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Università degli Studi di Torino Dipartimento di Studi Umanistici Corso di Laurea in Culture e Letterature del mondo moderno DISSERTAZIONE FINALE Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche CANDIDATO RELATORE Daiana Cauteruccio Davide Dalmas a.a. 2012/2013 1
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Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

Mar 16, 2023

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Page 1: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

Università degli Studi di Torino

Dipartimento di Studi UmanisticiCorso di Laurea in Culture e Letterature del mondo moderno

DISSERTAZIONE FINALE

Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio:analogie tematiche e stilistiche

CANDIDATO RELATORE Daiana Cauteruccio Davide Dalmas

a.a. 2012/2013

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Page 2: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

INDICE

INTRODUZIONE.......................................................................................................3

CAPITOLO 1: Riprese tematiche, strutturali e intertestuali.....................................10

CAPITOLO 2: Le Metamorfosi e due novelle del Decameron1. La Fortuna come elemento strutturale....................................................................472. Decameron II, 9......................................................................................................513. Decameron II, 7......................................................................................................61 CAPITOLO 3: Psiche e le eroine del Decameron1. La decima giornata e la novella di Griselda............................................................742. La fabula di Amore e Psiche: tra mito e allegoria..................................................833. Eroine a confronto...................................................................................................90

BIBLIOGRAFIA....................................................................................................100

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INTRODUZIONE

In questo progetto si è voluto approfondire il rapporto che lega le Metamorfosi di

Apuleio al Decameron di Giovanni Boccaccio.

L'idea è sicuramente nata dalla riflessione sulla straordinaria influenza che questi

autori hanno avuto e continuano ad avere, non solo sul piano della critica letteraria,

ma anche a un livello didattico più circoscritto alle scuole di secondo grado: ogni

studente è affascinato dalla attualità tematica e stilistica delle due opere. Oltre a una

facilità di lettura rispetto ad autori, a loro contemporanei ma molto più criptici e forse

per questo meno amati dagli studenti, infatti, possiamo notare come i temi ricorrenti

in questi due testi costituiscano ancora oggi la quotidianità umana (l'eros, la sorte,

l'etica). Boccaccio e Apuleio hanno cioè saputo entrare con semplicità nella cultura di

ognuno, scavando negli aspetti più profondi dell'animo umano.

In secondo luogo, si è voluto approfondire un aspetto che dalla critica letteraria è

per lo più sottovalutato, in quanto l'accento è stato spesso maggiormente posto sul

Decameron come opera medievale piuttosto che sulla emulazione dei classici che il

Boccaccio vi compie. A smentire la tesi di un Boccaccio quasi esclusivamente

medievale vi sono lavori come quello del professor Gianfranco Gianotti1 nel quale

viene riportata la maggioranza delle ricorrenze da un'opera all'altra, e grazie al quale

possiamo renderci conto di quanto esse siano numericamente estese e quanto

grandemente lo scrittore latino abbia influenzato quello medievale.

Il maggiore studioso del Boccaccio, Vittore Branca, nell'opera Boccaccio

medievale da lui riveduta e corretta a più riprese, sosteneva che «nella materia quanto

mai vasta e complessa del Decameron il mondo classico è poco meno che assente»,2

ma individuava le uniche eccezioni negli intrecci delle novelle V, 10 e VII, 2, che a

suo dire «discendono del resto proprio da uno scrittore latino, Apuleio, che la cultura

medievale sentì quasi come un suo precursore», essendo egli «l'unico autore della

letteratura greca e latina che, proprio come il Boccaccio, avesse prestato orecchio

alle narrazioni del popolo e le avesse ritenute degne di una consacrazione letteraria».3

1 Gianfranco Gianotti, Da Montecassino a Firenze. La riscoperta di Apuleio, in C. Allasia (a cura di), Il Decameron nella letteratura europea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. 9-46.

2 Vittore Branca, Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron, Firenze, Sansoni, 19963, p. 10.3 Ibidem, p. 11.

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Il Boccaccio, sebbene come sostenuto dal Branca abbia attinto moltissimo da fonti

medievali e in particolare dai generi popolari (fabliaux e cantari in primis), si è

sicuramente basato anche sull'antichità classica e su Apuleio; lo dimostrano le

numerose ricorrenze, sia contenutistiche sia stilistiche, presenti nel Decameron.

La fama di Apuleio si affermò duratura, ma in modo contrastante e ambiguo, negli

autori successivi, riflettendo la sua influenza l'alternanza dei periodi storici: egli fu

visto (e lo è tuttora) come mago, come autore pagano e profano o apprezzato allorché

considerato come filosofo, oratore o scrittore e inventore delle Metamorfosi, simbolo

di un paganesimo declinante o autore profano da combattere per il cristianesimo.4

Sant'Agostino, seppure fosse un autore cristiano e per parte sua volesse confutare

le teorie apuleiane sui demoni e sulla magia, forse a causa della propria formazione

pagana, non critica apertamente Apuleio, anzi mostra invece di conoscere

approfonditamente il De Magia, il De Deo Socratis e soprattutto le Metamorfosi, da

lui denominate Asinus Aureus.5

Soltanto appena placato il fuoco del primo cristianesimo, Apuleio passerà sotto

una critica meramente letteraria e non più dottrinale. Nel V secolo, dopo la revisione

del testo dei Metamorphoseon libri a opera del grammatico Sallustio, Fulgenzio

Planciade compie un riassunto della fabella di Amore e Psiche nella Mitologia,

fornendone una interpretazione in chiave allegorica. Ma in seguito l'opera scomparve

dalla scena, per poi apparire nell'esemplare montecassinese vergato in beneventano

nel secolo XI (F), momento a partire dal quale lo scrittore di Madauro venne

considerato come il mago autore della teoria dei demoni e dei miracoli, sia dai

cristiani, sia dai pagani, in quanto autore del romanzo milesio e come filosofo e

retore.6

Il Petrarca si mostra amatore delle opere apuleiane, non soltanto di quella

principale, ma anche del De Magia e del De Deo Socratis, e lo elogia per aver

4 Si veda, a proposito, l'invettiva di Tertulliano contro maghi e astrologi nel Corpus Christianorum, IX.

5 «Sic Apuleius in libris asini aurei sibi accidisse scripsit», De Civitate Dei, XVIII, 19.6 Cfr., in generale, Adriano Pennacini, Apuleio letterato, filosofo e mago, Bologna, Pitagora, 1979.

Sulla fortuna di Apuleio cfr. Keith Bradley, Apuleiana, in «Phoenix», vol. LXII, n. 3-4, 2008, pp. 363-378; sulla fortuna delle Metamorphoses più nello specifico, cfr. Robert Carver, The Protean Ass. The Metamorphoses of Apuleius from Antiquity to the Renaissance, Oxford, Oxford University Press, 2007 e Jiulia Gaisser Haigh, The fortunes of Apuleius and the golden Ass. A study in transmission and reception, Princeton-Oxford, Princeton university press, 2008.

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diffuso la dottrina platonica. Egli possiede un codice romanzo, il Vaticano 2193, e

mostra più volte di conoscerlo (Fam. I, 1, 12; I, 4, 4; I, 10, 3; IX, 13, 27; XX, 1, 12).

Ma è con il Boccaccio che il Madaurense risorge davvero come narratore delle

Metamorfosi: l'imitazione apuleiana raggiunge il suo apice proprio con il Certaldese,

che con abile tecnica lo riprende in più di un'opera: si verificherà da Boccaccio in poi

la propulsione a considerare Apuleio non più solo come filosofo platonico ma come

autore delle Metamorfosi. La ripresa allegorica della favola di Amore e Psiche nel De

genealogiis può offrire una visione di quanto questo testo fosse conosciuto e

ammirato dal Boccaccio (esso è in effetti il tratto maggiormente chiosato di tutto il

manoscritto apuleiano), mentre nel Decameron l'influenza è resa ancora più forte, sia

sotto forma di allusione, sia come vera e propria emulazione, non solo della lepida

fabula, ma di tutta l'opera che la contiene.

Sappiamo che il Boccaccio conobbe direttamente le opere di Apuleio tramite il

codice Laurenziano 54.32, siglato L1, autografo dello stesso Boccaccio e privo o

quasi di note che testimonino uno studio più approfondito che in precedenza dello

stesso Boccaccio, che ebbe in uso anche lo stesso F (il Laur. 68.2 o Mediceus II),7 in

scrittura beneventana tarda, del tardo XI secolo (1075 circa), contenente sia le tre

opere principali di Apuleio, sia alcuni libri di Tacito, che egli avrebbe letto e

postillato di proprio pugno.8 Sul codice Laurentianus Pluteus 42.1, manoscritto

contenente il Decameron e il Corbaccio, siglato Mn e risalente al 1384, vi sono

inoltre postille con citazioni e rinvii ad Apuleio a opera di Francesco d'Amaretto

Mannelli.

Il primo manoscritto passato tra le mani del Boccaccio è da considerarsi il

7 Sulla questione del "furto" dei codici apuleiani cassinesi e del loro trasferimento in area beneventana si veda la tesi di Sabbadini, che ne attribuiva la colpa al Boccaccio, e la confutazione di Billanovich.

Giuseppe Billanovich, Restauri Boccacceschi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1945.Remigio Sabbadini, Le scoperte dei codici greci e latini ne' secoli XIV e XV, E. Garin (a cura di), Sansoni, Firenze, 1967.Id., L'altro stil nuovo. Da Dante teologo a Petrarca teologo, in «Studi petrarcheschi», XI, 1994, pp. 1-98.

8 Secondo Billanovich, Vio e Casamassima, il testo di F (così come quello di φ) sarebbe stato invece postillato da Zanobi da Strada, allora vicario del vescovo Acciaioli e primo maestro di latino del Boccaccio, a Montecassino, dove peraltro il Boccaccio utilizzò il manoscritto in questione soltanto per quel che riguarda Tacito, avendo già letto Apuleio sugli altri codici. La tesi avversa è invece sostenuta da Pecere e Gianotti.

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Laurenziano 29. 2 (φ) del tardo XIII secolo, sempre in scrittura beneventana, che è

da ritenersi quasi certamente una copia del testo utilizzato dal grammatico Sallustio

almeno settecento anni prima: possiamo perciò dire che il Boccaccio aveva letto le

Metamorfosi ancora prima di lasciare Napoli, come dimostrano i vocaboli rari

tradotti sicuramente da Apuleio nelle epistole del 1339 (I, II, III), conservate nello

Zibaldone (Laur. 29. 8): centusculus, gurgustiolum, antelucio, sepicule, le espressioni

larvale sumulacrum ed, emblematicamente, stilus desultorius. Abbiamo numerose

testimonianze testuali esplicite non solo nel Decameron (le già citate novelle VII, 2 e

V, 10), ma anche nella ripresa della lepida fabula di Amore e Psiche nella redazione

originaria del De genealogiis deorum gentilium.

Dunque, un Boccaccio trascrittore delle Metamorfosi, un autore che, come

Petrarca a proposito di autori quali Virgilio, Orazio, Boezio e Cicerone, ha assimilato

a fondo l'opera di Apuleio, al punto da servirsene anche inconsapevolmente. Allo

stesso scriveva il Petrarca, nella epistola denominata de imitandi lege, datata al 1359:

Legi apud Virgilium apud Flaccum apud Severinum apud Tullium; nec

semel legi sed milies, nec cucurri sed incubui, et totis ingenii nisibus

immoratus sum; mane comedi quod sero digerem, hausi puer quod

senior ruminare. Hec se michi tam familiariter ingessere et non modo

memorie sed medullis afflixa sunt unumque cum ingenio facta sunt

meo, ut etsi per omnem vitam amplius non legantur, ipsa quidem

hereant, actis in intima animi parte radicibus.9

In questo modo l'imitazione dovrebbe essere considerata, secondo il Petrarca,

come non voluta, e l'autore si salverebbe da quella accusa di furto sempre

incombente per mezzo delle critiche dei contemporanei. Parleremo allora di

emulazione, ossia di una imitazione che, come scrisse Marziano Guglielminetti, «non

pretende l'originalità assoluta, ma relativa»,10 a partire quindi dalla irrinunciabile

9 «Ho letto Virgilio, Orazio, Boezio, Cicerone, non una volta ma mille, né li ho scorsi ma meditati con gran cura; li divorai la mattina per digerirli la sera, li inghiottii da giovane per ruminarli da vecchio. Ed essi entrarono in me con tanta familiarità, e non solo nella memoria ma nel sangue siffattamente mi penetrarono e s'immedesimarono col mio ingegno, che se anche in avvenire più non li leggessi, resterebbero in me, avendo gettato le radici nella parte più intima dell'anima mia» (Petrarca, Familiares, XX, 2, trad. it. di Enrico Bianchi).

10 Marziano Guglielminetti, La tecnica dell'allusione, in Lo spazio letterario di Roma antica. IV. L'attualizzazione del testo diretta da G. Cavallo, P. Fedeli e A. Giardina, Roma, Salerno Editrice, 1991, p. 12.

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lettura dei classici che fa parte della formazione dell'autore. Il rapporto che lega

Boccaccio ad Apuleio sarà perciò fondamentale nel percorso formativo del

Boccaccio, e dovrà per certi versi essere inteso come la chiave di volta che rende

l'autore medievale uno dei più arguti lettori e scopritori di classici di tutti i tempi.11

L'altro filo rosso che collega, sebbene più indirettamente, il Decameron alle

Metamorfosi è l'importanza della parola, sia come caratteristica principale dell'essere

umano (che perciò Lucio perde non appena viene trasformato in asino e Alatiel non

appena si abbandona agli uomini in qualità di oggetto12), sia come puro piacere del

raccontare.

Ma il legame tra il Decameron e le Metamorfosi è da riscontrare soprattutto nella

struttura generale delle due opere, che gli autori stessi definiscono unitariamente

(papyrum e Libro, entrambi i termini appaiono tra le primissime parole dei Proemi)

e che al medesimo tempo essi frammentano nel ricorso alle novelle. Queste ultime

sono in entrambi i casi legate l'una all'altra tramite la cornice, elemento fondante

costruito sul processo di salvificazione: nelle Metamorfosi Lucio compie un percorso

simbolico e reale al contempo, dalla curiositas profana per la magia che lo porta

all'orrenda metamorfosi in asino, alla sacra iniziazione ai culti egiziani, nel

Decameron la brigata fugge dall'«orrido cominciamento», quello cioè della peste che

li priva di una società fondata su valori civili, per ritrovare uno stato di concordia e

riportarlo poi a Firenze.

In Boccaccio però la brigata rinuncia fin dalla sua prima costituzione allo schema

della metamorfosi: essa rimane ciò che è e rappresenta, ossia un modello etico e

civile di regolatezza e ordine, dal principio alla fine, in contrasto con l'imbestiamento

del genere umano (e la razionalizzazione delle bestie) di fronte al morbo pestifero,13

che è accostabile all'imbestiamento di Lucio, che però, nonostante la forma asinina

continua a serbare un intelletto tutt'altro che bestiale. Anche il protagonista delle

Metamorfosi però, sebbene il suo destino muti a seconda della Fortuna, mantiene la

11 Cfr Emanuele Casamassima, Dentro lo scrittoio del Boccaccio. I codici della tradizione, in A. Rossi, Il Decameron. Pratiche testuali e interpretative, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 253-60.

12 Sebbene Alatiel non debba essere intesa come un oggetto sessuale, ma più, come vedremo, come un oggetto puramente di possesso.

13 Cfr., su questo argomento, Luigi Surdich, Il «Decameron». La cornice e altri luoghi dell'ideologia del Boccaccio, in Id., La cornice di Amore. Studi sul Boccaccio, Pisa, Ets Editrice, 1987, pp. 225-283.

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propria personalità, vedendo infine cambiate soltanto le proprie aspirazioni

dall'interesse iniziale per la magia che lo conduce in Tessaglia, alla professione finale

dell'avvocatura e all'accostamento al culto isiaco che lo porta invece a Roma.

Ciò che unisce soprattutto le due opere sono le novelle, raccontate da personaggi

che si pongono non solo come produttori ma anche come fruitori e pubblico delle

narrazioni medesime, inscrivibili in un campo comunicativo nel quale, specialmente

nel Decameron, bisogna indagare la loro verità e fruibilità sul piano etico-morale.

Allo stesso tempo, dato che le novelle sono filtrate attraverso i personaggi, agli autori

è consentita la massima apertura e spregiudicatezza nei contenuti, che spesso sono

avviati in contrasto con la morale comune (erotismo più spinto, adulterio, magia

nera, criminosità estrema).

Proprio la spregiudicatezza presente in ambedue le opere è ciò che le pone in

contrasto con le correnti letterarie coeve. Infatti, nel Decameron, e già prima di esso

in un'opera quale, ad esempio, il De mulieribus claris, acquistano grandissima

importanza le figure femminili come protagoniste ma anche e soprattutto come

dedicatarie dell'opera, che appare quasi come filo-femminista e di fatto lo diventa nel

narrare di personaggi quali Ghismonda o Zinevra, o Alatiel o Griselda. Non a caso,

infatti, tra le prime a prendere a modello o a tradurre il Decameron e più in generale

l'opera boccacciana in Francia saranno proprio le autrici femminili del Rinascimento:

Christine de Pizan, Margherita de Cambis, Anne Malet de Graville, Marguerite de

Navarre, Helisenne de Crenne.14

Per quanto uno studioso come il Branca abbia definito l'opera boccacciana come

una «epopea de' mercatanti»,15 a mio parere il Decameron potrebbe essere

considerato tanto una «epopea delle donne», quanto una «epopea dei funestati

dall'Amore e dalla Fortuna», così come lo sono, almeno in parte, le Metamorfosi,

almeno per quanto riguarda l'aspetto della Fortuna. E ancor di più le due opere

possono essere definite come epopee dell'essere umano in tutte le sue Nature.

14 Per una rassegna più approfondita, cfr. Janet Levarie Smarr, Boccaccio and Renaissance women, in «Studi sul Boccaccio», XX, 1991-1992, pp. 279- 294. Per un quadro della tradizione francese del Decameron, cfr. Gisèle Mathieu-Castellani, Le Decameron et la litterature française. Le modèle et ses variations: du Decameorn à l'Heptametron, in Il Decameron nella letteratura europea, cit., pp. 141-166.

15 Vittore Branca, Boccaccio medievale, cit., pp. 134-164.

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Nel secondo e nel terzo capitolo ho voluto scandire la struttura sulla base dei temi

che maggiormente accomunano le due opere: la Fortuna e la presenza femminile, che

nelle Metamorfosi è più che altro posta in risalto nella fabula di Amore e Psiche e

nella caratterizzazione forte delle donne che appaiono in tutto il corso dell'opera (le

adultere, la vecchia padrona, Fotide, le streghe ecc.).

Nel primo capitolo, introduttivo e piuttosto generale, vengono analizzate le

affinità nella cornice delle due opere e soprattutto viene messa in luce la somiglianza

per quel che riguarda lo scopo finale, con incidenza in particolare sui due proemi,

sulla cornice e sulla storia in essa contenuta. Nella seconda parte vengono riportate le

ricorrenze tematiche e le riprese vere e proprie da un'opera all'altra, con particolare

attenzione alla decima novella della quinta giornata, alla seconda della settima

giornata; viene evidenziata l'importanza della tematica amorosa.

Nella prima parte del secondo capitolo viene presa in esame la tematica della

Fortuna, che assume rilevanza fondamentale in tutti i livelli narrativi delle

Metamorfosi e che nel Decameron diventa elemento significativo soprattutto (ma non

solo) nelle novelle della seconda giornata. Nella seconda e nella terza parte di questo

capitolo vengono poi confrontate, rispettivamente, la nona novella della seconda

giornata con il passo in cui viene descritto il supplizio del miele inflitto a uno schiavo

adultero in Metamorfosi VII, 22, e la settima novella della medesima giornata con la

cornice delle Metamorfosi stesse. Entrambe le eroine delle due novelle vengono

quindi comparate con Lucio, sulla base del loro carattere e del loro modo di reagire

al peccato che la Fortuna infligge loro.

Nel terzo capitolo si è voluto infine effettuare un confronto tra Psiche, Zinevra,

Alatiel e Griselda, analizzando dapprima la fondamentale importanza che questa

novella e la sua protagonista, attraverso l'analisi sulla virtù in esse compiuto,

occupano all'interno del Decameron. Nella seconda parte di questo capitolo

presentata la fabula di Amore e Psiche, occupante anch'essa, per dimensioni ma

anche per la ripresa in piccolo della tematica della cornice, un posto importantissimo

all'interno dell'opera, e interpretata spesso in chiave allegorica. Nella terza parte

avviene infine il confronto vero e proprio tra le eroine, sia a livello caratteriale, sia

sul piano della caratterizzazione sociale ed estetica che ne fanno gli autori.

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I: APULEIO E BOCCACCIO

Riprese tematiche, strutturali e intertestuali

L'emulazione boccacciana di Apuleio si fonda principalmente sulla profonda

ammirazione del Boccaccio per il Madaurense, che rende quest'ultimo una

autorevolissima fonte, con la quale si riscontrano affinità tonali, strutturali, funzionali

e stilistiche notevoli.

Anche ad una prima occhiata alla impostazione generale dei due testi, possiamo

notare analogie piuttosto forti: la cornice, ossia il "racconto di racconti", l'argomento

licenzioso e a tratti fortemente erotico (l'aggettivo "boccaccesco" si imporrà nei

secoli appunto per indicare questo tipo di contenuto) e alcuni schemi di

rovesciamento o scioglimento della narrazione comuni alle due opere.

Come scrive Picone16 riprendendo una definizione di Wellek e Warren, la cornice

è da considerarsi come la connessione tra aneddoto e romanzo, ciò che conferisce

unità all'opera a partire dai vari frammenti rappresentati dai racconti e permette di

motivare la narrazione di questi ultimi. Essa infine è il luogo in cui primariamente ed

esplicitamente si impongono la presenza e la bravura dell'autore, che si assume così

la piena responsabilità anche dei frammenti posti al suo interno.

Possiamo quindi affermare che la cornice, fungendo da contesto sia storico sia

pragmatico, funge da spazio di avvio alle vicende dell'opera e allo stesso tempo da

chiave di lettura per una possibile interpretazione generale dell'opera. Essa fa da

sfondo ad almeno tre livelli della narrazione: quello dell'autore che vi si pone al

centro (livello extradiegetico), quello dei narratori (livello intradiegetico) e quello dei

personaggi (livello diegetico),17 distinti strutturalmente dall'alternanza di scritto

(l'autore) e orale (i narratori), o ancora di azione (personaggi) e racconto (narratori),

tutti con il medesimo messaggio e sempre equilibrati da una forza opposta di pari

importanza (l'autore e i lettori, il narratore e gli altri nove della brigata che

ascoltano). I personaggi agiscono e interagiscono tra loro soltanto nello spazio in cui

16 Michelangelo Picone, Tre tipi di cornice novellistica. Modelli orientali e tradizione narrativa medievale, in «Filologia e critica», XIII, 1988.

17 Ma Picone ne individua quattro, aggiungendo a questi tre anche il piano dei personaggi-narratori, definito come «livello metadiegetico». Cfr Michelangelo Picone, Boccaccio e la codificazione della novella. Letture del «Decameron», N. Coderey, C. Genswein, R. Pittorino (a cura di), Ravenna, Longo, 2008, p. 29 e sgg.

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sono posti dal narratore in questione, e alcuni di essi, essendo «ben parlanti» possono

farsi portatori anch'essi di un messaggio da indirizzare ad altri personaggi, ma

sempre e comunque all'interno della storia.

Si possono riscontrare analogie tra i due proemi, in ciascuno dei quali l'autore si

rivolge come da consuetudine al proprio pubblico per giustificare l'opera e ottenere la

sua benevolenza.

Leggiamo infatti nel prologo delle Metamorfosi:

At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram,18 auresque

tuas benivolas lepido sussurro permulceam, modo si papyrum

Aegyptiam argutia nilotici calami inscriptam non spreveris inspicere,

figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et in se

rursum mutuo nexu refectas ut mireris.19

Exordior. -Quis ille?

Paucis accipe. Hymettos attica et Isthmos ephyrea et Taenaros

spartiaca, glebae felices aeternum libris felicioribus conditae, mea

vetus prosapia est, ibi linguam attidem primis pueritiae stipendiis

merui.

Mox, in urbe latia advena, studiorum Quiritum indigenum sermonem

aerumnabili labore nullo magistro praecunte adgressus excolui.

En ecce praefamur veniam, si quid exotici ac forensis sermonis rudis

locutor offendero. Iame equidem ipsa vocis immutatio desultoriae20

18 Ricorre in questa espressione il mito di Aracne, narrato precedentemente da Virgilio nelle Georgiche e da Ovidio nelle Metamorfosi, e in seguito da Dante (Inf., XVII e Purg., XII) e da Boccaccio stesso nel De mulieribus claris.

19 Vi furono non pochi problemi per gli storici della letteratura nell'identificazione del vero autore della versione originale della storia: la storia dell'uomo tramutato in asino per errore, che conserva però sensibilità e intelligenza umane, e che incorre poi in una serie cospicua di avventure, è infatti stata narrata più volte in greco. Apuleio vi aggiunge alcuni episodi, un buon numero di novelle, e soprattutto un nuovo finale (XI), con l'iniziazione di Lucio al culto di Iside, una volta tornato umano.

Possediamo una sola versione greca della storia, tramandataci sotto il nome di Luciano di Samòstata, ma Fozio, nel secolo IX d. C., segnala di aver letto le Metamorfosi di Lucio di Patre e aggiunge che a suo parere l'opera dello pseudo-Luciano deriva per riduzione dalle avventure del Lucio di Parte (ma non sappiamo neppure se Lucio sia anche il nome dell'autore o solo quello del protagonista). Pare comunque che Apuleio abbia attinto da una fonte comune allo pseudo-Luciano.

20 Certamente al Boccaccio non era ignota l'origine del termine, dal momento in cui, nell'epistola I, riprende il il termine accostandolo al proprio «rude desultorium eloquium», rendendoci così partecipi, fin dall'inizio, della propria identificazione con il Madaurense. L'espressione era inoltre utilizzata per indicare l'incostanza in amore (cfr. Ovidio, Amores, I, 3) e l'atto sessuale in sé, come anche avviene nel Decameron, dove la metafora è ripresa più volte.

11

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scientiae stilo quem accessimus respondet, Fabulas Graecanicam

incipimus, Lector intende: Laetaberis.21

Questo brano ci informa sull'argomento, sul genere e sul linguaggio in cui l'autore,

attraverso la voce del protagonista, intende cimentarsi: il racconto di racconti, la

fabula Milesia22 nella quale, con un linguaggio semplice e accostabile al sermo,

Lucio narra la propria metamorfosi e il ritorno all'identità originaria, narrando cioè i

fatti che si intrecciano sul destino di un giovane curioso e assetato di prodigi.

Attraverso il collegamento con il genere milesio, l'autore si riferisce a un genere che

rende l'opera un raggruppamento di novelle tenute insieme dalla presenza del

narratore:23 la sua presenza è fortissima, come si riscontra da quel ego iniziale e

dall'intermedia descrizione delle proprie origini, che finge di rispondere ad una

domanda del lettore e instaura così con quest'ultimo un rapporto assolutamente

particolare e cordiale, rimarcato dalla finale promessa di quel laetaberis.

Ego è il soggetto di tutti i verbi, anch'essi in prima persona (conseram,

permulceam, exordior, merui, excolui), sostituita poi dalla prima persona plurale, ad

indicare la solenne sovrapposizione-unione del narratore all'individuo, che si

interrompe brevemente con il riaffiorare dell'individuo con offendero, per poi

rimanere per tutto il proemio. La narrazione si svolgerà poi tutta in prima persona, ad

indicare che scrittore e protagonista saranno unificati inscindibilmente, fino al libro

XI, quando Lucio corinzio, narratore e protagonista della vicenda, diventa Lucio di

Madauro scrittore.

Come di consueto, l'autore si cimenta in una captatio benevolentiae nei confronti

del pubblico e determina lo scopo principale della sua opera: il diletto e il piacere

provocati dalla materia narrata attraverso il sussurro faceto. Ricorrono espressioni

riferite maggiormente all'atto del parlare piuttosto che a quello dello scrivere

21 Apuleio, Metamorfosi. L'Asino d'oro, a cura di Marina Cavalli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1989, p. 4.

22 Genere che ha inizio con Aristide di Mileto, del quale non possediamo alcun dato biografico, ma che possiamo collocare nel periodo a cavallo tra il II e il I secolo a.C., datando la sua opera tra il 126 e il 90 a. C. Pur non essendoci pervenuta l'opera originale, sappiamo che nella cultura romana essa ebbe una particolare fortuna, come d'altronde testimoniano le opere di Petronio, Apuleio e Ovidio.

23 In tutto vi sono venti novelle inserite, mentre sono centinaia quelle intrecciate, per cui spesso risulta faticoso scinderle dal racconto principale, motivate come sono soltanto dalla curiosità del protagonista, che anche essendo trasformato in asino si consola con il fatto di avere orecchie lunghe e quindi udito finissimo.

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(sermone, sussurro, exordior, rudis locutor, vocis immutatio), a indicare una

narrazione quasi istantanea: una viva voce rivolta al vivo orecchio dell'ascoltatore.

Apuleio esprime al meglio, in questo senso, la connessione tra l'atto del narrare e

quello dell'ascoltare, nella quale il ruolo del pubblico risulta imprescindibile e la

relazione tra le due parti risulta vitale: l'una non può esistere senza l'altra.

Di certo questa viva presenza dell'autore colpì il Boccaccio, al punto da

avvalersene nel proemio generale del Decameron:

Umana cosa è aver compassione degli afflitti:24 e come che a ciascuna

persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già

hanno di conforto avuto mestiere hannol trovato in alcuni; fra' quali,

se mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono

uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovinezza infino a questo

tempo oltre modo essendo acceso stato d'altissimo e nobile amore,

forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe,

narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano

e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato,

nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per

crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente

concetto da poco regolato appetito.25

Le espressioni correlate alla prima persona singolare ricorrono in tutto il proemio,

fino ad arrivare alla definitiva dichiarazione programmatica posta nel finale:

Adunque, acciò che in parte per me s'amendi il peccato della fortuna,

la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne

veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di

quelle che amano, per ciò che all'altre è assai l'ago e '1 fuso e

l'arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o

istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta

brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della

passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne

cantate al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d'amore

24 L'espressione sembra riprendere una locuzione della Historia destructionis Troiae (VII) di Guido delle Colonne, pronunciate da Elena nei confronti di Paride appena dopo che questi ha compiuto il rapimento: «cum afflictis compati humanitas suggerat et diis placeant pietates humanes».

