindi una visione più ampia e multidisciplinare» e la situazione attuale, in cui quella funzione è affidata ad una nuova struttura (XY). «L’orientamento di XY pare invece quello di svolgere un servizio alla regione con un approccio da consulente: fanno schede riepilogative sulle attività promosse dalla regione, tanto da fungere da una sorta di vetrina dell’attività che la regione svolge e con una forte caratterizzazione numerico-quantitativa (dati ed elaborazioni sugli infortuni,

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di Commissioni e gruppi di lavoro per la definizione, la operativizzazione e la rilevazione di quegli indicatori (presso organizzazioni come la Pubblica Amministrazione, le strutture sanitarie e altre ancora) composte pressoché esclusivamente di esperti di campo medico, psicologico e ingegneristico. Anche nelle imprese, spesso, quel dispositivo discorsivo – lo stress lavoro-correlato – ha attivato corsi d’azione che vanno esattamente nella direzione opposta rispetto a quella capacitazione dei lavoratori che pure, riguardo proprio a queste problematiche, si era affermata in altre fasi del processo storico sociale che stiamo indagando. È una considerazione che si impone ancora di più laddove si mettono a confronto le indicazioni della direttiva europea, nella quale veniva previsto un coinvolgimento effettivo dei lavora-tori e delle loro rappresentanze, con i contenuti delle Linee Guida illustrate nella circolare ricordata – che recita: «Nelle aziende di maggiori dimensioni è possibile sentire un campione rappresentativo di lavoratori. La scelta delle mo-dalità tramite cui sentire i lavoratori è rimessa al datore di lavoro, anche in relazione alla metodologia di valutazione adottata» [c.vo nostro] – e, soprattutto, con le modalità con cui esse vengono poi interpretate dagli attori all’opera nel campo della sicurezza. Le considerazioni che seguono, raccolte nel corso della ricerca, sono a questo proposito significative:

«Le difficoltà che ci sono, sono relative all’ambito in cui lavoriamo che è Fiat, perché la Fiat pone dei regolamenti aziendali che a volte per l’Rspp in particola-re sono superiori alla legge 81 o al contratto nazionale del lavoro13. Ad esempio sullo stress lavoro correlato l’azienda aveva l’obbligo entro il 31 di dicembre dello scorso anno di effettuare la valutazione del rischio sullo stress lavoro correlato, e nonostante ci fossero state delle linee guida su come attuare la valutazione stessa e tutto il resto, c’è stata una circolare Fiat che diceva sostanzialmente che la valutazione doveva farla l’Rspp con il medico competente con la direzione del personale e basta, quindi anche gli Rls non sono stati minimamente coinvolti, non c’è stata nessuna consultazione preventiva, niente di niente […] Lo stress lavoro correlato è stato difficile solo, come dire, prenderlo in esame, nonostante fosse un obbligo di legge, cioè ci abbiamo messo un anno e mezzo solamente per far capire all’azienda e all’RSPP che non potevano semplicemente fare il documento di valutazione del rischio loro e basta, senza coinvolgere non solo i lavoratori, che non ci pensano neanche, ma nemmeno gli Rls, per la prima stesura che è stata fatta non ci hanno nemmeno consultato come Rls, hanno preso la checklist, hanno risposto loro a tutte le domande, livello di rischio basso,

le ispezioni, etc. ...). Il tutto stravolgendo un po’ il valore del Rapporto regionale sulla salute e sicurezza» (ricercatore Ires ER, esperto sicurezza lavoro).

13 Su questo importante tema della subordinazione dell’ordinamento giuridico nazionale a regolamentazioni e standard privati torneremo successivamente, discutendo il caso del dispositivo ‘Ergo-Uas’ nel gruppo Fiat.

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finita lì... Ci abbiamo messo un anno e mezzo, scrivendo lettere, minacciando di far intervenire la Ausl, se non peggio, per costringerli a ritornare al tavolo e a rifare assieme a noi Rls un po’ tutta la valutazione in oggetto, e rifacendolo assieme siamo arrivati alla soglia della fascia media di rischio. Però anche lì, fino a quando si prendono in considerazione checklist generiche che a volte non c’entrano niente con quello che viviamo nello stabilimento è un po’ un prendersi in giro» (Rappresentante Lavoratori per la Sicurezza [RLS] in uno dei casi aziendali indagati nel corso della ricerca);D: Nella normativa recente si fa esplicito richiamo allo stress lavoro correlato e alla valutazione dello stesso…«È tutto un bla, bla, perché effettivamente lo stress c’è ma non quello di Sacconi […] Sacconi ha voluto limitare l’ambito di azione, dicendo i parametri per mi-surare lo stress sono questi, le ferie, le malattie… che ci sono anche quelli, ma hanno molta meno valenza di quella che gli è stata attribuita Loro hanno voluto solamente impedire che fossero i lavoratori attraverso dei questionari a pronunciarsi sulle loro con-dizioni di stress» [c.vo nostro] (ex-Responsabile sicurezza per una grande impresa, attualmente responsabile Area sicurezza in ente di formazione e consulenza)

b. Le insidie dell’individualizzazioneL’individualizzazione rappresenta da diversi anni la matrice argomentativa a partire dalla quale sono state legittimate e introdotte profonde trasforma-zioni delle politiche e dei servizi. È attraverso argomentazioni centrate sulla promozione (morale e materiale) dell’individuo autonomo e responsabile che si sono create le condizioni di uno slittamento semantico, nell’ambito dell’Unione europea, dal lavoro – come responsabilità collettiva ed esito di processi di organizzazione e coordinamento sociale – all’employability – come proprietà degli individui e della loro capacità o meno di far valere il proprio “capitale umano”; ed è in questa cornice che sono state legittimate e intro-dotte politiche di attivazione e si sono imposte revisioni dei servizi (e della loro condizionalità), a loro volta modellate entro lo stampo dei principi e delle tecnologie amministrative del New Public Management [van Berkel, Walkenburg 2007; Borghi, van Berkel 2007a, 2007b] .

In relazione al rapporto tra sicurezza e lavoro, è possibile osservare da vici-no il modo in cui il meccanismo discorsivo dell’individualizzazione è all’opera sul terreno del paradigma della prevenzione. Emerge una profonda ambiva-lenza che pare caratterizzarne l’effetto di reinterpretazione della prevenzione: da un lato, è evidente il registro della responsabilizzazione, della moralizzazione colpevolizzante o comunque di messa alla prova degli individui, che opera attraverso lo slittamento del compito (del perseguire la prevenzione, del pro-durre sicurezza) dalla collettività, dalle organizzazioni e dalle strutture sociali e istituzionali, all’individuo e al terreno della esperienza privata; dall’altro, come è evidente nell’esempio del trattamento dello stress lavoro-correlato, ma anche

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nell’adozione del dispositivo organizzativo discusso nel prossimo paragrafo, il registro della responsabilizzazione è complementare a pratiche e procedure di de-responsabilizzazione degli individui (de-individualizzazione?), per cui la sicu-rezza (e la valutazione sulla responsabilità che gli individui hanno nel crearne o indebolirne le condizioni di realizzazione) è di fatto sottratta alla capacità di intervento di coloro che fanno esperienza del problema; capacità che era stato all’opposto il terreno privilegiato di quel processo (di capacitazione, appunto) che abbiamo visto caratterizzare la terza fase della nostra periodizzazione. A partire da questo secondo effetto, la sicurezza coincide in modo sempre più puntuale al soddisfacimento formale e meccanico di obbiettivi incorporati in target e soglie di tipo prevalentemente quantitativo e standardizzato, dati a priori e definiti al di fuori e al di sopra di ogni capacità di intervento degli individui cui pure sono indirizzati.

Tornando alla traccia in questione (la torsione paradossale dell’indi-vidualizzazione): coerentemente con la logica del discorso pienamente di-spiegato nel Libro bianco del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (pubblicato nello stesso periodo in cui si svolgeva la ricerca alla base di questo saggio [Borghi, 2009]), l’interpretazione del paradigma della prevenzione nella chiave morale della responsabilità (o meno) degli individui emerge con tutta chiarezza nella campagna di comunicazione (manifesti e video) su sicurezza e lavoro contrassegnata dallo slogan «Sicurezza sul lavoro: la pretende chi si vuole bene» (vd. Figura 2.2).

