Le sindromi demenziali Vincenzo MANNA Medico, Psichiatra, Psicoterapeuta Direttore f.f. UOC SPDC DSM ASL ROMA 6 [email protected]cell. +39 333 36 25 218 L’aspettativa di vita nel corso dell’ultimo secolo è nettamente aumentata. Nelle società industriali d’occidente e in Italia, in particolare, essa è passata dai 40-50 anni degli inizi del ’900 agli oltre 75 anni attuali. Si è triplicato, nel corso dell’ultimo secolo, il numero di soggetti anziani, con più di 65 anni, limite convenzionale della senilità. Gli anziani, nel ’900 erano intorno al 4% della popolazione generale, oggi rappresentano oggi circa il 20% della popolazione o ccidentale e sono destinati ad aumentare nei prossimi anni. Secondo le proiezioni degli esperti, raggiungeranno, in Europa, il 30% nel 2020. Poiché l’età è considerata tra i principali fattori di rischio per la patologia demenziale, si può prevedere, per i l futuro, un aumento dell’incidenza e della prevalenza di questa patologia. L’invecchiamento cerebrale è un fenomeno estremamente complesso, nel quale interagiscono variamente molteplici fattori, endogeni ed esogeni. Pur non essendo corretto stabilire un’ equivalenza tra senilità e demenza, è noto che la maggior parte delle demenze si manifesta in età senile. Secondo le stime più attendibili, le sindromi demenziali colpiscono dal 5 al 15% dei soggetti con più di 65 anni d’età, oltre il 20% di quelli con più di 80 anni e più del 50% di quelli con età superiore ai 95 anni. In realtà, le sindromi demenziali si manifestano con incidenza esponenziale nelle varie fasce d’età, a partire dall’età puberale. I deficit intellettivi congeniti o insorti in età prepuberale, invece, vengono descritti come oligofrenia, come frenastenia, oppure come insufficienza mentale, congenita o/o acquisita. Negli ultimi 25-30 anni, quello delle demenze è diventato un problema non soltanto medico, ma anche, e soprattutto, sociale. La demenza non è una entità nosografica, propriamente detta, ma un aggregato sindromico, un gruppo di condizioni cliniche, caratterizzate da una sorta di progressiva perdita “a ritroso” delle acquisite competenze bio-psico-sociali dell’individuo, che può regredire sino a livelli di funzionamento quasi neonatale. Questo processo può essere considerato esclusivamente intrapsichico solo nella sua prima parte. Con il suo progredire, la sintomatologia demenziale si esprime in termini più propriamente neurologici ed internistici. Le demenze si collocano tra le poche condizioni psico-morbose nelle quali è compiutamente validato, in psichiatria, il concetto di “malattia”, cioè d’insieme di segni e sintomi con chiari correlati fisiopatologici cerebrali. Lo studio delle demenze permette il superamento del dualismo psiche/soma, dimostrando, inequivocabilmente, che il comportamento umano, normale o patologico, ha il suo substrato nell’attività cerebrale. Il termine “malattia mentale”, se implicitamente contrapposto a “malattia organica”, e, quindi, espressione del dualismo mente/corpo, è da considerarsi ormai anacronistico e riduttivo. La ricerca e la clinica, in psichiatria, tende da decenni al superamento del dualismo mente/corpo ed all’affermazione, invece, della loro indiscutibile unitarietà. L’integrazione della psichiatria e della neurologia può portare ad una migliore comprensione, ad una più accurata definizione diagnostica e ad un miglior trattamento, delle malattie mentali, non più fittiziamente distinte in “funzionali” ed “organiche”. In psichiatria, ma anche in ogni altra branca medica, resta, comunque, criticabile il limitare la terapia ad interventi puramente biologici. Se l’uomo è un’unità bio-psico-sociale, se la salute è benessere bio-psico-sociale, come sostiene l’Organizzazione Mondiale della Sanità, qualsiasi approccio terapeutico, a qualsiasi malattia, dovrebbe sempre essere integrato, con interventi non solo medico-biologici, ma anche di tipo psicoterapeutico e socio-riabilitativo. Le demenze, in quanto malattie acquisite del cervello, con chiari correlati sia neurobiologici sia psicopatologici, sono emblematiche di questo più corretto approccio integrato alla vita mentale, in termini non solo teorici e diagnostici, ma soprattutto clinici e terapeutici. Invecchiamento e demenza L’invecchiamento si accompagna a modificazioni caratteristiche nella fisiologia degli organismi viventi. I meccanismi molecolari dell’invecchiamento sono probabilmente modulati da fattori genetici, all’interno di un più vasto programma
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Le sindromi demenziali Vincenzo MANNA · fenomeni degenerativi. Le placche senili e le degenerazioni neurofibrillari, sono le due lesioni microscopiche, descritte da Alois Alzheimer,
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Le sindromi demenziali
Vincenzo MANNA Medico, Psichiatra, Psicoterapeuta Direttore f.f. UOC SPDC DSM ASL ROMA 6 [email protected] cell. +39 333 36 25 218
L’aspettativa di vita nel corso dell’ultimo secolo è nettamente aumentata. Nelle società industriali d’occidente e in Italia,
in particolare, essa è passata dai 40-50 anni degli inizi del ’900 agli oltre 75 anni attuali. Si è triplicato, nel corso
dell’ultimo secolo, il numero di soggetti anziani, con più di 65 anni, limite convenzionale della senilità. Gli anziani, nel
’900 erano intorno al 4% della popolazione generale, oggi rappresentano oggi circa il 20% della popolazione occidentale
e sono destinati ad aumentare nei prossimi anni. Secondo le proiezioni degli esperti, raggiungeranno, in Europa, il 30%
nel 2020. Poiché l’età è considerata tra i principali fattori di rischio per la patologia demenziale, si può prevedere, per i l
futuro, un aumento dell’incidenza e della prevalenza di questa patologia.