25 Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Amedeo Quondam, Maurizio Fiorilla e Giancarlo Alfano, Milano, Rizzoli, 2013, Proemio, 2-3, pp. 127-128.

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e altri fortunati avvenimenti26 si vederanno così ne' moderni tempi

avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste

leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle

mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno

cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare:

le quali cose senza passamento di noia non credo che possano

intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne

rendano grazie, il quale liberandomi da' suoi legami m'ha conceduto il

potere attendere a' lor piaceri.27

Anche qui la presenza autoriale è notevole e viene definito un inscindibile

rapporto autore-pubblico. L'autore, in quanto «titolare di autorità» e della «creazione

autoriale»,28 si pone così al centro del sistema comunicativo come protagonista

principale del proprio racconto, sebbene nel Decamerone la narrazione delle novelle

sia tutta affidata ai dieci giovani. Egli si presenta così come il protagonista assoluto

della cornice, che interviene di volta in volta personalmente tra una giornata e

un'altra, introducendo e concludendo, per mettere poi in scena i narratori, assoluti

padroni dello spazio durante le giornate.

La performatività di quell'intendo è dunque fondamentale e insormontabile, il

progetto annunciato attraverso di esso è preciso e selettivo: cento novelle, non una di

più (se si eccettua la novella di Filippo Balducci che il Boccaccio stesso riporta come

esempio nell'Introduzione alla quarta giornata, § 12-29) non una di meno, raccontate

da dieci giovani in dieci giornate. Come in Apuleio, il sistema verbale fa capo all'atto

locutorio più che all'atto dello scrivere, in quanto l'atto locutivo sarebbe il mezzo

senza il quale la cornice e le novelle non esisterebbero. Il narratore del Decameron

non si fonde, come invece accadeva in Apuleio, con uno dei personaggi: egli si crea

da sé il limite entro il quale intervenire in modo esplicito, ossia la cornice.

Solo nell'Introduzione alla prima giornata il narratore diventa scrittore «quasi di

necessità constretto a scriverle»,29 condotto da quell'orrido cominciamento mortifero

della peste fiorentina del 1348. Il ruolo di scrittore viene ribadito con ancora più

26 Proprio l'eros e la sorte sono, come vedremo, i temi chiave del parallelismo tra Apuleio e Boccaccio.

27 Dec., § 13-15, pp. 131-132.28 Amedeo Quondam, Introduzione, in Giovanni Boccaccio, Decameron, cit., p. 10. 29 Dec., I, Introduzione, § 7, p. 164.

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enfasi nell'introduzione alla quarta giornata, in cui l'autore rivendica se stesso come

scrittore del libro:

[le novelle] non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per

me e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto più

si possono.30

Lo scopo e il mezzo sono i medesimi che in Apuleio: il divertire attraverso il

racconto di novelle, inserite in una cornice nella quale esse sono raccontate da

giovani che a loro volta sono personaggi del racconto. Per Apuleio è l'idea del

blandire il benevolo orecchio dell'ascoltatore, di divertirlo e offrirgli sollievo (I, 2) e

conforto (IV, 27), come d'altronde ci dimostrerebbe la volontà della vecchia serva dei

briganti, che per consolare Carite, narra la fabella di Amore e Psiche. In fondo, anche

Carite sembra inserirsi bene tra la folla di «dilicate donne» davanti allo scranno del

compassionevole scrittore del Decamerone.

L'intenzione dell'autore-narratore si lega così strettamente alla cornice, di cui

Picone31 distingue tre categorie:

1. La cornice che ha lo scopo di rinviare una azione (come ad esempio si

verifica nelle Mille e una notte);

2. La cornice che unisce racconti esemplari per dimostrare una certa idea (è il

casi del Panchatantra);

3. La cornice che racchiude e accorda racconti tra loro per alleviare la noia di

un viaggio o intervallare le tappe (come avviene nei Canterbury Tales di

Chaucer).

Al secondo tipo potremmo associare la cornice delle singole giornate, dove i

narratori, dopo aver trovato il locus amoenus idoneo, iniziano a raccontare intorno al

tema che il Re o la Regina di turno ha imposto loro; al primo tipo, invece, potremmo

inserire la cornice storica da cui i protagonisti del Decameron fuggono, mentre al

terzo tipo la motivazione per cui loro stessi decidono di intavolare il gioco

dell'alternanza dei racconti, per evitare cioè la noia e per trascorrere il tempo in pace

e armonia.

Il Boccaccio salda, diversamente da Apuleio, le sue novelle in una cornice

30 Dec., Introduzione, IV, § 3, p. 686.31 Michelangelo, Picone, Tre tipi di cornice novellistica, cit., p. 11.

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intenzionale oltre che esemplare. Tra i due erano infatti intercorsi secoli

(specialmente in quelli più prossimi al Boccaccio) in cui la concezione della cornice

era profondamente mutata: da elemento implicito e mai emergente dalla narrazione,

esistente soltanto grazie al patto sigillato tra autore e lettore e mai dal primo di questi

due giustificata attraverso fatti reali o storici, a elemento separato dai racconti interni,

necessariamente giustificato. In Apuleio non troviamo infatti una contestualizzazione

esplicita della cornice, mentre nel Boccaccio essa è posta a guisa di recipiente ben

saldo e capace di reggere ogni evento in essa raccontato.

In ambedue i proemi è presente la menzione di un organismo unitario ad

accogliere tutto ciò che l'autore vi inserirà: nel caso delle Metamorfosi si tratta di un

papyrum, mentre in quello del Decameron si tratta di un libro32 che, come esprime il

cognome attribuitogli, si pone come intermediario tra l'autore e le dilicate donne

sofferenti in amore,33 come evinciamo dalla rubrica al Proemio:

Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe

Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da

sette donne e da tre giovani uomini.34

Il contenuto di entrambe le opere è assimilabile: le «alterne vicende» di uomini

(tipizzati ed esemplari, seppure dal Boccaccio maggiormente caratterizzati) che

vedono i loro destini mutati a causa della sorte. Lucio, punito per la propria curiosità

e funestato dalla sorte avversa, mutato in asino mantiene le facoltà mentali

dell'uomo; i protagonisti delle novelle del Decameron, allo stesso modo trasportati

dalla sorte, vedono i loro destini mutati. L'unico mezzo opponibile alla fortuna è

l'ingegno, grazie al quale i protagonisti e Lucio possono volgere in positivo i propri

destini, ritornando allo stato iniziale di tranquillità.

Spesso nel Decameron è il mondo borghese o piccolo borghese a stagliarsi sullo

sfondo, posto alla base delle fabulae, che non mancano di rilevarne ironicamente e

32 L'indicazione da parte del Boccaccio di un organismo così unitario e chiuso, diversamente ad esempio dalle raccolte di contes o novelle, rende l'opera distante dalla tradizione medievale precedente.Cfr. Achille Tartaro, La prosa narrativa antica, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. III, tomo II, Torino, Einaudi, 1984, p. 657 e sgg.

33 Così come intermediario d'amore tra Lancillotto e Ginevra era il personaggio al quale il nome fa riferimento.

34 Dec., Proemio, § 1, p. 127.

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con spirito satirico le ipocrisie e la lussuria, con tono lascivo e lepido. La ricorrenza

di temi, specialmente quelli della Fortuna e dell'Eros, è fortissima sia in Apuleio sia

in Boccaccio, vi torneremo più avanti.

Il realismo quotidiano e l'attinenza al verum è parte essenziale di entrambe le

opere, e si trova espresso su numerosi livelli: dal linguaggio dei personaggi, al gusto

del macabro, dal dettaglio di certe descrizioni di azioni, fino al linguaggio stesso

dello scrittore, che, umile o esotico, ben si adatta a narrare dei ceti umili, o comunque

delle bassezze di coloro che sono di ceto più elevato, o ancora di quella scienza

desultoria che è la magia. È in queste opere, più che in altre, che la realtà quotidiana,

modesta, a volte sporca di sudore e meschinità, feriale, viene legittimata in

letteratura, in un campo cioè in cui non si vuole presentare un discorso persuasivo,

nemmeno ove entri in gioco anche la predicazione: essa vi entra a pieno titolo in

quanto largamente ricca di exempla molto più utili alla rappresentazione dei valori

che il lettore deve apprendere, riconoscendosi in queste novelle e traendone diletto.

Il Boccaccio tende, almeno dal punto di vista esteriore, a mescolare tra loro più

generi, distinguibili attraverso gli schemi retorici ereditati dall'antichità classica in

base alla maggiore o minore attinenza al verum,35 ma raggruppati tutti, in questo

caso, sotto l'unica etichetta di «novelle»; queste sono inoltre racchiuse nella cornice

dell'epidemia pestifera del 1348, dato reale e puramente storico, che richiama dunque

ancora maggiormente il campo settoriale a cui l'autore si vuole attenere e in cui

proprio Apuleio ha fatto a lui da maestro, attraverso un tipo di letteratura che tende la

maggiore attinenza possibile al verum tramite la menzione continua del quotidiano

mai distante a livello di spazio e di tempo.

Il pubblico di Boccaccio risulta maggiormente ristretto rispetto a quello di cui

leggevamo nel proemio lucianeo: laddove l'autore si rivolgeva a un lettore ipotetico

non definito, ma interessato a posare il proprio sguardo sul papiro contenente il testo,

il Boccaccio si rivolge alle "vaghe donne", afflitte da un soverchio fuoco che esse,

contrariamente agli uomini, non possono sconfiggere e soggiogare attraverso i

passatempi e che troveranno perciò, nel Decameron un piacevole diletto e un utile

35 Intendendo rispettivamente l'istoria come il genere più attinente e la favola come quello più distante dalla realtà. Cfr Pier Massimo, Forni, Realtà/verità, in R. Bragantini, P. M. Forni (a cura di), Lessico critico decameroniano, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 300-319.

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consiglio. Il Certaldese vuole porre rimedio, attraverso la propria opera, al peccato

della fortuna e alle sue funeste conseguenze che esso ha sulle dilicate donne,

fissando dunque la propria iniziativa come scrittore in un quadro essenzialmente

morale.36

Il rapporto con il pubblico risulta fondato in ambedue le opere su un patto

stipulato a monte: il lettore deve essere intendente: in entrambi i casi esso è inventato

istantaneamente dal narratore, che deve essere ben parlante. Al tipo di lettore al

quale gli auctores si rivolgono vengono offerti attraverso la narrazione conforto e

diletto, inteso quest'ultimo come via di fuga dalla noia e, in Boccaccio, anche alla

morte. Ricorre in questo senso la nozione di parola salvifica, capace di restare

intrinsecamente e inscindibilmente legata a tutta la tela del Decameron, dall'«orrido

cominciamento» a molte delle novelle del Libro, che si sciolgono a favore di più o

meno innocenti protagonisti (si vedano a questo proposito le varie orationes presenti

nell'opera), fino ad arrivare a essere tema di una intera giornata, la sesta, «nella

quale, -appunto- sotto il reggimento d' Elissa, si ragiona di chi con alcun leggiadro

motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvenimento fuggì perdita o

pericolo o scorno».37

Presente in ambedue le opere è quindi il piacere della narrazione, come impulso

felice e positivo. In particolare nel Libro boccacciano è insito l'impulso felice della

memoria che vuole ricercare il verum, come dimostra, peraltro l'affermazione di

Fiammetta in apertura della quinta novella della nona giornata (quella cioè di

Calandrino e Bruno):

[...] ardirò oltre alle dette dirvene una novella: la quale, se io dalla

verità del fatto mi fossi scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e

saprei sotto altri nomi comporla e raccontarla; ma per ciò che il

partirsi dalla verità delle cose state nel novellare è gran diminuire di

diletto negl'intendenti, in propria forma, dalla ragion di sopra detta

36 Il Boccaccio si atterrebbe quindi ai medesimi programmi della dottrina erotica o antierotica presenti in Ovidio (Ars Amatoria) e Andrea Cappellano (De Amore) , ma ancora di più a quello di Orazio, come ci indurrebbe a pensare la ripresa del concetto di poesia come «diletto», che il poeta latino ricostruì nell'epistola intitolata De arte poetica (vv. 333-334), molto probabilmente nota al Boccaccio dagli anni di apprendistato.

37 Introduzione, IV, § 1, p. 975.

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aiutata, la vi dirò.38

Questo piacere del raccontare lo troviamo su tutti i livelli della narrazione di

entrambe le opere: Lucio, che non perde occasione per raccontare le vicende in cui si

imbatte o che ha sentito raccontare (soprattutto a causa della curiositas, che è parte

integrante della sua personalità), Apuleio, che ne narra l'esperienza diretta di vita in

modo obiettivo, Boccaccio, che pone i suoi personaggi all'interno della cornice e

pone nelle loro mani tutti gli strumenti atti al raccontare, li stimola a partire da

quell'«orrido cominciamento», e infine i dieci giovani stessi, che si allietano

vicendevolmente scampando alla noia e alla morte.

L'«onesta brigata» si pone da subito come cardine del realismo boccacciano, in

quanto tutti e dieci i giovani sono finemente ritratti e caratterizzati per tutto il corso

dell'opera, così come nel solco del realismo si pone anche la scelta di

contestualizzazione dell'opera come funzionale alla fuga e alla salvezza da una

pestilenza funesta che si è storicamente verificata,39 che conferisce all'opera la

struttura di una «sequenza ascensionale, catartica», come la chiama Cardini,40

dall'«orrido cominciamento» agli «altri piaceri» che attendono i giovani al loro

ritorno in Firenze. In questo senso possiamo ritrovare una congruenza con il percorso

di espiazione che compie Lucio (e Apuleio con lui), dalla curiositas per le arti

magiche come motore trainante delle prime vicende di Lucio alla verità redentrice

del culto isiaco che diventa preponderante nell'undicesimo libro, al punto che molti

studiosi sono arrivati ad assoggettare l'intera trama delle Metamorfosi secondo la

rivelazione finale.41

In entrambe le opere i narratori sono parecchi, non solo Lucio e non solo

Boccaccio, che pure si pongono a livelli differenti nella narrazione: l'uno nella

38 Dec., V, 5, § 5, p. 1415.39 Cfr. Franco Cardini, La "Grande Peste" tra realtà storica e finzione letteraria, in Allasia, Clara (a

cura di), Il Decameron nella letteratura europea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. 75-114.

40 Cfr. Id., Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Roma, Salerno Editrice, 2007, p. 113.

41 Merkelbach, sulla scia di Kerénji che aveva stabilito l'inscindibile conenssione tra il culto di Iside e il romanzo greco, ha perfino definito l'opera come «Libro isiaco», ossia un libro totalmente allegorico che narra le peripezie dell'anima verso il culto isiaco. Cfr. Reinhold Merkelbach, Introduzione, in Apuleio, Le metamorfosi, traduzione e note di Claudio Annaratone, Rizzoli, Milano, 1977, p. 17 sgg.

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cornice principale, ma non nella storia, l'altro pienamente nella storia principale,

protagonista assoluto delle vicende che lo vedono dapprima uomo un po' bonaccione

(l'esempio lampante è lo scherzo degli otri per la festa del Riso, in Met., II, 32 e III,

1-10), poi asino perseguitato dalle percosse degli uomini e della sorte che fa sì che

incappi in avverse vicende, e infine ancora uomo iniziato al culto di Iside. Le novelle

vere e proprie vengono narrate però dagli altri personaggi, che, al contrario dei dieci

protagonisti del Decameron, compaiono e scompaiono durante la narrazione, senza

mai permanervi troppo a lungo.

La cornice si pone quindi come elemento vitale, messa in secondo piano soltanto

quando il novelliere di turno prende parola per narrare una nuova fabula. Come

rilevò Laura Sanguineti White, «dal punto di vista dimensionale, la cornice e le

novelle apuleiane appaiono in rapporto inversamente proporzionale rispetto alla

cornice e alle novelle boccacciane».42 Le vicende di Lucio risultano nel complesso

preponderanti rispetto alle milesiae, pur essendo queste ultime fondamentali per

l'opera, come d'altronde tiene a rimarcare Apuleio in I, 1, dove pone sullo stesso

livello della narrazione le varias fabulas, ossia le novelle, e la fabulam graecanicam,

che svolge invece la storia del protagonista. Anzi, proprio le prime sono l'elemento di

innovazione apportato dall'autore, mentre la seconda egli l'ha desunta dalla

tradizione.

Il fatto che il Boccaccio ponga poi in primo piano il narratore performativo, ossia

l'«onesta brigata», indica la volontà di mettere al centro il saper raccontare, non

soltanto attraverso le regole della retorica, che pure sono presentissime all'interno

dell'opera e che il Boccaccio e i suoi narratori conoscono molto bene, ma anche e

soprattutto come fattore culturale che funge da collante tra le persone. Il saper

raccontare è ciò che infatti crea l'onesta brigata, pur essendo da essa creato, e si pone

come antidoto alla peste che infuria a Firenze, caricandosi inoltre di significato in

quanto fattore di distinzione sociale; ma è anche un tratto connotativo dei personaggi

del Decameron e dei loro numerosi atti locutivi: brevi o lunghi, diretti o indiretti,

pronunciati allo scopo di fare del bene o del male. La capacità di raccontare e il buon

parlare sono posti al centro non solo dello scopo dell'opera, ma anche fisicamente al

42 Laura, Sanguineti White, Apuleio e Boccaccio. Caratteri differenziali nella struttura narrativa del Decameron, Bologna, Pàtron, 1977, p. 30.

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centro del libro: essi risultano fondamentali nelle ultime novelle della quinta giornata

e soprattutto in quelle della sesta, a partire cioè dalla descrizione di Coppo

Domenichi in Dec., V, 9, esaltato con grande solennità da Dioneo come «ben

parlante», alla metanovella di madonna Oretta e alle novelle che seguono.

E proprio questa competenza narrativa è ciò che lega il Decameron alle

Metamorfosi apuleiane, la capacità affabulatoria di inserzione delle novelle

all'interno di una cornice principale, che il Certaldese, direttamente o indirettamente

(attraverso cioè i narratori della brigata) giustifica di volta in volta nelle Introduzioni

o negli incipit delle novelle, mentre il Madaurense, eccezion fatta per il prologo, in

cui egli dice di voler intrecciare varias fabulas, non le giustifica in corso d'opera, ma

le pone semplicemente l'una dopo l'altra, spesso introdotte dal puro gusto di

raccontarle. Non a caso le due milesie che il Boccaccio riprende esplicitamente sono

proprio quelle in cui nella prolusione introduttiva viene brevemente espresso il

piacere di Lucio (e di Apuleio) nel raccontarle.

Il racconto apuleiano risulta un insieme di racconti a scatola cinese, in cui di volta

in volta (ma non con la medesima frequenza) si ritorna alla cornice principale,

mentre il racconto boccacciano si può riassumere in una sorta di circolarità continua,

in cui dalla cornice si passa al racconto e viceversa, sempre con la medesima

modalità e frequenza. Schematicamente, in Decameron:

Questa rigida ripartizione, che rende le novelle unità a sé stanti, permette, come

nota Surdich, di evitare qualunque «tentazione centrifuga».43 Ciò che è racconto

rimane racconto, solo all'esterno di esso si ha l'intervento del narratore (o del

Boccaccio stesso), mentre nelle Metamorfosi questo passaggio risulta molto più

43 Luigi Surdich, Boccaccio, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 55.

21

Cornice (Introduzione)

Racconto

Cornice(Conclusione),(Introduzione).

RaccontoSchema fisso

ripetuto per ogni giornata

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osmotico e meno cadenzato, sebbene esso sia comunque sempre segnalato da

apposite locuzioni tipiche dell'ars narrandi. Un esempio calzante è l'incastonamento

delle tre storie di adulterio in Met. IX, 14-15, 16-21, 22-29, raccontate

rispettivamente da Lucio, la serva e il mugnaio: la moglie del mugnaio tradisce

quest'ultimo con un amante pauroso, allora la vecchia serva, per consigliarla, le

racconta la storia di Barbaro, tradito dalla moglie Arete con l'audace Filesitero, che,

dopo averlo corrotto, salva infine il servo Mirmece dalla furia del padrone; la vecchia

fa poi in modo che un giovane amante possa soddisfare le voglie della padrona,

quand'ecco che il marito ritorna e, testimone anch'egli della lussuria della moglie del

lavandaio presso cui era ospite a cena, racconta per filo e per segno alla moglie

curiosa la storia di adulterio. La storia principale, quella cioè della moglie del

mugnaio, si scioglie per opera dello stesso Lucio-asino che, stritolando le dita

dell'amante nascosto, permette di scoprirlo, offrendo così al mugnaio la possibilità di

vendicarsi.

L'intero intreccio degli adulteri narrati da Lucio viene ripreso esplicitamente dal

Boccaccio, secondo Pastore Stocchi contaminato da una «commedia elegiaca» di 152

versi, anonima, del XII secolo,44 un testo latino-medievale praticamente dimenticato,

in cui ricorrono le medesime situazioni, asserzioni e finale, nella novella decima

della quinta giornata,45 narrata al solito da Dioneo, incentrata sul tradimento ai danni

di Pietro di Vinciolo. L'omosessualità di quest'ultimo risulta implicita nel finale del

primo paragrafo,46 ma è esplicitamente asserita nell'orazione della moglie (leggiamo

in § 10-11: «Io il presi per marito e diedigli grande e buona dota sappiendo che egli

era uomo [...] e se io non avessi creduto ch'e' fosse stato uomo, io non l'avrei mai

preso. Egli che sapeva che io era femina, perché per moglie mi prendeva se le

femmine contro l'animo gli erano?»), mentre rimangono sempre esplicite la lussuria

di lei (§ 7) e l'astuzia della vecchia serva. In entrambi i racconti si nota inoltre una

grande attenzione nell'aggettivazione caratterizzante delle donne (pie, sante, vittime),

44 Manlio Pastore Stocchi, Un antecedente latino-medievale di Pietro di Vinciolo, in «Studi sul Boccaccio», I, 1963, p. 354 sgg.

45 Il tema della quinta giornata sono gli amori a lieto fine, la regina è Fiammetta.46 Nella parola tristezza si rintraccerebbero secondo il Branca tracce del pervertimento sessuale che

ricorre in tutta la novella per esplodere nel finale. Vedere a questo proposito, Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 19963, p. 692.

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in Boccaccio sottolineata anche e soprattutto nelle orazioni della moglie e della

vecchia.

I racconti vengono introdotti dai due narratori (Lucio e Dioneo) attraverso il

desiderio del divertire narrando una materia «in parte meno onesta» ma «che diletto

può porgere»,47 di raccontare cioè una fabula alle orecchie benevole del pubblico che

ascoltandola48 si divertirà.

I mariti sono tratteggiati da ambedue gli autori con brevi tocchi:

Pistor ille qui me pretio suum fecerat, bonus alioquin vir et apprime

modestus.49

Fu in Perugia [...] un ricco uomo chiamato Pietro di Vinciolo, il quale,

forse più per ingannare altrui e diminuire la generale oppinion di lui

avuta da tutti i perugini che per vaghezza che egli n'avesse, prese

moglie.50

Le mogli vengono introdotte invece con più dettagli, contestualizzandole in

situazione coniugale tutt'altro che rosea:

[...] pessimam et ante cunctas mulieres longe deterrimam sortius

coniugam, poenas ectremas tori larisque sustinebat, ut hercules eius

vicem ego quoque tacitus frequenter ingemescerem. Nec enim vel

unum vitium nequissimae illi femine deerat sed omnia prorsus ut in

quandam caenosam latrinam in eius animum flagitia confluxerant. [...]

et miserum maritum decipiens matutino mero et continuo stupro

corpus manciparat.51

La moglie la quale egli prese era una giovane compressa, di pel rosso

accesa, la quale due mariti più tosto che uno avrebbe voluti, là dove

ella s'avvenne a uno che molto più a altro che a lei l'animo aveva

disposto.

Il che ella in processo di tempo conoscendo, e veggendosi bella e

fresca e sentendosi gagliarda e poderosa, prima se ne cominciò forte a

turbare e a averne col marito disconce parole alcune volte e quasi

47 Dec., V, 10, § 4, p. 931.48 Come richiama anche Lucio attraverso l'espressione «ad aures vestras»; Met., IX, 14, p. 322.49 Ibidem.50 Dec., V, 10, § 6, p. 931.51 Met., IX, 14, p. 322.

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continuo mala vita; [...] questo, suo consumamento più tosto che

ammendamento della cattività del marito potrebbe essere [...].52

Compare poi una vecchia astuta, che asseconda i desideri adulterini delle mogli e

le consiglia:

Sed anus quaedam stuprorum sequestra et adulterorum internuntia de

die cotidie inseparabilis aderat. Cum qua [...] scaenas fraudulentas in

exitium miserrimi mariti subdolis ambagibus construebat.

Denique die quadam timidae illius aniculae sermo talis meas affertur

aures. "De isto quidem, mi erilis, tecum ipsa videris".53

La donna [...] si dimesticò con una vecchia che pareva pur santa

Verdiana [...]. E quando tempo le parve, l'aperse la sua intenzion

compiutamente; a cui la vecchia disse: "Figliuola mia, sallo Idio, che

sa tutte le cose, che tu molto ben fai [...]".54

Rimase adunque la giovane in questa concordia con la vecchia, che se

veduto le venisse un giovanetto, il quale per quella contrada molto

spesso passava, del quale tutti i segni le disse, che ella sapesse quello

che avesse a fare.55

Viene presentato poi l'amante, giovane e bello che si inserisce così come quarto

personaggio dell'intreccio e si insinua a casa, alla tavola della moglie:

Sol ipsum quidem delapsus Oceanum subterrenas orbis plagas

illuminabat, et ecce nequissimae anus adhaerens lateri temerarius

adulter adventat, puer admodum et adhuc lubrico genarum splendore

conspicuus, adhuc adulteros ipse delectans. Hunc multis admodum

saviis exceptum mulier cenam iubet paratam accumbere.56

Avvenne che, dovendo una sera andare a cena il marito, [...] la giovane

impose alla vecchia che facesse venire a lei un garzone che era de' più

belli e de' più piacevoli di Perugia, la quale prestamente così fece.57

Sopraggiungono inaspettati i mariti, che vengono accolti dalle mogli dopo aver

52 Dec., V, 10, § 7-8, p. 931-932.53 Met., IX, 15-16, segue il lungo racconto di adulterio ai danni di Barbaro da parte della moglie

Arete (par. 16-21).54 Dec., V, 10, § 14-15, segue il lungo discorso della vecchia (par. 15-23).55 Ibidem, § 24, p, 936.56 Met., IX, 22, p. 332.57 Dec., V, 10, § 26, p. 936.

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prontamente nascosto gli amanti, e raccontano alle mogli degli adulteri a cui hanno

assistito presso gli ospiti (Boccaccio riprende quasi esattamente l'intreccio

apuleiano):

Sed ut primum occusoriam potionem et incohatum gustum extremiis

labiis contingebat adulescens, multo celerius opinione rediens maritus

adventat.

Tunc uxor egregia diras devotiones in eum deprecata et crurum ei

fragium amborum ominata,, exsangui formidine trepidantem

adulterum alveo ligneo [...] temere propter iacenti suppositum

abscondit; ingenitaque astutia dissimulato tanto flagitio, intrepidum

mentita vultum, percontatur de marito cur utique contubernalis

artissimi deserta cenula praematurus afforet.58

E, essendosi la donna col giovane posti a tavola per cenare, e ecco

insieme Pietro chiamò all'uscio che aperto gli fosse. La donna, questo

sentendo, si tenne morta; ma pur volendo, se potuto avesse, celare il

giovane, non avendo accorgimento di mandarlo o di farlo nascondere

in altra parte, essendo una sua loggetta vicina alla camera nella quale

cenavano, sotto una cesta di polli che v'era il fece ricoverare [...] e

questo fatto, prestamente fece aprire al marito.59

Le mogli, che al racconto dei mariti si scandalizzano ugualmente per i

comportamenti adulteri dei loro racconti, desiderano allora liberarsi della presenza

dei mariti, che invece reclamano la cena, consigliando di recarsi a letto:

Et tamen taciti vulneris et suae sordidae conscientiae commonita, quo

maturius stupratorem suum tegminis cruciatu liberaret, identidem

suadebat maritum temperius quieti decedere. At ille, utpote intercepta

cena profugus prorsus ieiunus, mensam potius comiter postulabat.

Apponebat ei propere, quamvis invita, mulier quippini destinatam

alii.60

Poi, del suo amico ricordandosi, il quale ella sotto la cesta assai presso

di quivi aveva, cominciò a pregar Pietro che s'andasse a letto, per ciò

che tempo n'era. Pietro, che maggior voglia aveva di mangiare che di

58 Met., IX, 23, p. 332, segue il racconto del marito.59 Dec., V, 10, § 27-28.60 Met., IX, 26, p. 336.

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dormire, domandava pure se da cena cosa alcuna vi fosse.61

Nel frattempo gli asini fanno sì che gli amanti vengano scoperti, cosicché le

vicende si concludano, con le reazioni dolci e rassicuranti dei mariti, che si

vendicano punendo gli adulteri attraverso il triangolo amoroso:

Sic erili contumelia me cruciatum tandem celestis respexit

Providentia. Nam senex claudus cui nostra tutela permissa fuerat

universa nos iumenta, id ora iam postulante, ad lacum proximum

bibendi causa gregatim prominabat. Quae res optatissimam mihi

vindictae sumministravit occasionem. Namque praetergrediens

observatos extremos adulteri digitos, qui per angustias cavi tegminis

prominebant, obliquata atque infesta ungula compressos usque ad

summam minutiem contero , donec intolerabili dolore commotus,

sublato flebili clamore repulso et abiecto alveo, conspectui profano

redditus scaenam propudiosae mulieris patefecit. Nec tamen pistor

damno pudicitiae magnopere commotus exsangui pallore trepidantem

puerum serena fronte et propitiata facie commulcens incipit: "Nihil

triste de me tibi, fili metuas. [...] Nec te letali fumo necabo, ac ne iuris

quidem severitate lege de adulteriis ad discrimen vocabo capitis tam

venustum pulchellum puellum, sed plane cum cum uxore mea

partiario tractabo.

[...]