Figura 2.2 – Campagna pubblicitaria sulla sicurezza

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Questa paradossale combinazione di individualizzazione e de-respon-sabilizzazione pare incarnare uno stile di pensiero diffusamente all’opera nel sociale e ne rinveniamo le tracce in altri contesti e situazioni. Il caso dell’azione di un giudice torinese risalente allo stesso periodo può essere a sua volta interpretato come un sintomo di superficie di questo processo più profondo. In una sentenza relativa alla morte sul lavoro di un operaio di origine albanese, infatti, oltre ad «aver addebitato all’operaio deceduto il 20% di concorso di colpa nella propria morte», il giudice civile torinese «ha riconosciuto a ciascun genitore residente in Albania la somma risarcitoria di soli 32mila euro. Se l’operaio fosse stato italiano, sarebbero state applicate le nuove tabelle in uso presso il tribunale di Torino dal giugno 2009 in base alle quali a ogni congiunto sarebbero state riconosciute somme fino a dieci volte superiori (fra 150 e 300 mila euro)»14. Le proprietà ascrittive di employability di quel lavoratore, incise definitivamente nella sua carne e nella sua storia di lavoratore migrante, si dimostrano così assai più potenti e performative di qualsiasi dimensione di universalità cui, nella società salariale [Castel 1995], si associava l’ingresso in un collettivo quale quello dell’essere lavoratore.

La pervasività di questa reinterpretazione della sicurezza e della preven-zione in chiave di individualizzazione (così come l’abbiamo sopra definita), la forza con cui questo registro impone l’ordine del discorso attraverso il quale prendono forma decisioni collettive e si legittimano corsi d’azione, è rintracciabile in ulteriori casi. All’indomani del drammatico terremoto che nell’estate del 2012 colpì violentemente alcune zone dell’Emilia Romagna, una impresa tessile (ma non fu l’unica), decisa a riavviare quanto prima l’attività, si cautelò contro eventuali rischi e problemi di sicurezza delegan-done l’intero carico ai propri lavoratori. Attraverso una sorta di “ordinanza” privata (il paragone come le ordinanze vere e proprie discusse in altri capi-toli di questo volume viene naturale), l’impresa “invita” i propri dipendenti a firmare una liberatoria che esime (sorta di via privata e diretta – e del tutto illecita – all’“esimenza” di cui abbiamo parlato più sopra) l’impre-sa da ogni responsabilità [Figura 2.3]. Il cortocircuito e l’inconseguenza dell’argomentazione sono immediatamente evidenti: la “richiesta” di firma della liberatoria viene presentata come atto legittimato dalla “ordinanza n. 0002 del Capo Dipartimento” che, in realtà, richiede ai titolari di imprese operanti nei territori colpiti dal terremoto di acquisire “la certificazione di agibilità sismica”. Al di là della palese arbitrarietà di tale modo di procedere, esso appare come un riflesso condizionato del tutto coerente con il quadro che abbiamo fin qui tracciato, nel quale il discorso pubblico, anche quello

14 La notizia è ripresa da la Repubblica, 25 ottobre 2010, p. 18.

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avente l’autorevolezza del discorso istituzionale, è strutturato dalla matrice della individualizzazione/de-responsabilizzazione e, vedremo più avanti, della prevenzione secondaria.

Figura 2.3 – Liberatoria all’indomani del terremoto

Anche il tema della sicurezza e del benessere nel lavoro risulta così inscritto in un processo più generale e comprensivo, che si caratterizza come un paradossale capovolgimento del progetto di individualizzazione, trasformato, da progetto qualitativo di emancipazione e di autodetermina-zione del soggetto, in un vero e proprio prerequisito sistemico, in un fattore funzionale ai processi di produzione del valore e di verifica dell’employability degli individui [Borghi 2011]. Una logica che impregna profondamente il discorso pubblico – a prescindere che esso venga enunciato dai confini di

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organizzazioni e soggetti privati o pubblici – e che emerge non solo negli esempi sintomatici fatti fino qui (la comunicazione sociale del Ministero, l’azione del giudice torinese, il caso appena illustrato della “ordinanza” privata nella fase immediatamente successiva al sisma). Questa logica pare infatti intensamente all’opera anche laddove, come abbiamo detto, l’azio-ne pubblica enuncia formalmente il proprio discorso; come fa notare con precisione Salento [2013], se ne trova chiara evidenza nel «principio della responsabilizzazione diretta dei lavoratori (d.lgs. 81/2008, art. 20), norma “rivelatrice” di un’impostazione complessiva: se i lavoratori sono chiamati a proteggere se stessi dai rischi, è perché si deve ritenere che dei rischi siano legittimamente implicati dallo svolgimento del lavoro». Un quadro che pare ulteriormente coerente con lo slittamento del paradigma della prevenzione da obiettivi di perseguimento della salute a obbiettivi di enablement, su cui ci soffermiamo qui di seguito.

c. La supremazia del privato: la prevenzione, dalla salute all’enablementUn’altra traccia da inseguire concerne il rapporto tra forme pubbliche e forme private di regolazione delle condotte individuali. Il campo di tensione dell’argomentazione pubblica su lavoro e sicurezza viene potentemente ride-finito: in estrema sintesi, nella direzione di un indebolimento dell’argomen-tazione sulla prevenzione come processo sociale e istituzionale di empowerment del diritto alla salute e di una crescente presa egemonica su quello stesso paradigma, via tecnicizzazione ed espertizzazione delle basi informative che lo alimentano, del discorso della sicurezza come obbiettivo funzionale e produttivo. Esemplare, a questo proposito è il caso dell’adozione, da parte di Fiat, di un sistema di valutazione del cosiddetto «rischio di sovraccarico biomeccanico di tutto il corpo», denominato ‘Ergo-Uas’. Proviamo ora a ricostruire in termini molto schematici la storia di questa vicenda.

Nel 2004, la Fiat fu condannata a pagare un risarcimento a seguito di 387 denunce di malattie professionali, ricondotte nel corso dell’indagine all’introduzione, negli anni ’90, di un nuovo metodo di organizzazione del lavoro (denominato Tmc215). Anche in relazione a questi eventi, venne messa a punto (da parte dell’Istituto Epm di Milano) una diversa metodologia di analisi delle postazioni di lavoro e delle problematiche ergonomiche collega-te. Tale metodo (denominato Ocra) ottenne ampio riconoscimento, divenen-do uno standard internazionale per quanto concerne «i movimenti ripetuti degli arti superiori» e venendo poi adottato come riferimento, insieme ad altri, nel testo stesso del decreto legislativo che attualmente regolamenta

15 Tmc sta per Tempi movimenti collegati.

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le questioni della sicurezza del lavoro in Italia16. Ma negli anni successivi (accordi di Pomigliano e di Mirafiori), il management Fiat impone a tutto il gruppo l’adozione di un nuovo modello di organizzazione del lavoro, anch’esso uno standard internazionale, denominato World Class Manufactu-ring (Wcm) [Fortunato, 2008; Keegan, 2003]. Interno a questo standard è appunto il metodo di rilevazione del rischio Ergo-Uas17, che secondo una metrica specifica impone carichi ergonomici associati alla ripartizione del ciclo di lavoro di ciascuna postazione (e a cui si riferisce un sistema di valu-tazione a punteggio sulla base della quale avviene la relativa certificazione).

Figura 2.4 – World Class Manufacturing: pag. 3 del manualetto distribuito in azienda

16 Cfr. d.lgs. 81/08, art. 168 e Allegato XXIII.17 UAS (Universal Analysis System) è un sistema MTM (Method Time Measurement)

«che utilizza aggregazioni di movimenti elementari predeterminati per descrivere sequenze di operazioni elementari. I tempi assegnati alle aggregazioni sono risultati di studi statistici di casi di movimenti elementari MTM-1» [Colombini, Occhipinti, Fanti 2010, p. 61].

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Secondo un documento assai dettagliato, e molto critico, pubblicato sul proprio sito dal Direttivo della Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione18, complessivamente «dalle prime verifiche in corso d’opera di vari studiosi specialisti della materia, sembrerebbe che questa metodica sottostimi il rischio fino al 40-50% del rischio reale (OCRA / NIOSH)». Oltre alla evidente e denunciata intensificazione dei ritmi e della saturazio-ne dei tempi di lavoro, ciò che va sottolineato a proposito dell’introduzione di questa metodica «è l’associazione di un metodo di perseguimento della qualità totale e un metodo di rilevazione del rischio in un unico modello organizzativo integrato, che è introdotto e disciplinato a livello aziendale e con una forte centralizzazione, con l’utilizzo di standard volontari in-ternazionali» [Di Nunzio 2010, p. 45, nota 10], nonché la subordinazione della normativa nazionale a questo stesso dispositivo di natura privata. In questo quadro, da un lato, la costruzione del dato attraverso cui si formano le basi informative della sicurezza viene distorto (essendo il punteggio l’ob-biettivo effettivo, l’interpretazione della situazione – incidente o… «non è niente» – ne diviene il mezzo ad esso subordinato), secondo il mecca-nismo di trasposizione dei fini già richiamato in precedenza; dall’altro, più complessivamente, ogni fattore di capacitazione dei lavoratori e di «democrazia nella sfera privata» [Pålshaugen, 2002] viene neutralizzato. Un quadro che traspare con chiara evidenza nella descrizione del Rls già citato più sopra:

