Università degli Studi di Torino Dipartimento di Studi Umanistici Corso di Laurea in Culture e Letterature del mondo moderno DISSERTAZIONE FINALE Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche CANDIDATO RELATORE Daiana Cauteruccio Davide Dalmas a.a. 2012/2013 1
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Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio: analogie tematiche e stilistiche
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Università degli Studi di Torino
Dipartimento di Studi UmanisticiCorso di Laurea in Culture e Letterature del mondo moderno
DISSERTAZIONE FINALE
Le Metamorfosi apuleiane e il Decameron di Boccaccio:analogie tematiche e stilistiche
CAPITOLO 1: Riprese tematiche, strutturali e intertestuali.....................................10
CAPITOLO 2: Le Metamorfosi e due novelle del Decameron1. La Fortuna come elemento strutturale....................................................................472. Decameron II, 9......................................................................................................513. Decameron II, 7......................................................................................................61 CAPITOLO 3: Psiche e le eroine del Decameron1. La decima giornata e la novella di Griselda............................................................742. La fabula di Amore e Psiche: tra mito e allegoria..................................................833. Eroine a confronto...................................................................................................90
In questo progetto si è voluto approfondire il rapporto che lega le Metamorfosi di
Apuleio al Decameron di Giovanni Boccaccio.
L'idea è sicuramente nata dalla riflessione sulla straordinaria influenza che questi
autori hanno avuto e continuano ad avere, non solo sul piano della critica letteraria,
ma anche a un livello didattico più circoscritto alle scuole di secondo grado: ogni
studente è affascinato dalla attualità tematica e stilistica delle due opere. Oltre a una
facilità di lettura rispetto ad autori, a loro contemporanei ma molto più criptici e forse
per questo meno amati dagli studenti, infatti, possiamo notare come i temi ricorrenti
in questi due testi costituiscano ancora oggi la quotidianità umana (l'eros, la sorte,
l'etica). Boccaccio e Apuleio hanno cioè saputo entrare con semplicità nella cultura di
ognuno, scavando negli aspetti più profondi dell'animo umano.
In secondo luogo, si è voluto approfondire un aspetto che dalla critica letteraria è
per lo più sottovalutato, in quanto l'accento è stato spesso maggiormente posto sul
Decameron come opera medievale piuttosto che sulla emulazione dei classici che il
Boccaccio vi compie. A smentire la tesi di un Boccaccio quasi esclusivamente
medievale vi sono lavori come quello del professor Gianfranco Gianotti1 nel quale
viene riportata la maggioranza delle ricorrenze da un'opera all'altra, e grazie al quale
possiamo renderci conto di quanto esse siano numericamente estese e quanto
grandemente lo scrittore latino abbia influenzato quello medievale.
Il maggiore studioso del Boccaccio, Vittore Branca, nell'opera Boccaccio
medievale da lui riveduta e corretta a più riprese, sosteneva che «nella materia quanto
mai vasta e complessa del Decameron il mondo classico è poco meno che assente»,2
ma individuava le uniche eccezioni negli intrecci delle novelle V, 10 e VII, 2, che a
suo dire «discendono del resto proprio da uno scrittore latino, Apuleio, che la cultura
medievale sentì quasi come un suo precursore», essendo egli «l'unico autore della
letteratura greca e latina che, proprio come il Boccaccio, avesse prestato orecchio
alle narrazioni del popolo e le avesse ritenute degne di una consacrazione letteraria».3
1 Gianfranco Gianotti, Da Montecassino a Firenze. La riscoperta di Apuleio, in C. Allasia (a cura di), Il Decameron nella letteratura europea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. 9-46.
2 Vittore Branca, Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron, Firenze, Sansoni, 19963, p. 10.3 Ibidem, p. 11.
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Il Boccaccio, sebbene come sostenuto dal Branca abbia attinto moltissimo da fonti
medievali e in particolare dai generi popolari (fabliaux e cantari in primis), si è
sicuramente basato anche sull'antichità classica e su Apuleio; lo dimostrano le
numerose ricorrenze, sia contenutistiche sia stilistiche, presenti nel Decameron.
La fama di Apuleio si affermò duratura, ma in modo contrastante e ambiguo, negli
autori successivi, riflettendo la sua influenza l'alternanza dei periodi storici: egli fu
visto (e lo è tuttora) come mago, come autore pagano e profano o apprezzato allorché
considerato come filosofo, oratore o scrittore e inventore delle Metamorfosi, simbolo
di un paganesimo declinante o autore profano da combattere per il cristianesimo.4
Sant'Agostino, seppure fosse un autore cristiano e per parte sua volesse confutare
le teorie apuleiane sui demoni e sulla magia, forse a causa della propria formazione
pagana, non critica apertamente Apuleio, anzi mostra invece di conoscere
approfonditamente il De Magia, il De Deo Socratis e soprattutto le Metamorfosi, da
lui denominate Asinus Aureus.5
Soltanto appena placato il fuoco del primo cristianesimo, Apuleio passerà sotto
una critica meramente letteraria e non più dottrinale. Nel V secolo, dopo la revisione
del testo dei Metamorphoseon libri a opera del grammatico Sallustio, Fulgenzio
Planciade compie un riassunto della fabella di Amore e Psiche nella Mitologia,
fornendone una interpretazione in chiave allegorica. Ma in seguito l'opera scomparve
dalla scena, per poi apparire nell'esemplare montecassinese vergato in beneventano
nel secolo XI (F), momento a partire dal quale lo scrittore di Madauro venne
considerato come il mago autore della teoria dei demoni e dei miracoli, sia dai
cristiani, sia dai pagani, in quanto autore del romanzo milesio e come filosofo e
retore.6
Il Petrarca si mostra amatore delle opere apuleiane, non soltanto di quella
principale, ma anche del De Magia e del De Deo Socratis, e lo elogia per aver
4 Si veda, a proposito, l'invettiva di Tertulliano contro maghi e astrologi nel Corpus Christianorum, IX.
5 «Sic Apuleius in libris asini aurei sibi accidisse scripsit», De Civitate Dei, XVIII, 19.6 Cfr., in generale, Adriano Pennacini, Apuleio letterato, filosofo e mago, Bologna, Pitagora, 1979.
Sulla fortuna di Apuleio cfr. Keith Bradley, Apuleiana, in «Phoenix», vol. LXII, n. 3-4, 2008, pp. 363-378; sulla fortuna delle Metamorphoses più nello specifico, cfr. Robert Carver, The Protean Ass. The Metamorphoses of Apuleius from Antiquity to the Renaissance, Oxford, Oxford University Press, 2007 e Jiulia Gaisser Haigh, The fortunes of Apuleius and the golden Ass. A study in transmission and reception, Princeton-Oxford, Princeton university press, 2008.
4
diffuso la dottrina platonica. Egli possiede un codice romanzo, il Vaticano 2193, e
mostra più volte di conoscerlo (Fam. I, 1, 12; I, 4, 4; I, 10, 3; IX, 13, 27; XX, 1, 12).
Ma è con il Boccaccio che il Madaurense risorge davvero come narratore delle
Metamorfosi: l'imitazione apuleiana raggiunge il suo apice proprio con il Certaldese,
che con abile tecnica lo riprende in più di un'opera: si verificherà da Boccaccio in poi
la propulsione a considerare Apuleio non più solo come filosofo platonico ma come
autore delle Metamorfosi. La ripresa allegorica della favola di Amore e Psiche nel De
genealogiis può offrire una visione di quanto questo testo fosse conosciuto e
ammirato dal Boccaccio (esso è in effetti il tratto maggiormente chiosato di tutto il
manoscritto apuleiano), mentre nel Decameron l'influenza è resa ancora più forte, sia
sotto forma di allusione, sia come vera e propria emulazione, non solo della lepida
fabula, ma di tutta l'opera che la contiene.
Sappiamo che il Boccaccio conobbe direttamente le opere di Apuleio tramite il
codice Laurenziano 54.32, siglato L1, autografo dello stesso Boccaccio e privo o
quasi di note che testimonino uno studio più approfondito che in precedenza dello
stesso Boccaccio, che ebbe in uso anche lo stesso F (il Laur. 68.2 o Mediceus II),7 in
scrittura beneventana tarda, del tardo XI secolo (1075 circa), contenente sia le tre
opere principali di Apuleio, sia alcuni libri di Tacito, che egli avrebbe letto e
postillato di proprio pugno.8 Sul codice Laurentianus Pluteus 42.1, manoscritto
contenente il Decameron e il Corbaccio, siglato Mn e risalente al 1384, vi sono
inoltre postille con citazioni e rinvii ad Apuleio a opera di Francesco d'Amaretto
Mannelli.
Il primo manoscritto passato tra le mani del Boccaccio è da considerarsi il
7 Sulla questione del "furto" dei codici apuleiani cassinesi e del loro trasferimento in area beneventana si veda la tesi di Sabbadini, che ne attribuiva la colpa al Boccaccio, e la confutazione di Billanovich.
Giuseppe Billanovich, Restauri Boccacceschi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1945.Remigio Sabbadini, Le scoperte dei codici greci e latini ne' secoli XIV e XV, E. Garin (a cura di), Sansoni, Firenze, 1967.Id., L'altro stil nuovo. Da Dante teologo a Petrarca teologo, in «Studi petrarcheschi», XI, 1994, pp. 1-98.
8 Secondo Billanovich, Vio e Casamassima, il testo di F (così come quello di φ) sarebbe stato invece postillato da Zanobi da Strada, allora vicario del vescovo Acciaioli e primo maestro di latino del Boccaccio, a Montecassino, dove peraltro il Boccaccio utilizzò il manoscritto in questione soltanto per quel che riguarda Tacito, avendo già letto Apuleio sugli altri codici. La tesi avversa è invece sostenuta da Pecere e Gianotti.
5
Laurenziano 29. 2 (φ) del tardo XIII secolo, sempre in scrittura beneventana, che è
da ritenersi quasi certamente una copia del testo utilizzato dal grammatico Sallustio
almeno settecento anni prima: possiamo perciò dire che il Boccaccio aveva letto le
Metamorfosi ancora prima di lasciare Napoli, come dimostrano i vocaboli rari
tradotti sicuramente da Apuleio nelle epistole del 1339 (I, II, III), conservate nello
Zibaldone (Laur. 29. 8): centusculus, gurgustiolum, antelucio, sepicule, le espressioni
larvale sumulacrum ed, emblematicamente, stilus desultorius. Abbiamo numerose
testimonianze testuali esplicite non solo nel Decameron (le già citate novelle VII, 2 e
V, 10), ma anche nella ripresa della lepida fabula di Amore e Psiche nella redazione
originaria del De genealogiis deorum gentilium.
Dunque, un Boccaccio trascrittore delle Metamorfosi, un autore che, come
Petrarca a proposito di autori quali Virgilio, Orazio, Boezio e Cicerone, ha assimilato
a fondo l'opera di Apuleio, al punto da servirsene anche inconsapevolmente. Allo
stesso scriveva il Petrarca, nella epistola denominata de imitandi lege, datata al 1359:
Legi apud Virgilium apud Flaccum apud Severinum apud Tullium; nec
semel legi sed milies, nec cucurri sed incubui, et totis ingenii nisibus
immoratus sum; mane comedi quod sero digerem, hausi puer quod
senior ruminare. Hec se michi tam familiariter ingessere et non modo
memorie sed medullis afflixa sunt unumque cum ingenio facta sunt
meo, ut etsi per omnem vitam amplius non legantur, ipsa quidem
hereant, actis in intima animi parte radicibus.9
In questo modo l'imitazione dovrebbe essere considerata, secondo il Petrarca,
come non voluta, e l'autore si salverebbe da quella accusa di furto sempre
incombente per mezzo delle critiche dei contemporanei. Parleremo allora di
emulazione, ossia di una imitazione che, come scrisse Marziano Guglielminetti, «non
pretende l'originalità assoluta, ma relativa»,10 a partire quindi dalla irrinunciabile
9 «Ho letto Virgilio, Orazio, Boezio, Cicerone, non una volta ma mille, né li ho scorsi ma meditati con gran cura; li divorai la mattina per digerirli la sera, li inghiottii da giovane per ruminarli da vecchio. Ed essi entrarono in me con tanta familiarità, e non solo nella memoria ma nel sangue siffattamente mi penetrarono e s'immedesimarono col mio ingegno, che se anche in avvenire più non li leggessi, resterebbero in me, avendo gettato le radici nella parte più intima dell'anima mia» (Petrarca, Familiares, XX, 2, trad. it. di Enrico Bianchi).
10 Marziano Guglielminetti, La tecnica dell'allusione, in Lo spazio letterario di Roma antica. IV. L'attualizzazione del testo diretta da G. Cavallo, P. Fedeli e A. Giardina, Roma, Salerno Editrice, 1991, p. 12.
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lettura dei classici che fa parte della formazione dell'autore. Il rapporto che lega
Boccaccio ad Apuleio sarà perciò fondamentale nel percorso formativo del
Boccaccio, e dovrà per certi versi essere inteso come la chiave di volta che rende
l'autore medievale uno dei più arguti lettori e scopritori di classici di tutti i tempi.11
L'altro filo rosso che collega, sebbene più indirettamente, il Decameron alle
Metamorfosi è l'importanza della parola, sia come caratteristica principale dell'essere
umano (che perciò Lucio perde non appena viene trasformato in asino e Alatiel non
appena si abbandona agli uomini in qualità di oggetto12), sia come puro piacere del
raccontare.
Ma il legame tra il Decameron e le Metamorfosi è da riscontrare soprattutto nella
struttura generale delle due opere, che gli autori stessi definiscono unitariamente
(papyrum e Libro, entrambi i termini appaiono tra le primissime parole dei Proemi)
e che al medesimo tempo essi frammentano nel ricorso alle novelle. Queste ultime
sono in entrambi i casi legate l'una all'altra tramite la cornice, elemento fondante
costruito sul processo di salvificazione: nelle Metamorfosi Lucio compie un percorso
simbolico e reale al contempo, dalla curiositas profana per la magia che lo porta
all'orrenda metamorfosi in asino, alla sacra iniziazione ai culti egiziani, nel
Decameron la brigata fugge dall'«orrido cominciamento», quello cioè della peste che
li priva di una società fondata su valori civili, per ritrovare uno stato di concordia e
riportarlo poi a Firenze.
In Boccaccio però la brigata rinuncia fin dalla sua prima costituzione allo schema
della metamorfosi: essa rimane ciò che è e rappresenta, ossia un modello etico e
civile di regolatezza e ordine, dal principio alla fine, in contrasto con l'imbestiamento
del genere umano (e la razionalizzazione delle bestie) di fronte al morbo pestifero,13
che è accostabile all'imbestiamento di Lucio, che però, nonostante la forma asinina
continua a serbare un intelletto tutt'altro che bestiale. Anche il protagonista delle
Metamorfosi però, sebbene il suo destino muti a seconda della Fortuna, mantiene la
11 Cfr Emanuele Casamassima, Dentro lo scrittoio del Boccaccio. I codici della tradizione, in A. Rossi, Il Decameron. Pratiche testuali e interpretative, Bologna, Cappelli, 1982, pp. 253-60.
12 Sebbene Alatiel non debba essere intesa come un oggetto sessuale, ma più, come vedremo, come un oggetto puramente di possesso.
13 Cfr., su questo argomento, Luigi Surdich, Il «Decameron». La cornice e altri luoghi dell'ideologia del Boccaccio, in Id., La cornice di Amore. Studi sul Boccaccio, Pisa, Ets Editrice, 1987, pp. 225-283.
7
propria personalità, vedendo infine cambiate soltanto le proprie aspirazioni
dall'interesse iniziale per la magia che lo conduce in Tessaglia, alla professione finale
dell'avvocatura e all'accostamento al culto isiaco che lo porta invece a Roma.
Ciò che unisce soprattutto le due opere sono le novelle, raccontate da personaggi
che si pongono non solo come produttori ma anche come fruitori e pubblico delle
narrazioni medesime, inscrivibili in un campo comunicativo nel quale, specialmente
nel Decameron, bisogna indagare la loro verità e fruibilità sul piano etico-morale.
Allo stesso tempo, dato che le novelle sono filtrate attraverso i personaggi, agli autori
è consentita la massima apertura e spregiudicatezza nei contenuti, che spesso sono
avviati in contrasto con la morale comune (erotismo più spinto, adulterio, magia
nera, criminosità estrema).
Proprio la spregiudicatezza presente in ambedue le opere è ciò che le pone in
contrasto con le correnti letterarie coeve. Infatti, nel Decameron, e già prima di esso
in un'opera quale, ad esempio, il De mulieribus claris, acquistano grandissima
importanza le figure femminili come protagoniste ma anche e soprattutto come
dedicatarie dell'opera, che appare quasi come filo-femminista e di fatto lo diventa nel
narrare di personaggi quali Ghismonda o Zinevra, o Alatiel o Griselda. Non a caso,
infatti, tra le prime a prendere a modello o a tradurre il Decameron e più in generale
l'opera boccacciana in Francia saranno proprio le autrici femminili del Rinascimento:
Christine de Pizan, Margherita de Cambis, Anne Malet de Graville, Marguerite de
Navarre, Helisenne de Crenne.14
Per quanto uno studioso come il Branca abbia definito l'opera boccacciana come
una «epopea de' mercatanti»,15 a mio parere il Decameron potrebbe essere
considerato tanto una «epopea delle donne», quanto una «epopea dei funestati
dall'Amore e dalla Fortuna», così come lo sono, almeno in parte, le Metamorfosi,
almeno per quanto riguarda l'aspetto della Fortuna. E ancor di più le due opere
possono essere definite come epopee dell'essere umano in tutte le sue Nature.
14 Per una rassegna più approfondita, cfr. Janet Levarie Smarr, Boccaccio and Renaissance women, in «Studi sul Boccaccio», XX, 1991-1992, pp. 279- 294. Per un quadro della tradizione francese del Decameron, cfr. Gisèle Mathieu-Castellani, Le Decameron et la litterature française. Le modèle et ses variations: du Decameorn à l'Heptametron, in Il Decameron nella letteratura europea, cit., pp. 141-166.
15 Vittore Branca, Boccaccio medievale, cit., pp. 134-164.
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Nel secondo e nel terzo capitolo ho voluto scandire la struttura sulla base dei temi
che maggiormente accomunano le due opere: la Fortuna e la presenza femminile, che
nelle Metamorfosi è più che altro posta in risalto nella fabula di Amore e Psiche e
nella caratterizzazione forte delle donne che appaiono in tutto il corso dell'opera (le
adultere, la vecchia padrona, Fotide, le streghe ecc.).
Nel primo capitolo, introduttivo e piuttosto generale, vengono analizzate le
affinità nella cornice delle due opere e soprattutto viene messa in luce la somiglianza
per quel che riguarda lo scopo finale, con incidenza in particolare sui due proemi,
sulla cornice e sulla storia in essa contenuta. Nella seconda parte vengono riportate le
ricorrenze tematiche e le riprese vere e proprie da un'opera all'altra, con particolare
attenzione alla decima novella della quinta giornata, alla seconda della settima
giornata; viene evidenziata l'importanza della tematica amorosa.
Nella prima parte del secondo capitolo viene presa in esame la tematica della
Fortuna, che assume rilevanza fondamentale in tutti i livelli narrativi delle
Metamorfosi e che nel Decameron diventa elemento significativo soprattutto (ma non
solo) nelle novelle della seconda giornata. Nella seconda e nella terza parte di questo
capitolo vengono poi confrontate, rispettivamente, la nona novella della seconda
giornata con il passo in cui viene descritto il supplizio del miele inflitto a uno schiavo
adultero in Metamorfosi VII, 22, e la settima novella della medesima giornata con la
cornice delle Metamorfosi stesse. Entrambe le eroine delle due novelle vengono
quindi comparate con Lucio, sulla base del loro carattere e del loro modo di reagire
al peccato che la Fortuna infligge loro.
Nel terzo capitolo si è voluto infine effettuare un confronto tra Psiche, Zinevra,
Alatiel e Griselda, analizzando dapprima la fondamentale importanza che questa
novella e la sua protagonista, attraverso l'analisi sulla virtù in esse compiuto,
occupano all'interno del Decameron. Nella seconda parte di questo capitolo
presentata la fabula di Amore e Psiche, occupante anch'essa, per dimensioni ma
anche per la ripresa in piccolo della tematica della cornice, un posto importantissimo
all'interno dell'opera, e interpretata spesso in chiave allegorica. Nella terza parte
avviene infine il confronto vero e proprio tra le eroine, sia a livello caratteriale, sia
sul piano della caratterizzazione sociale ed estetica che ne fanno gli autori.
9
I: APULEIO E BOCCACCIO
Riprese tematiche, strutturali e intertestuali
L'emulazione boccacciana di Apuleio si fonda principalmente sulla profonda
ammirazione del Boccaccio per il Madaurense, che rende quest'ultimo una
autorevolissima fonte, con la quale si riscontrano affinità tonali, strutturali, funzionali
e stilistiche notevoli.
Anche ad una prima occhiata alla impostazione generale dei due testi, possiamo
notare analogie piuttosto forti: la cornice, ossia il "racconto di racconti", l'argomento
licenzioso e a tratti fortemente erotico (l'aggettivo "boccaccesco" si imporrà nei
secoli appunto per indicare questo tipo di contenuto) e alcuni schemi di
rovesciamento o scioglimento della narrazione comuni alle due opere.
Come scrive Picone16 riprendendo una definizione di Wellek e Warren, la cornice
è da considerarsi come la connessione tra aneddoto e romanzo, ciò che conferisce
unità all'opera a partire dai vari frammenti rappresentati dai racconti e permette di
motivare la narrazione di questi ultimi. Essa infine è il luogo in cui primariamente ed
esplicitamente si impongono la presenza e la bravura dell'autore, che si assume così
la piena responsabilità anche dei frammenti posti al suo interno.
Possiamo quindi affermare che la cornice, fungendo da contesto sia storico sia
pragmatico, funge da spazio di avvio alle vicende dell'opera e allo stesso tempo da
chiave di lettura per una possibile interpretazione generale dell'opera. Essa fa da
sfondo ad almeno tre livelli della narrazione: quello dell'autore che vi si pone al
centro (livello extradiegetico), quello dei narratori (livello intradiegetico) e quello dei
personaggi (livello diegetico),17 distinti strutturalmente dall'alternanza di scritto
(l'autore) e orale (i narratori), o ancora di azione (personaggi) e racconto (narratori),
tutti con il medesimo messaggio e sempre equilibrati da una forza opposta di pari
importanza (l'autore e i lettori, il narratore e gli altri nove della brigata che
ascoltano). I personaggi agiscono e interagiscono tra loro soltanto nello spazio in cui
16 Michelangelo Picone, Tre tipi di cornice novellistica. Modelli orientali e tradizione narrativa medievale, in «Filologia e critica», XIII, 1988.
17 Ma Picone ne individua quattro, aggiungendo a questi tre anche il piano dei personaggi-narratori, definito come «livello metadiegetico». Cfr Michelangelo Picone, Boccaccio e la codificazione della novella. Letture del «Decameron», N. Coderey, C. Genswein, R. Pittorino (a cura di), Ravenna, Longo, 2008, p. 29 e sgg.
10
sono posti dal narratore in questione, e alcuni di essi, essendo «ben parlanti» possono
farsi portatori anch'essi di un messaggio da indirizzare ad altri personaggi, ma
sempre e comunque all'interno della storia.
Si possono riscontrare analogie tra i due proemi, in ciascuno dei quali l'autore si
rivolge come da consuetudine al proprio pubblico per giustificare l'opera e ottenere la
sua benevolenza.
Leggiamo infatti nel prologo delle Metamorfosi:
At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram,18 auresque
tuas benivolas lepido sussurro permulceam, modo si papyrum
Aegyptiam argutia nilotici calami inscriptam non spreveris inspicere,
figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et in se
rursum mutuo nexu refectas ut mireris.19
Exordior. -Quis ille?
Paucis accipe. Hymettos attica et Isthmos ephyrea et Taenaros
spartiaca, glebae felices aeternum libris felicioribus conditae, mea
vetus prosapia est, ibi linguam attidem primis pueritiae stipendiis
merui.
Mox, in urbe latia advena, studiorum Quiritum indigenum sermonem
aerumnabili labore nullo magistro praecunte adgressus excolui.
En ecce praefamur veniam, si quid exotici ac forensis sermonis rudis
locutor offendero. Iame equidem ipsa vocis immutatio desultoriae20
18 Ricorre in questa espressione il mito di Aracne, narrato precedentemente da Virgilio nelle Georgiche e da Ovidio nelle Metamorfosi, e in seguito da Dante (Inf., XVII e Purg., XII) e da Boccaccio stesso nel De mulieribus claris.
19 Vi furono non pochi problemi per gli storici della letteratura nell'identificazione del vero autore della versione originale della storia: la storia dell'uomo tramutato in asino per errore, che conserva però sensibilità e intelligenza umane, e che incorre poi in una serie cospicua di avventure, è infatti stata narrata più volte in greco. Apuleio vi aggiunge alcuni episodi, un buon numero di novelle, e soprattutto un nuovo finale (XI), con l'iniziazione di Lucio al culto di Iside, una volta tornato umano.
Possediamo una sola versione greca della storia, tramandataci sotto il nome di Luciano di Samòstata, ma Fozio, nel secolo IX d. C., segnala di aver letto le Metamorfosi di Lucio di Patre e aggiunge che a suo parere l'opera dello pseudo-Luciano deriva per riduzione dalle avventure del Lucio di Parte (ma non sappiamo neppure se Lucio sia anche il nome dell'autore o solo quello del protagonista). Pare comunque che Apuleio abbia attinto da una fonte comune allo pseudo-Luciano.
20 Certamente al Boccaccio non era ignota l'origine del termine, dal momento in cui, nell'epistola I, riprende il il termine accostandolo al proprio «rude desultorium eloquium», rendendoci così partecipi, fin dall'inizio, della propria identificazione con il Madaurense. L'espressione era inoltre utilizzata per indicare l'incostanza in amore (cfr. Ovidio, Amores, I, 3) e l'atto sessuale in sé, come anche avviene nel Decameron, dove la metafora è ripresa più volte.
11
scientiae stilo quem accessimus respondet, Fabulas Graecanicam
incipimus, Lector intende: Laetaberis.21
Questo brano ci informa sull'argomento, sul genere e sul linguaggio in cui l'autore,
attraverso la voce del protagonista, intende cimentarsi: il racconto di racconti, la
fabula Milesia22 nella quale, con un linguaggio semplice e accostabile al sermo,
Lucio narra la propria metamorfosi e il ritorno all'identità originaria, narrando cioè i
fatti che si intrecciano sul destino di un giovane curioso e assetato di prodigi.
Attraverso il collegamento con il genere milesio, l'autore si riferisce a un genere che
rende l'opera un raggruppamento di novelle tenute insieme dalla presenza del
narratore:23 la sua presenza è fortissima, come si riscontra da quel ego iniziale e
dall'intermedia descrizione delle proprie origini, che finge di rispondere ad una
domanda del lettore e instaura così con quest'ultimo un rapporto assolutamente
particolare e cordiale, rimarcato dalla finale promessa di quel laetaberis.
Ego è il soggetto di tutti i verbi, anch'essi in prima persona (conseram,
permulceam, exordior, merui, excolui), sostituita poi dalla prima persona plurale, ad
indicare la solenne sovrapposizione-unione del narratore all'individuo, che si
interrompe brevemente con il riaffiorare dell'individuo con offendero, per poi
rimanere per tutto il proemio. La narrazione si svolgerà poi tutta in prima persona, ad
indicare che scrittore e protagonista saranno unificati inscindibilmente, fino al libro
XI, quando Lucio corinzio, narratore e protagonista della vicenda, diventa Lucio di
Madauro scrittore.
Come di consueto, l'autore si cimenta in una captatio benevolentiae nei confronti
del pubblico e determina lo scopo principale della sua opera: il diletto e il piacere
provocati dalla materia narrata attraverso il sussurro faceto. Ricorrono espressioni
riferite maggiormente all'atto del parlare piuttosto che a quello dello scrivere
21 Apuleio, Metamorfosi. L'Asino d'oro, a cura di Marina Cavalli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1989, p. 4.
22 Genere che ha inizio con Aristide di Mileto, del quale non possediamo alcun dato biografico, ma che possiamo collocare nel periodo a cavallo tra il II e il I secolo a.C., datando la sua opera tra il 126 e il 90 a. C. Pur non essendoci pervenuta l'opera originale, sappiamo che nella cultura romana essa ebbe una particolare fortuna, come d'altronde testimoniano le opere di Petronio, Apuleio e Ovidio.
23 In tutto vi sono venti novelle inserite, mentre sono centinaia quelle intrecciate, per cui spesso risulta faticoso scinderle dal racconto principale, motivate come sono soltanto dalla curiosità del protagonista, che anche essendo trasformato in asino si consola con il fatto di avere orecchie lunghe e quindi udito finissimo.
12
(sermone, sussurro, exordior, rudis locutor, vocis immutatio), a indicare una
narrazione quasi istantanea: una viva voce rivolta al vivo orecchio dell'ascoltatore.
Apuleio esprime al meglio, in questo senso, la connessione tra l'atto del narrare e
quello dell'ascoltare, nella quale il ruolo del pubblico risulta imprescindibile e la
relazione tra le due parti risulta vitale: l'una non può esistere senza l'altra.