Talis sermonis blanditie cavillatum deducebat ad torum nolentem

puerum, sequentem tamen. Et ppudicissima illa uxore alterorsus

disclusa, solus ipse cum puero cubans gratissima corruptarum

nuptiarum vindicata perfruebatur.62

Avvenne che, essendo la sera certi lavoratori di Pietro venuti con certe

cose dalla villa e avendo messi gli asini loro, senza dar loro bere, in

una stalletta la quale allato alla loggetta era, l'un degli asini, che

grandissima sete avea, tratto il capo del capestro era uscito della stalla

e ogni cosa andava fiutando se forse trovasse de''acqua; e così

andando s'avenne per mei la cesta sotto la quale era il giovinetto. Il

quale avendo, per ciò che carpone gli convenia stare, alquanto le dita

dell'una mano stese in terra fuori della cesta, tanta fu la sua ventura, o

61 Dec., V, 10, § 46, p. 938.62 Met., IX, 27-28, p. 336-338.

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sciagura che vogliam dite, che questo asino ve gli pose sù piede,

laonde egli, grandissimo dolor sentendo, mise un grande strido.

[...] Il quale, essendo da Pietro riconosciuto, sì come colui a cui Pietro

per le sue cattività era andato lungamente dietro, essendo da lui

domandato: "Che fai tu qui?", niente gli rispose ma pregollo che per

l'amor di Dio non gli dovesse far male.

A cui Pietro disse: "Leva sù, non dubitare che io alcun male ti faccia:

ma dimmi come tu sè qui e perché".

Il giovinetto gli disse ogni cosa; il quale Pietro non men lieto di averlo

trovato che la sua donna dolente, presolo per mano con seco nel menò

nella camera nella quale la donna con la maggior paura del mondo

l'aspettava.63

Sia in Metamorfosi 23-24, sia in Decameron V, 10, 32-41, i mariti raccontano alle

mogli curiose delle storie di adulterio cui hanno assistito presso i propri amici ospiti,

entrambe scoperte a causa di alcuni starnuti sospetti; gli stessi mariti scopriranno poi

di essere a loro volta traditi per mezzo di un asino che, consapevolmente come Lucio

o meno, stritola le dita dell'amante nascosto, facendo sì che questo urli e venga

scoperto.

L'ambientazione delle novelle è differenziante, in quanto la versione boccacciana

è posta in Perugia, città che evocava già in epoca tardomedievale particolari abitudini

sessuali, omosessualità e sodomitismo soprattutto,64 e in un tempo non lontano,

immaginabile e conosciuto. I personaggi e l'ambiente di Apuleio sono figure tipo,

prive di una vera definizione e inserite in una situazione di schematica infelicità.

Il vizio adulterino della moglie apuleiana è uno tra i tanti, soddisfatto

continuamente, mentre nel personaggio boccacciano esso è naturale conseguenza del

suo corpo giovane e ricco di piccanti umori. In Apuleio la situazione coniugale è

ormai immutabile e stagnante, come testimonia l'uso dell'imperfetto sustinebat che

rende perfettamente lo stato di continuità, mentre in Boccaccio essa è colta nel suo

63 Dec., V, 10, § 48-53, p. 940.64 Come dimostrano i versi dei rimatori perugini dell'epoca, Marino Ceccoli, Neri Moscoli e Cecco

Nuccoli (la cui attività si colloca tra il 1320 e il 1350), grazie ai quali l'amore omosessuale e sodomitico, che prima era presente soltanto in alcune opere comiche, entra nel novero delle tematiche elevate vicine alla corrente stilnovistica. Le opere di questi rimatori ci sono state tramandate attraverso il cosiddetto «codice dei Perugini», ovvero il Barb. Lat. 4036, datato al massimo alla metà del Trecento.

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volgere in peggio attraverso locuzioni come in processo di tempo o l'uso dei tre

gerundi conoscendo, veggendosi e sentendosi, che rendono chiarissime la graduale

presa di coscienza e la brama della donna, attraverso un processo conoscitivo colto

dall'esterno all'interno (il disinteresse del marito, la consapevolezza della propria

giovinezza e infine la riflessione sulle proprie capacità sessuali che non vengono

sfogate) che ha un inizio con quel cominciò a, continua con il consumamento

preminente rispetto all'ammendamento del marito (resi attraverso l'allitterazione della

bilabiale nasale m, che sembra fornire l'idea del procedere lento e faticoso del

pensiero) e ha fine con il passato remoto disse che darà inizio all'azione.

Il marito apuleiano è presentato per mezzo delle parole di Lucio come un

pover'uomo costretto a subire le angherie e i tradimenti della moglie, egli è

totalmente innocente, mentre quello boccacciano è subito posto come colpevole che

compie volontariamente e abitualmente una azione innaturale (le coppie che

appaiono nel Decameron sono infatti tutte eterosessuali, mentre l'amore omosessuale

è definito come un «disonesto amor»65).

Il finale in Apuleio è, per usare le parole di Pastore Stocchi, «perfettamente in

accordo con l'etica e la prassi antica»,66 dal momento in cui il marito sfrutta la

possibilità di infliggere la punizione alternativa alla condanna a morte (la

fustigazione e l'abuso sessuale dell'amante), di modo che la sua omosessualità risulti

momentanea, innaturale e costretta dalla volontà di vendetta. Il sapore comico

preannunciato dal suavem iniziale è smorzato infine dal tono moralistico e

predicatorio insito sia nelle parole del mugnaio mentre punisce il ragazzo e di Lucio-

asino. In Boccaccio vi è invece un ritorno alla situazione armoniosa, con i personaggi

reintegrati e reimmersi nello sfondo sociale e comunale a cui appartengono, insieme

con tutti i loro vizi, le loro astuzie e le qualità con cui erano stati introdotti.

L'elemento comico è ciò che differenzia la versione boccacciana dall'originale: la

sorte, cioè, del ragazzo, di cui Dioneo premette in apertura la necessarietà della

compassione, poiché si dimostra inadeguato al proprio rango. In Apuleio il marito

non è innanzitutto omosessuale, la moglie tradisce quindi puramente per gusto nel

commettere adulterio e insoddisfazione nella vita coniugale in generale. Inoltre la

65 Dec., II, 3, § 30.66 Manlio, Pastore Stocchi, Un antecedente latino-medievale di Pietro di Vinciolo, cit., p. 351.

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vicenda ha in Apuleio uno scioglimento molto tragico, rivelandosi la moglie una

assassina oltre che già una adultera, una vera e propria storia di cronaca nera che

intacca una vicenda erotica, mentre nel Boccaccio troviamo una storia meramente

comica ed erotica.

Ma la differenza più lampante tra le due novelle è sicuramente la presenza

dell'asino: se nel racconto latino vi è un Lucio arrabbiato, vendicativo e intelligente,

che di proposito agisce per smascherare la deterrimae feminae, il Boccaccio ha

dovuto sostituire questa figura con una qualunque creatura asinina, premurandosi di

giustificarne al meglio la presenza e rendendo la sua azione benefica come una

ventura o, al più, una sciagura. Nella prima versione non avvertiamo quindi quella

tensione, che nel Certaldese è evocata dalla minuziosa descrizione dei movimenti

dell'animale, che, essendo esso appunto un animale, il lettore non può prevedere.

Abbiamo perciò da una parte un asino con capacità di ragionamento umane che si

avvicina di proposito al punto dove l'amante è nascosto, dall'altra un asino che

avanza, lento ma inarrestabile, verso il giovane, immobile nella propria posizione

supina, terrorizzato.

L'elemento asinino non compare soltanto in questo punto dell'opera: si pensi, per

esempio, alla novella dei due amici senesi67 e degli adulteri incrociati e reciproci,

nella quale ricorre il proverbio «quale asino dà in parete tal riceve»,68 ricorrente per

ben tre volte nel Decameron (II, 9, § 6 e nel finale della stessa novella di Pietro di

Vinciolo), rendendoci così consapevoli del fatto che al Boccaccio non doveva essere

troppo lontano quell'asino furbo protagonista delle Metamorfosi.

Abbiamo evidenziato, almeno in parte, la fondamentale importanza dell'elemento

erotico in entrambe le opere. Le simiglianze concettuali tra Decameron e

Metamorfosi, però non si fermano qui: se partiamo infatti dalla tassonomia di

Sanguineti White, notiamo che la struttura apuleiana ha almeno tre temi in comune

con quella decameroniana.

1. Novelle sulla magia I, 5-20; II, 20-30

2. Avventure di briganti IV, 8,22

3. Amori a fine tragica VII, 1-15

67 L'ottava dell'ottava giornata, pp. 1298 sgg.68 Dec., VIII, 8, § 3, p. 1298.

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4. Amori a fine lieta IV, 28-VI, 24

5. Adulterio (e beffe) IX, 5-7, 14-31

6. Passione incestuosa X, 2-12

7. Violenza e assassinio X, 23-28; IX 35-38.69

Già Sanguineti White notava infatti la comunanza di temi (3. 4. 5.) con le giornate

del Decameron 4, 5 e 7, ci è sembrato opportuno aggiungere anche i temi 6. e 7. al

parallelismo, in quanto ricorrenti anche in Boccaccio, e specialmente in Dec. IV, 1 e

II, 7.

Della settima novella della seconda giornata parleremo approfonditamente nel

prossimo capitolo, per rimarcare una comunanza non solo tematica ma anche

strutturale con Apuleio.

La prima novella della quarta giornata, che ha per tema gli amori infelici, è narrata

da Fiammetta Vediamone brevemente la trama: Tancredi, principe di Salerno, non ha

ancora dato in moglie la figlia Ghismonda, che si innamora del giovane Guiscardo.

Tancredi, introdottosi di nascosto nella stanza della figlia e scoperto l'amore tra i due,

fa imprigionare e uccidere segretamente Guiscardo e ne offre il cuore alla figlia, che

lo mette in una coppa con acqua avvelenata che in seguito ella beve, suicidandosi.

Certamente la morbosità del principe nei confronti della figlia è assimilabile a una

passione incestuosa, che travolge gli eventi e li rende precipitosi: tutti e tre i

personaggi non vi trovano scampo, o muoiono o ne sono distrutti perdendo ciò che

hanno di più caro. Così come ci è presentato inizialmente, già dalla prima descrizione

solo in funzione della figlia e dell'amore paterno, in stretta dipendenza da essi, come

rimarcano i due se,70 («fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli

nell'amoroso sangue nella sua vecchiezza non avesse le mani buttate; il quale, in tutto

lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella

avuta non avesse»71), egli si rivela in seguito, di fronte all'impossibilità di sconfiggere

l'Amore che è evidentemente presente tra i due; se poi per «amoroso sangue»

dobbiamo solamente intendere quello di Ghismonda e di Guiscardo o anche,

metaforicamente, quello dello stesso Tancredi, il Boccaccio non lo dice chiaramente,

69 Sanguineti White, Apuleio e Boccaccio, cit., p, 34. 70 Cfr Guido, Almansi, L'estetica dell'osceno, Torino, Einaudi, 1974, pp. 161-182 e in particolare

162-166.71 Dec., IV 1, § 3, p 699.

30

(Sono evidenziate in grassetto

le comunanze)

Page 31: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

ma questa potrebbe essere una delle possibili interpretazioni.

Non troviamo però alcuna confessione esplicita da parte del padre alla figlia su

questa passione, tutto sembra porsi semplicemente sotto una luce di dignitas tradita

dalla figlia nei confronti del padre: sia perché quest'ultimo, non rispettando i suoi

doveri regali, non l'ha donata in moglie e non ha quindi assicurato la propria

successione, sia perché la fanciulla ha scelto da sé il proprio amante, sia ancora

perché quest'ultimo ha approfittato della bontà del principe. Queste sono le parole

che Tancredi, «quasi piagnendo» rivolge allo stesso stesso Guiscardo una volta

imprigionatolo:

Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l'oltraggio e la

vergogna la quale nelle mie cose fatta m'hai, sì come io oggi vidi con

gli occhi miei.72

Si rivolge invece in questo modo alla figlia:

Mai non mi sarebbe potuto cader nell'animo, quantunque mi fosse

stato detto, se io co' miei occhi non l'avessi veduto, che tu sopporti a

alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse..[...] di che io [...] sempre

sarò dolente di ciò ricordandomi. E or volesse Idio che, poi che a tanta

disonestà conducer ti dovevi, avessi preso uomo che alla tua nobiltà

decevole fosse stato.73

Ma più avanti, a tradire la vera natura del suo sentimento, ecco che Tancredi

pronuncia una frase quanto meno sospetta:

[...] mi trae l'amore il quale io t'ho sempre più portato che alcun padre

portasse a figliuola.74

Ecco che allora si svela ciò che di più profondo vi è nel sentimento del padre,

attraverso quel più e il paragone con l'amore paterno in genere. Giovanni Getto75

definisce in questi termini questa novella: «per la prima volta il Boccaccio si

impegna in una vera e propria storia d'amore», inteso come l'amore76 vero, quello

72 Ivi., IV, 1, § 22, p. 704.73 Ivi, § 26-27, p. 704-705.74 Ivi, § 29, p. 705.75 Giovanni, Getto, Vita e forme di vita nel Decameron, Torino, G. B. Petrini, 19662, p. 95 e sgg.76 Il termine ha ben 482 occorrenze, mentre il verbo amare 327, mentre non trovano alcuno spazio,

se non esiguamente nella aggettivazione e nelle forme avverbiali, le occorrenze di affetto, creandosi così una netta polarizzazione che vede contendersi l'Amore e la concupiscenza.

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puramente sentimentale, mentre nelle prime tre giornate esso compariva come

pretesto per l'azione, o come spogliato totalmente della dimensione sentimentale e

meramente carnale. L'amore, in Dec. IV, 1 e generalmente in tutta la quarta giornata,

si svela sotto tutti i punti di vista, travolgendo l'uomo, la sua anima e il suo corpo, la

sua eticità e la sua fisicità, quasi una «febbre dei sensi»,77 esplicitazione del

«soverchio fuoco» che affligge, di cui il Boccaccio narra nel prologo generale. Ma

mentre la relazione di Ghismonda e Guiscardo contiene, almeno inizialmente,

elementi retoricamente comici, l'amore di Tancredi è inscritto da Picone nel filone

degli amori tragici, in quanto prova il suo «esclusivo attaccamento alla figlia in modo

non naturale».78

E proprio a una malattia è associata la passione incestuosa della matrigna per il

figliastro in Met., X, 2-3, non fosse per le parole di Lucio, che, al contrario di tutti, ha

compreso da subito quale fosse il vero malessere della donna:

Iam cetera salutis vultusque detrimenta et aegris et amantibus

examussim convenire nemo qui nesciat: pallor deformis, marcentes

oculi, lassa genua, quies turbida, et spiritus cruciatus tarditate

vehementior. Crederes et illam fluctuare tantum vaporibus febrium,

nisi quod et flebat. Heu medicorum ignarae mentes, quid venae

pulsus, quid coloris intemperantia, quid fatigatus anhelitus et

utrimquesecus iactatae crebriter laterum mutuae vicissitudines! Dii

boni, quam facilis licet non artifici medico, cuivis tamen docto

Veneriae cupidinis comprehensio, cum videas aliquem sine corporis

calore flagrantem!79

E davvero dal racconto di Lucio la donna appare inferma, ricorrendo anche più

avanti espressioni quali «sconvolta dall'impazienza della furia d'amore», oppure

ancora «da tanto tempo ormai affaticata dal tormento del silenzio».

Né in Boccaccio né in Apuleio avviene l'incesto vero e proprio, il racconto rimane

soltanto sul piano della passione e sulle sue funeste e mortifere conseguenze: né la

matrigna giace con il figliastro, né il padre con la figlia, ma su entrambi i giovani

incomberanno la tragedia e la morte, per quanto per il ragazzo si risolva poi nel lieto

77 Ibidem, p. 99.78 Michelangelo Picone, Boccaccio e la codificazione della novella, cit., p 188.79 Met. X, 2, p. 362.

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fine (sarà lo schiavo aiutante della matrigna ad essere condannato a morte, mentre

quest'ultima verrà esiliata) e Ghismonda si dia invece volontariamente la morte.

L'amore ha comunque in entrambi i casi i toni della tragedia.

L'amore in tutte le sue forme si pone come elemento cardine sia della cornice

primaria sia di quella secondaria del Decameron e viene rappresentato innanzitutto

come sentimento «altissimo e nobile» (Proemio, § 2), nel solco della tradizione

cortese e stilnovistica, sebbene il Boccaccio ricerchi il distacco dalla tradizione,

soprattutto nella contestualizzazione del sentimento amoroso come qualcosa che

dev'essere necessariamente nascosto.

Ma l'amore ha due facce, l'eros e l'himeros, che spesso nulla hanno a che fare l'una

con l'altra, specialmente in letteratura, e in Apuleio e Boccaccio con puntuale

ricorrenza. E a trionfare è soprattutto l'himeros, il desiderio carnale smanioso di

essere soddisfatto in quanto realizzazione di un «amoroso disio», numerose volte

descritto con minuzia in entrambe le opere. Esso mantiene il proprio posto di

eccellenza come incondizionatamente e universalmente estendibile all'intero genere

umano, di qualunque dei due generi e soprattutto di qualsiasi estrazione sociale80 (a

differenza, ad esempio, della tesi-antitesi della Fiammetta, dove esso era attribuito ai

ricchi e non ai poveri); prende forma così come primaria forza assolutamente

istintiva, che connota e distingue, soprattutto, le pulsioni dei giovani, in tutto e per

tutto sottoposti alle «amorose leggi» (X, 8, § 17).

Vediamo a proposito la reazione alla vista di Fotide di Lucio, ancora umano, in

Met., II, 7:

Isto aspectu defixus obstupui et mirabundus steti; steterunt et membra

quae iacebant ante.81

Questo passo sembra riecheggiare in Dec., VIII, 7, § 67, dove viene descritta la

reazione dello scolaro alla vista della vedova:

E d'altra parte lo stimolo della carne l'assalì subitamente e fece tal in

piè levare che si giaceva.82

Di certo la fisicità dell'himeros non è assente nella decima novella della nona

80 Si veda a tal proposito la dichiarazione di Emilia in IV, 7, § 4.81 Met., II, 9, p. 46.82 Dec., VIII, 7, § 67, p. 1276.

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giornata, in cui don Gianni, volendo Pietro da Tresanti trasformare la moglie in

cavalla, tocca il petto di quest'ultima e «trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi quel

tale che non era chiamato e sù levandosi [...] preso il pivuolo col quale egli piantava

gli uomini e prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse: "E questa sia bella

coda di cavalla"».83

All'incantesimo Pietro reagisce con agitato sconcerto e interviene per fermare il

processo, proprio nel momento in cui «era già l'umido radicale per lo quale tutte le

piante si appiccano venuto».84 Non sembra qui essere distante l'eco degli incantesimi

apuleiani, sebbene questi ultimi siano molto più realistici contestualmente all'opera in

cui vengono raccontati: esso sembra inoltre richiamato antifrasticamente85 nella nona

novella dell'ottava giornata (§ 23-30), dove il medico Simone è alle prese con Bruno

e Buffalmacco, che raccontano dei sortilegi dell'allegra brigata seguace di Michele

Scotto per attirare tutte le disponibilissime donne del mondo.

Questo desiderio bramoso, come del resto anche l'eros, diventa spesso funesto per

il destino dell'uomo, che si trova di volta in volta in balia di avverse vicende: Lucio

viene trasformato in asino da Fotide per errore, Tlepolemo e Carite muoiono per

mano di Trasillo, reso pazzo dalla passione per lei e letteralmente accecato da essa, e

ancora Socrate, gli adulteri e molti altri, mentre nel Decamerone subiscono una sorte

analoga tutti gli amanti di Alatiel in primis, poi Tancredi che rimane solo, Frate

Alberto, i giovani della terza novella della quarta giornata e molti altri personaggi

della stessa giornata.

La tematica erotica non è però l'unica ripresa dal Boccaccio: moltissime gemme

del libro apuleiano fioriscono, quasi in modo distratto, nel corso di tutta l'opera. Ad

esempio l'episodio di Chichibìo,86 uno dei più famosi forse all'interno del

Decameron, sembra richiamare quello del cuoco che, avendo lasciato in balia di un

cane la coscia di un cervo da cucinare per la cena, decide di sostituirla con quella

dello stesso Lucio.87 In entrambi i casi i cuochi, avendo perduto per negligenza parte

della cena, trovano uno stratagemma per supplire alla propria disattenzione.

83 Dec., IX, 10, § 18, p. 1459.84 Ivi, § 20.85 Panfile tramutava infatti se stessa per poter scappare e congiungersi con i propri amanti.86 Dec., VI, 4, pp. 995-999.87 Met., 8, 31, pp. 303-304.

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Page 35: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

La novella portante della sesta giornata narra del brevissimo viaggio a cavallo di

Madonna Oretta, che viene invitata a montarvi da un cavaliere che tenta di dilettarla

e distrarla dalla noia e dalla fatica del viaggio tramite il racconto di una novella. Il

cavaliere si rivela un cattivo narratore, al punto che Panfilo (e il Boccaccio con lui)

non si premurano nemmeno di trascrivere ciò che racconta, seppure brevissimo.88 Da

un lato, come aveva già notato Fido,89 questo passo sembrerebbe una ripresa di Met.,

I, 20 e del momento in cui Lucio descrive la propria gratitudine ad Aristomene, che

con la sua «lepida iucunditas fabularum» è riuscito a levigare l’asprezza del terreno

su cui si marcia. La fabula viene derisa dal compagno di viaggio di Aristomene in

quanto inattendibile, dal momento che il narratore si pone allo stesso livello di quanti

con formule magiche tentano di sovvertire i principi della natura, ma Lucio ci

permette di capire quanto lui sia convinto, al contrario di questi, della verità espressa

nel racconto di magia di Aristomene (e non potrebbe essere diversamente, dal

momento che proprio la curiositas per il magico spinge Lucio a viaggiare). Ma

ancora maggiormente, come nota Usher,90 questa novella riprende il Proemio delle

Metamorfosi e in particolare il termine desultoria, che significava proprio «saltatori

di cavallo», come del resto spiegava Isidoro nelle Etimologie (XVIII, 39). La

metafora del cavalcare per indicare l'atto sessuale è inoltre diffusa a più riprese nel

Decameron.

Un altro episodio che sembrerebbe richiamare Apuleio è quello di Andreuccio da

Perugia, che «da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo

dell'arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe conosciuto

chi più si fosse morto, o l'arcivescovo o egli».91 L'episodio richiamato sembra quello

di Telifrone in Met., II, 25: «Nec mora cum me somnus profundus in imum

barathrum repente demergit, ut ne deus quidem Delphicus ipse facile discerneret

duobus nobis iacentibu, quis esset magis mortuus».92

88 Per le simiglianze con altre opere (il Novellino, Aethiopicon, Satyrycon ecc.), cfr Jonathan Usher, Desultorietà nella novella portante di Madonna Oretta, in «Studi sul Boccaccio», XXIX, 2001, pp. 67-103, che nota tra l'altro il fatto che questa novella segua strutturalmente quella di Pietro da Vinciolo.

89 Franco Fido, L'ars narrandi di Boccaccio nella sesta giornata, in Id., Il regime delle simmetrie imperfette, Milano, Franco Angeli, 1988, pp. 73-79.

90 Jonathan Usher, Desultorietà nella novella portante di Madonna Oretta, cit., pp. 71 e sgg.91 Dec., II, 5, § 79. pp. 373.92 Met., II, 25, pp. 66.

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Comune alle due opere è ancora il tema del sogno, che nel Decamerone è ripreso

cinque volte (IV, 5; IV, 6; V, 8; IX, 6; IX, 7), anche se in questo caso ci interessano

soltanto le seguenti tre: la prima, nella quinta novella della quarta giornata, dove

Lorenzo appare in un sogno rivelatore-profetico all'amata Lisabetta da Messina, la

seconda dalla novella sesta della medesima giornata, quando Gabriotto deride come

falso il sogno premonitore di Andriuola, la terza, infine nella sesta della nona

giornata, in cui Niccolosa tenta convince il marito di aver confuso sogno e realtà.

Nel primo caso il parallelismo si verifica con Met., VIII, 8:

Tunc inter moras illa misere trucidati Tlepolemi, sanie cruentam et

pallore deformem attollens faciem, quietem pudicam interpellat

uxoris.93

L'espressione ricorre in questi termini in Boccaccio:

Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non

tornava e essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo le

apparve94 nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e co' panni tutti

stracciati e fradici.95

La descrizione dei due amanti è molto simile in entrambi i brani, al punto che

alcuni (tra cui Balestrero96), pur notando le differenze, ne hanno analizzato

dettagliatamente i parallelismi: l'apparizione dei due uomini, non per come erano in

vita, ma tutti pallidi e tumefatti, nelle sembianze quasi irriconoscibili che il loro

corpo ha assunto nel trapasso (Carite ed Elisabetta li riconoscono infatti per le loro

parole). Simile è inoltre il risveglio delle fanciulle, che credono immediatamente al

sogno ma, pur essendo disperate, decidono di tenerlo segreto e agiscono

strategicamente di nascosto. Differenti sarebbero invece le motivazioni con le quali i

due uomini appaiono, Tlepolemo per consigliare Carite e metterla in guardia da

Trasillo, Lorenzo per riscattarsi agli occhi dell'amata; le due giovani sono entrambe

93 Met., VIII, 8, p. 275.94 Nella versione boccacciana non è presente il termine sogno come in Apuleio: viene presentata

infatti come una apparizione-visione, probabilmente mutuata da Agostino e Macrobio alla luce della speculazione filosofica e teologica sul sogno che Boccaccio doveva avere ben presente. Da Agostino l'autore mutua però solo l'opposizione tra visione (sogno vero) e sogno (sogno falso). Cfr. Monica Balestrero, L'immaginario del sogno nel Decameron, Roma, Aracne, 2009, pp. 27-28.

95 Dec., IV, 5, § 12, p. 750.96 Cfr. Monica Balestrero, L'immaginario del sogno nel Decameron, cit., p. 20-21.

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in uno stato di disperazione nel momento in cui appare loro l'amato: Carite piange il

marito morto, per quanto creda lei brutalmente ucciso da un cinghiale durante una

battuta di caccia, Elisabetta piange l'improvvisa e prolungata assenza del proprio

amato.97

Nel secondo caso98 possiamo rintracciare un precedente in Met., 18, quando

Aristomene racconta a Socrate del sogno più che reale di averlo visto sbudellato dalle

streghe durante la notte e l'amico lo deride in questo modo:

Non immerito medici fidi cibo et crapula distentos saeva et gravia

somniare autumant. Mihi denique, quod poculis vesperi minus

temperavi, nox acerba diras et truces imagines obtuli, ut adhuc me

credam cruore humano aspersum atque impiatum.

Ad haec ille surridens: -At tu -inquit- non sanguine lotio perfusus

est!99

In Decameron, anche Gabriotto deride l'amata, che in questo caso ha avuto,

secondo la classificazione agostiniana, un vero e proprio somnium, ossia un sogno

non reale che deve però essere interpretato come premonitore.100 Il ragazzo usa

queste parole:

Gabriotto udendo questo se ne rise e disse che grande sciocchezza era

porre ne' sogni alcuna fede, per ciò che o per soperchio di cibo o per

mancamento di quello avvenieno, e esser tutti vani si vedeano ogni

giorno.101

Nella dichiarazione di Gabriotto possiamo trovare un riscontro di quanto la

vecchia custode della caverna dei briganti risponde a Carite quando questa si

risveglia disperata in seguito al sogno veritiero e post-monitore di aver perduto tutto.

Questa è la risposta della vecchia:

Bono animo esto, mi erilis, nec vanis somniorum figmentis terreare.

97 Pur essendo, come fa notare Picone, in condizioni psicologicamente differenti, la prima nella disperazione della perdita avvenuta, l'altra nell'incertezza che il suo amante l'abbia abbandonata di proposito. Cfr Picone , Boccaccio e la codificazione della novella, cit., p. 227 sgg.

98 Vio considera la novella di Andriuola e Gabriotto una sottile riscrittura di Apuleio, Met., I, 11-20.Cfr. Gianluigi, Vio, Chiose e riscritture apuleiane di Giovanni Boccaccio, in «Studi sul Boccaccio», XX, 1991-1992, pp. 139-165.

99 Met., I, 18, p. 25-27.100 Cfr. Balestrero, L'immaginario del sogno nel Decameron, cit., pp. 29-34.101 Dec., IV, 6, § 13, p. 756.

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Nam praeter quod diurnae quietis imagines falsae perhibentur, tunc

etiam nocturnae visiones contrarios eventus nonnumquam

pronuntiant. Denique flere et vapulare et nonnumquam iugulari

lucrosum prosperumque proventum nuntiant, contra ridere et mellitis

dulciolis ventrem saginare vel in voluptatem veneriam convenire

tristitie animi languore corporis damnisque ceteris vexatum iri

praedicabunt.102

Vi è una simiglianza forte anche per quanto riguarda la trama: entrambi stanno

deridendo un sogno che si rivelerà in breve essere veritiero, e moriranno proprio di

fronte a coloro che hanno deriso.

Nel terzo caso infine, alla confusione tra sogno e realtà di Pinuccio, possiamo

associare il medesimo senso di disorientamento provato da Aristomene la mattina

dopo la terribile e realissima nottata in cui le streghe hanno straziato Socrate (e in

parte anche Aristomene medesimo), quando egli non riesce a distinguere se si sia

trattato di un incubo a causa del troppo aver bevuto e mangiato la sera precedente o

se sia stata realtà e si convince momentaneamente di aver sognato, anche in

conseguenza della derisione del moribondo Socrate. Oppure possiamo ancora

associarvi il senso di straniamento di Telifrone al suo risveglio nel sepolcro del

cadavere cui avrebbe dovuto fare da guardiano (Met., II, 26), quado anche lui si

convince di aver solamente immaginato l'entrata della donnola.

La dimensione onirica di sviluppa trasversalmente nel Decameron,

abbracciandone, sia geograficamente sia a livello di ceto sociale, l'intero universo,103

così come nelle Metamorfosi essa si fa carico della rivelazione finale per il

protagonista, dove la descrizione di Iside appare «più vicina all’esercitazione retorica

della descrizione di un’opera d’arte visiva che a una sfumata visione onirica».104

Ricorre nella novella di Andriuola e Gabriotto, il proverbio, sebbene esposto con

parole differenti: "chi la sera non cena tutta notte si dimena". E proprio questo

proverbio compare esplicitamente nella quarta novella della terza giornata, in cui

102 Met., IV, 27, p. 142.103 Come analizza Balestrero nell'Introduzione; cfr. Balestrero, Monica, L'immaginario del sogno

nel Decameron, cit., pp. 10-13.104 Alessandro Perutelli, Guido Paduano, Elena Rossi, Storia e testi della letteratura latina, Bologna,

Zanichelli online per la scuola, 2010, p. 16: link: http://online.scuola.zanichelli.it/perutelliletteratura/files/2010/09/testi-it_apuleio_t12.pdf.

