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Le sindromi demenziali Vincenzo MANNA Medico, Psichiatra, Psicoterapeuta Direttore f.f. UOC SPDC DSM ASL ROMA 6 [email protected] cell. +39 333 36 25 218 L’aspettativa di vita nel corso dell’ultimo secolo è nettamente aumentata. Nelle società industriali d’occidente e in Italia, in particolare, essa è passata dai 40-50 anni degli inizi del ’900 agli oltre 75 anni attuali. Si è triplicato, nel corso dell’ultimo secolo, il numero di soggetti anziani, con più di 65 anni, limite convenzionale della senilità. Gli anziani, nel ’900 erano intorno al 4% della popolazione generale, oggi rappresentano oggi circa il 20% della popolazione o ccidentale e sono destinati ad aumentare nei prossimi anni. Secondo le proiezioni degli esperti, raggiungeranno, in Europa, il 30% nel 2020. Poiché l’età è considerata tra i principali fattori di rischio per la patologia demenziale, si può prevedere, per i l futuro, un aumento dell’incidenza e della prevalenza di questa patologia. L’invecchiamento cerebrale è un fenomeno estremamente complesso, nel quale interagiscono variamente molteplici fattori, endogeni ed esogeni. Pur non essendo corretto stabilire un’ equivalenza tra senilità e demenza, è noto che la maggior parte delle demenze si manifesta in età senile. Secondo le stime più attendibili, le sindromi demenziali colpiscono dal 5 al 15% dei soggetti con più di 65 anni d’età, oltre il 20% di quelli con più di 80 anni e più del 50% di quelli con età superiore ai 95 anni. In realtà, le sindromi demenziali si manifestano con incidenza esponenziale nelle varie fasce d’età, a partire dall’età puberale. I deficit intellettivi congeniti o insorti in età prepuberale, invece, vengono descritti come oligofrenia, come frenastenia, oppure come insufficienza mentale, congenita o/o acquisita. Negli ultimi 25-30 anni, quello delle demenze è diventato un problema non soltanto medico, ma anche, e soprattutto, sociale. La demenza non è una entità nosografica, propriamente detta, ma un aggregato sindromico, un gruppo di condizioni cliniche, caratterizzate da una sorta di progressiva perdita “a ritroso” delle acquisite competenze bio-psico-sociali dell’individuo, che può regredire sino a livelli di funzionamento quasi neonatale. Questo processo può essere considerato esclusivamente intrapsichico solo nella sua prima parte. Con il suo progredire, la sintomatologia demenziale si esprime in termini più propriamente neurologici ed internistici. Le demenze si collocano tra le poche condizioni psico-morbose nelle quali è compiutamente validato, in psichiatria, il concetto di “malattia”, cioè d’insieme di segni e sintomi con chiari correlati fisiopatologici cerebrali. Lo studio delle demenze permette il superamento del dualismo psiche/soma, dimostrando, inequivocabilmente, che il comportamento umano, normale o patologico, ha il suo substrato nell’attività cerebrale. Il termine “malattia mentale”, se implicitamente contrapposto a “malattia organica”, e, quindi, espressione del dualismo mente/corpo, è da considerarsi ormai anacronistico e riduttivo. La ricerca e la clinica, in psichiatria, tende da decenni al superamento del dualismo mente/corpo ed all’affermazione, invece, della loro indiscutibile unitarietà. L’integrazione della psichiatria e della neurologia può portare ad una migliore comprensione, ad una più accurata definizione diagnostica e ad un miglior trattamento, delle malattie mentali, non più fittiziamente distinte in “funzionali” ed “organiche”. In psichiatria, ma anche in ogni altra branca medica, resta, comunque, criticabile il limitare la terapia ad interventi puramente biologici. Se l’uomo è un’unità bio-psico-sociale, se la salute è benessere bio-psico-sociale, come sostiene l’Organizzazione Mondiale della Sanità, qualsiasi approccio terapeutico, a qualsiasi malattia, dovrebbe sempre essere integrato, con interventi non solo medico-biologici, ma anche di tipo psicoterapeutico e socio-riabilitativo. Le demenze, in quanto malattie acquisite del cervello, con chiari correlati sia neurobiologici sia psicopatologici, sono emblematiche di questo più corretto approccio integrato alla vita mentale, in termini non solo teorici e diagnostici, ma soprattutto clinici e terapeutici. Invecchiamento e demenza L’invecchiamento si accompagna a modificazioni caratteristiche nella fisiologia degli organismi viventi. I meccanismi molecolari dell’invecchiamento sono probabilmente modulati da fattori genetici, all’interno di un più vasto programma
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Le sindromi demenziali Vincenzo MANNA · fenomeni degenerativi. Le placche senili e le degenerazioni neurofibrillari, sono le due lesioni microscopiche, descritte da Alois Alzheimer,

Feb 25, 2019

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Page 1: Le sindromi demenziali Vincenzo MANNA · fenomeni degenerativi. Le placche senili e le degenerazioni neurofibrillari, sono le due lesioni microscopiche, descritte da Alois Alzheimer,

Le sindromi demenziali

Vincenzo MANNA Medico, Psichiatra, Psicoterapeuta Direttore f.f. UOC SPDC DSM ASL ROMA 6 [email protected] cell. +39 333 36 25 218

L’aspettativa di vita nel corso dell’ultimo secolo è nettamente aumentata. Nelle società industriali d’occidente e in Italia,

in particolare, essa è passata dai 40-50 anni degli inizi del ’900 agli oltre 75 anni attuali. Si è triplicato, nel corso

dell’ultimo secolo, il numero di soggetti anziani, con più di 65 anni, limite convenzionale della senilità. Gli anziani, nel

’900 erano intorno al 4% della popolazione generale, oggi rappresentano oggi circa il 20% della popolazione occidentale

e sono destinati ad aumentare nei prossimi anni. Secondo le proiezioni degli esperti, raggiungeranno, in Europa, il 30%

nel 2020. Poiché l’età è considerata tra i principali fattori di rischio per la patologia demenziale, si può prevedere, per i l

futuro, un aumento dell’incidenza e della prevalenza di questa patologia.

L’invecchiamento cerebrale è un fenomeno estremamente complesso, nel quale interagiscono variamente molteplici

fattori, endogeni ed esogeni. Pur non essendo corretto stabilire un’equivalenza tra senilità e demenza, è noto che la

maggior parte delle demenze si manifesta in età senile. Secondo le stime più attendibili, le sindromi demenziali

colpiscono dal 5 al 15% dei soggetti con più di 65 anni d’età, oltre il 20% di quelli con più di 80 anni e più del 50% di

quelli con età superiore ai 95 anni.

In realtà, le sindromi demenziali si manifestano con incidenza esponenziale nelle varie fasce d’età, a partire dall’età

puberale. I deficit intellettivi congeniti o insorti in età prepuberale, invece, vengono descritti come oligofrenia, come

frenastenia, oppure come insufficienza mentale, congenita o/o acquisita. Negli ultimi 25-30 anni, quello delle demenze è

diventato un problema non soltanto medico, ma anche, e soprattutto, sociale.

La demenza non è una entità nosografica, propriamente detta, ma un aggregato sindromico, un gruppo di condizioni

cliniche, caratterizzate da una sorta di progressiva perdita “a ritroso” delle acquisite competenze bio-psico-sociali

dell’individuo, che può regredire sino a livelli di funzionamento quasi neonatale. Questo processo può essere considerato

esclusivamente intrapsichico solo nella sua prima parte. Con il suo progredire, la sintomatologia demenziale si esprime

in termini più propriamente neurologici ed internistici.

Le demenze si collocano tra le poche condizioni psico-morbose nelle quali è compiutamente validato, in psichiatria, il

concetto di “malattia”, cioè d’insieme di segni e sintomi con chiari correlati fisiopatologici cerebrali. Lo studio delle

demenze permette il superamento del dualismo psiche/soma, dimostrando, inequivocabilmente, che il comportamento

umano, normale o patologico, ha il suo substrato nell’attività cerebrale. Il termine “malattia mentale”, se implicitamente

contrapposto a “malattia organica”, e, quindi, espressione del dualismo mente/corpo, è da considerarsi ormai

anacronistico e riduttivo.

La ricerca e la clinica, in psichiatria, tende da decenni al superamento del dualismo mente/corpo ed all’affermazione,

invece, della loro indiscutibile unitarietà. L’integrazione della psichiatria e della neurologia può portare ad una migliore

comprensione, ad una più accurata definizione diagnostica e ad un miglior trattamento, delle malattie mentali, non più

fittiziamente distinte in “funzionali” ed “organiche”.

In psichiatria, ma anche in ogni altra branca medica, resta, comunque, criticabile il limitare la terapia ad interventi

puramente biologici. Se l’uomo è un’unità bio-psico-sociale, se la salute è benessere bio-psico-sociale, come sostiene

l’Organizzazione Mondiale della Sanità, qualsiasi approccio terapeutico, a qualsiasi malattia, dovrebbe sempre essere

integrato, con interventi non solo medico-biologici, ma anche di tipo psicoterapeutico e socio-riabilitativo. Le demenze, in

quanto malattie acquisite del cervello, con chiari correlati sia neurobiologici sia psicopatologici, sono emblematiche di

questo più corretto approccio integrato alla vita mentale, in termini non solo teorici e diagnostici, ma soprattutto clinici e

terapeutici.

Invecchiamento e demenza

L’invecchiamento si accompagna a modificazioni caratteristiche nella fisiologia degli organismi viventi. I meccanismi

molecolari dell’invecchiamento sono probabilmente modulati da fattori genetici, all’interno di un più vasto programma

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evolutivo. Allo stesso modo in cui alcuni geni selezionano le varie fasi dello sviluppo, altri sembrano programmare i

processi d’involuzione della cellula, sino alla sua morte.

L’età cronologica di un individuo non corrisponde necessariamente alla sua età biologica e non è possibile individuare

un’età precisa, che faccia da discrimine fra l’età matura e la senescenza. L’invecchiamento è un fenomeno rilevante sul

piano psico-socio-relazionale. Esso si associa, spesso, ad impoverimento economico, solitudine, progressiva perdita dei

ruoli sociali e familiari, oltre che alla consapevolezza dell’inevitabile e progressiva riduzione delle aspettative di vita. Con

l’invecchiamento, il cervello va incontro a modificazioni anatomo-funzionali anche rilevanti, non molto dissimili sul piano

qualitativo, ma non quantitativo, da quelle che si osservano nella demenza d’Alzheimer (AD).

Il peso ed il volume cerebrale si riducono con l’invecchiamento. Il peso si riduce a partire dai 55 anni e verso gli 80 anni

la riduzione di volume è dell’ordine del 10-15%. Il sistema ventricolare si dilata. I solchi corticali si allargano e si

approfondiscono. Le circonvoluzioni cerebrali, soprattutto a livello frontale e temporale, si assottigliano. Il cervello va

incontro a fenomeni complessivi d’atrofia, che interessa prima la sostanza grigia, poi anche quella bianca. La dilatazione

ventricolare e l’allargamento dei solchi sembrano correlati più con l’età che con il decadimento mentale.

La perdita neuronale tipica della senescenza cerebrale è di circa il 10-20%, verso gli 80 anni, per raggiungere il 40%

verso i 90 anni. Essa interessa, in varia misura, le diverse aree cerebrali, in particolare la corteccia frontale e temporale,

interessando prevalentemente i neuroni più piccoli. Nella demenza d’Alzheimer, invece, la perdita neuronale è d’entità

maggiore e riguarda, soprattutto, i neuroni più grandi. Nell’AD si ha, inoltre, riduzione dell’arborizzazione dendritica con

fenomeni degenerativi.

Le placche senili e le degenerazioni neurofibrillari, sono le due lesioni microscopiche, descritte da Alois Alzheimer, che

caratterizzano la malattia che da lui prende l’eponimo. Tali degenerazioni si possono evidenziare anche nell’involuzione

senile fisiologica, ma con minor numero di placche e degenerazione neurofibrillare, solitamente, circoscritta al solo

ippocampo. Altri aspetti neurodegenerativi, correlati all’età, sono: 1. la degenerazione granulo-ventricolare; 2. i corpi di

Hirano; 3. i corpi di Lewy. Queste lesioni sono presenti nel cervello, già a partire dai 20-30 anni. Esse aumentano di

numero, con il passare degli anni.

A parità d’età, sono nettamente più numerose nei soggetti affetti da AD. In varie regioni del cervello si evidenziano,

inoltre, con l’avanzare dell’età: 1. aumento e ipertrofia delle cellule neurogliali; 2. riduzione del liquido extracellulare; 3.

disfunzioni neuroenergetiche neuronali e metaboliche; 4. alterazione della permeabilità della barriera ematoencefalica.