Di certo questa viva presenza dell'autore colpì il Boccaccio, al punto da
avvalersene nel proemio generale del Decameron:
Umana cosa è aver compassione degli afflitti:24 e come che a ciascuna
persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già
hanno di conforto avuto mestiere hannol trovato in alcuni; fra' quali,
se mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono
uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovinezza infino a questo
tempo oltre modo essendo acceso stato d'altissimo e nobile amore,
forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe,
narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano
e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato,
nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per
crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente
concetto da poco regolato appetito.25
Le espressioni correlate alla prima persona singolare ricorrono in tutto il proemio,
fino ad arrivare alla definitiva dichiarazione programmatica posta nel finale:
Adunque, acciò che in parte per me s'amendi il peccato della fortuna,
la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne
veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di
quelle che amano, per ciò che all'altre è assai l'ago e '1 fuso e
l'arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o
istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta
brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della
passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne
cantate al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d'amore
24 L'espressione sembra riprendere una locuzione della Historia destructionis Troiae (VII) di Guido delle Colonne, pronunciate da Elena nei confronti di Paride appena dopo che questi ha compiuto il rapimento: «cum afflictis compati humanitas suggerat et diis placeant pietates humanes».
25 Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Amedeo Quondam, Maurizio Fiorilla e Giancarlo Alfano, Milano, Rizzoli, 2013, Proemio, 2-3, pp. 127-128.
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e altri fortunati avvenimenti26 si vederanno così ne' moderni tempi
avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste
leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle
mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno
cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare:
le quali cose senza passamento di noia non credo che possano
intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne
rendano grazie, il quale liberandomi da' suoi legami m'ha conceduto il
potere attendere a' lor piaceri.27
Anche qui la presenza autoriale è notevole e viene definito un inscindibile
rapporto autore-pubblico. L'autore, in quanto «titolare di autorità» e della «creazione
autoriale»,28 si pone così al centro del sistema comunicativo come protagonista
principale del proprio racconto, sebbene nel Decamerone la narrazione delle novelle
sia tutta affidata ai dieci giovani. Egli si presenta così come il protagonista assoluto
della cornice, che interviene di volta in volta personalmente tra una giornata e
un'altra, introducendo e concludendo, per mettere poi in scena i narratori, assoluti
padroni dello spazio durante le giornate.
La performatività di quell'intendo è dunque fondamentale e insormontabile, il
progetto annunciato attraverso di esso è preciso e selettivo: cento novelle, non una di
più (se si eccettua la novella di Filippo Balducci che il Boccaccio stesso riporta come
esempio nell'Introduzione alla quarta giornata, § 12-29) non una di meno, raccontate
da dieci giovani in dieci giornate. Come in Apuleio, il sistema verbale fa capo all'atto
locutorio più che all'atto dello scrivere, in quanto l'atto locutivo sarebbe il mezzo
senza il quale la cornice e le novelle non esisterebbero. Il narratore del Decameron
non si fonde, come invece accadeva in Apuleio, con uno dei personaggi: egli si crea
da sé il limite entro il quale intervenire in modo esplicito, ossia la cornice.
Solo nell'Introduzione alla prima giornata il narratore diventa scrittore «quasi di
necessità constretto a scriverle»,29 condotto da quell'orrido cominciamento mortifero
della peste fiorentina del 1348. Il ruolo di scrittore viene ribadito con ancora più
26 Proprio l'eros e la sorte sono, come vedremo, i temi chiave del parallelismo tra Apuleio e Boccaccio.
27 Dec., § 13-15, pp. 131-132.28 Amedeo Quondam, Introduzione, in Giovanni Boccaccio, Decameron, cit., p. 10. 29 Dec., I, Introduzione, § 7, p. 164.
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enfasi nell'introduzione alla quarta giornata, in cui l'autore rivendica se stesso come
scrittore del libro:
[le novelle] non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per
me e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto più
si possono.30
Lo scopo e il mezzo sono i medesimi che in Apuleio: il divertire attraverso il
racconto di novelle, inserite in una cornice nella quale esse sono raccontate da
giovani che a loro volta sono personaggi del racconto. Per Apuleio è l'idea del
blandire il benevolo orecchio dell'ascoltatore, di divertirlo e offrirgli sollievo (I, 2) e
conforto (IV, 27), come d'altronde ci dimostrerebbe la volontà della vecchia serva dei
briganti, che per consolare Carite, narra la fabella di Amore e Psiche. In fondo, anche
Carite sembra inserirsi bene tra la folla di «dilicate donne» davanti allo scranno del
compassionevole scrittore del Decamerone.
L'intenzione dell'autore-narratore si lega così strettamente alla cornice, di cui
Picone31 distingue tre categorie:
1. La cornice che ha lo scopo di rinviare una azione (come ad esempio si
verifica nelle Mille e una notte);
2. La cornice che unisce racconti esemplari per dimostrare una certa idea (è il
casi del Panchatantra);
3. La cornice che racchiude e accorda racconti tra loro per alleviare la noia di
un viaggio o intervallare le tappe (come avviene nei Canterbury Tales di
Chaucer).
Al secondo tipo potremmo associare la cornice delle singole giornate, dove i
narratori, dopo aver trovato il locus amoenus idoneo, iniziano a raccontare intorno al
tema che il Re o la Regina di turno ha imposto loro; al primo tipo, invece, potremmo
inserire la cornice storica da cui i protagonisti del Decameron fuggono, mentre al
terzo tipo la motivazione per cui loro stessi decidono di intavolare il gioco
dell'alternanza dei racconti, per evitare cioè la noia e per trascorrere il tempo in pace
e armonia.
Il Boccaccio salda, diversamente da Apuleio, le sue novelle in una cornice
30 Dec., Introduzione, IV, § 3, p. 686.31 Michelangelo, Picone, Tre tipi di cornice novellistica, cit., p. 11.
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intenzionale oltre che esemplare. Tra i due erano infatti intercorsi secoli
(specialmente in quelli più prossimi al Boccaccio) in cui la concezione della cornice
era profondamente mutata: da elemento implicito e mai emergente dalla narrazione,
esistente soltanto grazie al patto sigillato tra autore e lettore e mai dal primo di questi
due giustificata attraverso fatti reali o storici, a elemento separato dai racconti interni,
necessariamente giustificato. In Apuleio non troviamo infatti una contestualizzazione
esplicita della cornice, mentre nel Boccaccio essa è posta a guisa di recipiente ben
saldo e capace di reggere ogni evento in essa raccontato.
In ambedue i proemi è presente la menzione di un organismo unitario ad
accogliere tutto ciò che l'autore vi inserirà: nel caso delle Metamorfosi si tratta di un
papyrum, mentre in quello del Decameron si tratta di un libro32 che, come esprime il
cognome attribuitogli, si pone come intermediario tra l'autore e le dilicate donne
sofferenti in amore,33 come evinciamo dalla rubrica al Proemio:
Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe
Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da
sette donne e da tre giovani uomini.34
Il contenuto di entrambe le opere è assimilabile: le «alterne vicende» di uomini
(tipizzati ed esemplari, seppure dal Boccaccio maggiormente caratterizzati) che
vedono i loro destini mutati a causa della sorte. Lucio, punito per la propria curiosità
e funestato dalla sorte avversa, mutato in asino mantiene le facoltà mentali
dell'uomo; i protagonisti delle novelle del Decameron, allo stesso modo trasportati
dalla sorte, vedono i loro destini mutati. L'unico mezzo opponibile alla fortuna è
l'ingegno, grazie al quale i protagonisti e Lucio possono volgere in positivo i propri
destini, ritornando allo stato iniziale di tranquillità.
Spesso nel Decameron è il mondo borghese o piccolo borghese a stagliarsi sullo
sfondo, posto alla base delle fabulae, che non mancano di rilevarne ironicamente e
32 L'indicazione da parte del Boccaccio di un organismo così unitario e chiuso, diversamente ad esempio dalle raccolte di contes o novelle, rende l'opera distante dalla tradizione medievale precedente.Cfr. Achille Tartaro, La prosa narrativa antica, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. III, tomo II, Torino, Einaudi, 1984, p. 657 e sgg.
33 Così come intermediario d'amore tra Lancillotto e Ginevra era il personaggio al quale il nome fa riferimento.
34 Dec., Proemio, § 1, p. 127.
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con spirito satirico le ipocrisie e la lussuria, con tono lascivo e lepido. La ricorrenza
di temi, specialmente quelli della Fortuna e dell'Eros, è fortissima sia in Apuleio sia
in Boccaccio, vi torneremo più avanti.
Il realismo quotidiano e l'attinenza al verum è parte essenziale di entrambe le
opere, e si trova espresso su numerosi livelli: dal linguaggio dei personaggi, al gusto
del macabro, dal dettaglio di certe descrizioni di azioni, fino al linguaggio stesso
dello scrittore, che, umile o esotico, ben si adatta a narrare dei ceti umili, o comunque
delle bassezze di coloro che sono di ceto più elevato, o ancora di quella scienza
desultoria che è la magia. È in queste opere, più che in altre, che la realtà quotidiana,
modesta, a volte sporca di sudore e meschinità, feriale, viene legittimata in
letteratura, in un campo cioè in cui non si vuole presentare un discorso persuasivo,
nemmeno ove entri in gioco anche la predicazione: essa vi entra a pieno titolo in
quanto largamente ricca di exempla molto più utili alla rappresentazione dei valori
che il lettore deve apprendere, riconoscendosi in queste novelle e traendone diletto.
Il Boccaccio tende, almeno dal punto di vista esteriore, a mescolare tra loro più
generi, distinguibili attraverso gli schemi retorici ereditati dall'antichità classica in
base alla maggiore o minore attinenza al verum,35 ma raggruppati tutti, in questo
caso, sotto l'unica etichetta di «novelle»; queste sono inoltre racchiuse nella cornice
dell'epidemia pestifera del 1348, dato reale e puramente storico, che richiama dunque
ancora maggiormente il campo settoriale a cui l'autore si vuole attenere e in cui
proprio Apuleio ha fatto a lui da maestro, attraverso un tipo di letteratura che tende la
maggiore attinenza possibile al verum tramite la menzione continua del quotidiano
mai distante a livello di spazio e di tempo.
Il pubblico di Boccaccio risulta maggiormente ristretto rispetto a quello di cui
leggevamo nel proemio lucianeo: laddove l'autore si rivolgeva a un lettore ipotetico
non definito, ma interessato a posare il proprio sguardo sul papiro contenente il testo,
il Boccaccio si rivolge alle "vaghe donne", afflitte da un soverchio fuoco che esse,
contrariamente agli uomini, non possono sconfiggere e soggiogare attraverso i
passatempi e che troveranno perciò, nel Decameron un piacevole diletto e un utile
35 Intendendo rispettivamente l'istoria come il genere più attinente e la favola come quello più distante dalla realtà. Cfr Pier Massimo, Forni, Realtà/verità, in R. Bragantini, P. M. Forni (a cura di), Lessico critico decameroniano, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 300-319.
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consiglio. Il Certaldese vuole porre rimedio, attraverso la propria opera, al peccato
della fortuna e alle sue funeste conseguenze che esso ha sulle dilicate donne,
fissando dunque la propria iniziativa come scrittore in un quadro essenzialmente
morale.36
Il rapporto con il pubblico risulta fondato in ambedue le opere su un patto
stipulato a monte: il lettore deve essere intendente: in entrambi i casi esso è inventato
istantaneamente dal narratore, che deve essere ben parlante. Al tipo di lettore al
quale gli auctores si rivolgono vengono offerti attraverso la narrazione conforto e
diletto, inteso quest'ultimo come via di fuga dalla noia e, in Boccaccio, anche alla
morte. Ricorre in questo senso la nozione di parola salvifica, capace di restare
intrinsecamente e inscindibilmente legata a tutta la tela del Decameron, dall'«orrido
cominciamento» a molte delle novelle del Libro, che si sciolgono a favore di più o
meno innocenti protagonisti (si vedano a questo proposito le varie orationes presenti
nell'opera), fino ad arrivare a essere tema di una intera giornata, la sesta, «nella
quale, -appunto- sotto il reggimento d' Elissa, si ragiona di chi con alcun leggiadro
motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvenimento fuggì perdita o
pericolo o scorno».37
Presente in ambedue le opere è quindi il piacere della narrazione, come impulso
felice e positivo. In particolare nel Libro boccacciano è insito l'impulso felice della
memoria che vuole ricercare il verum, come dimostra, peraltro l'affermazione di
Fiammetta in apertura della quinta novella della nona giornata (quella cioè di
Calandrino e Bruno):
[...] ardirò oltre alle dette dirvene una novella: la quale, se io dalla
verità del fatto mi fossi scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e
saprei sotto altri nomi comporla e raccontarla; ma per ciò che il
partirsi dalla verità delle cose state nel novellare è gran diminuire di
diletto negl'intendenti, in propria forma, dalla ragion di sopra detta
36 Il Boccaccio si atterrebbe quindi ai medesimi programmi della dottrina erotica o antierotica presenti in Ovidio (Ars Amatoria) e Andrea Cappellano (De Amore) , ma ancora di più a quello di Orazio, come ci indurrebbe a pensare la ripresa del concetto di poesia come «diletto», che il poeta latino ricostruì nell'epistola intitolata De arte poetica (vv. 333-334), molto probabilmente nota al Boccaccio dagli anni di apprendistato.
37 Introduzione, IV, § 1, p. 975.
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aiutata, la vi dirò.38
Questo piacere del raccontare lo troviamo su tutti i livelli della narrazione di
entrambe le opere: Lucio, che non perde occasione per raccontare le vicende in cui si
imbatte o che ha sentito raccontare (soprattutto a causa della curiositas, che è parte
integrante della sua personalità), Apuleio, che ne narra l'esperienza diretta di vita in
modo obiettivo, Boccaccio, che pone i suoi personaggi all'interno della cornice e
pone nelle loro mani tutti gli strumenti atti al raccontare, li stimola a partire da
quell'«orrido cominciamento», e infine i dieci giovani stessi, che si allietano
vicendevolmente scampando alla noia e alla morte.
L'«onesta brigata» si pone da subito come cardine del realismo boccacciano, in
quanto tutti e dieci i giovani sono finemente ritratti e caratterizzati per tutto il corso
dell'opera, così come nel solco del realismo si pone anche la scelta di
contestualizzazione dell'opera come funzionale alla fuga e alla salvezza da una
pestilenza funesta che si è storicamente verificata,39 che conferisce all'opera la
struttura di una «sequenza ascensionale, catartica», come la chiama Cardini,40
dall'«orrido cominciamento» agli «altri piaceri» che attendono i giovani al loro
ritorno in Firenze. In questo senso possiamo ritrovare una congruenza con il percorso
di espiazione che compie Lucio (e Apuleio con lui), dalla curiositas per le arti
magiche come motore trainante delle prime vicende di Lucio alla verità redentrice
del culto isiaco che diventa preponderante nell'undicesimo libro, al punto che molti
studiosi sono arrivati ad assoggettare l'intera trama delle Metamorfosi secondo la
rivelazione finale.41
In entrambe le opere i narratori sono parecchi, non solo Lucio e non solo
Boccaccio, che pure si pongono a livelli differenti nella narrazione: l'uno nella
38 Dec., V, 5, § 5, p. 1415.39 Cfr. Franco Cardini, La "Grande Peste" tra realtà storica e finzione letteraria, in Allasia, Clara (a
cura di), Il Decameron nella letteratura europea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. 75-114.
40 Cfr. Id., Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Roma, Salerno Editrice, 2007, p. 113.
41 Merkelbach, sulla scia di Kerénji che aveva stabilito l'inscindibile conenssione tra il culto di Iside e il romanzo greco, ha perfino definito l'opera come «Libro isiaco», ossia un libro totalmente allegorico che narra le peripezie dell'anima verso il culto isiaco. Cfr. Reinhold Merkelbach, Introduzione, in Apuleio, Le metamorfosi, traduzione e note di Claudio Annaratone, Rizzoli, Milano, 1977, p. 17 sgg.
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cornice principale, ma non nella storia, l'altro pienamente nella storia principale,
protagonista assoluto delle vicende che lo vedono dapprima uomo un po' bonaccione
(l'esempio lampante è lo scherzo degli otri per la festa del Riso, in Met., II, 32 e III,
1-10), poi asino perseguitato dalle percosse degli uomini e della sorte che fa sì che
incappi in avverse vicende, e infine ancora uomo iniziato al culto di Iside. Le novelle
vere e proprie vengono narrate però dagli altri personaggi, che, al contrario dei dieci
protagonisti del Decameron, compaiono e scompaiono durante la narrazione, senza
mai permanervi troppo a lungo.
La cornice si pone quindi come elemento vitale, messa in secondo piano soltanto
quando il novelliere di turno prende parola per narrare una nuova fabula. Come
rilevò Laura Sanguineti White, «dal punto di vista dimensionale, la cornice e le
novelle apuleiane appaiono in rapporto inversamente proporzionale rispetto alla
cornice e alle novelle boccacciane».42 Le vicende di Lucio risultano nel complesso
preponderanti rispetto alle milesiae, pur essendo queste ultime fondamentali per
l'opera, come d'altronde tiene a rimarcare Apuleio in I, 1, dove pone sullo stesso
livello della narrazione le varias fabulas, ossia le novelle, e la fabulam graecanicam,
che svolge invece la storia del protagonista. Anzi, proprio le prime sono l'elemento di
innovazione apportato dall'autore, mentre la seconda egli l'ha desunta dalla
tradizione.
Il fatto che il Boccaccio ponga poi in primo piano il narratore performativo, ossia
l'«onesta brigata», indica la volontà di mettere al centro il saper raccontare, non
soltanto attraverso le regole della retorica, che pure sono presentissime all'interno
dell'opera e che il Boccaccio e i suoi narratori conoscono molto bene, ma anche e
soprattutto come fattore culturale che funge da collante tra le persone. Il saper
raccontare è ciò che infatti crea l'onesta brigata, pur essendo da essa creato, e si pone
come antidoto alla peste che infuria a Firenze, caricandosi inoltre di significato in
quanto fattore di distinzione sociale; ma è anche un tratto connotativo dei personaggi
del Decameron e dei loro numerosi atti locutivi: brevi o lunghi, diretti o indiretti,
pronunciati allo scopo di fare del bene o del male. La capacità di raccontare e il buon
parlare sono posti al centro non solo dello scopo dell'opera, ma anche fisicamente al
42 Laura, Sanguineti White, Apuleio e Boccaccio. Caratteri differenziali nella struttura narrativa del Decameron, Bologna, Pàtron, 1977, p. 30.
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centro del libro: essi risultano fondamentali nelle ultime novelle della quinta giornata
e soprattutto in quelle della sesta, a partire cioè dalla descrizione di Coppo
Domenichi in Dec., V, 9, esaltato con grande solennità da Dioneo come «ben
parlante», alla metanovella di madonna Oretta e alle novelle che seguono.
E proprio questa competenza narrativa è ciò che lega il Decameron alle
Metamorfosi apuleiane, la capacità affabulatoria di inserzione delle novelle
all'interno di una cornice principale, che il Certaldese, direttamente o indirettamente
(attraverso cioè i narratori della brigata) giustifica di volta in volta nelle Introduzioni
o negli incipit delle novelle, mentre il Madaurense, eccezion fatta per il prologo, in
cui egli dice di voler intrecciare varias fabulas, non le giustifica in corso d'opera, ma
le pone semplicemente l'una dopo l'altra, spesso introdotte dal puro gusto di
raccontarle. Non a caso le due milesie che il Boccaccio riprende esplicitamente sono
proprio quelle in cui nella prolusione introduttiva viene brevemente espresso il
piacere di Lucio (e di Apuleio) nel raccontarle.
Il racconto apuleiano risulta un insieme di racconti a scatola cinese, in cui di volta
in volta (ma non con la medesima frequenza) si ritorna alla cornice principale,
mentre il racconto boccacciano si può riassumere in una sorta di circolarità continua,
in cui dalla cornice si passa al racconto e viceversa, sempre con la medesima
modalità e frequenza. Schematicamente, in Decameron:
Questa rigida ripartizione, che rende le novelle unità a sé stanti, permette, come
nota Surdich, di evitare qualunque «tentazione centrifuga».43 Ciò che è racconto
rimane racconto, solo all'esterno di esso si ha l'intervento del narratore (o del
Boccaccio stesso), mentre nelle Metamorfosi questo passaggio risulta molto più
43 Luigi Surdich, Boccaccio, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 55.
21
Cornice (Introduzione)
Racconto
Cornice(Conclusione),(Introduzione).
RaccontoSchema fisso
ripetuto per ogni giornata
osmotico e meno cadenzato, sebbene esso sia comunque sempre segnalato da
apposite locuzioni tipiche dell'ars narrandi. Un esempio calzante è l'incastonamento
delle tre storie di adulterio in Met. IX, 14-15, 16-21, 22-29, raccontate
rispettivamente da Lucio, la serva e il mugnaio: la moglie del mugnaio tradisce
quest'ultimo con un amante pauroso, allora la vecchia serva, per consigliarla, le
racconta la storia di Barbaro, tradito dalla moglie Arete con l'audace Filesitero, che,
dopo averlo corrotto, salva infine il servo Mirmece dalla furia del padrone; la vecchia
fa poi in modo che un giovane amante possa soddisfare le voglie della padrona,
quand'ecco che il marito ritorna e, testimone anch'egli della lussuria della moglie del
lavandaio presso cui era ospite a cena, racconta per filo e per segno alla moglie
curiosa la storia di adulterio. La storia principale, quella cioè della moglie del
mugnaio, si scioglie per opera dello stesso Lucio-asino che, stritolando le dita
dell'amante nascosto, permette di scoprirlo, offrendo così al mugnaio la possibilità di
vendicarsi.
L'intero intreccio degli adulteri narrati da Lucio viene ripreso esplicitamente dal
Boccaccio, secondo Pastore Stocchi contaminato da una «commedia elegiaca» di 152
versi, anonima, del XII secolo,44 un testo latino-medievale praticamente dimenticato,
in cui ricorrono le medesime situazioni, asserzioni e finale, nella novella decima
della quinta giornata,45 narrata al solito da Dioneo, incentrata sul tradimento ai danni
di Pietro di Vinciolo. L'omosessualità di quest'ultimo risulta implicita nel finale del
primo paragrafo,46 ma è esplicitamente asserita nell'orazione della moglie (leggiamo
in § 10-11: «Io il presi per marito e diedigli grande e buona dota sappiendo che egli
era uomo [...] e se io non avessi creduto ch'e' fosse stato uomo, io non l'avrei mai
preso. Egli che sapeva che io era femina, perché per moglie mi prendeva se le
femmine contro l'animo gli erano?»), mentre rimangono sempre esplicite la lussuria
di lei (§ 7) e l'astuzia della vecchia serva. In entrambi i racconti si nota inoltre una
grande attenzione nell'aggettivazione caratterizzante delle donne (pie, sante, vittime),
44 Manlio Pastore Stocchi, Un antecedente latino-medievale di Pietro di Vinciolo, in «Studi sul Boccaccio», I, 1963, p. 354 sgg.
45 Il tema della quinta giornata sono gli amori a lieto fine, la regina è Fiammetta.46 Nella parola tristezza si rintraccerebbero secondo il Branca tracce del pervertimento sessuale che
ricorre in tutta la novella per esplodere nel finale. Vedere a questo proposito, Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 19963, p. 692.
22
in Boccaccio sottolineata anche e soprattutto nelle orazioni della moglie e della
vecchia.
I racconti vengono introdotti dai due narratori (Lucio e Dioneo) attraverso il
desiderio del divertire narrando una materia «in parte meno onesta» ma «che diletto
può porgere»,47 di raccontare cioè una fabula alle orecchie benevole del pubblico che
ascoltandola48 si divertirà.
I mariti sono tratteggiati da ambedue gli autori con brevi tocchi:
Pistor ille qui me pretio suum fecerat, bonus alioquin vir et apprime
modestus.49
Fu in Perugia [...] un ricco uomo chiamato Pietro di Vinciolo, il quale,
forse più per ingannare altrui e diminuire la generale oppinion di lui
avuta da tutti i perugini che per vaghezza che egli n'avesse, prese
moglie.50
Le mogli vengono introdotte invece con più dettagli, contestualizzandole in
situazione coniugale tutt'altro che rosea:
[...] pessimam et ante cunctas mulieres longe deterrimam sortius
coniugam, poenas ectremas tori larisque sustinebat, ut hercules eius
vicem ego quoque tacitus frequenter ingemescerem. Nec enim vel
unum vitium nequissimae illi femine deerat sed omnia prorsus ut in
quandam caenosam latrinam in eius animum flagitia confluxerant. [...]
et miserum maritum decipiens matutino mero et continuo stupro
corpus manciparat.51
La moglie la quale egli prese era una giovane compressa, di pel rosso
accesa, la quale due mariti più tosto che uno avrebbe voluti, là dove
ella s'avvenne a uno che molto più a altro che a lei l'animo aveva
disposto.
Il che ella in processo di tempo conoscendo, e veggendosi bella e
fresca e sentendosi gagliarda e poderosa, prima se ne cominciò forte a
turbare e a averne col marito disconce parole alcune volte e quasi
47 Dec., V, 10, § 4, p. 931.48 Come richiama anche Lucio attraverso l'espressione «ad aures vestras»; Met., IX, 14, p. 322.49 Ibidem.50 Dec., V, 10, § 6, p. 931.51 Met., IX, 14, p. 322.
23
continuo mala vita; [...] questo, suo consumamento più tosto che
ammendamento della cattività del marito potrebbe essere [...].52
Compare poi una vecchia astuta, che asseconda i desideri adulterini delle mogli e
le consiglia:
Sed anus quaedam stuprorum sequestra et adulterorum internuntia de
die cotidie inseparabilis aderat. Cum qua [...] scaenas fraudulentas in
observatos extremos adulteri digitos, qui per angustias cavi tegminis
prominebant, obliquata atque infesta ungula compressos usque ad
summam minutiem contero , donec intolerabili dolore commotus,
sublato flebili clamore repulso et abiecto alveo, conspectui profano
redditus scaenam propudiosae mulieris patefecit. Nec tamen pistor
damno pudicitiae magnopere commotus exsangui pallore trepidantem
puerum serena fronte et propitiata facie commulcens incipit: "Nihil
triste de me tibi, fili metuas. [...] Nec te letali fumo necabo, ac ne iuris
quidem severitate lege de adulteriis ad discrimen vocabo capitis tam
venustum pulchellum puellum, sed plane cum cum uxore mea
partiario tractabo.
[...]
Talis sermonis blanditie cavillatum deducebat ad torum nolentem
puerum, sequentem tamen. Et ppudicissima illa uxore alterorsus
disclusa, solus ipse cum puero cubans gratissima corruptarum
nuptiarum vindicata perfruebatur.62
Avvenne che, essendo la sera certi lavoratori di Pietro venuti con certe
cose dalla villa e avendo messi gli asini loro, senza dar loro bere, in
una stalletta la quale allato alla loggetta era, l'un degli asini, che
grandissima sete avea, tratto il capo del capestro era uscito della stalla
e ogni cosa andava fiutando se forse trovasse de''acqua; e così
andando s'avenne per mei la cesta sotto la quale era il giovinetto. Il
quale avendo, per ciò che carpone gli convenia stare, alquanto le dita
dell'una mano stese in terra fuori della cesta, tanta fu la sua ventura, o
61 Dec., V, 10, § 46, p. 938.62 Met., IX, 27-28, p. 336-338.
26
sciagura che vogliam dite, che questo asino ve gli pose sù piede,
laonde egli, grandissimo dolor sentendo, mise un grande strido.
[...] Il quale, essendo da Pietro riconosciuto, sì come colui a cui Pietro
per le sue cattività era andato lungamente dietro, essendo da lui
domandato: "Che fai tu qui?", niente gli rispose ma pregollo che per
l'amor di Dio non gli dovesse far male.
A cui Pietro disse: "Leva sù, non dubitare che io alcun male ti faccia:
ma dimmi come tu sè qui e perché".
Il giovinetto gli disse ogni cosa; il quale Pietro non men lieto di averlo
trovato che la sua donna dolente, presolo per mano con seco nel menò
nella camera nella quale la donna con la maggior paura del mondo
l'aspettava.63
Sia in Metamorfosi 23-24, sia in Decameron V, 10, 32-41, i mariti raccontano alle
mogli curiose delle storie di adulterio cui hanno assistito presso i propri amici ospiti,
entrambe scoperte a causa di alcuni starnuti sospetti; gli stessi mariti scopriranno poi
di essere a loro volta traditi per mezzo di un asino che, consapevolmente come Lucio
o meno, stritola le dita dell'amante nascosto, facendo sì che questo urli e venga
scoperto.
L'ambientazione delle novelle è differenziante, in quanto la versione boccacciana
è posta in Perugia, città che evocava già in epoca tardomedievale particolari abitudini
sessuali, omosessualità e sodomitismo soprattutto,64 e in un tempo non lontano,
immaginabile e conosciuto. I personaggi e l'ambiente di Apuleio sono figure tipo,
prive di una vera definizione e inserite in una situazione di schematica infelicità.
Il vizio adulterino della moglie apuleiana è uno tra i tanti, soddisfatto
continuamente, mentre nel personaggio boccacciano esso è naturale conseguenza del
suo corpo giovane e ricco di piccanti umori. In Apuleio la situazione coniugale è
ormai immutabile e stagnante, come testimonia l'uso dell'imperfetto sustinebat che
rende perfettamente lo stato di continuità, mentre in Boccaccio essa è colta nel suo
63 Dec., V, 10, § 48-53, p. 940.64 Come dimostrano i versi dei rimatori perugini dell'epoca, Marino Ceccoli, Neri Moscoli e Cecco
Nuccoli (la cui attività si colloca tra il 1320 e il 1350), grazie ai quali l'amore omosessuale e sodomitico, che prima era presente soltanto in alcune opere comiche, entra nel novero delle tematiche elevate vicine alla corrente stilnovistica. Le opere di questi rimatori ci sono state tramandate attraverso il cosiddetto «codice dei Perugini», ovvero il Barb. Lat. 4036, datato al massimo alla metà del Trecento.