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Don Felice insegna a Frate Puccio come scontare una penitenza e, una volta

assicuratosene la possibilità, giace con la moglie di questi che, ignaro e in buona

fede, sentendo una notte alcuni rumori, chiede alla moglie quale ne sia la causa. Ella,

che «motteggevole era molto», risponde in questo modo:

Come non sapete voi quello che questo vuol dire? Ora io ve l'ho udito

dire mille volte: "Chi la sera non cena tutta notte si dimena".105

La novella anticipa per certi versi quella di Peronella (VII, 2), che i critici

concordano essere una ripresa esplicita delle Metamorfosi, insieme alla decima della

quinta giornata.

La settima giornata è, tra tutte, quella in cui compare più esplicitamente la

tematica erotica, in essa infatti «si ragiona delle beffe, le quali o per amore o per

salvamento di loro le donne hanno già fatte a' suoi mariti, senza essersene avveduti o

sì». Il tema più compromettente e più imbarazzante viene affrontato dai narratori nel

luogo che più dovrebbe marcare la formalità cortese: la Valle delle Donne, esaltata

dal canto degli uccelli, ricca di bellezza e di un tepore quasi incantato. Il contrasto tra

questo luogo, simbolo della formalità cortese (ricercata anche nel riferimento alle

ottave del Teseida), e l'argomento compromettente che i narratori vi affrontano,

esplicita una indicazione formale dell'autore: è come se venisse mostrato il ventre

aperto di una società che esteriormente appare cortese, magica, letteraria, ma

all'interno è segretamente ricca di ipocrisia e sotterfugi, adulteri e beffe. Questa

tematica, che già riprendeva la tematica della sesta giornata (i "motti"), colpirà i

narratori e li diletterà al punto che essi la riprenderanno, seppure con qualche

differenza, nella giornata seguente.

La giornata risulta ancora più importante all'interno dell'opera perché contiene

ulteriori racconti nei racconti (raccontati dal Boccaccio della cornice): passando dal

piano del reale a quello del verisimile, poiché la beffa deve funzionare e quindi

essere credibile, infatti, viene ribadito il potere illusionistico del racconto. I

protagonisti sono costretti ad inscenare dei racconti nei racconti, e spesso riescono a

rendere credibili anche cose che per logica non possono esistere.

È questo il caso di Peronella, che fa credere al marito che l'amante sia un

105 Dec., III, 4, § 27, p. 566.

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compratore entrato nel doglio per «vedere se saldo fosse».106

Nel triangolo amoroso boccacciano vediamo porsi ai vertici una «bella e vaga

giovinetta», un «povero uomo» e un amante «giovane de' leggiadri»,107 mentre nel

racconto di Lucio si contrappongono un moglie magra e malandata, ma lussuriosa,

un pover'uomo fabbro, consunto dalla miseria e uno spudorato amante.

La narrazione ha inizio in ambedue i casi con una breve descrizione della coppia e

l'ambientazione boccacciana che si pone a differenziare le due fabulae:

Is gracili pauperie laborans fabriles operas praebendo parvis illis

mercedibus vitam tenebat. Erat ei tamen uxorcula etiam etiam satis

quidem tenuis et ipsa, verum tamen postrema lascivia famigerabilis.108

[...] in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga

giovinetta chiamata Peronella, e esso con l'arte sua, che era muratore,

e ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano

come potevano il meglio.109

Vengono poi introdotti gli amanti, incontrati quasi per caso e introdotti a casa

della moglie adultera segretamente all'uscire del marito, che inaspettatamente ritorna:

Sed die quadam, dum matutino ille ad opus susceptum proficiscitur,

statim latenter irrepit eius hospitium temerarius adulter. Ac dum

Veneris colluctationibus securius operantur, maritus, ignarus rerum ac

nihil etiam tum tale suspicans, improvisus hospitium repetit.110

Ma pur trall'altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo

fuori uscito e Giannelllo Scrignario, ché così aveva nome il giovane,

entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in

tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò.111

Ecco poi la reazione compiaciuta dei mariti, che si allietano della prudenza delle

mogli nel serrare l'uscio di casa e denunciano il proprio arrivo con modalità diverse:

Iamque clausis et obseratis foribus, uxoris laudata continentia ianuam

106 Dec., VII, 2, § 21, p. 1087. La novella è narrata da Filostrato, mentre il re della giornata è Dioneo.

107 L'espressione fa riferimento al ceto sociale del giovane, indicando infatti l'eleganza in quanto caratterizzante della sua condizione.

108 Met., IX, 5, p. 310.109 Dec., VII, 2, § 7, p. 1084.110 Met., IX, 5, p. 310.111 Dec., VII, 2, § 10, p. 1084-1085.

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pulsat, sibilo etiam presentiam suam denuntiante.112

E trovato l'uscio serrato dentro, picchiò e dopo 'l picchiare cominciò

seco a dire.113 "O Iddio, lodato sia tu sempre, ché, benché tu m'abbi

fatto povero, almeno m'hai tu consolato di buona e d'onesta giovane di

moglie! Vedi come ella tosto serrò l'uscio dentro come io ci usci',

acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse".114

Ha qui inizio la vicenda, con le reazioni delle mogli astute e pronte che, l'una

senza alcun tentennamento, l'altra in uno stato d'animo di panico, accolgono il marito

e procurano il medesimo nascondiglio agli amanti:

Tunc mulier callida et ad huiusmodi flagitia perastutula tenacissimum

amplexibus expeditum hominem dolio, quod erat in angulo

semiobrutum, sed alias vacuum, dissimulanter abscondit, et patefactis

aedibus adhuc introeuntem maritum aspero sermone accipit: "Sicine

vacuus et otiosus insinuatis manibus ambulabis mihi, nec obito

consueto labore vitae nostrae prospicies et aliquid cibatui parabis? At

ego misera pernox et perdia lanificio nervos meos contorqueo, ut intra

cellulam nostram saltem lucerna luceat. Quanto me felicior Daphe

vicina, quae mero et prandio matutino sucia cum suis adulteris

volutatur!115

Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe,

disse: "Oimé! Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che

tristo il faccia Iddio, che ci tornò: e non so che questo si voglia dire,

ché egli non ci tronò mai più a questa otta: forse che ti vide egli

quando tu c'entrasti!! Ma per l'amore di Dio, come che il fatto sia,

entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò a aprire, e

veggiamo quello che questo vuol dire di tornare così tosto a casa".

Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all'uscio

aprì al marito e con un mal viso disse: "Ora che questa novella è, che

tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu

112 Met., IX, 5, p. 310-312.113 Notevole è come il Boccaccio inserisca qui un discorso diretto, a sostituire l'ablativo assoluto

laudata continentia in Apuleio, ad indicare una azione non solo narrata ma anche agita. I personaggi boccacciani parlano infatti per una necessità interna, motivati e dotati di una forte psicologizzazione, peculiarmente autoriale: ogni loro battuta riproduce infatti la loro condizione psicologica.

114 Dec, VII, 2, § 10-11, p. 1085.115 Met., IX, 5, p. 312.

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non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co' ferri tuoi in

mano: e se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane?

Credi tu che io sofferi che tu m'impegni la gonnelluccia e gli altri miei

pannicelli,116 che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la

carne mi s'è spiccata dall'unghia, per potere almeno aver tanto olio,

che n'arda la nostra lucerna? Marito, marito, egli non ci ha vicina che

non se ne maravigli e che non facci beffe di me, di tanta fatica quanta

è quella che io duro: e tu mi torni a casa colle mani spenzolate quando

tu dovresti essere a lavorare".117

Come si può notare, la struttura dei dialoghi è esattamente la stessa, così come le

argomentazioni delle donne. Anche le risposte dei mariti, che giustificano il loro

ritorno imprevisto, con la coloritura di Boccaccio posta nella festa di ambientazione

tutta napoletana di San Galeone, e portano la notizia della vendita del doglio, sono

molto simili, seppure la reazione del marito si ponga a livello molto più soggettivo e

affettuoso, attraverso l'apostrofe consolatoria alla moglie:

Sic confutatus maritus: "Et quid istic est?" ait. "Nam licet forensi

negotio officinator noster attentus ferias nobis fecerit, tamen hodiernae

cenulae nostrae prospexi. Vide sis ut dolium, quod semper vacuum,

frustra locum detinet tantum et re vera praeter impedimentum

conversationis nostrae nihil praestat amplius. Istud ego sex denariis

cuidam venditavi, et cingeris mihique manum tantisper accomodans,

ut exobrutum protinus tradatur emptori?118

Deh! donna, non ti dar malinconia, per Dio! Egli è vero che io andai

per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol

sapeva. Egli è oggi la festa di santo Galeone e non si lavora, e perciò

mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e

trovato modo che noi avremo del pane per più d'un mese, che io ho

venduto a costui, che tu vedi qui con meco, il doglio,119 il qual tu sai

che già è cotanto ha tenuta la casa impaggiata; e dammene cinque

116 Il Boccaccio riprende il diminutivo apuleiano cellulam nostram, ad aumentare il tono patetico del discorso della ragazza, che ella articola sapientemente su tre livelli graduati: tu, noi, io, ai quali poi viene aggiunto un quarto, «gli altri», i vicini che amplificano così il dialogo a tu per tu.

117 Dec., VII, 2, § 12-15, pp. 1085-1087.118 Met., IX, 6, p. 312.119 Come si può notare, il termine più importante, il doglio è posto in posizione di rilievo, vendendosi

così a costituire un iperbato che aumenta il senso di sospensione e acuisce l'elemento sorpresa.

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gigliati.120

Alla risposta pronta delle mogli, i mariti si rallegrano della vendita avvenuta a

prezzo maggiorato, e accettano insospettosi il fatto che un uomo si sia calato nel

doglio:

E re rata fallaciosa mulier, temerarius tollens cachinnum: "Magnum"

inquit "istum virum ac strenuum negotiatorem nacta sum, qui rem,

quam ego mulier et intra hospitium contenta iam dudum septem

denariis vendidi, minoris distraxit". Additamento pretii laetus, maritus:

"Et quis ille" ait "qui tanto praestinavit?". At illa: "Olim, inepte,"

inquit "descendit in dolium, sedulo soliditatem eius probaturus".121

Disse allora Peronella: "E tutto questo è del dolor mio: tu, che sè

uomo e vai attorno dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto

un doglio per cinque gigliati, il quale io feminella che non fu' mai

appena fuor dell'uscio, veggendo lo 'mpaccio che in casa ci dava, l'ho

venduto a un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v'entrò per

vedere se saldo fosse.

Quando il marito udì questo, fu più che contento.122

Ha allora inizio la vera beffa, dal sapore plautino, allorché l'amante furbo vi si

unisce rincarando anzi la dose della moglie, accentuata in Boccaccio dal vivace

dialogo tra marito e amante (par. 26-29). Egli si lamenta infatti della pulizia della

botte, con i mariti che subito, sostituendolo all'interno del vaso, lo pulisce. La

moglie, rimasta fuori, dirige i lavori, e intanto l'adulterio si consuma, arricchito nel

Boccaccio dalla metafora delle cavalle di Partia che contribuisce ad allentare la

tensione narrativa e a creare un'immagine panica e naturale nel quale si colloca

l'inarrestabile forza del «giovinil desiderio»:

Nec ille sermoni mulieris defuit. Sed alacriter: "Vis" inquit "verum

scire, mater familias? Hoc tibi dolium nimis vetustum est et

multifariam rimis hiantibus quassum". Ad maritumque eius

dissimulanter conversus: "Quin tu, quicumque es, homuncio,

lucernam" ait "actutum mihi expedis, ut erasis intrinsecus sordibus

diligenter aptumne usui possim dinoscere, nisi putas aes de malo

120 Dec., VII, 2, § 19-20, p. 1087.121 Met., IX, 6, p. 312.122 Dec., VII, 2, § 21-22, p. 1087.

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habere?". Nec quicquam moratus ac suspicatus acer et egregius ille

maritus, accensa lucerna: "Discede," inquit "frater, et otiosus assiste,

donec probe percuratum istud tibi repraesentem". Et cum dicto

nudatus ipse delato lumine scabiem vetustam cariosae testae occipit

exsculpere. At vero adulter, bellissimus ille pusio, inclinatam dolio

pronam uxorem fabri superincurvatus secure dedolabat. Ast illa capite

in dolium demisso maritum et rursus aliud purgandum demonstrat

digito suo, [...].123

Disse allora Giannello: "Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare

che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impastricciato di

non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l'unghie, e

però io nol terrei se nol vedessi prima netto".

Disse allora Peronella: "No, per quello non rimarrà il mercato, mio

marito il netterà tutto".

E il marito disse: "Sì bene" [...]. E Peronella [...] cominciò a dire:

"Radi quivi e quivi e anche colà" e "Vedine qui rimaso un micolino".

E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello,

il quale non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito [...] a lei

accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella

guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d'amor caldi le cavalle

di Partia assaliscono, a effetto recò il giovinil desiderio.124

Abbiamo infine la conclusione della vendita, con il doglio recapitato direttamente

a casa dell'amante:

[...] donec utroque opere perfecto, acceptis semptem denariis

calamitosus faber collo suo gerens dolium coactus est ad hospitium

adulteri perferre.125

Per che Peronella disse a Giannello: "Te' questo lume, buono uomo, e

guata se egli è netto a tuo modo".

Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene e che egli era

contento; e datigli sette gigliati a casa sel fece portare.126

123 Met., IX, 7, p. 312-313. 124 Dec., VII, 2, § 29-34, p. 1088-1089.125 Met., IX, 7, p. 314.126 Nella versione decameroniana non è specificato che sia il marito, a portare il doglio a casa

dell'amante, cosicché egli non risulti infine inepte come il personaggio apuleiano e l'astuzia di Peronella ne risulti infine più accentuata, come del resto dimostra l'atteggiamento restio di

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Mentre l'ambientazione della fabula apuleiana non risulta significativa a livello

della narrazione, essendo presentata essa come priva di legami con il mondo esterno,

quella boccacciana influisce molto, da momento che essa va a costruire un mondo

urbano animato di uomini semplici e laboriosi, di donne allegre e di giovani de'

leggiadri che le corteggiano, con l'aggiunta temporale della festa di San Galeone che

contribuisce a creare quell'atmosfera tranquilla di cui la trama è intessuta.

I due personaggi della coppia sono in Boccaccio maggiormente individualizzati,

con un marito che, sebbene povero uomo, esercita un'arte sua, quella del muratore,

che evoca un ambiente di corporazioni nella società comunale, e la moglie bella e

vaga che però riuscirà nel finale a prevalere su entrambi gli uomini, al contrario della

uxorcula apuleiana che rimarrà chiusa in una stanza e cacciata dalla abitazione

coniugale.

Mentre la mulier apuleiana è caratterizzata sempre ancora prima che ne vengano

descritte le azioni e rimane comunque un tipo che l'autore deve necessariamente

etichettare, oltre che un personaggio tutto sommato passivo, Peronella è descritta

inizialmente dall'esterno (par. 7), ma in seguito il suo personaggio si sviluppa

dall'interno e prende carattere attraverso le proprie azioni (da bella e vaga giovanetta

a buona donna), rimanendo in ogni caso attiva sia nell'inventare lo stratagemma del

doglio, sia nel gestire il piccolo mercato tra i due uomini, sia nell'approfittare della

situazione quando il marito si cala nel doglio, mentre nell'intreccio apuleiano è

l'amante a prendere l'iniziativa.

La coppia boccacciana è inoltre sì povera, ma non di gracili pauperie, e tra loro vi

è un equilibrio enfatizzato dal doppio parallelismo bella e vaga, ed esso dell'arte

sua...ed ella filando, l'adulterio non sarà conseguenza di una infelicità coniugale o di

una irrefrenabile lussuria, ma il risultato di un innamoramento vero e proprio. Nella

versione latina invece, già dal tono iniziale percepiamo dei segnali sulla conclusione

della vicenda, nella caratterizzazione della uxorcula conosciuta per la sua postrema

lascivia, contrapposta alla giovane bella e vaga che si guadagna la vita tessendo,

nella quale non riscontriamo inizialmente la volontà di tradire il marito; il Boccaccio

Giannello al momento di pagare, reso ancora più chiaro dal rallentamento creato dall'allitterazione della dentale t e la presenza doppia del digramma liquido-palatale gl nella locuzione «datigli sette gigliati».

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non ci priva cioè dell'elemento sorpresa, non presentandoci una coppia senza amore,

e lo ribadisce poi in quel riconoscere il marito dal modo di bussare che sconvolge

Peronella.

Anche l'amante boccacciano è maggiormente caratterizzato, così come l'episodio

di conoscenza tra lui e Peronella, che avviene anch'esso die quadam, ma la cui

conseguenza è un innamoramento graduale, del quale ogni episodio viene descritto

nel suo divenire. Così come la moglie postrema lascivia famigerabilis e il marito

laborans, anche il temerarius adulter altro non è che una maschera, mentre

nell'intreccio boccacciano egli ha un ruolo attivo e peculiare, ancora più del marito,

che invece non viene nemmeno nominato; l'amante si presenta in tutto il Decameron

e anche nelle Metamorfosi non come una figura che sovverte l'ordine delle «cose del

mondo», ma come una maschera/personaggio che fa parte di esse e che al loro

interno prende ruolo proprio in quanto adulter.

Questo, come lo definì Sklovskij, è un «caso raro del trasferimento di un aneddoto

invariabile», invariabile «perché è straordinario e racchiude un elemento di insolenza

erotica».127 Elemento comune diventa allora il sottile realismo presente in Apuleio e

Boccaccio, ricorrente nella trama e nella definizione stessa del termine «novella»:

come scrisse Goethe, essa è portatrice di «fatti nuovi», di un evento che pone al di

fuori del normale scorrere della quotidianità e che diventa tipico proprio quando essa

lo racconta.

127 Victor Sklovskij, Lettura del Decameron, Bologna, Il Mulino, 1969.

46

Page 47: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

II: Le Metamorfosi e due novelle del Decameron

II. 1: La Fortuna come elemento strutturale

Il Decameron racconta il «mondo presente»,128 il mondo cioè fatto di donne e

uomini le cui vite sono amministrate da Natura e Fortuna, che possono essere a tutti

gli effetti considerate come delle burattinaie crudeli, alle quali i tapini umani possono

opporsi soltanto per mezzo del proprio ingegno. Esse distribuiscono insieme tutto ciò

che all'essere umano è dato dalla nascita (doti fisiche, intellettuali e morali), tutto

quanto insomma è insito nell'indole. La Natura governa sulla relazione tra animo e

corpo, mentre la Fortuna è padrona del rapporto che intercorre tra l'indole e lo status

sociale. Quasi sempre esse sono poste in contrapposizione, attraverso il dualismo su

cui il Boccaccio ritorna più volte tra l'indole buona e la crudeltà della sorte e l'indole

cattiva e la benignità della sorte. Ne è un esempio la riflessione posta in apertura

della seconda novella della sesta giornata, nella quale Pampinea, per introdurre la

storia di Cisti il fornaio, che «d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio», così

pensa:

E certo io maldicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non

conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi,

come che gli sciocchi lei cieca figurino. [...] E così le due ministre del

mondo spesso le lor cose più care nascondono sotto l'ombra dell'arti

reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più chiaro

appaia il loro splendore.129

La Fortuna ha sicuramente all'interno della narrazione un maggiore impatto sulle

«alterne vicende» dell'uomo: mentre Natura ricorre 39 volte nel corso di tutta l'opera,

Fortuna vi ha ben 115 occorrenze, la prima delle quali nella locuzione «il peccato

della Fortuna», che ricorre poi 6 volte nell'opera. La fortuna non è solamente il

cardine su cui ruotano le novelle di una intera giornata, la seconda, ma, insieme con

l'Amore, il tema principale dell'opera intera. Il peccato della Fortuna è prima di tutto

un peccato nei confronti delle donne, afflitte dalle pene amorose (Proemio, § 13),

secondariamente esso è stato commesso con l'arrivo della peste, e poi ancora riguarda

128 Dec., I, 8, § 10, p. 262.129 Dec., VI, 2, § 4 e 6, pp. 985-986.

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Page 48: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

individualmente ogni personaggio del Decameron.

Anche nelle Metamorfosi apuleiane la sorte gioca un ruolo fondamentale, in

quanto essa influisce in buona parte sui «destini umani» allontanandoli dalla loro

natura e gettandoli nel mezzo di vicende dalle quali essi escono spesso funestati,

tramutati o ne muoiono. La prima ricorrenza di Fortuna la troviamo in I, 6, nel

momento in cui Aristomene incontra Socrate che, seduto per terra e mezzo svestito,

sembrava uno di quelli che «solent Fortunae decermina stipes in triviis erogare»,130

uno dei molti perseguitati dai «fortunarum lubricas ambages et instabiles incursiones

et reciprocas vicissitudines»,131 che sembra godersi di questa sua vittoria.132

La Fortuna non interviene poi quando Aristomene, dopo aver visto il sortilegio

delle streghe vendicative su Socrate, non potendo fuggire, vuole darsi la morte, ma

«cum nullum aliud telum mortiferum Fortuna quam solum mihi grabatulum

sumministraret», egli tenta di utilizzare la corda che funge da rete del letto, che infine

cede.

La Fortuna viene inoltre invocata da Venere furente di rabbia per gli onori tributati

alla fanciulla mortale Psiche. Ella, rivolgendosi al figlio Amore, così parla:

Idque unum et pro omnibus unicum volens effice: virgo ista amore

flagrantissimo teneatur hominis extremi, quem et dignitatis et

patrimonii simul et incolumitatis ipsius Fortuna damnavit, tamque

infimi, ut per totum orbem non inveniat miseriae suae comparem.133

E le sorelle invidiose della ragazza deprecano la Fortuna per aver voluto per loro

sorti diverse da quelle che invece ha riservato per la sorella minore:

En orba et saevia et iniqua Fortuna! Hocine tibi complacuit, ut utroque

parente prognatae diversam sortem sustineremus?134

Anche Carite, durante il tenativo di fuga dalla caverna dei briganti, depreca la

Fortuna in questi termini:

[...] et tu, Fortuna durior, iam saevire desiste. Sat tibi miseris istis

130 Met., I, 6, p. 10.131 Ibidem.132 Le parole che Socrate rivolge ad Aristomene sono infatti queste: «fruatur diutius tropaeo Fortuna

quod fixit ipsa».133 Met., IV, 31, p. 146.134 Met., V, 9, p. 162.

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Page 49: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

cruciatibus meis litatum est.135

Le avventure dello stesso Lucio sono giostrate dalla Fortuna, e spesso egli,

soprattutto da asino, ricorre ad essa per lamentarsi del proprio destino, in particolare

in Met., VII, 2, dove, dopo aver sentito il ladrone raccontare dei sospetti e della

condanna ricaduta su Lucio per la rapina in casa di Milone, le imputa di averlo

ridotto alla più vile delle bestie per mezzo dei suoi assalti. Lucio-asino, che

meriterebbe come egli stesso dice la compassione del peggiore degli uomini, si

ritrova condannato senza potersi difendere per una rapina accostabile al parricidio

per il fatto di essere stata compiuta ai danni di un ospite. Egli riflette in questo modo:

[...] subibatque me non de nihilo veteris priscaeque doctrinae viros

finisse ac pronuntiasse caecam et prorsus exoculatam esse Fortunam,

quae semper suas opes ad malos et indignos conferat, nec umquam

iudicio quemquam mortalium eligat, immo vero cum is potissimum

deversetur quos procul, si videret, fugere deberet; quodque cunctis est

extremius, varias opiniones, immo contrarias nobis attribuat, ut et

malus boni viri fama glorietur et innocentissimus contra noxio rumore

plectatur.136

Sembra qui ricorrere la riflessione di Pampinea in Dec., VI, 2: l'immagine della

Fortuna cieca è però ribaltata in Boccaccio: nel Decameron la Fortuna agisce

consapevolmente nei confronti degli uomini, venendo a sostituire il «concetto

cristiano di Provvidenza».137 Pampinea sviluppa infatti l'argomentazione sul peccato

di Natura e peccato della Fortuna, creando l'omologia strutturale con l'atteggiamento

tipicamente umano di nascondere le cose più care, siano esse preziose a livello

affettivo o per valore, a causa dell'incertezza del futuro, volendo poi mostrarle

quando più ve ne sia necessità (è questo, nello specifico, il caso della novella di Cisti

il fornaio, al quale la Natura diede un animo astuto e intelligente e la Fortuna, in

opposizione, un mestiere umile e faticoso).

In Apuleio le ricorrenze di Fortuna sono per lo più riferite all'azione negativa che

essa ha sulle vicende dei personaggi (e in particolare sulla sorte di Lucio), mentre in

Boccaccio, sebbene sia preponderante l'effetto negativo, è presente anche quello

135 Met., VI, 28, p. 222.136 Met., VII, 2, p. 232.137 Monica Balestrero, cit., p. 13.

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Page 50: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

positivo, ad indicarne la totale casualità. Nelle Metamorfosi sono infatti frequenti

espressioni quali «Sed agilis atque praeclarus ille conatus Fortunae meae scaevitatem

anteire non potuit»,138 oppure «talibus aerumnis edomitum novis Fortuna saeva

tradidit cruciatibus»,139 o ancora «verum Fortuna meis cruciatibus insatiabilis aliam

mihi denuo pestem instruxit».140

La Fortuna appare negli ultimi episodi del poema apuleiano, dapprima

nell'invocazione che Lucio rivolge alla divinità in Met., XI, 2,141 in seguito nel

momento della salvifica metamorfosi di Met., XI, 12142 e infine nel dialogo tra Lucio

e il sacerdote in Met., XI, 15, dove quest'ultimo si rivolge al protagonista con queste

parole:

Multis et variis exanclatis laboribus magnisque Fortunae

tempestatibus et maximis actus procellis, ad portum Quietis et aram

Misericordiae tandem, Luci, venisti. [...] Sed utcumque Fortunae

caecitas, dum te pessimis periculis discruciat, ad religiosam istam

beatitudinem improvida produxit malitia. Eat nunc et summo furore

saeviat et crudelitati suae materiem quaerat aliam; nam in eos quorum

sibi vitas in servitium deae nostrae maiestas vindicavit non habet

locum casus infestus. Quid latrones, quid ferae, quid servitium, quid

asperrimorum itinerum ambages reciprocaem quid metus mortis

cotidianae nefariae Fortunae profuit? In tutelam iam receptus es

Fortunae, sed videntis, quae suae lucis splendore ceteros etiam deos

illuminat. [...] En ecce pristinis aerumnis absolutus Isidis magnae

providentia gaudens Lucius de sua Fortuna triumphat.143

La Fortuna nel poema apuleiano si può associare con facilità al Poseidone

odissiaco, che perseguita Ulisse senza permettergli di raggiungere la sua Itaca, e

infatti le Metamorfosi possono essere lette come una Odissea parallela, composta,

anziché di creature mitologiche e soprannaturali, di destini umani in balia di un caso

incontrollabile e spesso dannoso.

138 Met., IV, 2, p. 112.139 Met., VII, 16, p. 248.140 Met., VII, 17, p. 250.141 «Tu meis iam nunc extremis aerumnis subsiste, tu fortunam collapsam affirma, tu saevis

exanclatis casibus pausam pacemque tribue», p. 410-411.142 «Quod tot ac tantis exanclatis laboribus, tot emensis periculis, deae maximae providentiae

alluctantem mihi saevissime Fortunam superarem», p. 422-423.143 Met., XI, 15, p. 426.

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Page 51: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

Vediamo, nelle Metamorfosi come nel Decameron, una evoluzione positiva del

concetto di Fortuna, sopraffatta nel primo caso dalla fede divina, nell'altro,

parallelamente, dalla speranza e dalla felice industria dell'uomo.

II. 2: Decameron II, 9

Sia in Boccaccio, sia in Apuleio, la Fortuna è percepita come una entità esterna,

che agisce in maniera totalmente casuale mutando il destino degli uomini

positivamente o negativamente, e che ha il potere di rovesciare le situazioni, di

condurre l'uomo alla più totale disperazione senza che questi ne abbia colpa e

ponendolo in una condizione di continua precarietà e aleatorietà.

L'unico rimedio con cui l'uomo può opporsi alla Fortuna, se non sempre per

condurre la propria vicenda al lieto fine, almeno per limitarne i danni, sono le proprie

virtù: ingegno e ragione. Proprio questo è infatti il tema della seconda giornata,

«nella quale, sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose

infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine»,144 espressione che sembra

riprendere esplicitamente l'argomento nel proemio apuleiano: «figuras fortunasque

hominum [...] et in se rursum mutuo nexu refectas». Come abbiamo già avuto modo

di dimostrare, questa giornata è quella in cui più di tutte le altre si intrecciano la

tematica della sorte e quella erotica; nelle due novelle che analizzeremo questo si può

percepire a un livello ancora più intenso, per le conseguenze funeste che queste

immense forze avranno sui personaggi.

È infatti l'eros a muovere i personaggi, mentre la sorte agisce come una entità

esterna a manovrare i fili della trama. Nella settima novella, ad esempio, l'eros fa sì

che i personaggi che si avvicendano intorno ad Alatiel per possedere il suo corpo si

uccidano vicendevolmente e si spostino attraverso lo spazio geografico, ma è la sorte

che infine permetterà l'incontro tra la ragazza e Antigono. Nella nona novella, invece,

l'eros fa sì che Zinevra debba fuggire ad Alessandria, ma la sorte spingerà nel

medesimo luogo anche Ambrogiuolo e Bernabò, concedendo alla donna la possibilità

di vendicarsi.

Il Boccaccio riprende in queste novelle alcuni spunti narrativi delle Metamorfosi.

144 Dec., Introduzione, II, § 1, p. 311.

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Page 52: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

Ad esempio, il supplizio del miele inflitto ad Ambrogiuolo da Piacenza nel finale

della novella nona della seconda giornata attinge direttamente dal ventiduesimo

capitolo dell'ottavo libro delle Metamorfosi.