Nella senescenza si evidenzia, inoltre, un aumento del contenuto in gliofibrille negli astrociti, a livello dello strato

molecolare della corteccia (gliosi marginale di Chardin).

Nella demenza d’Alzheimer tale aspetto neurodegenerativo è diffuso anche agli altri strati corticali. Il circolo cerebrale, in

senescenza, subisce delle alterazioni caratterizzate da spiralizzazione e tortuosità vasale, con allungamento delle arterie

perforanti, con irregolarità del calibro delle arteriole intracerebrali e ridotta vascolarizzazione degli strati più profondi della

corteccia cerebrale.

I principali livelli neurotrasmettitoriali risultano ridotti negli anziani, rispetto ai soggetti più giovani. Paradossalmente,

almeno in alcuni casi, la senescenza fisiologica si accompagna a riduzioni dei diversi toni neurotrasmettitoriali, più

accentuati rispetto a quelli presenti nei soggetti con AD. Il sistema colinergico, funzionalmente implicato nel controllo

dell’apprendimento, della memoria, della cognitività e di alcuni aspetti del comportamento, risulta essere deficitario

durante l’invecchiamento cerebrale.

La colin-acetil-transferasi (ChAT) e l’acetil-colin-esterasi (AchE), enzimi responsabili della sintesi e del catabolismo

dell’acetilcolina (Ach), si riducono progressivamente con l’avanzare dell’età. Nell’AD la riduzione dell’attività colinergica è

collegata alla degenerazione neuronale del nucleo basale di Meynert, da cui partono i due principali sistemi colinergici

cerebrali. Nell’invecchiamento fisiologico, la compromissione del tono colinergico cerebrale risulta essere preva lente a

livello corticale.

Il sistema dopaminergico presenta, nella senescenza, una perdita neuronale età-dipendente, con conseguente riduzione

dell’attività pre e post-sinaptica e con deficit degli enzimi implicati nella sintesi della dopamina (DA). Il deficit

dopaminergico induce, nell’anziano, alterazioni tipiche del tono muscolare e della postura, in rapporto a deficit funzionali

localizzati a livello del nucleo striato, dell’ippocampo, del nucleo accumbens e della sostanza nera. Nei gangli della base

e nel liquor dei pazienti con AD, ma non in quelli con demenza vascolare o nei controlli sani, l’acido omovanillico (HVA),

il principale metabolita della DA, risulta ridotto, in misura proporzionale alla gravità del quadro demenziale.

La noradrenalina (NA) regola l’umore, l’attenzione ed il ritmo sonno-veglia. Facilita il consolidamento delle tracce

mnesiche. Condivide con la DA gli enzimi di sintesi e di catabolismo. La NA presenta, con l’invecchiamento, una

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riduzione che è più marcata nelle aree ipotalamiche. Il metabolita finale della NA (3-metossi-4-idrossi-fenil-glicole =

MHPG) risulta aumentato nei pazienti con AD, rispetto ai controlli di pari età.

Con l’invecchiamento non sembra ridursi, nel cervello, il contenuto di serotonina (5HT). Ciò induce uno sbilanciamento

del rapporto 5HT / catecolamine, tuttavia il metabolita della 5HT (acido 5-idrossi-indol-acetico = 5HIAA) risulta ridotto nel

liquor, dei pazienti con AD, rispetto a soggetti di pari età.

Il livello cerebrale delle monoaminossidasi (MAO), che intervengono nel catabolismo delle catecolamine (MAO-b) e della

5HT (MAO-a), in particolare delle MAO-b, aumenta con l’età.

Le concentrazioni d’acido gamma-amino-butirrico (GABA) e di glutammico-decarbossilasi, l’enzima responsabile della

sua sintesi, nell’invecchiamento fisiologico e, in misura nettamente maggiore, in quello patologico, si riducono,

soprattutto a livello talamico, con perdita delle capacità d’integrazione delle informazioni e di controllo inibitorio dei

comportamenti involontari e stereotipati.

Con l’avanzare dell’età si assiste ad un progressivo e generale deterioramento delle funzioni neurofisiologiche e

neuropsicologiche. I tempi di reazione si prolungano. Le capacità percettive, nei confronti degli stimoli sensoriali, si

riducono.

Le velocità di conduzione delle fibre nervose subisce una graduale diminuzione, con una sorta di “ritardo sinaptico” di

trasduzione dell’informazione sensoriale e motoria, a livello periferico e centrale. I potenziali evocati subiscono un

aumento delle latenze e una riduzione dell’ampiezza. Le modificazioni neurofisiologiche dell’invecchiamento si

accompagnano a modificazioni neuropsicologiche, di cui sono spesso causa. La rapidità d’esecuzione motoria di molte

attività tende a ridursi.

La capacità d’apprendimento di nuove conoscenze e di nuove abilità manuali diminuisce. Negli anziani è ridotta

l’attenzione e la capacità d’esecuzione di compiti nuovi e complessi. Talora si conservano gli interessi, ma si perde la

capacità di soddisfarli. Le capacità di far fronte, adeguatamente, a situazioni inusuali diminuisce e declina la creatività. Si

riduce la capacità di fissazione di nuovi engrammi mnesici. La memoria a breve termine si riduce, prima e più

rapidamente, della memoria a lungo termine.

Si perde progressivamente, con l’età, la capacità di rievocare contenuti mnesici scarsamente utilizzati, ma restano a

lungo conservate le memorie operative, correlate alle capacità prestazionali del soggetto, nelle sue attività professionali

e quotidiane. Si ha sempre minore capacità di prestare attenzione a più fonti d’informazione, contemporaneamente

attive. L’anziano tende, così, a sottrarsi all’effetto disturbante e distraente d’altre fonti.

Ciò induce sia una ridotta capacità d’analisi degli stimoli sia una memorizzazione lacunosa ed imprecisa. Le attività

mentali tendono al restringimento, alla cristallizzazione ed alla stereotipia del pensiero. L’esperienza viene letta ed

interpretata in senso sempre più generale, secondo categorizzazioni sempre più rigide, che sfociano talora nel

dogmatismo. Quanto deleteria può essere ogni forma di gerontocrazia è facile estrapolare. I tratti caratteriali e

comportamentali degli individui tendono ad esasperarsi, fino a livelli patologici. Il parsimonioso diventa avaro. Il soggetto

deciso diviene testardo.

L’insicuro diviene ansioso e timoroso. Il possessivo diventa francamente geloso. D’altro canto, gli anziani, nella nostra

società, presentano notevoli difficoltà nel trovare ruoli, che li gratifichino. La voglia di socializzare, il bisogno di una vita

affettiva e sessuale degli anziani vengono, spesso, negati, derisi e/o condannati dalla nostra società, per assurdi

preconcetti. In realtà la senescenza patologica può indurre un indebolimento delle capacità di critica e di giudizio, con

perdita del controllo sulla vita istintuale e pulsionale.

In questi casi, possono verificarsi comportamenti abnormi, non solo sul piano sessuale. L’equilibrio psico-emotivo

nell’anziano è più fragile. Traumi e stress, che in altri epoche di vita non avrebbero provocato effetti negativi di rilievo,

possono avere conseguenze gravi, facilitando la regressione verso livelli di funzionamento mentale più primitivi.

Nell’esperienza clinica, a volte, piccoli cambiamenti del ruolo familiare o sociale, delle condizioni economiche,

dell’abitazione (talora anche della stanza nella stessa casa), possono indurre uno scompenso, in rapporto alla scarse

capacità di adattamento dell’anziano.

Traumi, disturbi somatici ed eventi psicosociali avversi possono svolgere il ruolo di fattori di scatenamento, della

sintomatologia demenziale, sino a quel momento, clinicamente latente. Nell’insorgenza della demenza di Alzheimer si

evidenziano, più che nella demenza vascolare, condizioni psicosociali critiche quali: 1. vedovanza (86% vs 28%); 2.

condizioni economiche precarie (79% vs 32%); 3. deficit di integrazione sociale (85% vs 23%). Gli eventi bio-psico-

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sociali stressanti, potendo precipitare una demenza latente, vanno opportunamente contenuti, in un’ottica di prevenzione

della patologia.

Aspetti epidemiologici delle sindromi demenziali

I dati epidemiologici relativi alle demenze soffrono di molteplici limiti. La quasi totalità degli studi riguarda le demenze

insorte nella senilità. Ben poche sono le informazioni epidemiologiche relative alle demenze, che insorgono in età più

giovanile, sicuramente in aumento, in seguito alla comparsa, relativamente recente, del cosiddetto AIDS-Dementia

Complex.

Manca un’unitarietà terminologica e diagnostica, condivisa a livello internazionale. Basti pensare che, ancora oggi, non

tutti accettano l’idea di considerare unitariamente la “malattia di Alzheimer”, cioè la forma presenile della malattia, e la

“demenza senile di tipo Alzheimer”, che, già nel 1909, Kraepelin sosteneva essere identiche, sul piano anatomo-

patologico. Inoltre, la gravità della demenza si colloca lungo un continuum e mancano criteri univoci in base ai quali

considerare i singoli pazienti sani oppure affetti da una forma più o meno grave della malattia.

Gli studi, presenti in letteratura scientifica, utilizzano differenti criteri di inclusione, che influiscono sensibilmente sui

risultati. Le prestazioni cognitive, inoltre, cambiano in base al livello socio-culturale del soggetto e, più in generale, in

rapporto alla varietà ed intensità degli stimoli, presenti nell’ambiente, nel quale egli vive.

Secondo alcune indagini epidemiologiche i quadri demenziali conclamati, cioè giunti all’osservazione del medico,

colpiscono il 2,3% dei soggetti fra i 65 ed i 69 anni, passano al 2,8% nell’intervallo 70-74 anni, ed al 5,5% nell’intervallo

75-80 anni d’età, per raggiungere il 22% oltre gli 80 anni. In pratica, quindi, un ultraottantenne su cinque sarebbe

demente. In media, perciò, i dementi conclamati rappresenterebbero il 6% degli ultrasessantacinquenni, con variabilità

dal 5 al 15%, nei diversi studi. Se alle demenze conclamate si aggiungono anche quelle subcliniche e/o latenti, cioè

quelle per cui non è stato richiesto un intervento socio-sanitario, si raggiungono valori di prevalenza percentuale molto

più elevati.

L’esordio subdolo, di molte forme demenziali, rende difficile stabilire, con precisione, l’inizio della malattia. Non

meraviglia che gli studi sul tasso d’incidenza delle demenze siano pochi. È stato, comunque, calcolato un tasso di 2,4

nuovi casi l’anno ogni 100.000 persone d’età compresa fra 40 e 60 anni e 127 ogni 100.000 persone d’età superiore a 60

anni. Per i soggetti d’età superiore a 65 anni, è stata calcolata un’incidenza di 1,5-5 nuovi casi l’anno ogni 1.000 soggetti.

I dati disponibili indicano che le demenze senili rappresentano oltre l’85% di tutte le demenze.

È generalmente accettato che le demenze dell’età senile siano rappresentate per il 55% da AD, per il 20% da demenza

vascolare (DV), per il 20% da forme miste (AD/DV) e per il restante 5% da forme ad eziologia diversa. Diverse

osservazioni cliniche hanno confermato l’esistenza di un alto grado di comorbidità tra diverse forme di demenza

degenerativa e di queste con le demenze vascolari.

La sindrome demenziale nel suo complesso sembra essere più frequente nella popolazione femminile, forse, in rapporto

anche alla larga preponderanza di donne anziane, nella popolazione generale. E’ stata evidenziata, in realtà, una

maggiore prevalenza della DV nel sesso maschile, mentre i dati di prevalenza nel sesso femminile dell’AD sono tuttora

controversi. Diversi fattori socio-ambientali, come il livello socioeconomico, l’ambiente di vita (città/campagna), l’attività

lavorativa, non risultano indurre un diverso rischio per la demenza, ma incidono sui livelli cognitivi appresi, raggiunti e

residui.

La forma presenile della AD ha un’età media di insorgenza intorno ai 60 anni, con un’aspettativa di vita che si riduce da

23 a 7 anni. La forma senile di AD presenta un’età di esordio intorno ai 74 anni e l’aspettativa di vita si riduce da oltre 9

anni a 5. La demenza vascolare ha un’età media d’esordio di circa 67 anni, con un’aspettativa di vita che scende da 14 a

meno di 4 anni.