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volgere in peggio attraverso locuzioni come in processo di tempo o l'uso dei tre
gerundi conoscendo, veggendosi e sentendosi, che rendono chiarissime la graduale
presa di coscienza e la brama della donna, attraverso un processo conoscitivo colto
dall'esterno all'interno (il disinteresse del marito, la consapevolezza della propria
giovinezza e infine la riflessione sulle proprie capacità sessuali che non vengono
sfogate) che ha un inizio con quel cominciò a, continua con il consumamento
preminente rispetto all'ammendamento del marito (resi attraverso l'allitterazione della
bilabiale nasale m, che sembra fornire l'idea del procedere lento e faticoso del
pensiero) e ha fine con il passato remoto disse che darà inizio all'azione.
Il marito apuleiano è presentato per mezzo delle parole di Lucio come un
pover'uomo costretto a subire le angherie e i tradimenti della moglie, egli è
totalmente innocente, mentre quello boccacciano è subito posto come colpevole che
compie volontariamente e abitualmente una azione innaturale (le coppie che
appaiono nel Decameron sono infatti tutte eterosessuali, mentre l'amore omosessuale
è definito come un «disonesto amor»65).
Il finale in Apuleio è, per usare le parole di Pastore Stocchi, «perfettamente in
accordo con l'etica e la prassi antica»,66 dal momento in cui il marito sfrutta la
possibilità di infliggere la punizione alternativa alla condanna a morte (la
fustigazione e l'abuso sessuale dell'amante), di modo che la sua omosessualità risulti
momentanea, innaturale e costretta dalla volontà di vendetta. Il sapore comico
preannunciato dal suavem iniziale è smorzato infine dal tono moralistico e
predicatorio insito sia nelle parole del mugnaio mentre punisce il ragazzo e di Lucio-
asino. In Boccaccio vi è invece un ritorno alla situazione armoniosa, con i personaggi
reintegrati e reimmersi nello sfondo sociale e comunale a cui appartengono, insieme
con tutti i loro vizi, le loro astuzie e le qualità con cui erano stati introdotti.
L'elemento comico è ciò che differenzia la versione boccacciana dall'originale: la
sorte, cioè, del ragazzo, di cui Dioneo premette in apertura la necessarietà della
compassione, poiché si dimostra inadeguato al proprio rango. In Apuleio il marito
non è innanzitutto omosessuale, la moglie tradisce quindi puramente per gusto nel
commettere adulterio e insoddisfazione nella vita coniugale in generale. Inoltre la
65 Dec., II, 3, § 30.66 Manlio, Pastore Stocchi, Un antecedente latino-medievale di Pietro di Vinciolo, cit., p. 351.
28
vicenda ha in Apuleio uno scioglimento molto tragico, rivelandosi la moglie una
assassina oltre che già una adultera, una vera e propria storia di cronaca nera che
intacca una vicenda erotica, mentre nel Boccaccio troviamo una storia meramente
comica ed erotica.
Ma la differenza più lampante tra le due novelle è sicuramente la presenza
dell'asino: se nel racconto latino vi è un Lucio arrabbiato, vendicativo e intelligente,
che di proposito agisce per smascherare la deterrimae feminae, il Boccaccio ha
dovuto sostituire questa figura con una qualunque creatura asinina, premurandosi di
giustificarne al meglio la presenza e rendendo la sua azione benefica come una
ventura o, al più, una sciagura. Nella prima versione non avvertiamo quindi quella
tensione, che nel Certaldese è evocata dalla minuziosa descrizione dei movimenti
dell'animale, che, essendo esso appunto un animale, il lettore non può prevedere.
Abbiamo perciò da una parte un asino con capacità di ragionamento umane che si
avvicina di proposito al punto dove l'amante è nascosto, dall'altra un asino che
avanza, lento ma inarrestabile, verso il giovane, immobile nella propria posizione
supina, terrorizzato.
L'elemento asinino non compare soltanto in questo punto dell'opera: si pensi, per
esempio, alla novella dei due amici senesi67 e degli adulteri incrociati e reciproci,
nella quale ricorre il proverbio «quale asino dà in parete tal riceve»,68 ricorrente per
ben tre volte nel Decameron (II, 9, § 6 e nel finale della stessa novella di Pietro di
Vinciolo), rendendoci così consapevoli del fatto che al Boccaccio non doveva essere
troppo lontano quell'asino furbo protagonista delle Metamorfosi.
Abbiamo evidenziato, almeno in parte, la fondamentale importanza dell'elemento
erotico in entrambe le opere. Le simiglianze concettuali tra Decameron e
Metamorfosi, però non si fermano qui: se partiamo infatti dalla tassonomia di
Sanguineti White, notiamo che la struttura apuleiana ha almeno tre temi in comune
con quella decameroniana.
1. Novelle sulla magia I, 5-20; II, 20-30
2. Avventure di briganti IV, 8,22
3. Amori a fine tragica VII, 1-15
67 L'ottava dell'ottava giornata, pp. 1298 sgg.68 Dec., VIII, 8, § 3, p. 1298.
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4. Amori a fine lieta IV, 28-VI, 24
5. Adulterio (e beffe) IX, 5-7, 14-31
6. Passione incestuosa X, 2-12
7. Violenza e assassinio X, 23-28; IX 35-38.69
Già Sanguineti White notava infatti la comunanza di temi (3. 4. 5.) con le giornate
del Decameron 4, 5 e 7, ci è sembrato opportuno aggiungere anche i temi 6. e 7. al
parallelismo, in quanto ricorrenti anche in Boccaccio, e specialmente in Dec. IV, 1 e
II, 7.
Della settima novella della seconda giornata parleremo approfonditamente nel
prossimo capitolo, per rimarcare una comunanza non solo tematica ma anche
strutturale con Apuleio.
La prima novella della quarta giornata, che ha per tema gli amori infelici, è narrata
da Fiammetta Vediamone brevemente la trama: Tancredi, principe di Salerno, non ha
ancora dato in moglie la figlia Ghismonda, che si innamora del giovane Guiscardo.
Tancredi, introdottosi di nascosto nella stanza della figlia e scoperto l'amore tra i due,
fa imprigionare e uccidere segretamente Guiscardo e ne offre il cuore alla figlia, che
lo mette in una coppa con acqua avvelenata che in seguito ella beve, suicidandosi.
Certamente la morbosità del principe nei confronti della figlia è assimilabile a una
passione incestuosa, che travolge gli eventi e li rende precipitosi: tutti e tre i
personaggi non vi trovano scampo, o muoiono o ne sono distrutti perdendo ciò che
hanno di più caro. Così come ci è presentato inizialmente, già dalla prima descrizione
solo in funzione della figlia e dell'amore paterno, in stretta dipendenza da essi, come
rimarcano i due se,70 («fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli
nell'amoroso sangue nella sua vecchiezza non avesse le mani buttate; il quale, in tutto
lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella
avuta non avesse»71), egli si rivela in seguito, di fronte all'impossibilità di sconfiggere
l'Amore che è evidentemente presente tra i due; se poi per «amoroso sangue»
dobbiamo solamente intendere quello di Ghismonda e di Guiscardo o anche,
metaforicamente, quello dello stesso Tancredi, il Boccaccio non lo dice chiaramente,
69 Sanguineti White, Apuleio e Boccaccio, cit., p, 34. 70 Cfr Guido, Almansi, L'estetica dell'osceno, Torino, Einaudi, 1974, pp. 161-182 e in particolare
162-166.71 Dec., IV 1, § 3, p 699.
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(Sono evidenziate in grassetto
le comunanze)
ma questa potrebbe essere una delle possibili interpretazioni.
Non troviamo però alcuna confessione esplicita da parte del padre alla figlia su
questa passione, tutto sembra porsi semplicemente sotto una luce di dignitas tradita
dalla figlia nei confronti del padre: sia perché quest'ultimo, non rispettando i suoi
doveri regali, non l'ha donata in moglie e non ha quindi assicurato la propria
successione, sia perché la fanciulla ha scelto da sé il proprio amante, sia ancora
perché quest'ultimo ha approfittato della bontà del principe. Queste sono le parole
che Tancredi, «quasi piagnendo» rivolge allo stesso stesso Guiscardo una volta
imprigionatolo:
Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l'oltraggio e la
vergogna la quale nelle mie cose fatta m'hai, sì come io oggi vidi con
gli occhi miei.72
Si rivolge invece in questo modo alla figlia:
Mai non mi sarebbe potuto cader nell'animo, quantunque mi fosse
stato detto, se io co' miei occhi non l'avessi veduto, che tu sopporti a
alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse..[...] di che io [...] sempre
sarò dolente di ciò ricordandomi. E or volesse Idio che, poi che a tanta
disonestà conducer ti dovevi, avessi preso uomo che alla tua nobiltà
decevole fosse stato.73
Ma più avanti, a tradire la vera natura del suo sentimento, ecco che Tancredi
pronuncia una frase quanto meno sospetta:
[...] mi trae l'amore il quale io t'ho sempre più portato che alcun padre
portasse a figliuola.74
Ecco che allora si svela ciò che di più profondo vi è nel sentimento del padre,
attraverso quel più e il paragone con l'amore paterno in genere. Giovanni Getto75
definisce in questi termini questa novella: «per la prima volta il Boccaccio si
impegna in una vera e propria storia d'amore», inteso come l'amore76 vero, quello
72 Ivi., IV, 1, § 22, p. 704.73 Ivi, § 26-27, p. 704-705.74 Ivi, § 29, p. 705.75 Giovanni, Getto, Vita e forme di vita nel Decameron, Torino, G. B. Petrini, 19662, p. 95 e sgg.76 Il termine ha ben 482 occorrenze, mentre il verbo amare 327, mentre non trovano alcuno spazio,
se non esiguamente nella aggettivazione e nelle forme avverbiali, le occorrenze di affetto, creandosi così una netta polarizzazione che vede contendersi l'Amore e la concupiscenza.
31
puramente sentimentale, mentre nelle prime tre giornate esso compariva come
pretesto per l'azione, o come spogliato totalmente della dimensione sentimentale e
meramente carnale. L'amore, in Dec. IV, 1 e generalmente in tutta la quarta giornata,
si svela sotto tutti i punti di vista, travolgendo l'uomo, la sua anima e il suo corpo, la
sua eticità e la sua fisicità, quasi una «febbre dei sensi»,77 esplicitazione del
«soverchio fuoco» che affligge, di cui il Boccaccio narra nel prologo generale. Ma
mentre la relazione di Ghismonda e Guiscardo contiene, almeno inizialmente,
elementi retoricamente comici, l'amore di Tancredi è inscritto da Picone nel filone
degli amori tragici, in quanto prova il suo «esclusivo attaccamento alla figlia in modo
non naturale».78
E proprio a una malattia è associata la passione incestuosa della matrigna per il
figliastro in Met., X, 2-3, non fosse per le parole di Lucio, che, al contrario di tutti, ha
compreso da subito quale fosse il vero malessere della donna:
Iam cetera salutis vultusque detrimenta et aegris et amantibus
examussim convenire nemo qui nesciat: pallor deformis, marcentes
oculi, lassa genua, quies turbida, et spiritus cruciatus tarditate
vehementior. Crederes et illam fluctuare tantum vaporibus febrium,
nisi quod et flebat. Heu medicorum ignarae mentes, quid venae
pulsus, quid coloris intemperantia, quid fatigatus anhelitus et
boni, quam facilis licet non artifici medico, cuivis tamen docto
Veneriae cupidinis comprehensio, cum videas aliquem sine corporis
calore flagrantem!79
E davvero dal racconto di Lucio la donna appare inferma, ricorrendo anche più
avanti espressioni quali «sconvolta dall'impazienza della furia d'amore», oppure
ancora «da tanto tempo ormai affaticata dal tormento del silenzio».
Né in Boccaccio né in Apuleio avviene l'incesto vero e proprio, il racconto rimane
soltanto sul piano della passione e sulle sue funeste e mortifere conseguenze: né la
matrigna giace con il figliastro, né il padre con la figlia, ma su entrambi i giovani
incomberanno la tragedia e la morte, per quanto per il ragazzo si risolva poi nel lieto
77 Ibidem, p. 99.78 Michelangelo Picone, Boccaccio e la codificazione della novella, cit., p 188.79 Met. X, 2, p. 362.
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fine (sarà lo schiavo aiutante della matrigna ad essere condannato a morte, mentre
quest'ultima verrà esiliata) e Ghismonda si dia invece volontariamente la morte.
L'amore ha comunque in entrambi i casi i toni della tragedia.
L'amore in tutte le sue forme si pone come elemento cardine sia della cornice
primaria sia di quella secondaria del Decameron e viene rappresentato innanzitutto
come sentimento «altissimo e nobile» (Proemio, § 2), nel solco della tradizione
cortese e stilnovistica, sebbene il Boccaccio ricerchi il distacco dalla tradizione,
soprattutto nella contestualizzazione del sentimento amoroso come qualcosa che
dev'essere necessariamente nascosto.
Ma l'amore ha due facce, l'eros e l'himeros, che spesso nulla hanno a che fare l'una
con l'altra, specialmente in letteratura, e in Apuleio e Boccaccio con puntuale
ricorrenza. E a trionfare è soprattutto l'himeros, il desiderio carnale smanioso di
essere soddisfatto in quanto realizzazione di un «amoroso disio», numerose volte
descritto con minuzia in entrambe le opere. Esso mantiene il proprio posto di
eccellenza come incondizionatamente e universalmente estendibile all'intero genere
umano, di qualunque dei due generi e soprattutto di qualsiasi estrazione sociale80 (a
differenza, ad esempio, della tesi-antitesi della Fiammetta, dove esso era attribuito ai
ricchi e non ai poveri); prende forma così come primaria forza assolutamente
istintiva, che connota e distingue, soprattutto, le pulsioni dei giovani, in tutto e per
tutto sottoposti alle «amorose leggi» (X, 8, § 17).
Vediamo a proposito la reazione alla vista di Fotide di Lucio, ancora umano, in
Met., II, 7:
Isto aspectu defixus obstupui et mirabundus steti; steterunt et membra
quae iacebant ante.81
Questo passo sembra riecheggiare in Dec., VIII, 7, § 67, dove viene descritta la
reazione dello scolaro alla vista della vedova:
E d'altra parte lo stimolo della carne l'assalì subitamente e fece tal in
piè levare che si giaceva.82
Di certo la fisicità dell'himeros non è assente nella decima novella della nona
80 Si veda a tal proposito la dichiarazione di Emilia in IV, 7, § 4.81 Met., II, 9, p. 46.82 Dec., VIII, 7, § 67, p. 1276.
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giornata, in cui don Gianni, volendo Pietro da Tresanti trasformare la moglie in
cavalla, tocca il petto di quest'ultima e «trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi quel
tale che non era chiamato e sù levandosi [...] preso il pivuolo col quale egli piantava
gli uomini e prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse: "E questa sia bella
coda di cavalla"».83
All'incantesimo Pietro reagisce con agitato sconcerto e interviene per fermare il
processo, proprio nel momento in cui «era già l'umido radicale per lo quale tutte le
piante si appiccano venuto».84 Non sembra qui essere distante l'eco degli incantesimi
apuleiani, sebbene questi ultimi siano molto più realistici contestualmente all'opera in
cui vengono raccontati: esso sembra inoltre richiamato antifrasticamente85 nella nona
novella dell'ottava giornata (§ 23-30), dove il medico Simone è alle prese con Bruno
e Buffalmacco, che raccontano dei sortilegi dell'allegra brigata seguace di Michele
Scotto per attirare tutte le disponibilissime donne del mondo.
Questo desiderio bramoso, come del resto anche l'eros, diventa spesso funesto per
il destino dell'uomo, che si trova di volta in volta in balia di avverse vicende: Lucio
viene trasformato in asino da Fotide per errore, Tlepolemo e Carite muoiono per
mano di Trasillo, reso pazzo dalla passione per lei e letteralmente accecato da essa, e
ancora Socrate, gli adulteri e molti altri, mentre nel Decamerone subiscono una sorte
analoga tutti gli amanti di Alatiel in primis, poi Tancredi che rimane solo, Frate
Alberto, i giovani della terza novella della quarta giornata e molti altri personaggi
della stessa giornata.
La tematica erotica non è però l'unica ripresa dal Boccaccio: moltissime gemme
del libro apuleiano fioriscono, quasi in modo distratto, nel corso di tutta l'opera. Ad
esempio l'episodio di Chichibìo,86 uno dei più famosi forse all'interno del
Decameron, sembra richiamare quello del cuoco che, avendo lasciato in balia di un
cane la coscia di un cervo da cucinare per la cena, decide di sostituirla con quella
dello stesso Lucio.87 In entrambi i casi i cuochi, avendo perduto per negligenza parte
della cena, trovano uno stratagemma per supplire alla propria disattenzione.
83 Dec., IX, 10, § 18, p. 1459.84 Ivi, § 20.85 Panfile tramutava infatti se stessa per poter scappare e congiungersi con i propri amanti.86 Dec., VI, 4, pp. 995-999.87 Met., 8, 31, pp. 303-304.
34
La novella portante della sesta giornata narra del brevissimo viaggio a cavallo di
Madonna Oretta, che viene invitata a montarvi da un cavaliere che tenta di dilettarla
e distrarla dalla noia e dalla fatica del viaggio tramite il racconto di una novella. Il
cavaliere si rivela un cattivo narratore, al punto che Panfilo (e il Boccaccio con lui)
non si premurano nemmeno di trascrivere ciò che racconta, seppure brevissimo.88 Da
un lato, come aveva già notato Fido,89 questo passo sembrerebbe una ripresa di Met.,
I, 20 e del momento in cui Lucio descrive la propria gratitudine ad Aristomene, che
con la sua «lepida iucunditas fabularum» è riuscito a levigare l’asprezza del terreno
su cui si marcia. La fabula viene derisa dal compagno di viaggio di Aristomene in
quanto inattendibile, dal momento che il narratore si pone allo stesso livello di quanti
con formule magiche tentano di sovvertire i principi della natura, ma Lucio ci
permette di capire quanto lui sia convinto, al contrario di questi, della verità espressa
nel racconto di magia di Aristomene (e non potrebbe essere diversamente, dal
momento che proprio la curiositas per il magico spinge Lucio a viaggiare). Ma
ancora maggiormente, come nota Usher,90 questa novella riprende il Proemio delle
Metamorfosi e in particolare il termine desultoria, che significava proprio «saltatori
di cavallo», come del resto spiegava Isidoro nelle Etimologie (XVIII, 39). La
metafora del cavalcare per indicare l'atto sessuale è inoltre diffusa a più riprese nel
Decameron.
Un altro episodio che sembrerebbe richiamare Apuleio è quello di Andreuccio da
Perugia, che «da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo
dell'arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe conosciuto
chi più si fosse morto, o l'arcivescovo o egli».91 L'episodio richiamato sembra quello
di Telifrone in Met., II, 25: «Nec mora cum me somnus profundus in imum
barathrum repente demergit, ut ne deus quidem Delphicus ipse facile discerneret
duobus nobis iacentibu, quis esset magis mortuus».92
88 Per le simiglianze con altre opere (il Novellino, Aethiopicon, Satyrycon ecc.), cfr Jonathan Usher, Desultorietà nella novella portante di Madonna Oretta, in «Studi sul Boccaccio», XXIX, 2001, pp. 67-103, che nota tra l'altro il fatto che questa novella segua strutturalmente quella di Pietro da Vinciolo.
89 Franco Fido, L'ars narrandi di Boccaccio nella sesta giornata, in Id., Il regime delle simmetrie imperfette, Milano, Franco Angeli, 1988, pp. 73-79.
90 Jonathan Usher, Desultorietà nella novella portante di Madonna Oretta, cit., pp. 71 e sgg.91 Dec., II, 5, § 79. pp. 373.92 Met., II, 25, pp. 66.
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Comune alle due opere è ancora il tema del sogno, che nel Decamerone è ripreso
cinque volte (IV, 5; IV, 6; V, 8; IX, 6; IX, 7), anche se in questo caso ci interessano
soltanto le seguenti tre: la prima, nella quinta novella della quarta giornata, dove
Lorenzo appare in un sogno rivelatore-profetico all'amata Lisabetta da Messina, la
seconda dalla novella sesta della medesima giornata, quando Gabriotto deride come
falso il sogno premonitore di Andriuola, la terza, infine nella sesta della nona
giornata, in cui Niccolosa tenta convince il marito di aver confuso sogno e realtà.
Nel primo caso il parallelismo si verifica con Met., VIII, 8:
Tunc inter moras illa misere trucidati Tlepolemi, sanie cruentam et
L'espressione ricorre in questi termini in Boccaccio:
Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non
tornava e essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo le
apparve94 nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e co' panni tutti
stracciati e fradici.95
La descrizione dei due amanti è molto simile in entrambi i brani, al punto che
alcuni (tra cui Balestrero96), pur notando le differenze, ne hanno analizzato
dettagliatamente i parallelismi: l'apparizione dei due uomini, non per come erano in
vita, ma tutti pallidi e tumefatti, nelle sembianze quasi irriconoscibili che il loro
corpo ha assunto nel trapasso (Carite ed Elisabetta li riconoscono infatti per le loro
parole). Simile è inoltre il risveglio delle fanciulle, che credono immediatamente al
sogno ma, pur essendo disperate, decidono di tenerlo segreto e agiscono
strategicamente di nascosto. Differenti sarebbero invece le motivazioni con le quali i
due uomini appaiono, Tlepolemo per consigliare Carite e metterla in guardia da
Trasillo, Lorenzo per riscattarsi agli occhi dell'amata; le due giovani sono entrambe
93 Met., VIII, 8, p. 275.94 Nella versione boccacciana non è presente il termine sogno come in Apuleio: viene presentata
infatti come una apparizione-visione, probabilmente mutuata da Agostino e Macrobio alla luce della speculazione filosofica e teologica sul sogno che Boccaccio doveva avere ben presente. Da Agostino l'autore mutua però solo l'opposizione tra visione (sogno vero) e sogno (sogno falso). Cfr. Monica Balestrero, L'immaginario del sogno nel Decameron, Roma, Aracne, 2009, pp. 27-28.
95 Dec., IV, 5, § 12, p. 750.96 Cfr. Monica Balestrero, L'immaginario del sogno nel Decameron, cit., p. 20-21.
36
in uno stato di disperazione nel momento in cui appare loro l'amato: Carite piange il
marito morto, per quanto creda lei brutalmente ucciso da un cinghiale durante una
battuta di caccia, Elisabetta piange l'improvvisa e prolungata assenza del proprio
amato.97
Nel secondo caso98 possiamo rintracciare un precedente in Met., 18, quando
Aristomene racconta a Socrate del sogno più che reale di averlo visto sbudellato dalle
streghe durante la notte e l'amico lo deride in questo modo:
Non immerito medici fidi cibo et crapula distentos saeva et gravia
somniare autumant. Mihi denique, quod poculis vesperi minus
temperavi, nox acerba diras et truces imagines obtuli, ut adhuc me
credam cruore humano aspersum atque impiatum.
Ad haec ille surridens: -At tu -inquit- non sanguine lotio perfusus
est!99
In Decameron, anche Gabriotto deride l'amata, che in questo caso ha avuto,
secondo la classificazione agostiniana, un vero e proprio somnium, ossia un sogno
non reale che deve però essere interpretato come premonitore.100 Il ragazzo usa
queste parole:
Gabriotto udendo questo se ne rise e disse che grande sciocchezza era
porre ne' sogni alcuna fede, per ciò che o per soperchio di cibo o per
mancamento di quello avvenieno, e esser tutti vani si vedeano ogni
giorno.101
Nella dichiarazione di Gabriotto possiamo trovare un riscontro di quanto la
vecchia custode della caverna dei briganti risponde a Carite quando questa si
risveglia disperata in seguito al sogno veritiero e post-monitore di aver perduto tutto.
Questa è la risposta della vecchia:
Bono animo esto, mi erilis, nec vanis somniorum figmentis terreare.
97 Pur essendo, come fa notare Picone, in condizioni psicologicamente differenti, la prima nella disperazione della perdita avvenuta, l'altra nell'incertezza che il suo amante l'abbia abbandonata di proposito. Cfr Picone , Boccaccio e la codificazione della novella, cit., p. 227 sgg.
98 Vio considera la novella di Andriuola e Gabriotto una sottile riscrittura di Apuleio, Met., I, 11-20.Cfr. Gianluigi, Vio, Chiose e riscritture apuleiane di Giovanni Boccaccio, in «Studi sul Boccaccio», XX, 1991-1992, pp. 139-165.
99 Met., I, 18, p. 25-27.100 Cfr. Balestrero, L'immaginario del sogno nel Decameron, cit., pp. 29-34.101 Dec., IV, 6, § 13, p. 756.
37
Nam praeter quod diurnae quietis imagines falsae perhibentur, tunc
etiam nocturnae visiones contrarios eventus nonnumquam
pronuntiant. Denique flere et vapulare et nonnumquam iugulari
lucrosum prosperumque proventum nuntiant, contra ridere et mellitis
dulciolis ventrem saginare vel in voluptatem veneriam convenire
tristitie animi languore corporis damnisque ceteris vexatum iri
praedicabunt.102
Vi è una simiglianza forte anche per quanto riguarda la trama: entrambi stanno
deridendo un sogno che si rivelerà in breve essere veritiero, e moriranno proprio di
fronte a coloro che hanno deriso.
Nel terzo caso infine, alla confusione tra sogno e realtà di Pinuccio, possiamo
associare il medesimo senso di disorientamento provato da Aristomene la mattina
dopo la terribile e realissima nottata in cui le streghe hanno straziato Socrate (e in
parte anche Aristomene medesimo), quando egli non riesce a distinguere se si sia
trattato di un incubo a causa del troppo aver bevuto e mangiato la sera precedente o
se sia stata realtà e si convince momentaneamente di aver sognato, anche in
conseguenza della derisione del moribondo Socrate. Oppure possiamo ancora
associarvi il senso di straniamento di Telifrone al suo risveglio nel sepolcro del
cadavere cui avrebbe dovuto fare da guardiano (Met., II, 26), quado anche lui si
convince di aver solamente immaginato l'entrata della donnola.
La dimensione onirica di sviluppa trasversalmente nel Decameron,
abbracciandone, sia geograficamente sia a livello di ceto sociale, l'intero universo,103
così come nelle Metamorfosi essa si fa carico della rivelazione finale per il
protagonista, dove la descrizione di Iside appare «più vicina all’esercitazione retorica
della descrizione di un’opera d’arte visiva che a una sfumata visione onirica».104
Ricorre nella novella di Andriuola e Gabriotto, il proverbio, sebbene esposto con
parole differenti: "chi la sera non cena tutta notte si dimena". E proprio questo
proverbio compare esplicitamente nella quarta novella della terza giornata, in cui
102 Met., IV, 27, p. 142.103 Come analizza Balestrero nell'Introduzione; cfr. Balestrero, Monica, L'immaginario del sogno
nel Decameron, cit., pp. 10-13.104 Alessandro Perutelli, Guido Paduano, Elena Rossi, Storia e testi della letteratura latina, Bologna,
Zanichelli online per la scuola, 2010, p. 16: link: http://online.scuola.zanichelli.it/perutelliletteratura/files/2010/09/testi-it_apuleio_t12.pdf.
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Don Felice insegna a Frate Puccio come scontare una penitenza e, una volta
assicuratosene la possibilità, giace con la moglie di questi che, ignaro e in buona
fede, sentendo una notte alcuni rumori, chiede alla moglie quale ne sia la causa. Ella,
che «motteggevole era molto», risponde in questo modo:
Come non sapete voi quello che questo vuol dire? Ora io ve l'ho udito
dire mille volte: "Chi la sera non cena tutta notte si dimena".105
La novella anticipa per certi versi quella di Peronella (VII, 2), che i critici
concordano essere una ripresa esplicita delle Metamorfosi, insieme alla decima della
quinta giornata.
La settima giornata è, tra tutte, quella in cui compare più esplicitamente la
tematica erotica, in essa infatti «si ragiona delle beffe, le quali o per amore o per
salvamento di loro le donne hanno già fatte a' suoi mariti, senza essersene avveduti o
sì». Il tema più compromettente e più imbarazzante viene affrontato dai narratori nel
luogo che più dovrebbe marcare la formalità cortese: la Valle delle Donne, esaltata
dal canto degli uccelli, ricca di bellezza e di un tepore quasi incantato. Il contrasto tra
questo luogo, simbolo della formalità cortese (ricercata anche nel riferimento alle
ottave del Teseida), e l'argomento compromettente che i narratori vi affrontano,
esplicita una indicazione formale dell'autore: è come se venisse mostrato il ventre
aperto di una società che esteriormente appare cortese, magica, letteraria, ma
all'interno è segretamente ricca di ipocrisia e sotterfugi, adulteri e beffe. Questa
tematica, che già riprendeva la tematica della sesta giornata (i "motti"), colpirà i
narratori e li diletterà al punto che essi la riprenderanno, seppure con qualche
differenza, nella giornata seguente.
La giornata risulta ancora più importante all'interno dell'opera perché contiene
ulteriori racconti nei racconti (raccontati dal Boccaccio della cornice): passando dal
piano del reale a quello del verisimile, poiché la beffa deve funzionare e quindi
essere credibile, infatti, viene ribadito il potere illusionistico del racconto. I
protagonisti sono costretti ad inscenare dei racconti nei racconti, e spesso riescono a
rendere credibili anche cose che per logica non possono esistere.