Ecco il testo di Apuleio:

Quam mortem145 dominus eorum aegerrime sustinens adreptum

servulum, qui causam tanti sceleris luxurie sua praestiterat, nudum ac

totum melle perlitum firmiter alligavit arbori ficulneae, cuius in ipso

carioso stipite inhabitantium formicarum nidificia bulliebant et ultro

citro commeabant multiuga scaturrigine. Quae simul dulcem ac

mellitum corporis nidorem persentiscunt, parvis quidem sed

numerosis et continuis morsiunculis penitus inhaerentes, per longi

temporis cruciatum ita, carnibus atque ipsis visceribus adesis, homine

consumpto membra nudarunt, ut ossa tantum viduata pulpis nitore

nimio candentia funestae cohaererent arbori.146

A narrare l'episodio è Lucio-asino, che in questo momento è in fuga insieme con il

capo delle scuderie a cui l'aveva affidato Tlepòlemo, e con altri mandriani. Sembra

riecheggiare in questo passo la punizione inflitta da Zeus a Prometeo, che, colpevole

di aver dapprima ingannato il padre degli dèi e poi liberato gli uomini almeno in

parte dalla conseguente punizione, venne incatenato a un masso sulla cima di un

monte, dove ogni giorno l'aquila di Zeus divorava il suo fegato e i suoi occhi, che di

notte si rigeneravano, infinitamente (come gli infiniti piccoli morsi delle formiche).

Il tema dell'infanticidio/suicidio come funesta conseguenza del furor della gelosia

ricorre invece, ad esempio, in miti quali quello di Medea o quello di Aedona. Con

quest'ultima novella, inserita nelle Metamorfosi del greco Antonio Liberale (II secolo

145 Il servo, sposato con un figlio, si è innamorato di una giovane serva. Sua moglie, appreso l'adulterio, si suicida impiccandosi insieme con il figlio. Vi sono diversi motivi appartenenti alla tradizione letteraria antica: il suicidio per amore, l'infanticidio per vendetta amorosa, il pozzo.Per una visione generale di motivi precedenti al testo di Apuleio si veda Ignazio Cazzaniga, Il supplizio del miele e delle formiche. Un motivo novellistico nelle Metamorfosi di Apuleio, in «Studies in philology», LXVI, 1, 1949, pp. 1-5.

146 Met. VIII, 22, pp. 290-292: «Il padrone, profondamente turbato da questa morte, arrestato il servo che era stato causa di un simile delitto per causa della lussuria, lo fece legare nudo e per intero cosparso di miele ad un albero di fico, dal cui tronco tarlato brulicavano formiche che correvano da ogni parte attraverso i molti fori. Le quali, non appena avvertirono il dolce e mielato odore che proveniva dal suo corpo, improvvisamente si attaccarono a quel corpo e con i loro piccoli, ma numerosi ed infiniti morsi, in una punizione che pareva non finire mai, gli rosicchiarono le carni e le viscere, fino a che non lo consumarono tutto lasciando solo le ossa scarnificate, finché, legato a quell'albero portatore di morte, non rimase altro che il biancheggiare delle ossa».

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d. C., quindi pressoché coeve all'opera dell'autore di Madaura) la versione apuleiana

ha in comune proprio il supplizio del miele: Aedona è la sposa del falegname

Politectone, che sfacciatamente rapisce la sorella di lei e, violentatala, la conduce

come schiava dalla moglie con uno stratagemma affinché ella non la riconosca; una

volta scoperto il misfatto, Aedona e sua sorella, per punirlo, infliggono lui il

supplizio del miele, ma infine il padre di loro lo libera. Nella versione dell'Aedon di

Efesìa di Beo, di epoca ellenistica, la vendetta di Aedona comprende anche

l'imbandimento delle carni del figlio Iti, per la qual cosa Politecno, folle d'ira,

insegue la moglie e la cognata fino alla casa del suocero Pandareo, che per vendetta

infligge lui, infine, il supplizio del miele (con quest'ultima versione il racconto di

Apuleio avrebbe anche in comune anche la collateralità vendicativa della morte del

figlio).

Il gusto del macabro è molto presente nelle Metamorfosi, come dimostrano le

minuziose descrizioni con cui Lucio snoda per noi il racconto: dalla descrizione della

morte di Socrate e del sortilegio che attuano contro di lui le due streghe, a quella di

Telifrone magicamente mutilato di naso e orecchie, fino alla descrizione dei briganti

morti durante le rapine, alla scena che comprende le morti di Tlepolemo, Trasillo e

Carite, e ancora a quella del ragazzo sbranato dall'orsa di cui i compagni «plane

corpus eius membratim laceratum multisque dispersum locis conspicitur».

Si tratta di un senso del brutto presente a più riprese in entrambe le opere prese in

esame, che si riflette da un lato, in Apuleio, in un brutto spirituale esplicitato, tra

l'altro, anche nelle forme del meschino, del male e dello stregonesco, dall'altro, ed è

il caso del Decameron, in un brutto sia di natura sia spirituale, spesso evocatore di

disarmonia tra spirito e corpo e tra Natura e Fortuna, precursore della scorrettezza nel

personaggio ed esplicitato infine nello sfiguramento attraverso il volgare (carattere

meschino, debole, vile o rozzo) o il ripugnante (carattere maligno e criminoso).147

Nella descrizione del supplizio il senso del macabro è rintracciabile anche a

livello stilistico, sottolineato da quel cruciatum che rende ancora più esplicita l'idea

che si tratti di un supplizio di morte, oltre che dal frequente ricorrere della vibrante

alveolare r in corporis, persentiscunt, parvis, numerosis e morsiunculis e ancora, più

147 Per una rassegna di queste forme del brutto, cfr Rosenkranz, Karl, Estetica del brutto, R. Bodei (a cura di), Bologna, Il Mulino, 1984.

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Page 54: Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche

avanti, in inhaerentes, nell'espressione «per longi temporis cruciatum ita, carnibus

atque ipsis visceribus adesis».

Il testo boccacciano recita in questo modo:

Il soldano appresso comandò che incontanente Ambrogiuolo in alcuno

alto luogo della città fosse al sole legato ad un palo e unto di mele, né

quindi mai, infino a tanto che per sé medesimo non cadesse, levato

fosse; e così fu fatto.

[...]

Ambrogiuolo il dì medesimo che legato fu al palo e unto di mele, con

sua grandissima angoscia dalle mosche e dalle vespe e da' tafani, de'

quali quel paese è copioso molto, fu non solamente ucciso, ma infino

all'ossa divorato; le quali bianche rimase e a' nervi appiccate, poi

lungo tempo, senza esser mosse, della sua malvagità fecero a

chiunque le vide testimonianza. E così rimase lo 'ngannatore a piè

dello 'ngannato.148

La novella, narrata dalla Regina Filomena, si inserisce nella seconda giornata.

Tutte le novelle di questa giornata hanno in comune anche il tema del viaggio (per lo

più, come in questo caso, per fini economici) oltre che quello dell'eros. Essa è

ambientata nel XIV secolo e si apre con un dibattito tra mercanti italiani, tra i quali

Ambrogiuolo e Bernabò Lomellin da Genova, sulla fedeltà delle mogli in assenza dei

mariti. A questo dibattito, nel quale Bernabò risulta l'unico a sostenere la fedeltà della

propria moglie Zinevra, con una descrizione di lei che risulta funzionale al seguito

della trama, segue la scommessa con Ambrogiuolo, che si impegna così a recarsi a

Genova e tentare di sedurre la donna. Non riuscendo nell'impresa, aiutato da una

serva a introdursi nella stanza da letto della donna, di notte ruba alcuni oggetti

personali di Zinevra e scopre la donna, notando così un neo sulla mammella.

Recatosi in seguito nuovamente a Parigi, racconta l'accaduto a Bernabò che, tornato a

Genova adirato, ordina a un parente di uccidere la donna.

Avviene però che il parente, impietosito dalle suppliche di Zinevra, non la uccida

e, anzi, ascolti la sua versione dei fatti, prendendo poi i suoi vestiti per dimostrare a

Bernabò di averla uccisa. Zinevra fugge allora da Genova, travestendosi da uomo e

148 Dec., II, 9, § 72-75, pp. 476-477.

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imbarcandosi sulla nave del catalano En Cararh come marinaio, col nome di Sicuran.

Eccellendo nel proprio mestiere, le vengono affidati incarichi più importanti, finché

un giorno, approdando la nave presso Alessandria, viene inviata dal sultano per

consegnare un carico. Il sultano, piacevolmente stupito delle capacità di Sicurano,

chiede che En Cararh lo lasci affidato a lui, e così avviene. Dopo poco tempo a

Sicurano viene affidato il compito di vigilare sul mercato tra cristiani e arabi e,

mentre lo espleta, nota tra gli altri Ambrogiuolo intento a vendere i vestiti che le

aveva rubati. Domandandone la provenienza a quest'ultimo, le viene da lui svelato

l'inganno inflitto a Bernabò. Sicurano-Zinevra lo convince allora a narrare la

medesima storia al sultano, che convoca anche Bernabò, arrivato anche lui ad

Alessandria per affari.

Così infine Zinevra svela a tutti la propria identità e il sultano obbliga

Ambrogiuolo al risarcimento, dona a Bernabò e Zinevra molte ricchezze e permette

loro di ripartire alla volta di Genova, condannando il traditore al supplizio del miele.

Il supplizio in Boccaccio è accentuato dalla triplice anafora in dalle mosche, dalle

vespe e da' tafani, oltre che dall'espressione «con sua grandissima angoscia» e dalla

descrizione minuziosa di ciò che rimane attaccato al palo dopo la morte del

condannato.

Strutturalmente bipartita, la novella vede opporsi un uomo meschino e senza

scrupoli, ma in un primo tempo molto fortunato, e una donna che riconquista da sé il

proprio ruolo e, anzi, lo impreziosisce sia in termini di ricchezza materiale, sia

nell'opinione che di lei hanno il marito e il sultano: ella è una autentica faber suae

Fortunae. Se nella sezione iniziale è proprio la nudità della donna a causarne la

rovinosa caduta di virtù e la perdita di tutto, nella sezione finale sarà proprio il suo

petto scoperto a permetterle di riconquistare ogni cosa, a dispetto del discorso

iniziale di Ambrogiuolo nel quale asseriva che la vergogna e il disonore risiedono

nelle «cose palesi» (§ 19).

In questa novella, così come in molte altre del Decameron, troviamo la grandiosa

rievocazione della civiltà italiana del tardo Medioevo, e in particolare della vita

mercantile,149 che per la prima volta nella letteratura europea è giudicata degna di

149 «L'epopea dei mercatanti», come la chiama il Branca. Branca, Boccaccio madievale, cit., pp. 134-164.

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entrare in letteratura. La novità più saliente del Certaldese è forse proprio quella di

aver dato una veste letteraria alla società contemporanea, che diventa il fulcro di tutto

un poema, in cui i personaggi si presentano quasi come antieroi rispetto ai

protagonisti dei cicli sanscriti, della Bibbia, di Omero, Virgilio dei più vicini

romanzi arturiani o delle chansons de geste. I protagonisti boccacciani non sono più

rinchiusi in quel «passato assoluto» di cui hanno parlavano Goethe e Schiller: essi

sono esseri umani, fatti di vizi, malvagità e virtù terrene, nelle cui epopee si riflette il

confronto tra le immense forze dominatrici, Fortuna, Amore, Ingegno. Grazie alla

vivissima rappresentazione decameroniana, la società mercantile diverrà per i secoli

a venire un vero e proprio paradigma letterario.

Il motivo mercantile permette soprattutto l'apertura verso altri luoghi geografici:

oltre il comune (Firenze) e oltre l'Italia (Napoli, Genova, Venezia, intercorse dalle

rivalità anche politiche con le città fiorentine -oltre alla già nominata Firenze, Siena e

Pisa-), verso un mondo, l'Oriente, che fino ad allora era rimasto praticamente

sconosciuto o mal visto all'interno del mondo letterario occidentale e che ora viene

ripreso, senza pregiudizi di sorta, e reso sfondo e primo piano della narrazione

boccacciana. Genova viene così presentata come una città brulicante di uomini

operosi, tenaci e duri, spilorci ma anche generosi, fedeli all'antica onestà in cui si

inserisce l'orgoglio per la fedeltà delle loro donne, che dà luogo al dibattito tra

Bernabò e Ambrogiuolo che funge da motore d'avvio di tutta la novella.

Il Decameron, così come le Metamorfosi, attuano anche geograficamente una

apertura verso luoghi e usanze fino al loro tempo quasi sconosciute e mai legittimate

sul piano letterario. Nel caso del poema apuleiano questo avviene nei confronti delle

religioni orientali e, ciò che è anche in comune con il Decameron, verso i ceti più

umili e le pratiche più abiette.

Se Apuleio, sulle orme dell'illustre precedente petroniano, narra di homines senza

alcun riferimento alla dimensione divina, il Boccaccio dal canto suo tralascia quasi

completamente la dimensione religiosa e divina tanto cara ai suoi predecessori

(Dante e Petrarca, ma anche, ad esempio, le chansons de geste e la Chanson de

In in certo senso si potrebbero allora definire le Metamorfosi come una epopea dei briganti e dei contadini, dato lo spazio che queste due categorie occupano all'interno dell'opera, senza dimenticare poi i monaci.

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Roland). L'unica via attraverso la quale entra questa dimensione è quella della

narrazione vera e propria, ma essa non trova spazio nella cornice (se non, nel caso di

Lucio, nel finale). Nel Decameron notiamo, differentemente da quanto avveniva

nella letteratura precedente, una grande apertura verso il mondo orientale,150 come

dimostrano del resto sia questa novella, sia quella di cui parleremo successivamente,

e come esplicita in modo chiaro la novella delle tre anella (I, 3).

Ma laddove, nelle opere precedenti, era la religione a differenziare anche

competitivamente e soprattutto attraverso la guerra, qui le uniche figure che trovano

spazio sono quelle di uomini e di mercanti in balia della sorte. E se l'idea che emerge

qualche volta dal Decameron è che il Boccaccio consideri il mercante come un

sempliciotto più che come un capace ammaliatore (ne sono esempi Andreuccio e

Salabaetto), certamente anche i mercanti, in quanto umani, sono travolti dall'eros,

dalla Fortuna, e dalle conseguenze delle proprie scelte, da cui tanto meno è esente

Ambrogiuolo.

Anche nelle Metamorfosi l'apertura verso la ricerca del magico da parte del

protagonista e anche verso l'epopea dei briganti, argomenti che prima del

Madaurense difficilmente entravano nella letteratura latina, rendono possibile anche

l'apertura verso luoghi come la Tessaglia e verso pratiche misconosciute come il

culto degli dèi egiziani, alle quali l'autore si accostò sia sul piano biografico, sia su

quello letterario.

In entrambi i passi sopra riportati ricorre il macabro motivo del candore delle ossa

rimaste attaccate all'albero dopo la scarnificazione a opera degli insetti. Entrambe le

descrizioni risultano minuziose e prive di riserve. La colpa del marito è differente

nell'uno e nell'altro caso: in Apuleio l'adulterio è reale, mentre in Boccaccio è

dapprima creduto vero da Bernabò, e poi svelato come non essere mai avvenuto. La

pena è invece identica, senonché il Certaldese aggiunge l'elemento del sole e tramuta

le formiche in tafani e vespe, a rendere ancora più dura e macabra la pena inflitta

all'ingannatore che viene così ingannato a sua volta (come d'altronde recita il

proverbio finale, che vuole ribadire l'incipit della novella151).

150 Per una analisi approfondita del rapporto con l'Oriente e la cultura orientale cfr: Michelangelo Picone, Dalle Mille e una notte al Decameron, in Allasia, Clara (a cura di), Il Decameron nella letteratura europea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. 59-74.

151 Si tratta di un proverbio popolare (Filomena usa in questo senso il termine "volgari"), che,

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L'inganno funge da perno in tutte le vicende della novella: Ambrogiuolo inganna

Bernabò e condanna così Zinevra che, volendosi riscattare, inganna prima En Cararh,

poi il sultano e infine lo stesso Ambrogiuolo. Quest'ultimo utilizza l'inganno (e il

proprio ingegno) nel momento in cui capisce di essere «troppo al disotto delle

esigenze di un'azione aperta e brutale», perché «nell'inganno è una rivalsa

dell'ingegno sopra la forza e su tutti gli altri elementi irrazionali»,152 Zinevra, invece,

attraverso l'inganno sembra esplicitare quel «vagheggiamento dell'invisibilità» del

quale parla Moravia, dal momento che in questa novella «la finzione dell'ingannatore

equivale ad una specie di invisibilità»153 in cui gli ingannati non vedono in realtà gli

ingannatori e non hanno quindi la possibilità di riconoscere l'inganno.

Questa tematica è inoltre il filo rosso che congiunge la premessa della narratrice,

nella quale ella giustifica la novella come exemplum del proverbio che appare poi nel

finale, anche se, come nota Almansi,154 non è il proverbio a porsi indiscutibilmente

come morale della novella, data la premessa di Filomena. All'enunciazione del

proverbio, infatti, segue la seguente considerazione:

Il quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare esser vero,

se per gli accidenti che avvengono non si mostrasse.155

Se infatti, almeno in questo caso, la giustizia trionfa sull'ingannatore, non è

sempre vero che l'ingannato riesca infine a trionfare. La pena per i colpevoli è in

entrambi i casi decisa da una entità estranea alla vicenda attorno alla quale ruota la

colpa e, nel caso della novella boccacciana, anche alla vera natura dei personaggi a

favore dei quali è rivolta la propria azione. Il sultano e il padrone sono entrambi

mossi da compassione, il primo verso la donna che agita le braccia sul petto denudato

dinnanzi a lui, il secondo dalla portata di un tale suicidio, che riguarda non soltanto la

moglie, ma anche il figlio e il deposito di grano dello schiavo.

A voler costruire un parallelo tra la protagonista di questa novella e il protagonista

delle Metamorfosi, possiamo notare come le loro condizioni si pongano in

pronunciato da lei appena prima di intraprendere il racconto, funge da morale anticipata.152 Espressione ripresa da Alberto Moravia, Boccaccio, in Id., L'uomo come fine e altri saggi,

Milano, Bompiani, 1964, p. 145.153 Ibidem.154 Guido Almansi, Lettura della novella di Bernabò e Zinevra (II, 9), in «Studi sul Boccaccio», VII,

1973, pp. 125-140.155 Dec., II, 9, § 3, p. 457.

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contraddizione: mentre è Zinevra stessa ad architettare l'inganno del travestimento

per non essere riconosciuta, Lucio è costretto nella sua condizione di asino e l'unico

mezzo che possiede per difendere se stesso passa attraverso il proprio essere animale

e il comportarsi di conseguenza: Ginevra reagisce con il travestimento, con la

metamorfosi, Lucio invece è costretto a reagire in seguito alla propria metamorfosi.

Lucio, una volta tornato umano, non avrà nessuno che potrà riconoscerlo,

permettendogli di tornare alla condizione armoniosa iniziale: l'amore per Fotide,

l'amicizia di Milone, il viaggio in Tessaglia sospinto dalla curiosità per le arti

magiche; al contrario, egli inizierà una vita totalmente nuova, senza poter avere

alcuna possibilità di ritorno a quella originaria, dedito interamente al culto di Iside.

Zinevra invece, attraverso la vendetta, conquista la possibilità di tornare alla

medesima vita iniziale, con l'amore e la stima maggiorata del marito.

Questo è ciò che ella, ancora nei panni di Sicurano, dice, in presenza del sultano,

del marito e di Ambrogiuolo, quando quest'ultimo ha appena svelato la colpa di cui si

è macchiato e Bernabò ha spiegato la sua reazione avuta nei confronti della moglie a

causa dell'ira e del disonore che credeva di aver ricevuto:

Signor mio, assai chiaramente potete conoscere quanto quella buona

donna gloriar si possa d'amante e di marito: ché l'amante a un'ora lei

priva d'onor con bugie guastando la fama sua e diserta il marito di lei;

e il marito, più credulo dell'altrui falsità che alla verità da lui per lunga

esperienza potuta conoscere, la fa uccidere e mangiare a' lupi. [...]Ma

per ciò che voi ottimamente conoscete quello che ciascun di costoro

ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di punire lo

'ngannatore e perdonare allo 'ngannato, io la farò qui in vostra e in lor

presenza venire.156

E ancora, dopo aver ottenuto il benestare alla propria richiesta, ella piano piano,

piangendo in ginocchio, finalmente con voce femminile confessa:

Signor mio, io sono la misera sventurata Zinevra, sei anni andata

tapinando in forma d'uom per lo mondo, da questo traditor

d'Ambrogiuolo falsamente e reamente vituperata, e da questa crudele e

iniquo uomo data a uccidere a un suo fante e a mangiare a' lupi.157

156 Ibidem, § 64-65, p. 474-475.157 Ibidem, § 68.

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Se, come vedremo, per l'eroina della settima novella di questa giornata, Alatiel,

sarà la propria orazione finale a fungere da salvavita, per Zinevra saranno invece i

gesti compiuti appena in seguito a queste parole a svolgere la medesima funzione.

Immediatamente infatti questo travestimento, composto dalla voce e dai vestiti, che

per necessità la donna aveva assunto si dissolve a causa del «più non volere essere

maschio».158 Scoprendo la propria femminilità e rendendola palese, ella fa sì che ben

tre uomini ammutoliscano, diventando così per tutti, sia per il pubblico, sia per gli

altri personaggi protagonisti, che a partire dalla seconda sequenza si pongono come

antagonisti per tutta la novella, la vera eroina.

Il ruolo di Zinevra è perciò eccezionale: ella sfida il proprio destino e riesce a

riacquistare la propria fama e virtù, prevalendo sulla diffidenza del marito (che, come

molto spesso accade nel Decameron, scompare per quasi tutto il racconto, dopo

essere stato «così modestamente costruito» è altrettanto «facilmente dimenticato»159)

e sulla meschinità di Ambrogiuolo, riuscendo a conquistarsi perfino la benevolenza

del sultano, guadagnando una immensa ricchezza non soltanto per se stessa, ma

anche per Bernabò. Ella è superiore ai due uomini, ma solo dopo che ha assunto su di

sé tutte le caratteristiche proprie degli uomini, compresa l'astuzia tipica dei mercanti.

Se Ambrogiuolo è l'ingannatore e Bernabò l'ingannato, Zinevra si pone al di fuori

dell'intero meccanismo, anche aldilà della fedeltà coniugale e della meschinità dei

mercatanti. Come dispensatrice finale di perdono, ella trionfa sui perfetti uomini.

Lucio troverà la propria isola felice nel culto degli dèi egiziani e nella avvocatura

a Roma, nella quale si reca per ispirazione divina dopo aver ritrovato letteralmente la

propria voce, le sembianze di uomo e un ruolo riconosciuto da tutti, legittimato dalla

notturna dimensione onirica in cui egli incontra le divinità ad indicargli la strada da

percorrere. Zinevra, allo stesso modo, ma in una dimensione reale e materiale, ritrova

la condizione iniziale di donna maritata, legittimata da una terrena entità

istituzionale, acquisendo inoltre la ricchezza vera e propria.

Lucio di Madaura, giovane rampollo della nobiltà locale, spinto a viaggiare per la

158 Per una disquisizione su questa espressione piuttosto ambigua cfr Franca Brambilla Ageno, Errori d'autore nel «Decameron»?, in «Studi sul Decameron», VIII, 1974, pp. 127-136, oltre che a p. 300 dell'edizione a cura del Branca, in cui quest'ultimo allude a un'altra ipotesi che vedrebbe come significato meno probabile una espressione del tipo «il non volere più essere uomo».

159 Cfr. Guido Almansi, Lettura della novella di Bernabò e Zinevra (II, 9), cit., p. 132.

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Grecia dalla volontà di soddisfare la propria curiosità verso le arti magiche e

trasformato in asino per errore proprio nel momento in cui queste gli si palesano

dinnanzi, ritrova il proprio ruolo niente meno che a Roma, l'illustre città,

lontanissimo dalla propria patria, ma vicinissimo al consolidamento definitivo del

proprio ruolo religioso e professionale (questo è l'unico campo che ricorre dall'inizio

alla fine, mentre tutto il resto muta), povero ma felice. Zinevra invece ritorna

esattamente alla condizione iniziale, ma con virtù e ricchezze materiali maggiorate.

Dal canto suo anche Lucio si riscatta con i propri familiari, dimostrando di non

essere il rapinatore della casa di Milone, così come Zinevra dimostra attraverso

parole e gesti di non essere la fedifraga che il marito credeva. Entrambi sono stati

condannati da delitti che non hanno commesso e da cui non hanno avuto la

possibilità di difendersi: ma mentre per Apuleio il presunto crimine non funge da

motore dell'azione, in Boccaccio avviene che sia proprio la convinzione da parte del

marito che lei abbia commesso l'adulterio a scatenare tutte le vicende della novella:

dalla fuga di lei da Genova sotto le spoglie del marinaio Sicurano, al suo arrivo ad

Alessandria d'Egitto e all'incontro finale con il sultano, Ambrogiuolo e Bernabò

stesso.

Ambedue i protagonisti trionfano sulla propria sorte: Zinevra in quanto facente

parte del novero dei protagonisti della seconda giornata, mentre per Lucio ricorre

esplicitamente l'espressione, proclamata tra l'altro da un personaggio esterno, un

sacerdote: «Lucius de sua Fortuna triumphat» (Met., XI, 15).

II. 3: Decameron II, 7

L'altro tema di questa novella, comune, oltre che con le Metamorfosi, con le altre

novelle di questa giornata, è il viaggio: le tappe del viaggio dei tre personaggi

principali si incrociano tra loro, facendo in modo che la trama trovi lo scioglimento

finale (Parigi, Genova, Alessandria-Acri).

La novella che riprende in modo più forte la tematica del viaggio è la settima della

medesima seconda giornata, nella quale ricorre, come nella novella nona e in alcune

altre,160 un proverbio in due endecasillabi e quindi tipicamente sentenzioso, posto

160 V, 10, § 64; VII, 4, § 31; VIII, 10, § 67.

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proprio in chiusura, maliziosamente riferito alla verginità della ragazza, il cui organo

sessuale viene paragonato a una bocca; il significato di questo proverbio

popolarissimo in epoca medievale, del quale questa è la prima attestazione scritta, è il

seguente: «una bocca che sia stata baciata più volte non perde per questo il suo

valore (non compromette il suo destino futuro, affidato ai casi della fortuna), anzi lo

rinnova come fa la luna (con i suoi cicli)».161

Sul piano strutturale anche questa novella si può confrontare con la storia di

cornice delle Metamorfosi: nelle disavventure di Alatiel, la protagonista di questa

novella, che, seppur per motivazioni diverse da quelle di Lucio-asino, non può

comunicare con coloro che di volta in volta la prendono e la vogliono come se ella

fosse un loro possesso, sembra stendersi l'ombra delle peripezie del protagonista

apuleiano.

Rivediamo qui la trama della novella, narrata da Panfilo, che sottolinea

nell'introduzione la connessione al tema della giornata riprendendo la locuzione dei

«fortunosi casi»162 e la giustifica con l'ammonimento alle donne della brigata a non

«disiderare d'esser belle»,163 in una «premessa teorica, rara nel Boccaccio, e quindi

importante», come la definisce Vaghetti.164

Il sultano di Babilonia decide di dare in moglie la propria figlia, Alatiel, al re del

Garbo. Ma, fatta partire la ragazza su una nave con dei marinai e le sue ancelle,

accade che una tempesta investa la nave e che le donne su di essa si trovino, la

mattina seguente, sole e naufraghe sull'isola di Maiorca.

Sopraggiunge allora un uomo, Pericon da Visalgo, con i suoi familiari, che

soccorrono così le fanciulle. Ma Pericon, vedendo Alatiel così bella, se ne innamora

e, avendo fatto sì che ella si ubriacasse, giace per una notte con la ragazza. Marato,

fratello di Pericon, innamoratosi anche lui di Alatiel, si accorda con due marinai

genovesi affinché uccidano il fratello e li aiutino a fuggire imbarcandoli sulla nave.

Una volta sulla nave, però, essendo rimasti anche loro rapiti dal fascino della

ragazza, i due fratelli gettano Marato in mare e iniziano a duellare per chi debba

161 Nota 122 a p. 430 dell'edizione di Quondam, Fiorilla e Alfano.162 Dec., II, 7, § 6.163 Ibidem, § 7.164 Lamberto Vaghetti, La filosofia della natura nel «Decameron», in «Nuova Antologia», DLXXXV

fasc. 2215, 2000, pp. 283-302.

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averla. Morto uno dei due, l'altro rimane gravemente ferito, la nave giunge così a

Chiarenza, in Romania, dove presto si diffonde la notizia della meravigliosa bellezza

di Alatiel, finché il principe di Acaia decide di rapirla per portarla nel proprio

palazzo.

Qui anche il duca di Atene, avendo sentito della bellezza della ragazza, si reca in

visita al principe che, orgoglioso di possedere cotanta bellezza, non la nasconde

all'ospite e anzi lo invita caldamente ad accertarsi con i propri occhi di quanto ha

ascoltato («Molto più! Ma di ciò non le mie parole ma gli occhi tuoi voglio ti faccian

fede»165). Completamente rapito anche lui dal fascino della ragazza, uccide il

principe e fugge con lei.

Il fratello del principe ingaggia allora battaglia contro il duca, che chiede aiuto

all'imperatore di Costantinopoli. Quest'ultimo invia allora i due figli Costanzio e

Manovello. Costanzio si innamora di Alatiel e, abbandonato il campo di battaglia,

fugge con lei a Chios, dove la ragazza si innamora di lui.

Osbech, re dei Turchi, rapisce allora Alatiel, ma l'imperatore di Cstantinopoli

chiede al re della Cappadocia di vendicare l'onta subita dal figlio, e così avviene che

quest'ultimo uccida Osbech e raccomandi la protezione della ragazza ad Antioco,

che, puntualmente innamoratosi di lei, fugge a Rodi con lei e un giovane amico

mercante a cui, gravemente malato e in punto di morte, affida la ragazza.