La sopravvivenza, dopo la diagnosi d’AD, è più lunga nelle donne. Ciò potrebbe dipendere dalle diverse abitudini

dietetiche e voluttuarie, nonché dai diversi contesti di vita e di lavoro, che rendono potenzialmente più precarie le

condizioni fisiche generali degli uomini. Le demenze senili, negli USA, sono al quinto posto tra le cause postnatali di

morte e salgono addirittura al quarto, se si esclude la mortalità giovanile per cause traumatiche.

Quadro sindromico

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La patologia demenziale si esprime clinicamente come compromissione globale delle funzioni cognitive (memoria,

orientamento, linguaggio, prassie, gnosie, astrazione), come declino delle capacità intellettive ed attentive, con

conseguente compromissione della vita di relazione e della capacità d’adattamento, alle molteplici e mutevoli esigenze

della vita quotidiana.

Sulla base del decorso clinico e, soprattutto, in rapporto alla patologia cerebrale, di cui è espressione clinica, la sindrome

demenziale può essere descritta come:

1.acuta, subacuta o cronica;

2.regolarmente progressiva, irregolarmente progressiva o non progressiva;

3.reversibile, parzialmente reversibile o irreversibile.

Le sindromi demenziali includono numerosi disturbi ad eziopatogenesi eterogenea, che presentano un quadro clinico

caratterizzato da tre elementi fondamentali. Il deficit delle funzioni intellettive ed attentive è caratterizzato dal passaggio

da un certo livello di performance, precedentemente raggiunto, a livelli più bassi (al contrario di quanto si osserva nelle

insufficienze mentali, nelle quali il deficit è presente fin dall’età infantile).

La compromissione complessiva delle funzioni cognitive coinvolge la memoria e l’orientamento, le capacità fasiche,

prassiche e gnosiche, nonché la possibilità di pensiero astratto. Ciò distingue le demenze da altri disturbi

neuropsicologici, con compromissione isolata di singole funzioni, come i disturbi afasici, nei quali è compromesso solo il

linguaggio, o la sindrome di Wernicke - Korsakoff, in cui è alterata, soprattutto, la memoria.

L’assenza di disturbi del livello di coscienza, nonostante la compromissione cognitiva, distingue le demenze da altre

patologie neurologiche, quali delirium e coma, in cui l’alterazione delle funzioni mnesiche, cognitive ed intellettive è

secondaria al disturbo di coscienza.

I criteri diagnostici delle sindromi demenziali sono sostanzialmente sovrapponibili nei due principali sistemi diagnostico-

classificatori (ICD-X dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed il DSM-IV TR dell’American Psychiatric Association).

In particolare, l’ICD-X, a differenza del DSM IV TR: 1. indica come parte integrante del quadro clinico e dei suoi prodromi

la compromissione del controllo emotivo, del comportamento o delle motivazioni; 2. non considera tra i criteri diagnostici

la compromissione delle capacità socio-lavorative, perché legate al contesto socioculturale; 3. richiede una durata dei

sintomi di almeno 6 mesi per poter porre la diagnosi.

L’approccio diagnostico multiassiale, proposto dal DSM-IV TR, orienta il clinico a prendere in considerazione,

globalmente, la realtà bio-psico-sociale del demente, consentendo una visione della patologia, nelle sue diverse

implicazioni. È inaccettabile oggi, infatti, che una generica diagnosi di “demenza” sia posta senza che siano state

espletate tutte le indagini diagnostiche opportune, al fine di escludere i quadri demenziali potenzialmente reversibili o,

comunque, arrestabili.

E’ inaccettabile che la prognosi sia formulata sulla base della sola diagnosi clinica, senza che siano state valutate tutte le

variabili psicosociali e/o le condizioni generali del soggetto. La gestione di un paziente demente è estremamente

onerosa, necessitando spesso, in fase di invalidità avanzata, di una assistenza continuativa, talora per 24 ore al giorno.

Non è raro che il miglioramento clinico, di alcuni sintomi disturbanti, come l’inversione del ritmo sonno-veglia, l’agitazione

e/o i disturbi ideativi e percettivi (nei quadri più gravi non sono infrequenti le allucinazioni complesse ed i deliri bizzarri),

nonché la gestione di altri aspetti rilevanti sul piano clinico, quali i disturbi dell’alimentazione o del controllo sfinterico,

possano fortemente migliorare la qualità della vita del paziente e dei suoi care givers.

Secondo la definizione proposta dal Committee of Geriatrics del Royal College of Physicians (1981) «la demenza

consiste in una compromissione globale delle funzioni corticali superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far

fronte alle richieste della vita quotidiana e di svolgere le prestazioni percettivo-motorie, già acquisite in precedenza, di

conservare un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive; tutto ciò in

assenza di compromissione dello stato di vigilanza».

Questa definizione commisura l’importanza e l’entità del decadimento demenziale al tipo di richieste dell’ambiente socio-

relazionale, nel quale l’individuo vive la sua quotidianità. La diagnosi, come sempre in clinica, deve privilegiare, perciò,

l’anamnesi e l’osservazione del paziente, nel suo ambiente relazionale. Il quadro clinico delle sindromi demenziali è

complesso e mutevole, lungo il decorso della malattia, in rapporto al diverso manifestarsi, per tipo e gravità, dei sintomi

deficitari cognitivi e delle risposte d’adattamento psico-emotive, che ne conseguono.

Il paziente con progressivo decadimento mentale demenziale può mantenere a lungo una certa competenza cognitiva,

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tale da consentirgli, sia pure in modo progressivamente decrescente, di conservare per lungo tempo consapevolezza

della propria identità, un sufficiente controllo delle proprie azioni, e, talora, qualche capacità di svolgere attività routinarie,

in relativa autonomia. Vengono perse prima le competenze apprese più tardivamente e meno utilizzate nel corso della

vita, anche se il progredire della malattia, nel tempo, può rendere sempre più problematica la possibilità di svolgere, in

modo autonomo, anche le più semplici attività della vita quotidiana.

La sintomatologia demenziale può dipendere da differenti condizioni patologiche, con danni cerebrali più o meno diretti,

più o meno reversibili, più o meno estesi, diversamente localizzati. L’evoluzione clinica e la prognosi, di ogni singolo

quadro clinico, dipende, però, non solo alla natura della sottostante patologia cerebrale, ma anche alle diverse condizioni

premorbose ed al contesto ambientale psico-socio-relazionale.

E’ ovviamente necessario identificare il processo patologico, sottostante al quadro demenziale, attraverso lo studio

dell’evoluzione della sintomatologia, l’obiettivazione di segni e sintomi neurologici, eventualmente presenti, nonché

mediante opportune indagini di laboratorio, neuropsicologiche, elettrofisiologiche e di brain imaging. Particolare

attenzione va posta all’andamento nel tempo della sintomatologia demenziale, che può fornire importanti indizi circa

l’etio-patogenesi del quadro demenziale.

Un andamento regolarmente progressivo è, infatti, indicativo di un’eziologia atrofico-degenerativa, mentre un andamento

irregolare, a scalini, con peggioramenti improvvisi e/o fluttuanti, è più caratteristico delle forme vascolari.

Inquadramento diagnostico delle sindromi demenziali

Nella pratica clinica il termine “demenza” assume significati diversi e viene utilizzato indistintamente per indicare una

sindrome caratterizzata da deterioramento mentale, una condizione morbosa specifica o ancora una perdita più o meno

completa delle abilità cognitive. Le demenze rappresentano una descrizione sindromica, non una malattia, caratterizzata

dalla compromissione di più funzioni cognitive, in assenza di un disturbo dello stato di coscienza. Il deficit cognitivo

richiede l’evidenza, nel paziente, di una regressione, rispetto alle abilità precedentemente sviluppate, con un’entità tale

da interferire sulle attività lavorative e/o sociali, nonché sulla quotidianità.

Gli elementi fondamentali del processo diagnostico sono: 1. l’identificazione della sindrome; 2. la verifica delle sue

cause. Una diagnosi di demenza richiede in primo luogo l’esclusione di una condizione di ritardo mentale e di delirium. Il

concetto di demenza, come sindrome, presuppone etiologie multiple, a diversa espressione ed evolutività clinica. Sono

state identificate oltre settanta diverse condizioni patologiche, che possono essere causare demenza. La maggior parte

dei quadri demenziali è, di fatto, irreversibile e cronica.

Le demenze, però, non necessariamente presentano una tale negativa evolutività. Il decorso e la prognosi della

demenza dipendono, infatti, dalla natura della patologia, cerebrale o extracerebrale, etiopatogeneticamente responsabile

del quadro sindromico demenziale. Se tale patologia è reversibile, se, la diagnosi è precoce e se l’intervento terapeutico

è tempestivo, l’evoluzione e la prognosi della demenza possono essere più favorevoli o meno severe.

In tabella 1, sono elencate le patologie, per le quali è stata individuata una possibile correlazione etiologica, con la

demenza. Per motivi di spazio si rimanda ad altri trattati, per una descrizione dettagliata, di ognuna delle numerose e

diverse patologie elencate.

Tabella 1 - Classificazione etiopatogenetica delle demenze

Demenze Primarie o Degenerative

- Demenza Degenerativa Primaria Tipo Alzheimer o malattia d’Alzheimer (AD)

- Malattia di Pick

- Malattia a corpi di Lewy

- Corea di Huntington

- Malattia di Parkinson

- Paralisi sopranucleare progressiva

- Malattia di Hallervorden-Spatz

- Degenerazione spinocerebellare

- Epilessia mioclonica progressiva

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Demenze Secondarie

Demenze vascolari

1. Demenza multi-infartuale

2. Malattia di Binswanger

3. Infarti cerebrali di grosse dimensioni in sedi strategiche

4. Malformazioni artero-venose

5. Vasculiti (panarterite, lupus sistemico)

Demenze tossiche

1. Atrofia cerebrale alcolica

2. Intossicazione cronica da farmaci

3. Metalli pesanti: piombo, mercurio, manganese

4. Composti organici (nitrobenzeni, organofosforici)

Demenze endocrino-metaboliche

1. Ipotiroidismo

2. Ripetuti episodi d’ipoglicemia

3. Deficienza di vitamina B12, acido folico

4. Encefalopatia post-anossica

5. Epatite cronica o encefalopatia da shunt porto-sistemico

6. Encefalopatie mitocondriali (malattia di Wilson)

7. Uremia

8. Effetti non metastatici del carcinoma (sindrome paraneoplastica)

9. Alterazione delle paratiroidi

10. Leucodistrofie

11. Sindrome di Cushing

12. Malattie lisosomiali

Demenze meccaniche

1. Demenza post-traumatica

2. Idrocefalo: ostruzione, infezione subaracnoidea, emorragia

3. Idrocefalo normoteso

4. Ematoma subdurale cronico

Demenze infettivo-infiammatorie

1. Paralisi progressiva (neurolue)

2. Meningiti croniche (tubercolare, micotica)

3. Encefalopatia da AIDS (AIDS Dementia Complex)

4. Sclerosi multipla

5. Malattia di Creutzfeldt-Jakob (ed altre affezioni da virus lenti)

6. Ascessi cerebrali

7. Encefaliti

8. Leucoencefalopatia multifocale progressiva

9. Panencefalite sclerosante subacuta

10. Kuru

Demenze neoplastiche

1. Meningioma

2. Glioma

3. Tumori ipofisari

4. Tumori metastatici

Altre demenze

1. Distrofia muscolare

2. Malattia di Whipple

3. Calcificazione familiare dei nuclei della base.

Semeiotica clinica - Le sindromi demenziali

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Considerata l’eterogeneità etiopatogenetica delle demenze e la conseguente variabilità di decorso e di esito, per dare un

senso clinico, diagnostico e terapeutico a quest’eterogeneità, è necessario raccogliere, quanto più ampliamente

possibile, i segni ed i sintomi della malattia, così come tutte le informazioni anamnestiche e strumentali ottenibili, in modo

da poter disporre di tutto ciò che può consentire di giungere ad una diagnosi etiopatogenetica, eventualmente, di mettere

in atto con tempestività i provvedimenti terapeutico-riabilitativi più efficaci.

Una diagnosi etiopatogenetica prevede un iter diagnostico, con una serie d’indagini e d’approfondimenti, che vanno

dall’indagine anamnestica all’esame obiettivo e dalle indagini strumentali all’inquadramento neuropsicologico. Una

diagnosi accurata e tempestiva permette una corretta gestione clinica tanto delle demenze secondarie, talora reversibili,

quanto l’attuazione di tutti quegli interventi terapeutico-riabilitativi necessari per garantire al paziente, con demenza

primaria, il più alto livello possibile di qualità della vita.