«[in base alle indicazioni del Wcm] sostanzialmente ci sono delle autocer-tificazione periodiche, delle audit dove direttori di altre aziende vengono a visitare il nostro stabilimento e seguendo dei criteri danno dei punteggi. Hanno creato 10 pilastri ed uno di questi è salute e sicurezza sul lavoro, che di per sé potrebbe essere una cosa positiva, nel senso di porre una certa attenzione e quant’altro al tema; il fatto però di dare un punteggio e che uno dei valori è il numero di infortuni che avvengono in azienda, anali-si costi-infortuni, prevenzione degli stessi, diciamo che mette in evidenza che la cosa potrebbe essere facilmente distorta perché alla fine se l’Rspp per ogni infortunio che accade si vede calare il punteggio del suo pilastro è ovvio che fa di tutto affinché gli infortuni o non vengano riconosciuti come tali, per cui ogni infortunio che accade sostanzialmente lo contesta, fa una relazione tale e manda all’Inail, oppure semplicemente fanno del pressing sul lavoratore, quindi uno si fa male e va in infermeria, dopo 3 secondi l’Rspp è in infermeria, chiede cosa è successo, non è niente… per cui si è creato un certo clima perché lavoratori che nell’arco di un paio di anni avevano avuto più infortuni, anche solo 2, l’azienda ha cercato

18 Vd. www.snop.it; vd. anche Tuccino, 2011.

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di cambiargli mansione, del tipo “hai avuto due infortuni in due anni su quella mansione, forse non sei più idoneo a svolgerla”, quindi hanno fatto anche dei tentativi di questo genere, bloccati da noi, però è ovvio che instauri un certo clima e magari lo stesso lavoratore finisce per pensare “adesso se faccio un infortunio mi cambiano mansione, mi spostano nella linea”, tutto questo perché il punteggio deve rimanere entro certi margini. Quindi in realtà il pilastro è tutto tranne che un elemento positivo perché per ottenere una valutazione positiva non si cerca di agire sulla sicurezza e promuovere la prevenzione, ma semplicemente di abbassare i punteggi e spesso in modo scorretto(…)D: Ma in questo modello quindi tutto è legato a valutazioni numeriche?Sì, la sicurezza è ricondotta sostanzialmente a questo, numero di infortuni, numero di malattie professionali, numero di medicazioni.(…)D: Qual è il valore attribuito al coinvolgimento del personale? Il lavoratore è in qualche modo coinvolto nelle decisioni inerenti il tema della sicurezza?No, in nessun modo. Facciamo, facevamo, fatica anche noi Rls ad essere coinvolti nelle decisioni, al massimo dovevamo intervenire successivamente per apportare cambiamenti. La filosofia del WCM prevede semplicemente che ci sia un insegnamento di tipo piramidale, quindi uno che informa un piccolo team, un piccolo team che addestra ma è un addestramento a cascata, non c’è come dire un ritorno dal basso verso l’alto, assolutamente no, è un metodo che va applicato punto e infatti questo metodo di lavoro non prende nemmeno in considerazione le rappresentanze, semplicemente le ignora, nel WCM non viene mai nominato né il rappresentante sindacale, né l’Rls, non esistono semplicemente».

Nello scenario sociale che emerge, al centro del paradigma della pre-venzione non è la salute e la rimozione degli ostacoli ad essa, quanto piut-tosto l’obbiettivo di mantenere i soggetti in grado di «funzionare», laddove con questo termine non si intende «semplicemente imparare a convivere con patologie o disagi che non possono essere guariti, ma essere efficienti, indipendenti, autonomi» [Pitch, 2008, p. 86]. Così, la coppia normale/patologico pare rimpiazzata

«o forse meglio, accompagnata, dalla coppia funzionale/disfunzionale, dove lo standard è quello dell’enablement […]. La nozione di funzionalità tiene in-sieme natura e artificio, tecnica, cultura e ha il vantaggio di prestarsi ad una misurabilità basata appunto sullo standard bioculturale dell’enablement. Questo standard ha come obiettivo il ‘fare’, non l’’essere’, ‘fare’ nel senso di essere in grado di funzionare senza aiuti, senza dipendere da qualche programma o servizio» [Ibidem].

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Sembra allora di poter cogliere, anche nel contesto del campo della sicurezza del lavoro, le tracce di una trasformazione più complessiva con-cernente il paradigma della prevenzione. Si tratta del progressivo imporsi di una logica di privatizzazione, che si manifesta in almeno due forme concrete. Da un lato, come abbiamo mostrato in precedenza, la sicurezza diviene affare privato nel senso che ne viene delegata la responsabilità (responsabilizza-zione senza capacitazione, abbiamo detto) ai privati individui: la «sicurezza la pretende chi si vuole bene», recita esplicitamente la campagna di comu-nicazione sopra richiamata; dall’altro, la sicurezza diviene materia privata, sottratta alla regolazione pubblica e, ricondotta all’interno del perimetro della regolazione organizzativa, sottoposta a norme, procedure e pratiche (di misurazione, di organizzazione, di certificazione) di natura prettamente privata19. Una regolazione privata, tra l’altro, che non supplisce ad un vuo-to normativo, bensì si impone e contrappone alle modalità con cui l’attore pubblico ha normato quella stessa materia.

3. Prevenzione e soggettivazione: le coordinate della metamorfosi

La linea di tensione che abbiamo indicato più sopra (tra una concezio-ne residuale della salute ed una centrata sul diritto alla salute) riflette le ambiguità e le ambivalenze del paradigma della prevenzione. Gli indizi di cui abbiamo cercato di cogliere il senso nella ricerca che è all’origine dell’analisi qui svolta, ci sembrano mostrare una progressiva torsione di quel paradigma, nella direzione della espertizzazione, reificazione, indivi-dualizzazione (nel senso disabilitante sopra discusso), privatizzazione delle sue basi informative e delle sue logiche operative. Non certo allo scopo di formulare una conclusione, ma piuttosto con l’obiettivo di un ulteriore stimolo e rilancio di linee di approfondimento e ricerca, possiamo provare a schematizzare il quadro interpretativo fin qui proposto con la mappa tracciata nella Figura 2.5.

19 Questa manifestazione della logica di privatizzazione della sicurezza costituisce, in am-bito lavorativo, il corrispettivo di quanto viene rilevato nell’analisi di Giovanna Procacci [infra] a proposito degli spazi urbani e del modo in cui i soggetti ne fanno esperienza; anche lì si assiste ad un «mercato della sicurezza», immediatamente percepibile nelle differenze di standard di sicurezza tra quartieri ricchi e quartieri poveri, ad una spettacolare esplosione dell’«industria della sicurezza» e dunque anche su quel terreno si impone la «responsabilità di ognuno dotarsi di strumenti per la propria sicurezza».

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Figura 2.5 – Le ambivalenze del paradigma della prevenzione

Un primo fattore di ambivalenza è all’opera nella stessa accezione del concetto di prevenzione e del piano sul quale essa deve operare. Da un lato, l’enfasi è posta sulla prevenzione primaria, che istituisce corsi d’azione finalizzati a rintracciare le cause delle patologie negli ambienti di vita e di lavoro e a identificarne la matrice sistemica; dall’altro, si insiste invece sulla prevenzione secondaria, che attiva condotte preventive e dispositivi (di vario genere: da quello organizzativo a quello diagnostico, farmacologico o geneti-co) tesi ad operare su scala individuale20. Questa seconda impostazione, che prevale negli sviluppi contemporanei della genealogia della prevenzione, non solo opera uno slittamento della responsabilità della prevenzione dalla di-mensione collettiva a quella individuale, slittamento oramai profondamente

20 Come sottolinea Pitch [2008: 82], una esemplificazione evidente di questa seconda chiave interpretativa è l’impostazione della ricerca sui tumori attualmente prevalente: «nonostante ci sia la consapevolezza che la gran parte di essi è di origine ambientale, i finanziamenti alla ricerca epidemiologica sono una minima percentuale rispetto a quelli indirizzati alla clinica e alla biologia molecolare». È peraltro significativa la piena coerenza con lo schema argomentativo qui proposto e quello presentato in Maggi, Rulli 2011 e ripreso da Salento 2013: per quanto da prospettive differenti e mobilitando letterature (parzialmente) diverse, entrambi i percorsi di ricerca giungono a mettere in evidenza, secondo una interpretazione simile, il prevalere di quella che qui viene definita prevenzione secondaria su quella primaria.