Alatiel e il mercante si recano allora a Cipro dove ella riconosce un giorno

Antigono di Famagosta, servo del sultano di Babilonia a Cipro per affari, al quale

165 Vi è qui un forte richiamo della novella erodotea di Gige e Candaule (Storie, 1, 8-12). Candaule, convinto di avere in moglie la donna più bella di tutte, si vanta con la guardia Gige, a lui molto caro, e lo invita ad accertarsene con i propri occhi con le seguenti parole: «Gige, penso che tu non mi creda quando ti parlo della bellezza di mia moglie (succede infatti che gli uomini credano più agli occhi che alle orecchie), fa' in modo di vederla nuda». Gige, sentendosi costretto dal padrone, da lui aiutato a entrare nella stanza da letto di notte e, avendo visto la donna, fugge. Ella, scorgendolo, lo convince a vendicarsi e a vendicarla con Candaule. E così avviene che Gige, ucciso il padrone, prenda il regno e la regina al posto suo. La vicenda venne ripresa dallo stesso Boccaccio in De casibus virorum illustrium II, 19 (1356-1360, rev. 1373):

«Candalus, antiquissimus Lydorum rex, lacrimans hac illac incerto ambiens gradu, in se me scribentem de somniis revocabat. Cui postquam oculos auresque concessi, eum Gigis impudici amici sui nequitiam meledictis lacessentem percepi. Aiebat enim se eidem Gigi, qua secum fiducia, amotis laciniis clara in luce predilectam sibi et eximie formositatis coniugem dormientem ostendisse, ut –quod satis verbo non poterat– demonstratione conscium redderet sue felicitatis amicum; eumque, ea visa, illecebri cupidine succensum id egisse ut, se gladio necato, regnum cum coniuge in premium sanguinis effusi susciperet».

(De cas., II, 19, "Querele quorundam")

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narra le proprie peripezie chiede di essere ricondotta a casa. Antigono, impietosito

massimamente dal racconto, la asseconda.

Una volta giunta presso il padre, dopo quattro lunghi anni da quando se ne era

separata, Alatiel racconta di essere stata salvata da quattro cavalieri e portata in un

monastero di benedettine dopo il naufragio iniziale. Dopo quattro anni, in cui ella si

era finta figlia di un mercante di Cipro per non essere cacciata a causa della propria

religione, era riuscita a unirsi a un gruppo di pellegrini diretti verso Gerusalemme e a

Baffa aveva incontrato Antigono.

Così il sultano la affida in moglie al re del Garbo al quale la ragazza, la prima

notte di nozze, fa credere di possedere ancora la verginità, pur essendo in quattro

anni «con otto uomini166 forse diecimila volte giaciuta».167

Vediamo opporsi fin dall'inizio la passività delle donne, che pur abbandonandosi

al destino riescono a sopravvivere, e l'attività degli uomini, che avvicendandosi per

sopravvivere immancabilmente soccombono. Ad esempio, nel caso della tempesta,

vero motore fisico della vicenda, gli uomini:

[...] come valenti uomini, ogni arte e ogni forza operando, essendo da

infinito mare combattuti, due dì si sostennero.

[...] non veggendovi alcun rimedio al loro scampo, avendo a mente

ciascun se medesimo e non altrui. In mare gittarono un paliscalmo e

sopra quello più tosto di fidarsi disponendo che sopra la isdruscita

nave si gittarono i padroni; a' quali appresso or l'uno or l'altro di quanti

uomini erano nella nave, quantunque quegli che prima nel paliscalmo

eran discesi con le coltella in mano li contraddicessero, tutti si

gittarono, e credendosi la morte fuggire in quella incapparono: perciò

che, non potendone per la contrarietà del tempo tanti reggere il

paliscalmo, andato sotto, tutti quanti perirono.168

E mentre la tempesta continua a infuriare:

E la nave, che da impetuoso vento era sospinta, quantunque isdrucita

fosse e già presso che piena d'acqua, non essendovi sù rimasa altra

166 Qui il Boccaccio enumera infatti i soli uomini con i quali Alatiel ha avuto rapporti sessuali, mentre in rubrica erano enumerati tutti coloro che erano stati i suoi "possessori", includendo anche i due fratelli genovesi assassini di Marato, che però, uccidendosi vicendevolmente, si sono autoesclusi dalla possibilità di avere rapporti sessuali con la ragazza.

167 Dec., II, 7, § 121, p. 430.168 Ibidem, § 11-12, p. 400-401.

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persona che la donna e le sue femmine (e quelle tutte per la tempesta

del mare e per la paura vinte su per quella quasi morte si giacevano),

velocissimamente correndo in una piaggia dell'isola di Maiolica

percosse. E fu tanta e sì grande la foga di quella, che quasi tutta si

ficcò nella rena, vicina al lito forse una gittata di pietra: quivi, da mar

combattuta, la notte senza poter più dal vento esser mossa si stette.169

Ecco allora il contrapporsi del mare e del vento, con la nave che tenta di resistere

e sopra di essa gli uomini che «ogni arte e ogni forza operando», si gettano in mare

su una scialuppa che tutti insieme non può reggerli, perciò i padroni tentano di

costringere gli altri a non salirvi minacciandoli con «le coltella». Panfilo costruisce

uno scenario vivissimo in cui i simili combattono con i propri simili (le forze della

natura tra loro da una parte e gli uomini tra loro dall'altra), mentre la nave, sospinta

dall'impetuosità del conflitto tra vento e mare, entrambi forze attive, indomabili dagli

uomini e incessanti, si arresta su un lido, incagliata nella rena. Nel mentre le donne,

sopraffatte dalla paura e dalla forza con cui la nave è scaraventata da un'onda

all'altra, giacciono sulla nave «quasi morte», completamente in balia delle forze della

natura e della sorte. Infine, gli uomini muoiono combattuti dalla propria foga, la nave

giace arenata, combattuta dal mare ma non dal vento, le donne, senza probabilmente

esserne consapevoli, si svegliano allo schiarire del cielo, stremate ma vive,

sopravvissute a tutta la violenza implacabile.

Questa enorme e indomabile «furia degli elementi», come viene chiamata da

Almansi170 è il vero motivo scatenante della vicenda di Alatiel, in quanto, se non vi

fosse stata la tempesta, la navigazione sarebbe stata tranquilla, perfino monotona, e la

ragazza sarebbe giunta immediatamente alla destinazione prevista, senza nulla

lasciare al narratore da raccontarci. Allo stesso modo, il fatto che Lucio sia

impossibilitato a causa della paura di essere ucciso, la prima volta che scorge le rose,

a nutrirsene (III, 29), diventa uno dei tanti motori del racconto delle Metamorfosi. Il

mare e i briganti, entrambi presenze minacciose, sono funzionali alla svolta nel

racconto in quanto, come nota Almansi,171 portano il personaggio A (il protagonista)

al punto C (meta imprevista) anziché a B (meta pregiudicata come finale, a cui A

169 Ibidem, § 13, p. 401.170 Guido Almansi, L'estetica dell'osceno, Torino, Einaudi, 1974, p. 143.171 Ibidem, p. 151.

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tende fin dall'inizio).

Nella sequenza successiva, quando Pericon, vedendo che «quantunque pallida e

assai male in ordine della persona per la fatica del mare allora fosse la donna, pur

pareano le sue fattezze bellissime», decide di possederla in un modo o nell'altro, e

dopo alcuni giorni le somministra del vino, che la religione di lei le impedirebbe di

assumere, ella astutamente si adatta alla situazione e decide di bere e di

concederglisi, a dispetto delle raccomandazioni mosse alle proprie ancelle che invece

suonavano come l'orazione dell'eroe tragico quando decide di resistere alle avversità

mantenendo fino in fondo la fedeltà ai propri principi.

In questo caso, si può notare la contrapposizione con Lucio che, nonostante la

propria condizione asinina, resta fino in fondo fedele ai propri principi, evitando più

volte la castrazione, tentando invano di discolparsi dall'accusa di essere il rapinatore

della casa dell'ospite o ancora rifiutandosi di giacere con la donna pluriomicida

condannata a morte alla fine del libro X. E, proprio grazie a questa ostinazione nel

non volere partecipare allo spettacolo allestito per il divertimento del pubblico,

fuggendo e invocando la dea egli giunge infine ad ottenere la salvezza.

Alatiel si sveste dinnanzi a Pericon172 «senza alcun ritegno di vergogna», mentre

Lucio, finalmente tornato uomo e «cum primum nefasto tegmine despoliaverat

asinus», resta immobile in mezzo alla folla di fedeli adoranti «compressis in artum

feminibus» cercando di coprire il membro «superstrictis accurate manibus, quantum

nudo licebat velamento..naturali probe».173

Come nel caso di Zinevra, anche qui è una donna a contrapporsi non più a due, ma

a una schiera di nove uomini, tutti meschini e avidi di possederla fisicamente una

volta convintisi di essere padroni anche della sua anima: così come ella è vittima del

loro desiderio, essi sono vittime del fascino incantevole di lei, in un vertiginoso

avvicendamento in cui l'azione primeggia sulla centralità tematica del desiderio

sessuale e lo risolve sul piano narrativo narrativo. Il susseguirsi dei padroni è

172 Come nota Vaghetti, i nomi dei personaggi di questa novella sono parlanti: è nella natura di Pericone perire, così come è nella natura di Marato essere gettato in mare, come se nei loro nomi fosse già impresso il loro destino e proprio per questo non si potesse attribuire nulla di drammatico e perversivo; così come del resto risiede nella natura umana il desiderio fisico (morale della «novella di Filippo» in Dec. IV, Introduzione, pp. 685-698).

Cfr. Lamberto Vaghetti, La filosofia della natura, cit., pp. 287-288.173 Met., XI, 14, p. 424.

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vertiginoso così come è anche lo spostamento nello spazio geografico, da Ovest

verso Est (Egitto, Morea, Atene, Egina, Chios, Rodi, Cipro e infine ancora l'Egitto

prima e il Marocco poi).

Alatiel è un vero e proprio oggetto nella concezione degli uomini che se la

contendono, per due motivazioni principali: per la sua incommensurabile bellezza,

che la rende una femme fatale174 senza che lei volontariamente provochi il loro

desiderio (anche se in seguito, come vedremo, ella lo asseconda, non apparendo

perciò come un oggetto sessuale), e perché non parla la loro lingua. Gli unici

momenti in cui la sua sorte diventa positiva si verificano infatti quando lei prende

parola (con Antigono e con il sultano).175 Notevole è il fatto che Panfilo non descriva

mai a livello fisico la protagonista: la sua straordinaria bellezza è resa attraverso gli

effetti che il suo fascino ha sugli uomini, che risultano attivi a confronto con Alatiel,

che invece risulta passiva, in un dualismo che fornisce dinamismo all'azione, essendo

infatti il desiderio che spinge gli uomini di questa novella all'azione che funge da

contenuto della narrazione.

Proprio come Lucio-asino, incapace di comunicare con i propri padroni (ma

capace, al contrario di Alatiel, con il il pubblico), ella viene sfruttata (almeno in

quanto oggetto materiale), in modo diverso dall'asino, certo, ma se possibile ancora

peggiore. La distanza principale tra gli uomini e la donna (o l'asino) risiede

fondamentalmente nella parola, e probabilmente nel genere. Nella novella

boccacciana e nell'intreccio apuleiano l'azione è incalzante, i padroni si avvicendano

vertiginosamente, senza mai che ai malcapitati (Alatiel e Lucio) sia data l'opportunità

di scegliere: essi sono oggetti e, in quanto tali, non possono sottrarsi alle decisioni

prese dagli altri, così come questi ultimi non possono sottrarsi alla sorte che di volta

in volta li fa soccombere (nel caso di Apuleio, ad esempio, possiamo ricordare il caso

del ragazzo sbranato da un'orsa in Met.,VII, 24) o andare in malora. Carite e

Tlepolemo, che sono gli unici padroni benevoli, subiranno anch'essi una sorte

174 O, come la chiama Valesio, «femme fatale malgré soi». Cfr. Paolo Valesio, Sacro, in R. Bragantini, Pier Massimo Forni, Lessico critico decameroniano, Torino, Bollati Borlinghieri, 1995, p. 378.

175 Da notare qui il ritorno alla nozione di "parola salvifica", che ricorre nella cornice e in moltissime novelle del Decameron. Si pensi, a esempio al motivo sul quale sono svolte tutte le novelle della sesta giornata, ossia la «pronta risposta» che permette ai protagonisti di salvarsi.

67

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malevola,176 morendo l'uno ucciso con l'inganno da Trasillo per il possesso di Carite

stessa, l'altra dandosi la morte per evitare di finire in moglie all'assassino. Antioco,

allo stesso modo unico "padrone" che non abbia desiderato Alatiel o ucciso per lei,

muore a causa di una malattia.

Entrambi non possiedono armi per difendersi dagli uomini, che invece sono in

possesso delle armi vere e proprie, ma anche di quelle figurate (il «san Cresci in

man» e il linguaggio, per intenderci). L'unica loro possibilità è quella di adattarsi alla

situazione in cui involontariamente si trovano, la ragazza straniera soddisfacendo con

una misura più o meno grande di volontà, l'asino attraverso i comportamenti

animaleschi (la fuga in corsa e gli zoccoli).

La sola differenza tra i due protagonisti risiede probabilmente nel fatto che,

mentre è per il desiderio di possedere Alatiel che gli uomini soccombono, non è per

avere in proprietà l'asino che nelle Metamorfosi coloro che in seguito diventano

padroni di quest'ultimo subiscono quasi sempre un tragico destino.

Come abbiamo accennato prima, per quanto rimanga nel corso di tutta la novella

un oggetto di possesso (in quanto passa continuamente da un possessore all'altro),

ella non è assolutamente un oggetto sessuale, poiché decide consapevolmente di

appagare i piaceri maschili, scegliendo la «passiva accettazione», così come la

chiamò Bàrberi Squarotti,177 e l'indifferenza verso gli orrendi crimini che venivano

effettuati dinnanzi (o addirittura di fianco nel letto).178 Il suo linguaggio è fatto di

lacrime e bellezza, mentre quello degli uomini di parole, tradimenti e omicidi, ma per

lei l'unica via, l'unico campo in cui possa effettivamente cessare di essere oggetto,

non soltanto di salvezza, sembra quella irrinunciabile del sesso, per cui le parole non

servono, e dell'essere amante.179

Il fatto che ella sia muta sia nei confronti di coloro che le parlano in lingue

differenti dalla sua, che nonostante non siano compresi utilizzano l'arte oratoria, così

176 Ricorre ancora la contrapposizione tra Natura e Fortuna.177 Giorgio Bàrberi Squarotti, L'orazione di Alatiel, in Id., Il potere della parola. Studi sul

Decameron, Napoli, Federico & Ardia, 1983, p. 72.178 Al contrario di quanto sostiene Porcelli, che le attribuisce sì «un'animalesca e quasi irriflessiva

capacità di adattamento», ma in quanto essa la rende passiva, rimessa e soggiacente «agli uomini sessualmente, o intellettualmente quando ne accetta e mette in pratica il consiglio (con Antigono)».Cfr Bruno Porcelli, Alatiel e i dieci padroni, in «Studi sul Boccaccio», XXVI, 1988, p. 179-186.

179 Cfr anche Francesco Bruni, Boccaccio. L'invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 266-267.

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com'è nelle loro abitudini, pur di possederla, sia con coloro che si esprimono nella

sua lingua (Panfilo riporta infatti solo le voci degli ultimi due amanti, ma non le

risposte di Alatiel), sembra contribuire ancora maggiormente al fascino che ella

esercita sugli uomini e sui lettori. Le uniche tre volte nelle quali la protagonista

prende parola, e lo fa soltanto con coloro che non la possiedono, vediamo

esplicitamente quale sia il suo potere e come la sua situazione muti repentinamente.

Nel primo caso (§ 24) ella ordina alle proprie ancelle di non rivelare la propria

identità e di conservare la propria castità, contrariamente a quanto lei stessa si

propone di fare, ma guardandosi bene dal confidare loro i propri propositi di

concedersi a Pericone, e anzi affermando la propria fedeltà al marito. Nel secondo

caso (§ 92-100) ella si rende riconoscibile agli occhi di Antigono, facendo sì che

questi la riconduca a casa. Nel terzo caso (§ 106-118), infine, ella compie la lunga e

celebre orazione innanzi al padre, intessendo il racconto che le permette di ribaltare

la propria fortuna.

È il conflitto tra il vivere degli uomini in cerca di ricchezze e potere e il semplice

esistere delle donne, che devono necessariamente farsi oggetti, adattarsi alle

decisioni altrui (il padre decide quando e con chi Alatiel si debba sposare, così come

gli uomini che ella incontra decidono con chi e dove ella debba andare e come debba

vivere) in questo mondo dove il sesso e il possesso, congiunti, sembrano essere i soli

valori esistenti; proprio per questa capacità di adattamento, però, le donne riescono,

aldilà della Fortuna che le ha rese schiave,180 a risultare infine vincitrici e ha trionfare

su di essa dapprima semplicemente sopravvivendo agli uomini meschini, poi

prendendo ruolo attivo e riconquistando la propria virtù, in parte aiutate da quella

sorte che gli uomini, così prepotenti e avidi, non hanno il potere di prevedere e che il

più delle volte va in senso opposto rispetto alle loro ambizioni. È il conflitto tra l'eros

femminile e l'himeros maschile, tra gli uomini per cui Alatiel è un semplice oggetto e

la ragazza che riesce, prima di giungere al desiderato matrimonio finale, a entrare per

ben nove volte nella condizione matrimoniale.181

180 Così come del resto l'autore enuncia nel Proemio generale (§ 13).181 In parte questa potrebbe essere una risoluzione delle molte ipotesi sulla contraddizione numerica

tra il «nove» di cui ci informa la rubrica e l'«otto» che compare nel finale: i nove uomini considerati amanti dall'eros femminile contro gli otto che si sono da sé considerati amanti a causa del proprio himeros.

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Il conflitto si conclude a favore della donna che, seppur con un minore numero di

mezzi per contrasto agli uomini, riesce a rinnovarsi e a rendersi agli occhi dei

supersiti inconsapevoli della sua avventura un modello di castità e purezza, come

d'altronde recita il proverbio finale di Panfilo:

Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna.182

Mentre infatti l'atto sessuale può essere consumato un numero illimitato di volte

senza implicare nulla per le donne (e permettendo loro di "rinnovarsi" al pari della

luna, simbolo tipicamente femminile), per gli uomini è fatale, dal momento in cui

esso significa perdere la vita o il possesso della donna attraverso tradimenti,

fratricidi, omicidi e guerre.

Alatiel non è, quindi, soltanto un oggetto completamente passivo, così come del

resto non lo è nemmeno Lucio: li credono tali i padroni che li posseggono, ma il

racconto ci svela (nel caso della novella di Panfilo più implicitamente) come in realtà

entrambi in qualche modo mutano la propria sorte. Abbiamo già accennato al caso

del vino, che Alatiel decide di bere nonostante la sua religione lo vieterebbe, e al

momento in cui ella si spoglia davanti a Pericon ben consapevole delle intenzioni di

quest'ultimo: siccome per fare l'amore le parole non servono e poiché tutti gli uomini

possiedono «il santo cresci in man», ella si concede immancabilmente agli amanti

che se la contendono, tutti meschini, assassini o addirittura fratricidi.

Ella è sicuramente uno dei personaggi più analizzati dalla critica letteraria sul

Decameron, così come lo è tutta la novella (la struttura, il significato), con risultati e

ipotesi a volte totalmente discordanti tra loro: se Hauvette la descrive come

«l'immage pitoyable de la fragilité féminine, répresentée par une âme droite et pure,

soucieuse de sa réputation, altérée de bonheur paisible et de fidélité conjugale mais

qui, tout en pleurant, s'abandonne à ses conquérants, parce que, au fond, elle aime

l'amour»,183 Bosco la definisce come «un personaggio farsesco», contraddittorio e

che si fa beffe del «credulo padre»,184 per altri ancora ella arriva a rappresentare in

tutto e per tutto un eroe che, o grazie alla propria «naturale sensualità» (Baratto), o

per il suo essere «superiore moralmente», o ancora dal «carattere così temprato da

182 Dec., II, 7, § 122, p. 430.183 Henri Hauvette, Boccace. Étude biographique et littéraire, Paris, 1914, pp. 264-265.184 Umberto Bosco, Il «Decameron». Saggio. Rieti, Bibliotheca, 1920. pp. 95-97.

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reggere col coraggio che sarà necessario a qualsiasi duello con la sorte: disposta al

peggio, ma decisa anche a godersi il meglio».185 In ogni caso potremmo concludere

questo dibattito con quanto scrive Mazzacurati:

Sarà forse per quell'inedito ruolo di persona-oggetto che assume Alatiel, reificata

dal silenzio e dalla stereotipata reattività psicologica con cui subisce e provoca gli

assalti dei sensi e delle passioni, sarà per una serie di scarti e di scompensi che

sembra di poter rilevare, tra lo spazio contestuale (la giornata stessa) in cui la

novella si colloca e la sua organizzazione interna [...], fatto è che quanto più ci si

addentra nell'area del racconto, tanto più sfuggente ed enigmatica si fa la fisionomia

e il senso della protagonista.186

La protagonista di questa novella riesce dunque non soltanto a sopravvivere a

guerre, assassini e omicidi intorno a lei187 e giungere al matrimonio con il re del

Garbo, ma perfino a far credere, e quindi a conservare, la propria verginità, pur

avendo già sperimentato con ben otto uomini il matrimonio. La «magia della

parola»,188 come la chiamò Bàrberi Squarotti, ha il potere di ripristinare la verginità

della ragazza dopo che ella è giaciuta con ben nove uomini, quasi che la parola

sostituisse l'intervento divino che si trovava invece nelle agiografie e che proteggeva

la vergine: come lo stesso Bàrberi Squarotti notò, infatti, l'orazione finale di Alatiel

dinnanzi al ritrovato padre contiene degli elementi di ricorso alla fraseologia

cristiana. Così la parola ha il potere di creare una sequenza di ciò che è accaduto

185 Carlo Muscetta, Giovanni Boccaccio e i novellieri, in E. Cecchi e N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, vol. II, Milano, Garzanti, 1965, p. 384.

186 Giancarlo Mazzacurati, Alatiel ovvero gli alibi del desiderio, in Id., Forma e ideologia, Napoli, Liguori, 1974, p. 28.

187 Con uno schema fisso e ripetitivo, come nota Segre: A s'impossessa di Alatiel, ne diventa amante e muore per opera di B; B s'impossessa di Alatiel, ne diventa amante e muore per opera di C (così via).Cfr. Cesare Segre, La novella di Alatiel, in Id., Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974, p. 150 sgg.Simile è anche lo schema che attua Picone, pur con qualche differenza di contenuto, che vede la novella suddivisa in tre macrosequenze: l'antefatto (Alatiel parte sulla nave, allontanandosi dal padre, per recarsi dal promesso sposo), il fatto (l'avvicendamento degli amanti mediante schema fisso, incontra infine Antigono, che la consola definitivamente e la riporta presso il padre, dove ella si reinventa attraverso il racconto) e il postfatto (Alatiel va in sposa al re del Garbo).Cfr., Michelangelo Picone, Il romanzo di Alatiel, in Id. Boccaccio e la codificazione della novella, cit., pp. 141-143.A questo schema è anche riconducibile quello descritto da Mazzacurati, secondo cui dalla «peripezia comica» vi è un transito all'ubris, attraverso un «procedimento comico» circolare che «è quasi ovunque rigorosamente rispettato». Cfr. Mazzacurati, Giancarlo, Alatiel ovvero gli alibi del desiderio, cit., pp. 25-26.

188 Giorgio Bàrberi Squarotti, L'orazione di Alatiel, cit., pp. 64-96.

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completamente nuova, pur rimanendo veritiera e, anzi, adattabile alla realtà dei fatti

(si veda, ad esempio, la menzione del San Cresci venerato dalle donne del paese nel

discorso finale di Alatiel): essa annulla completamente tutto ciò che si è verificato

prima dell'incontro con Antigono e ripristina miracolosamente la verginità della

ragazza.

Al contrario dell'eroina cristiana Zinevra, che riesce a parlare, capire e

trasformarsi anche al di fuori del proprio mondo, nella terra del sultano, poiché

«ottimamente la lingua conosceva»,189 Alatiel rimane muta e non riesce a capire

lingue e mondi differenti dai propri,190 attuando il silenzio, «l'assenza di parola»,191

come strategia di sopravvivenza.

Anche Alatiel è una eroina capace infine di soggiogare il mondo, e il suo eroismo

si verifica soprattutto e forse soltanto quando ella assume una posizione attiva

all'interno del racconto. Panfilo dimostra per lei una viva simpatia, come dimostra

del resto la spia linguistica che ricorre sia ironicamente nel racconto del Narratore,

quando per spiegare il modo in cui uno degli amanti, Marato, la consola «col santo

cresci in man che Dio ci dié»192 (§ 37), sia nell'orazione della pulcella che spiega

come nel monastero in cui è rimasta custodita durante i quattro anni trascorsi lontana

da casa, insieme con le sue consorelle, invocasse un «san Cresci in Valcava a cui le

femine di quel paese voglion molto bene» (§ 109), che concorrerebbero a confermare

il primato dell'amore come fatto fisico e naturale, a cui si aggiungono i numerosi

sospiri delle donne della brigata mentre seguono il racconto. Ella smette di essere

oggetto di possesso con nefande conseguenze per i propri padroni soltanto nel

momento in cui ha la possibilità di proferire parola, ma senza che questo le faccia

perdere la possibilità di avere un marito.

Alatiel esce dalla spirale omicida dei suoi amanti, che, sebbene l'abbia riguardata,

non l'ha mai propriamente coinvolta, nel momento in cui essa scende dal livello alto

e tragico di uomini ricchi e gentili, ardenti di passione, a quello basso e comico di

uomini appartenenti al ceto medio-borghese, sicuramente meno ardenti seppure

189 Dec., II, 9, § 46, p. 470.190 Cfr Il confronto tra le novelle che attua il Bruni. Francesco Bruni, op. cit., pp. 268-271.191 Giorgio Bàrberi Squarotti, La vergine Alatiel, in Id. Metamorfosi della novella, Foggia, Bastogi,

1985, p. 14.192 Altro caso di allusione ironica al fallo.

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benevoli (Antioco e il mercante al quale quest'ultimo la affida in eredità, ribadendo

perciò ancora una volta il fatto che ella sia un oggetto). In una esemplificazione

pratica del quadro che Boccaccio presentava nel Proemio, con gli uomini tutti dediti

alle dinamiche attività di commerci, cacce e viaggi e le donne costrette nell'ambiente

domestico a compiere lavori statici, qui vediamo una donna che non agisce, posta a

confronto con uomini dediti all'azione commerciale e criminale.

Questa uscita è attuata attraverso il riconoscimento, che a sua volta è costruito

attraverso il racconto delle proprie disavventure ad Antigono: nel momento in cui

finalmente qualcuno la riconosce come Alatiel, figlia del sultano di Babilonia e

promessa sposa del re del Garbo, le disavventure della ragazza cessano, insieme con

le sue avventure e i suoi amori sessuali, ella smette di essere arresa alla sorte e «de

sua Fortuna triumphat», proprio come Lucio, nel momento in cui il sacerdote, per

ispirazione divina, lo riconosce come il futuro iniziato al culto di Iside funestato da

mille pericoli e disavventure.

Alatiel, Lucio e Zinevra, riacquisendo la propria identità, trovano finalmente la

felicità.

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III: Psiche e le eroine del Decameron

III.1: La decima giornata e la novella di Griselda

Nelle ultime quattro novelle della seconda giornata si assiste a una apertura

generale che diventerà persistente e si accentuerà nel corso dell'opera, fino ad

arrivare alla sublimazione nella decima novella della decima giornata. L'apertura è,

come abbiamo già detto, innanzitutto una apertura di luoghi, in quanto molte novelle

(specialmente le ultime della seconda giornata) hanno per base il tema del viaggio,

sul quale poi si innestano le trame. Ma a partire da questo momento anche la

psicologia dei personaggi e i loro comportamenti divengono ampi e più profondi a

livello morale. Questo aspetto si accentuerà nella quarta giornata e poi,

maggiormente nella decima, nella quale la problematica della virtù assume

evidentemente una forma più obiettiva nella trattazione che ne fanno i narratori.

Se Firenze e la Toscana rimangono comunque il centro della geografia

decameroniana, gli altri luoghi d'Italia, seppure posti ai margini, diventano centri

fiabeschi di alcune novelle dell'opera. È il caso, tra gli altri, del Piemonte, in cui è

ambientata la decima novella della decima giornata, in cui si narra l'epopea di

Griselda. Vediamone brevemente la trama.

Gualtieri, marchese di Saluzzo è convinto dai propri uomini a prendere moglie e

la sua scelta ricade su Griselda, una ragazza povera dedita alla vita di campagna e

alla cura del proprio padre Giannucole. Il giovane marchese si reca allora a casa della

ragazza per chiedere la sua mano e, fattale compiere la promessa di rimanergli

sempre fedele e di assecondarlo sempre, la sposa con grandi festeggiamenti, per poi

condurla con sé nel castello, dove la giovane, già di belle fattezze, si mostra anche

adatta alla nobiltà e riesce a conquistare il benvolere dei sudditi.

Dopo poco tempo Griselda dà alla luce la loro primogenita, ma dopo la grande

festa per questa nascita Gualtieri, turbato d'improvviso, mente alla moglie dicendole

che i sudditi sono scontenti per la sua bassa estrazione sociale e che maggiormente li

turba questa nuova nascita. Griselda, rimasta impassibile alle critiche del marito, si

dimostra paziente e sottomessa a lui, ribadendogli la propria fedeltà. Non contento, il

marchese ordina a un proprio familiare di prelevare la bambina, facendo credere alla

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donna che l'avrebbe uccisa per volontà dei sudditi, ma inviandola invece a Bologna

presso una parente che la avrebbe accudita con cura, in segreto.

Griselda partorisce una seconda volta di lì a sei anni un neonato, ma Gualtieri,

ancora titubante, per testare con una nuova prova la fedeltà assoluta della moglie,

comanda ancora di prelevare il bambino e lo destina alla medesima sorte della

primogenita, mentre la donna, sempre paziente e rispettosa degli ordini del marito,

accetta, provocando la compassione dei sudditi nei propri confronti.

Dopo alcuni anni Gualtieri, ancora una volta agitato da turpi pensieri, decide di

sottoporre la moglie a una ennesima prova: le comanda davanti ai sudditi attoniti e

dispiaciuti di tornare alla casa del padre, affermando di avere scelto un'altra donna

come moglie. Griselda, benché sofferente, accetta anche questa prova per amore del

marito, e con una sola camicia indosso, scalza, ritorna alla casa del padre, dove, «con

fiero animo sostenendo il fiero assalto della nemica fortuna»,193 riprende la vita dalla

quale il matrimonio l'aveva distolta.

Non passa molto tempo, però, che Gualtieri la richiami al castello, chiedendole di

allestire tutte le stanze e di preparare la festa per le imminenti nozze: Griselda

accetta, a malincuore. Arrivato il giorno della cerimonia, la donna riceve con viso

benevolo gli ospiti, mentre Gualtieri fa sì che da Bologna arrivino i due figli, che

ormai hanno dodici e sei anni e che tutti credano che la ragazza sia la novella sposa.