L’invecchiamento cerebrale è un fenomeno estremamente complesso, nel quale interagiscono variamente molteplici
fattori, endogeni ed esogeni. Pur non essendo corretto stabilire un’equivalenza tra senilità e demenza, è noto che la
maggior parte delle demenze si manifesta in età senile. Secondo le stime più attendibili, le sindromi demenziali
colpiscono dal 5 al 15% dei soggetti con più di 65 anni d’età, oltre il 20% di quelli con più di 80 anni e più del 50% di
quelli con età superiore ai 95 anni.
In realtà, le sindromi demenziali si manifestano con incidenza esponenziale nelle varie fasce d’età, a partire dall’età
puberale. I deficit intellettivi congeniti o insorti in età prepuberale, invece, vengono descritti come oligofrenia, come
frenastenia, oppure come insufficienza mentale, congenita o/o acquisita. Negli ultimi 25-30 anni, quello delle demenze è
diventato un problema non soltanto medico, ma anche, e soprattutto, sociale.
La demenza non è una entità nosografica, propriamente detta, ma un aggregato sindromico, un gruppo di condizioni
cliniche, caratterizzate da una sorta di progressiva perdita “a ritroso” delle acquisite competenze bio-psico-sociali
dell’individuo, che può regredire sino a livelli di funzionamento quasi neonatale. Questo processo può essere considerato
esclusivamente intrapsichico solo nella sua prima parte. Con il suo progredire, la sintomatologia demenziale si esprime
in termini più propriamente neurologici ed internistici.
Le demenze si collocano tra le poche condizioni psico-morbose nelle quali è compiutamente validato, in psichiatria, il
concetto di “malattia”, cioè d’insieme di segni e sintomi con chiari correlati fisiopatologici cerebrali. Lo studio delle
demenze permette il superamento del dualismo psiche/soma, dimostrando, inequivocabilmente, che il comportamento
umano, normale o patologico, ha il suo substrato nell’attività cerebrale. Il termine “malattia mentale”, se implicitamente
contrapposto a “malattia organica”, e, quindi, espressione del dualismo mente/corpo, è da considerarsi ormai
anacronistico e riduttivo.
La ricerca e la clinica, in psichiatria, tende da decenni al superamento del dualismo mente/corpo ed all’affermazione,
invece, della loro indiscutibile unitarietà. L’integrazione della psichiatria e della neurologia può portare ad una migliore
comprensione, ad una più accurata definizione diagnostica e ad un miglior trattamento, delle malattie mentali, non più
fittiziamente distinte in “funzionali” ed “organiche”.
In psichiatria, ma anche in ogni altra branca medica, resta, comunque, criticabile il limitare la terapia ad interventi
puramente biologici. Se l’uomo è un’unità bio-psico-sociale, se la salute è benessere bio-psico-sociale, come sostiene
l’Organizzazione Mondiale della Sanità, qualsiasi approccio terapeutico, a qualsiasi malattia, dovrebbe sempre essere
integrato, con interventi non solo medico-biologici, ma anche di tipo psicoterapeutico e socio-riabilitativo. Le demenze, in
quanto malattie acquisite del cervello, con chiari correlati sia neurobiologici sia psicopatologici, sono emblematiche di
questo più corretto approccio integrato alla vita mentale, in termini non solo teorici e diagnostici, ma soprattutto clinici e
terapeutici.
Invecchiamento e demenza
L’invecchiamento si accompagna a modificazioni caratteristiche nella fisiologia degli organismi viventi. I meccanismi
molecolari dell’invecchiamento sono probabilmente modulati da fattori genetici, all’interno di un più vasto programma
Va indagato, accuratamente, l’esordio del quadro clinico e la sua evoluzione. E’ importante rilevare l’eventuale
manifestarsi, in coincidenza con l’esordio della demenza, di segni e sintomi neurologici. È necessario, inoltre, acquisire
un quadro, il più possibile esauriente, della personalità premorbosa, dello stile comportamentale del soggetto, del livello
di adattamento sociale, del livello di integrazione sociale, poiché le prime ipotesi diagnostiche possono essere formulate
in base alle modificazioni del comportamento, in ambito familiare, lavorativo e sociale, nonché in base a significative
variazioni dei tratti di personalità.
Si dovrà indagare come e in quale misura sono cambiati interessi e abitudini, il tipo e l’entità del deficit mnesico, attentivo
ed intellettivo, del linguaggio, delle gnosie, delle prassie, l’eventuale presenza di disorientamento temporo-spaziale e/o
d’episodi confusionali, con o senza agitazione psicomotoria, la comparsa d’alterazioni dell’alimentazione, del ritmo
sonno/veglia, della sessualità e dell’igiene personale.
A questo scopo, può essere utile l’impiego di strumenti standardizzati di valutazione, che possono fornire una guida per
un’indagine più completa. Importante è il colloquio con il paziente, dal quale un clinico esperto può trarre numerose e
preziose informazioni, su tutti gli aspetti neurocognitivi e psicopatologici essenziali. Il colloquio può consentire anche di
valutare le capacità di giudizio, di ragionamento e d’astrazione del soggetto.
Quando il paziente giunge all’osservazione, nelle fasi iniziali della malattia, l’inquadramento diagnostico può rivelarsi
difficile ed è allora opportuno far ricorso alla valutazione neuropsicologica, che consente, mediante l’impiego di strumenti
standardizzati di rilevazione, di evidenziare deficit mnesico-cognitivi più fini.
2. Esame obiettivo generale e neurologico
Con l’esame obiettivo generale si verificano le condizioni generali del soggetto, nel tentativo di evidenziare eventuali
segni e/o sintomi di malattie sistemiche, che possano essere in qualche maniera correlate, in senso etiopatogenetico, al
quadro demenziale. Non entreremo nel dettaglio dell’esame obiettivo generale e neurologico per brevità.