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e capillarmente penetrato nel senso comune, come l’esempio della “ordinan-za” privata in occasione del terremoto ci ha mostrato in modo eclatante; ma espone i soggetti ad una acutizzazione delle diseguaglianze sociali, laddove le capacità e il potere di intervenire come singoli individui nel controllo dei fattori di rischio (anche soltanto relativamente alla sicurezza e alla salute) non sono mai ugualmente distribuiti, tanto meno nel contesto del mondo della produzione e del lavoro del capitalismo contemporaneo. Una disuguaglianza che arriva a riflettersi anche sul piano della mera monetizzazione del rischio, come il caso della sentenza torinese sulla “morte bianca” del lavoratore di origine albanese ci mostra in tutta la sua brutalità.

Se inseguiamo da vicino la trasformazione di cui stiamo parlando, pos-siamo avvederci però che non si tratta solo di individualizzazione ma, assie-me a questo, anche di privatizzazione della prevenzione, cioè di un insieme di processi «attraverso cui ciò che fino a poco tempo fa era compito delle istituzioni pubbliche è sospinto nell’ambito non solo della responsabilità individuale, ma anche in quello del mercato, del volontariato, del privato-sociale» [Pitch 2008, p. 56]. Il «mercato improprio» delle esimenze, l’insieme del mercato della sicurezza fatto di consulenze, società di certificazione e di accreditamento, adozione di marchi e standard di natura privata, fiere, pubblicità, formazione e così via, offrono a tale proposito un vero e proprio universo sociale che potrebbe essere indagato in sé. Se alziamo lo sguardo alla società nel suo insieme, del resto, ci rendiamo conto che si tratta di un processo generalizzato nei diversi ambiti in cui il paradigma della prevenzio-ne opera. Nel suo studio sulla «politica della vita», ad esempio, Rose [2007, p. 11] insiste più volte sul fatto che il campo medico, terreno chiave del dispiegamento del paradigma della prevenzione (e della sua trasformazione) è stato profondamente ristrutturato in tal senso, laddove la pratica medica nei paesi industrializzati «è stata colonizzata e ridisegnata dalle esigenze delle assicurazioni pubbliche o private, e dai loro criteri di rimborso e dal loro trattamento della salute e della malattia come non fosse che un altro degli ambiti di calcolo della redditività societaria».

Questo asse di ambivalenza e contraddizione, tuttavia, va visto e in-dagato anche in relazione al modo in cui si interseca con un secondo asse, quello che nella Fig. 5 definiamo asse della soggettivazione. In gioco, in questo caso, sono i processi di produzione della soggettività: il rapporto tra sicu-rezza e lavoro è infatti uno dei campi del sociale (tra altri) implicato in più generali e complessive trasformazioni dei modi di istituire se stessi come soggetti, cioè come individui e come corpi. In questo senso, quanto detto più sopra (si pensi in primo luogo allo slittamento dall’interpretazione della prevenzione in chiave di obbiettivi di salute a quella di tipo funzionale) ci

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porta a pensare che nell’ambito delle politiche della sicurezza sul lavoro siano all’opera mutamenti complementari al «cambiamento epistemologi-co» che Rose identifica in termini di intenso sviluppo delle «tecnologie di ottimizzazione». Con penetrazione oramai molecolare, gli obiettivi della massimizzazione e del potenziamento del funzionamento degli organismi bio-logici vengono efficacemente perseguiti dalle nuove tecnologie della vita: esse «non si limitano a curare il danno o la malattia organici, e neppure a potenziare la salute […], ma modificano ciò che significa essere un orga-nismo biologico, rendendo possibile riconfigurare – o sperando di renderlo possibile – gli stessi processi vitali, allo scopo di massimizzare il loro funzio-namento e potenziare i loro risultati» [Rose 2007, pp. 17-18]. Ma mentre tale massimizzazione e potenziamento sono sempre stati ricercati nel passato, ciò che è nuovo, oltre ad altri aspetti, è l’intensa combinazione di personalizzazione e standardizzazione, combinazione attraverso la quale opera, nei diversi campi di applicazione, l’attuale reinterpretazione del paradigma della prevenzio-ne. Personalizzazione e standardizzazione perché non si tratta di processi che individualizzano nel senso di conferire potere all’agency del soggetto, intensificandone le capacità e la capacity for voice; al contrario, essi opera-no, e così facendo conferiscono ad esso un ruolo sempre più rilevante, sul piano della personalità funzionale, in questo senso standardizzata (lavoratore e/o consumatore che sia), e delle performance che questa deve di volta in volta essere messa in grado di esprimere nel più efficiente dei modi. Con un linguaggio diverso, potremmo parlare di «astrazioni reali» (forza lavoro, consumatore, come figure astrattamente universali, conformi alla logica del processo di valorizzazione e alle “catene del valore” attraverso cui esso si dispiega) che si impongono con forza inedita sulla eterogeneità e molteplicità delle forme di vita (e del lavoro vivo); si impongono, ma anche si scontrano, entrano in attrito, confliggono con forme di vita che mantengono la propria autonomia e specificità, oppongono resistenza, alimentano la critica [Tsing 2009; Borghi, Mezzadra 2011].

In forza di queste procedure di personalizzazione funzionale, «l’umano non diventa meno biologico, ma ancora più biologico» [Rose 2007, p. 20]. Così come accade in generale nel paradigma della prevenzione, rispetto al quale si osserva una progressiva «riduzione al puro dato biologico» dei soggetti e dei loro corpi [Pitch 2008, p. 66], allo stesso modo nel campo della sicurezza è osservabile una crescente egemonia delle pratiche relative ai soggetti ed ai corpi in quanto funzioni reificate tramite specifici saperi esperti (di tipo prevalentemente medico, ingegneristico e psicologico), da cui sono in ogni caso recisi radicamento sociale, politico, di genere etc. Processi (di de-naturalizzazione e rinaturalizzazione) che avvengono attraverso l’estensione,

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anche in questo ambito di esperienza21, di ciò che Desrosieres [2011] ha definito il «governo attraverso i numeri». Il paradigma della prevenzione è così sottoposto ad una “scientificizzazione” delle basi informative e delle co-noscenze concernenti la definizione di cosa significhi “essere sicuri” [Borghi, Grandi 2013] e di come vada resa operativa tale definizione, che possiamo rintracciare (tra l’altro) nella svalutazione e nell’emarginazione di tutte quelle forme di conoscenza (centrali, abbiamo visto, per la fase di istituzionalizza-zione del paradigma della prevenzione) che non accedono allo statuto dei saperi scientifici ed esperti; nella crescente restrizione delle basi informative delle politiche e del discorso pubblico alle sole conoscenze formalizzabili e quantificabili (si vedano, ad esempio, il caso dello “stress lavoro-correlato o quello della nuova metodica Ergo-Uas”); nella introduzione di una rigida distinzione soggetto/oggetto di conoscenza, laddove – come abbiamo visto attraverso diversi esempi – le competenze di coloro che fanno diretta espe-rienza del problema sono spesso marginalizzate o del tutto esautorate dalla possibilità di intervenire (tanto in modo individuale quanto e ancor più in modo collettivo) su dispositivi (standard, certificazioni, modelli formativi) finalizzati al trattamento di quello stesso problema. Nei termini in cui ne parla Alain Supiot [2011, p. 59] più in generale,

«la governance dei numeri tende […] all’autoregolazione delle società uma-ne. Si basa sulla facoltà di calcolo, ossia su un’operazione di quantificazione (ricondurre essere e situazioni differenti a una medesima unità di conto) e di programmazione dei comportamenti (attraverso tecniche di comparazione delle performance: benchmarking, ranking, ecc.). Sotto l’impero della governance, la normatività perde la propria dimensione verticale: non si tratta più di riferirsi ad una legge che trascende i fatti, ma di inferire la norma dalla misura dei fatti».

Risulta allora pertinente, ancora una volta, l’analisi di Rose [2007, p. 27], laddove lo studioso sottolinea che il cuore del cambiamento in corso concerne l’etopolitica, vale a dire l’ambito degli «sforzi per modellare la con-dotta degli esseri umani agendo sui loro sentimenti, sulle loro credenze e sui loro valori – in breve, agendo sull’etica». In gioco è la materialità stessa

21 Del modo in cui l’argomentazione dell’expertise costruisce una lettura naturalizzata della dinamica sociale, rendendo opache le scelte e i giudizio che tale lettura incorpora, si parla anche nell’analisi di de Leonardis e Giorgi [infra], laddove si indaga il potere normativo che sempre più viene attribuito ai numeri e il conseguente collasso tra fattuale e normativo. Più in generale, il tema della de-politicizzazione delle scelte, presentate appunto come non-scelte derivanti da una lettura del reale oggettiva e scientifica, a cui «non c’è alternativa», è trasversalmente al centro di tutto il volume.