È questo il caso di Peronella, che fa credere al marito che l'amante sia un
105 Dec., III, 4, § 27, p. 566.
39
compratore entrato nel doglio per «vedere se saldo fosse».106
Nel triangolo amoroso boccacciano vediamo porsi ai vertici una «bella e vaga
giovinetta», un «povero uomo» e un amante «giovane de' leggiadri»,107 mentre nel
racconto di Lucio si contrappongono un moglie magra e malandata, ma lussuriosa,
un pover'uomo fabbro, consunto dalla miseria e uno spudorato amante.
La narrazione ha inizio in ambedue i casi con una breve descrizione della coppia e
l'ambientazione boccacciana che si pone a differenziare le due fabulae:
Is gracili pauperie laborans fabriles operas praebendo parvis illis
mercedibus vitam tenebat. Erat ei tamen uxorcula etiam etiam satis
quidem tenuis et ipsa, verum tamen postrema lascivia famigerabilis.108
[...] in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga
giovinetta chiamata Peronella, e esso con l'arte sua, che era muratore,
e ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano
come potevano il meglio.109
Vengono poi introdotti gli amanti, incontrati quasi per caso e introdotti a casa
della moglie adultera segretamente all'uscire del marito, che inaspettatamente ritorna:
Sed die quadam, dum matutino ille ad opus susceptum proficiscitur,
statim latenter irrepit eius hospitium temerarius adulter. Ac dum
Veneris colluctationibus securius operantur, maritus, ignarus rerum ac
nihil etiam tum tale suspicans, improvisus hospitium repetit.110
Ma pur trall'altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo
fuori uscito e Giannelllo Scrignario, ché così aveva nome il giovane,
entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in
tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò.111
Ecco poi la reazione compiaciuta dei mariti, che si allietano della prudenza delle
mogli nel serrare l'uscio di casa e denunciano il proprio arrivo con modalità diverse:
Iamque clausis et obseratis foribus, uxoris laudata continentia ianuam
106 Dec., VII, 2, § 21, p. 1087. La novella è narrata da Filostrato, mentre il re della giornata è Dioneo.
107 L'espressione fa riferimento al ceto sociale del giovane, indicando infatti l'eleganza in quanto caratterizzante della sua condizione.
108 Met., IX, 5, p. 310.109 Dec., VII, 2, § 7, p. 1084.110 Met., IX, 5, p. 310.111 Dec., VII, 2, § 10, p. 1084-1085.
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pulsat, sibilo etiam presentiam suam denuntiante.112
E trovato l'uscio serrato dentro, picchiò e dopo 'l picchiare cominciò
seco a dire.113 "O Iddio, lodato sia tu sempre, ché, benché tu m'abbi
fatto povero, almeno m'hai tu consolato di buona e d'onesta giovane di
moglie! Vedi come ella tosto serrò l'uscio dentro come io ci usci',
acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse".114
Ha qui inizio la vicenda, con le reazioni delle mogli astute e pronte che, l'una
senza alcun tentennamento, l'altra in uno stato d'animo di panico, accolgono il marito
e procurano il medesimo nascondiglio agli amanti:
Tunc mulier callida et ad huiusmodi flagitia perastutula tenacissimum
amplexibus expeditum hominem dolio, quod erat in angulo
semiobrutum, sed alias vacuum, dissimulanter abscondit, et patefactis
aedibus adhuc introeuntem maritum aspero sermone accipit: "Sicine
vacuus et otiosus insinuatis manibus ambulabis mihi, nec obito
consueto labore vitae nostrae prospicies et aliquid cibatui parabis? At
ego misera pernox et perdia lanificio nervos meos contorqueo, ut intra
cellulam nostram saltem lucerna luceat. Quanto me felicior Daphe
vicina, quae mero et prandio matutino sucia cum suis adulteris
volutatur!115
Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe,
disse: "Oimé! Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che
tristo il faccia Iddio, che ci tornò: e non so che questo si voglia dire,
ché egli non ci tronò mai più a questa otta: forse che ti vide egli
quando tu c'entrasti!! Ma per l'amore di Dio, come che il fatto sia,
entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò a aprire, e
veggiamo quello che questo vuol dire di tornare così tosto a casa".
Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all'uscio
aprì al marito e con un mal viso disse: "Ora che questa novella è, che
tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu
112 Met., IX, 5, p. 310-312.113 Notevole è come il Boccaccio inserisca qui un discorso diretto, a sostituire l'ablativo assoluto
laudata continentia in Apuleio, ad indicare una azione non solo narrata ma anche agita. I personaggi boccacciani parlano infatti per una necessità interna, motivati e dotati di una forte psicologizzazione, peculiarmente autoriale: ogni loro battuta riproduce infatti la loro condizione psicologica.
114 Dec, VII, 2, § 10-11, p. 1085.115 Met., IX, 5, p. 312.
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non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co' ferri tuoi in
mano: e se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane?
Credi tu che io sofferi che tu m'impegni la gonnelluccia e gli altri miei
pannicelli,116 che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la
carne mi s'è spiccata dall'unghia, per potere almeno aver tanto olio,
che n'arda la nostra lucerna? Marito, marito, egli non ci ha vicina che
non se ne maravigli e che non facci beffe di me, di tanta fatica quanta
è quella che io duro: e tu mi torni a casa colle mani spenzolate quando
tu dovresti essere a lavorare".117
Come si può notare, la struttura dei dialoghi è esattamente la stessa, così come le
argomentazioni delle donne. Anche le risposte dei mariti, che giustificano il loro
ritorno imprevisto, con la coloritura di Boccaccio posta nella festa di ambientazione
tutta napoletana di San Galeone, e portano la notizia della vendita del doglio, sono
molto simili, seppure la reazione del marito si ponga a livello molto più soggettivo e
affettuoso, attraverso l'apostrofe consolatoria alla moglie:
Sic confutatus maritus: "Et quid istic est?" ait. "Nam licet forensi
negotio officinator noster attentus ferias nobis fecerit, tamen hodiernae
cenulae nostrae prospexi. Vide sis ut dolium, quod semper vacuum,
frustra locum detinet tantum et re vera praeter impedimentum
conversationis nostrae nihil praestat amplius. Istud ego sex denariis
cuidam venditavi, et cingeris mihique manum tantisper accomodans,
ut exobrutum protinus tradatur emptori?118
Deh! donna, non ti dar malinconia, per Dio! Egli è vero che io andai
per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol
sapeva. Egli è oggi la festa di santo Galeone e non si lavora, e perciò
mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e
trovato modo che noi avremo del pane per più d'un mese, che io ho
venduto a costui, che tu vedi qui con meco, il doglio,119 il qual tu sai
che già è cotanto ha tenuta la casa impaggiata; e dammene cinque
116 Il Boccaccio riprende il diminutivo apuleiano cellulam nostram, ad aumentare il tono patetico del discorso della ragazza, che ella articola sapientemente su tre livelli graduati: tu, noi, io, ai quali poi viene aggiunto un quarto, «gli altri», i vicini che amplificano così il dialogo a tu per tu.
117 Dec., VII, 2, § 12-15, pp. 1085-1087.118 Met., IX, 6, p. 312.119 Come si può notare, il termine più importante, il doglio è posto in posizione di rilievo, vendendosi
così a costituire un iperbato che aumenta il senso di sospensione e acuisce l'elemento sorpresa.
42
gigliati.120
Alla risposta pronta delle mogli, i mariti si rallegrano della vendita avvenuta a
prezzo maggiorato, e accettano insospettosi il fatto che un uomo si sia calato nel
doglio:
E re rata fallaciosa mulier, temerarius tollens cachinnum: "Magnum"
inquit "istum virum ac strenuum negotiatorem nacta sum, qui rem,
quam ego mulier et intra hospitium contenta iam dudum septem
lucernam" ait "actutum mihi expedis, ut erasis intrinsecus sordibus
diligenter aptumne usui possim dinoscere, nisi putas aes de malo
120 Dec., VII, 2, § 19-20, p. 1087.121 Met., IX, 6, p. 312.122 Dec., VII, 2, § 21-22, p. 1087.
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habere?". Nec quicquam moratus ac suspicatus acer et egregius ille
maritus, accensa lucerna: "Discede," inquit "frater, et otiosus assiste,
donec probe percuratum istud tibi repraesentem". Et cum dicto
nudatus ipse delato lumine scabiem vetustam cariosae testae occipit
exsculpere. At vero adulter, bellissimus ille pusio, inclinatam dolio
pronam uxorem fabri superincurvatus secure dedolabat. Ast illa capite
in dolium demisso maritum et rursus aliud purgandum demonstrat
digito suo, [...].123
Disse allora Giannello: "Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare
che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impastricciato di
non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l'unghie, e
però io nol terrei se nol vedessi prima netto".
Disse allora Peronella: "No, per quello non rimarrà il mercato, mio
marito il netterà tutto".
E il marito disse: "Sì bene" [...]. E Peronella [...] cominciò a dire:
"Radi quivi e quivi e anche colà" e "Vedine qui rimaso un micolino".
E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello,
il quale non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito [...] a lei
accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella
guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d'amor caldi le cavalle
di Partia assaliscono, a effetto recò il giovinil desiderio.124
Abbiamo infine la conclusione della vendita, con il doglio recapitato direttamente
a casa dell'amante:
[...] donec utroque opere perfecto, acceptis semptem denariis
calamitosus faber collo suo gerens dolium coactus est ad hospitium
adulteri perferre.125
Per che Peronella disse a Giannello: "Te' questo lume, buono uomo, e
guata se egli è netto a tuo modo".
Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene e che egli era
contento; e datigli sette gigliati a casa sel fece portare.126
123 Met., IX, 7, p. 312-313. 124 Dec., VII, 2, § 29-34, p. 1088-1089.125 Met., IX, 7, p. 314.126 Nella versione decameroniana non è specificato che sia il marito, a portare il doglio a casa
dell'amante, cosicché egli non risulti infine inepte come il personaggio apuleiano e l'astuzia di Peronella ne risulti infine più accentuata, come del resto dimostra l'atteggiamento restio di
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Mentre l'ambientazione della fabula apuleiana non risulta significativa a livello
della narrazione, essendo presentata essa come priva di legami con il mondo esterno,
quella boccacciana influisce molto, da momento che essa va a costruire un mondo
urbano animato di uomini semplici e laboriosi, di donne allegre e di giovani de'
leggiadri che le corteggiano, con l'aggiunta temporale della festa di San Galeone che
contribuisce a creare quell'atmosfera tranquilla di cui la trama è intessuta.
I due personaggi della coppia sono in Boccaccio maggiormente individualizzati,
con un marito che, sebbene povero uomo, esercita un'arte sua, quella del muratore,
che evoca un ambiente di corporazioni nella società comunale, e la moglie bella e
vaga che però riuscirà nel finale a prevalere su entrambi gli uomini, al contrario della
uxorcula apuleiana che rimarrà chiusa in una stanza e cacciata dalla abitazione
coniugale.
Mentre la mulier apuleiana è caratterizzata sempre ancora prima che ne vengano
descritte le azioni e rimane comunque un tipo che l'autore deve necessariamente
etichettare, oltre che un personaggio tutto sommato passivo, Peronella è descritta
inizialmente dall'esterno (par. 7), ma in seguito il suo personaggio si sviluppa
dall'interno e prende carattere attraverso le proprie azioni (da bella e vaga giovanetta
a buona donna), rimanendo in ogni caso attiva sia nell'inventare lo stratagemma del
doglio, sia nel gestire il piccolo mercato tra i due uomini, sia nell'approfittare della
situazione quando il marito si cala nel doglio, mentre nell'intreccio apuleiano è
l'amante a prendere l'iniziativa.
La coppia boccacciana è inoltre sì povera, ma non di gracili pauperie, e tra loro vi
è un equilibrio enfatizzato dal doppio parallelismo bella e vaga, ed esso dell'arte
sua...ed ella filando, l'adulterio non sarà conseguenza di una infelicità coniugale o di
una irrefrenabile lussuria, ma il risultato di un innamoramento vero e proprio. Nella
versione latina invece, già dal tono iniziale percepiamo dei segnali sulla conclusione
della vicenda, nella caratterizzazione della uxorcula conosciuta per la sua postrema
lascivia, contrapposta alla giovane bella e vaga che si guadagna la vita tessendo,
nella quale non riscontriamo inizialmente la volontà di tradire il marito; il Boccaccio
Giannello al momento di pagare, reso ancora più chiaro dal rallentamento creato dall'allitterazione della dentale t e la presenza doppia del digramma liquido-palatale gl nella locuzione «datigli sette gigliati».
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non ci priva cioè dell'elemento sorpresa, non presentandoci una coppia senza amore,
e lo ribadisce poi in quel riconoscere il marito dal modo di bussare che sconvolge
Peronella.
Anche l'amante boccacciano è maggiormente caratterizzato, così come l'episodio
di conoscenza tra lui e Peronella, che avviene anch'esso die quadam, ma la cui
conseguenza è un innamoramento graduale, del quale ogni episodio viene descritto
nel suo divenire. Così come la moglie postrema lascivia famigerabilis e il marito
laborans, anche il temerarius adulter altro non è che una maschera, mentre
nell'intreccio boccacciano egli ha un ruolo attivo e peculiare, ancora più del marito,
che invece non viene nemmeno nominato; l'amante si presenta in tutto il Decameron
e anche nelle Metamorfosi non come una figura che sovverte l'ordine delle «cose del
mondo», ma come una maschera/personaggio che fa parte di esse e che al loro
interno prende ruolo proprio in quanto adulter.
Questo, come lo definì Sklovskij, è un «caso raro del trasferimento di un aneddoto
invariabile», invariabile «perché è straordinario e racchiude un elemento di insolenza
erotica».127 Elemento comune diventa allora il sottile realismo presente in Apuleio e
Boccaccio, ricorrente nella trama e nella definizione stessa del termine «novella»:
come scrisse Goethe, essa è portatrice di «fatti nuovi», di un evento che pone al di
fuori del normale scorrere della quotidianità e che diventa tipico proprio quando essa
lo racconta.
127 Victor Sklovskij, Lettura del Decameron, Bologna, Il Mulino, 1969.
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II: Le Metamorfosi e due novelle del Decameron
II. 1: La Fortuna come elemento strutturale
Il Decameron racconta il «mondo presente»,128 il mondo cioè fatto di donne e
uomini le cui vite sono amministrate da Natura e Fortuna, che possono essere a tutti
gli effetti considerate come delle burattinaie crudeli, alle quali i tapini umani possono
opporsi soltanto per mezzo del proprio ingegno. Esse distribuiscono insieme tutto ciò
che all'essere umano è dato dalla nascita (doti fisiche, intellettuali e morali), tutto
quanto insomma è insito nell'indole. La Natura governa sulla relazione tra animo e
corpo, mentre la Fortuna è padrona del rapporto che intercorre tra l'indole e lo status
sociale. Quasi sempre esse sono poste in contrapposizione, attraverso il dualismo su
cui il Boccaccio ritorna più volte tra l'indole buona e la crudeltà della sorte e l'indole
cattiva e la benignità della sorte. Ne è un esempio la riflessione posta in apertura
della seconda novella della sesta giornata, nella quale Pampinea, per introdurre la
storia di Cisti il fornaio, che «d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio», così
pensa:
E certo io maldicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non
conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi,
come che gli sciocchi lei cieca figurino. [...] E così le due ministre del
mondo spesso le lor cose più care nascondono sotto l'ombra dell'arti
reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più chiaro
appaia il loro splendore.129
La Fortuna ha sicuramente all'interno della narrazione un maggiore impatto sulle
«alterne vicende» dell'uomo: mentre Natura ricorre 39 volte nel corso di tutta l'opera,
Fortuna vi ha ben 115 occorrenze, la prima delle quali nella locuzione «il peccato
della Fortuna», che ricorre poi 6 volte nell'opera. La fortuna non è solamente il
cardine su cui ruotano le novelle di una intera giornata, la seconda, ma, insieme con
l'Amore, il tema principale dell'opera intera. Il peccato della Fortuna è prima di tutto
un peccato nei confronti delle donne, afflitte dalle pene amorose (Proemio, § 13),
secondariamente esso è stato commesso con l'arrivo della peste, e poi ancora riguarda
128 Dec., I, 8, § 10, p. 262.129 Dec., VI, 2, § 4 e 6, pp. 985-986.
47
individualmente ogni personaggio del Decameron.
Anche nelle Metamorfosi apuleiane la sorte gioca un ruolo fondamentale, in
quanto essa influisce in buona parte sui «destini umani» allontanandoli dalla loro
natura e gettandoli nel mezzo di vicende dalle quali essi escono spesso funestati,
tramutati o ne muoiono. La prima ricorrenza di Fortuna la troviamo in I, 6, nel
momento in cui Aristomene incontra Socrate che, seduto per terra e mezzo svestito,
sembrava uno di quelli che «solent Fortunae decermina stipes in triviis erogare»,130
uno dei molti perseguitati dai «fortunarum lubricas ambages et instabiles incursiones
et reciprocas vicissitudines»,131 che sembra godersi di questa sua vittoria.132
La Fortuna non interviene poi quando Aristomene, dopo aver visto il sortilegio
delle streghe vendicative su Socrate, non potendo fuggire, vuole darsi la morte, ma
«cum nullum aliud telum mortiferum Fortuna quam solum mihi grabatulum
sumministraret», egli tenta di utilizzare la corda che funge da rete del letto, che infine
cede.
La Fortuna viene inoltre invocata da Venere furente di rabbia per gli onori tributati
alla fanciulla mortale Psiche. Ella, rivolgendosi al figlio Amore, così parla:
Idque unum et pro omnibus unicum volens effice: virgo ista amore
flagrantissimo teneatur hominis extremi, quem et dignitatis et
patrimonii simul et incolumitatis ipsius Fortuna damnavit, tamque
infimi, ut per totum orbem non inveniat miseriae suae comparem.133
E le sorelle invidiose della ragazza deprecano la Fortuna per aver voluto per loro
sorti diverse da quelle che invece ha riservato per la sorella minore:
En orba et saevia et iniqua Fortuna! Hocine tibi complacuit, ut utroque
Anche Carite, durante il tenativo di fuga dalla caverna dei briganti, depreca la
Fortuna in questi termini:
[...] et tu, Fortuna durior, iam saevire desiste. Sat tibi miseris istis
130 Met., I, 6, p. 10.131 Ibidem.132 Le parole che Socrate rivolge ad Aristomene sono infatti queste: «fruatur diutius tropaeo Fortuna
quod fixit ipsa».133 Met., IV, 31, p. 146.134 Met., V, 9, p. 162.
48
cruciatibus meis litatum est.135
Le avventure dello stesso Lucio sono giostrate dalla Fortuna, e spesso egli,
soprattutto da asino, ricorre ad essa per lamentarsi del proprio destino, in particolare
in Met., VII, 2, dove, dopo aver sentito il ladrone raccontare dei sospetti e della
condanna ricaduta su Lucio per la rapina in casa di Milone, le imputa di averlo
ridotto alla più vile delle bestie per mezzo dei suoi assalti. Lucio-asino, che
meriterebbe come egli stesso dice la compassione del peggiore degli uomini, si
ritrova condannato senza potersi difendere per una rapina accostabile al parricidio
per il fatto di essere stata compiuta ai danni di un ospite. Egli riflette in questo modo:
[...] subibatque me non de nihilo veteris priscaeque doctrinae viros
finisse ac pronuntiasse caecam et prorsus exoculatam esse Fortunam,
quae semper suas opes ad malos et indignos conferat, nec umquam
iudicio quemquam mortalium eligat, immo vero cum is potissimum
deversetur quos procul, si videret, fugere deberet; quodque cunctis est
extremius, varias opiniones, immo contrarias nobis attribuat, ut et
malus boni viri fama glorietur et innocentissimus contra noxio rumore
plectatur.136
Sembra qui ricorrere la riflessione di Pampinea in Dec., VI, 2: l'immagine della
Fortuna cieca è però ribaltata in Boccaccio: nel Decameron la Fortuna agisce
consapevolmente nei confronti degli uomini, venendo a sostituire il «concetto
cristiano di Provvidenza».137 Pampinea sviluppa infatti l'argomentazione sul peccato
di Natura e peccato della Fortuna, creando l'omologia strutturale con l'atteggiamento
tipicamente umano di nascondere le cose più care, siano esse preziose a livello
affettivo o per valore, a causa dell'incertezza del futuro, volendo poi mostrarle
quando più ve ne sia necessità (è questo, nello specifico, il caso della novella di Cisti
il fornaio, al quale la Natura diede un animo astuto e intelligente e la Fortuna, in
opposizione, un mestiere umile e faticoso).
In Apuleio le ricorrenze di Fortuna sono per lo più riferite all'azione negativa che
essa ha sulle vicende dei personaggi (e in particolare sulla sorte di Lucio), mentre in
Boccaccio, sebbene sia preponderante l'effetto negativo, è presente anche quello
135 Met., VI, 28, p. 222.136 Met., VII, 2, p. 232.137 Monica Balestrero, cit., p. 13.
49
positivo, ad indicarne la totale casualità. Nelle Metamorfosi sono infatti frequenti
espressioni quali «Sed agilis atque praeclarus ille conatus Fortunae meae scaevitatem
anteire non potuit»,138 oppure «talibus aerumnis edomitum novis Fortuna saeva
tradidit cruciatibus»,139 o ancora «verum Fortuna meis cruciatibus insatiabilis aliam
mihi denuo pestem instruxit».140
La Fortuna appare negli ultimi episodi del poema apuleiano, dapprima
nell'invocazione che Lucio rivolge alla divinità in Met., XI, 2,141 in seguito nel
momento della salvifica metamorfosi di Met., XI, 12142 e infine nel dialogo tra Lucio
e il sacerdote in Met., XI, 15, dove quest'ultimo si rivolge al protagonista con queste
parole:
Multis et variis exanclatis laboribus magnisque Fortunae
tempestatibus et maximis actus procellis, ad portum Quietis et aram
Misericordiae tandem, Luci, venisti. [...] Sed utcumque Fortunae
caecitas, dum te pessimis periculis discruciat, ad religiosam istam
beatitudinem improvida produxit malitia. Eat nunc et summo furore
saeviat et crudelitati suae materiem quaerat aliam; nam in eos quorum
sibi vitas in servitium deae nostrae maiestas vindicavit non habet
locum casus infestus. Quid latrones, quid ferae, quid servitium, quid
asperrimorum itinerum ambages reciprocaem quid metus mortis
cotidianae nefariae Fortunae profuit? In tutelam iam receptus es
Fortunae, sed videntis, quae suae lucis splendore ceteros etiam deos
illuminat. [...] En ecce pristinis aerumnis absolutus Isidis magnae
providentia gaudens Lucius de sua Fortuna triumphat.143
La Fortuna nel poema apuleiano si può associare con facilità al Poseidone
odissiaco, che perseguita Ulisse senza permettergli di raggiungere la sua Itaca, e
infatti le Metamorfosi possono essere lette come una Odissea parallela, composta,
anziché di creature mitologiche e soprannaturali, di destini umani in balia di un caso
incontrollabile e spesso dannoso.
138 Met., IV, 2, p. 112.139 Met., VII, 16, p. 248.140 Met., VII, 17, p. 250.141 «Tu meis iam nunc extremis aerumnis subsiste, tu fortunam collapsam affirma, tu saevis
exanclatis casibus pausam pacemque tribue», p. 410-411.142 «Quod tot ac tantis exanclatis laboribus, tot emensis periculis, deae maximae providentiae
alluctantem mihi saevissime Fortunam superarem», p. 422-423.143 Met., XI, 15, p. 426.
50
Vediamo, nelle Metamorfosi come nel Decameron, una evoluzione positiva del
concetto di Fortuna, sopraffatta nel primo caso dalla fede divina, nell'altro,
parallelamente, dalla speranza e dalla felice industria dell'uomo.
II. 2: Decameron II, 9
Sia in Boccaccio, sia in Apuleio, la Fortuna è percepita come una entità esterna,
che agisce in maniera totalmente casuale mutando il destino degli uomini
positivamente o negativamente, e che ha il potere di rovesciare le situazioni, di
condurre l'uomo alla più totale disperazione senza che questi ne abbia colpa e
ponendolo in una condizione di continua precarietà e aleatorietà.
L'unico rimedio con cui l'uomo può opporsi alla Fortuna, se non sempre per
condurre la propria vicenda al lieto fine, almeno per limitarne i danni, sono le proprie
virtù: ingegno e ragione. Proprio questo è infatti il tema della seconda giornata,
«nella quale, sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose
infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine»,144 espressione che sembra
riprendere esplicitamente l'argomento nel proemio apuleiano: «figuras fortunasque
hominum [...] et in se rursum mutuo nexu refectas». Come abbiamo già avuto modo
di dimostrare, questa giornata è quella in cui più di tutte le altre si intrecciano la
tematica della sorte e quella erotica; nelle due novelle che analizzeremo questo si può
percepire a un livello ancora più intenso, per le conseguenze funeste che queste
immense forze avranno sui personaggi.
È infatti l'eros a muovere i personaggi, mentre la sorte agisce come una entità
esterna a manovrare i fili della trama. Nella settima novella, ad esempio, l'eros fa sì
che i personaggi che si avvicendano intorno ad Alatiel per possedere il suo corpo si
uccidano vicendevolmente e si spostino attraverso lo spazio geografico, ma è la sorte
che infine permetterà l'incontro tra la ragazza e Antigono. Nella nona novella, invece,
l'eros fa sì che Zinevra debba fuggire ad Alessandria, ma la sorte spingerà nel
medesimo luogo anche Ambrogiuolo e Bernabò, concedendo alla donna la possibilità
di vendicarsi.
Il Boccaccio riprende in queste novelle alcuni spunti narrativi delle Metamorfosi.
144 Dec., Introduzione, II, § 1, p. 311.
51
Ad esempio, il supplizio del miele inflitto ad Ambrogiuolo da Piacenza nel finale
della novella nona della seconda giornata attinge direttamente dal ventiduesimo
capitolo dell'ottavo libro delle Metamorfosi.
Ecco il testo di Apuleio:
Quam mortem145 dominus eorum aegerrime sustinens adreptum
servulum, qui causam tanti sceleris luxurie sua praestiterat, nudum ac
totum melle perlitum firmiter alligavit arbori ficulneae, cuius in ipso
carioso stipite inhabitantium formicarum nidificia bulliebant et ultro
citro commeabant multiuga scaturrigine. Quae simul dulcem ac
mellitum corporis nidorem persentiscunt, parvis quidem sed
numerosis et continuis morsiunculis penitus inhaerentes, per longi
temporis cruciatum ita, carnibus atque ipsis visceribus adesis, homine
consumpto membra nudarunt, ut ossa tantum viduata pulpis nitore
nimio candentia funestae cohaererent arbori.146
A narrare l'episodio è Lucio-asino, che in questo momento è in fuga insieme con il
capo delle scuderie a cui l'aveva affidato Tlepòlemo, e con altri mandriani. Sembra
riecheggiare in questo passo la punizione inflitta da Zeus a Prometeo, che, colpevole
di aver dapprima ingannato il padre degli dèi e poi liberato gli uomini almeno in
parte dalla conseguente punizione, venne incatenato a un masso sulla cima di un
monte, dove ogni giorno l'aquila di Zeus divorava il suo fegato e i suoi occhi, che di
notte si rigeneravano, infinitamente (come gli infiniti piccoli morsi delle formiche).
Il tema dell'infanticidio/suicidio come funesta conseguenza del furor della gelosia
ricorre invece, ad esempio, in miti quali quello di Medea o quello di Aedona. Con
quest'ultima novella, inserita nelle Metamorfosi del greco Antonio Liberale (II secolo
145 Il servo, sposato con un figlio, si è innamorato di una giovane serva. Sua moglie, appreso l'adulterio, si suicida impiccandosi insieme con il figlio. Vi sono diversi motivi appartenenti alla tradizione letteraria antica: il suicidio per amore, l'infanticidio per vendetta amorosa, il pozzo.Per una visione generale di motivi precedenti al testo di Apuleio si veda Ignazio Cazzaniga, Il supplizio del miele e delle formiche. Un motivo novellistico nelle Metamorfosi di Apuleio, in «Studies in philology», LXVI, 1, 1949, pp. 1-5.
146 Met. VIII, 22, pp. 290-292: «Il padrone, profondamente turbato da questa morte, arrestato il servo che era stato causa di un simile delitto per causa della lussuria, lo fece legare nudo e per intero cosparso di miele ad un albero di fico, dal cui tronco tarlato brulicavano formiche che correvano da ogni parte attraverso i molti fori. Le quali, non appena avvertirono il dolce e mielato odore che proveniva dal suo corpo, improvvisamente si attaccarono a quel corpo e con i loro piccoli, ma numerosi ed infiniti morsi, in una punizione che pareva non finire mai, gli rosicchiarono le carni e le viscere, fino a che non lo consumarono tutto lasciando solo le ossa scarnificate, finché, legato a quell'albero portatore di morte, non rimase altro che il biancheggiare delle ossa».
52
d. C., quindi pressoché coeve all'opera dell'autore di Madaura) la versione apuleiana
ha in comune proprio il supplizio del miele: Aedona è la sposa del falegname
Politectone, che sfacciatamente rapisce la sorella di lei e, violentatala, la conduce
come schiava dalla moglie con uno stratagemma affinché ella non la riconosca; una
volta scoperto il misfatto, Aedona e sua sorella, per punirlo, infliggono lui il
supplizio del miele, ma infine il padre di loro lo libera. Nella versione dell'Aedon di
Efesìa di Beo, di epoca ellenistica, la vendetta di Aedona comprende anche
l'imbandimento delle carni del figlio Iti, per la qual cosa Politecno, folle d'ira,
insegue la moglie e la cognata fino alla casa del suocero Pandareo, che per vendetta
infligge lui, infine, il supplizio del miele (con quest'ultima versione il racconto di
Apuleio avrebbe anche in comune anche la collateralità vendicativa della morte del
figlio).