L’esame neurologico può evidenziare segni e sintomi di una patologia cerebrale potenzialmente dementigena, anche
nelle fasi precoci del disturbo, fornendo informazioni essenziali sul piano diagnostico, prognostico e terapeutico. Nelle
fasi più avanzate dell’AD, sono normalmente evidenziabili segni neurologici di “liberazione”, per danno delle strutture
corticali di controllo inibitorio, cioè automatismi motori arcaici sottocorticali, presenti nel bambino, prima del
completamento della mielinizzazione cerebrale, come il riflesso palmo-mentoniero, il riflesso glabellare, il riflesso del
muso di Epstein, il riflesso di suzione, il grasping reflex. Segni neurologici sono anche i disturbi che riguardano la
mimica, l’atteggiamento, la postura, l’andatura, la presenza d’eventuali movimenti involontari, come quelli di suzione o di
masticazione, nonché stereotipie, ecc.
La valutazione del tono muscolare può evidenziare ipertonie extrapiramidali e/o oppositive, non di rado deficit della
coordinazione motoria, nonché segni d’eventuali disprassie, quando il paziente è incapace di eseguire la sequenza
motoria, che gli è descritta e mostrata.
3. Valutazione neuropsicologica
La valutazione neuropsicologica è indispensabile, per ottenere una determinazione obiettiva delle risorse cognitive
residue, in funzione dell’impostazione d’interventi terapeutico-riabilitativi più mirati e, quindi, potenzialmente più efficaci.
Numerosi sono gli strumenti d’indagine volti alla valutazione delle funzioni cognitive e della gravità della demenza, tra gli
strumenti più semplici e più diffusi, ricordiamo il Mini Mental State (MMSE), l’Alzheimer’s Disease Assessment Scale
(ADAS) e lo Short Portable Mental Status Questionnarie (SPMSQ).
Particolarmente importanti, nella diagnosi differenziale tra modificazioni cognitive senili e demenziali, sono i test
neuropsicologici, propriamente detti. L’accertamento del deterioramento demenziale dovrebbe prevedere test esploranti
la memoria, le funzioni strumentali e quelle di controllo. In ogni caso è necessario che i test somministrati siano tarati,
per definire un’eventuale compromissione di performance, alla prova specifica. Per poter seguire nel tempo l’evoluzione
del quadro clinico dei soggetti, con diagnosi accertata di deterioramento demenziale, sono utili le scale di valutazione
della gravità e del comportamento, fra cui le più diffuse sono la Clinical Dementia Rating (CDR) e la Global Deterioration
Scale (GDS).
Le scale di valutazione comportamentale esplorano diverse aree della vita quotidiana del paziente e sono usate per
evidenziare i problemi, che il paziente incontra nello svolgimento delle attività quotidiane. Una delle più diffuse è la
Dementia Scale (DS). Altre scale di valutazione comportamentale sono: il Neuropsychiatric Inventory (NPI), la
Behavioural Pathology in Alzheimer’s Disease Scale (BEHAVE-AD), l’ADAS noncognitive subscale, la Behaviour Rating
Scale for Dementia of the Consortium to Establish a Registry for Alzheimer’s Disease (CERAD BRSD), il Cohen –
Mansfield Agitation Inventory (CMAI), la Brief Psychiatric Rating Scale (BPRS), la Cornell Scale for Depression In
Dementia.
L’utilizzo di scale comportamentali, come strumenti di diagnosi della demenza, è spesso fonte di confusione e comporta
il rischio d’imprecisioni e d’errori, con ripercussioni anche gravi, nella pratica clinica. Nei trial farmacologici vengono, di
solito, impiegati anche altri stumenti, con il fine di valutare l’eventuale variazione di alcuni parametri funzionali, tra cui le
scale che valutano il cambiamento clinico globale, come la Clinical Global Impressions (CGI) e la Clinicians Interview
Based Impression of Change (CIBIC). Molti test e scale di gravità e di comportamento richiedono tempi di
somministrazione molto lunghi, anche di diverse sedute, di diverse ore ciascuna.
A scopi clinici può essere utile l’impiego d’interviste strutturate, più brevi e facilmente somministrabili, che evidenziano le
principali informazioni rilevanti per la diagnosi, anche differenziale, e per la quantificazione del danno demenziale. Alcuni
di tali strumenti sono il GMS (Geriatric Mental State Examination), il CAMDEX (Cambridge Mental Disorders of the
Elderly Examination) e il SIDAM (Structured Interview for the diagnosis of Dementia of the Alzheimer type, Multi-infarct
dementia and dementias of other aetiology according to ICD-10 and DSM-III-R).
Semeiotica strumentale
L’esame clinico va integrato con gli esami strumentali generali e specifici. E’ ovviamente necessario valutare i principali
esami di laboratorio. L’esame del liquor viene consigliato, in presenza di demenza ad esordio precoce, per la possibilità
di infezioni e tumori, malattie autoimmunitarie e idrocefalo normoteso. Markers per l’Alzheimer in fase di studio sono: 1. il
dosaggio nel liquor della proteina tau e beta amiloide; 2. lo studio del metabolismo dei fibroblasti. E’ necessario ricercare
altre cause patologiche del decadimento mentale, valutando attentamente la funzione epatica e renale, ma anche
dosando per esempio la vitamina B12 o facendo la sierodiagnosi per lue e HIV. E’ necessario valutare i principali
parametri cardiologici e vascolari, per evidenziare eventuali fattori d’ipoperfusione ematica cerebrale, su base
aritmogenetica e/o aterosclerotica, effettuando per esempio un eco-color-doppler dei tronchi arteriosi sovraortici.
Particolare rilievo assume l’esplorazione elettrofisiologia del SNC e le più complesse tecniche di brain imaging.
1. Neurofisiologia delle demenze
Le indagini elettrofisiologiche, quali l’elettroencefalogramma (EEG) ed i potenziali evocati, hanno contribuito alla
comprensione dei correlati neurofunzionali di queste patologie. Nei pazienti con demenza, di qualsiasi origine, è
evidenziabile un’alterazione più o meno marcata dell’attività bioelettrica cerebrale. L’EEG rappresenta la somma delle
differenze di potenziale, esistenti tra diverse aree cerebrali, corticali e sottocorticali. L’assetto neurofunzionale della
demenza è studiato, soprattutto, mediante i potenziali evocati ed in particolare, con la valutazione delle loro componenti
più tardive, maggiormente influenzate da fattori cognitivi.