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dei corpi e il processo di soggettivazione, dal momento che si tratta della politica avente per oggetto «il modo in cui dovremmo comportarci appro-priatamente in relazione con noi stessi e con la nostra responsabilità per il futuro» [ibidem]. Il discorso pubblico in tema di sicurezza sul lavoro (a partire dal suo condensarsi in dispositivi di tipo legislativo, ma anche in quelli di tipo organizzativo, di regolamentazione privata) e l’insieme delle basi infor-mative di cui si avvale (e che ha contribuito a produrre) è parte di questa trasformazione di fondo, come la nostra analisi ha cercato di mostrare: è su questo piano che «si forma il milieu nel cui ambito stanno coagulandosi nuove forme d’autorità» [ibidem]22 e che deve pertanto continuare ad essere indagato.

22 Su questo tema vd. anche Thevenot [2011] e de Leonardis [2006].

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Postfazione

I semplificatoridi Roberto Escobar

[…] non c’erano stati grandi episodi di criminalità […] in via Padova non succedeva nulla, però la signora anziana che davanti al phone center vede cento persone di colore ferme, ha paura. è la percezione, non c’è un cazzo da fare.

Riccardo De Corato, ex vicesindaco di Milano

[…] E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno cre-dere, foggiando un finto discorso! […] C’è tra la potenza della parola e la disposizione dell’anima lo stesso rapporto che tra l’ufficio dei farmachi e la disposizione del corpo. Come infatti certi farmachi eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; così anche dei discorsi, alcuni producono dolore, altri diletto, altri paura, altri ispiran coraggio agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’anima e la stregano.

Gorgia, Encomio di Elena1

1. Opinioni, verità, discorso

Il cuore della politica sta nel decidere: nel decidere di adottare certi mezzi per produrre certi ri sultati. Meglio, sta nel processo che porta a decisioni vin-colanti in merito a quei risultati e a quei mezzi2. E il procedere della politica che chiamiamo democratica è un confronto di opinioni, un muoversi e un dis-correre per lo più conflittuale, e sempre complesso, di opinione in opinione. Del resto, solo in materia di opinione, non di verità, il nostro pensiero è veramente discorsivo, correndo cioè «di luogo in luogo, da una parte all’al-tra del mondo, attraverso ogni specie di vedute antagoniste, fino a quando […] si innalza da queste particolarità a una generalità imparziale». Questo

1 I presocratici. Testimonianze e frammenti, Roma-Bari: Laterza, 1983, pp. 930 ss.2 Cfr. R.A. Dahl, La democrazia e i suoi nemici, Roma: Editori Riuniti, 1990, p. 149 e 160 ss.

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La ragione poLitica332

in Verità e politica3 ci suggerisce Hannah Arendt. Che cosa poi significhi un aggettivo tanto forte come imparziale è questione che qui possiamo lasciare impregiudicata. Ci basta ipotizzare che in democrazia l’impar zialità non riguardi il contenuto della decisione, ossia il risultato del confronto e del con-flitto tra opinioni – che è ovviamente parziale, anche se relativo a una parte maggioritaria –, e riguardi invece la dignità e la libertà di chi abbia preso parte, appunto, al confronto e al conflitto. Questa dignità e questa libertà restano comunque intere, non diminuite dalla parzialità sempre implicita nella decisione. In ogni caso, Arendt così prosegue:

«Paragonata a questo processo – nel quale una questione particolare è costret-ta a venire alla luce affinché possa mostrarsi da ogni lato, da ogni possibile prospettiva, fino a essere inondata e resa trasparente dalla piena luce della comprensione umana – l’affermazione di una verità possiede una particolare opacità. La verità razionale illumina l’intelletto umano e la verità fattuale deve informare le opinioni, ma queste verità, anche se non sono mai oscure, non sono neanche trasparenti, ed è proprio della loro stessa natura resistere a una ulteriore delucidazione, così come è della natura della luce resistere alla illuminazione».

Che cosa accade, dunque, se la verità pretende di entrare con la sua opacità paradossale e univoca nella complessità della decisione politica? Leggiamo ancora la Arendt:

«Considerata dal punto di vista della politica, la verità ha un carattere dispo-tico. Essa è per questo odiata dai tiranni, che giustamente temono la con-correnza di una forza coercitiva che non possono monopolizzare, e gode di uno status piuttosto precario da parte dei governi che si basano sul consenso e aborriscono la coercizione».

Il potere, persino quello non coercitivo, teme la verità, anche e so-prattutto quella di fatto. Nella sua forza vede un pericolo per la propria, o comunque un suo limite. La verità è dunque da considerare uno strumento essenziale della politica, e un eccellente antidoto della tentazione del potere di farsi “prepotenza”? Questo sembrerebbe il senso delle parole della Arendt. Ma poche righe più avanti la questione si complica. La verità, quella di fatto come ogni altra,

«esige perentoriamente di essere riconosciuta e preclude il dibattito, il quale costituisce l’essenza stessa della vita politica. I modi di pensiero e di comuni-

3 H. Arendt, Verità e politica, Torino: Bollati Boringhieri, 1995, p. 49.

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Postfazione. i semPlificatori 333

cazione che hanno a che fare con la verità, se li si considera dalla prospetti-va politica, sono necessariamente dispotici: non tengono conto dell’opinione altrui, mentre è proprio il fatto di prendere in considerazione quest’ultima il contrassegno di ogni pensiero strettamente politico».

Per paradosso, la verità è sia l’antidoto al prepotere della politica, sia la negazione del dibattito, che della politica è l’essenza. Insomma, una buona politica – nel senso di una politica discorsiva che attraverso il conflitto e il compromesso porti a decisioni rispettose della dignità e della libertà delle parti “soccombenti” –, una tale politica, dunque, è “preclusa” dalla pretesa della verità di portare in essa la propria indiscutibilità e la propria univocità.

2. Tagliare le teste, o contarle

Se l’agire politico è un discorso – se si vuole che sia un incontrarsi procedendo, un complesso passar di luogo in luogo, di opinione in opinione –, esso è incompatibile con la verità, che non sopporta di passare, di rinunciare alla propria opacità e alla propria semplicità. In questo senso, la verità è anti-politica: il suo corpo è di pietra, e brandendolo gli esseri umani rinunciano al discorso e si uccidono fra loro con entusiasmo.

D’altra parte, e all’opposto, nella pratica politica la verità è di continuo invocata e usata. Ogni potente ha verità su cui si siede, si impanca, si intro-nizza. Lasciato a sé, ogni potere – ogni istituzione – pretende di fondarsi su principi, valori e fatti non opinabili, sottratti a dubbio e critica. Ma vale anche il contrario: tutto ciò che rifiuta dubbi e critiche finisce per (o aspira a) fondare potere.

Ovviamente, la via d’uscita da tutto questo è la politica che chiamiamo democratica. La democrazia non è il luogo chiuso e semplice della verità, ma il luogo aperto e complesso dell’opinione. In questo luogo si decide non tagliando le teste, come usano i fautori della verità, ma, con maggior prudenza, contandole. Se dieci teste prevalgono su nove, si fa come quelle dieci opinano. Se le dieci diventano nove, e le nove dieci, si passa a un’altra decisione. Così, (di)scorrendo di opinione in opinione, si evita che molti muoiano. E certo, però, nessuno ha il diritto di sostenere che una decisione presa in questo modo abbia valore di verità. Come scrive Elias Canetti in un passo poco ricordato di Massa e potere4,

4 Canetti si occupa di democrazia solo in tre pagine brevi e intense delle seicento di Massa e potere: v. E. Canetti, Masse und Macht, Hamburg, München Wien: Carl Hansen Verlag, 1994, pp. 220-22 (Massa e potere, Milano: Adelphi, 1981, pp. 224-27).

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«nessuno ha mai creduto davvero che l’opinione del numero maggiore in una votazione sia, per la preponderanza5 [Übergewicht] di quello, anche la più saggia. Volontà sta contro volontà, come in guerra […]».

Nelle democrazie europee moderne, cui Canetti si riferisce, l’opinione della maggioranza in senso stretto non prevale, non vale di più, ma solo pesa di più di quella della minoranza. I loro due pesi sono “misurati” all’interno di un processo che ha in sé qualcosa di bellicoso: volontà sta contro volontà, come in guerra, senza però che una vera guerra sia combattuta. Niente in quel processo, nel suo iter o alla sua fine, può rivendicare altra legittimazione che la forza. Ma si tratta di una forza consensualmente inibita nella meta e ritualizzata nel voto.