Griselda, vestita per volere del marito in modo povero e non adatto ad una cerimonia,

riceve la nuova sposa e il suo fratellino in modo accogliente, e i sudditi si rallegrano

della nuova scelta di Gualtieri.

L'uomo, volendo ancora aggiungere del carico al già enorme peso di Griselda, le

domanda dinnanzi a tutti come le paia la nuova sposa: lei risponde con benevolenza

verso la ragazza, ma prega il marito di non sottoporre la nuova moglie a prove come

egli aveva fatto con la moglie precedente.

Finalmente sicuro della mai venuta meno fedeltà di Griselda, Gualtieri le svela il

«frutto» della sua «lunga pazienza», riscattandosi agli occhi dei sudditi: le sue

intenzioni sono da sempre state quelle di insegnare a lei a essere moglie, agli altri a

saper tenere una moglie e infine a se stesso di riuscire a vivere in tranquillità e senza

193 Dec., X, 10, § 48, p. 1643.

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l'animo turbato. Infine le restituisce i due figli e le si offre nuovamente come marito,

con grande giubilo di tutti i presenti.

Il personaggio di Griselda potrebbe essere inserito a pieno titolo tra le donne della

seconda giornata:194 ella è pienamente assimilabile, ad esempio, a Zinevra per come

attraverso la sua immensa pazienza e umiltà riesce infine a riconquistare la

condizione di moglie e madre egregia. Queste tre donne esercitano però il proprio

essere eroine in tre modi differenti: mentre Zinevra è in tutto e per tutto attiva e

giunge, sia letteralmente sia metaforicamente a vestirsi delle doti tipiche maschili

(prima tra tutte l'energica iniziativa, per la quale ella, da moglie di mercante,

«s'acconciò per servidore»,195 ma anche il perfetto uso della lingua che ella

«ottimamente sapeva»196), Alatiel rimane a metà tra attività e passività, in quanto la

sua docilità è funzionale soltanto alla soddisfazione del proprio piacere e di quello

altrui, Griselda è infine costante nella propria passività e subisce prove e tormenti

che vanno «oltre alla natura delle femmine».197

Anche un confronto tra Griselda e Lucio non è difficile da attuare, dal momento in

cui entrambi umilmente si prostrano dinnanzi a coloro che potrebbero salvarli e ne

ottengono infine la grazia: Gualtieri da una parte, marchese potente (come suggerisce

la delibera papale affinché egli possa sposarsi una seconda volta), la dea Iside

dall'altra, personificazione di ogni divinità esistente nella cultura greco-romana, che

appare a Lucio-asino dopo che questi per purificarsi ha immerso per sette volte il

capo nel mare e l'ha invocata con la lunga orazione (Met., XI, 1-2).

La decima giornata ha per tema le azioni liberali o magnifiche, un tema

impegnativo poiché la magnificenza è la massima virtù del codice cortese e a essa

devono far capo tutti i potenti e i ricchi. Paradossalmente Gualtieri, ricco e potente,

non si attiene a questo codice: egli dona infatti la grazia finale a Griselda, ma solo in

virtù di quanto le ha tolto e perché tutte le sventure della donna sono state causate da

lui stesso, che la ha sottoposta a prove durissime e ingiustificate, che egli invece

giustifica col fatto di voler mettere alla prova la sua innocenza e la sua fedeltà, anche

194 Per un confronto tra Griselda, Alatiel e Zinevra, cfr. Francesco Bruni, L'invenzione della letteratura mezzana, cit., pp. 271-273.

195 Dec., II, 9, § 43, p. 469.196 Ibidem, § 46, p. 470. 197 Dec, X, 10, § 44, 1641.

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una volta che le ha già sperimentate.198 Vengono così accentuati da una parte il

sadismo dell'uomo, dall'altra la fragilità della donna, che non possiede quindi né le

risorse fisiche né quelle economiche, pur essendo ricca in fatto di virtù sublimi quali

la costanza o la pazienza.

La giornata funge da culmine all'opera, disposta secondo una «logica più

freddamente gerarchica, per la quale le novelle decameroniane, [...], aderiscono a un

movimento ascensionale, d'innalzamento verso l'assoluta rarefazione degli affetti»,199

che indurrebbe anche i novellatori dell'onesta brigata a voler imitare il contenuto

delle novelle di questa giornata, come peraltro suggerisce la Conclusione della nona

giornata:

Queste cose e dicendo e faccendo senza alcun dubbio gli animi vostri

ben disposti a valorosamente adoperare accenderà; che la vita nostra,

che altro che brieve esser non può nel mortal corpo, si perpetuerà nella

laudevole fama.200

Questo concetto verrà inoltre ripreso nell'Introduzione della giornata successiva,

dove i novellieri si cimentano in una sorta di gara di eccellenza tra le azioni da loro

raccontate, che si pongono sia nel campo propriamente sociale (o politico, come nel

caso della quarta e della quinta novella), sia in quello delle azioni d'amore. Anche

qualora si tratti di uno sfondo privato (come quello della decima novella), la

magnificenza è una virtù destinata ad avere risvolti sul piano politico e sociale.

Inoltre in questa giornata le introduzioni e le conclusioni dei narratori si pongono

su un piano doppiamente discorsivo, comprendendo anche espliciti commenti sul

significato e la straordinarietà delle vicende che stanno per narrare o hanno narrato,

sintomo della particolare tensione ideologica onnipresente. A concorrere qui non è

più solamente il piacere della narrazione, ma l'intento profondo da parte dei narratori

di tradurre il narrato in modelli di comportamento per loro stessi, di tradurre cioè la

narrazione in vita.

Liberalità e magnificenza sono due virtù esplicabili solo su un piano asimmetrico

198 Questo è il tema del libro biblico di Giobbe, tipico delle agiografie del tempo, come accenna Bàrberi Squarotti, che assimila l'epopea di Griselda alle storie di Santa Uliva e Santa Genoveffa. Cfr. Giorgio Bàrberi Squarotti, L'ambigua sociologia di Griselda, in Id. Il potere della parola, cit., pp. 193 sgg.

199Achille Tartaro, La prosa narrativa antica, cit., p. 661.200 Dec., Conclusione IX, § 5, p. 1462.

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tra chi dona ed è in grado di farlo (re, ecclesiastici potenti e uomini di governo) e

colui che è beneficiario del dono (cavalieri e uomini comuni, talora in condizioni

economiche disagiate): in questo senso la vicenda di Gualtieri e Griselda, presentata

da Dioneo come contro-esempio della giornata,201 reca in sé l'espressione

dell'esercizio della sovranità, al quale viene ascritta l'incapacità di Gualtieri di

comprendere il valore della propria moglie senza abusare del proprio potere; la storia

di Griselda è basata sul motivo del superamento delle prove e sul confronto tra le

virtù dei due coniugi.

Il confronto tra i coniugi viene sottoposto al giudizio del pubblico, non solo quello

in cornice o quello reale, ma anche quello fisicamente presente all'interno della

novella: lo sfondo della storia è infatti corale e la collettività (i sudditi di Gualtieri) si

esprime nella forma del biasimo per Gualtieri e della compassione per Griselda, che

permangono anche aldilà del lieto fine (entrambi i personaggi vengono reputati

savissimi, ma il marito resta comunque colui che ha peccato nella misura, mentre la

moglie viene innalzata a modello di mitezza e mansuetudine).

Scandiscono inoltre le varie sequenze di ottenimento-perdita-riconquista dei beni

le vesti, parti di un preciso simbolismo dell'ideologia sociale che accompagna l'intera

novella e si rivela essere essenziale per il contesto feudale in cui essa è inserita, a

partire proprio dall'importanza che aveva il rito della vestizione nella tradizione

narrativa cortese in lingua d'oȉl e soprattutto dell'assunto della camicia quale simbolo

della verginità della donna ripudiata.202

La novella è posta a suggello dell'intero Decameron, e aiuta a circoscrivere l'opera

come ars amandi, in quanto connessa con il Proemio, nel quale l'autore si pone come

amico e magister Amoris delle donne attraverso il proprio libro, che funge da

intermediario.203

201 «vo' ragionar d'un marchese, non cosa magnifica ma una matta bestialità». Dec., X, 10, § 3, p. 1629.

202 Cfr. Michelangelo Picone, Boccaccio e la codificazione della novella, cit., pp. 356-358. 203 Sotto questo aspetto il Libro si riallaccerebbe al De Amore di Andrea Cappellano, denominato

anche Libro di Gualtieri, che proprio come il Decameron è un testo letterariamente onnivoro e concepito con la funzione dottrinale e didattica di ammaestrare in materia amorosa. Dal De Amore è tratta inoltre la metafora delle catene utilizzata da Gualtieri nel momento in cui, convinto dai propri sudditi, decide di prendere moglie.Cfr. Beatrice Barbellini Amidei, La novella di Gualtieri e il Libro di Gualtieri, in «Filologia e Critica», XXX, 2005, pp. 3-33.

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Essa è stata da sempre ritenuta, come molte altre del Decameron, di difficile

interpretazione, enigmatica e ambigua, sebbene essa sia evidentemente fondamentale

per l'interpretazione generale dell'opera. Vi è presente una indubbia critica nei

confronti del sorpassato codice dell'amor cortese, insita soprattutto nel commento di

Dioneo, che biasima non soltanto la «matta bestialità» di Gualtieri, ma anche la cieca

e passiva obbedienza della protagonista ai capricci del marito che le infligge punture

via via più difficili da sopportare.

La figura di Griselda è stata più volte assunta come modello di suprema fedeltà

muliebre e riassumerebbe in sé tratti del Giobbe biblico, della figura della Vergine e

addirittura di Cristo, ma anche, secondo Barbellini Amidei,204 caratteristiche

dell'apparizione di Beatrice nella Vita Nuova ("Tanto gentile..").205 Inoltre, grazie

proprio alla novella di Griselda, il Decameron viene accostato alla gerarchia

ascensionale della Commedia dantesca, in cui nel finale troviamo quella forma di

sublime che ci permette di accostare l'eroina decameroniana alla Vergine che appare

a Dante nel Paradiso.206

Come fa notare Caruso,207 l'importanza del comportamento di Griselda è insita

soprattutto nell'insistenza del Boccaccio sul viso della donna: si vedano espressioni

quali senza mutar viso (§ 28) o «della qual cosa la donna né altro viso né altre parole

fece» (§ 37), o ancora «così con fermo viso si dispose a questa dover sostenere» (§

41) e infine «tutte le donne che [alle nozze] vennero, con lieto viso ricevette» (§ 53),

sublimate tutte nella dichiarazione finale di Dioneo.

Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso non solamente asciutto

ma lieto sofferir le rigide e mai più non udite prove da Gualtier

fatte?208

Questa passiva accettazione mette in opposizione Griselda con una eroina quale

Ghismonda che

204 Ibidem, p. 17.205 Sul paragone con Maria cfr. Vittore Branca, Decameron, op. cit., pp. 867 sgg, su quello con Cristo

cfr. Marge Cottino-Jones, Realtà e mito in Griselda, in «Problemi», num. 11-12, 1968, pp. 522-523 e (di nuovo con Maria), Id., Fabula vs. figura. Another interpretation of the Griselda Story, in «Italica», L, 1973, pp. 38-52.

206 Cfr. Michelangelo Picone, L'exemplum sublime di Griselda, in Id. Boccaccio e la codificazione della novella, cit., pp. 335-360.

207 Francesco Caruso, Griselda «piena di grazia», in «Filologia e critica», XXXII, 1, 2007.208 Dec., X, 10, § 68, p.1649.

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con forte viso la coppa prese; e quella scoperchiata, come il cuore vide

e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di

Guiscardo; per che levato il viso verso il famigliar disse: «Non si

convenia sepoltura men degna che d'oro a così fatto cuore chente

questo è: discretamente in ciò ha il mio padre adoperato».209

La qual scena mostra una stretta corrispondenza linguistica e drammatica proprio

con la scena del dialogo tra Griselda e il familiare di Gualtieri venuto a prelevare la

figlia di lei.

È proprio la sua costante resistenza passiva alle prove che Gualtieri le infligge a

renderla degna della sua magnificenza. La donna, che sopporta le punture del

crudele marito «oltre la natura delle femine», riottiene così nuovamente i benefici

donati inizialmente dal marito, benefici ai quali lei è in qualunque momento disposta

a rinunciare e dei quali avverte la straordinarietà, come dimostrano le parole che

rivolge a Gualtieri dinnanzi alla prospettiva del ripudio:

Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra

nobiltà in alcun modo non convenirsi, e quello che io stata son con voi

da Dio e da voi il riconoscea, né mai, come donatolmi, mio il feci o

tenni ma sempre l'ebbi come prestatomi; piacervi di rivolerlo, e a me

dee piacere e piace di renderlovi.210

La posizione che Griselda occupa nella struttura macrotestuale dell'opera è in tutto

e per tutto parte del programma autoriale che vi è sviluppato: da un ser Ciappelletto-

Giuda a una Griselda-Maria, la cui novella, sovvertendola, conferma la regola della

giornata. In essa viene ribadita e innalzata alla sua più alta forma, infatti, la tematica

della salvaguardia a ogni costo del legame coniugale.

Se inoltre, dall'affermazione iniziale di Dioneo, a essere narrata sarebbe la «matta

bestialità» di Gualtieri piuttosto che la patientia di Griselda, è indubbio che il

personaggio maschile si ponga in parallelo alla figura di ser Ciappelletto, che «è

l'espressione del negativo nella civiltà borghese», mentre Gualtieri «è espressione di

ciò che vi è di negativo e irrecuperabile nella civiltà feudale».211

Importante è infine come, anche in questa novella, la Fortuna assuma un posto di

209 Dec., IV, 1, § 49, p. 711.210 Dec., X, 10, § 44, p. 1641.211 Luigi Surdich, La cornice di Amore. Studi sul Boccaccio, Pisa, Ets Editrice, 1987, p. 282.

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assoluto rilievo: se è vero infatti che «il Decameron tende a proporsi quasi in tutta la

sua estensione come il mondo della casualità»,212 non manca nemmeno qui

l'affermazione del forte peso che la sorte ha sulle vicende umane. Le azioni di

Gualtieri non vengono infatti ascritte a lui, ma alle «ingiurie della fortuna» o al

«fiero assalto della nimica fortuna», al quale la donna reagisce con forte animo per

riuscire infine a conquistare il proprio lieto fine, al pari delle eroine della seconda

giornata.

La riflessione sulla virtù è insita soprattutto nella dicotomia tra il desiderio di virtù

da parte dell'uomo e i suoi appetiti sessuali e le sue esigenze in quanto individuo

all'interno di una società, ma anche nella disposizione su poli opposti tra i limiti

dell'intelligenza umana da una parte e quelli della sensibilità dall'altra.

La virtù è analizzata attraverso il suo esplicitarsi nei confronti della Fortuna e

dell'Amore, che come abbiamo visto sono entrambi temi cardini del Decameron,

mentre nelle Metamorfosi l'influsso sicuramente più preponderante a livello

narrativo è dato principalmente dalla Fortuna, anche se non mancano esempi

sull'amore (Lucio e Fotide, Carite e Tlepolemo e gli adulteri).

Vorremmo qui soffermarci sulla trattazione dell'Amore spirituale e puro nelle due

opere e sull'elaborazione che i due autori compiono sul tema. Questo lato del

sentimento, che nel primo capitolo avevamo denominato eros, contrapponendolo

all'himeros (concupiscenza), è sicuramente presente in maniera minore nel

Decameron, almeno sul piano della narrazione delle novelle, mentre nelle

Metamorfosi ne troviamo due esempi, quello di Carite e Tlepolemo e quello

rappresentato dal castone della fabella di Amore e Psiche. Meno presente dunque, ma

più ponderante sul senso delle opere e sulla loro interpretazione.

Nella cultura del Trecento la tematica amorosa era centrale, basti pensare alla

rielaborazione del codice cortese nelle opere in lingua d'oȉl e a quella parallela del

Dolce Stilnovo. L'appartenenza del Decameron al filone dell'amore cortese è forte, a

partire dalla menzione dell'«altissimo e nobile amore»213 di cui l'animo dell'autore è

acceso, per arrivare a un riferimento esplicito attraverso la menzione del «buono e

212 Achille Tartaro, La prosa narrativa antica, cit., p. 662.213 Proemio, § 3, p. 128.

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perfetto amore»,214 ed è continuamente confermata attraverso la caratterizzazione

delle donne (vaghe, dilicate, oneste, gentili, laudevoli).

L'Amore si pone dunque come tema cardine e come motore di molte novelle, oltre

che come produttore di codici linguistici specifici all'interno dell'opera (perifrasi e

metodi di comunicazione veri e propri), con effetti talvolta afrodisiaci.215 Esso viene

allora a opporsi con la virtù e l'intelligenza dell'uomo, in quanto quest'ultimo, nel

desiderio per la donna, ne coglie soltanto la bellezza naturale, separandola dal resto

della sua personalità e della sua sostanza vitale.

La dicotomia è proposta in letteratura fin dagli antichi romanzi greci, con i quali

sia l'opera di Apuleio sia quella del Boccaccio condividono elementi strutturali e

narrativi. Il romanzo greco si vale infatti di una sequenza di elementi narrativi

ripetuti: l'incontro di un giovane con una fanciulla di inestimabile bellezza, il loro

distacco, le avventure (naufragi, aggressioni di briganti, carcere, tentativi di

seduzione), il ricongiungimento finale, con probabile matrimonio; l'intreccio, pur

nelle sue variabilità, è fisso e regolare: l'avventura, resa tale soprattutto dagli

accadimenti della Fortuna, e l'amore. A questi elementi se ne aggiungono altri, tra cui

l'apparente morte di uno dei due, alcune oscure predizioni e il racconto dei viaggi che

l'eroe compie su se stesso (sul modello di Odisseo). Sinteticamente si potrebbe

ricondurre il romanzo alessandrino allo schema che segue:

1. Promessa di matrimonio;

2. Traversie ritardatrici (naufragi, aggressioni, ecc., nelle quali la moralità

dell'eroe viene messa alla prova);

3. Attuazione del matrimonio.216

Come si può giudicare da questi pochi tratti, nel Decameron vi è una forte ripresa

del modello del romanzo greco, basti pensare alla novella di Alatiel (che subisce un

naufragio, è presumibilmente creduta morta dal padre, e possiede una bellezza

214 VI, 7, § 13, p. 1012.215 Per un approfondimento su questo aspetto di contrasto tra parola da una parte e silenzi e azioni

dall'altra rimando ai due seguenti saggi: Teodolinda Barolini, «Le parole son femmine e i fatti son maschi». Toward a sexual poetics of the Decameron (Decameron II 10), in «Studi sul Boccaccio», XXI, 1993, pp. 175-197; Marcus Millicent, Seduction by Silence. A Gloss on the Tales of Masetto (Decameron III, 1) and Alatiel (Decameron II, 7), in «Philological Quarterly», LVII, 1979, pp. 1-15.

216 Sull'accostamento del Decameron al romanzo greco, cfr. Stavros Deligiorgis, Boccaccio and the Greek Romances, in «Comparative Literature», XIX, 1967, 2, pp. 97-113.

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inestimabile), o a quella di Zinevra (anch'ella creduta morta dal marito) o ancora alla

novella di Griselda, che crede morti entrambi i suoi figli. In tutte e tre queste novelle

è presente infine il ricongiungimento finale, attraverso l'agnizione e il matrimonio.

Notevole è come il Boccaccio ribalti completamente il motivo della moralità

dell'eroe: Alatiel esorta infatti inizialmente le proprie ancelle a «conservare la loro

castità», affermando di serbare per sé la stessa condotta, ma poi violando più volte

(ogni volta che ne ha occasione, per la verità) la regola greca delle traversie

ritardatrici, ella si concede con tutta se stessa agli uomini, salvo che infine ella

giustifichi, esaltandolo, il proprio comportamento come ciò che le ha permesso di

salvarsi dalla morte senza infrangere la legge di coloro che la hanno ospitata

mancando al sacro dovere dell'ospitalità. Anche il cedimento della fedeltà alla morale

non sarebbe quindi sua reponsabilità dal momento che è avvenuto a questo scopo,

quello cioè di adeguarsi al peccato della Fortuna che l'ha resa «sventuratamente

bella».217

III. 2: La fabula di Amore e Psiche: tra mito e allegoria

Per quanto riguarda le Metamorfosi, possiamo ricondurle al romanzo greco

principalmente attraverso il confronto con l'illustre precedente petroniano. L'Asinus

Aureus e il Satyricon sono infatti considerati i maggiori (se non gli unici) esemplari

del genere nella letteratura latina; certa è inoltre la stretta connessione del romanzo

con la fabula Milesia, celebre soprattutto per il contenuto erotico, alla quale Apuleio

si riconduce esplicitamente nel proemio.

Il ricondursi al romanzo, sebbene questo termine non avesse l'accezione che ha

per il lettore moderno,218 permetteva inoltre una grande variabilità non solo a livello

della trama, purché questa comprendesse i temi chiave sopra citati, ma anche di toni.

Nel caso di Apuleio, ad esempio, ciò è dimostrato dai molti dibattiti in merito

all'attribuzione delle Metamorfosi all'uno o all'altro genere: si intersecano infatti la

fabula Milesia, con il suo contenuto erotico, e la propaganda religiosa e isiaca, che

217 Cfr, su questo tema: Lamberto Vaghetti, La filosofia della natura, cit., pp. 289-290.218 Il termine roman, derivato dal francese, è apparso in epoca tardo-medievale per indicare

generalmente uno scritto in lingua volgare, contenente elementi storici, leggendari e di avventura riconducibili all'ambiente feudale e cavalleresco.

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farebbe intendere l'intera opera come una allegoria della conversione e della

iniziazione al culto egizio.

Questa seconda ipotesi doterebbe anche la fabula di Amore e Psiche di un

significato prettamente allegorico. Essa riprende in piccolo le vicende della cornice:

una vicenda erotica, che finisce a causa della curiositas, punita con la perdita da

parte dell'eroe della condizione di beatitudine; una serie di avventure e peripezie

nelle quali l'eroe soffre, concluse dall'intervento salvifico della divinità. Proprio in

questo finale andrebbe ascritto il significato allegorico, accennato già nello

stesso nome di Psiche, ribadito dall'intervento di Amore che decide spontaneamente

di intervenire a favore dell'eroina caduta.

Proprio come la novella di Griselda, anche la bella fabella di Amore e Psiche, che

occupa la parte finale del quarto libro (28-35), tutto il quinto e la buona parte del

sesto libro (1-24) delle Metamorfosi, occupa un posto di assoluta rilevanza all'interno

dell'opera. Essa è raccontata dalla vecchia custode dell'antro dei briganti al fine di

consolare Carite prigioniera dal dolore per la perdita della sua vita precedente e in

particolare del matrimonio con Tlepolemo di conseguenza al rapimento (il medesimo

intento consolatorio che ricorre come scopo autoriale nel Decameron).

Psiche, principessa dalla bellezza divina, non riesce a trovare uno sposo e allo

stesso tempo sucita l'ira di Venere, gelosa che la ragazza venga chiamata con il suo

nome. La dea furente convoca allora il figlio Amore e ordina lui di ferire la ragazza

con le sue frecce.

Nel frattempo il re, ansioso di maritare la più giovane delle sue figlie, si rivolge

all'oracolo di Apollo milesio e dal responso scopre che Psiche non è destinata a uno

sposo mortale, bensì a «nozze funeree» con un mostro furente e temuto da uomini e

dei. La fanciulla, abbandonata sulla cime di un monte, viene rapita da Zefiro che la

depone su un prato fiorito, dove ella si addormenta.

Al risveglio si incammina attraverso il bosco, dove sorge un magnifico castello le

cui porte si spalancano per lasciarla entrare. Ancelle invisibili la accompagnano, ella

fa il bagno e banchetta, poi, a letto, cade nel sonno. A notte fonda è raggiunta e

posseduta da uno sposo invisibile.

Dopo alcune notti però, Psiche, tristissima, ottiene il permesso del suo sposo di

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poter accogliere le sorelle, a patto però che ella non dia loro ascolto quando le

chiederanno le fattezze dello sposo; le viene rivelato inoltre di essere gravida. Le

sorelle vengono così ammesse più volte come ospiti al castello e, con intenzioni

malvagie, convincono Psiche a tendere un agguato notturno allo sposo per scorgere il

suo viso. Ma la lanterna non rivela il drago mostruoso che Psiche credeva, su

insistenza delle sorelle, di trovarsi davanti, bensì Amore, il dio Amore, bellissimo e

con a fianco le frecce con le quali influisce sul mondo. Puntasi con una di esse

Psiche, in una estasi amorosa, fa cadere per errore sulla spalla di lui una goccia

dell'olio della lanterna. Amore, bruciato e dispiaciuto, fugge promettendo una

tremenda punizione per le sorelle malvagie. Psiche si vendica infatti del danno che le

hanno inflitto e, promettendo all'una e all'altra il matrimonio con Amore, le fa gettare

dalla rupe dove lei stessa era stata abbandonata. Nel frattempo Venere, saputa da un

gabbiano la verità, s'infervora con il figlio.

Psiche chiede invano, nel suo errare, l'aiuto di Cerere e Giunone, e decide di

recarsi infine presso Venere stessa, dove Amore giace ferito e rinchiuso in una stanza.

Condotta da una serva al cospetto di Venere, Psiche viene dapprima frustata, poi

sottoposta a una serie di difficilissime prove, che supera grazie all'aiuto di creature

impietosite dalla sua sorte. L'ultima prova consiste nel procurarsi la scatola

contenente la bellezza di Proserpina, direttamente dall'aldilà. Anche questa volta

aiutata, Psiche riesce nell'impresa ma, presa dalla curiosità, apre infine la scatola non

trovandovi altro che un sonno infernale, che la avvince. Amore vola allora in

soccorso della sua sposa, le deterge il sonno di dosso e lo rinchiude nella scatola.

Psiche, risvegliatasi, corre a recare la scatola a Venere, che infine perdona il proprio

figlio. Un concilio degli dèi stabilisce infine che Amore sposi Psiche e la conduca

con sé in cielo, dove avviene finalmente la festa di nozze.

La bella fabella219 è il racconto più lungo inserito all'interno del romanzo

apuleiano e, avendo una struttura chiaramente fiabesca (oltre agli altri elementi tipici,

come il conteggio dei chicchi, la ricerca di una acqua magica ecc.), costituisce il

primo esempio esplicito di fiaba nella letteratura occidentale. La struttura è infatti

quella tipica studiata dai filologi moderni:

219 È Lucio stesso a chiamarla in questo modo in Met.,VI, 25 (p. 218).

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1. L'eroe, da una condizione iniziale stabile e tranquilla, subisce un

danno: in questo caso l'eroina perde un bene, che è il proprio sposo.

2. L'eroe deve allora affrontare una serie di prove per riconquistare ciò

che ha perso.

3. Aiutato infine da vari esseri magici, l'eroe riesce a riconquistare la

stabilità iniziale.

La fabula, però, ha anche valore filosofico-religioso, in quanto allegorizza i vari

stadi che l'anima (in greco, appunto, psychḗ) deve attraversare per purificarsi;220

questa teoria prese avvio con le trascrizioni degli autori successivi, primi tra tutti

Fulgenzio e Marziano Capella. Psiche rappresenterebbe infatti l'anima razionale che

tende verso il Dio, verso il quale deve necessariamente nutrire una fiducia nel buio, e

per il quale deve compiere una serie di prove.221

Essa viene allora a ricalcare in piccolo la storia delle Metamorphoses e l'intera

vicenda di Lucio: la conquista di un qualcosa di assolutamente superiore, ottenuta

attraverso molteplici prove e peripezie. Più specificamente, entrambe le vicende

hanno inizio con una avventura erotica, alla quale la curiositas pone fine, i due

protagonisti perdono quindi la condizione di iniziale beatitudine e debbono

affrontare molteplici e difficili prove, finché l'intervento divino non li salva.

A differenza delle tre eroine boccacciane, i due eroi apuleiani vengono salvati per

misericordia divina, non per i propri meriti (eccetto, forse, che per la loro pazienza e

la loro umiltà di fronte alla divinità) e non ottengono inoltre molto più di quanto non

avessero prima del mutamento di fortuna. Zinevra viene infatti sì riportata alla

220 Inoltre Ivan Bedini considera anche l'aspetto psicologico dell'interpretazione della fabula, sostenuto in epoca moderna e contemporanea da studiosi come Bettelheim, aderente al filone freudiano della disciplina, e Neumann, aderente invece a quello junghiano. Le due teorie (quella etica-filosofica e quella psicologica) si distinguono soprattutto per la considerazione della curiositas che porta Psiche a commettere i due tragici errori, quello di vedere in viso Amore e quello di aprire il vasetto di Proserpina: le prima teoria vede infatti questa caratteristica come un ostacolo per l'uomo nella esplorazione del profondo sé, la seconda la vede invece come un elemento fondamentale di formazione nella scoperta del mondo.Cfr Ivan Bedini, Eros e Psiche. Viaggio dell'Anima nelle terre d'Amore, Roma, Edizioni Universitarie Romane, 2007, pp. 11-18.

221 Anche il Decameron è stato analizzato come un'opera che descrive l'ascensione dell'anima alla perfezione, a partire da «il piggiore uomo che forse mai nascesse» (I, 1, § 15, p. 203), a una donna savissima e bella nell'aspetto e nell'anima, la cui onestà non viene mai messa in dubbio se non dal marito stesso. Cfr Pier Massimo Forni, Parole come fatti. La metafora realizzata e altre glosse al "Decameron", Napoli, Liguori, 2008, pp. 123-144.

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condizione di donna sposata e più ricca di prima, ma per la determinazione con cui

ha perseguito la propria causa. Altiel dal canto suo va finalmente in sposa al re del

Garbo, come se nulla o quasi fosse accaduto negli anni di lontananza da casa, grazie

alla propria orazione dinnanzi al padre. Griselda è infine riaccolta come moglie da

Gualtieri, con la possibilità di accogliere finalmente i propri figli, per la sua umiltà e

la sua pazienza nel sopportare le cattiverie del marito.