1 a. Elettroencefalogramma
Anomalie EEG, con un diffuso rallentamento dell’attività di base, sono state evidenziate in pazienti dementi, già nel 1937,
agli albori della neurofisiologia clinica. Ulteriori studi hanno confermato queste prime osservazioni, rilevando un
rallentamento della frequenza del ritmo alpha e la maggior presenza d’attività theta e delta. Le ricerche successive non
hanno permesso di identificare anomalie qualitative e/o quantitative del pattern EEG, che fossero specifiche della
patologia demenziale.
L’EEG classico è un mezzo diagnostico efficace nell’evidenziare i segni d’encefalopatia organica diffusa, ma con scarsa
specificità nella diagnostica differenziale. L’introduzione dei calcolatori digitali, nell’ambito della neurofisiologia clinica, ha
permesso la trasformazione del segnale EEG da analogico in digitale. Ciò ha consentito diversi tipi d’analisi matematica
del segnale, allo scopo di identificare parametri quantificabili dell’attività bioelettrica cerebrale.
E’ stato possibile elaborare, così, gli spettri di potenza, derivati dall’analisi di frequenza (trasformata di Fourier) che
determinano, per ciascun intervallo di frequenza, il livello d’energia bioelettrica registrata, in una specifica derivazione
cerebrale, in un definito intervallo di tempo. Con l’elaborazione computerizzata topografica è stato possibile avere una
rappresentazione spaziale (mappe EEG) di distribuzione di tale attività bioelettrica, nelle diverse aree cerebrali. Gli studi,
con queste tecniche d’analisi quantitativa dell’EEG, hanno confermato, nelle demenze, il decremento del ritmo alpha e
l’aumento diffuso delle frequenze theta e delta.
Hanno localizzato tali anomalie, talora focali, in prevalenza in sede fronto-temporale, soprattutto nell’emisfero di sinistra.
Sono stati condotti studi che hanno evidenziato una correlazione tra deterioramento cognitivo e diversi parametri EEG,
ma non sono state identificate alterazioni specifiche, per i pazienti affetti da demenza. L’EEG quantitativo può essere un
ausilio nella conferma della diagnosi di demenza di tipo Alzheimer, ma la sua validità nel processo diagnostico
differenziale è piuttosto limitata.
Alcuni studi hanno sottolineato l’utilità di un approccio combinato con EEG quantitativo e tecniche di neuro-imaging
(RMN – TAC - PET) nell’identificare anomalie morfofunzionali, in pazienti con un quadro subclinico ed iniziale di
demenza di tipo Alzheimer. Secondo alcuni Autori, nelle forme ad esordio presenile, sono riscontrabili alterazioni
localizzate, prevalentemente, in corrispondenza delle regioni temporali posteriori dell’emisfero sinistro, mentre nei casi
ad esordio più tardivo le alterazioni prevalgono a livello delle regioni medio-frontali e frontali anteriori, di entrambi gli
emisferi.
Nei pazienti affetti da demenza multinfartuale (MID) le anomalie EEG sono localizzate, di solito, nelle zone di sofferenza
vascolare. Nei pazienti affetti da morbo di Parkinson, con un quadro clinico di demenza, l’EEG quantitativo ha mostrato
anomalie bioelettriche non specifiche. L’EEG resta molto utile nel porre diagnosi di demenza di Creutzfeldt-Jakob anche
se, a volte, è necessario sottoporre il paziente a ripetute registrazioni, se le prime non mostrano grafoelementi specifici.
Questi pazienti mostrano alterazioni EEG con onde lente appuntite e diffuse od onde lente difasiche e trifasiche, che si
ripetono con intervalli di tempo di 0,5-1,5 sec e che possono avere lunga durata. E’ stato, inoltre, evidenziato un pattern
EEG simile a quello presente nelle fasi di sonno non-REM, con un’attività dominante diffusa a 0,5-4 cicli il secondo.
Nei pazienti affetti da AIDS- Dementia Complex sono stati osservati rallentamenti, predominanti sulle regioni frontali, di
entrambi gli emisferi. In uno studio è stato descritto un tracciato EEG, di una bassa ampiezza, correlato spazialmente al
grado d’atrofia, visibile alla TAC. In conclusione, quindi, l’analisi quantitativa EEG può essere utile, quando la diagnosi
resta incerta, dopo un’approfondita indagine del quadro clinico.
1 b. Potenziali evocati
I potenziali evocati sono oscillazioni elettriche generate in diverse aree cerebrali, in rapporto alla presentazione di
determinati stimoli. Essi presentano diverse componenti. Le più precoci compaiono entro 100 msec dalla presentazione
dello stimolo, originano a livello tronco-encefalico e presentano caratteristiche dipendenti dal tipo di stimolo. Le
componenti intermedie compaiono in un intervallo di tempo compreso tra i 100 e i 250 msec.
Sono influenzate, oltre che dal tipo di stimolo, anche da vari fattori neurofisiologici. Le componenti più tardive, dette
anche potenziali evento-correlati, non risentono significativamente delle caratteristiche dello stimolo. Sono dipendenti
dall’attività corticale e sono influenzate da processi cognitivi come l’attenzione, la valutazione dello stimolo e la memoria.
In particolare, una deflessione positiva che comprende, dopo circa 300 msec, la P300, sembra riflettere la velocità di
valutazione e categorizzazione dello stimolo. Un aumento della latenza della P300 è stato descritto nell’invecchiamento
fisiologico.
Molti studi hanno dimostrato latenze significativamente più ampie, di questa componente tardiva, in pazienti affetti da
diverse forme di demenza, rispetto a soggetti sani di pari età. Secondo alcuni studi le anomalie nella latenza di comparsa
dei potenziali evocati sono già presenti nelle fasi precoci di malattia. Un’altra componente, questa volta negativa, la
N200, sembra comparire in ritardo in pazienti con demenza. La componente intermedia positiva, P200, risulta in ritardo,
nei soli pazienti con Morbo di Parkinson. Nei pazienti affetti da demenza secondaria ad AIDS si osserva un significativo
aumento della latenza delle componenti P200 e N300, dopo stimoli acustici, e, in alcuni casi, la loro completa
scomparsa.