Il gusto del macabro è molto presente nelle Metamorfosi, come dimostrano le
minuziose descrizioni con cui Lucio snoda per noi il racconto: dalla descrizione della
morte di Socrate e del sortilegio che attuano contro di lui le due streghe, a quella di
Telifrone magicamente mutilato di naso e orecchie, fino alla descrizione dei briganti
morti durante le rapine, alla scena che comprende le morti di Tlepolemo, Trasillo e
Carite, e ancora a quella del ragazzo sbranato dall'orsa di cui i compagni «plane
corpus eius membratim laceratum multisque dispersum locis conspicitur».
Si tratta di un senso del brutto presente a più riprese in entrambe le opere prese in
esame, che si riflette da un lato, in Apuleio, in un brutto spirituale esplicitato, tra
l'altro, anche nelle forme del meschino, del male e dello stregonesco, dall'altro, ed è
il caso del Decameron, in un brutto sia di natura sia spirituale, spesso evocatore di
disarmonia tra spirito e corpo e tra Natura e Fortuna, precursore della scorrettezza nel
personaggio ed esplicitato infine nello sfiguramento attraverso il volgare (carattere
meschino, debole, vile o rozzo) o il ripugnante (carattere maligno e criminoso).147
Nella descrizione del supplizio il senso del macabro è rintracciabile anche a
livello stilistico, sottolineato da quel cruciatum che rende ancora più esplicita l'idea
che si tratti di un supplizio di morte, oltre che dal frequente ricorrere della vibrante
alveolare r in corporis, persentiscunt, parvis, numerosis e morsiunculis e ancora, più
147 Per una rassegna di queste forme del brutto, cfr Rosenkranz, Karl, Estetica del brutto, R. Bodei (a cura di), Bologna, Il Mulino, 1984.
53
avanti, in inhaerentes, nell'espressione «per longi temporis cruciatum ita, carnibus
atque ipsis visceribus adesis».
Il testo boccacciano recita in questo modo:
Il soldano appresso comandò che incontanente Ambrogiuolo in alcuno
alto luogo della città fosse al sole legato ad un palo e unto di mele, né
quindi mai, infino a tanto che per sé medesimo non cadesse, levato
fosse; e così fu fatto.
[...]
Ambrogiuolo il dì medesimo che legato fu al palo e unto di mele, con
sua grandissima angoscia dalle mosche e dalle vespe e da' tafani, de'
quali quel paese è copioso molto, fu non solamente ucciso, ma infino
all'ossa divorato; le quali bianche rimase e a' nervi appiccate, poi
lungo tempo, senza esser mosse, della sua malvagità fecero a
chiunque le vide testimonianza. E così rimase lo 'ngannatore a piè
dello 'ngannato.148
La novella, narrata dalla Regina Filomena, si inserisce nella seconda giornata.
Tutte le novelle di questa giornata hanno in comune anche il tema del viaggio (per lo
più, come in questo caso, per fini economici) oltre che quello dell'eros. Essa è
ambientata nel XIV secolo e si apre con un dibattito tra mercanti italiani, tra i quali
Ambrogiuolo e Bernabò Lomellin da Genova, sulla fedeltà delle mogli in assenza dei
mariti. A questo dibattito, nel quale Bernabò risulta l'unico a sostenere la fedeltà della
propria moglie Zinevra, con una descrizione di lei che risulta funzionale al seguito
della trama, segue la scommessa con Ambrogiuolo, che si impegna così a recarsi a
Genova e tentare di sedurre la donna. Non riuscendo nell'impresa, aiutato da una
serva a introdursi nella stanza da letto della donna, di notte ruba alcuni oggetti
personali di Zinevra e scopre la donna, notando così un neo sulla mammella.
Recatosi in seguito nuovamente a Parigi, racconta l'accaduto a Bernabò che, tornato a
Genova adirato, ordina a un parente di uccidere la donna.
Avviene però che il parente, impietosito dalle suppliche di Zinevra, non la uccida
e, anzi, ascolti la sua versione dei fatti, prendendo poi i suoi vestiti per dimostrare a
Bernabò di averla uccisa. Zinevra fugge allora da Genova, travestendosi da uomo e
148 Dec., II, 9, § 72-75, pp. 476-477.
54
imbarcandosi sulla nave del catalano En Cararh come marinaio, col nome di Sicuran.
Eccellendo nel proprio mestiere, le vengono affidati incarichi più importanti, finché
un giorno, approdando la nave presso Alessandria, viene inviata dal sultano per
consegnare un carico. Il sultano, piacevolmente stupito delle capacità di Sicurano,
chiede che En Cararh lo lasci affidato a lui, e così avviene. Dopo poco tempo a
Sicurano viene affidato il compito di vigilare sul mercato tra cristiani e arabi e,
mentre lo espleta, nota tra gli altri Ambrogiuolo intento a vendere i vestiti che le
aveva rubati. Domandandone la provenienza a quest'ultimo, le viene da lui svelato
l'inganno inflitto a Bernabò. Sicurano-Zinevra lo convince allora a narrare la
medesima storia al sultano, che convoca anche Bernabò, arrivato anche lui ad
Alessandria per affari.
Così infine Zinevra svela a tutti la propria identità e il sultano obbliga
Ambrogiuolo al risarcimento, dona a Bernabò e Zinevra molte ricchezze e permette
loro di ripartire alla volta di Genova, condannando il traditore al supplizio del miele.
Il supplizio in Boccaccio è accentuato dalla triplice anafora in dalle mosche, dalle
vespe e da' tafani, oltre che dall'espressione «con sua grandissima angoscia» e dalla
descrizione minuziosa di ciò che rimane attaccato al palo dopo la morte del
condannato.
Strutturalmente bipartita, la novella vede opporsi un uomo meschino e senza
scrupoli, ma in un primo tempo molto fortunato, e una donna che riconquista da sé il
proprio ruolo e, anzi, lo impreziosisce sia in termini di ricchezza materiale, sia
nell'opinione che di lei hanno il marito e il sultano: ella è una autentica faber suae
Fortunae. Se nella sezione iniziale è proprio la nudità della donna a causarne la
rovinosa caduta di virtù e la perdita di tutto, nella sezione finale sarà proprio il suo
petto scoperto a permetterle di riconquistare ogni cosa, a dispetto del discorso
iniziale di Ambrogiuolo nel quale asseriva che la vergogna e il disonore risiedono
nelle «cose palesi» (§ 19).
In questa novella, così come in molte altre del Decameron, troviamo la grandiosa
rievocazione della civiltà italiana del tardo Medioevo, e in particolare della vita
mercantile,149 che per la prima volta nella letteratura europea è giudicata degna di
149 «L'epopea dei mercatanti», come la chiama il Branca. Branca, Boccaccio madievale, cit., pp. 134-164.
55
entrare in letteratura. La novità più saliente del Certaldese è forse proprio quella di
aver dato una veste letteraria alla società contemporanea, che diventa il fulcro di tutto
un poema, in cui i personaggi si presentano quasi come antieroi rispetto ai
protagonisti dei cicli sanscriti, della Bibbia, di Omero, Virgilio dei più vicini
romanzi arturiani o delle chansons de geste. I protagonisti boccacciani non sono più
rinchiusi in quel «passato assoluto» di cui hanno parlavano Goethe e Schiller: essi
sono esseri umani, fatti di vizi, malvagità e virtù terrene, nelle cui epopee si riflette il
confronto tra le immense forze dominatrici, Fortuna, Amore, Ingegno. Grazie alla
vivissima rappresentazione decameroniana, la società mercantile diverrà per i secoli
a venire un vero e proprio paradigma letterario.
Il motivo mercantile permette soprattutto l'apertura verso altri luoghi geografici:
oltre il comune (Firenze) e oltre l'Italia (Napoli, Genova, Venezia, intercorse dalle
rivalità anche politiche con le città fiorentine -oltre alla già nominata Firenze, Siena e
Pisa-), verso un mondo, l'Oriente, che fino ad allora era rimasto praticamente
sconosciuto o mal visto all'interno del mondo letterario occidentale e che ora viene
ripreso, senza pregiudizi di sorta, e reso sfondo e primo piano della narrazione
boccacciana. Genova viene così presentata come una città brulicante di uomini
operosi, tenaci e duri, spilorci ma anche generosi, fedeli all'antica onestà in cui si
inserisce l'orgoglio per la fedeltà delle loro donne, che dà luogo al dibattito tra
Bernabò e Ambrogiuolo che funge da motore d'avvio di tutta la novella.
Il Decameron, così come le Metamorfosi, attuano anche geograficamente una
apertura verso luoghi e usanze fino al loro tempo quasi sconosciute e mai legittimate
sul piano letterario. Nel caso del poema apuleiano questo avviene nei confronti delle
religioni orientali e, ciò che è anche in comune con il Decameron, verso i ceti più
umili e le pratiche più abiette.
Se Apuleio, sulle orme dell'illustre precedente petroniano, narra di homines senza
alcun riferimento alla dimensione divina, il Boccaccio dal canto suo tralascia quasi
completamente la dimensione religiosa e divina tanto cara ai suoi predecessori
(Dante e Petrarca, ma anche, ad esempio, le chansons de geste e la Chanson de
In in certo senso si potrebbero allora definire le Metamorfosi come una epopea dei briganti e dei contadini, dato lo spazio che queste due categorie occupano all'interno dell'opera, senza dimenticare poi i monaci.
56
Roland). L'unica via attraverso la quale entra questa dimensione è quella della
narrazione vera e propria, ma essa non trova spazio nella cornice (se non, nel caso di
Lucio, nel finale). Nel Decameron notiamo, differentemente da quanto avveniva
nella letteratura precedente, una grande apertura verso il mondo orientale,150 come
dimostrano del resto sia questa novella, sia quella di cui parleremo successivamente,
e come esplicita in modo chiaro la novella delle tre anella (I, 3).
Ma laddove, nelle opere precedenti, era la religione a differenziare anche
competitivamente e soprattutto attraverso la guerra, qui le uniche figure che trovano
spazio sono quelle di uomini e di mercanti in balia della sorte. E se l'idea che emerge
qualche volta dal Decameron è che il Boccaccio consideri il mercante come un
sempliciotto più che come un capace ammaliatore (ne sono esempi Andreuccio e
Salabaetto), certamente anche i mercanti, in quanto umani, sono travolti dall'eros,
dalla Fortuna, e dalle conseguenze delle proprie scelte, da cui tanto meno è esente
Ambrogiuolo.
Anche nelle Metamorfosi l'apertura verso la ricerca del magico da parte del
protagonista e anche verso l'epopea dei briganti, argomenti che prima del
Madaurense difficilmente entravano nella letteratura latina, rendono possibile anche
l'apertura verso luoghi come la Tessaglia e verso pratiche misconosciute come il
culto degli dèi egiziani, alle quali l'autore si accostò sia sul piano biografico, sia su
quello letterario.
In entrambi i passi sopra riportati ricorre il macabro motivo del candore delle ossa
rimaste attaccate all'albero dopo la scarnificazione a opera degli insetti. Entrambe le
descrizioni risultano minuziose e prive di riserve. La colpa del marito è differente
nell'uno e nell'altro caso: in Apuleio l'adulterio è reale, mentre in Boccaccio è
dapprima creduto vero da Bernabò, e poi svelato come non essere mai avvenuto. La
pena è invece identica, senonché il Certaldese aggiunge l'elemento del sole e tramuta
le formiche in tafani e vespe, a rendere ancora più dura e macabra la pena inflitta
all'ingannatore che viene così ingannato a sua volta (come d'altronde recita il
proverbio finale, che vuole ribadire l'incipit della novella151).
150 Per una analisi approfondita del rapporto con l'Oriente e la cultura orientale cfr: Michelangelo Picone, Dalle Mille e una notte al Decameron, in Allasia, Clara (a cura di), Il Decameron nella letteratura europea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, pp. 59-74.
151 Si tratta di un proverbio popolare (Filomena usa in questo senso il termine "volgari"), che,
57
L'inganno funge da perno in tutte le vicende della novella: Ambrogiuolo inganna
Bernabò e condanna così Zinevra che, volendosi riscattare, inganna prima En Cararh,
poi il sultano e infine lo stesso Ambrogiuolo. Quest'ultimo utilizza l'inganno (e il
proprio ingegno) nel momento in cui capisce di essere «troppo al disotto delle
esigenze di un'azione aperta e brutale», perché «nell'inganno è una rivalsa
dell'ingegno sopra la forza e su tutti gli altri elementi irrazionali»,152 Zinevra, invece,
attraverso l'inganno sembra esplicitare quel «vagheggiamento dell'invisibilità» del
quale parla Moravia, dal momento che in questa novella «la finzione dell'ingannatore
equivale ad una specie di invisibilità»153 in cui gli ingannati non vedono in realtà gli
ingannatori e non hanno quindi la possibilità di riconoscere l'inganno.
Questa tematica è inoltre il filo rosso che congiunge la premessa della narratrice,
nella quale ella giustifica la novella come exemplum del proverbio che appare poi nel
finale, anche se, come nota Almansi,154 non è il proverbio a porsi indiscutibilmente
come morale della novella, data la premessa di Filomena. All'enunciazione del
proverbio, infatti, segue la seguente considerazione:
Il quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare esser vero,
se per gli accidenti che avvengono non si mostrasse.155
Se infatti, almeno in questo caso, la giustizia trionfa sull'ingannatore, non è
sempre vero che l'ingannato riesca infine a trionfare. La pena per i colpevoli è in
entrambi i casi decisa da una entità estranea alla vicenda attorno alla quale ruota la
colpa e, nel caso della novella boccacciana, anche alla vera natura dei personaggi a
favore dei quali è rivolta la propria azione. Il sultano e il padrone sono entrambi
mossi da compassione, il primo verso la donna che agita le braccia sul petto denudato
dinnanzi a lui, il secondo dalla portata di un tale suicidio, che riguarda non soltanto la
moglie, ma anche il figlio e il deposito di grano dello schiavo.
A voler costruire un parallelo tra la protagonista di questa novella e il protagonista
delle Metamorfosi, possiamo notare come le loro condizioni si pongano in
pronunciato da lei appena prima di intraprendere il racconto, funge da morale anticipata.152 Espressione ripresa da Alberto Moravia, Boccaccio, in Id., L'uomo come fine e altri saggi,
Milano, Bompiani, 1964, p. 145.153 Ibidem.154 Guido Almansi, Lettura della novella di Bernabò e Zinevra (II, 9), in «Studi sul Boccaccio», VII,
1973, pp. 125-140.155 Dec., II, 9, § 3, p. 457.
58
contraddizione: mentre è Zinevra stessa ad architettare l'inganno del travestimento
per non essere riconosciuta, Lucio è costretto nella sua condizione di asino e l'unico
mezzo che possiede per difendere se stesso passa attraverso il proprio essere animale
e il comportarsi di conseguenza: Ginevra reagisce con il travestimento, con la
metamorfosi, Lucio invece è costretto a reagire in seguito alla propria metamorfosi.
Lucio, una volta tornato umano, non avrà nessuno che potrà riconoscerlo,
permettendogli di tornare alla condizione armoniosa iniziale: l'amore per Fotide,
l'amicizia di Milone, il viaggio in Tessaglia sospinto dalla curiosità per le arti
magiche; al contrario, egli inizierà una vita totalmente nuova, senza poter avere
alcuna possibilità di ritorno a quella originaria, dedito interamente al culto di Iside.
Zinevra invece, attraverso la vendetta, conquista la possibilità di tornare alla
medesima vita iniziale, con l'amore e la stima maggiorata del marito.
Questo è ciò che ella, ancora nei panni di Sicurano, dice, in presenza del sultano,
del marito e di Ambrogiuolo, quando quest'ultimo ha appena svelato la colpa di cui si
è macchiato e Bernabò ha spiegato la sua reazione avuta nei confronti della moglie a
causa dell'ira e del disonore che credeva di aver ricevuto:
Signor mio, assai chiaramente potete conoscere quanto quella buona
donna gloriar si possa d'amante e di marito: ché l'amante a un'ora lei
priva d'onor con bugie guastando la fama sua e diserta il marito di lei;
e il marito, più credulo dell'altrui falsità che alla verità da lui per lunga
esperienza potuta conoscere, la fa uccidere e mangiare a' lupi. [...]Ma
per ciò che voi ottimamente conoscete quello che ciascun di costoro
ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di punire lo
'ngannatore e perdonare allo 'ngannato, io la farò qui in vostra e in lor
presenza venire.156
E ancora, dopo aver ottenuto il benestare alla propria richiesta, ella piano piano,
piangendo in ginocchio, finalmente con voce femminile confessa:
Signor mio, io sono la misera sventurata Zinevra, sei anni andata
tapinando in forma d'uom per lo mondo, da questo traditor
d'Ambrogiuolo falsamente e reamente vituperata, e da questa crudele e
iniquo uomo data a uccidere a un suo fante e a mangiare a' lupi.157
156 Ibidem, § 64-65, p. 474-475.157 Ibidem, § 68.
59
Se, come vedremo, per l'eroina della settima novella di questa giornata, Alatiel,
sarà la propria orazione finale a fungere da salvavita, per Zinevra saranno invece i
gesti compiuti appena in seguito a queste parole a svolgere la medesima funzione.
Immediatamente infatti questo travestimento, composto dalla voce e dai vestiti, che
per necessità la donna aveva assunto si dissolve a causa del «più non volere essere
maschio».158 Scoprendo la propria femminilità e rendendola palese, ella fa sì che ben
tre uomini ammutoliscano, diventando così per tutti, sia per il pubblico, sia per gli
altri personaggi protagonisti, che a partire dalla seconda sequenza si pongono come
antagonisti per tutta la novella, la vera eroina.
Il ruolo di Zinevra è perciò eccezionale: ella sfida il proprio destino e riesce a
riacquistare la propria fama e virtù, prevalendo sulla diffidenza del marito (che, come
molto spesso accade nel Decameron, scompare per quasi tutto il racconto, dopo
essere stato «così modestamente costruito» è altrettanto «facilmente dimenticato»159)
e sulla meschinità di Ambrogiuolo, riuscendo a conquistarsi perfino la benevolenza
del sultano, guadagnando una immensa ricchezza non soltanto per se stessa, ma
anche per Bernabò. Ella è superiore ai due uomini, ma solo dopo che ha assunto su di
sé tutte le caratteristiche proprie degli uomini, compresa l'astuzia tipica dei mercanti.
Se Ambrogiuolo è l'ingannatore e Bernabò l'ingannato, Zinevra si pone al di fuori
dell'intero meccanismo, anche aldilà della fedeltà coniugale e della meschinità dei
mercatanti. Come dispensatrice finale di perdono, ella trionfa sui perfetti uomini.
Lucio troverà la propria isola felice nel culto degli dèi egiziani e nella avvocatura
a Roma, nella quale si reca per ispirazione divina dopo aver ritrovato letteralmente la
propria voce, le sembianze di uomo e un ruolo riconosciuto da tutti, legittimato dalla
notturna dimensione onirica in cui egli incontra le divinità ad indicargli la strada da
percorrere. Zinevra, allo stesso modo, ma in una dimensione reale e materiale, ritrova
la condizione iniziale di donna maritata, legittimata da una terrena entità
istituzionale, acquisendo inoltre la ricchezza vera e propria.
Lucio di Madaura, giovane rampollo della nobiltà locale, spinto a viaggiare per la
158 Per una disquisizione su questa espressione piuttosto ambigua cfr Franca Brambilla Ageno, Errori d'autore nel «Decameron»?, in «Studi sul Decameron», VIII, 1974, pp. 127-136, oltre che a p. 300 dell'edizione a cura del Branca, in cui quest'ultimo allude a un'altra ipotesi che vedrebbe come significato meno probabile una espressione del tipo «il non volere più essere uomo».
159 Cfr. Guido Almansi, Lettura della novella di Bernabò e Zinevra (II, 9), cit., p. 132.
60
Grecia dalla volontà di soddisfare la propria curiosità verso le arti magiche e
trasformato in asino per errore proprio nel momento in cui queste gli si palesano
dinnanzi, ritrova il proprio ruolo niente meno che a Roma, l'illustre città,
lontanissimo dalla propria patria, ma vicinissimo al consolidamento definitivo del
proprio ruolo religioso e professionale (questo è l'unico campo che ricorre dall'inizio
alla fine, mentre tutto il resto muta), povero ma felice. Zinevra invece ritorna
esattamente alla condizione iniziale, ma con virtù e ricchezze materiali maggiorate.
Dal canto suo anche Lucio si riscatta con i propri familiari, dimostrando di non
essere il rapinatore della casa di Milone, così come Zinevra dimostra attraverso
parole e gesti di non essere la fedifraga che il marito credeva. Entrambi sono stati
condannati da delitti che non hanno commesso e da cui non hanno avuto la
possibilità di difendersi: ma mentre per Apuleio il presunto crimine non funge da
motore dell'azione, in Boccaccio avviene che sia proprio la convinzione da parte del
marito che lei abbia commesso l'adulterio a scatenare tutte le vicende della novella:
dalla fuga di lei da Genova sotto le spoglie del marinaio Sicurano, al suo arrivo ad
Alessandria d'Egitto e all'incontro finale con il sultano, Ambrogiuolo e Bernabò
stesso.
Ambedue i protagonisti trionfano sulla propria sorte: Zinevra in quanto facente
parte del novero dei protagonisti della seconda giornata, mentre per Lucio ricorre
esplicitamente l'espressione, proclamata tra l'altro da un personaggio esterno, un
sacerdote: «Lucius de sua Fortuna triumphat» (Met., XI, 15).
II. 3: Decameron II, 7
L'altro tema di questa novella, comune, oltre che con le Metamorfosi, con le altre
novelle di questa giornata, è il viaggio: le tappe del viaggio dei tre personaggi
principali si incrociano tra loro, facendo in modo che la trama trovi lo scioglimento
finale (Parigi, Genova, Alessandria-Acri).
La novella che riprende in modo più forte la tematica del viaggio è la settima della
medesima seconda giornata, nella quale ricorre, come nella novella nona e in alcune
altre,160 un proverbio in due endecasillabi e quindi tipicamente sentenzioso, posto
160 V, 10, § 64; VII, 4, § 31; VIII, 10, § 67.
61
proprio in chiusura, maliziosamente riferito alla verginità della ragazza, il cui organo
sessuale viene paragonato a una bocca; il significato di questo proverbio
popolarissimo in epoca medievale, del quale questa è la prima attestazione scritta, è il
seguente: «una bocca che sia stata baciata più volte non perde per questo il suo
valore (non compromette il suo destino futuro, affidato ai casi della fortuna), anzi lo
rinnova come fa la luna (con i suoi cicli)».161
Sul piano strutturale anche questa novella si può confrontare con la storia di
cornice delle Metamorfosi: nelle disavventure di Alatiel, la protagonista di questa
novella, che, seppur per motivazioni diverse da quelle di Lucio-asino, non può
comunicare con coloro che di volta in volta la prendono e la vogliono come se ella
fosse un loro possesso, sembra stendersi l'ombra delle peripezie del protagonista
apuleiano.
Rivediamo qui la trama della novella, narrata da Panfilo, che sottolinea
nell'introduzione la connessione al tema della giornata riprendendo la locuzione dei
«fortunosi casi»162 e la giustifica con l'ammonimento alle donne della brigata a non
«disiderare d'esser belle»,163 in una «premessa teorica, rara nel Boccaccio, e quindi
importante», come la definisce Vaghetti.164
Il sultano di Babilonia decide di dare in moglie la propria figlia, Alatiel, al re del
Garbo. Ma, fatta partire la ragazza su una nave con dei marinai e le sue ancelle,
accade che una tempesta investa la nave e che le donne su di essa si trovino, la
mattina seguente, sole e naufraghe sull'isola di Maiorca.
Sopraggiunge allora un uomo, Pericon da Visalgo, con i suoi familiari, che
soccorrono così le fanciulle. Ma Pericon, vedendo Alatiel così bella, se ne innamora
e, avendo fatto sì che ella si ubriacasse, giace per una notte con la ragazza. Marato,
fratello di Pericon, innamoratosi anche lui di Alatiel, si accorda con due marinai
genovesi affinché uccidano il fratello e li aiutino a fuggire imbarcandoli sulla nave.
Una volta sulla nave, però, essendo rimasti anche loro rapiti dal fascino della
ragazza, i due fratelli gettano Marato in mare e iniziano a duellare per chi debba
161 Nota 122 a p. 430 dell'edizione di Quondam, Fiorilla e Alfano.162 Dec., II, 7, § 6.163 Ibidem, § 7.164 Lamberto Vaghetti, La filosofia della natura nel «Decameron», in «Nuova Antologia», DLXXXV
fasc. 2215, 2000, pp. 283-302.
62
averla. Morto uno dei due, l'altro rimane gravemente ferito, la nave giunge così a
Chiarenza, in Romania, dove presto si diffonde la notizia della meravigliosa bellezza
di Alatiel, finché il principe di Acaia decide di rapirla per portarla nel proprio
palazzo.
Qui anche il duca di Atene, avendo sentito della bellezza della ragazza, si reca in
visita al principe che, orgoglioso di possedere cotanta bellezza, non la nasconde
all'ospite e anzi lo invita caldamente ad accertarsi con i propri occhi di quanto ha
ascoltato («Molto più! Ma di ciò non le mie parole ma gli occhi tuoi voglio ti faccian
fede»165). Completamente rapito anche lui dal fascino della ragazza, uccide il
principe e fugge con lei.
Il fratello del principe ingaggia allora battaglia contro il duca, che chiede aiuto
all'imperatore di Costantinopoli. Quest'ultimo invia allora i due figli Costanzio e
Manovello. Costanzio si innamora di Alatiel e, abbandonato il campo di battaglia,
fugge con lei a Chios, dove la ragazza si innamora di lui.
Osbech, re dei Turchi, rapisce allora Alatiel, ma l'imperatore di Cstantinopoli
chiede al re della Cappadocia di vendicare l'onta subita dal figlio, e così avviene che
quest'ultimo uccida Osbech e raccomandi la protezione della ragazza ad Antioco,
che, puntualmente innamoratosi di lei, fugge a Rodi con lei e un giovane amico
mercante a cui, gravemente malato e in punto di morte, affida la ragazza.
Alatiel e il mercante si recano allora a Cipro dove ella riconosce un giorno
Antigono di Famagosta, servo del sultano di Babilonia a Cipro per affari, al quale
165 Vi è qui un forte richiamo della novella erodotea di Gige e Candaule (Storie, 1, 8-12). Candaule, convinto di avere in moglie la donna più bella di tutte, si vanta con la guardia Gige, a lui molto caro, e lo invita ad accertarsene con i propri occhi con le seguenti parole: «Gige, penso che tu non mi creda quando ti parlo della bellezza di mia moglie (succede infatti che gli uomini credano più agli occhi che alle orecchie), fa' in modo di vederla nuda». Gige, sentendosi costretto dal padrone, da lui aiutato a entrare nella stanza da letto di notte e, avendo visto la donna, fugge. Ella, scorgendolo, lo convince a vendicarsi e a vendicarla con Candaule. E così avviene che Gige, ucciso il padrone, prenda il regno e la regina al posto suo. La vicenda venne ripresa dallo stesso Boccaccio in De casibus virorum illustrium II, 19 (1356-1360, rev. 1373):
«Candalus, antiquissimus Lydorum rex, lacrimans hac illac incerto ambiens gradu, in se me scribentem de somniis revocabat. Cui postquam oculos auresque concessi, eum Gigis impudici amici sui nequitiam meledictis lacessentem percepi. Aiebat enim se eidem Gigi, qua secum fiducia, amotis laciniis clara in luce predilectam sibi et eximie formositatis coniugem dormientem ostendisse, ut –quod satis verbo non poterat– demonstratione conscium redderet sue felicitatis amicum; eumque, ea visa, illecebri cupidine succensum id egisse ut, se gladio necato, regnum cum coniuge in premium sanguinis effusi susciperet».
(De cas., II, 19, "Querele quorundam")
63
narra le proprie peripezie chiede di essere ricondotta a casa. Antigono, impietosito
massimamente dal racconto, la asseconda.
Una volta giunta presso il padre, dopo quattro lunghi anni da quando se ne era
separata, Alatiel racconta di essere stata salvata da quattro cavalieri e portata in un
monastero di benedettine dopo il naufragio iniziale. Dopo quattro anni, in cui ella si
era finta figlia di un mercante di Cipro per non essere cacciata a causa della propria
religione, era riuscita a unirsi a un gruppo di pellegrini diretti verso Gerusalemme e a
Baffa aveva incontrato Antigono.
Così il sultano la affida in moglie al re del Garbo al quale la ragazza, la prima
notte di nozze, fa credere di possedere ancora la verginità, pur essendo in quattro
anni «con otto uomini166 forse diecimila volte giaciuta».167
Vediamo opporsi fin dall'inizio la passività delle donne, che pur abbandonandosi
al destino riescono a sopravvivere, e l'attività degli uomini, che avvicendandosi per
sopravvivere immancabilmente soccombono. Ad esempio, nel caso della tempesta,
vero motore fisico della vicenda, gli uomini:
[...] come valenti uomini, ogni arte e ogni forza operando, essendo da
infinito mare combattuti, due dì si sostennero.