1. Esame clinico

Raccogliere l’anamnesi direttamente dal paziente è spesso difficile, se non impossibile. E’ necessario, perciò, intervistare

accuratamente i familiari ed i conoscenti, per ottenere informazioni attendibili e significative. Va indagata accuratamente

l’anamnesi familiare al fine di evidenziare, nel gentilizio, disturbi psichiatrici, neurologici e/o somatici, che possano

essere, in qualche misura, correlati, direttamente o indirettamente, con la patologia demenziale. L’anamnesi fisiologica

consente di escludere insufficienze mentali, congenite o acquisite o ritardi dello sviluppo psicomotorio, oppure di

valutarne l’effettiva entità, rispetto alla patologia attuale.

E’ importante raccogliere informazioni circa il livello di scolarità, il curriculum studiorum, la formazione lavorativa e la

storia occupazionale, nonché le abitudini dietetiche e voluttuarie. L’anamnesi patologica remota potrà fornire informazioni

su malattie neurologiche, psichiatriche o somatiche, traumi cranici ed altre condizioni morbose, che, in qualche modo,

possono aiutare ad un migliore inquadramento della patologia demenziale in atto. Particolare attenzione deve essere

posta alla patologia endocrina e neurologica, ma anche all’esposizione ad agenti neurotossici. Informazioni di particolare

rilievo clinico derivano dall’anamnesi patologica prossima.

Va indagato, accuratamente, l’esordio del quadro clinico e la sua evoluzione. E’ importante rilevare l’eventuale

manifestarsi, in coincidenza con l’esordio della demenza, di segni e sintomi neurologici. È necessario, inoltre, acquisire

un quadro, il più possibile esauriente, della personalità premorbosa, dello stile comportamentale del soggetto, del livello

di adattamento sociale, del livello di integrazione sociale, poiché le prime ipotesi diagnostiche possono essere formulate

in base alle modificazioni del comportamento, in ambito familiare, lavorativo e sociale, nonché in base a significative

variazioni dei tratti di personalità.

Si dovrà indagare come e in quale misura sono cambiati interessi e abitudini, il tipo e l’entità del deficit mnesico, attentivo

ed intellettivo, del linguaggio, delle gnosie, delle prassie, l’eventuale presenza di disorientamento temporo-spaziale e/o

d’episodi confusionali, con o senza agitazione psicomotoria, la comparsa d’alterazioni dell’alimentazione, del ritmo

sonno/veglia, della sessualità e dell’igiene personale.

A questo scopo, può essere utile l’impiego di strumenti standardizzati di valutazione, che possono fornire una guida per

un’indagine più completa. Importante è il colloquio con il paziente, dal quale un clinico esperto può trarre numerose e

preziose informazioni, su tutti gli aspetti neurocognitivi e psicopatologici essenziali. Il colloquio può consentire anche di

valutare le capacità di giudizio, di ragionamento e d’astrazione del soggetto.

Quando il paziente giunge all’osservazione, nelle fasi iniziali della malattia, l’inquadramento diagnostico può rivelarsi

difficile ed è allora opportuno far ricorso alla valutazione neuropsicologica, che consente, mediante l’impiego di strumenti

standardizzati di rilevazione, di evidenziare deficit mnesico-cognitivi più fini.

2. Esame obiettivo generale e neurologico

Con l’esame obiettivo generale si verificano le condizioni generali del soggetto, nel tentativo di evidenziare eventuali

segni e/o sintomi di malattie sistemiche, che possano essere in qualche maniera correlate, in senso etiopatogenetico, al

quadro demenziale. Non entreremo nel dettaglio dell’esame obiettivo generale e neurologico per brevità.

L’esame neurologico può evidenziare segni e sintomi di una patologia cerebrale potenzialmente dementigena, anche

nelle fasi precoci del disturbo, fornendo informazioni essenziali sul piano diagnostico, prognostico e terapeutico. Nelle

fasi più avanzate dell’AD, sono normalmente evidenziabili segni neurologici di “liberazione”, per danno delle strutture

corticali di controllo inibitorio, cioè automatismi motori arcaici sottocorticali, presenti nel bambino, prima del

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completamento della mielinizzazione cerebrale, come il riflesso palmo-mentoniero, il riflesso glabellare, il riflesso del

muso di Epstein, il riflesso di suzione, il grasping reflex. Segni neurologici sono anche i disturbi che riguardano la

mimica, l’atteggiamento, la postura, l’andatura, la presenza d’eventuali movimenti involontari, come quelli di suzione o di

masticazione, nonché stereotipie, ecc.

La valutazione del tono muscolare può evidenziare ipertonie extrapiramidali e/o oppositive, non di rado deficit della

coordinazione motoria, nonché segni d’eventuali disprassie, quando il paziente è incapace di eseguire la sequenza

motoria, che gli è descritta e mostrata.

3. Valutazione neuropsicologica

La valutazione neuropsicologica è indispensabile, per ottenere una determinazione obiettiva delle risorse cognitive

residue, in funzione dell’impostazione d’interventi terapeutico-riabilitativi più mirati e, quindi, potenzialmente più efficaci.

Numerosi sono gli strumenti d’indagine volti alla valutazione delle funzioni cognitive e della gravità della demenza, tra gli

strumenti più semplici e più diffusi, ricordiamo il Mini Mental State (MMSE), l’Alzheimer’s Disease Assessment Scale

(ADAS) e lo Short Portable Mental Status Questionnarie (SPMSQ).

Particolarmente importanti, nella diagnosi differenziale tra modificazioni cognitive senili e demenziali, sono i test

neuropsicologici, propriamente detti. L’accertamento del deterioramento demenziale dovrebbe prevedere test esploranti

la memoria, le funzioni strumentali e quelle di controllo. In ogni caso è necessario che i test somministrati siano tarati,

per definire un’eventuale compromissione di performance, alla prova specifica. Per poter seguire nel tempo l’evoluzione

del quadro clinico dei soggetti, con diagnosi accertata di deterioramento demenziale, sono utili le scale di valutazione

della gravità e del comportamento, fra cui le più diffuse sono la Clinical Dementia Rating (CDR) e la Global Deterioration

Scale (GDS).

Le scale di valutazione comportamentale esplorano diverse aree della vita quotidiana del paziente e sono usate per

evidenziare i problemi, che il paziente incontra nello svolgimento delle attività quotidiane. Una delle più diffuse è la

Dementia Scale (DS). Altre scale di valutazione comportamentale sono: il Neuropsychiatric Inventory (NPI), la

Behavioural Pathology in Alzheimer’s Disease Scale (BEHAVE-AD), l’ADAS noncognitive subscale, la Behaviour Rating

Scale for Dementia of the Consortium to Establish a Registry for Alzheimer’s Disease (CERAD BRSD), il Cohen –

Mansfield Agitation Inventory (CMAI), la Brief Psychiatric Rating Scale (BPRS), la Cornell Scale for Depression In

Dementia.

L’utilizzo di scale comportamentali, come strumenti di diagnosi della demenza, è spesso fonte di confusione e comporta

il rischio d’imprecisioni e d’errori, con ripercussioni anche gravi, nella pratica clinica. Nei trial farmacologici vengono, di

solito, impiegati anche altri stumenti, con il fine di valutare l’eventuale variazione di alcuni parametri funzionali, tra cui le

scale che valutano il cambiamento clinico globale, come la Clinical Global Impressions (CGI) e la Clinicians Interview

Based Impression of Change (CIBIC). Molti test e scale di gravità e di comportamento richiedono tempi di

somministrazione molto lunghi, anche di diverse sedute, di diverse ore ciascuna.

A scopi clinici può essere utile l’impiego d’interviste strutturate, più brevi e facilmente somministrabili, che evidenziano le

principali informazioni rilevanti per la diagnosi, anche differenziale, e per la quantificazione del danno demenziale. Alcuni

di tali strumenti sono il GMS (Geriatric Mental State Examination), il CAMDEX (Cambridge Mental Disorders of the

Elderly Examination) e il SIDAM (Structured Interview for the diagnosis of Dementia of the Alzheimer type, Multi-infarct

dementia and dementias of other aetiology according to ICD-10 and DSM-III-R).

Semeiotica strumentale

L’esame clinico va integrato con gli esami strumentali generali e specifici. E’ ovviamente necessario valutare i principali

esami di laboratorio. L’esame del liquor viene consigliato, in presenza di demenza ad esordio precoce, per la possibilità

di infezioni e tumori, malattie autoimmunitarie e idrocefalo normoteso. Markers per l’Alzheimer in fase di studio sono: 1. il

dosaggio nel liquor della proteina tau e beta amiloide; 2. lo studio del metabolismo dei fibroblasti. E’ necessario ricercare

altre cause patologiche del decadimento mentale, valutando attentamente la funzione epatica e renale, ma anche

dosando per esempio la vitamina B12 o facendo la sierodiagnosi per lue e HIV. E’ necessario valutare i principali

parametri cardiologici e vascolari, per evidenziare eventuali fattori d’ipoperfusione ematica cerebrale, su base

aritmogenetica e/o aterosclerotica, effettuando per esempio un eco-color-doppler dei tronchi arteriosi sovraortici.

Particolare rilievo assume l’esplorazione elettrofisiologia del SNC e le più complesse tecniche di brain imaging.

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1. Neurofisiologia delle demenze

Le indagini elettrofisiologiche, quali l’elettroencefalogramma (EEG) ed i potenziali evocati, hanno contribuito alla

comprensione dei correlati neurofunzionali di queste patologie. Nei pazienti con demenza, di qualsiasi origine, è

evidenziabile un’alterazione più o meno marcata dell’attività bioelettrica cerebrale. L’EEG rappresenta la somma delle

differenze di potenziale, esistenti tra diverse aree cerebrali, corticali e sottocorticali. L’assetto neurofunzionale della

demenza è studiato, soprattutto, mediante i potenziali evocati ed in particolare, con la valutazione delle loro componenti

più tardive, maggiormente influenzate da fattori cognitivi.

1 a. Elettroencefalogramma

Anomalie EEG, con un diffuso rallentamento dell’attività di base, sono state evidenziate in pazienti dementi, già nel 1937,

agli albori della neurofisiologia clinica. Ulteriori studi hanno confermato queste prime osservazioni, rilevando un

rallentamento della frequenza del ritmo alpha e la maggior presenza d’attività theta e delta. Le ricerche successive non

hanno permesso di identificare anomalie qualitative e/o quantitative del pattern EEG, che fossero specifiche della

patologia demenziale.

L’EEG classico è un mezzo diagnostico efficace nell’evidenziare i segni d’encefalopatia organica diffusa, ma con scarsa

specificità nella diagnostica differenziale. L’introduzione dei calcolatori digitali, nell’ambito della neurofisiologia clinica, ha

permesso la trasformazione del segnale EEG da analogico in digitale. Ciò ha consentito diversi tipi d’analisi matematica

del segnale, allo scopo di identificare parametri quantificabili dell’attività bioelettrica cerebrale.

E’ stato possibile elaborare, così, gli spettri di potenza, derivati dall’analisi di frequenza (trasformata di Fourier) che

determinano, per ciascun intervallo di frequenza, il livello d’energia bioelettrica registrata, in una specifica derivazione

cerebrale, in un definito intervallo di tempo. Con l’elaborazione computerizzata topografica è stato possibile avere una

rappresentazione spaziale (mappe EEG) di distribuzione di tale attività bioelettrica, nelle diverse aree cerebrali. Gli studi,

con queste tecniche d’analisi quantitativa dell’EEG, hanno confermato, nelle demenze, il decremento del ritmo alpha e

l’aumento diffuso delle frequenze theta e delta.

Hanno localizzato tali anomalie, talora focali, in prevalenza in sede fronto-temporale, soprattutto nell’emisfero di sinistra.

Sono stati condotti studi che hanno evidenziato una correlazione tra deterioramento cognitivo e diversi parametri EEG,

ma non sono state identificate alterazioni specifiche, per i pazienti affetti da demenza. L’EEG quantitativo può essere un

ausilio nella conferma della diagnosi di demenza di tipo Alzheimer, ma la sua validità nel processo diagnostico

differenziale è piuttosto limitata.

Alcuni studi hanno sottolineato l’utilità di un approccio combinato con EEG quantitativo e tecniche di neuro-imaging

(RMN – TAC - PET) nell’identificare anomalie morfofunzionali, in pazienti con un quadro subclinico ed iniziale di

demenza di tipo Alzheimer. Secondo alcuni Autori, nelle forme ad esordio presenile, sono riscontrabili alterazioni

localizzate, prevalentemente, in corrispondenza delle regioni temporali posteriori dell’emisfero sinistro, mentre nei casi

ad esordio più tardivo le alterazioni prevalgono a livello delle regioni medio-frontali e frontali anteriori, di entrambi gli

emisferi.