2. Brain imaging
E’ sempre consigliabile effettuare almeno un esame diagnostico per immagini, in tutti i pazienti con sintomatologia
demenziale. Le tecniche di brain imaging identificano le cause reversibili di demenza (tumori, ematomi, idrocefalo),
aiutano la definizione delle demenze ad etiologia vascolare e sono utili nel valutare il grado di danno atrofico, nelle
demenze neurodegenerative.
La Tomografia Computerizzata (TC) identifica chiaramente l’atrofia corticale e l’eventuale ampliamento dei ventricoli,
condizioni tipiche della malattia d’Alzheimer e delle altre demenze degenerative, anche senza mezzo di contrasto.
L’utilizzo di un mezzo di contrasto e.v. permette di accertare la presenza di lesioni focali meno estese e di varia natura
(vascolare, tumorale, etc.).
La Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) ha un più alto potere di risoluzione rispetto alla TC. Distingue sulla base della
differente densità protonica la sostanza grigia dalla bianca. Permette di identificare sia lesioni focali sia alterazioni diffuse
e facilita la diagnosi differenziale fra demenze neurodegenerative e demenze vascolari.
La Positron Emission Tomography (PET) è usualmente utilizzata per la diagnosi precoce e la diagnosi differenziale,
nonché per valutare specifiche alterazioni della perfusione ematica cerebrale.
Si rimanda a specifiche trattazioni per maggiori dettagli.
Malattia di Alzheimer
Descritta per la prima volta nel 1907 da Alois Alzheimer, la malattia demenziale, che da lui prende il nome, era
considerata relativamente rara, nello scorso secolo. Oggi si sa che è una delle forme di demenza più diffuse nella
popolazione. Rappresenta circa il 55% di tutte le demenze. La malattia di Alzheimer è, specialmente nelle società
industriali, con una speranza media di vita in costante aumento, una delle principali cause di invalidità e morte, nell’età
avanzata.
La malattia di Alzheimer (Alzheimer Disease – AD) è divenuta, negli ultimi anni, uno dei maggiori problemi di salute
pubblica. La ricerca delle basi etio-patogenetiche della malattia appare, quindi, di primaria importanza. La prevalenza è
stimata nei diversi studi da un minimo dell’ 1% ad un massimo del 9,1%, nella popolazione in età senile. Prevale nel
sesso femminile e presenta una spiccata familiarità. Bassi livelli d’istruzione e di stimoli culturali possono essere fattori
favorenti l’insorgere di una demenza precoce.
1. Neuropatologia
La AD si presenta con diffusa atrofia cerebrale, più marcata nei lobi temporali anteriori, e con allargamento delle cavità
liquorali. Dal punto di vista microscopico si osservano una serie di reperti caratteristici, di seguito brevemente descritti.
Depositi d’amiloide, sottoforma di:
a.placche neuritiche, fatte da un nucleo centrale di fibre, con attorno detriti di neuroni e glia;
b.placche diffuse, con materiale proteico amorfo, non molto aggregato in fibre;
c.angiopatia congofila (amiloide si colora al rosso Congo), con i vasi corticali e meningei infiltrati di amiloide nella parete
muscolare.
Alterazioni del citoscheletro All’interno del neurone si ritrovano dei filamenti di tubulina (componente normale dei tubuli)
disposti, però, in modi diversi dalla norma (p.es. ad elica) che si accumulano nel citoplasma (degenerazione
neurofibrillare) o nei dendriti. Questi fenomeni dipendono da un’anomala fosforilazione della proteina tau, precursore
della tubulina, ma sono aspecifici.
Rarefazione neuronale Nei lobi frontali e temporali, la corteccia si riduce del 30-40% in spessore, soprattutto a carico del
III e V strato. Alcuni nuclei sottocorticali sono ancora più colpiti, come il nucleo dorsale del rafe o il nucleo basale di
Meynert. Tutti questi nuclei proiettano, diffusamente, alla corteccia e la loro degenerazione contribuisce alla riduzione del
tono di neurotrasmettitori, soprattutto d’acetilcolina. In ogni strato corticale si ha una riduzione del numero di sinapsi, fino
al 50%. Sembra che la quantità d’amiloide non sia direttamente correlata alla demenza, mentre lo è il numero di
neurofilamenti, presenti in corteccia. S’ipotizza che l’amiloide si accumuli innocuamente con l’età, ma diventi patologica,
quando si aggrega in filamenti alfa.
2. Ipotesi etiopatogenetiche
Un ruolo rilevante, nella genesi dell’AD, è svolto da un peptide detto proteina beta, aggregato in forma d’amiloide,
responsabile della degenerazione neuronale e sinaptica dei neuroni. La proteina beta è neurotossica in misura
proporzionale alla sua aggregazione in filamenti d’amiloide. Mutazioni puntiformi del gene, che codifica per la proteina
precursore (APP) si riscontrano in forme familiari di AD. La proteina beta è normale nella sua struttura. E’ l’eccessiva
produzione ed il suo accumulo intra ed extraneuronale ad avere effetti patologici. Nell’AD si accumula, per vari motivi
(difetto di maturazione, di escrezione, difetto nei segnali di riconoscimento della proteina). Vengono riportate di seguito
diverse ipotesi etiopatogenetiche.
Ipotesi genetica Fin dagli inizi del secolo sono state descritte famiglie, nelle quali più di un membro andava incontro a
AD. Studi più recenti su alberi genealogici più ampi e più dettagliati, hanno consentito di ipotizzare una trasmissione di
tipo autosomico dominante della malattia. Lo studio delle proteine, implicate nella patogenesi dell’AD, e dei geni che le
codificano con l’uso di tecniche di linkage genetico hanno permesso la caratterizzazione del difetto genico ne lla forma
familiare (Familial Alzheimer Disease – FAD).