Inoltre, di Lucio Psiche possiede alcuni tratti: la curiositas che la conduce alla

rovina (ella desidera vedere il vero volto dell'Amore -che esso sia un dio o

semplicemente il proprio sposo-, così come Lucio desiderava vedere il vero volto

della magia, che costituisce il motivo primario del suo viaggio), la persecuzione da

parte della sorte, l'iniziale smarrimento nella nuova condizione e l'umiltà, essenziale

per riconquistare la condizione precedente. Entrambi, inoltre, ottengono infine più di

quanto avevano inizialmente: la vocazione divina che permette a Lucio di risiedere a

Roma iniziato ai culti egiziani e pienamente ripagato nella propria condizione di

avvocato e a Psiche di risiedere nell'Olimpo sposata con un dio.

L'inserto di questo castone mitologico all'interno delle Metamorfosi ha inizio con

la caratterizzazione della protagonista, che interpretata in chiave allegorica ci

permette di analizzare i tratti che per Apuleio dovevano essere caratteristici

dell'Anima:

Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias forma

conspicuas habuere, sed maiores quidem natu, quamvis gratissima

specie, idonee tamen celebrari posse laudibus humanis credebantur, at

vero puellae iunioris tam praecipua tam praeclara pulchritudo nec

exprimi ac ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria

poterat.222

Il carattere apologetico (e fiabesco) è presente fin dall'incipit della favola: Psiche è

una giovane nobile e divinamente bella, al punto che infatti non è possibile lodarla

con umane parole. La nobilitas,223 l'essere cioè una principessa, è ciò che prima di

qualunque altro tratto la legittima alla divinità: nel mondo greco erano infatti i nobili,

a differenza degli altri comuni mortali, ad essere maggiormente degni di entrare in

222 Met., IV, 28, p. 142.223 Dal latino nobilis, is ("noto, conosciuto") è il corradicale di nosco, is, novi, notum, ĕre

("conoscere").

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contatto con la divinità; ma in senso figurato la nobilitas sta anche a caratterizzare

l'anima, di cui Psiche è evidentemente la personificazione, come la parte più elevata

dell'uomo, ossia quella che permette lui di conoscere ed elevarsi da piano razionale e

quello divino.

La bellezza si pone allora come correlativo di questa nobiltà interiore, poiché

soltanto l'uomo virtuoso è, secondo la filosofia, colui che conosce l'anima e non è

coinvolto dalla bellezza esteriore. Questa caratteristica è la vera protagonista della

bella fabella, essendo il motore reale dell'azione in quanto causa dell'hybris, ossia

l'attribuzione di caratteri divini a chi è mortale, che suscita in ogni mito l'Ira e

l'Invidia degli dei e in particolare delle dee (si pensi ad esempio ai casi di Aracne,

Medusa ed Elena).

Bellezza mortale e allo stesso tempo divina si insinuano parimenti nella

concezione apuleiana dell'Anima, secondo la quale l'hybris non consiste in un

peccato grave e irreparabile, ma soprattutto una colpa di cui la stessa Psiche non è

responsabile. Infatti a causare l'ira di Venere non è la bellezza della ragazza in sé, ma

l'atteggiamento degli altri mortali nei confronti di quest'ultima e la conseguente idea

di non voler essere confusa con una «mortali puella»:

Multi denique civium et advenae copiosi, quos eximii spectaculi

rumor studiosa celebritate congregabat, inaccessae formonsitatis

admiratione stupidi et admoventes oribus suis dexteram primore digito

in erectum pollicem residente ut ipsam prorsus deam Venerem

religiosis adorationibus. Iamque proximas civitates et attiguas

regiones fama pervaserat deam quam caerulum profundum pelagi

peperit et ros spumantium fluctuum educavit iam numinis sui passim

tributa venia in mediis conversari populi coetibus, vel certe rursum

novo caelestium stillarum germine non maria sed terras Venerem

aliam virginali flore praeditam pullulasse.

[...]

Puellae supplicatur et in humanis vultibus deae tantae numina

placantur, et in matutino progressu virginis, victimis et epulis Veneris

absentis nomen propitiatur, iamque per plateas commeantem populi

frequentes floribus sertis et solutis adprecantur.224

224 Met., IV, 28-29, pp. 142-144.

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È interessante il particolare dell'indice e del pollice uniti sulle labbra, che

ribadisce ancora il carattere divino che gli uomini percepiscono nella bellezza di

Psiche; queste forme di venerazione daranno luogo all'ira di Venere e a tutta la

vicenda mitologica. Ma la bellezza di Psiche pone una ambigua dicotomia, dal

momento che, essendo percepita come divina, non è avvicinata e non può essere

posseduta da alcun uomo mortale che, pur essendone attratto, ne resta alienato.

Venere dal canto suo reca in sé molta più materialità e imperfezione della mortale

Psiche. Da una parte abbiamo infatti una dea invidiosa, furente e violenta, che non

esita a sottoporre a prove mortali la ragazza supplice (e per di più ospite), dall'altra

una mortale pura, colpevole soltanto di troppa bellezza e di troppa curiositas.

Proprio l'antagonismo di Venere, generato dalla colpa dell'hybris, conferisce il

carattere della favola alla storia di Psiche. Ma l'antagonista all'interno del romanzo e

della fabula poteva essere chiunque o qualunque cosa: da un altro comune mortale a

un dio, fino alla stessa Fortuna.

L'amore che si scatena dall'invidia finora incontrastata di Venere ha anch'esso

tratti del tutto particolari: Psiche ama infatti Cupido ancora prima di vederlo in volto

e di sapere chi egli sia, e lo ama al punto da congiungersi con lui dalla prima notte; il

loro amore, puramente istintivo, sfocia infatti da subito in una relazione

apparentemente soltanto fisica, poiché soltanto il dio conosce veramente la bellezza

della mortale, non viceversa.

Dal momento in cui Psiche si macchia della prima colpa reale, l'aver voluto cioè

guardare in volto un dio, infrangendo il giuramento coniugale, è costretta a una serie

di durissime prove, che supera per lo più grazie alla pietà di alcuni aiutanti (un altro

elemento fiabesco). Infatti, come già accennato in precedenza, la vera colpa di Psiche

non è la bellezza, ma la curiositas: la sua reale responsabilità non è l'hybris, che lei

d'altronde non ha mai voluto commettere, non la sua sventurata bellezza, ma

l'incapacità di fidarsi al buio del marito. Ella inoltre si salva per intervento di una

Grazia divina finale, perché altrimenti le sue forze, da sole, non sarebbero bastate a

elevarla all'Olimpo, e anzi, ella sarebbe rimasta nel sonno eterno dopo aver aperto il

vasetto con la bellezza di Proserpina, sempre mossa dal desiderio di sapere e di

conoscere.

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III. 3: Eroine a confronto

Certamente anche nella novella di Griselda sono presenti numerosi elementi

fiabeschi: ella è scelta arbitrariamente dal potente come figura principale della

vicenda, e in questa scelta già sono indicati i tratti straordinari (poverissima custode

di greggi, viene scelta come moglie dal marchese e condotta a castello in qualità di

marchesa), accetta il proprio ruolo di eroina giurando fedeltà assoluta a colui che l'ha

scelta, viene poi sottoposta a numerose prove per dimostrare la propria virtù e ne

esce infine vittoriosa.

Allo stesso modo Psiche è scelta da un potente (un dio, per giunta) e da lui elevata

al suo stesso rango, anche se non arbitrariamente ma a causa dell'invidia di Venere

che a sua volta è conseguenza della divina bellezza di Psiche. Da questa unione i due

generano perfino una erede, la Voluttà, che legittima infine le impares nuptiae e

permette alla protagonista di non perdere la propria acquistata (ma non conquistata,

come nel caso di Zinevra e Griselda) condizione.

Gli elementi fiabeschi comuni alle due novelle sono:225

1. L'allontanamento della protagonista dal conosciuto e protettivo ambiente

familiare;

2. L'incontro erotico;

3. Le molteplici prove da superare a causa di una volontà superiore;

4. Il finale salvataggio che ha i tratti di una completa gratuità sempre da parte di

una volontà superiore.

Inoltre, vi sono alcuni particolari ricorrenti in entrambe le favole: il matrimonio

come tema dominante e l'unione impari e illegittima tra i due coniugi, l'uno di

condizione più elevata, che elargisce una sorta di beneficio, di grazia, nei confronti

della fanciulla scelta, come già accennato in precedenza, a causa della propria

bellezza e ammessa a raggiungere una condizione più elevata, al pari del marito; la

richiesta da parte di lui di assoluta obbedienza e fedeltà della moglie; la separazione

dei due amanti, da una parte a causa di una colpa vera e propria (il peccato di

225 Candido definisce la novella di Griselda come una «riscrittura tematica e stilistica» della fabula di Amore e Psiche.

Cfr Igor Candido, Apuleio alla fine del Decameron. La novella di Griselda come riscrittura della «lepida fabula di Amore e Psiche», in «Filologia e Critica», XXXII, 1, 2007, pp. 3-17.

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curiositas), dall'altra per l'intenzione di «volere con lunga esperienza e con cose

intollerabili provare la pazienzia di lei»; il finale ricongiungimento e le nozze

legittime.

Candido rileva inoltre alcune riprese testuali esplicite tra i due testi, confermate

inoltre dalle numerose chiose al testo della fabella nel manoscritto ϕ (Laur. 29, 2) che

la renderebbero il tratto di testo più postillato dal Boccaccio:226 dalla

caratterizzazione di Gualtieri, che si ricollega sia alla prima descrizione di Cupido

che Psiche fa alle proprie sorelle, sia all'apparizione del dio di fronte alla ragazza,

alla metafora delle catene, caratterizzante il tema dominante del matrimonio.

I due temi maggiormente presenti all'interno dei due testi sono le impares nuptiae

e la verginità rapita, entrambi risolti dal secondo matrimonio, che si pone quindi

come il solo e unico, dal momento che il primo non era sentito come legittimo227 e in

esso non potevano sicuramente essere considerati legittimi i figli nati.

Il tema delle prove pone ancora in comunanza le due novelle, benché nel caso di

Psiche esse siano generate da una colpa reale (aggiunta a quella non reale della

bellezza), mentre invece nel caso di Griselda esse sono inventate da Gualtieri

soltanto per la volontà di provare la fedeltà della moglie.

Le due eroine sono inoltre oggetto di pietas, Psiche da parte degli aiutanti (le

formiche, la torre, l'aquila di Zeus), Griselda da parte del popolo che di fronte alle

azioni di Gualtieri lo definisce come crudele (oltre che iniquo e bestiale) e tenta di

dissuaderlo dal perpetrare la sua crudeltà nei confronti della coniuge.

Le prove sono affrontate dalle mogli in ambedue le narrazioni al fine della

ricongiunzione con in mariti, sebbene Griselda mantenga sempre fede alla promessa

formulata verso Gualtieri al momento delle nozze, mentre al contrario Psiche tradisce

la fiducia del proprio congiunto. Griselda sarebbe allora la personificazione di quelle

doti che Psiche si auto-attribuisce ingiustamente, ossia la firmitas animi e la fides,

che nell'eroina boccacciana rimarranno costanti228 e, se possibile, ribaltati in negativo

226 Igor Candido, Apuleio alla fine del Decameron, cit., pp. 7 e sgg.227 Secondo Candido, sono principalmente tre elementi a legittimare giuridicamente il matrimonio:

che questo avvenga in presenza dei testimoni (i sudditi e i figli ritrovati, gli dei), con il consenso del padre e nella dimora dell'uomo o del dio (il castello anziché la villa, l'Olimpo anziché il castello), sintetizzati nella formula «in villa sine testibus et patre non consentiente».Cfr. Igor Candido, Apuleio alla fine del Decameron, cit., pp. 13-15.

228 Cfr. Igor Candido, La fabula di Amore e Psiche dalle chiose del Laur. 29.2 alle due redazioni

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nella concezione del lettore: Dioneo critica infatti l'eccessiva sottomissione di

Griselda con la battuta finale, sovvertendo anche in ultima battuta il carattere

esemplare che la novella avrebbe mantenuto se avesse seguito il canone dell'intera

giornata.

Simile è poi la conclusione della vicenda, che ne conferma ultimamente il

carattere fiabesco: è riassunta infatti nelle due conclusioni la formula «e vissero per

sempre felici e contenti» (nel caso decameroniano si tratta però soltanto della

condizione di Gualtieri, che, una volta sposata Griselda e rimediato ai propri torti,

«lungamente e consolato visse»; nelle Metamorfosi invece «sic rite Psyche convenit

in manum Cupidinis; et nascitur illis maturo partu filia, quam Voluptatem

nominamus»), che conclude armoniosamente l'iniziale «erant in quadam civitate» e il

«già è gran tempo, fu tra' marchesi di Sanluzzo».

Griselda rimane, sia nei confronti di Psiche, sia in quelli degli altri personaggi

decameroniani, la figura di assoluta perfezione, purezza e genuinità, lo stadio ultimo

cioè di un poema inteso dantescamente come la descrizione del cammino dell'anima

dalle bassezze più infime alle eccelse qualità e doti della moglie e della donna

perfetta, anche se questa ipotesi, complice quel realismo tipicamente boccacciano,

non ricopre fino in fondo e anzi, quasi per nulla, tutto il carattere multiforme delle

possibili interpretazioni dell'opera.

Griselda è la vera, non solo presunta come Psiche, personificazione della «firmitas

animi» e della fides nei confronti del marito, al quale ella lascia fino alla fine libero

campo sulle decisioni che riguardano sia i figli sia il loro matrimonio. Il ribaltamento

si verifica prima di tutto nella caratterizzazione iniziale delle fanciulle: l'una è nobilis

e possiede una sovrumana e «praeclara pulchritudo», l'altra è una «povera

giovanetta» che viene scelta da Gualtieri per i propri costumi oltre che per la propria

bellezza naturale; quest'ultima viene inoltre accresciuta in modo inaspettato dalla

vestizione dei panni da marchesa, grazie ai quali ella conquista provvisoriamente la

nobiltà. Potremmo dire che soltanto in questo momento la condizione esteriore

rispecchia le doti interiori e perdura pochissimo, ossia fino al momento in cui,

qualche tempo dopo, ella darà alla luce la primogenita). Si confrontino in questo

delle Genealogie di Boccaccio e ancora in Dec. X, 10, in «Studi sul Boccaccio», XXXVII, 2009, pp. 192-196.

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senso le reazioni dei mariti alla gravidanza o alla nascita di un figlio: Cupido non

avrebbe infatti remore nel rinunciare alla propria moglie e a un futuro (ma certo)

erede nel caso in cui la donna tradisse la sua fiducia, Gualtieri non esita a sottrarre

alla moglie i due pargoli per provare all'estremo la sua pazienza.

Un'ulteriore confronto si attua tra la venerazione divina della «inaccessae

formositas» di Psiche e la lode terrena dell'intera persona di Griselda, della quale i

sudditi venerano con umane parole l'«alta vertù» che Gualtieri è riuscito a scovare

«sotto i poveri panni e sotto l'abito vilesco»; la notizia della pulchritudo e quella

della vertù si espandono in breve non solo tra i cives ma anche tra gli advenae.

Entrambe amano inoltre "al buio", senza cioè un'alternativa almeno apparente al

matrimonio, che ovviamente non manca di elevare ancora maggiormente la loro

condizione: la nobile diventa una dea, la povera diventa una nobile. In entrambe

permangono però le caratteristiche iniziali, l'una resta infatti «satis et curiosa» fino

all'ultima prova, l'altra conserva la sua patientia senza mai venir meno alla promessa

fatta al marito al momento delle nozze; si aggiunga inoltre che Psiche viola la fides di

Cupido nonostante questi la abbia avvertita che, se avesse dato sfogo alla curiositas

di volerlo vedere in viso, il figlio da lei portato in grembo sarebbe stato illegittimo

(non divino, bensì mortale). Inoltre Psiche dalla propria bellezza non trae alcun

frutto,229 ma anzi a causa di essa scatena l'invidia e la reazione violenta di Venere,

Griselda invece deve provare al marito la propria fedeltà attraverso la pazienza, ma a

causa di quest'ultima nulla ottiene (almeno inizialmente) se non l'infittirsi delle

punture che egli le infligge.

Una ultima riflessione sul confronto tra questi due testi vorremmo porla sul fine

ultimo del racconto e sul piacere del raccontare di cui discutevamo nel primo

capitolo: la bella fabella è infatti raccontata dalla vecchia custode della caverna dei

briganti per consolare una Carite in preda agli incubi più feroci e sconvolgenti,

proprio come le destinatarie del Decameron afflitte dal fuoco di Amore, che l'autore

vuole consolare proprio con la sua opera maggiore, costituita di tante fabulae.

Per quanto riguarda il confronto con Zinevra, la cui novella si ricollega

tematicamente a quella di Griselda, avendo entrambe come motivo principale la

229 «Nullum decoris sui fructum percipit», Met., IV, 32, p. 146.

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fedeltà coniugale, è accostabile a Psiche, ad esempio, per il modo in cui viene

introdotta. In entrambe le fabulae, infatti, le eroine sono inizialmente poste in

secondo piano, mentre è presentata la situazione di fondo dell'ambiente nel quale

vivono. Zinevra appare nel discorso di Bernabò in quanto esempio di fedeltà

assoluta, ma fisicamente e direttamente ci si presenta soltanto dopo la lunga sequenza

che chiude la disputa di questi con Ambrogiuolo, intenta a supplicare l'uomo

incaricato di ucciderla e poi a scappare travestita da uomo (e anche da questo

momento in poi, finché non prende parola e agisce attivamente per smascherare

l'ingannato, le sue azioni e il suo personaggio sono descritti in generale senza enfasi e

abbastanza sinteticamente). Anzi, il personaggio vero e proprio di Zinevra, nella sua

essenza, appare soltanto dopo il secondo e risolutivo incontro con Ambrogiuolo

(secondo se intendiamo come primo incontro quello in cui egli, vedendola

addormentata e nuda, la ha ingannata).

Anche Psiche appare come personaggio fisico all'interno della favola e diventa

propriamente protagonista soltanto dopo che è stato presentato il suo stato di

famiglia, enfatizzata la sua bellezza e descritte le reazioni a causa di essa (la

venerazione degli uomini e l'ira di Venere), quando ella viene condotta quasi in

processione religiosa alla rupe e incita il pubblico disperato ad abbandonare le

lacrime.

In entrambi i casi i protagonisti sembrano essere coloro che scompariranno poi per

tutto (o quasi) il resto della narrazione: il gruppo di mercanti a Parigi, e in particolare

Bernabò che è posto in evidenza dal momento che è l'unico a dissentire (e

Ambrogiuolo che lo deride e lo redarguisce con un discorso di stampo

paternalistico230) rispetto agli altri (ma nella novella risulta poi essere il personaggio

di minor importanza), e i genitori, che appaiono nella richiesta all'oracolo per poi

scomparire completamente, eccezion fatta per le menzioni da parte delle sorelle.

Entrambe le eroine assumono quindi una grande rilevanza nell'attimo in cui

230 Come lo definisce Totaro, che ne riporta la dichiarazione (§ 287-288) attribuendole una volontà teoretica e pedagogica, che ribadisce la comune credenza sulla lascivia femminile e allo stesso tempo introduce la distinzione tra stolte e savie che si presta come uno dei temi più presenti all'interno del Decameron.Cfr Luigi Totaro, Ragioni d'amore. Le donne nel Decameron, Firenze, Firenze University Press, 2005, p. 53.

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appaiono e prendono in mano le redini dell'azione, cambiando il proprio destino,

rivelandosi ancora più grandi di come erano state descritte inizialmente.

Sicuramente il personaggio di Psiche condivide più tratti con quello di Alatiel, dal

momento che entrambe sono di «sventurata bellezza» e proprio a causa delle loro

caratteristiche fisiche più che morali sono venerate da tutti. Ma è anche vero che la

loro pulchritudo le destina almeno inizialmente a tragici epiloghi: l'una non maritata,

l'altra oggetto di possesso di qualunque uomo la incontri. Proprio qui vi è una

differenza fondamentale: tutti vogliono avvicinarsi alla bellezza di Alatiel, dapprima

per conoscerla, poi per possederla, la divina pulchritudo di Psiche è invece rifuggita

in quanto ritenuta inaccessibile, proprio per le sue caratteristiche ultraterrene, tutti la

ammirano infatti come se ella fosse un simulacro, senza farsi avanti per chiederla in

moglie. Per la bellezza di Alatiel gli uomini sarebbero invece disposti a qualuque

impresa e lo provano i numerosi atti violenti presenti all'interno della novella

(fratricidi, omicidi, violazioni della legge dell'ospitalità ecc.).

Entrambe sono inoltre nobiles, ma questa loro facoltà non giova loro in maniera

consistente e, anzi, da essa non traggono alcun frutto: quella di Psiche è conosciuta

dal marito e dalla futura suocera, ma a nulla serve, dal momento che la sua

condizione resta quella di una mortale sposata con un immortale (il matrimonio in

questo senso viene purificato e legittimato dall'atto finale di bere l'ambrosia); quella

di Alatiel è probabilmente solo intuita dai «padroni», e comunque non cambia

minimamente la sua condizione.

Vaghetti definisce la novella di Alatiel come il «rovesciamento ironico del mito di

Amore e Psiche»,231 a partire dalla strettissima analogia tra la scena in cui Psiche

scopre il vero volto del suo sposo e quella in cui il duca con il lume illumina il sonno

di Alatiel:

Sed cum primum luminis oblatione tori secreta claruerunt, videt

omnium ferarum mitissimam dulcissimamque bestiam, ipsum illum

Cupidinem formonsum deum formonse cubantem, cuius aspectu

lucernae quoque lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi

novaculam paenitebat.

[...]

231 Lamberto Vaghetti, La filosofia della natura, cit., [].

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Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque

pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra

sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis

etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem

roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in

Amoris incidit amorem. Tunc magis magisque cupidine fraglans

Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis

festinanter ingestis de somni mensura metuebat.232

Prese il duca un lume in mano e quello portò sopra il letto, e

chetamente tutta la donna, la quale fisamente dormiva, scoperse (...).

Per che, di più caldo disio accesosi (...) con le mani ancor sanguinose

allato le si coricò e con lei tutta sonnecchiosa, e credente che il prenze

fosse, si giacque.233

In questo senso potremmo allora aggiungere la considerazione di Almansi,

secondo il quale Alatiel sarebbe una «sacerdotessa di Eros», alla cui bellezza gli

amanti, morendo, si consacrano.234

Un altro elemento ricorrente nello svolgersi delle storie d'amore delle protagoniste

è il silenzio, reale o figurato: da un lato abbiamo il buio visivo di Psiche, che in

quanto accoppiata con un essere sovrumano, è condannata a questa forma di

incomunicabilità (infranta poi con la rottura stessa del foedus ai danni del suo stesso

amante), dall'altro si assiste all'incomunicabilità ambivalente di Alatiel, che permette

narrativamente di dare maggior risalto alla gestualità sessuale e allo stesso tempo

indica la sovrumanità della protagonista. D'altronde, come scrive Almansi:

«l'accoppiamento con un personaggio mitico deve avvenire in silenzio, perché non

esiste un dialogo, un linguaggio normativo, nel rapporto tra uomo e mito».235

Contrariamente a quanto avviene per Psiche, che cerca di accrescere ancora

maggiormente la propria «sventurata bellezza» aprendo il vasetto con la bellezza di

Proserpina (anche se probabilmente questa sua azione si dovrebbe secondo noi

ascrivere più alla curiositas tipica che a una volontà di impossessarsi del contenuto

del vaso), Alatiel non si cimenterà mai in questa impresa, consapevole com'è che sia

232 Met., V, 22-23, pp. 176-178.233 Dec., II, 7, § 57, 412.234 Almansi, Alatiel, in Id., L'estetica dell'osceno, cit., p. 157.235 Ibidem, p. 157.

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proprio la bellezza a suscitarle le numerose peripezie. Proprio in quel vasetto stanno

le bellezze dalle quali Panfilo mette in guardia le sue giovani compagne novellatrici,

ossia quelle che con «meravigliosa arte» le donne in genere cercano di accrescere,

non sazie delle bellezze che la natura ha già concesso loro.

Nel caso di Alatiel parleremo perciò, come suggerisce Vaghetti, di «rovesciamento

ironico»:236 il Boccaccio vorrebbe infatti mostrare, con questa novella, che nella

realtà anche gli uomini si comportano come Psiche, affrontando peripezie e prove per

conquistare la personificazione di Eros più su un piano carnale che su un piano

morale o idealistico del sentimento. E se queste prove e peripezie consistono tutte

nella violenza di un assassinio (aggravato o meno dalle leggi di parentela e di

ospitalità, ma dal valore in ogni caso sacrale dal momento che è

consacrato/sacrificato alla personificazione della divina bellezza), Alatiel non sembra

esserne particolarmente preoccupata e con ogni amante impiega il medesimo

impegno fisico, si innamora di tutti loro indiscriminatamente, benché abbiano

condizioni sociali, anagrafiche ed economiche del tutto differenti.

Potremmo definire le avventure amorose di Alatiel come una perpetrazione di

quella tra Amore e Psiche, a giudicare dalla ripresa del motivo dell'abituarsi a una

vita del tutto sconosciuta e aliena a causa delle leggi della Natura. Si confronti, ad

esempio, questo passo, in cui è descritto il modo di abituarsi di Psiche alla sua nuova

condizione di moglie e inquilina regale «Haec diutino tempore sic agebantur. Atque

ut est natura redditum, novitas per assiduam consuetudinem delectationem ei

commendarat»237 e le numerosissime volte in cui Alatiel accetta il nuovo amante

nonostante questi abbia appena ucciso quello precedente.

Un'ulteriore analisi potrebbe mettere in rapporto il rapporto sessuale tra Cupido e

Psiche e quello tra Alatiel e il mercatante cipriano amico di Antioco:

E sopra la nave montati, data loro una cameretta nella poppa, acciò

che i fatti non paressero alle parole contrari, con lei in uno lettuccio

assai piccolo si dormiva. Per la qual cosa avvenne quello che né

dell’un né dell’altro nel partir da Rodi era stato intendimento, cioè che

incitandogli il buio e l’agio e ’l caldo del letto, le cui forze non son

236 Lamberto Vaghetti, La filosofia della Natura in Decameron, cit., p. 237 Met., V, 4, p. 158.

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piccole, dimenticata l’amistà e l’amor d’Antioco morto, quasi da

iguale appetito tirati, cominciatisi a stuzzicare insieme, prima che a

Baffa giugnessero, là onde era il cipriano, insieme fecero parentado.238

Non sarebbe difficile, in questo senso, attribuire ad Alatiel le medesime parole che

Psiche rivolge al suo sposo ignoto:

Gratias egit marito iamque laetior animo: "Sed prius" inquit "centies

moriar quam tuo isto dulcissimo conubio caream. Amo enim et

efflictim te, quicumque es, diligo aeque ut meum spiritum, nec ipsi

Cupidini comparo.239

Immancabilmente infatti Alatiel si abitua al nuovo amante, come dimostrano del

resto i passi che indicano la sua reazione: con Marato (primo grande omicida della

novella, un fratricida) ella, nel momento in cui lui «col santo cresci in man che Dio ci

diè la cominciò per sì fatta maniera a consolare», subito gli si affeziona,

dimenticando Pericone (§ 37); con prenze di Morea ella è, dopo un breve e tipico

momento di smarrimento iniziale, «tutta riconfortata e lieta divenuta» (§ 47); con

Constanzio, dopo appena due giorni di pianto luttuoso, da lui consolata, «come l'altre

volte fatto avea, s'incominciò a prender piacere di ciò che la fortuna avanti

l'apparecchiava» (§ 75); e infine con Antioco che «veggendola così bella, senza

servare al suo amico e signor fede, di lei s’innamorò» e, conoscendo la sua lingua,

[...] da amore incitato, cominciò seco tanta famigliarità a pigliare in

pochi dì, che non dopo molto, non avendo riguardo al signor loro che

in arme e in guerra era, fecero la dimestichezza non solamente

amichevole, ma amorosa divenire, l’uno dell’altro pigliando sotto le

lenzuola maraviglioso piacere.240

A questi si aggiunga anche il passo sopra citato del mercante cipriota, per avere un

quadro completo dell'infinito e ciclico meccanismo di adattamento dell'eroina

boccacciana, che deve affrontare difficoltà sicuramente maggiori alle proprie

potenzialità, come del resto accade a Psiche.

Un ultimo accento va posto sull'importanza che assume la verginità nelle tre

novelle: per Psiche essa è perduta nel momento in cui Cupido le annuncia la

238 Dec., II, 7, § 89, p. 421.239 Met., V, 6, p. 160.240 Dec., II, 7, § 80, p. 419.

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gravidanza, e certamente è uno dei pochi fattori che non le permetterebbe, una volta

separata dal proprio sposo, di tornare a una vita normale, anzi, alla propria vita da

figlia di re, probabilmente infatti ella sarebbe rifiutata dalla società; per Alatiel, che

ha perso la propria con almeno otto uomini (non un solo dio, ma ben otto uomini

comuni), ritorna finalmente alla condizione iniziale come se nulla fosse accaduto,

ossia «come pulcella»; Griselda, che non si troverebbe nella medesima situazione di

Psiche nel momento in cui viene ripudiata da Gualtieri, ma soltanto in quanto i figli

che ha dato alla luce sono almeno in apparenza morti, torna nella casa del padre con

soltanto una camicia che simboleggi la sua verginità.241

Concorre a definire la verginità l'azione della Fortuna, ugualmente presente nelle

tre versioni (tutte e tre le eroine scatenano infatti l'ira -o il dubbio- di un'entità

dinnanzi alla quale nulla possono: la Fortuna, una dea, un nobile), che è

evidentemente la forza che fa sì che le tre donne incontrino i loro amanti, vi si

uniscano e se ne debbano, per un motivo o per l'altro, separare.242 La questione della

verginità è risolta in tutti e tra i casi soltanto nel finale, con le nozze (seconde e in

ogni caso legittime) e l'arrivo a una condizione di maggiorata tranquillità.

241 Secondo Candido, il particolare della camicia sarebbe un ulteriore punto di contatto tra le Metamorfosi e il Decameron, poiché vi è una allusione al mito di Cupido e Psiche nel De nuptiis di Marziano Cappella (I, 7), in cui Minerva dona alla novella sposa la tunica («quod vulgo dicitur camisa») della sapienza.Cfr. Igor Candido, Amore e Psiche, cit., pp. 193 e sgg.

242 Similmente avviene anche nel caso di Griselda: ella attribuisce infatti alla Fortuna, come detto in precedenza, le colpe che invece sarebbero di Gualtieri.Cfr. Giorgio Cavallini, Trionfo dell'umiltà sulle crudeli prove imposte dal nobile signore alla paziente moglie, in Id., La decima giornata del «Decameron», Roma, Bulzoni, 1980, pp. 190-191.

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