Nei pazienti affetti da demenza multinfartuale (MID) le anomalie EEG sono localizzate, di solito, nelle zone di sofferenza

vascolare. Nei pazienti affetti da morbo di Parkinson, con un quadro clinico di demenza, l’EEG quantitativo ha mostrato

anomalie bioelettriche non specifiche. L’EEG resta molto utile nel porre diagnosi di demenza di Creutzfeldt-Jakob anche

se, a volte, è necessario sottoporre il paziente a ripetute registrazioni, se le prime non mostrano grafoelementi specifici.

Questi pazienti mostrano alterazioni EEG con onde lente appuntite e diffuse od onde lente difasiche e trifasiche, che si

ripetono con intervalli di tempo di 0,5-1,5 sec e che possono avere lunga durata. E’ stato, inoltre, evidenziato un pattern

EEG simile a quello presente nelle fasi di sonno non-REM, con un’attività dominante diffusa a 0,5-4 cicli il secondo.

Nei pazienti affetti da AIDS- Dementia Complex sono stati osservati rallentamenti, predominanti sulle regioni frontali, di

entrambi gli emisferi. In uno studio è stato descritto un tracciato EEG, di una bassa ampiezza, correlato spazialmente al

grado d’atrofia, visibile alla TAC. In conclusione, quindi, l’analisi quantitativa EEG può essere utile, quando la diagnosi

resta incerta, dopo un’approfondita indagine del quadro clinico.

1 b. Potenziali evocati

I potenziali evocati sono oscillazioni elettriche generate in diverse aree cerebrali, in rapporto alla presentazione di

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determinati stimoli. Essi presentano diverse componenti. Le più precoci compaiono entro 100 msec dalla presentazione

dello stimolo, originano a livello tronco-encefalico e presentano caratteristiche dipendenti dal tipo di stimolo. Le

componenti intermedie compaiono in un intervallo di tempo compreso tra i 100 e i 250 msec.

Sono influenzate, oltre che dal tipo di stimolo, anche da vari fattori neurofisiologici. Le componenti più tardive, dette

anche potenziali evento-correlati, non risentono significativamente delle caratteristiche dello stimolo. Sono dipendenti

dall’attività corticale e sono influenzate da processi cognitivi come l’attenzione, la valutazione dello stimolo e la memoria.

In particolare, una deflessione positiva che comprende, dopo circa 300 msec, la P300, sembra riflettere la velocità di

valutazione e categorizzazione dello stimolo. Un aumento della latenza della P300 è stato descritto nell’invecchiamento

fisiologico.

Molti studi hanno dimostrato latenze significativamente più ampie, di questa componente tardiva, in pazienti affetti da

diverse forme di demenza, rispetto a soggetti sani di pari età. Secondo alcuni studi le anomalie nella latenza di comparsa

dei potenziali evocati sono già presenti nelle fasi precoci di malattia. Un’altra componente, questa volta negativa, la

N200, sembra comparire in ritardo in pazienti con demenza. La componente intermedia positiva, P200, risulta in ritardo,

nei soli pazienti con Morbo di Parkinson. Nei pazienti affetti da demenza secondaria ad AIDS si osserva un significativo

aumento della latenza delle componenti P200 e N300, dopo stimoli acustici, e, in alcuni casi, la loro completa

scomparsa.

2. Brain imaging

E’ sempre consigliabile effettuare almeno un esame diagnostico per immagini, in tutti i pazienti con sintomatologia

demenziale. Le tecniche di brain imaging identificano le cause reversibili di demenza (tumori, ematomi, idrocefalo),

aiutano la definizione delle demenze ad etiologia vascolare e sono utili nel valutare il grado di danno atrofico, nelle

demenze neurodegenerative.

La Tomografia Computerizzata (TC) identifica chiaramente l’atrofia corticale e l’eventuale ampliamento dei ventricoli,

condizioni tipiche della malattia d’Alzheimer e delle altre demenze degenerative, anche senza mezzo di contrasto.

L’utilizzo di un mezzo di contrasto e.v. permette di accertare la presenza di lesioni focali meno estese e di varia natura

(vascolare, tumorale, etc.).

La Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) ha un più alto potere di risoluzione rispetto alla TC. Distingue sulla base della

differente densità protonica la sostanza grigia dalla bianca. Permette di identificare sia lesioni focali sia alterazioni diffuse

e facilita la diagnosi differenziale fra demenze neurodegenerative e demenze vascolari.

La Positron Emission Tomography (PET) è usualmente utilizzata per la diagnosi precoce e la diagnosi differenziale,

nonché per valutare specifiche alterazioni della perfusione ematica cerebrale.

Si rimanda a specifiche trattazioni per maggiori dettagli.

Malattia di Alzheimer

Descritta per la prima volta nel 1907 da Alois Alzheimer, la malattia demenziale, che da lui prende il nome, era

considerata relativamente rara, nello scorso secolo. Oggi si sa che è una delle forme di demenza più diffuse nella

popolazione. Rappresenta circa il 55% di tutte le demenze. La malattia di Alzheimer è, specialmente nelle società

industriali, con una speranza media di vita in costante aumento, una delle principali cause di invalidità e morte, nell’età

avanzata.

La malattia di Alzheimer (Alzheimer Disease – AD) è divenuta, negli ultimi anni, uno dei maggiori problemi di salute

pubblica. La ricerca delle basi etio-patogenetiche della malattia appare, quindi, di primaria importanza. La prevalenza è

stimata nei diversi studi da un minimo dell’ 1% ad un massimo del 9,1%, nella popolazione in età senile. Prevale nel

sesso femminile e presenta una spiccata familiarità. Bassi livelli d’istruzione e di stimoli culturali possono essere fattori

favorenti l’insorgere di una demenza precoce.

1. Neuropatologia

La AD si presenta con diffusa atrofia cerebrale, più marcata nei lobi temporali anteriori, e con allargamento delle cavità

liquorali. Dal punto di vista microscopico si osservano una serie di reperti caratteristici, di seguito brevemente descritti.

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Depositi d’amiloide, sottoforma di:

a.placche neuritiche, fatte da un nucleo centrale di fibre, con attorno detriti di neuroni e glia;

b.placche diffuse, con materiale proteico amorfo, non molto aggregato in fibre;

c.angiopatia congofila (amiloide si colora al rosso Congo), con i vasi corticali e meningei infiltrati di amiloide nella parete

muscolare.

Alterazioni del citoscheletro All’interno del neurone si ritrovano dei filamenti di tubulina (componente normale dei tubuli)

disposti, però, in modi diversi dalla norma (p.es. ad elica) che si accumulano nel citoplasma (degenerazione

neurofibrillare) o nei dendriti. Questi fenomeni dipendono da un’anomala fosforilazione della proteina tau, precursore

della tubulina, ma sono aspecifici.

Rarefazione neuronale Nei lobi frontali e temporali, la corteccia si riduce del 30-40% in spessore, soprattutto a carico del

III e V strato. Alcuni nuclei sottocorticali sono ancora più colpiti, come il nucleo dorsale del rafe o il nucleo basale di

Meynert. Tutti questi nuclei proiettano, diffusamente, alla corteccia e la loro degenerazione contribuisce alla riduzione del

tono di neurotrasmettitori, soprattutto d’acetilcolina. In ogni strato corticale si ha una riduzione del numero di sinapsi, fino

al 50%. Sembra che la quantità d’amiloide non sia direttamente correlata alla demenza, mentre lo è il numero di

neurofilamenti, presenti in corteccia. S’ipotizza che l’amiloide si accumuli innocuamente con l’età, ma diventi patologica,

quando si aggrega in filamenti alfa.

2. Ipotesi etiopatogenetiche

Un ruolo rilevante, nella genesi dell’AD, è svolto da un peptide detto proteina beta, aggregato in forma d’amiloide,

responsabile della degenerazione neuronale e sinaptica dei neuroni. La proteina beta è neurotossica in misura

proporzionale alla sua aggregazione in filamenti d’amiloide. Mutazioni puntiformi del gene, che codifica per la proteina

precursore (APP) si riscontrano in forme familiari di AD. La proteina beta è normale nella sua struttura. E’ l’eccessiva

produzione ed il suo accumulo intra ed extraneuronale ad avere effetti patologici. Nell’AD si accumula, per vari motivi

(difetto di maturazione, di escrezione, difetto nei segnali di riconoscimento della proteina). Vengono riportate di seguito

diverse ipotesi etiopatogenetiche.

Ipotesi genetica Fin dagli inizi del secolo sono state descritte famiglie, nelle quali più di un membro andava incontro a

AD. Studi più recenti su alberi genealogici più ampi e più dettagliati, hanno consentito di ipotizzare una trasmissione di

tipo autosomico dominante della malattia. Lo studio delle proteine, implicate nella patogenesi dell’AD, e dei geni che le

codificano con l’uso di tecniche di linkage genetico hanno permesso la caratterizzazione del difetto genico ne lla forma

familiare (Familial Alzheimer Disease – FAD).

È noto, infatti, che fattori di genetici svolgono un ruolo di primo piano, nell’etiologia d’alcune forme di malattia

d’Alzheimer. In letteratura è stata descritta una forma familiare, ad esordio precoce, di AD. Numerose famiglie, con

molteplici casi affetti, suggeriscono una modalità di trasmissione di tipo mendeliano autosomica dominante. Esse sono

state studiate con tecniche di linkage allo scopo di localizzare i geni corresponsabili di tale forma familiare. Pazienti affetti

da sindrome di Down (trisomia del cromosoma 21) che sopravvivevano sino a 35-40 anni, sviluppavano un quadro di

demenza che assomigliava strettamente alla malattia d’Alzheimer, sia da un punto di vista clinico che istopatologico.

Il fatto che il gene che codifica per la proteina precursore dell’amiloide (APP) fosse ugualmente localizzato sul

cromosoma 21 lo rendeva un gene candidato altamente probabile, anche se le osservazioni iniziali non permettevano di

riscontrare nessuna evidenza certa di un ruolo diretto del gene APP, nella produzione della malattia. In seguito, è stata

identificata una mutazione specifica nell’esone 17, del gene codificante per la proteina APP, in alcune famiglie

originariamente positive per il linkage, con marcatori del cromosoma 21.

In questi casi, una mutazione puntiforme era responsabile della presenza di un diverso aminoacido, nella struttura della

proteina (Val vs Leu) con la produzione di una proteina anomala, che poteva ragionevolmente essere considerata un

potenziale determinante etiologico della malattia. Il complesso problema dell’eterogeneità della malattia d’Alzheimer è

stato indagato sulla base di dati sperimentali.

Alcuni Autori, hanno proposto un secondo locus responsabile d’alcune forme familiari d’AD ad esordio tardivo,

localizzato sul cromosoma 19. L’eterogeneità della malattia d’Alzheimer è suggerita anche da caratteristiche

epidemiologiche e cliniche. Un linkage positivo è stato dimostrato, in famiglie di pazienti con un quadro clinico ad esordio

precoce, con una modalità di trasmissione di tipo dominante ed un marcato deficit cognitivo (la “sindrome alogica di

Reich o sindrome delle 4 A”con: amnesia, afasia, aprassia ed agnosia). I casi d’AD ad esordio tardivo, invece, mostrano

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una modalità di trasmissione, non mendeliana, con deficit cognitivi incompleti, almeno all’inizio della malattia.

Pazienti di sesso diverso mostrano un rischio di malattia sostanzialmente uguale, nelle forme ad esordio precoce,

mentre in quelle ad esordio tardivo il rischio di morbilità delle donne è significativamente maggiore. Altri dati

suggeriscono che le forme di AD familiare a esordio tardivo riconoscono almeno due diverse etiologie. In alcuni casi la

malattia sembra trasmessa come carattere autosomico dominante, probabilmente legato al cromosoma 19, mentre, in

una proporzione significativa di famiglie, con malattia ad esordio tardivo, sembra dipendere da altri fattori genetici o

addirittura da elementi ambientali. I notevoli progressi della ricerca genetica, degli ultimi anni, hanno confermato la

sostanziale eterogeneità genetica della malattia.

Resta da chiarire l’insieme di meccanismi biochimici e molecolari specifici, che inducono ad un quadro clinico e

morfologico simile, a partire da alterazioni di geni differenti. Altri studi di linkage hanno, infatti, permesso di identificare tre

geni che, quando mutati, provocano demenza presenile, localizzati sui cromosomi 21, 14 ed 1. La suddivisione

tradizionale tra malattia d’Alzheimer ad esordio precoce, legata al cromosoma 21, e malattia d’Alzheimer ad esordio

tardivo, legata al cromosoma 19, è stata successivamente superata, con l’identificazione di un terzo locus per la malattia

d’Alzheimer sul braccio lungo del cromosoma 14. Sherrington et al. (1995) hanno identificato un nuovo gene chiamato

presenilina-1 (PS-1) e responsabile di diverse mutazioni, che caratterizzano molti dei pazienti con AD familiare.