È noto, infatti, che fattori di genetici svolgono un ruolo di primo piano, nell’etiologia d’alcune forme di malattia
d’Alzheimer. In letteratura è stata descritta una forma familiare, ad esordio precoce, di AD. Numerose famiglie, con
molteplici casi affetti, suggeriscono una modalità di trasmissione di tipo mendeliano autosomica dominante. Esse sono
state studiate con tecniche di linkage allo scopo di localizzare i geni corresponsabili di tale forma familiare. Pazienti affetti
da sindrome di Down (trisomia del cromosoma 21) che sopravvivevano sino a 35-40 anni, sviluppavano un quadro di
demenza che assomigliava strettamente alla malattia d’Alzheimer, sia da un punto di vista clinico che istopatologico.
Il fatto che il gene che codifica per la proteina precursore dell’amiloide (APP) fosse ugualmente localizzato sul
cromosoma 21 lo rendeva un gene candidato altamente probabile, anche se le osservazioni iniziali non permettevano di
riscontrare nessuna evidenza certa di un ruolo diretto del gene APP, nella produzione della malattia. In seguito, è stata
identificata una mutazione specifica nell’esone 17, del gene codificante per la proteina APP, in alcune famiglie
originariamente positive per il linkage, con marcatori del cromosoma 21.
In questi casi, una mutazione puntiforme era responsabile della presenza di un diverso aminoacido, nella struttura della
proteina (Val vs Leu) con la produzione di una proteina anomala, che poteva ragionevolmente essere considerata un
potenziale determinante etiologico della malattia. Il complesso problema dell’eterogeneità della malattia d’Alzheimer è
stato indagato sulla base di dati sperimentali.
Alcuni Autori, hanno proposto un secondo locus responsabile d’alcune forme familiari d’AD ad esordio tardivo,
localizzato sul cromosoma 19. L’eterogeneità della malattia d’Alzheimer è suggerita anche da caratteristiche
epidemiologiche e cliniche. Un linkage positivo è stato dimostrato, in famiglie di pazienti con un quadro clinico ad esordio
precoce, con una modalità di trasmissione di tipo dominante ed un marcato deficit cognitivo (la “sindrome alogica di
Reich o sindrome delle 4 A”con: amnesia, afasia, aprassia ed agnosia). I casi d’AD ad esordio tardivo, invece, mostrano
una modalità di trasmissione, non mendeliana, con deficit cognitivi incompleti, almeno all’inizio della malattia.
Pazienti di sesso diverso mostrano un rischio di malattia sostanzialmente uguale, nelle forme ad esordio precoce,
mentre in quelle ad esordio tardivo il rischio di morbilità delle donne è significativamente maggiore. Altri dati
suggeriscono che le forme di AD familiare a esordio tardivo riconoscono almeno due diverse etiologie. In alcuni casi la
malattia sembra trasmessa come carattere autosomico dominante, probabilmente legato al cromosoma 19, mentre, in
una proporzione significativa di famiglie, con malattia ad esordio tardivo, sembra dipendere da altri fattori genetici o
addirittura da elementi ambientali. I notevoli progressi della ricerca genetica, degli ultimi anni, hanno confermato la
sostanziale eterogeneità genetica della malattia.
Resta da chiarire l’insieme di meccanismi biochimici e molecolari specifici, che inducono ad un quadro clinico e
morfologico simile, a partire da alterazioni di geni differenti. Altri studi di linkage hanno, infatti, permesso di identificare tre
geni che, quando mutati, provocano demenza presenile, localizzati sui cromosomi 21, 14 ed 1. La suddivisione
tradizionale tra malattia d’Alzheimer ad esordio precoce, legata al cromosoma 21, e malattia d’Alzheimer ad esordio
tardivo, legata al cromosoma 19, è stata successivamente superata, con l’identificazione di un terzo locus per la malattia
d’Alzheimer sul braccio lungo del cromosoma 14. Sherrington et al. (1995) hanno identificato un nuovo gene chiamato
presenilina-1 (PS-1) e responsabile di diverse mutazioni, che caratterizzano molti dei pazienti con AD familiare.
Non tutti i casi di AD familiare, però, presentano mutazioni del gene PS-1. E’ stata identificato un altro gene, chiamato
presenilina-2, sul cromosoma 1, che presenta mutazioni, in alcuni casi di AD familiare. E’ possibile cominciare ad
ipotizzare una “classificazione” molecolare della malattia. Il primo gene identificato come responsabile della malattia di
Alzheimer, ad esordio precoce, è sito sul cromosoma 21 e codifica per la proteina precursore del beta-amiloide.
Mutazioni di questo gene sono responsabili di non più del 5% dei casi di AD, tra l’altro, con diversi meccanismi
patogenetici. Il gene PS-1, presente sul cromosoma 14, è responsabile di circa il 70% dei casi d’Alzheimer familiare, ad
esordio precoce.
È stata osservata una differenza di almeno 20 anni nell’età d’esordio della malattia, tra le varie famiglie, che presentano
mutazioni del gene PS-1, in rapporto al codone interessato. Quando la stessa mutazione è presente in diverse famiglie,
si registra una stretta concordanza, nell’età media d’esordio della malattia. Non si può escludere che altre mutazioni del
gene PS-1 possano essere presenti anche in casi di malattia d’Alzheimer, ad esordio tardivo. La stessa mutazione può
avvenire in famiglie di differente origine etnica, in rapporto ad eventi mutazionali indipendenti. Il gene PS-1 sembra avere
un’alta frequenza di mutazioni spontanee e ciò potrebbe essere rilevante, sul piano etiopatogenetico, anche nell’AD
sporadica. Il terzo gene per la AD familiare si trova poi sul cromosoma 1, soprattutto, in famiglie di ceppo germanico.