[...] non veggendovi alcun rimedio al loro scampo, avendo a mente
ciascun se medesimo e non altrui. In mare gittarono un paliscalmo e
sopra quello più tosto di fidarsi disponendo che sopra la isdruscita
nave si gittarono i padroni; a' quali appresso or l'uno or l'altro di quanti
uomini erano nella nave, quantunque quegli che prima nel paliscalmo
eran discesi con le coltella in mano li contraddicessero, tutti si
gittarono, e credendosi la morte fuggire in quella incapparono: perciò
che, non potendone per la contrarietà del tempo tanti reggere il
paliscalmo, andato sotto, tutti quanti perirono.168
E mentre la tempesta continua a infuriare:
E la nave, che da impetuoso vento era sospinta, quantunque isdrucita
fosse e già presso che piena d'acqua, non essendovi sù rimasa altra
166 Qui il Boccaccio enumera infatti i soli uomini con i quali Alatiel ha avuto rapporti sessuali, mentre in rubrica erano enumerati tutti coloro che erano stati i suoi "possessori", includendo anche i due fratelli genovesi assassini di Marato, che però, uccidendosi vicendevolmente, si sono autoesclusi dalla possibilità di avere rapporti sessuali con la ragazza.
167 Dec., II, 7, § 121, p. 430.168 Ibidem, § 11-12, p. 400-401.
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persona che la donna e le sue femmine (e quelle tutte per la tempesta
del mare e per la paura vinte su per quella quasi morte si giacevano),
velocissimamente correndo in una piaggia dell'isola di Maiolica
percosse. E fu tanta e sì grande la foga di quella, che quasi tutta si
ficcò nella rena, vicina al lito forse una gittata di pietra: quivi, da mar
combattuta, la notte senza poter più dal vento esser mossa si stette.169
Ecco allora il contrapporsi del mare e del vento, con la nave che tenta di resistere
e sopra di essa gli uomini che «ogni arte e ogni forza operando», si gettano in mare
su una scialuppa che tutti insieme non può reggerli, perciò i padroni tentano di
costringere gli altri a non salirvi minacciandoli con «le coltella». Panfilo costruisce
uno scenario vivissimo in cui i simili combattono con i propri simili (le forze della
natura tra loro da una parte e gli uomini tra loro dall'altra), mentre la nave, sospinta
dall'impetuosità del conflitto tra vento e mare, entrambi forze attive, indomabili dagli
uomini e incessanti, si arresta su un lido, incagliata nella rena. Nel mentre le donne,
sopraffatte dalla paura e dalla forza con cui la nave è scaraventata da un'onda
all'altra, giacciono sulla nave «quasi morte», completamente in balia delle forze della
natura e della sorte. Infine, gli uomini muoiono combattuti dalla propria foga, la nave
giace arenata, combattuta dal mare ma non dal vento, le donne, senza probabilmente
esserne consapevoli, si svegliano allo schiarire del cielo, stremate ma vive,
sopravvissute a tutta la violenza implacabile.
Questa enorme e indomabile «furia degli elementi», come viene chiamata da
Almansi170 è il vero motivo scatenante della vicenda di Alatiel, in quanto, se non vi
fosse stata la tempesta, la navigazione sarebbe stata tranquilla, perfino monotona, e la
ragazza sarebbe giunta immediatamente alla destinazione prevista, senza nulla
lasciare al narratore da raccontarci. Allo stesso modo, il fatto che Lucio sia
impossibilitato a causa della paura di essere ucciso, la prima volta che scorge le rose,
a nutrirsene (III, 29), diventa uno dei tanti motori del racconto delle Metamorfosi. Il
mare e i briganti, entrambi presenze minacciose, sono funzionali alla svolta nel
racconto in quanto, come nota Almansi,171 portano il personaggio A (il protagonista)
al punto C (meta imprevista) anziché a B (meta pregiudicata come finale, a cui A
169 Ibidem, § 13, p. 401.170 Guido Almansi, L'estetica dell'osceno, Torino, Einaudi, 1974, p. 143.171 Ibidem, p. 151.
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tende fin dall'inizio).
Nella sequenza successiva, quando Pericon, vedendo che «quantunque pallida e
assai male in ordine della persona per la fatica del mare allora fosse la donna, pur
pareano le sue fattezze bellissime», decide di possederla in un modo o nell'altro, e
dopo alcuni giorni le somministra del vino, che la religione di lei le impedirebbe di
assumere, ella astutamente si adatta alla situazione e decide di bere e di
concederglisi, a dispetto delle raccomandazioni mosse alle proprie ancelle che invece
suonavano come l'orazione dell'eroe tragico quando decide di resistere alle avversità
mantenendo fino in fondo la fedeltà ai propri principi.
In questo caso, si può notare la contrapposizione con Lucio che, nonostante la
propria condizione asinina, resta fino in fondo fedele ai propri principi, evitando più
volte la castrazione, tentando invano di discolparsi dall'accusa di essere il rapinatore
della casa dell'ospite o ancora rifiutandosi di giacere con la donna pluriomicida
condannata a morte alla fine del libro X. E, proprio grazie a questa ostinazione nel
non volere partecipare allo spettacolo allestito per il divertimento del pubblico,
fuggendo e invocando la dea egli giunge infine ad ottenere la salvezza.
Alatiel si sveste dinnanzi a Pericon172 «senza alcun ritegno di vergogna», mentre
Lucio, finalmente tornato uomo e «cum primum nefasto tegmine despoliaverat
asinus», resta immobile in mezzo alla folla di fedeli adoranti «compressis in artum
feminibus» cercando di coprire il membro «superstrictis accurate manibus, quantum
nudo licebat velamento..naturali probe».173
Come nel caso di Zinevra, anche qui è una donna a contrapporsi non più a due, ma
a una schiera di nove uomini, tutti meschini e avidi di possederla fisicamente una
volta convintisi di essere padroni anche della sua anima: così come ella è vittima del
loro desiderio, essi sono vittime del fascino incantevole di lei, in un vertiginoso
avvicendamento in cui l'azione primeggia sulla centralità tematica del desiderio
sessuale e lo risolve sul piano narrativo narrativo. Il susseguirsi dei padroni è
172 Come nota Vaghetti, i nomi dei personaggi di questa novella sono parlanti: è nella natura di Pericone perire, così come è nella natura di Marato essere gettato in mare, come se nei loro nomi fosse già impresso il loro destino e proprio per questo non si potesse attribuire nulla di drammatico e perversivo; così come del resto risiede nella natura umana il desiderio fisico (morale della «novella di Filippo» in Dec. IV, Introduzione, pp. 685-698).
Cfr. Lamberto Vaghetti, La filosofia della natura, cit., pp. 287-288.173 Met., XI, 14, p. 424.
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vertiginoso così come è anche lo spostamento nello spazio geografico, da Ovest
verso Est (Egitto, Morea, Atene, Egina, Chios, Rodi, Cipro e infine ancora l'Egitto
prima e il Marocco poi).
Alatiel è un vero e proprio oggetto nella concezione degli uomini che se la
contendono, per due motivazioni principali: per la sua incommensurabile bellezza,
che la rende una femme fatale174 senza che lei volontariamente provochi il loro
desiderio (anche se in seguito, come vedremo, ella lo asseconda, non apparendo
perciò come un oggetto sessuale), e perché non parla la loro lingua. Gli unici
momenti in cui la sua sorte diventa positiva si verificano infatti quando lei prende
parola (con Antigono e con il sultano).175 Notevole è il fatto che Panfilo non descriva
mai a livello fisico la protagonista: la sua straordinaria bellezza è resa attraverso gli
effetti che il suo fascino ha sugli uomini, che risultano attivi a confronto con Alatiel,
che invece risulta passiva, in un dualismo che fornisce dinamismo all'azione, essendo
infatti il desiderio che spinge gli uomini di questa novella all'azione che funge da
contenuto della narrazione.
Proprio come Lucio-asino, incapace di comunicare con i propri padroni (ma
capace, al contrario di Alatiel, con il il pubblico), ella viene sfruttata (almeno in
quanto oggetto materiale), in modo diverso dall'asino, certo, ma se possibile ancora
peggiore. La distanza principale tra gli uomini e la donna (o l'asino) risiede
fondamentalmente nella parola, e probabilmente nel genere. Nella novella
boccacciana e nell'intreccio apuleiano l'azione è incalzante, i padroni si avvicendano
vertiginosamente, senza mai che ai malcapitati (Alatiel e Lucio) sia data l'opportunità
di scegliere: essi sono oggetti e, in quanto tali, non possono sottrarsi alle decisioni
prese dagli altri, così come questi ultimi non possono sottrarsi alla sorte che di volta
in volta li fa soccombere (nel caso di Apuleio, ad esempio, possiamo ricordare il caso
del ragazzo sbranato da un'orsa in Met.,VII, 24) o andare in malora. Carite e
Tlepolemo, che sono gli unici padroni benevoli, subiranno anch'essi una sorte
174 O, come la chiama Valesio, «femme fatale malgré soi». Cfr. Paolo Valesio, Sacro, in R. Bragantini, Pier Massimo Forni, Lessico critico decameroniano, Torino, Bollati Borlinghieri, 1995, p. 378.
175 Da notare qui il ritorno alla nozione di "parola salvifica", che ricorre nella cornice e in moltissime novelle del Decameron. Si pensi, a esempio al motivo sul quale sono svolte tutte le novelle della sesta giornata, ossia la «pronta risposta» che permette ai protagonisti di salvarsi.
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malevola,176 morendo l'uno ucciso con l'inganno da Trasillo per il possesso di Carite
stessa, l'altra dandosi la morte per evitare di finire in moglie all'assassino. Antioco,
allo stesso modo unico "padrone" che non abbia desiderato Alatiel o ucciso per lei,
muore a causa di una malattia.
Entrambi non possiedono armi per difendersi dagli uomini, che invece sono in
possesso delle armi vere e proprie, ma anche di quelle figurate (il «san Cresci in
man» e il linguaggio, per intenderci). L'unica loro possibilità è quella di adattarsi alla
situazione in cui involontariamente si trovano, la ragazza straniera soddisfacendo con
una misura più o meno grande di volontà, l'asino attraverso i comportamenti
animaleschi (la fuga in corsa e gli zoccoli).
La sola differenza tra i due protagonisti risiede probabilmente nel fatto che,
mentre è per il desiderio di possedere Alatiel che gli uomini soccombono, non è per
avere in proprietà l'asino che nelle Metamorfosi coloro che in seguito diventano
padroni di quest'ultimo subiscono quasi sempre un tragico destino.
Come abbiamo accennato prima, per quanto rimanga nel corso di tutta la novella
un oggetto di possesso (in quanto passa continuamente da un possessore all'altro),
ella non è assolutamente un oggetto sessuale, poiché decide consapevolmente di
appagare i piaceri maschili, scegliendo la «passiva accettazione», così come la
chiamò Bàrberi Squarotti,177 e l'indifferenza verso gli orrendi crimini che venivano
effettuati dinnanzi (o addirittura di fianco nel letto).178 Il suo linguaggio è fatto di
lacrime e bellezza, mentre quello degli uomini di parole, tradimenti e omicidi, ma per
lei l'unica via, l'unico campo in cui possa effettivamente cessare di essere oggetto,
non soltanto di salvezza, sembra quella irrinunciabile del sesso, per cui le parole non
servono, e dell'essere amante.179
Il fatto che ella sia muta sia nei confronti di coloro che le parlano in lingue
differenti dalla sua, che nonostante non siano compresi utilizzano l'arte oratoria, così
176 Ricorre ancora la contrapposizione tra Natura e Fortuna.177 Giorgio Bàrberi Squarotti, L'orazione di Alatiel, in Id., Il potere della parola. Studi sul
Decameron, Napoli, Federico & Ardia, 1983, p. 72.178 Al contrario di quanto sostiene Porcelli, che le attribuisce sì «un'animalesca e quasi irriflessiva
capacità di adattamento», ma in quanto essa la rende passiva, rimessa e soggiacente «agli uomini sessualmente, o intellettualmente quando ne accetta e mette in pratica il consiglio (con Antigono)».Cfr Bruno Porcelli, Alatiel e i dieci padroni, in «Studi sul Boccaccio», XXVI, 1988, p. 179-186.
179 Cfr anche Francesco Bruni, Boccaccio. L'invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 266-267.
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com'è nelle loro abitudini, pur di possederla, sia con coloro che si esprimono nella
sua lingua (Panfilo riporta infatti solo le voci degli ultimi due amanti, ma non le
risposte di Alatiel), sembra contribuire ancora maggiormente al fascino che ella
esercita sugli uomini e sui lettori. Le uniche tre volte nelle quali la protagonista
prende parola, e lo fa soltanto con coloro che non la possiedono, vediamo
esplicitamente quale sia il suo potere e come la sua situazione muti repentinamente.
Nel primo caso (§ 24) ella ordina alle proprie ancelle di non rivelare la propria
identità e di conservare la propria castità, contrariamente a quanto lei stessa si
propone di fare, ma guardandosi bene dal confidare loro i propri propositi di
concedersi a Pericone, e anzi affermando la propria fedeltà al marito. Nel secondo
caso (§ 92-100) ella si rende riconoscibile agli occhi di Antigono, facendo sì che
questi la riconduca a casa. Nel terzo caso (§ 106-118), infine, ella compie la lunga e
celebre orazione innanzi al padre, intessendo il racconto che le permette di ribaltare
la propria fortuna.
È il conflitto tra il vivere degli uomini in cerca di ricchezze e potere e il semplice
esistere delle donne, che devono necessariamente farsi oggetti, adattarsi alle
decisioni altrui (il padre decide quando e con chi Alatiel si debba sposare, così come
gli uomini che ella incontra decidono con chi e dove ella debba andare e come debba
vivere) in questo mondo dove il sesso e il possesso, congiunti, sembrano essere i soli
valori esistenti; proprio per questa capacità di adattamento, però, le donne riescono,
aldilà della Fortuna che le ha rese schiave,180 a risultare infine vincitrici e ha trionfare
su di essa dapprima semplicemente sopravvivendo agli uomini meschini, poi
prendendo ruolo attivo e riconquistando la propria virtù, in parte aiutate da quella
sorte che gli uomini, così prepotenti e avidi, non hanno il potere di prevedere e che il
più delle volte va in senso opposto rispetto alle loro ambizioni. È il conflitto tra l'eros
femminile e l'himeros maschile, tra gli uomini per cui Alatiel è un semplice oggetto e
la ragazza che riesce, prima di giungere al desiderato matrimonio finale, a entrare per
ben nove volte nella condizione matrimoniale.181
180 Così come del resto l'autore enuncia nel Proemio generale (§ 13).181 In parte questa potrebbe essere una risoluzione delle molte ipotesi sulla contraddizione numerica
tra il «nove» di cui ci informa la rubrica e l'«otto» che compare nel finale: i nove uomini considerati amanti dall'eros femminile contro gli otto che si sono da sé considerati amanti a causa del proprio himeros.
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Il conflitto si conclude a favore della donna che, seppur con un minore numero di
mezzi per contrasto agli uomini, riesce a rinnovarsi e a rendersi agli occhi dei
supersiti inconsapevoli della sua avventura un modello di castità e purezza, come
d'altronde recita il proverbio finale di Panfilo:
Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna.182
Mentre infatti l'atto sessuale può essere consumato un numero illimitato di volte
senza implicare nulla per le donne (e permettendo loro di "rinnovarsi" al pari della
luna, simbolo tipicamente femminile), per gli uomini è fatale, dal momento in cui
esso significa perdere la vita o il possesso della donna attraverso tradimenti,
fratricidi, omicidi e guerre.
Alatiel non è, quindi, soltanto un oggetto completamente passivo, così come del
resto non lo è nemmeno Lucio: li credono tali i padroni che li posseggono, ma il
racconto ci svela (nel caso della novella di Panfilo più implicitamente) come in realtà
entrambi in qualche modo mutano la propria sorte. Abbiamo già accennato al caso
del vino, che Alatiel decide di bere nonostante la sua religione lo vieterebbe, e al
momento in cui ella si spoglia davanti a Pericon ben consapevole delle intenzioni di
quest'ultimo: siccome per fare l'amore le parole non servono e poiché tutti gli uomini
possiedono «il santo cresci in man», ella si concede immancabilmente agli amanti
che se la contendono, tutti meschini, assassini o addirittura fratricidi.
Ella è sicuramente uno dei personaggi più analizzati dalla critica letteraria sul
Decameron, così come lo è tutta la novella (la struttura, il significato), con risultati e
ipotesi a volte totalmente discordanti tra loro: se Hauvette la descrive come
«l'immage pitoyable de la fragilité féminine, répresentée par une âme droite et pure,
soucieuse de sa réputation, altérée de bonheur paisible et de fidélité conjugale mais
qui, tout en pleurant, s'abandonne à ses conquérants, parce que, au fond, elle aime
l'amour»,183 Bosco la definisce come «un personaggio farsesco», contraddittorio e
che si fa beffe del «credulo padre»,184 per altri ancora ella arriva a rappresentare in
tutto e per tutto un eroe che, o grazie alla propria «naturale sensualità» (Baratto), o
per il suo essere «superiore moralmente», o ancora dal «carattere così temprato da
182 Dec., II, 7, § 122, p. 430.183 Henri Hauvette, Boccace. Étude biographique et littéraire, Paris, 1914, pp. 264-265.184 Umberto Bosco, Il «Decameron». Saggio. Rieti, Bibliotheca, 1920. pp. 95-97.
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reggere col coraggio che sarà necessario a qualsiasi duello con la sorte: disposta al
peggio, ma decisa anche a godersi il meglio».185 In ogni caso potremmo concludere
questo dibattito con quanto scrive Mazzacurati:
Sarà forse per quell'inedito ruolo di persona-oggetto che assume Alatiel, reificata
dal silenzio e dalla stereotipata reattività psicologica con cui subisce e provoca gli
assalti dei sensi e delle passioni, sarà per una serie di scarti e di scompensi che
sembra di poter rilevare, tra lo spazio contestuale (la giornata stessa) in cui la
novella si colloca e la sua organizzazione interna [...], fatto è che quanto più ci si
addentra nell'area del racconto, tanto più sfuggente ed enigmatica si fa la fisionomia
e il senso della protagonista.186
La protagonista di questa novella riesce dunque non soltanto a sopravvivere a
guerre, assassini e omicidi intorno a lei187 e giungere al matrimonio con il re del
Garbo, ma perfino a far credere, e quindi a conservare, la propria verginità, pur
avendo già sperimentato con ben otto uomini il matrimonio. La «magia della
parola»,188 come la chiamò Bàrberi Squarotti, ha il potere di ripristinare la verginità
della ragazza dopo che ella è giaciuta con ben nove uomini, quasi che la parola
sostituisse l'intervento divino che si trovava invece nelle agiografie e che proteggeva
la vergine: come lo stesso Bàrberi Squarotti notò, infatti, l'orazione finale di Alatiel
dinnanzi al ritrovato padre contiene degli elementi di ricorso alla fraseologia
cristiana. Così la parola ha il potere di creare una sequenza di ciò che è accaduto
185 Carlo Muscetta, Giovanni Boccaccio e i novellieri, in E. Cecchi e N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, vol. II, Milano, Garzanti, 1965, p. 384.
186 Giancarlo Mazzacurati, Alatiel ovvero gli alibi del desiderio, in Id., Forma e ideologia, Napoli, Liguori, 1974, p. 28.
187 Con uno schema fisso e ripetitivo, come nota Segre: A s'impossessa di Alatiel, ne diventa amante e muore per opera di B; B s'impossessa di Alatiel, ne diventa amante e muore per opera di C (così via).Cfr. Cesare Segre, La novella di Alatiel, in Id., Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974, p. 150 sgg.Simile è anche lo schema che attua Picone, pur con qualche differenza di contenuto, che vede la novella suddivisa in tre macrosequenze: l'antefatto (Alatiel parte sulla nave, allontanandosi dal padre, per recarsi dal promesso sposo), il fatto (l'avvicendamento degli amanti mediante schema fisso, incontra infine Antigono, che la consola definitivamente e la riporta presso il padre, dove ella si reinventa attraverso il racconto) e il postfatto (Alatiel va in sposa al re del Garbo).Cfr., Michelangelo Picone, Il romanzo di Alatiel, in Id. Boccaccio e la codificazione della novella, cit., pp. 141-143.A questo schema è anche riconducibile quello descritto da Mazzacurati, secondo cui dalla «peripezia comica» vi è un transito all'ubris, attraverso un «procedimento comico» circolare che «è quasi ovunque rigorosamente rispettato». Cfr. Mazzacurati, Giancarlo, Alatiel ovvero gli alibi del desiderio, cit., pp. 25-26.
188 Giorgio Bàrberi Squarotti, L'orazione di Alatiel, cit., pp. 64-96.
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completamente nuova, pur rimanendo veritiera e, anzi, adattabile alla realtà dei fatti
(si veda, ad esempio, la menzione del San Cresci venerato dalle donne del paese nel
discorso finale di Alatiel): essa annulla completamente tutto ciò che si è verificato
prima dell'incontro con Antigono e ripristina miracolosamente la verginità della
ragazza.
Al contrario dell'eroina cristiana Zinevra, che riesce a parlare, capire e
trasformarsi anche al di fuori del proprio mondo, nella terra del sultano, poiché
«ottimamente la lingua conosceva»,189 Alatiel rimane muta e non riesce a capire
lingue e mondi differenti dai propri,190 attuando il silenzio, «l'assenza di parola»,191
come strategia di sopravvivenza.
Anche Alatiel è una eroina capace infine di soggiogare il mondo, e il suo eroismo
si verifica soprattutto e forse soltanto quando ella assume una posizione attiva
all'interno del racconto. Panfilo dimostra per lei una viva simpatia, come dimostra
del resto la spia linguistica che ricorre sia ironicamente nel racconto del Narratore,
quando per spiegare il modo in cui uno degli amanti, Marato, la consola «col santo
cresci in man che Dio ci dié»192 (§ 37), sia nell'orazione della pulcella che spiega
come nel monastero in cui è rimasta custodita durante i quattro anni trascorsi lontana
da casa, insieme con le sue consorelle, invocasse un «san Cresci in Valcava a cui le
femine di quel paese voglion molto bene» (§ 109), che concorrerebbero a confermare
il primato dell'amore come fatto fisico e naturale, a cui si aggiungono i numerosi
sospiri delle donne della brigata mentre seguono il racconto. Ella smette di essere
oggetto di possesso con nefande conseguenze per i propri padroni soltanto nel
momento in cui ha la possibilità di proferire parola, ma senza che questo le faccia
perdere la possibilità di avere un marito.
Alatiel esce dalla spirale omicida dei suoi amanti, che, sebbene l'abbia riguardata,
non l'ha mai propriamente coinvolta, nel momento in cui essa scende dal livello alto
e tragico di uomini ricchi e gentili, ardenti di passione, a quello basso e comico di
uomini appartenenti al ceto medio-borghese, sicuramente meno ardenti seppure
189 Dec., II, 9, § 46, p. 470.190 Cfr Il confronto tra le novelle che attua il Bruni. Francesco Bruni, op. cit., pp. 268-271.191 Giorgio Bàrberi Squarotti, La vergine Alatiel, in Id. Metamorfosi della novella, Foggia, Bastogi,
1985, p. 14.192 Altro caso di allusione ironica al fallo.
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benevoli (Antioco e il mercante al quale quest'ultimo la affida in eredità, ribadendo
perciò ancora una volta il fatto che ella sia un oggetto). In una esemplificazione
pratica del quadro che Boccaccio presentava nel Proemio, con gli uomini tutti dediti
alle dinamiche attività di commerci, cacce e viaggi e le donne costrette nell'ambiente
domestico a compiere lavori statici, qui vediamo una donna che non agisce, posta a
confronto con uomini dediti all'azione commerciale e criminale.
Questa uscita è attuata attraverso il riconoscimento, che a sua volta è costruito
attraverso il racconto delle proprie disavventure ad Antigono: nel momento in cui
finalmente qualcuno la riconosce come Alatiel, figlia del sultano di Babilonia e
promessa sposa del re del Garbo, le disavventure della ragazza cessano, insieme con
le sue avventure e i suoi amori sessuali, ella smette di essere arresa alla sorte e «de
sua Fortuna triumphat», proprio come Lucio, nel momento in cui il sacerdote, per
ispirazione divina, lo riconosce come il futuro iniziato al culto di Iside funestato da
mille pericoli e disavventure.
Alatiel, Lucio e Zinevra, riacquisendo la propria identità, trovano finalmente la
felicità.
73
III: Psiche e le eroine del Decameron
III.1: La decima giornata e la novella di Griselda
Nelle ultime quattro novelle della seconda giornata si assiste a una apertura
generale che diventerà persistente e si accentuerà nel corso dell'opera, fino ad
arrivare alla sublimazione nella decima novella della decima giornata. L'apertura è,
come abbiamo già detto, innanzitutto una apertura di luoghi, in quanto molte novelle
(specialmente le ultime della seconda giornata) hanno per base il tema del viaggio,
sul quale poi si innestano le trame. Ma a partire da questo momento anche la
psicologia dei personaggi e i loro comportamenti divengono ampi e più profondi a
livello morale. Questo aspetto si accentuerà nella quarta giornata e poi,
maggiormente nella decima, nella quale la problematica della virtù assume
evidentemente una forma più obiettiva nella trattazione che ne fanno i narratori.
Se Firenze e la Toscana rimangono comunque il centro della geografia
decameroniana, gli altri luoghi d'Italia, seppure posti ai margini, diventano centri
fiabeschi di alcune novelle dell'opera. È il caso, tra gli altri, del Piemonte, in cui è
ambientata la decima novella della decima giornata, in cui si narra l'epopea di
Griselda. Vediamone brevemente la trama.
Gualtieri, marchese di Saluzzo è convinto dai propri uomini a prendere moglie e
la sua scelta ricade su Griselda, una ragazza povera dedita alla vita di campagna e
alla cura del proprio padre Giannucole. Il giovane marchese si reca allora a casa della
ragazza per chiedere la sua mano e, fattale compiere la promessa di rimanergli
sempre fedele e di assecondarlo sempre, la sposa con grandi festeggiamenti, per poi
condurla con sé nel castello, dove la giovane, già di belle fattezze, si mostra anche
adatta alla nobiltà e riesce a conquistare il benvolere dei sudditi.
Dopo poco tempo Griselda dà alla luce la loro primogenita, ma dopo la grande
festa per questa nascita Gualtieri, turbato d'improvviso, mente alla moglie dicendole
che i sudditi sono scontenti per la sua bassa estrazione sociale e che maggiormente li
turba questa nuova nascita. Griselda, rimasta impassibile alle critiche del marito, si
dimostra paziente e sottomessa a lui, ribadendogli la propria fedeltà. Non contento, il
marchese ordina a un proprio familiare di prelevare la bambina, facendo credere alla
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donna che l'avrebbe uccisa per volontà dei sudditi, ma inviandola invece a Bologna
presso una parente che la avrebbe accudita con cura, in segreto.
Griselda partorisce una seconda volta di lì a sei anni un neonato, ma Gualtieri,
ancora titubante, per testare con una nuova prova la fedeltà assoluta della moglie,
comanda ancora di prelevare il bambino e lo destina alla medesima sorte della
primogenita, mentre la donna, sempre paziente e rispettosa degli ordini del marito,
accetta, provocando la compassione dei sudditi nei propri confronti.
Dopo alcuni anni Gualtieri, ancora una volta agitato da turpi pensieri, decide di
sottoporre la moglie a una ennesima prova: le comanda davanti ai sudditi attoniti e
dispiaciuti di tornare alla casa del padre, affermando di avere scelto un'altra donna
come moglie. Griselda, benché sofferente, accetta anche questa prova per amore del
marito, e con una sola camicia indosso, scalza, ritorna alla casa del padre, dove, «con
fiero animo sostenendo il fiero assalto della nemica fortuna»,193 riprende la vita dalla
quale il matrimonio l'aveva distolta.
Non passa molto tempo, però, che Gualtieri la richiami al castello, chiedendole di
allestire tutte le stanze e di preparare la festa per le imminenti nozze: Griselda
accetta, a malincuore. Arrivato il giorno della cerimonia, la donna riceve con viso
benevolo gli ospiti, mentre Gualtieri fa sì che da Bologna arrivino i due figli, che
ormai hanno dodici e sei anni e che tutti credano che la ragazza sia la novella sposa.
Griselda, vestita per volere del marito in modo povero e non adatto ad una cerimonia,
riceve la nuova sposa e il suo fratellino in modo accogliente, e i sudditi si rallegrano
della nuova scelta di Gualtieri.
L'uomo, volendo ancora aggiungere del carico al già enorme peso di Griselda, le
domanda dinnanzi a tutti come le paia la nuova sposa: lei risponde con benevolenza
verso la ragazza, ma prega il marito di non sottoporre la nuova moglie a prove come
egli aveva fatto con la moglie precedente.
Finalmente sicuro della mai venuta meno fedeltà di Griselda, Gualtieri le svela il
«frutto» della sua «lunga pazienza», riscattandosi agli occhi dei sudditi: le sue
intenzioni sono da sempre state quelle di insegnare a lei a essere moglie, agli altri a
saper tenere una moglie e infine a se stesso di riuscire a vivere in tranquillità e senza
193 Dec., X, 10, § 48, p. 1643.
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l'animo turbato. Infine le restituisce i due figli e le si offre nuovamente come marito,
con grande giubilo di tutti i presenti.