Non tutti i casi di AD familiare, però, presentano mutazioni del gene PS-1. E’ stata identificato un altro gene, chiamato

presenilina-2, sul cromosoma 1, che presenta mutazioni, in alcuni casi di AD familiare. E’ possibile cominciare ad

ipotizzare una “classificazione” molecolare della malattia. Il primo gene identificato come responsabile della malattia di

Alzheimer, ad esordio precoce, è sito sul cromosoma 21 e codifica per la proteina precursore del beta-amiloide.

Mutazioni di questo gene sono responsabili di non più del 5% dei casi di AD, tra l’altro, con diversi meccanismi

patogenetici. Il gene PS-1, presente sul cromosoma 14, è responsabile di circa il 70% dei casi d’Alzheimer familiare, ad

esordio precoce.

È stata osservata una differenza di almeno 20 anni nell’età d’esordio della malattia, tra le varie famiglie, che presentano

mutazioni del gene PS-1, in rapporto al codone interessato. Quando la stessa mutazione è presente in diverse famiglie,

si registra una stretta concordanza, nell’età media d’esordio della malattia. Non si può escludere che altre mutazioni del

gene PS-1 possano essere presenti anche in casi di malattia d’Alzheimer, ad esordio tardivo. La stessa mutazione può

avvenire in famiglie di differente origine etnica, in rapporto ad eventi mutazionali indipendenti. Il gene PS-1 sembra avere

un’alta frequenza di mutazioni spontanee e ciò potrebbe essere rilevante, sul piano etiopatogenetico, anche nell’AD

sporadica. Il terzo gene per la AD familiare si trova poi sul cromosoma 1, soprattutto, in famiglie di ceppo germanico.

Il gene PS-2 rappresenta una causa genetica di minore importanza rispetto a PS-1. Ci sono, inoltre, famiglie con AD che

non presentano mutazioni per il gene dell’amiloide (cromosoma 21) o per i due geni PS (cromosoma 14 ed 1). Le due

preseniline presentano un alto grado d’omologia (superiore al 60-65%). Sono entrambe espresse nel cervello, ma anche

nei fibroblasti e nei leucociti. Ciò suggerisce una certa affinità funzionale delle due proteine PS-1 e PS-2. Anche la loro

localizzazione intracellulare è analoga, a livello del reticolo endoplasmatico e dell’apparato del Golgi. La struttura

caratterizzata da 7 domini transmembrana fa ipotizzare un loro ruolo nella trasduzione diretta dei segnali dalla superficie

cellulare al nucleo. I fibroblasti di pazienti con mutazioni in PS-1 producono catene più lunghe di beta-amiloide.

Le mutazioni di PS-1 o di PS-2, per effetto delle preseniline, indurrebbero una serie di reazioni biochimiche, che portano

all’amiloidogenesi abnorme, dato anatomo-patologico comune a tutte le forme di malattia d’Alzheimer. Un meccanismo

fisiopatologico di questo tipo giustifica i modelli genetici di trasmissione della malattia, che sostengono l’ipotesi di un

modello a due loci. Un primo gene (nel caso specifico, PS-1 o PS-2) potrebbe controllare l’espressione di un secondo

gene (l’APP) direttamente responsabile della deposizione d’amiloide.

E’ stata dimostrata un’eterogeneità genetica della malattia familiare, sostenuta da mutazioni in almeno 4 differenti geni

(1, 14, 19 e 21), mentre altre nuove regioni sui cromosomi 12 e 17 sono in fase di studio. Nell’ambito della genetica delle

demenze, un ruolo specifico è rivestito dal gene che codifica per l’apolipoproteina E (ApoE). Diversi studi hanno riportato

un’associazione tra locus ApoCII, presente nel braccio lungo del cromosoma 19, e malattia d’Alzheimer, ad esordio

tardivo. Il locus ApoCII è adiacente al locus dell’ApoE.

Studi di linkage hanno suggerito che la regione cromosomica contenente il gene della ApoE è associata con AD, ad

esordio tardivo. Studi immunoistochimici hanno mostrato che la ApoE si accumula nelle placche senili e nei grovigli

neurofibrillari. I pazienti eterozigoti per l’allele E4 dell’ApoE hanno un rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer

aumentato di 3 volte, mentre per gli omozigoti E4/E4 è di 8 volte.

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Alcuni studi sembrano dimostrare che soggetti di età media e avanzata, cognitivamente normali, che sono omozigoti per

l’allele E4 dell’ApoE, presentano una riduzione del metabolismo del glucosio, nelle stesse aree cerebrali dei pazienti

affetti da AD. Ciò suggerisce una disfunzione neurobiologica, in queste aree, precedente la condizione patologica

conclamata. Ulteriori ricerche sono state effettuate e sono ancora in corso, per l’identificazione di altri correlati genetic i

della malattia, che non vengono qui riportate per ragioni di brevità.

Tabella 2 Correlati genetici della Malattia di Alzheimer

Genetica Cromosoma, trasmissione

Caratteristiche

21, aut dom Esordio a 45-65 anni, aumento dei livelli di beta amiloide. 14, aut dom Esordio fra 33 e 56 anni, livelli di beta amiloide e alterazione dei

meccanismi di trasporto del calcio. Accelerazione dei meccanismi apoptosici dei neuroni. Circa il 5-6% delle demenze a carattere familiare, esordio precoce.

1, aut dom Esordio fra 40 e 90 anni, beta amiloide, aumento dei processi apoptosici, più rara

19, APO E La presenza di questo allele aumenta l’età di esordio nelle forme familiari e nelle forme sporadiche

6, IILA-A2 Cofattore nell’anticipare l’esordio della malattia in presenza di APO E 12 Meccanismo sconosciuto

Ipotesi tossica Numerose sono le sostanze neurotossiche capaci di indurre specifici danni cerebrali. Fra queste la più

studiata, nella patogenesi della demenza, è l’alluminio, dato che la concentrazione intraneuronale di questo metallo (che

tende ad accumularsi all’interno delle placche senili sotto forma di silicato) è significativamente più elevata nei pazienti

con AD, rispetto ai controlli non affetti da tale malattia.

Ipotesi virale Il reperto di lesioni tipiche dell’AD (placche senili e degenerazione neurofibrillare) in condizioni quali il

parkinsonismo postencefalitico, la panencefalite sclerosante subacuta ed altre patologie di natura virale o sostenute da

“virus lenti” o da “prioni” ha suggerito la possibilità che anche l’AD possa essere provocata da un agente infettivo non

convenzionale (ma anche di tipo convenzionale, quali l’herpes simplex tipo I e l’herpes zoster).

Ipotesi immunologica Una più marcata alterazione delle risposte immunitarie, sia cellulari che umorali, è stata

evidenziata in soggetti affetti da AD, rispetto ai controlli sani. Sembrano indicare un coinvolgimento del sistema

immunitario nell’eziologia della AD: 1. la natura amiloide del nucleo delle placche senili, che si accompagna in genere a

malattie del sistema immunitario; 2. una maggior frequenza di malattie del sistema immunitario, nei familiari di questi

pazienti; 3. la presenza di autoanticorpi contro i neurofilamenti e, soprattutto, contro le cellule produttrici di prolattina,

presente in un’alta percentuale di pazienti (circa il 90%) e nei soggetti con trisomia 21.

Ipotesi ossidativa I radicali liberi possono determinare reazioni chimiche fortemente dannose per le cellule, con

ossidazioni incontrollate, che possono danneggiare il metabolismo, la struttura e la funzione neuronale, sino a causarne

la morte.

Altre ipotesi Studi epidemiologici caso-controllo hanno dimostrato un più alto rischio di sviluppare AD, nei soggetti che

hanno subito gravi traumi cranici. E’ stato anche dimostrato che ripetuti traumi cranici possono provocare alterazioni

tissutali del tipo della degenerazione neurofibrillare, la cosiddetta “punch-drunk syndrome”. Inoltre, mediante PET sono

state evidenziate, già in fasi precoci della malattia, riduzione della perfusione ematica a livello della corteccia temporo-

parietale ed asimmetrie lesionali. Ulteriori fattori etiopatogenetici dell’AD sono stati riconosciuti in: patologie tiroidee;

carenze dietetiche; fattori vascolari.

3. Evoluzione clinica

L’evoluzione dell’AD viene, di solito, distinta in tre fasi. Nella prima fase, si osserva un calo iniziale degli interessi,

indifferenza e turbe della memoria di lieve entità. Il paziente è consapevole e può andare incontro a depressione, con

difficoltà nella diagnosi differenziale. Nella seconda fase, successivamente, il calo della memoria è più evidente e si

aggiungono deficit dell’attenzione, della capacità critica e di giudizio. Il paziente s’isola con riduzione del rendimento

lavorativo e difficoltà nella vita familiare. Diventa apatico. Presenta incuria personale e disordini del linguaggio.

Agrafia, acalculia e difficoltà a orientarsi compaiono alla fine di questa fase. Nella terza fase, più avanzata, si hanno gravi

turbe della memoria a breve e lungo termine, incuria totale, agnosia per i volti (prosepoagnosia) anche dei più stretti

familiari. Vi può essere disfagia e difficoltà nel normale apporto di liquidi e nutrienti. Il paziente può apparire

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completamente apatico oppure avere un affaccendamento inoperoso afinalistico. Si perde il controllo sfinterico. Se non

intervengono cause di morte, il paziente passa in una fase di crisi miocloniche, convulsioni, poi rigidità progressiva, fino

al quadro finale della tetraparesi in flessione. Il decesso avviene di solito per patologie intercorrenti (p.es. polmonite ab

ingestis).

La diagnosi è clinica e strumentale. L’EEG si presenta alterato per la presenza d’attività lenta, diffusa, con ritmo alfa a 4-

5 c/s, e con rallentamenti più evidenti, nelle fasi più avanzate di malattia. Nelle fasi terminali si ha anche attività delta, in

regione frontale. La TC evidenzia un ampliamento, piuttosto aspecifico, dei solchi corticali con dilatazione dei ventricoli

laterali. Analoghi risultati alla RM, che evidenzia anche atrofia dell’ippocampo.

SPECT e PET evidenziano alterazioni corticali di perfusione, in fase precoce, localizzate a livello temporo-parieto-

occipitale, specie a sinistra, sebbene una valutazione solo strumentale di questo tipo, da sola non sia probativa, ma solo

indicativa, in presenza di altri sintomi. Pur con l’introduzione di nuovi farmaci, che aumentano il tono colinergico

cerebrale, contrastando, almeno in parte, i sintomi prevalentemente dismnesici dell’AD, la terapia resta sostanzialmente

sintomatica ed ancora poco efficace nel contrastare l’evolutività della malattia.

Malattia di Pick

La malattia di Pick è relativamente rara, rappresentando circa 1% dei casi di demenza. Ha un esordio presenile. La

diagnosi differenziale con la DA è quasi impossibile, sulla sola base clinica. Rispetto alla DA si ha una maggior incidenza

di disturbi del comportamento e sintomi prefrontali, come perdita della critica, impulsività, moria. Possono essere

presenti sintomi come bulimia, ipersessualità, iperoralità, agnosia visiva, che sono presenti, ma meno frequenti, anche

nell’AD.

Dal punto di vista neuropatologico si osserva un’atrofia corticale marcata, spesso asimmetrica, dei lobi frontali e

temporali. Inoltre si trovano i corpi di Pick, una serie d’inclusioni argentofile, all’interno dei neuroni. Sono strutture

filamentose ad elica, identiche a quelle della degenerazione neurofibrillare. La malattia evolve verso la morte in 2-10

anni.

Malattia a corpi di Lewy

La demenza a corpi di Lewy si distingue in una forma “pura” e in una forma associata ad AD, ma la distinzione è

alquanto difficile, nella pratica clinica. I corpi di Lewy sono inclusioni intraneuronali, un tempo ritenuti caratteristici ed

esclusivi del Morbo di Parkinson (MP). Contengono determinanti antigenici dei neurofilamenti e ubiquitina. A differenza di

quanto avviene nel MP, in questa malattia, nella sua espressione “pura”, le localizzazioni delle suddette lesioni sono

diffuse a tutto l’encefalo, in assenza d’altre alterazioni, ma possono trovarsi a livello prevalentemente corticale nella

forma associata ad AD.

