LE FONTI LETTERARIE DEL TANNHÄUSER DI WAGNER Daniel Raffini Introduzione Questo studio si propone di indagare il dramma Tannhäuser di Wagner cercando di individuare quali siano state le fonti leggendarie e letterarie che hanno portato alla grande fortuna del tema in Germania e nell’Europa intera. La leggenda di Tannhäuser si intreccia con leggende italiane e autori non solo tedeschi si sono occupati della storia del poeta e di Venere. Il tema in realtà affonda le sue radici addirittura in epoca antica. Il motivo dello smarrimento amoroso di un giovane di fronte alla statua di Venere risale alla tarda antichità 1 e un antico mito celtico narrava il soggiorno di un mortale nel regno di una dea. La mia analisi tuttavia considererà le fonti a partire dal Medioevo. Quando si parla di miti, leggende e temi è infatti quasi controproducente continuare ad andare a ritroso. La letteratura è fatta di influenze e ispirazioni a modelli e temi comuni. Per questo ritengo più utile che l’indagine delle fonti a un certo punto si fermi. E questo punto, nel nostro caso, sarà la nascita e lo sviluppo nel Medioevo delle leggende che confluiranno nell’opera di Wagner: quella di Tannhäuser e Venere e quella dei cantori sulla Wartburg. Un’analisi più dettagliata sarà riservata alla tradizione romantica tedesca e a quella medievale italiana. La prima è importante perché in essa troviamo le fonti più vicine a Wagner, mentre la seconda si mostra interessante per lo studio della formazione della leggenda e per dimostrare il suo carattere sovranazionale. Lo scopo è quello di fare luce sulla genesi di quello che fu, per ammissione dello stesso autore, il suo dramma più “travagliato”, quello che subì più rielaborazioni e ripensamenti. Per questo motivo nella prima parte sarà riservato uno spazio 1 Cfr. Pseudo Luciano, Erotes 15.
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LE FONTI LETTERARIE DEL TANNHÄUSER DI WAGNER
Daniel Raffini
Introduzione
Questo studio si propone di indagare il dramma Tannhäuser di Wagner cercando
di individuare quali siano state le fonti leggendarie e letterarie che hanno portato alla
grande fortuna del tema in Germania e nell’Europa intera. La leggenda di
Tannhäuser si intreccia con leggende italiane e autori non solo tedeschi si sono
occupati della storia del poeta e di Venere. Il tema in realtà affonda le sue radici
addirittura in epoca antica. Il motivo dello smarrimento amoroso di un giovane di
fronte alla statua di Venere risale alla tarda antichità1 e un antico mito celtico narrava
il soggiorno di un mortale nel regno di una dea. La mia analisi tuttavia considererà le
fonti a partire dal Medioevo. Quando si parla di miti, leggende e temi è infatti quasi
controproducente continuare ad andare a ritroso. La letteratura è fatta di influenze e
ispirazioni a modelli e temi comuni. Per questo ritengo più utile che l’indagine delle
fonti a un certo punto si fermi. E questo punto, nel nostro caso, sarà la nascita e lo
sviluppo nel Medioevo delle leggende che confluiranno nell’opera di Wagner: quella
di Tannhäuser e Venere e quella dei cantori sulla Wartburg. Un’analisi più dettagliata
sarà riservata alla tradizione romantica tedesca e a quella medievale italiana. La
prima è importante perché in essa troviamo le fonti più vicine a Wagner, mentre la
seconda si mostra interessante per lo studio della formazione della leggenda e per
dimostrare il suo carattere sovranazionale.
Lo scopo è quello di fare luce sulla genesi di quello che fu, per ammissione dello
stesso autore, il suo dramma più “travagliato”, quello che subì più rielaborazioni e
ripensamenti. Per questo motivo nella prima parte sarà riservato uno spazio
1 Cfr. Pseudo Luciano, Erotes 15.
2
particolare alle varie versioni dell’opera. Ciò che verrà messo da parte nell’analisi
sarà invece l’aspetto musicale del dramma. In questo lavoro l’opera di Wagner sarà
trattata alla stregua di un poema e come tale possiamo considerarlo per il suo valore
letterario. D’altronde ogni libretto è un poema se viene spogliato della sua musica. E
con Wagner abbiamo il privilegio di avere un libretto scritto dal compositore stesso:
ciò rende questa operazione di spogliamento un po’ meno blasfema.
1. Presentazione dell’opera
1.1 L’importanza di Wagner
Per le innovazioni apportate nell’ambito della cultura tardo ottocentesca l’opera di
Richard Wagner è paragonabile a quella di pochi altri compositori. Le generazioni
successive, in particolare quella delle avanguardie, anche quando videro in lui solo
un compositore tardo-romantico da superare con tutta la tradizione che
rappresentava, non poterono fare a meno di rapportarsi al modello di dramma
musicale da lui ideato. Le innovazioni apportate da Wagner riguardano la musica, lo
spazio scenico e la drammaturgia. È notissima l’importanza che egli attribuiva ai suoi
libretti, tanto da scriverli in prima persona.