Il personaggio di Griselda potrebbe essere inserito a pieno titolo tra le donne della
seconda giornata:194 ella è pienamente assimilabile, ad esempio, a Zinevra per come
attraverso la sua immensa pazienza e umiltà riesce infine a riconquistare la
condizione di moglie e madre egregia. Queste tre donne esercitano però il proprio
essere eroine in tre modi differenti: mentre Zinevra è in tutto e per tutto attiva e
giunge, sia letteralmente sia metaforicamente a vestirsi delle doti tipiche maschili
(prima tra tutte l'energica iniziativa, per la quale ella, da moglie di mercante,
«s'acconciò per servidore»,195 ma anche il perfetto uso della lingua che ella
«ottimamente sapeva»196), Alatiel rimane a metà tra attività e passività, in quanto la
sua docilità è funzionale soltanto alla soddisfazione del proprio piacere e di quello
altrui, Griselda è infine costante nella propria passività e subisce prove e tormenti
che vanno «oltre alla natura delle femmine».197
Anche un confronto tra Griselda e Lucio non è difficile da attuare, dal momento in
cui entrambi umilmente si prostrano dinnanzi a coloro che potrebbero salvarli e ne
ottengono infine la grazia: Gualtieri da una parte, marchese potente (come suggerisce
la delibera papale affinché egli possa sposarsi una seconda volta), la dea Iside
dall'altra, personificazione di ogni divinità esistente nella cultura greco-romana, che
appare a Lucio-asino dopo che questi per purificarsi ha immerso per sette volte il
capo nel mare e l'ha invocata con la lunga orazione (Met., XI, 1-2).
La decima giornata ha per tema le azioni liberali o magnifiche, un tema
impegnativo poiché la magnificenza è la massima virtù del codice cortese e a essa
devono far capo tutti i potenti e i ricchi. Paradossalmente Gualtieri, ricco e potente,
non si attiene a questo codice: egli dona infatti la grazia finale a Griselda, ma solo in
virtù di quanto le ha tolto e perché tutte le sventure della donna sono state causate da
lui stesso, che la ha sottoposta a prove durissime e ingiustificate, che egli invece
giustifica col fatto di voler mettere alla prova la sua innocenza e la sua fedeltà, anche
194 Per un confronto tra Griselda, Alatiel e Zinevra, cfr. Francesco Bruni, L'invenzione della letteratura mezzana, cit., pp. 271-273.
195 Dec., II, 9, § 43, p. 469.196 Ibidem, § 46, p. 470. 197 Dec, X, 10, § 44, 1641.
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una volta che le ha già sperimentate.198 Vengono così accentuati da una parte il
sadismo dell'uomo, dall'altra la fragilità della donna, che non possiede quindi né le
risorse fisiche né quelle economiche, pur essendo ricca in fatto di virtù sublimi quali
la costanza o la pazienza.
La giornata funge da culmine all'opera, disposta secondo una «logica più
freddamente gerarchica, per la quale le novelle decameroniane, [...], aderiscono a un
movimento ascensionale, d'innalzamento verso l'assoluta rarefazione degli affetti»,199
che indurrebbe anche i novellatori dell'onesta brigata a voler imitare il contenuto
delle novelle di questa giornata, come peraltro suggerisce la Conclusione della nona
giornata:
Queste cose e dicendo e faccendo senza alcun dubbio gli animi vostri
ben disposti a valorosamente adoperare accenderà; che la vita nostra,
che altro che brieve esser non può nel mortal corpo, si perpetuerà nella
laudevole fama.200
Questo concetto verrà inoltre ripreso nell'Introduzione della giornata successiva,
dove i novellieri si cimentano in una sorta di gara di eccellenza tra le azioni da loro
raccontate, che si pongono sia nel campo propriamente sociale (o politico, come nel
caso della quarta e della quinta novella), sia in quello delle azioni d'amore. Anche
qualora si tratti di uno sfondo privato (come quello della decima novella), la
magnificenza è una virtù destinata ad avere risvolti sul piano politico e sociale.
Inoltre in questa giornata le introduzioni e le conclusioni dei narratori si pongono
su un piano doppiamente discorsivo, comprendendo anche espliciti commenti sul
significato e la straordinarietà delle vicende che stanno per narrare o hanno narrato,
sintomo della particolare tensione ideologica onnipresente. A concorrere qui non è
più solamente il piacere della narrazione, ma l'intento profondo da parte dei narratori
di tradurre il narrato in modelli di comportamento per loro stessi, di tradurre cioè la
narrazione in vita.
Liberalità e magnificenza sono due virtù esplicabili solo su un piano asimmetrico
198 Questo è il tema del libro biblico di Giobbe, tipico delle agiografie del tempo, come accenna Bàrberi Squarotti, che assimila l'epopea di Griselda alle storie di Santa Uliva e Santa Genoveffa. Cfr. Giorgio Bàrberi Squarotti, L'ambigua sociologia di Griselda, in Id. Il potere della parola, cit., pp. 193 sgg.
199Achille Tartaro, La prosa narrativa antica, cit., p. 661.200 Dec., Conclusione IX, § 5, p. 1462.
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tra chi dona ed è in grado di farlo (re, ecclesiastici potenti e uomini di governo) e
colui che è beneficiario del dono (cavalieri e uomini comuni, talora in condizioni
economiche disagiate): in questo senso la vicenda di Gualtieri e Griselda, presentata
da Dioneo come contro-esempio della giornata,201 reca in sé l'espressione
dell'esercizio della sovranità, al quale viene ascritta l'incapacità di Gualtieri di
comprendere il valore della propria moglie senza abusare del proprio potere; la storia
di Griselda è basata sul motivo del superamento delle prove e sul confronto tra le
virtù dei due coniugi.
Il confronto tra i coniugi viene sottoposto al giudizio del pubblico, non solo quello
in cornice o quello reale, ma anche quello fisicamente presente all'interno della
novella: lo sfondo della storia è infatti corale e la collettività (i sudditi di Gualtieri) si
esprime nella forma del biasimo per Gualtieri e della compassione per Griselda, che
permangono anche aldilà del lieto fine (entrambi i personaggi vengono reputati
savissimi, ma il marito resta comunque colui che ha peccato nella misura, mentre la
moglie viene innalzata a modello di mitezza e mansuetudine).
Scandiscono inoltre le varie sequenze di ottenimento-perdita-riconquista dei beni
le vesti, parti di un preciso simbolismo dell'ideologia sociale che accompagna l'intera
novella e si rivela essere essenziale per il contesto feudale in cui essa è inserita, a
partire proprio dall'importanza che aveva il rito della vestizione nella tradizione
narrativa cortese in lingua d'oȉl e soprattutto dell'assunto della camicia quale simbolo
della verginità della donna ripudiata.202
La novella è posta a suggello dell'intero Decameron, e aiuta a circoscrivere l'opera
come ars amandi, in quanto connessa con il Proemio, nel quale l'autore si pone come
amico e magister Amoris delle donne attraverso il proprio libro, che funge da
intermediario.203
201 «vo' ragionar d'un marchese, non cosa magnifica ma una matta bestialità». Dec., X, 10, § 3, p. 1629.
202 Cfr. Michelangelo Picone, Boccaccio e la codificazione della novella, cit., pp. 356-358. 203 Sotto questo aspetto il Libro si riallaccerebbe al De Amore di Andrea Cappellano, denominato
anche Libro di Gualtieri, che proprio come il Decameron è un testo letterariamente onnivoro e concepito con la funzione dottrinale e didattica di ammaestrare in materia amorosa. Dal De Amore è tratta inoltre la metafora delle catene utilizzata da Gualtieri nel momento in cui, convinto dai propri sudditi, decide di prendere moglie.Cfr. Beatrice Barbellini Amidei, La novella di Gualtieri e il Libro di Gualtieri, in «Filologia e Critica», XXX, 2005, pp. 3-33.
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Essa è stata da sempre ritenuta, come molte altre del Decameron, di difficile
interpretazione, enigmatica e ambigua, sebbene essa sia evidentemente fondamentale
per l'interpretazione generale dell'opera. Vi è presente una indubbia critica nei
confronti del sorpassato codice dell'amor cortese, insita soprattutto nel commento di
Dioneo, che biasima non soltanto la «matta bestialità» di Gualtieri, ma anche la cieca
e passiva obbedienza della protagonista ai capricci del marito che le infligge punture
via via più difficili da sopportare.
La figura di Griselda è stata più volte assunta come modello di suprema fedeltà
muliebre e riassumerebbe in sé tratti del Giobbe biblico, della figura della Vergine e
addirittura di Cristo, ma anche, secondo Barbellini Amidei,204 caratteristiche
dell'apparizione di Beatrice nella Vita Nuova ("Tanto gentile..").205 Inoltre, grazie
proprio alla novella di Griselda, il Decameron viene accostato alla gerarchia
ascensionale della Commedia dantesca, in cui nel finale troviamo quella forma di
sublime che ci permette di accostare l'eroina decameroniana alla Vergine che appare
a Dante nel Paradiso.206
Come fa notare Caruso,207 l'importanza del comportamento di Griselda è insita
soprattutto nell'insistenza del Boccaccio sul viso della donna: si vedano espressioni
quali senza mutar viso (§ 28) o «della qual cosa la donna né altro viso né altre parole
fece» (§ 37), o ancora «così con fermo viso si dispose a questa dover sostenere» (§
41) e infine «tutte le donne che [alle nozze] vennero, con lieto viso ricevette» (§ 53),
sublimate tutte nella dichiarazione finale di Dioneo.
Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso non solamente asciutto
ma lieto sofferir le rigide e mai più non udite prove da Gualtier
fatte?208
Questa passiva accettazione mette in opposizione Griselda con una eroina quale
Ghismonda che
204 Ibidem, p. 17.205 Sul paragone con Maria cfr. Vittore Branca, Decameron, op. cit., pp. 867 sgg, su quello con Cristo
cfr. Marge Cottino-Jones, Realtà e mito in Griselda, in «Problemi», num. 11-12, 1968, pp. 522-523 e (di nuovo con Maria), Id., Fabula vs. figura. Another interpretation of the Griselda Story, in «Italica», L, 1973, pp. 38-52.
206 Cfr. Michelangelo Picone, L'exemplum sublime di Griselda, in Id. Boccaccio e la codificazione della novella, cit., pp. 335-360.
207 Francesco Caruso, Griselda «piena di grazia», in «Filologia e critica», XXXII, 1, 2007.208 Dec., X, 10, § 68, p.1649.
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con forte viso la coppa prese; e quella scoperchiata, come il cuore vide
e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di
Guiscardo; per che levato il viso verso il famigliar disse: «Non si
convenia sepoltura men degna che d'oro a così fatto cuore chente
questo è: discretamente in ciò ha il mio padre adoperato».209
La qual scena mostra una stretta corrispondenza linguistica e drammatica proprio
con la scena del dialogo tra Griselda e il familiare di Gualtieri venuto a prelevare la
figlia di lei.
È proprio la sua costante resistenza passiva alle prove che Gualtieri le infligge a
renderla degna della sua magnificenza. La donna, che sopporta le punture del
crudele marito «oltre la natura delle femine», riottiene così nuovamente i benefici
donati inizialmente dal marito, benefici ai quali lei è in qualunque momento disposta
a rinunciare e dei quali avverte la straordinarietà, come dimostrano le parole che
rivolge a Gualtieri dinnanzi alla prospettiva del ripudio:
Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra
nobiltà in alcun modo non convenirsi, e quello che io stata son con voi
da Dio e da voi il riconoscea, né mai, come donatolmi, mio il feci o
tenni ma sempre l'ebbi come prestatomi; piacervi di rivolerlo, e a me
dee piacere e piace di renderlovi.210
La posizione che Griselda occupa nella struttura macrotestuale dell'opera è in tutto
e per tutto parte del programma autoriale che vi è sviluppato: da un ser Ciappelletto-
Giuda a una Griselda-Maria, la cui novella, sovvertendola, conferma la regola della
giornata. In essa viene ribadita e innalzata alla sua più alta forma, infatti, la tematica
della salvaguardia a ogni costo del legame coniugale.
Se inoltre, dall'affermazione iniziale di Dioneo, a essere narrata sarebbe la «matta
bestialità» di Gualtieri piuttosto che la patientia di Griselda, è indubbio che il
personaggio maschile si ponga in parallelo alla figura di ser Ciappelletto, che «è
l'espressione del negativo nella civiltà borghese», mentre Gualtieri «è espressione di
ciò che vi è di negativo e irrecuperabile nella civiltà feudale».211
Importante è infine come, anche in questa novella, la Fortuna assuma un posto di
209 Dec., IV, 1, § 49, p. 711.210 Dec., X, 10, § 44, p. 1641.211 Luigi Surdich, La cornice di Amore. Studi sul Boccaccio, Pisa, Ets Editrice, 1987, p. 282.
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assoluto rilievo: se è vero infatti che «il Decameron tende a proporsi quasi in tutta la
sua estensione come il mondo della casualità»,212 non manca nemmeno qui
l'affermazione del forte peso che la sorte ha sulle vicende umane. Le azioni di
Gualtieri non vengono infatti ascritte a lui, ma alle «ingiurie della fortuna» o al
«fiero assalto della nimica fortuna», al quale la donna reagisce con forte animo per
riuscire infine a conquistare il proprio lieto fine, al pari delle eroine della seconda
giornata.
La riflessione sulla virtù è insita soprattutto nella dicotomia tra il desiderio di virtù
da parte dell'uomo e i suoi appetiti sessuali e le sue esigenze in quanto individuo
all'interno di una società, ma anche nella disposizione su poli opposti tra i limiti
dell'intelligenza umana da una parte e quelli della sensibilità dall'altra.
La virtù è analizzata attraverso il suo esplicitarsi nei confronti della Fortuna e
dell'Amore, che come abbiamo visto sono entrambi temi cardini del Decameron,
mentre nelle Metamorfosi l'influsso sicuramente più preponderante a livello
narrativo è dato principalmente dalla Fortuna, anche se non mancano esempi
sull'amore (Lucio e Fotide, Carite e Tlepolemo e gli adulteri).
Vorremmo qui soffermarci sulla trattazione dell'Amore spirituale e puro nelle due
opere e sull'elaborazione che i due autori compiono sul tema. Questo lato del
sentimento, che nel primo capitolo avevamo denominato eros, contrapponendolo
all'himeros (concupiscenza), è sicuramente presente in maniera minore nel
Decameron, almeno sul piano della narrazione delle novelle, mentre nelle
Metamorfosi ne troviamo due esempi, quello di Carite e Tlepolemo e quello
rappresentato dal castone della fabella di Amore e Psiche. Meno presente dunque, ma
più ponderante sul senso delle opere e sulla loro interpretazione.
Nella cultura del Trecento la tematica amorosa era centrale, basti pensare alla
rielaborazione del codice cortese nelle opere in lingua d'oȉl e a quella parallela del
Dolce Stilnovo. L'appartenenza del Decameron al filone dell'amore cortese è forte, a
partire dalla menzione dell'«altissimo e nobile amore»213 di cui l'animo dell'autore è
acceso, per arrivare a un riferimento esplicito attraverso la menzione del «buono e
212 Achille Tartaro, La prosa narrativa antica, cit., p. 662.213 Proemio, § 3, p. 128.
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perfetto amore»,214 ed è continuamente confermata attraverso la caratterizzazione
delle donne (vaghe, dilicate, oneste, gentili, laudevoli).
L'Amore si pone dunque come tema cardine e come motore di molte novelle, oltre
che come produttore di codici linguistici specifici all'interno dell'opera (perifrasi e
metodi di comunicazione veri e propri), con effetti talvolta afrodisiaci.215 Esso viene
allora a opporsi con la virtù e l'intelligenza dell'uomo, in quanto quest'ultimo, nel
desiderio per la donna, ne coglie soltanto la bellezza naturale, separandola dal resto
della sua personalità e della sua sostanza vitale.
La dicotomia è proposta in letteratura fin dagli antichi romanzi greci, con i quali
sia l'opera di Apuleio sia quella del Boccaccio condividono elementi strutturali e
narrativi. Il romanzo greco si vale infatti di una sequenza di elementi narrativi
ripetuti: l'incontro di un giovane con una fanciulla di inestimabile bellezza, il loro
distacco, le avventure (naufragi, aggressioni di briganti, carcere, tentativi di
seduzione), il ricongiungimento finale, con probabile matrimonio; l'intreccio, pur
nelle sue variabilità, è fisso e regolare: l'avventura, resa tale soprattutto dagli
accadimenti della Fortuna, e l'amore. A questi elementi se ne aggiungono altri, tra cui
l'apparente morte di uno dei due, alcune oscure predizioni e il racconto dei viaggi che
l'eroe compie su se stesso (sul modello di Odisseo). Sinteticamente si potrebbe
ricondurre il romanzo alessandrino allo schema che segue:
1. Promessa di matrimonio;
2. Traversie ritardatrici (naufragi, aggressioni, ecc., nelle quali la moralità
dell'eroe viene messa alla prova);
3. Attuazione del matrimonio.216
Come si può giudicare da questi pochi tratti, nel Decameron vi è una forte ripresa
del modello del romanzo greco, basti pensare alla novella di Alatiel (che subisce un
naufragio, è presumibilmente creduta morta dal padre, e possiede una bellezza
214 VI, 7, § 13, p. 1012.215 Per un approfondimento su questo aspetto di contrasto tra parola da una parte e silenzi e azioni
dall'altra rimando ai due seguenti saggi: Teodolinda Barolini, «Le parole son femmine e i fatti son maschi». Toward a sexual poetics of the Decameron (Decameron II 10), in «Studi sul Boccaccio», XXI, 1993, pp. 175-197; Marcus Millicent, Seduction by Silence. A Gloss on the Tales of Masetto (Decameron III, 1) and Alatiel (Decameron II, 7), in «Philological Quarterly», LVII, 1979, pp. 1-15.
216 Sull'accostamento del Decameron al romanzo greco, cfr. Stavros Deligiorgis, Boccaccio and the Greek Romances, in «Comparative Literature», XIX, 1967, 2, pp. 97-113.
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inestimabile), o a quella di Zinevra (anch'ella creduta morta dal marito) o ancora alla
novella di Griselda, che crede morti entrambi i suoi figli. In tutte e tre queste novelle
è presente infine il ricongiungimento finale, attraverso l'agnizione e il matrimonio.
Notevole è come il Boccaccio ribalti completamente il motivo della moralità
dell'eroe: Alatiel esorta infatti inizialmente le proprie ancelle a «conservare la loro
castità», affermando di serbare per sé la stessa condotta, ma poi violando più volte
(ogni volta che ne ha occasione, per la verità) la regola greca delle traversie
ritardatrici, ella si concede con tutta se stessa agli uomini, salvo che infine ella
giustifichi, esaltandolo, il proprio comportamento come ciò che le ha permesso di
salvarsi dalla morte senza infrangere la legge di coloro che la hanno ospitata
mancando al sacro dovere dell'ospitalità. Anche il cedimento della fedeltà alla morale
non sarebbe quindi sua reponsabilità dal momento che è avvenuto a questo scopo,
quello cioè di adeguarsi al peccato della Fortuna che l'ha resa «sventuratamente
bella».217
III. 2: La fabula di Amore e Psiche: tra mito e allegoria
Per quanto riguarda le Metamorfosi, possiamo ricondurle al romanzo greco
principalmente attraverso il confronto con l'illustre precedente petroniano. L'Asinus
Aureus e il Satyricon sono infatti considerati i maggiori (se non gli unici) esemplari
del genere nella letteratura latina; certa è inoltre la stretta connessione del romanzo
con la fabula Milesia, celebre soprattutto per il contenuto erotico, alla quale Apuleio
si riconduce esplicitamente nel proemio.
Il ricondursi al romanzo, sebbene questo termine non avesse l'accezione che ha
per il lettore moderno,218 permetteva inoltre una grande variabilità non solo a livello
della trama, purché questa comprendesse i temi chiave sopra citati, ma anche di toni.
Nel caso di Apuleio, ad esempio, ciò è dimostrato dai molti dibattiti in merito
all'attribuzione delle Metamorfosi all'uno o all'altro genere: si intersecano infatti la
fabula Milesia, con il suo contenuto erotico, e la propaganda religiosa e isiaca, che
217 Cfr, su questo tema: Lamberto Vaghetti, La filosofia della natura, cit., pp. 289-290.218 Il termine roman, derivato dal francese, è apparso in epoca tardo-medievale per indicare
generalmente uno scritto in lingua volgare, contenente elementi storici, leggendari e di avventura riconducibili all'ambiente feudale e cavalleresco.
83
farebbe intendere l'intera opera come una allegoria della conversione e della
iniziazione al culto egizio.
Questa seconda ipotesi doterebbe anche la fabula di Amore e Psiche di un
significato prettamente allegorico. Essa riprende in piccolo le vicende della cornice:
una vicenda erotica, che finisce a causa della curiositas, punita con la perdita da
parte dell'eroe della condizione di beatitudine; una serie di avventure e peripezie
nelle quali l'eroe soffre, concluse dall'intervento salvifico della divinità. Proprio in
questo finale andrebbe ascritto il significato allegorico, accennato già nello
stesso nome di Psiche, ribadito dall'intervento di Amore che decide spontaneamente
di intervenire a favore dell'eroina caduta.
Proprio come la novella di Griselda, anche la bella fabella di Amore e Psiche, che
occupa la parte finale del quarto libro (28-35), tutto il quinto e la buona parte del
sesto libro (1-24) delle Metamorfosi, occupa un posto di assoluta rilevanza all'interno
dell'opera. Essa è raccontata dalla vecchia custode dell'antro dei briganti al fine di
consolare Carite prigioniera dal dolore per la perdita della sua vita precedente e in
particolare del matrimonio con Tlepolemo di conseguenza al rapimento (il medesimo
intento consolatorio che ricorre come scopo autoriale nel Decameron).
Psiche, principessa dalla bellezza divina, non riesce a trovare uno sposo e allo
stesso tempo sucita l'ira di Venere, gelosa che la ragazza venga chiamata con il suo
nome. La dea furente convoca allora il figlio Amore e ordina lui di ferire la ragazza
con le sue frecce.
Nel frattempo il re, ansioso di maritare la più giovane delle sue figlie, si rivolge
all'oracolo di Apollo milesio e dal responso scopre che Psiche non è destinata a uno
sposo mortale, bensì a «nozze funeree» con un mostro furente e temuto da uomini e
dei. La fanciulla, abbandonata sulla cime di un monte, viene rapita da Zefiro che la
depone su un prato fiorito, dove ella si addormenta.
Al risveglio si incammina attraverso il bosco, dove sorge un magnifico castello le
cui porte si spalancano per lasciarla entrare. Ancelle invisibili la accompagnano, ella
fa il bagno e banchetta, poi, a letto, cade nel sonno. A notte fonda è raggiunta e
posseduta da uno sposo invisibile.
Dopo alcune notti però, Psiche, tristissima, ottiene il permesso del suo sposo di
84
poter accogliere le sorelle, a patto però che ella non dia loro ascolto quando le
chiederanno le fattezze dello sposo; le viene rivelato inoltre di essere gravida. Le
sorelle vengono così ammesse più volte come ospiti al castello e, con intenzioni
malvagie, convincono Psiche a tendere un agguato notturno allo sposo per scorgere il
suo viso. Ma la lanterna non rivela il drago mostruoso che Psiche credeva, su
insistenza delle sorelle, di trovarsi davanti, bensì Amore, il dio Amore, bellissimo e
con a fianco le frecce con le quali influisce sul mondo. Puntasi con una di esse
Psiche, in una estasi amorosa, fa cadere per errore sulla spalla di lui una goccia
dell'olio della lanterna. Amore, bruciato e dispiaciuto, fugge promettendo una
tremenda punizione per le sorelle malvagie. Psiche si vendica infatti del danno che le
hanno inflitto e, promettendo all'una e all'altra il matrimonio con Amore, le fa gettare
dalla rupe dove lei stessa era stata abbandonata. Nel frattempo Venere, saputa da un
gabbiano la verità, s'infervora con il figlio.
Psiche chiede invano, nel suo errare, l'aiuto di Cerere e Giunone, e decide di
recarsi infine presso Venere stessa, dove Amore giace ferito e rinchiuso in una stanza.
Condotta da una serva al cospetto di Venere, Psiche viene dapprima frustata, poi
sottoposta a una serie di difficilissime prove, che supera grazie all'aiuto di creature
impietosite dalla sua sorte. L'ultima prova consiste nel procurarsi la scatola
contenente la bellezza di Proserpina, direttamente dall'aldilà. Anche questa volta
aiutata, Psiche riesce nell'impresa ma, presa dalla curiosità, apre infine la scatola non
trovandovi altro che un sonno infernale, che la avvince. Amore vola allora in
soccorso della sua sposa, le deterge il sonno di dosso e lo rinchiude nella scatola.
Psiche, risvegliatasi, corre a recare la scatola a Venere, che infine perdona il proprio
figlio. Un concilio degli dèi stabilisce infine che Amore sposi Psiche e la conduca
con sé in cielo, dove avviene finalmente la festa di nozze.
La bella fabella219 è il racconto più lungo inserito all'interno del romanzo
apuleiano e, avendo una struttura chiaramente fiabesca (oltre agli altri elementi tipici,
come il conteggio dei chicchi, la ricerca di una acqua magica ecc.), costituisce il
primo esempio esplicito di fiaba nella letteratura occidentale. La struttura è infatti
quella tipica studiata dai filologi moderni:
219 È Lucio stesso a chiamarla in questo modo in Met.,VI, 25 (p. 218).
85
1. L'eroe, da una condizione iniziale stabile e tranquilla, subisce un
danno: in questo caso l'eroina perde un bene, che è il proprio sposo.
2. L'eroe deve allora affrontare una serie di prove per riconquistare ciò
che ha perso.
3. Aiutato infine da vari esseri magici, l'eroe riesce a riconquistare la
stabilità iniziale.
La fabula, però, ha anche valore filosofico-religioso, in quanto allegorizza i vari
stadi che l'anima (in greco, appunto, psychḗ) deve attraversare per purificarsi;220
questa teoria prese avvio con le trascrizioni degli autori successivi, primi tra tutti
Fulgenzio e Marziano Capella. Psiche rappresenterebbe infatti l'anima razionale che
tende verso il Dio, verso il quale deve necessariamente nutrire una fiducia nel buio, e
per il quale deve compiere una serie di prove.221
Essa viene allora a ricalcare in piccolo la storia delle Metamorphoses e l'intera
vicenda di Lucio: la conquista di un qualcosa di assolutamente superiore, ottenuta
attraverso molteplici prove e peripezie. Più specificamente, entrambe le vicende
hanno inizio con una avventura erotica, alla quale la curiositas pone fine, i due
protagonisti perdono quindi la condizione di iniziale beatitudine e debbono
affrontare molteplici e difficili prove, finché l'intervento divino non li salva.
A differenza delle tre eroine boccacciane, i due eroi apuleiani vengono salvati per
misericordia divina, non per i propri meriti (eccetto, forse, che per la loro pazienza e
la loro umiltà di fronte alla divinità) e non ottengono inoltre molto più di quanto non
avessero prima del mutamento di fortuna. Zinevra viene infatti sì riportata alla
220 Inoltre Ivan Bedini considera anche l'aspetto psicologico dell'interpretazione della fabula, sostenuto in epoca moderna e contemporanea da studiosi come Bettelheim, aderente al filone freudiano della disciplina, e Neumann, aderente invece a quello junghiano. Le due teorie (quella etica-filosofica e quella psicologica) si distinguono soprattutto per la considerazione della curiositas che porta Psiche a commettere i due tragici errori, quello di vedere in viso Amore e quello di aprire il vasetto di Proserpina: le prima teoria vede infatti questa caratteristica come un ostacolo per l'uomo nella esplorazione del profondo sé, la seconda la vede invece come un elemento fondamentale di formazione nella scoperta del mondo.Cfr Ivan Bedini, Eros e Psiche. Viaggio dell'Anima nelle terre d'Amore, Roma, Edizioni Universitarie Romane, 2007, pp. 11-18.
221 Anche il Decameron è stato analizzato come un'opera che descrive l'ascensione dell'anima alla perfezione, a partire da «il piggiore uomo che forse mai nascesse» (I, 1, § 15, p. 203), a una donna savissima e bella nell'aspetto e nell'anima, la cui onestà non viene mai messa in dubbio se non dal marito stesso. Cfr Pier Massimo Forni, Parole come fatti. La metafora realizzata e altre glosse al "Decameron", Napoli, Liguori, 2008, pp. 123-144.
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condizione di donna sposata e più ricca di prima, ma per la determinazione con cui
ha perseguito la propria causa. Altiel dal canto suo va finalmente in sposa al re del
Garbo, come se nulla o quasi fosse accaduto negli anni di lontananza da casa, grazie
alla propria orazione dinnanzi al padre. Griselda è infine riaccolta come moglie da
Gualtieri, con la possibilità di accogliere finalmente i propri figli, per la sua umiltà e
la sua pazienza nel sopportare le cattiverie del marito.
Inoltre, di Lucio Psiche possiede alcuni tratti: la curiositas che la conduce alla
rovina (ella desidera vedere il vero volto dell'Amore -che esso sia un dio o
semplicemente il proprio sposo-, così come Lucio desiderava vedere il vero volto
della magia, che costituisce il motivo primario del suo viaggio), la persecuzione da
parte della sorte, l'iniziale smarrimento nella nuova condizione e l'umiltà, essenziale
per riconquistare la condizione precedente. Entrambi, inoltre, ottengono infine più di
quanto avevano inizialmente: la vocazione divina che permette a Lucio di risiedere a
Roma iniziato ai culti egiziani e pienamente ripagato nella propria condizione di
avvocato e a Psiche di risiedere nell'Olimpo sposata con un dio.