Sta qui, in questo consenso, l’essenza della democrazia. Esso non è un “consentire” nel senso di aderire e cedere all’opi nione dominante, se per opinione dominante si intende un sistema di verità che ne escluda altre. E non è neppure il consentire del lasciar fare, del lasciarsi risucchiare nel ventre del potere. Si tratta invece di un consenso attivo, oltre che vuoto e aperto: attivo, vuoto e aperto come una piazza, come uno spazio pubblico in cui tutti agiscono e tutti riconoscono a tutti, anzi, in cui ognuno agisce e ognuno riconosce a ognuno il diritto di “contare” per una testa, e insieme gli garantisce che quella sua testa non sarà tagliata.

Non ci sono Verità maiuscole e già date, nello spazio politico della democra-zia, almeno in quella sua “forma” che voglia tener lontana la morte. È questa la condizione perché nella sua piazza ogni opinione sia considerata legittima, e pesabile con una votazione al termine di un confronto discorsivo. Da questa piazza, ancora, nessuno può escludere – alla lettera, chiudere fuori – nessuno.

Detto altrimenti, il voto legittima a governare, non ad aver ragione. Intesa così, come procedura per prendere decisioni contando le teste – senza tagliarle, appunto –, la democrazia è discorso laico, un discorso molteplice e complesso che non sa che farsene della opaca semplicità di verità e di fedi. Naturalmente, in tal modo viene meno la possibilità di fondare la politica e il potere su una somma indubitabile e indiscutibile di verità e principi primi (a parte quello della dignità e della libertà di tutti, e del diritto alla vita d’ognuno). La democrazia è dunque molto fragile. Un colpo di spada basta a reciderla, restituendoci alla semplicità, alla lunga omicida, di una delle tante verità pronte a fare della politica il riflesso contingente di un cielo assoluto. E questa non è la confutazione del suo valore. Al contrario, ne è la conferma.

5 Il corsivo è mio. Nella traduzione italiana di Furio Jesi Übergewicht è reso con predominio.

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Postfazione. i semPlificatori 335

3. Inopinabilità

Guardiamo ora più a fondo nel rapporto fra il potere e le verità, in particolare quelle di fatto, che sono una parte rilevante degli “oggetti” attorno ai quali si articolano i documenti analizzati nelle pagine che precedono. I fatti, si legge in Verità e politica, «sono al di là dell’accordo e del consenso». Quelli sgraditi al potere hanno «un’esasperante ostinatezza che può essere scossa soltanto dalle pure e semplici menzogne»6. Detto altrimenti: al potente è dato di vincere l’ostinatezza dei fatti solo costruendone e “mentendone” altri, alternativi e addi-rittura opposti. Che cos’è la propaganda, se non una rete di parole e immagini il cui compito è nascondere i fatti e la loro verità con l’appa renza di altri fatti? E anche: che cos’è, se non una rete di parole e immagini il cui compito è ridurre la possibilità di un confronto tra opinioni, depotenziandone e sostituendone la soggettività e relatività con l’oggettività e assolutezza di pretesi fatti?

Comunque, e per venire ai contenuti della ricerca, si tratti di ordinanze comunali in tema di sicurezza o di questioni oggetto di scelte pubbliche, quello che viene meno, anzi quello che viene fatto venir meno nel discorso politico è la loro opinabilità. Le scelte pubbliche, in particolare, vengono sottratte al conflitto e al confronto, e vengono ricondotte a criteri oggettivi. A definirne la legittimità, suggerisce Ota de Leonardis, non è il processo (e dunque il rito) della decisione politica democratica, ma una loro evocata, apodittica, imprecisata necessità – magari anche una necessità tecnica, plato-nicamente conoscibile solo da esperti riuniti in qualche consulta o in qualche “tavolo” –, che le rende inevitabili. In tal modo, esse non sono il risultato discorsivo di un conflitto regolato – un compromesso raggiunto fra opinioni, nella consapevolezza della loro complessità e nel riconoscimento della eguale dignità politica di chi le sostiene –, ma escono già complete dalla dimensione per così dire naturale delle verità di fatto, quasi come Atena nasce con tanto di elmo, lancia e scudo dal mal di testa di Zeus.

Alla stessa semplificazione, e alla stessa negazione del confronto e del processo che portano alla decisione, sono orientate le molteplici ordinanze sindacali seguite al cosiddetto pacchetto sicurezza, ossia alla legge 125/2008 che ha modificato l’articolo 54 del Testo unico sugli enti locali. Prima della loro emissione, osservano Roberto Cammarata e Raffaele Monteleone, sul merito non c’è che un minimo “confronto” tecnico-politico (nel senso ridut-tivo dello schieramento della giunta) fra il sindaco e i responsabili appunto tecnici della sicurezza. In tal modo si contraddice l’obbligo stringente di motivazione che la legge pure imporrebbe, e si rende impossibile il confronto

6 Arendt, Verità e politica, cit., p. 47.

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politico pieno che, solo, garantirebbe la democraticità di un provvedimento in una materia tanto decisiva come appunto quella della sicurezza, e dunque dei diritti civili e umani.

Di fatto, al mancato confronto pregiudiziale si sostituisce quello che segue all’emanazione dell’ordinanza, per iniziativa di cittadini e associazioni che le si oppongono per lo più in sede giudiziaria. Ma in quella sede alla politica e alle sue ragioni “discorsive” si sostituisce il diritto con le sue ne-cessarie procedure e formalità tecniche, in cui l’opinabilità non ha (o non dovrebbe avere) spazio. Quel che ne viene, notano ancora Cammarata e Monteleone, è una «giuridizzazione del discorso pubblico», che rischia di essere un motivo ulteriore di semplificazione (anti)politica.

4. La sicurezza

«La sicurezza è la sicurezza», dice De Corato in un frammento di intervista in cui il concetto è più volte ribadito:

«Perché noi possiamo fare tutto a Milano, possiamo anche trasformarla: tanto verde, tante… però se uno ha paura a uscire dalla porta di casa, non c’è nien-te. Per cui la sicurezza è fondamentale e con la sicurezza non si può… non si può mettere la sicurezza con l’integrazione, la sicurezza con la solidarietà, sono… io ritengo che la sicurezza è la sicurezza».

Insieme con la tautologia «la sicurezza è la sicurezza» – e con la sempli-ficazione in essa implicita –, sono qui da notare gli accostamenti oppositivi: sicurezza/integrazione, sicurezza/solidarietà. Si ha un bell’es sere aperti e civili, sembra voler dire l’ex vicesindaco, è la natura delle cose – è la verità dei fatti – che ci impedisce di procedere altrimenti che a suon di ordinanze e provvedimenti anti-immigrati, anti-zingari, anti… E questa retorica au-toevidente della sicurezza si mostra in una sua altra affermazione che tutto dice e niente argomenta: «la sicurezza […] è un bene non disponibile» (qui sembra riecheggiare il caso Englaro, accompagnato a suo tempo dallo slogan «la vita è indisponibile», salva la pretesa di una parte del Parlamento di disporre a norma di legge della morte di una cittadina).

C’è, in questo riferirsi alla sicurezza, il senso di almeno un ventennio del nostro linguaggio: di quello strettamente politico, di quello dei mezzi di comunicazione di massa, e certo anche di quello della vita privata e quoti-diana. Di fatto, il tema della sicurezza è stato il solo che, fino alle elezioni politiche del marzo 2013, abbia spostato consenso. Alla fine, è stato quello che ha determinato le scelte di marketing elettorale.

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Pensando alla politica come a un mercato, appunto, si può dire che, anche in fatto di sicurezza, non la domanda crei l’offer ta, ma l’offerta crei la domanda. L’imprenditore politico “vende” se stesso e la propria funzione securizzatrice creando e diffondendo paura, e perciò creando e diffondendo bisogno di sicurezza. C’è qui un capovolgimento manifesto del senso proprio della politica, e in particolare della dimensione che possiamo chiamare “il politico”: dare forma alla paura, confinarla, ridurla, superarla, e meglio ancora trasformarla. O anche: dal suo niente, dalla negazione (d’ogni significato) in cui essa consiste, produrre il tutto dell’ordine.

In una prospettiva filosofica, si può dire che, privo di artigli e «famelico di fame futura»7, l’uomo sia il solo animale che abbia paura. Essere non finito, lasciato in scacco dal suo corpo, privo di strutturazione biologica e istintuale adatta a soddisfare i suoi bisogni e a farlo sopravvivere in un am-biente che gli sia proprio, il mondo che gli è dato attorno è per lui tanto estraneo quanto colmo di pericoli. Ed è però questa stessa paura, elaborata e trasformata in nessi simbolici e norme, il fondamento di un altro mondo, che non gli è più dato attorno, ma che egli stesso costruisce come suo arti-ficio. All’origine di quel che è umano, del suo peggio e del suo meglio, c’è la metamorfosi della paura (naturale) in ordine (culturale). In questa prospet-tiva filosofica – e di antropologia filosofica –, si deve concludere che niente fonda il mondo. Ossia: tanto che il mondo degli uomini non ha fondamento “naturale”, quanto che dal niente della paura viene il tutto del loro costruirsi un mondo8.