Il gene PS-2 rappresenta una causa genetica di minore importanza rispetto a PS-1. Ci sono, inoltre, famiglie con AD che
non presentano mutazioni per il gene dell’amiloide (cromosoma 21) o per i due geni PS (cromosoma 14 ed 1). Le due
preseniline presentano un alto grado d’omologia (superiore al 60-65%). Sono entrambe espresse nel cervello, ma anche
nei fibroblasti e nei leucociti. Ciò suggerisce una certa affinità funzionale delle due proteine PS-1 e PS-2. Anche la loro
localizzazione intracellulare è analoga, a livello del reticolo endoplasmatico e dell’apparato del Golgi. La struttura
caratterizzata da 7 domini transmembrana fa ipotizzare un loro ruolo nella trasduzione diretta dei segnali dalla superficie
cellulare al nucleo. I fibroblasti di pazienti con mutazioni in PS-1 producono catene più lunghe di beta-amiloide.
Le mutazioni di PS-1 o di PS-2, per effetto delle preseniline, indurrebbero una serie di reazioni biochimiche, che portano
all’amiloidogenesi abnorme, dato anatomo-patologico comune a tutte le forme di malattia d’Alzheimer. Un meccanismo
fisiopatologico di questo tipo giustifica i modelli genetici di trasmissione della malattia, che sostengono l’ipotesi di un
modello a due loci. Un primo gene (nel caso specifico, PS-1 o PS-2) potrebbe controllare l’espressione di un secondo
gene (l’APP) direttamente responsabile della deposizione d’amiloide.
E’ stata dimostrata un’eterogeneità genetica della malattia familiare, sostenuta da mutazioni in almeno 4 differenti geni
(1, 14, 19 e 21), mentre altre nuove regioni sui cromosomi 12 e 17 sono in fase di studio. Nell’ambito della genetica delle
demenze, un ruolo specifico è rivestito dal gene che codifica per l’apolipoproteina E (ApoE). Diversi studi hanno riportato
un’associazione tra locus ApoCII, presente nel braccio lungo del cromosoma 19, e malattia d’Alzheimer, ad esordio
tardivo. Il locus ApoCII è adiacente al locus dell’ApoE.
Studi di linkage hanno suggerito che la regione cromosomica contenente il gene della ApoE è associata con AD, ad
esordio tardivo. Studi immunoistochimici hanno mostrato che la ApoE si accumula nelle placche senili e nei grovigli
neurofibrillari. I pazienti eterozigoti per l’allele E4 dell’ApoE hanno un rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer
aumentato di 3 volte, mentre per gli omozigoti E4/E4 è di 8 volte.
Alcuni studi sembrano dimostrare che soggetti di età media e avanzata, cognitivamente normali, che sono omozigoti per
l’allele E4 dell’ApoE, presentano una riduzione del metabolismo del glucosio, nelle stesse aree cerebrali dei pazienti
affetti da AD. Ciò suggerisce una disfunzione neurobiologica, in queste aree, precedente la condizione patologica
conclamata. Ulteriori ricerche sono state effettuate e sono ancora in corso, per l’identificazione di altri correlati genetic i
della malattia, che non vengono qui riportate per ragioni di brevità.
Tabella 2 Correlati genetici della Malattia di Alzheimer
Genetica Cromosoma, trasmissione
Caratteristiche
21, aut dom Esordio a 45-65 anni, aumento dei livelli di beta amiloide. 14, aut dom Esordio fra 33 e 56 anni, livelli di beta amiloide e alterazione dei
meccanismi di trasporto del calcio. Accelerazione dei meccanismi apoptosici dei neuroni. Circa il 5-6% delle demenze a carattere familiare, esordio precoce.
1, aut dom Esordio fra 40 e 90 anni, beta amiloide, aumento dei processi apoptosici, più rara
19, APO E La presenza di questo allele aumenta l’età di esordio nelle forme familiari e nelle forme sporadiche
6, IILA-A2 Cofattore nell’anticipare l’esordio della malattia in presenza di APO E 12 Meccanismo sconosciuto
Ipotesi tossica Numerose sono le sostanze neurotossiche capaci di indurre specifici danni cerebrali. Fra queste la più
studiata, nella patogenesi della demenza, è l’alluminio, dato che la concentrazione intraneuronale di questo metallo (che
tende ad accumularsi all’interno delle placche senili sotto forma di silicato) è significativamente più elevata nei pazienti
con AD, rispetto ai controlli non affetti da tale malattia.
Ipotesi virale Il reperto di lesioni tipiche dell’AD (placche senili e degenerazione neurofibrillare) in condizioni quali il
parkinsonismo postencefalitico, la panencefalite sclerosante subacuta ed altre patologie di natura virale o sostenute da
“virus lenti” o da “prioni” ha suggerito la possibilità che anche l’AD possa essere provocata da un agente infettivo non
convenzionale (ma anche di tipo convenzionale, quali l’herpes simplex tipo I e l’herpes zoster).
Ipotesi immunologica Una più marcata alterazione delle risposte immunitarie, sia cellulari che umorali, è stata
evidenziata in soggetti affetti da AD, rispetto ai controlli sani. Sembrano indicare un coinvolgimento del sistema
immunitario nell’eziologia della AD: 1. la natura amiloide del nucleo delle placche senili, che si accompagna in genere a
malattie del sistema immunitario; 2. una maggior frequenza di malattie del sistema immunitario, nei familiari di questi
pazienti; 3. la presenza di autoanticorpi contro i neurofilamenti e, soprattutto, contro le cellule produttrici di prolattina,
presente in un’alta percentuale di pazienti (circa il 90%) e nei soggetti con trisomia 21.
Ipotesi ossidativa I radicali liberi possono determinare reazioni chimiche fortemente dannose per le cellule, con
ossidazioni incontrollate, che possono danneggiare il metabolismo, la struttura e la funzione neuronale, sino a causarne
la morte.
Altre ipotesi Studi epidemiologici caso-controllo hanno dimostrato un più alto rischio di sviluppare AD, nei soggetti che
hanno subito gravi traumi cranici. E’ stato anche dimostrato che ripetuti traumi cranici possono provocare alterazioni
tissutali del tipo della degenerazione neurofibrillare, la cosiddetta “punch-drunk syndrome”. Inoltre, mediante PET sono
state evidenziate, già in fasi precoci della malattia, riduzione della perfusione ematica a livello della corteccia temporo-
parietale ed asimmetrie lesionali. Ulteriori fattori etiopatogenetici dell’AD sono stati riconosciuti in: patologie tiroidee;
carenze dietetiche; fattori vascolari.