L'inserto di questo castone mitologico all'interno delle Metamorfosi ha inizio con
la caratterizzazione della protagonista, che interpretata in chiave allegorica ci
permette di analizzare i tratti che per Apuleio dovevano essere caratteristici
dell'Anima:
Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias forma
conspicuas habuere, sed maiores quidem natu, quamvis gratissima
specie, idonee tamen celebrari posse laudibus humanis credebantur, at
vero puellae iunioris tam praecipua tam praeclara pulchritudo nec
exprimi ac ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria
poterat.222
Il carattere apologetico (e fiabesco) è presente fin dall'incipit della favola: Psiche è
una giovane nobile e divinamente bella, al punto che infatti non è possibile lodarla
con umane parole. La nobilitas,223 l'essere cioè una principessa, è ciò che prima di
qualunque altro tratto la legittima alla divinità: nel mondo greco erano infatti i nobili,
a differenza degli altri comuni mortali, ad essere maggiormente degni di entrare in
222 Met., IV, 28, p. 142.223 Dal latino nobilis, is ("noto, conosciuto") è il corradicale di nosco, is, novi, notum, ĕre
("conoscere").
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contatto con la divinità; ma in senso figurato la nobilitas sta anche a caratterizzare
l'anima, di cui Psiche è evidentemente la personificazione, come la parte più elevata
dell'uomo, ossia quella che permette lui di conoscere ed elevarsi da piano razionale e
quello divino.
La bellezza si pone allora come correlativo di questa nobiltà interiore, poiché
soltanto l'uomo virtuoso è, secondo la filosofia, colui che conosce l'anima e non è
coinvolto dalla bellezza esteriore. Questa caratteristica è la vera protagonista della
bella fabella, essendo il motore reale dell'azione in quanto causa dell'hybris, ossia
l'attribuzione di caratteri divini a chi è mortale, che suscita in ogni mito l'Ira e
l'Invidia degli dei e in particolare delle dee (si pensi ad esempio ai casi di Aracne,
Medusa ed Elena).
Bellezza mortale e allo stesso tempo divina si insinuano parimenti nella
concezione apuleiana dell'Anima, secondo la quale l'hybris non consiste in un
peccato grave e irreparabile, ma soprattutto una colpa di cui la stessa Psiche non è
responsabile. Infatti a causare l'ira di Venere non è la bellezza della ragazza in sé, ma
l'atteggiamento degli altri mortali nei confronti di quest'ultima e la conseguente idea
di non voler essere confusa con una «mortali puella»:
Multi denique civium et advenae copiosi, quos eximii spectaculi
admiratione stupidi et admoventes oribus suis dexteram primore digito
in erectum pollicem residente ut ipsam prorsus deam Venerem
religiosis adorationibus. Iamque proximas civitates et attiguas
regiones fama pervaserat deam quam caerulum profundum pelagi
peperit et ros spumantium fluctuum educavit iam numinis sui passim
tributa venia in mediis conversari populi coetibus, vel certe rursum
novo caelestium stillarum germine non maria sed terras Venerem
aliam virginali flore praeditam pullulasse.
[...]
Puellae supplicatur et in humanis vultibus deae tantae numina
placantur, et in matutino progressu virginis, victimis et epulis Veneris
absentis nomen propitiatur, iamque per plateas commeantem populi
frequentes floribus sertis et solutis adprecantur.224
224 Met., IV, 28-29, pp. 142-144.
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È interessante il particolare dell'indice e del pollice uniti sulle labbra, che
ribadisce ancora il carattere divino che gli uomini percepiscono nella bellezza di
Psiche; queste forme di venerazione daranno luogo all'ira di Venere e a tutta la
vicenda mitologica. Ma la bellezza di Psiche pone una ambigua dicotomia, dal
momento che, essendo percepita come divina, non è avvicinata e non può essere
posseduta da alcun uomo mortale che, pur essendone attratto, ne resta alienato.
Venere dal canto suo reca in sé molta più materialità e imperfezione della mortale
Psiche. Da una parte abbiamo infatti una dea invidiosa, furente e violenta, che non
esita a sottoporre a prove mortali la ragazza supplice (e per di più ospite), dall'altra
una mortale pura, colpevole soltanto di troppa bellezza e di troppa curiositas.
Proprio l'antagonismo di Venere, generato dalla colpa dell'hybris, conferisce il
carattere della favola alla storia di Psiche. Ma l'antagonista all'interno del romanzo e
della fabula poteva essere chiunque o qualunque cosa: da un altro comune mortale a
un dio, fino alla stessa Fortuna.
L'amore che si scatena dall'invidia finora incontrastata di Venere ha anch'esso
tratti del tutto particolari: Psiche ama infatti Cupido ancora prima di vederlo in volto
e di sapere chi egli sia, e lo ama al punto da congiungersi con lui dalla prima notte; il
loro amore, puramente istintivo, sfocia infatti da subito in una relazione
apparentemente soltanto fisica, poiché soltanto il dio conosce veramente la bellezza
della mortale, non viceversa.
Dal momento in cui Psiche si macchia della prima colpa reale, l'aver voluto cioè
guardare in volto un dio, infrangendo il giuramento coniugale, è costretta a una serie
di durissime prove, che supera per lo più grazie alla pietà di alcuni aiutanti (un altro
elemento fiabesco). Infatti, come già accennato in precedenza, la vera colpa di Psiche
non è la bellezza, ma la curiositas: la sua reale responsabilità non è l'hybris, che lei
d'altronde non ha mai voluto commettere, non la sua sventurata bellezza, ma
l'incapacità di fidarsi al buio del marito. Ella inoltre si salva per intervento di una
Grazia divina finale, perché altrimenti le sue forze, da sole, non sarebbero bastate a
elevarla all'Olimpo, e anzi, ella sarebbe rimasta nel sonno eterno dopo aver aperto il
vasetto con la bellezza di Proserpina, sempre mossa dal desiderio di sapere e di
conoscere.
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III. 3: Eroine a confronto
Certamente anche nella novella di Griselda sono presenti numerosi elementi
fiabeschi: ella è scelta arbitrariamente dal potente come figura principale della
vicenda, e in questa scelta già sono indicati i tratti straordinari (poverissima custode
di greggi, viene scelta come moglie dal marchese e condotta a castello in qualità di
marchesa), accetta il proprio ruolo di eroina giurando fedeltà assoluta a colui che l'ha
scelta, viene poi sottoposta a numerose prove per dimostrare la propria virtù e ne
esce infine vittoriosa.
Allo stesso modo Psiche è scelta da un potente (un dio, per giunta) e da lui elevata
al suo stesso rango, anche se non arbitrariamente ma a causa dell'invidia di Venere
che a sua volta è conseguenza della divina bellezza di Psiche. Da questa unione i due
generano perfino una erede, la Voluttà, che legittima infine le impares nuptiae e
permette alla protagonista di non perdere la propria acquistata (ma non conquistata,
come nel caso di Zinevra e Griselda) condizione.
Gli elementi fiabeschi comuni alle due novelle sono:225
1. L'allontanamento della protagonista dal conosciuto e protettivo ambiente
familiare;
2. L'incontro erotico;
3. Le molteplici prove da superare a causa di una volontà superiore;
4. Il finale salvataggio che ha i tratti di una completa gratuità sempre da parte di
una volontà superiore.
Inoltre, vi sono alcuni particolari ricorrenti in entrambe le favole: il matrimonio
come tema dominante e l'unione impari e illegittima tra i due coniugi, l'uno di
condizione più elevata, che elargisce una sorta di beneficio, di grazia, nei confronti
della fanciulla scelta, come già accennato in precedenza, a causa della propria
bellezza e ammessa a raggiungere una condizione più elevata, al pari del marito; la
richiesta da parte di lui di assoluta obbedienza e fedeltà della moglie; la separazione
dei due amanti, da una parte a causa di una colpa vera e propria (il peccato di
225 Candido definisce la novella di Griselda come una «riscrittura tematica e stilistica» della fabula di Amore e Psiche.
Cfr Igor Candido, Apuleio alla fine del Decameron. La novella di Griselda come riscrittura della «lepida fabula di Amore e Psiche», in «Filologia e Critica», XXXII, 1, 2007, pp. 3-17.
90
curiositas), dall'altra per l'intenzione di «volere con lunga esperienza e con cose
intollerabili provare la pazienzia di lei»; il finale ricongiungimento e le nozze
legittime.
Candido rileva inoltre alcune riprese testuali esplicite tra i due testi, confermate
inoltre dalle numerose chiose al testo della fabella nel manoscritto ϕ (Laur. 29, 2) che
la renderebbero il tratto di testo più postillato dal Boccaccio:226 dalla
caratterizzazione di Gualtieri, che si ricollega sia alla prima descrizione di Cupido
che Psiche fa alle proprie sorelle, sia all'apparizione del dio di fronte alla ragazza,
alla metafora delle catene, caratterizzante il tema dominante del matrimonio.
I due temi maggiormente presenti all'interno dei due testi sono le impares nuptiae
e la verginità rapita, entrambi risolti dal secondo matrimonio, che si pone quindi
come il solo e unico, dal momento che il primo non era sentito come legittimo227 e in
esso non potevano sicuramente essere considerati legittimi i figli nati.
Il tema delle prove pone ancora in comunanza le due novelle, benché nel caso di
Psiche esse siano generate da una colpa reale (aggiunta a quella non reale della
bellezza), mentre invece nel caso di Griselda esse sono inventate da Gualtieri
soltanto per la volontà di provare la fedeltà della moglie.
Le due eroine sono inoltre oggetto di pietas, Psiche da parte degli aiutanti (le
formiche, la torre, l'aquila di Zeus), Griselda da parte del popolo che di fronte alle
azioni di Gualtieri lo definisce come crudele (oltre che iniquo e bestiale) e tenta di
dissuaderlo dal perpetrare la sua crudeltà nei confronti della coniuge.
Le prove sono affrontate dalle mogli in ambedue le narrazioni al fine della
ricongiunzione con in mariti, sebbene Griselda mantenga sempre fede alla promessa
formulata verso Gualtieri al momento delle nozze, mentre al contrario Psiche tradisce
la fiducia del proprio congiunto. Griselda sarebbe allora la personificazione di quelle
doti che Psiche si auto-attribuisce ingiustamente, ossia la firmitas animi e la fides,
che nell'eroina boccacciana rimarranno costanti228 e, se possibile, ribaltati in negativo
226 Igor Candido, Apuleio alla fine del Decameron, cit., pp. 7 e sgg.227 Secondo Candido, sono principalmente tre elementi a legittimare giuridicamente il matrimonio:
che questo avvenga in presenza dei testimoni (i sudditi e i figli ritrovati, gli dei), con il consenso del padre e nella dimora dell'uomo o del dio (il castello anziché la villa, l'Olimpo anziché il castello), sintetizzati nella formula «in villa sine testibus et patre non consentiente».Cfr. Igor Candido, Apuleio alla fine del Decameron, cit., pp. 13-15.
228 Cfr. Igor Candido, La fabula di Amore e Psiche dalle chiose del Laur. 29.2 alle due redazioni
91
nella concezione del lettore: Dioneo critica infatti l'eccessiva sottomissione di
Griselda con la battuta finale, sovvertendo anche in ultima battuta il carattere
esemplare che la novella avrebbe mantenuto se avesse seguito il canone dell'intera
giornata.
Simile è poi la conclusione della vicenda, che ne conferma ultimamente il
carattere fiabesco: è riassunta infatti nelle due conclusioni la formula «e vissero per
sempre felici e contenti» (nel caso decameroniano si tratta però soltanto della
condizione di Gualtieri, che, una volta sposata Griselda e rimediato ai propri torti,
«lungamente e consolato visse»; nelle Metamorfosi invece «sic rite Psyche convenit
in manum Cupidinis; et nascitur illis maturo partu filia, quam Voluptatem
nominamus»), che conclude armoniosamente l'iniziale «erant in quadam civitate» e il
«già è gran tempo, fu tra' marchesi di Sanluzzo».
Griselda rimane, sia nei confronti di Psiche, sia in quelli degli altri personaggi
decameroniani, la figura di assoluta perfezione, purezza e genuinità, lo stadio ultimo
cioè di un poema inteso dantescamente come la descrizione del cammino dell'anima
dalle bassezze più infime alle eccelse qualità e doti della moglie e della donna
perfetta, anche se questa ipotesi, complice quel realismo tipicamente boccacciano,
non ricopre fino in fondo e anzi, quasi per nulla, tutto il carattere multiforme delle
possibili interpretazioni dell'opera.
Griselda è la vera, non solo presunta come Psiche, personificazione della «firmitas
animi» e della fides nei confronti del marito, al quale ella lascia fino alla fine libero
campo sulle decisioni che riguardano sia i figli sia il loro matrimonio. Il ribaltamento
si verifica prima di tutto nella caratterizzazione iniziale delle fanciulle: l'una è nobilis
e possiede una sovrumana e «praeclara pulchritudo», l'altra è una «povera
giovanetta» che viene scelta da Gualtieri per i propri costumi oltre che per la propria
bellezza naturale; quest'ultima viene inoltre accresciuta in modo inaspettato dalla
vestizione dei panni da marchesa, grazie ai quali ella conquista provvisoriamente la
nobiltà. Potremmo dire che soltanto in questo momento la condizione esteriore
rispecchia le doti interiori e perdura pochissimo, ossia fino al momento in cui,
qualche tempo dopo, ella darà alla luce la primogenita). Si confrontino in questo
delle Genealogie di Boccaccio e ancora in Dec. X, 10, in «Studi sul Boccaccio», XXXVII, 2009, pp. 192-196.
92
senso le reazioni dei mariti alla gravidanza o alla nascita di un figlio: Cupido non
avrebbe infatti remore nel rinunciare alla propria moglie e a un futuro (ma certo)
erede nel caso in cui la donna tradisse la sua fiducia, Gualtieri non esita a sottrarre
alla moglie i due pargoli per provare all'estremo la sua pazienza.
Un'ulteriore confronto si attua tra la venerazione divina della «inaccessae
formositas» di Psiche e la lode terrena dell'intera persona di Griselda, della quale i
sudditi venerano con umane parole l'«alta vertù» che Gualtieri è riuscito a scovare
«sotto i poveri panni e sotto l'abito vilesco»; la notizia della pulchritudo e quella
della vertù si espandono in breve non solo tra i cives ma anche tra gli advenae.
Entrambe amano inoltre "al buio", senza cioè un'alternativa almeno apparente al
matrimonio, che ovviamente non manca di elevare ancora maggiormente la loro
condizione: la nobile diventa una dea, la povera diventa una nobile. In entrambe
permangono però le caratteristiche iniziali, l'una resta infatti «satis et curiosa» fino
all'ultima prova, l'altra conserva la sua patientia senza mai venir meno alla promessa
fatta al marito al momento delle nozze; si aggiunga inoltre che Psiche viola la fides di
Cupido nonostante questi la abbia avvertita che, se avesse dato sfogo alla curiositas
di volerlo vedere in viso, il figlio da lei portato in grembo sarebbe stato illegittimo
(non divino, bensì mortale). Inoltre Psiche dalla propria bellezza non trae alcun
frutto,229 ma anzi a causa di essa scatena l'invidia e la reazione violenta di Venere,
Griselda invece deve provare al marito la propria fedeltà attraverso la pazienza, ma a
causa di quest'ultima nulla ottiene (almeno inizialmente) se non l'infittirsi delle
punture che egli le infligge.
Una ultima riflessione sul confronto tra questi due testi vorremmo porla sul fine
ultimo del racconto e sul piacere del raccontare di cui discutevamo nel primo
capitolo: la bella fabella è infatti raccontata dalla vecchia custode della caverna dei
briganti per consolare una Carite in preda agli incubi più feroci e sconvolgenti,
proprio come le destinatarie del Decameron afflitte dal fuoco di Amore, che l'autore
vuole consolare proprio con la sua opera maggiore, costituita di tante fabulae.
Per quanto riguarda il confronto con Zinevra, la cui novella si ricollega
tematicamente a quella di Griselda, avendo entrambe come motivo principale la
229 «Nullum decoris sui fructum percipit», Met., IV, 32, p. 146.
93
fedeltà coniugale, è accostabile a Psiche, ad esempio, per il modo in cui viene
introdotta. In entrambe le fabulae, infatti, le eroine sono inizialmente poste in
secondo piano, mentre è presentata la situazione di fondo dell'ambiente nel quale
vivono. Zinevra appare nel discorso di Bernabò in quanto esempio di fedeltà
assoluta, ma fisicamente e direttamente ci si presenta soltanto dopo la lunga sequenza
che chiude la disputa di questi con Ambrogiuolo, intenta a supplicare l'uomo
incaricato di ucciderla e poi a scappare travestita da uomo (e anche da questo
momento in poi, finché non prende parola e agisce attivamente per smascherare
l'ingannato, le sue azioni e il suo personaggio sono descritti in generale senza enfasi e
abbastanza sinteticamente). Anzi, il personaggio vero e proprio di Zinevra, nella sua
essenza, appare soltanto dopo il secondo e risolutivo incontro con Ambrogiuolo
(secondo se intendiamo come primo incontro quello in cui egli, vedendola
addormentata e nuda, la ha ingannata).
Anche Psiche appare come personaggio fisico all'interno della favola e diventa
propriamente protagonista soltanto dopo che è stato presentato il suo stato di
famiglia, enfatizzata la sua bellezza e descritte le reazioni a causa di essa (la
venerazione degli uomini e l'ira di Venere), quando ella viene condotta quasi in
processione religiosa alla rupe e incita il pubblico disperato ad abbandonare le
lacrime.
In entrambi i casi i protagonisti sembrano essere coloro che scompariranno poi per
tutto (o quasi) il resto della narrazione: il gruppo di mercanti a Parigi, e in particolare
Bernabò che è posto in evidenza dal momento che è l'unico a dissentire (e
Ambrogiuolo che lo deride e lo redarguisce con un discorso di stampo
paternalistico230) rispetto agli altri (ma nella novella risulta poi essere il personaggio
di minor importanza), e i genitori, che appaiono nella richiesta all'oracolo per poi
scomparire completamente, eccezion fatta per le menzioni da parte delle sorelle.
Entrambe le eroine assumono quindi una grande rilevanza nell'attimo in cui
230 Come lo definisce Totaro, che ne riporta la dichiarazione (§ 287-288) attribuendole una volontà teoretica e pedagogica, che ribadisce la comune credenza sulla lascivia femminile e allo stesso tempo introduce la distinzione tra stolte e savie che si presta come uno dei temi più presenti all'interno del Decameron.Cfr Luigi Totaro, Ragioni d'amore. Le donne nel Decameron, Firenze, Firenze University Press, 2005, p. 53.
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appaiono e prendono in mano le redini dell'azione, cambiando il proprio destino,
rivelandosi ancora più grandi di come erano state descritte inizialmente.
Sicuramente il personaggio di Psiche condivide più tratti con quello di Alatiel, dal
momento che entrambe sono di «sventurata bellezza» e proprio a causa delle loro
caratteristiche fisiche più che morali sono venerate da tutti. Ma è anche vero che la
loro pulchritudo le destina almeno inizialmente a tragici epiloghi: l'una non maritata,
l'altra oggetto di possesso di qualunque uomo la incontri. Proprio qui vi è una
differenza fondamentale: tutti vogliono avvicinarsi alla bellezza di Alatiel, dapprima
per conoscerla, poi per possederla, la divina pulchritudo di Psiche è invece rifuggita
in quanto ritenuta inaccessibile, proprio per le sue caratteristiche ultraterrene, tutti la
ammirano infatti come se ella fosse un simulacro, senza farsi avanti per chiederla in
moglie. Per la bellezza di Alatiel gli uomini sarebbero invece disposti a qualuque
impresa e lo provano i numerosi atti violenti presenti all'interno della novella
(fratricidi, omicidi, violazioni della legge dell'ospitalità ecc.).
Entrambe sono inoltre nobiles, ma questa loro facoltà non giova loro in maniera
consistente e, anzi, da essa non traggono alcun frutto: quella di Psiche è conosciuta
dal marito e dalla futura suocera, ma a nulla serve, dal momento che la sua
condizione resta quella di una mortale sposata con un immortale (il matrimonio in
questo senso viene purificato e legittimato dall'atto finale di bere l'ambrosia); quella
di Alatiel è probabilmente solo intuita dai «padroni», e comunque non cambia
minimamente la sua condizione.
Vaghetti definisce la novella di Alatiel come il «rovesciamento ironico del mito di
Amore e Psiche»,231 a partire dalla strettissima analogia tra la scena in cui Psiche
scopre il vero volto del suo sposo e quella in cui il duca con il lume illumina il sonno
di Alatiel:
Sed cum primum luminis oblatione tori secreta claruerunt, videt
omnium ferarum mitissimam dulcissimamque bestiam, ipsum illum
Cupidinem formonsum deum formonse cubantem, cuius aspectu
lucernae quoque lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi
novaculam paenitebat.
[...]
231 Lamberto Vaghetti, La filosofia della natura, cit., [].
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Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque
pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra
sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis
etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem
roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in
Amoris incidit amorem. Tunc magis magisque cupidine fraglans
Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis
festinanter ingestis de somni mensura metuebat.232
Prese il duca un lume in mano e quello portò sopra il letto, e
chetamente tutta la donna, la quale fisamente dormiva, scoperse (...).
Per che, di più caldo disio accesosi (...) con le mani ancor sanguinose
allato le si coricò e con lei tutta sonnecchiosa, e credente che il prenze
fosse, si giacque.233
In questo senso potremmo allora aggiungere la considerazione di Almansi,
secondo il quale Alatiel sarebbe una «sacerdotessa di Eros», alla cui bellezza gli
amanti, morendo, si consacrano.234
Un altro elemento ricorrente nello svolgersi delle storie d'amore delle protagoniste
è il silenzio, reale o figurato: da un lato abbiamo il buio visivo di Psiche, che in
quanto accoppiata con un essere sovrumano, è condannata a questa forma di
incomunicabilità (infranta poi con la rottura stessa del foedus ai danni del suo stesso
amante), dall'altro si assiste all'incomunicabilità ambivalente di Alatiel, che permette
narrativamente di dare maggior risalto alla gestualità sessuale e allo stesso tempo
indica la sovrumanità della protagonista. D'altronde, come scrive Almansi:
«l'accoppiamento con un personaggio mitico deve avvenire in silenzio, perché non
esiste un dialogo, un linguaggio normativo, nel rapporto tra uomo e mito».235
Contrariamente a quanto avviene per Psiche, che cerca di accrescere ancora
maggiormente la propria «sventurata bellezza» aprendo il vasetto con la bellezza di
Proserpina (anche se probabilmente questa sua azione si dovrebbe secondo noi
ascrivere più alla curiositas tipica che a una volontà di impossessarsi del contenuto
del vaso), Alatiel non si cimenterà mai in questa impresa, consapevole com'è che sia
232 Met., V, 22-23, pp. 176-178.233 Dec., II, 7, § 57, 412.234 Almansi, Alatiel, in Id., L'estetica dell'osceno, cit., p. 157.235 Ibidem, p. 157.
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proprio la bellezza a suscitarle le numerose peripezie. Proprio in quel vasetto stanno
le bellezze dalle quali Panfilo mette in guardia le sue giovani compagne novellatrici,
ossia quelle che con «meravigliosa arte» le donne in genere cercano di accrescere,
non sazie delle bellezze che la natura ha già concesso loro.
Nel caso di Alatiel parleremo perciò, come suggerisce Vaghetti, di «rovesciamento
ironico»:236 il Boccaccio vorrebbe infatti mostrare, con questa novella, che nella
realtà anche gli uomini si comportano come Psiche, affrontando peripezie e prove per
conquistare la personificazione di Eros più su un piano carnale che su un piano
morale o idealistico del sentimento. E se queste prove e peripezie consistono tutte
nella violenza di un assassinio (aggravato o meno dalle leggi di parentela e di
ospitalità, ma dal valore in ogni caso sacrale dal momento che è
consacrato/sacrificato alla personificazione della divina bellezza), Alatiel non sembra
esserne particolarmente preoccupata e con ogni amante impiega il medesimo
impegno fisico, si innamora di tutti loro indiscriminatamente, benché abbiano
condizioni sociali, anagrafiche ed economiche del tutto differenti.
Potremmo definire le avventure amorose di Alatiel come una perpetrazione di
quella tra Amore e Psiche, a giudicare dalla ripresa del motivo dell'abituarsi a una
vita del tutto sconosciuta e aliena a causa delle leggi della Natura. Si confronti, ad
esempio, questo passo, in cui è descritto il modo di abituarsi di Psiche alla sua nuova
condizione di moglie e inquilina regale «Haec diutino tempore sic agebantur. Atque
ut est natura redditum, novitas per assiduam consuetudinem delectationem ei
commendarat»237 e le numerosissime volte in cui Alatiel accetta il nuovo amante
nonostante questi abbia appena ucciso quello precedente.
Un'ulteriore analisi potrebbe mettere in rapporto il rapporto sessuale tra Cupido e
Psiche e quello tra Alatiel e il mercatante cipriano amico di Antioco:
E sopra la nave montati, data loro una cameretta nella poppa, acciò
che i fatti non paressero alle parole contrari, con lei in uno lettuccio
assai piccolo si dormiva. Per la qual cosa avvenne quello che né
dell’un né dell’altro nel partir da Rodi era stato intendimento, cioè che
incitandogli il buio e l’agio e ’l caldo del letto, le cui forze non son
236 Lamberto Vaghetti, La filosofia della Natura in Decameron, cit., p. 237 Met., V, 4, p. 158.
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piccole, dimenticata l’amistà e l’amor d’Antioco morto, quasi da
iguale appetito tirati, cominciatisi a stuzzicare insieme, prima che a
Baffa giugnessero, là onde era il cipriano, insieme fecero parentado.238
Non sarebbe difficile, in questo senso, attribuire ad Alatiel le medesime parole che
moriar quam tuo isto dulcissimo conubio caream. Amo enim et
efflictim te, quicumque es, diligo aeque ut meum spiritum, nec ipsi
Cupidini comparo.239
Immancabilmente infatti Alatiel si abitua al nuovo amante, come dimostrano del
resto i passi che indicano la sua reazione: con Marato (primo grande omicida della
novella, un fratricida) ella, nel momento in cui lui «col santo cresci in man che Dio ci
diè la cominciò per sì fatta maniera a consolare», subito gli si affeziona,
dimenticando Pericone (§ 37); con prenze di Morea ella è, dopo un breve e tipico
momento di smarrimento iniziale, «tutta riconfortata e lieta divenuta» (§ 47); con
Constanzio, dopo appena due giorni di pianto luttuoso, da lui consolata, «come l'altre
volte fatto avea, s'incominciò a prender piacere di ciò che la fortuna avanti
l'apparecchiava» (§ 75); e infine con Antioco che «veggendola così bella, senza
servare al suo amico e signor fede, di lei s’innamorò» e, conoscendo la sua lingua,
[...] da amore incitato, cominciò seco tanta famigliarità a pigliare in
pochi dì, che non dopo molto, non avendo riguardo al signor loro che
in arme e in guerra era, fecero la dimestichezza non solamente
amichevole, ma amorosa divenire, l’uno dell’altro pigliando sotto le
lenzuola maraviglioso piacere.240
A questi si aggiunga anche il passo sopra citato del mercante cipriota, per avere un
quadro completo dell'infinito e ciclico meccanismo di adattamento dell'eroina
boccacciana, che deve affrontare difficoltà sicuramente maggiori alle proprie
potenzialità, come del resto accade a Psiche.
Un ultimo accento va posto sull'importanza che assume la verginità nelle tre
novelle: per Psiche essa è perduta nel momento in cui Cupido le annuncia la
238 Dec., II, 7, § 89, p. 421.239 Met., V, 6, p. 160.240 Dec., II, 7, § 80, p. 419.
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gravidanza, e certamente è uno dei pochi fattori che non le permetterebbe, una volta
separata dal proprio sposo, di tornare a una vita normale, anzi, alla propria vita da
figlia di re, probabilmente infatti ella sarebbe rifiutata dalla società; per Alatiel, che
ha perso la propria con almeno otto uomini (non un solo dio, ma ben otto uomini
comuni), ritorna finalmente alla condizione iniziale come se nulla fosse accaduto,
ossia «come pulcella»; Griselda, che non si troverebbe nella medesima situazione di
Psiche nel momento in cui viene ripudiata da Gualtieri, ma soltanto in quanto i figli
che ha dato alla luce sono almeno in apparenza morti, torna nella casa del padre con
soltanto una camicia che simboleggi la sua verginità.241
Concorre a definire la verginità l'azione della Fortuna, ugualmente presente nelle
tre versioni (tutte e tre le eroine scatenano infatti l'ira -o il dubbio- di un'entità
dinnanzi alla quale nulla possono: la Fortuna, una dea, un nobile), che è
evidentemente la forza che fa sì che le tre donne incontrino i loro amanti, vi si
uniscano e se ne debbano, per un motivo o per l'altro, separare.242 La questione della
verginità è risolta in tutti e tra i casi soltanto nel finale, con le nozze (seconde e in
ogni caso legittime) e l'arrivo a una condizione di maggiorata tranquillità.
241 Secondo Candido, il particolare della camicia sarebbe un ulteriore punto di contatto tra le Metamorfosi e il Decameron, poiché vi è una allusione al mito di Cupido e Psiche nel De nuptiis di Marziano Cappella (I, 7), in cui Minerva dona alla novella sposa la tunica («quod vulgo dicitur camisa») della sapienza.Cfr. Igor Candido, Amore e Psiche, cit., pp. 193 e sgg.
242 Similmente avviene anche nel caso di Griselda: ella attribuisce infatti alla Fortuna, come detto in precedenza, le colpe che invece sarebbero di Gualtieri.Cfr. Giorgio Cavallini, Trionfo dell'umiltà sulle crudeli prove imposte dal nobile signore alla paziente moglie, in Id., La decima giornata del «Decameron», Roma, Bulzoni, 1980, pp. 190-191.
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