La malattia pura è, infatti, simile all’AD, con una maggiore incidenza di disturbi psicotici, deliri e allucinazioni. Si ha anche

una sindrome motoria simile al Parkinson ma senza tremori, che non risponde alla L-dopa. Nell’80% dei pazienti affetti

da Morbo di Parkinson sono presenti corpi di Lewy diffusi.

Demenze vascolari

Le Demenze Vascolari (DV) rappresentano circa il 15% di tutte le demenze. Condividono l’etiopatogenesi vascolare, non

necessariamente infartuale. Lesioni vascolari sono state evidenziate, con relativa frequenza, in pazienti affetti da AD.

Queste condizioni patologiche vengono definite, da alcuni Autori, Demenze Miste.

1. Patogenesi

Più che la quantità di tessuto cerebrale leso dagli eventi vascolari, sembra essere clinicamente rilevante la sede di tali

lesioni. Vi sono delle strutture neuro-anatomiche “strategiche”, la cui lesione può ingenerare più facilmente quadri

demenziali: il talamo e l’ippocampo. In alcuni casi il danno funzionale può essere maggiore del danno anatomico,

evidenziato con TC, ed è importante valutare il quadro dal punto di vista metabolico con la PET o la SPECT.

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E’ stato ipotizzato che l’ischemia o l’ipoperfusione ematica cerebrale cronica possa aumentare la produzione della

proteina beta. In questa prospettiva, la frequente associazione fra la demenza infartuale e l’AD potrebbe non essere

casuale. Nella DV si repertano quadri neuropatologici diversi tra cui: 1.Infarti multipli; 2. Stato lacunare vascolare; 3.

Angiopatie infiammatorie; 4. Malformazioni artero-venose; 5. Emorragie subaracnoidee.

2. Clinica

L’esordio è spesso improvviso. La malattia progredisce in modo non lineare, come avviene nell’AD, ma con subitanei

peggioramenti “a scalini”, verosimilmente conseguenti a successivi e ripetuti episodi ischemici. Il quadro clinico spesso

esordisce con accentuazione dei tratti di carattere, impulsività, irascibilità, irritabilità, aggressività.

Il declino cognitivo progressivo è preceduto da una riduzione delle capacità di socializzazione, con progressiva perdita

delle relazioni interpersonali, riduzione dell’interesse per l’ambiente, riduzione delle capacità mnesiche, intellettive, di

critica e di giudizio. Frequente il disorientamento nel tempo e nello spazio. Il quadro sindromico è solitamente preceduto

da una lunga storia clinica d’ipertensione, dislipidemia, obesità, diabete, cardiopatie ed aterosclerosi. E’ possibile, ad un

esame neurologico accurato, evidenziare deficit neurologici focali, conseguenti alle lesioni cerebro-vascolari.

E’, inoltre, caratteristico il peggioramento non omogeneo e non sincrono delle diverse funzioni cognitive, per cui si può

assistere ed una perdita totale delle capacità di orientamento o calcolo, con funzioni linguistiche e mnesiche

relativamente conservate o viceversa. La diagnosi è clinica e strumentale. La terapia sintomatica, con attenzione

specifica alla correzione dei fattori di rischio per la vasculopatia cerebrale.

Nella demenza talamica, conseguente a lesioni vascolari ivi collocate, aspetto specifico delle demenze sottocorticali, si

manifestano più frequentemente: apatia, inerzia, grave amnesia, rallentamento motorio e dei processi cognitivi.

L’encefalopatia subcorticale aterosclerotica, detta anche malattia di Binswanger, è una neuropatia rara provocata

dall’ipertensione e/o dall’ischemia. Si repertano tre alterazioni fondamentali: 1. necrosi fibrinoide delle arteriole cerebrali;

2. infarti lacunari multipli localizzati ai gangli della base, al talamo e al ponte; 3. degenerazione della sostanza bianca

nelle regioni temporali e occipitali. Clinicamente si possono evidenziare deficit neurologici focali, segni di liberazione,

segni o sintomi di compromissione soprabulbare, segni extrapiramidali. Molto frequente l’associazione con ipertensione.

Le lesioni lacunari si riscontrano mediante TC e/o RM, come aree chiare simmetriche, con aspetti definiti di

“leucoaraiosi”.

Demenze da prioni

Le demenze da prioni sono patologie legate alla presenza intracerebrale di una proteina detta prionica, normalmente

presente sottoforma di una catena alfa. Questa proteina, sintetizzata dal cromosoma 20, può, in seguito a mutazione,

assumere una struttura beta planare alterata, definita PrP. Essa diventa, perciò, resistente al calore e alle proteasi. Si

accumula nel cervello portando a degenerazione neuronale.

La presenza di una proteina prionica alterata (PrP) può, inoltre, interferire con la sintesi delle proteine normali

intraneuronali, aggravando il quadro clinico. Esiste la possibilità di trasmettere la malattia attraverso l’ingestione e

l’assorbimento delle proteine alterate, che sono resistenti alla digestione gastroenterica, qualora presenti nel SNC di

animali malati. Le malattie da prioni presentano, paradossalmente e contemporaneamente, un’epidemiologia sia da

malattia genetica sia da malattia infettiva. Similitudini fra lo Scrapie delle pecore e il Kuru dei cannibali della Nuova

Guinea furono scoperte nel 1959, ma la proteina prionica fu identificata solo nel 1981.

1. Malattia di Creutzfeldt-Jakob

L’incidenza stimata della malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJ) è di 1/1.000.000 per anno. Circa il 5% dei casi sembra avere

il carattere di malattia familiare. La restante quota è da considerarsi sporadica, per mutazione acquisita o

contaminazione. Fonti di rischio infettivo sono il trapianto di cornea, gli strumenti contaminati, l’innesto di dura madre,

l’estratto d’ormone della crescita umano da cadavere. Il tempo d’incubazione è stimato in circa 1-7 anni. I correlati

anatomo-patologici della malattia, tipicamente, includono uno stato spongioso della corteccia, dei nuclei della base e

della corteccia cerebellare, associato ad astrocitosi, gliosi e rarefazione neuronale.

Dal punto di vista sintomatologico si evidenziano: 1. sintomi demenziali a rapida evoluzione; 2. mioclonie spontanee o

provocate; 3.caratteristiche alterazioni EEG, con onde trifasiche, bilaterali e sincrone, ad andamento ritmico, con

progressiva scomparsa del ritmo di fondo. La demenza progredisce nel giro di pochi mesi. Si hanno prima alterazioni del

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linguaggio, della memoria, delle altre funzioni cognitive, poi si presentano le mioclonie, non specifiche, ma molto

indicative di questo tipo di demenza, e le alterazioni dell’EEG. Nel 1990 in Gran Bretagna, si diffuse fra la popolazione

una variante allarmante della CJ, la variante di Heidenham. Questa nuova forma, di cui si sono riscontrati sporadici casi

anche in Italia, differisce dalla CJ classica per: 1. precocità dei sintomi (breve incubazione) con decorso inferiore a 7-8

mesi; 2. giovane età dei pazienti; 3. possibilità di interessamento della corteccia occipitale (cecità) e dei motoneuroni

spinali (variante amiotrofica).

2. Kuru

Il Kuru era una patologia endemica, nelle isole orientali della Nuova Guinea, fra le popolazioni Fore, che praticavano il

cannibalismo rituale, alimentandosi con cervello dei familiari defunti. Questa pratica rappresentava il messo di

propagazione della malattia. Alterazioni tipiche neuropatiche della malattia sono le placche d’amiloide (dette placche di

kuru) nelle cellule del Purkinje. La patologia si presenta con atassia cerebellare, seguita di solito, da decorso rapido ed

esito letale entro l’anno.

3. Malattia di Gerstmann-Straussler-Scheinker

E’ un malattia familiare rara, caratterizzata da una sindrome cerebellare progressiva, con demenza e segni piramidali.

Presenta un decorso variabile fra 5 e 15 anni. Il danno anatomo-patologico è caratterizzato da placche d’amiloide,

formate da PrP, localizzate in corteccia cerebrale e cerebellare. Sono state, però, descritte varianti con mutazioni diverse

della PrP.

4. Insonnia familiare fatale

E’ una malattia familiare, autosomica dominante, che si manifesta con insonnia globale, resistente ai farmaci, mioclonie

e demenza. Si caratterizza per una grave e selettiva rarefazione dei nuclei medio-dorsali del talamo. E’ causata da

un’alterazione specifica della PrP.

In tabella 3 sono brevemente riportate altre forme di demenza, per il cui studio si rimanda a trattati più estesi.

Tabella 3 Altre forme di demenza

Demenze endocrine metaboliche

Sono, in genere, riconoscibile per i diversi sintomi d’alterazione sistemica e per le alterazioni metaboliche specifiche.

- Demenza in corso di mixedema

- Demenza epatica

- Demenza uremica

- Malattia di Wilson

- Demenza dialitica

Idrocefalo normoteso

Malattie carenziali

- Sindrome di Korsakoff Wernicke

- Pellagra

- Malattia di Marchiafava Bignami

- Deficit di B12 e folati

- Encefalopatie tossiche da farmaci

Malattie infettive

- Criptococcosi

- Lue

- AIDS

Altre condizioni

- Tumori cerebrali e sindrome paraneoplastiche

- Traumi cranici

- Sclerosi multipla

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- Morbo di Whipple

Psicopatologia delle sindromi demenziali

Il processo demenziale, dopo un inizio più o meno insidioso, evolve nel tempo con diversa progressività. Il quadro

psicopatologico che lo caratterizza, nelle varie fasi del suo decorso, è molto variabile, pur procedendo, nelle fasi più

avanzate, verso una crescente omogeneità sintomatologica. Il DSM-IV TR indica come fondamenti diagnostici per le

demenze «lo sviluppo di molteplici deficit cognitivi, che comprendono compromissione della memoria e almeno una delle

seguenti alterazioni cognitive: afasia, aprassia, agnosia, o un’alterazione del funzionamento esecutivo».

Nella pratica clinica, nelle fasi più precoci della malattia, si assiste ad una progressiva compromissione di tutte le funzioni

psichiche, fino ad una loro completa destrutturazione, nelle fasi più avanzate. Il quadro psicopatologico delle demenze,

nella pratica clinica, è molto più complesso di quanto previsto dai criteri diagnostici DSM IV TR.

1. Alterazione della memoria

L’elemento clinico principale delle demenze è rappresentato dall’alterazione della memoria che si caratterizza, all’inizio,

come una sindrome amnesica. Il paziente ha difficoltà nella rievocazione di nomi, numeri di telefono, avvenimenti, anche

recenti, della vita quotidiana e presenta una riduzione della capacità di memorizzare nuove informazioni. Molto

frequentemente, il paziente, consapevole di queste difficoltà, cerca di compensare il deficit mnesico, ricorrendo a

strategie di controllo esterno, come ordine meticoloso, strumenti di memorizzazione o ad altri ausili, che diventano col

progredire della malattia sempre meno efficienti.

A volte, il paziente minimizza il disturbo mnesico, ci ironizza, lo rende paradossale, al fine di ottenere supporto

dall’interlocutore momentaneo. La progressiva difficoltà nel memorizzare si associa alla perdita dei ricordi, prima di quelli

più recenti e, successivamente, di quelli più lontani nel tempo. Nelle fasi iniziali è presente l’afasia nominum, con la

perdita ingravescente della capacità di denominare correttamente gli oggetti o le persone, con il loro nome specifico, per

cui il paziente fa ricorso alle cosiddette “parole passepartout”, parole generiche (“coso”, “oggetto”...), pronomi indicativi

(“questo”, “quello”...) o complesse perifrasi.

2. Disorientamento nel tempo

Al deficit della memoria si associa il disorientamento nel tempo, nello spazio e rispetto alle persone. Si può avere

disorientamento spaziale, cioè perdita della capacità di riconoscere i luoghi, per cui il demente ha difficoltà, prima a

memorizzare luoghi e percorsi nuovi, poi a riconoscere gli spazi già noti, esterni (la città, il quartiere) ed interni (il bagno,

la cucina, etc.). Il disorientamento topografico sembra conseguire ad almeno due difetti: uno che concerne la

localizzazione degli stimoli del mondo esterno (destra, sinistra, davanti, dietro, etc.) ed uno maggiormente correlato alla

memoria episodica spaziale. Nelle fasi iniziali il demente ha difficoltà a riconoscere luoghi noti, diversi da quelli abituali.

Successivamente non ritrova più la strada di casa e si perde o, addirittura, non riconosce più, come propria, la casa in

cui abita. Non è raro che i dementi si trovino a vagabondare senza meta, senza ricordare il loro nome e/o l’indirizzo di

casa. Non è eccezionale che qualche demente, confuso e disorientato, si perda e venga soccorso dopo molto tempo.