3. Evoluzione clinica
L’evoluzione dell’AD viene, di solito, distinta in tre fasi. Nella prima fase, si osserva un calo iniziale degli interessi,
indifferenza e turbe della memoria di lieve entità. Il paziente è consapevole e può andare incontro a depressione, con
difficoltà nella diagnosi differenziale. Nella seconda fase, successivamente, il calo della memoria è più evidente e si
aggiungono deficit dell’attenzione, della capacità critica e di giudizio. Il paziente s’isola con riduzione del rendimento
lavorativo e difficoltà nella vita familiare. Diventa apatico. Presenta incuria personale e disordini del linguaggio.
Agrafia, acalculia e difficoltà a orientarsi compaiono alla fine di questa fase. Nella terza fase, più avanzata, si hanno gravi
turbe della memoria a breve e lungo termine, incuria totale, agnosia per i volti (prosepoagnosia) anche dei più stretti
familiari. Vi può essere disfagia e difficoltà nel normale apporto di liquidi e nutrienti. Il paziente può apparire
completamente apatico oppure avere un affaccendamento inoperoso afinalistico. Si perde il controllo sfinterico. Se non
intervengono cause di morte, il paziente passa in una fase di crisi miocloniche, convulsioni, poi rigidità progressiva, fino
al quadro finale della tetraparesi in flessione. Il decesso avviene di solito per patologie intercorrenti (p.es. polmonite ab
ingestis).
La diagnosi è clinica e strumentale. L’EEG si presenta alterato per la presenza d’attività lenta, diffusa, con ritmo alfa a 4-
5 c/s, e con rallentamenti più evidenti, nelle fasi più avanzate di malattia. Nelle fasi terminali si ha anche attività delta, in
regione frontale. La TC evidenzia un ampliamento, piuttosto aspecifico, dei solchi corticali con dilatazione dei ventricoli
laterali. Analoghi risultati alla RM, che evidenzia anche atrofia dell’ippocampo.
SPECT e PET evidenziano alterazioni corticali di perfusione, in fase precoce, localizzate a livello temporo-parieto-
occipitale, specie a sinistra, sebbene una valutazione solo strumentale di questo tipo, da sola non sia probativa, ma solo
indicativa, in presenza di altri sintomi. Pur con l’introduzione di nuovi farmaci, che aumentano il tono colinergico
cerebrale, contrastando, almeno in parte, i sintomi prevalentemente dismnesici dell’AD, la terapia resta sostanzialmente
sintomatica ed ancora poco efficace nel contrastare l’evolutività della malattia.
Malattia di Pick
La malattia di Pick è relativamente rara, rappresentando circa 1% dei casi di demenza. Ha un esordio presenile. La
diagnosi differenziale con la DA è quasi impossibile, sulla sola base clinica. Rispetto alla DA si ha una maggior incidenza
di disturbi del comportamento e sintomi prefrontali, come perdita della critica, impulsività, moria. Possono essere
presenti sintomi come bulimia, ipersessualità, iperoralità, agnosia visiva, che sono presenti, ma meno frequenti, anche
nell’AD.
Dal punto di vista neuropatologico si osserva un’atrofia corticale marcata, spesso asimmetrica, dei lobi frontali e
temporali. Inoltre si trovano i corpi di Pick, una serie d’inclusioni argentofile, all’interno dei neuroni. Sono strutture
filamentose ad elica, identiche a quelle della degenerazione neurofibrillare. La malattia evolve verso la morte in 2-10
anni.
Malattia a corpi di Lewy
La demenza a corpi di Lewy si distingue in una forma “pura” e in una forma associata ad AD, ma la distinzione è
alquanto difficile, nella pratica clinica. I corpi di Lewy sono inclusioni intraneuronali, un tempo ritenuti caratteristici ed
esclusivi del Morbo di Parkinson (MP). Contengono determinanti antigenici dei neurofilamenti e ubiquitina. A differenza di
quanto avviene nel MP, in questa malattia, nella sua espressione “pura”, le localizzazioni delle suddette lesioni sono
diffuse a tutto l’encefalo, in assenza d’altre alterazioni, ma possono trovarsi a livello prevalentemente corticale nella
forma associata ad AD.
La malattia pura è, infatti, simile all’AD, con una maggiore incidenza di disturbi psicotici, deliri e allucinazioni. Si ha anche
una sindrome motoria simile al Parkinson ma senza tremori, che non risponde alla L-dopa. Nell’80% dei pazienti affetti
da Morbo di Parkinson sono presenti corpi di Lewy diffusi.
Demenze vascolari
Le Demenze Vascolari (DV) rappresentano circa il 15% di tutte le demenze. Condividono l’etiopatogenesi vascolare, non
necessariamente infartuale. Lesioni vascolari sono state evidenziate, con relativa frequenza, in pazienti affetti da AD.
Queste condizioni patologiche vengono definite, da alcuni Autori, Demenze Miste.
1. Patogenesi
Più che la quantità di tessuto cerebrale leso dagli eventi vascolari, sembra essere clinicamente rilevante la sede di tali
lesioni. Vi sono delle strutture neuro-anatomiche “strategiche”, la cui lesione può ingenerare più facilmente quadri
demenziali: il talamo e l’ippocampo. In alcuni casi il danno funzionale può essere maggiore del danno anatomico,
evidenziato con TC, ed è importante valutare il quadro dal punto di vista metabolico con la PET o la SPECT.
E’ stato ipotizzato che l’ischemia o l’ipoperfusione ematica cerebrale cronica possa aumentare la produzione della
proteina beta. In questa prospettiva, la frequente associazione fra la demenza infartuale e l’AD potrebbe non essere
casuale. Nella DV si repertano quadri neuropatologici diversi tra cui: 1.Infarti multipli; 2. Stato lacunare vascolare; 3.