In un’altra prospettiva, più strettamente legata alla dimensione istitu-zionale e politica, dovrebbe invece valere il principio per cui la percezione della paura e dunque il bisogno e la domanda di sicurezza diminuiscono tanto più, quanto più efficacemente la politica, appunto, è orientata alla securizzazione. Per converso, la politica non dovrebbe insecurizzare – non dovrebbe produrre e diffondere paura –, sotto pena di “smentire” il suo ruolo e dunque di perdere consenso. Da tempo, però, tutto questo sembra essersi capovolto9. Come osservano Chiara Marchetti e Andrea Molteni, «la sicurezza “securitaria” ha preso il posto di una sempre meno tutelata sicurezza sociale».

7 Thomas Hobbes, De Homine, Roma-Bari: Laterza, 1972, p. 142. 8 Cfr. il mio Metamorfosi della paura, Bologna; il Mulino, 1997-2007, in specie pp. 122 ss.9 Cfr. Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Roma-Bari: Laterza, 2001, pp. 49 ss., e il mio

La libertà negli occhi, Bologna: il Mulino, 2006, pp. 125 ss.

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5. La macchina della paura

Da tempo, la sicurezza non è più solo la sicurezza, ma è diventata per po-litici, giornalisti, commentatori la questione della sicurezza. Già solo questo slittamento linguistico – dalla cosa (la sicurezza) al luogo comune verbale sulla cosa (la questione) – suggerisce che nel mercato del consenso quello che più vale non è la soddisfazione del bisogno di sicurezza, appunto, ma il suo marketing.

Come ogni luogo comune linguistico, anche la questione della sicurezza è la sedimentazione nell’immaginario di un continuo lavorio del sistema multiforme che attraverso l’informazione – esplicita e implicita, diretta e indiretta – produce le parole di cui si alimenta il pensiero diffuso. E si può ben dire che questo sistema multiforme abbia operato e operi come una vera e propria macchina della paura.

A comporre le “parti rotanti” di una tale macchina sono i giornali e, con efficacia ancora maggiore, le televisioni. Nelle immagini di queste e sulle pagine di quelli le difficoltà, le contraddizioni, gli attriti della vita sociale e politica subiscono un processo “virtuale” di semplificazione. Ossia, vengono interpretati e raccontati secondo uno schema che le riduce a quello che con René Girard possiamo chiamare meccanismo sociale del capro espiatorio. Le loro difficoltà, piccole o grandi, diventano agli occhi dei lettori e degli spettatori l’effetto di una congiura, i cui attori sono di volta in volta grandi categorie di colpevoli: migranti, islamici, “etnie criminali”, o comunque poveri (in Italia, tra queste categorie spiccano i Rom, ai quali si nega an-che il minimo dei riconoscimenti, cioè che siano vittime10). Tutto questo viene fatto in parte secondo un disegno editoriale e politico consapevole, e in parte forse anche maggiore solo perché quel luogo comune garantisce più audience rispetto ad analisi accorte e complesse, e dunque garantisce e facilita carriere.

Così come oggi opera in Italia, la macchina della paura è il risultato ultimo di una semplificazione direttamente politica. Il primo imprenditore della paura e dell’odio, e dunque il primo semplificatore, è stato il movimento etnistico della Lega. Ma poi le sue parole e i suoi slogan – i suoi farmachi, come direbbe Gorgia – sono diventati patrimonio nazionale, per così dire, e appunto luogo comune: luogo linguistico, mentale, psicologico, morale, ideologico che, pur con diverse sfumature e intensità, ha accomunato tutte o

10 Così sempre avviene quando una totalità persecutoria individua e perseguita le proprie vittime. Cfr. il mio Il silenzio dei persecutori, ovvero il Coraggio di Shahrazàd, Bologna: il Mulino, 2001, pp. 25 ss.

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quasi tutte le offerte politiche, e tutti o quasi tutti i programmi e gli slogan, anche in tema di diritti civili e umani.

Una tale offerta politica di sicurezza, per altro, non si rivolge ai diversi interessi, e neppure ai singoli individui. Da un lato, non sono gli interessi il suo contenuto profondo, ma le paure e gli odi. Dall’altro, non sono i cittadini o i gruppi organizzati di cittadini i suoi interlocutori. Al pari di quel che accade nel mercato propriamente detto, l’offerta di sicurezza – la questione della sicurezza, appunto – si rivolge al pubblico. O meglio, si rivolge al pubblico dei cittadini (c’è, in questa espressione trasparente, una commistione anacronistica fra un elemento individualistico e moderno, i cittadini, e uno olistico e antimoderno, il pubblico, che meriterebbe d’essere analizzata)11.

Alla fine, il pubblico – soggetto indistinto e totale, composto di “individui immaginari”, incapaci di legarsi fra loro12 – è indotto a consumare sicurezza. Ossia, è indotto a orientare la sua domanda verso il prodotto più offerto, che è quello più elementare e più basso, e più vendibile. Ne segue che gli imprenditori politici in competizione, o meglio gli oligopolisti del mercato politico devono produrre e coltivare paura e odio, allo scopo di coltivare e produrre consumo di sicurezza, e perciò vendere consenso. A questo è orien-tata la macchina della paura, che si tratti di una scelta consapevole, o che si tratti del risultato di mere aspettative di carriera. Tutto avviene all’interno di un linguaggio della paura e dell’odio da tempo egemone, che si riproduce in quanto produce la potenza della macchina che lo “parla”. E ciò di cui sempre essa parla sono i crimini, reali o immaginari, di categorie deboli, perseguitabili: migranti, “terroristi” islamici, Rom, o comunque poveri. Alla fine, questo lavorio continuo e capillare, questa ininterrotta costruzione di paura viene “naturalizzata” e trasformata in un fatto: nel fatto della signora anziana di fronte al phone center di cui racconta De Corato, e della sua per-cezione della paura che motiverebbe la politica dell’odio, invece di esserne (in gran parte) il risultato.

Non si ha, in questo modo, una riproposizione aggiornata al “merca-tismo” dominante della contrapposizione identitaria amico/nemico, ma di quella ancor più radicale e ancor più identitaria uomo/non-uomo. Non c’è in essa alcuna possibilità di riconoscimento dell’altro, nemmeno come nemico. Egli, semplificamente, viene disumanizzato. Questo non solo spiega l’estrema capacità di semplificare i rapporti con le categorie cosiddette pe-ricolose e criminali, ma ancor prima e ancor più spiega la sua capacità di semplificare il linguaggio della comunicazione politica. Per fare un esempio,

11 Cfr. il mio La libertà negli occhi, cit., pp. 131.12 Cfr. ivi, pp. 120 ss.

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basterà che un’ordinanza sindacale prescriva che un islamico non possa avvicinarsi più di tanto a una chiesa cattolica, per indurre nel “pubblico dei cittadini” la convinzione che così sia stata sciolta almeno un po’ la com-plessità in cui vive, e in cui abita la sua paura. Se poi un’istanza giudiziaria superiore casserà l’ordinanza, l’effetto politico (e linguistico) sarà stato rag-giunto comunque. E poco conta che a farne le spese siano il discorso della democrazia, e la sua prassi.

Insomma, anche per la macchina della paura vale quello che valeva per Heinrich Krämer e Jakob Sprenger. Negli affari di fede, insegnano i due santi inquisitori fra il 1486 e il 1487, non ci si perde in parole: «si procede sommariamente, speditamente e semplicemente»13.

13 Heinrich Krämer e Jakob Sprenger, Il martello delle streghe, Venezia: Marsilio, 1995, p. 452.

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Gli autori

Vando Borghi insegna Sociologia dello sviluppo e Politiche del lavoro all’Università di Bologna. Tra i suoi lavori più recenti, la cura (con M. Zamponi) di Terra e lavoro nel capitalismo contemporaneo, «Sociologia del lavoro»,128 (2012); Sociologia e critica nel capitalismo reticolare, «Rassegna Italiana di Sociologia», 3 (2012); con S. Mezzadra, In the multiple shadows of modernity. Strategies of critique of contemporary capitalism (2011).

Roberto Cammarata è dottore di ricerca in Sociologia del diritto. Si occupa in partico-lare del rapporto tra identità culturali, produzione giuridica e diritti umani. Tra le sue pubblicazioni più recenti: la cura di Chi dice universalità. I diritti tra teoria, politica e giurisdizione (2011) e il volume Indigeno a chi? Diritti e discriminazioni allo specchio (2012).