La più importante rivoluzione wagneriana è forse quella formale. La tradizione
operistica in lingua tedesca aveva avuto ottimi esponenti – basti pensare a Mozart,
Beethoven e Weber – ma si era inscritta perlopiù nel genere del Singspiel, una
rappresentazione caratterizzata dall’alternarsi di parola e musica. Con Wagner invece
abbiamo per la prima opera una vera opera in lingua tedesca totalmente cantata.
Legata indissolubilmente al nome di questo musicista è la nozione di opera d’arte
totale: un dramma in cui parola, musica e azione scenica si fondono per creare una
sintesi artistica perfetta.
3
Wagner è un innovatore anche sotto il profilo musicale. Egli si inserisce in quel
movimento di progressiva saturazione del materiale che porterà all’inizio del XX
secolo all’abbandono del sistema tonale. I primi passi in questa direzione sono
compiuti da Wagner attraverso l’uso del Leitmotiv, un motivo musicale che viene
adattato al singolo personaggio o alla singola situazione emotiva e deve perciò essere
adattabile a qualsiasi contesto armonico. Per questo i Leitmotive sono caratterizzati
dal cromatismo, quel procedimento per la quale vengono usati tutti i gradi della scala
con toni e semitoni e non solo i gradi delle scale diatoniche tonali. L’altra tecnica
musicale per la quale Wagner è spesso ricordato è la melodia infinita: all’interno del
tessuto musicale wagneriano le melodie non si dispongono in successione ma si
Dal punto di vista contenutistico Wagner si rapporta a una materia fino ad allora
poco esplorata, anche se già riscoperta dalla generazione romantica, ossia la
mitologia germanica. Ma i miti che egli sceglie sono anche legati alla tradizione
cristiana e a quella classica. La scelta di una materia mitologica pone le vicende
raccontate da Wagner fuori dalla storia e il mito annulla lo scorrere del tempo.
All’inizio del Tannhäuser il protagonista dice a Venere: «Il tempo, ch’io ho qui
passato, io non lo so misurare. Giorni, mesi, per me non esistono più». Vedremo più
avanti come il soggiorno presso la dimora di Venere significhi per Wagner proprio
l’immergersi di Tannhäuser nella dimensione del mito.
L’ultima rivoluzione realizzata da Wagner è quella dello spazio scenico. Il nuovo
teatro da lui progettato e realizzato a Bayreuth, che prese il nome di Festsphielhaus,
prevede l’eliminazione delle luci in platea e il posizionamento dell’orchestra nella
buca, al fine di accresce l’immedesimazione del pubblico nello spettacolo. Questo
modello di edificio teatrale prese piede velocemente in Europa ed è lo stesso che
vediamo ancora realizzato nei nostri teatri. In pratica, dobbiamo a Wagner il modo di
fruizione del teatro e del cinema come lo intendiamo oggi. Il teatro smette di essere il
luogo del lusso e dell’incontro sociale – Wagner elimina anche i palchetti laterali – e
diventa solo il luogo della fruizione artistica. Dal punto di vista delle scenografie
Wagner non fu decisivo come in molti altri campi. Le scenografie impiegate per la
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rappresentazione dei suoi drammi restano realistiche, secondo i dettami dell’arte
della sua epoca, anche se le storie narrate suggeriscono ambientazioni fantastiche e
irreali. Le prime scenografie convincenti per i lavori wagneriani si ebbero solo agli
inizi del Novecento a opera dello scenografo Adolphe Appia.
Con questo breve quadro sulle innovazioni apportate da Wagner ci siamo fatti
l’idea di un’artista che si occupò di ogni aspetto della rappresentazione dei suoi
drammi. In questo Wagner è vicino a un altro grande personaggio della musica
ottocentesca, ossia quel Giuseppe Verdi che per molti altri aspetti fu suo rivale e
osteggiatore. Il fatto che persino Verdi alla fine dovette cedere all’arte wagneriana –
mi riferisco alle ultime opere del compositore di Busseto – è la dimostrazione di
come l’influenza di Wagner vada ben oltre la cerchia ristretta dei suoi ammiratori
ufficiali. Quella che Wagner intraprese è una vera rivoluzione estetica, i cui effetti
avranno ripercussioni a lungo termine nell’arte occidentale.
2.1 Argomento del Tannhäuser
Antefatto. Il cantore Tannhäuser, nonostante l’amore nascente per Elisabetta, ha
rotto con la società della Wartburg ed è fuggito sul Venusberg nel regno di Venere.
Atto primo. Presso Venere il cantore rimane prigioniero dei piaceri offerti dalla
dea dell’amore, ma le visioni non riescono a far scomparire del tutto il passato e
Tannhäuser chiede infine a Venere di tornare tra i mortali. La dea gli predice che al
suo ritorno nel mondo gli uomini lo scacceranno. Ma i moniti restano inascoltati
perché Tannhäuser vede la sua salvezza nella Madonna. Venere è costretta a lasciarlo
andare. Nella scena successiva Tannhäuser torna nel mondo dei mortali. Un giovane
pastore suona la cornamusa e intona un canto in onore di Frau Holda, ossia Venere.