I traslochi, ma anche piccole variazioni dell’ambiente domestico, possono rappresentare un momento scatenante del

disorientamento, inducendo reazioni catastrofiche, per cui il paziente, confuso ed allarmato, raccoglie

approssimativamente le sue cose e cerca di aprire la porta di casa sua, chiedendo di poter “tornare a casa”. A volte i

pazienti dementi si orientano verso l’abitazione, dove hanno vissuto la maggior parte della loro infanzia. Si ritiene che il

cosiddetto “wandering behaviour”, cioè, il vagare senza meta, sia conseguente ad una disfunzione visuo-percettiva, per

interessamento prevalente del lobo parietale di destra.

3. Alterazione del carattere

Le sindromi demenziali, fin dalle fasi più precoci, si presentano con alterazioni del carattere ed un’accentuazione, a volte

esasperata, dei tratti tipici di personalità dei pazienti. Così il soggetto prudente diviene diffidente, il parsimonioso diventa

avaro e il possessivo geloso ed aggressivo. E’ come se si riducesse progressivamente l’azione inibitrice e modulatrice

sui comportamenti, conseguente all’educazione ed alla prima socializzazione. Può succedere anche che il soggetto, in

precedenza rispettoso delle regole di buona convivenza sociale, presenti comportamenti asociali e amorali. In genere, la

personalità del demente sembra grossolana, impoverita e disinibita, a volte in modo caricaturale.

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4. Disturbi del linguaggio

I disturbi del linguaggio meritano particolare attenzione, essendo conseguenti al vario combinarsi dei disturbi della

memoria, dei deficit cognitivi e delle disfasie, propriamente dette. Nei soggetti con buon livello intellettivo e culturale, i

difetti del linguaggio non sono subito evidenti, nelle prime fasi del processo demenziale, perché il paziente, grazie al

buon patrimonio acquisito, in ambito sociale o professionale, mantiene un eloquio fluente. In questi casi, solo un esame

clinico mirato può fare emergere i segni iniziali del disturbo.

Nelle fasi iniziali, talora, si presenta una sorta d’incontinenza ideo-verbale, caratterizzata da superficialità dei contenuti,

incoerenza, riduzione globale del patrimonio verbale, con aumento percentuale dell’uso di parole concrete e riduzione

d’astrazioni e simboli. Il linguaggio s’impoverisce, diventa poco informativo, con diminuzione dei contenuti ideici, che

sono progressivamente più stereotipati e monotoni. Sempre più spesso, anche inopportunamente, vengono usate le

stesse espressioni, i luoghi comuni, con perseverazioni e stereotipie verbali. I nessi logici e sintattici diventano più lassi.

Compaiono le parafasie, prima semantiche con l’uso, cioè, di parole con significato diverso da quello loro proprio (p.es.

“sedia” per intendere “tavolo”) e, poi, fonemiche, con trasposizione di lettere all’interno di una parola (p.es. “stauta” per

“statua”, “mi si allingua l’ambroglia”) e i neologismi. Nel linguaggio del paziente demente i nomi propri ed i sostantivi

vengono dimenticati per primi. I verbi e gli aggettivi sono rievocabili più a lungo. Preposizioni e congiunzioni possono

permanere indefinitamente. Il linguaggio diventa sempre più incoerente, disorganizzato sino a diventare incomprensibile,

con il progredire del quadro demenziale.

Al comparire dei disturbi disfasici, diventano più frequenti le stereotipie verbali e la perseverazione. Compare l’ecolalia,

cioè la ripetizione delle ultime parole udite, la palilalia, cioè la ripetizione accelerata e ripetitiva di parole o sillabe. La

scrittura si arricchisce d’errori grammaticali, con stereotipie e difficoltà semantiche, sintattiche e grafiche, sempre più

grossolane, fino a diventare incomprensibile.

5. Alterazioni dell’umore

Il paziente demente raramente è eutimico. E’ frequente labilità emotiva ed apatia, depressione e disforia, ansia ed

euforia, irritabilità ed iperemotività, con una caratteristica instabilità affettiva. La sintomatologia depressiva è frequente, al

punto che molto spesso i soggetti dementi ricevono una erronea diagnosi di depressione dell’umore, che precede, a

volte d’anni, la diagnosi di demenza.

La depressione maggiore ricorrente sembra presentarsi nel 10-20% dei soggetti dementi. Più raramente, si evidenzia un

disturbo distimico o francamente bipolare. Gli studi condotti per verificare l’incidenza della depressione, nelle diverse

forme di demenza, non hanno fornito risultati univoci. Ai quadri demenziali, caratterizzati da depressione, fanno da

contraltare i quadri depressivi mascherati da demenza, le cosiddette “pseudodemenze”.

La corretta diagnosi differenziale è di fondamentale importanza per le ovvie implicazioni terapeutiche e prognostiche.

Molto frequente è l’atteggiamento ipocondriaco del paziente demente, che vive orientato sulle sue sole funzioni

somatiche. Il paziente lamenta disturbi esasperati e dolori amplificati, talora, sine materia. L’attenzione è spesso

polarizzata sull’apparato gastrointestinale e sulla funzione digestiva nelle sue diverse fasi.

Molti dementi presentano, all’esordio dei sintomi, comportamenti di tipo ossessivo, che sembrano un tentativo più o

meno consapevole di compensare i deficit di memoria con la meticolosità, l’ordine, la rigidità nel rispetto di certe

sequenze fisse, nello svolgimento di determinate attività. Non raro il comportamento compulsivo, talora collezionistico,

caratterizzato dalla continua e incessante raccolta ed accumulo d’oggetti, generalmente irrilevanti e di nessun’utilità,

spesso alimenti, talvolta rifiuti. I tentativi dei familiari di impedire questo “collezionismo” provocano, spesso, reazioni

aggressive e ostili del paziente, e possono diventare il nucleo di un delirio persecutorio di furto.

6. Disturbi dei livelli d’attività

I livelli d’attività possono essere alterati sia con rallentamento, sia con agitazione psicomotoria. E’ frequente, in certe fasi

della malattia, l’affaccendamento inoperoso ed afinalistico, in cui il paziente intraprende diverse attività, in modo

disordinato e frammentario, in rapporto anche alla presenza di aprassie, propriamente dette. Nella malattia di Pick, ma

anche in altre forme di demenza, si può evidenziare la cosiddetta sindrome psichica prefrontale, caratterizzata da

incapacità ad impegnarsi in qualsiasi attività, con aspetti di persistente deficit motivazionale. Il paziente non prova

interesse particolare per niente. Non si sente motivato a “pensare” e si limita, perciò, ad utilizzare schemi di pensiero

elementari, legati strettamente al concreto ed al contingente.

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In questi pazienti, la perdita del patrimonio intellettivo è spesso sopravvalutata. Talvolta, l’irrequietezza motoria può

sfociare in un incremento deambulatorio, con caratteristiche di pseudo-acatisia, che si osserva, soprattutto, nelle fasi

intermedie della malattia. Al contrario, nella fase finale, si può assistere ad una sorta d’arresto psicomotorio, con il

malato allettato e ridotto a livelli di vita vegetativa. La motricità si riduce, in questi casi, a gesti stereotipati, afinalistici,

come il masticare, il grattarsi, lo stropicciare e strappare indumenti e lenzuola. L’attività sessuale solitamente è assente,

ma può accentuarsi, in alcuni casi, in maniera accessuale e incongrua. I rifiuti del partner possono scatenare reazioni

irose ed innescare un delirio di gelosia.

7. Disturbi delle percezioni e del pensiero

Sono relativamente frequenti i disturbi della percezione, secondari ad alterazioni dell’attenzione o dello stato di

coscienza, come le illusioni o i falsi riconoscimenti, oppure disturbi francamente allucinatori. Non sono rari gli stati

deliranti-allucinatori ipnagogici, soprattutto quando il ritmo sonno/veglia è alterato, con l’alternarsi di fasi di assopimento

e di risveglio, per cui frammenti di sogno si mescolano a percezioni reali, sotto forma di allucinazioni complesse. Più

frequenti sono i disturbi del contenuto del pensiero, con sospettosità, idee prevalenti d’influenzamento o vere e proprie

idee deliranti. Questi disturbi sono più rilevanti nelle fasi iniziali della malattia.

A volte la dismnesia alimenta il delirio. Il paziente non ricorda dove ha messo gli oggetti o i soldi, non riesce a trovarli e si

convince di essere stato derubato dai vicini o dai familiari stessi (delirio di furto). Altre volte sono i disturbi percettivi, il

punto di partenza di deliri, solitamente a sfondo persecutorio. Anche il deficit sensoriale (ipoacuità visiva, sordità) o

sociale (isolamento e solitudine) può innescare un delirio di nocumento o di veneficio. Non sono infrequenti i deliri di

gelosia e quelli ipocondriaci.

Nel paziente demente i deliri sono grossolani, frammentari, inverosimili, mai sistematici. A volte il delirio assume una

struttura parafrenica, con idee deliranti fantastiche ed allucinazioni uditive e cenestesiche. In alcuni casi, la

sintomatologia delirante è molto rilevante ed invalidante.

8. Stato di coscienza

Nelle demenze, per definizione, lo stato di coscienza non è alterato. In alcuni casi, comunque, si osservano alterazioni

della coscienza, con torpore, di breve durata, che possono ripetersi con una certa frequenza, al punto di caratterizzare il

sottotipo “con delirium” della demenza. E’ tipico il disturbo di vigilanza, che si presenta all’imbrunire o nella notte, spesso

accompagnato da inversione del ritmo sonno/veglia. Le competenze sociali tendono a ridursi, con crescente limitazione

della vita di relazione e conseguente isolamento. In questi casi, soprattutto all’inizio, si può osservare eccessiva

socievolezza, fatua, superficiale, appiccicosa.

9. Evoluzione sindromica

Nelle demenze irreversibili il quadro psicopatologico evolve sino ad un progressivo impoverimento mentale, che, nello

stadio terminale, costringe i pazienti a letto, ridotti ad una pura vita vegetativa, privi ormai d’ogni comprensione, d’ogni

attività intellettiva e di qualsiasi reazione emotiva. La verbalizzazione si perde. I movimenti sono sempre più afinalistici.

Compare incontinenza sfinterica, disfagia e difficoltà nell’alimentazione e nella reidratazione. La morte sopravviene in

genere per inanizione, per disidratazione o per qualche malattia intercorrente.

Conclusioni Il compito dello psichiatra, nella clinica delle demenze, non si esaurisce nel fare un corretto inquadramento diagnostico

ed un opportuno trattamento clinico. Il suo ambito specifico d’intervento include, infatti, il ricercare ed il riconoscere una

serie di sintomi e segni, più specificamente psicopatologici, relati alla compromissione della vita emotiva, affettiva e di

relazione del paziente, durante tutte le fasi della malattia.

Soprattutto al suo esordio, la sintomatologia demenziale può mimare altri quadri clinici, amotivazionali, più

specificamente psichiatrici. Una corretta diagnosi differenziale può essere preziosa, in questa fase. Il grado

d’invalidazione sociale del paziente va attentamente valutato, per i variabili effetti sulla sfera psico-socio-relazionale, che

possono conseguire al deficit cognitivo. Un paziente può presentare, infatti, gravi deficit alle prove psicometriche,

mantenendo un funzionamento sufficientemente adeguato nell’ambito familiare o, addirittura, lavorativo.

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Al contrario, può non presentare difficoltà nella valutazione neuropsicologica o nell’amministrazione del danaro, ma

entrare in confusione e non riuscire ad orientarsi, in una situazione ambientale o sociale nuova. Un ulteriore compito

dello psichiatra è proporre una valutazione comprensiva, clinica e psicosociale, che consenta di evidenziare, oltre ai

deficit, anche le potenzialità residue, dell’individuo e del contesto familiare e microsociale di riferimento. Una tale

valutazione delle risorse disponibili è indispensabile se si considera la grave carenza di presidi terapeutici disponibili ed

efficaci.

E’ indispensabile, soprattutto nelle fasi avanzate del processo demenziale, che siano attivati tutti i supporti psicosociali

disponibili al fine di migliorare la qualità della vita dei pazienti e di ritardarne al massimo l’istituziona-lizzazione. Va,

inoltre, tenuta, nel giusto rilievo, la qualità della vita dei care givers, che dell’assistenza al paziente demente s i fanno

carico. È importante, infatti, fornire ai familiari o a chi si occupa dell’assistenza diretta e quotidiana del paziente demente,

ogni supporto che renda questo compito meno gravoso, per prevenire ogni aspetto dell’altrimenti inevitabile burnout.

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