Ota De Leonardis, professore di Sociologia dei processi culturali all’Università di Mila-no Bicocca, dove dirige il Laboratorio di Sociologia dell’Azione Pubblica Sui Generis, è direttore di Rassegna Italiana di Sociologia. Tra le sue pubblicazioni più recenti, la cura del numero monografico di RIS su Le istituzioni del nuovo capitalismo (2011); con S. Negrelli e R. Salais, Capability for Voice and Denocracy. Welfare, Work and Public Deliberation in Europe (2012) ; Le sillon que l’on creuse. En explorant une ‘grande transformation’, in Changements et pensée du changement, a cura di R.Castel e C.Martin (2012).

Roberto Escobar insegna Filosofia politica e Analisi del linguaggio politico presso l’U-niversità di Milano e collabora con “L’Espresso” e “Il Sole 24 Ore”. Tra le sue pubblicazioni recenti: Metamorfosi della paura (2007), La paura del laico (2010) e Eroi della politica (2012).

Alberta Giorgi è dottore di ricerca in Sociologia, attualmente post-doc presso il Centro de Estudos Sociais dell’Università di Coimbra. Si occupa di sfera pubblica, parteci-pazione politica, rapporto tra politica e religione. Tra le sue pubblicazioni recenti: Um movimento católico na política: o caso do Comunhão e Libertação (con E. Polizzi), «Revista Crítica de Ciências Sociais», 97 (2013); Religious associations in Lombardy: values and political choices, «Politics and Religion Journal» VI(2), pp. 333-357.

Barbara Giullari ricercatrice, insegna Organizzazione dei servizi sociali sul territorio presso l’Università di Bologna. Tra i lavori più recenti: con E. Melchiorre, Politiche sociali e democrazia locale: soggetti e pratiche decisionali nel welfare municipale, «Polis», 3 (2012); con M. Ruffino (a cura di) Descrivere, classificare, contare: le rappresentazioni del lavoro nello spazio pubblico, «Sociologia del lavoro», 129 (2013).

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Gli Autori342

Chiara Marchetti è dottore di ricerca in Sociologia, attualmente assegnista di ricerca presso l’Università degli studi di Milano. Si occupa di migrazioni forzate, seconde generazioni, processi di securitizzazione e della riformulazione della cittadinanza nelle società multiculturali. Fra i suoi lavori più recenti: Assistiti o segregati? I grandi centri per richiedenti asilo in Italia, «La società degli individui», 41 (2011) e The expanded border. Policies and practices of preventive refoulement in Italy, in The politics of international migration management, a cura di M. Geiger e A. Pécoud (2010).

Paola Molinatto è dottore di ricerca in Filosofia del diritto. Le sue ricerche si collo-cano all’incrocio tra la riflessione filosofico-politica e quella delle scienze sociali, e riguardano le trasformazioni in atto nella sovranità, nelle istituzioni e nelle politiche sociali. Tra i suoi lavori: Prove di ‘reincantamento’. Futuro della religione (e della democrazia) nell’età secolare, «Rassegna italiana di sociologia», 3 (2011) e Boltanski e le aporie antro-pologiche del liberalismo, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 2 (2008).

Andrea Molteni è dottore di ricerca in Sociologia. Si occupa in particolare del rappor-to tra discorso scientifico e discorso politico in materia di sicurezza, pena, scienze della vita. Fra le sue pubblicazioni più recenti, la cura (con L. Massari) di Giustizia e sicurezza (2010), e La biologizzazione della ‘sicurezza’, in Medicalizzazione, sorveglianza e biopolitica. A partire da Michel Foucault, a cura di N. Mattucci e G. Vagnarelli (2012).

Raffaele Monteleone è dottore di ricerca in Sociologia; è stato assegnista di ricerca presso l’Università di Milano-Bicocca, ha insegnato Politiche pubbliche e sociali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e presso l’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di analisi delle politiche pubbliche (sociali, sanitarie, educative). Fra le sue pubblicazioni più recenti, la cura di La contrattualizzazione nelle politiche sociali: forme ed effetti (2007); con L.K.C. Manzo, Canonica-Sarpi. Un quartiere storico in fuga dal presente, in Milano Downtown. Azione pubblica e luoghi dell’abitare, a cura di M. Bricocoli, P. Sa-voldi (2010); con L. Bifulco e C. Mozzana, Capabilities without rights? The Trespassing Project in Naples, «Social Work & Society International Online Journal», 10, 1 (2012).

Carlotta Mozzana è dottore di ricerca in Sociologia. I suoi interessi di ricerca ri-guardano l’approccio delle capacità, l’analisi delle politiche pubbliche e lo studio dei processi organizzativi nei servizi sociali e sanitari. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Quali capacità senza diritti? Analisi di un progetto di accompagnamento al lavoro di giovani NEET a Napoli (con R. Monteleone) in Condizione giovanile e nuovi rischi sociali. Quali politiche? a cura di G. Cordella e S.E. Masi (2013); con L. Bifulco, La dimensione sociale delle capacità: fattori di conversione, istituzioni e azione pubblica, «Rassegna Italiana di Sociologia», 3, 2011.

Emanuele Polizzi è dottore di ricerca in Sociologia presso l’Università di Milano, assegnista di ricerca presso l’Università di Milano Bicocca, insegna attualmente Sociologia presso l’Università di Pavia. La sua attività di ricerca investe il campo

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Gli Autori 343

della partecipazione politica, del welfare locale e del terzo settore. Tra le sue pubbli-cazioni più recenti: Local welfare systems: a challenge for social cohesion (con E. Mingione e A. Andreotti), «Urban Studies» (2012) e la cura (con M. Bassoli) di La governance del territorio. Partecipazione e rappresentanza della società civile nelle politiche locali (2011).

Giovanna Procacci, professore di Sociologia presso l’Università di Milano, è stata Presi-dente della European Sociological Association. Si occupa di cittadinanza, esclusione sociale, immigrazione, sicurezza. Fra i suoi lavori più recenti, la cura (con P. Baert, S. Koniordos e C. Ruzza) di Conflicts, Citizenship and Civil Society (2010); De l’insécurité sociale à la ‘Human Security’, in Changements et pensée du changement, a cura di R. Castel e C. Martin (2012).

Roberto Rizza insegna Sociologia economica e Sociologia del lavoro presso l’Uni-versità di Bologna. Fra le sue pubblicazioni più recenti: con M. Sansavini, Femmes et travail: représentations du féminin et politiques de conciliation travail-vie. L’exemple italien, «Revue Internationale de Sociologie» (2013); con E. Gualmini, Attivazione, occupabi-lità e nuovi orientamenti di policy nelle politiche del lavoro: il caso italiano e tedesco a confronto, «Stato e Mercato» (2011).

Mila Sansavini è dottore di ricerca in Sociologia, attualmente assegnista di ricerca presso l’università di Bologna. Si occupa in particolare del rapporto tra lavoro e dimensione di genere, politiche di conciliazione e qualità del lavoro. Fra i suoi lavori più recenti: con R. Rizza, Femmes et travail: représentations du féminin et politiques de conciliation travail-vie. L’exemple italien”, «Revue Internationale de Sociologie» (2013).

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Argomentazione e sfera pubblicaCollana coordinata da Franco Rositi

Comitato scientifico:Vando Borghi, Anna Rita Calabrò, Ota de Leonardis, Giovanni Procacci

La democrazia mostra oggi numerosi, gravi e convergenti segni di crisi. È comun-que anche vero che mai come oggi non solo la chiedono popoli vissuti finora sotto regimi autoritari, ma anche ne pretendono il rinnovamento porzioni numericamente rilevanti o socialmente significative delle popolazioni e dell’opinione pubblica nei paesi capitalistici e “democratici”. Si può forse affermare che, nel complesso, oggi la domanda di democrazia superi l’offerta dei mezzi adatti a promuoverla e a sostenerla (distribuzione meno ineguale delle risorse, investimenti culturali, qualità dei professionisti della politica, generali orientamenti morali e solidaristici del senso comune). Da molte parti si attende a ridisegnare regole e mezzi adatti a rendere efficiente e intelligente la partecipazione politica, per una ripresa degli ideali dell’a-sintoto democratico. Senza pretese totalizzanti questa collana vuole far convergere l’attenzione della ricerca e della riflessione comune su uno dei punti nevralgici per il rinnovamento della “sfera pubblica”. È un punto specifico e importante, tale da meritare appunto attenzione specifica: la qualità del comune discorso politico, o generalmente pubblico, dei dispositivi comunicativi del potere e dei movimenti di critica e di contestazione. Un incremento della loro razionalità, del loro dispiegarsi in forme argomentative e non capricciosamente assertive, è uno dei requisiti per una nuova speranza di democrazia.

1. La ragione politica, vol. 1. I discorsi dei leader politici, a cura di F. Rositi2. La ragione politica, vol. 2. I discorsi delle politiche, a cura di V. Borghi, O. de Leonardis,

G. Procacci

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