Intanto passano di lì i pellegrini in cammino verso Roma. Subito dopo Tannhäuser
incontra la brigata del langravio, i suoi vecchi compagni, tra i quali c’è anche
Wolfram. Essi avevano ormai da tempo dato per disperso il compagno e, ritrovatolo,
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lo invitano a unirsi di nuovo a loro. Tannhäuser inizialmente rifiuta, ma si convince a
tornare sulla Wartburg quando gli viene ricordata Elisabetta, che lì lo aspetta.
Atto secondo. La notizia del ritorno di Tannhäuser spinge Elisabetta, dopo una
lunga assenza, a rientrare nella sala dei cantori sulla Wartburg. Wolfram accompagna
Tannhäuser nella sala e quando vede l’affetto che c’è fra Tannhäuser e Elisabetta
capisce che il suo amore per lei è senza speranza. Il ritorno di Tannhäuser è celebrato
con una grande festa, coronata dalla contesa tra i cantori. Il langravio propone un
argomento: esporre in una canzone l’essenza dell’amore. Il premio verrà scelto dal
vincitore e consegnato da Elisabetta. Wolfram è il primo a cantare ed esalta l’amore
quale vetta irraggiungibile e intangibile. Allora Tannhäuser, forse sotto l’effetto di un
incantesimo di Venere, si sente provocato a sostenere una la tesi opposta: è solo nel
piacere la vera essenza dell’amore. Questa dichiarazione di Tannhäuser provoca lo
scandalo generale. Egli si spinge fino a esaltare Venere e a consigliare ai cavalieri di
entrare nel regno del piacere del quale la dea è regina. I cavalieri, offesi, pretendono
la morte di Tannhäuser per l’oltraggio, ma Elisabetta, benché tradita nel suo amore,
lo difende. Acconsentendo alle suppliche di Elisabetta, il langravio indica a
Tannhäuser l’unica possibilità di espiazione: andare in pellegrinaggio a Roma e
chiedere il perdono al papa in persona. Tannhäuser parte con gli altri pellegrini.
Atto terzo. Elisabetta cerca invano Tannhäuser tra i pellegrini di ritorno da
Roma. Con una fervida preghiera alla Vergine Maria supplica di morire per espiare
le colpe di Tannhäuser e rifiuta l’aiuto di Wolfram. Quest’ultimo, oppresso dai
presagi, intona un malinconico canto alla stella della sera. Dopo il passaggio degli
altri pellegrini, compare Tannhäuser completamente distrutto. Al colmo della
disperazione egli confessa a Wolfram che il papa solo a lui ha negato l’assoluzione
dicendo che come il pastorale nella sua mano non sarebbe mai rinverdito, così
Tannhäuser non avrebbe mai ottenuto il perdono. Per questo Tannhäuser decide di
tornare da Venere e invoca la dea, che appare sulla scena. Il fascino di Venere
sembra avvincerlo, quando Wolfram gli ricorda di Elisabetta e l’incantesimo si
rompe, facendo scomparire Venere. Una musica funebre annuncia la morte di
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Elisabetta e Tannhäuser a sua volta muore. L’opera si chiude con l’entrata in scena
del pastorale rinverdito, segno dell’avvenuta redenzione.
1.3 Genesi e revisioni
Il Tannhäuser è, insieme all’Olandese volante e al Lohengrin, una delle tre opere
romantiche di Wagner. La stesura di queste tre opere si colloca negli anni Quaranta
dell’Ottocento ed è antecedente al grande progetto della tetralogia L’anello del
Nibelungo e alle opere maggiori della maturità: Tristano e Isotta, I maestri cantori di
Norimberga e Parsifal. Già nel 1841 a Parigi Wagner inizia a pensare un’opera dal
titolo Der Venusberg, ossia la montagna di Venere. Il titolo resterà questo quasi fino
alla prima rappresentazione, quando Wagner sarà convinto dall’editore di corte
Meser a cambiarlo a causa di alcuni scherzi e giochi di parole che a suo parere il
pubblico avrebbe potuto costruirvi sopra.2 L’interesse di Wagner per l’argomento si
accese alla lettura di un libro di leggende germaniche capitato per caso nelle sue
mani. L’idea prese la forma definitiva soltanto durante un soggiorno a Teplitz
nell’estate del 1842 e l’abbozzo dell’opera fu scritto interamente durante
un’escursione notturna allo Schreckenstein, la Roccia dell’Orrore, presso Aussig. Il
testo venne ultimato nel 1843 e la partitura nel 1845 e l’esecuzione avvenne il 19
ottobre di quell’anno a Dresda sotto la direzione dello stesso Wagner. La prima
esecuzione al di fuori del Regno di Sassonia ebbe luogo a Weimar, sotto i benevoli
auspici di Listz. Seguirono altre rappresentazioni dall’alterno successo.
Quella di Dresda non è tuttavia l’unica versione dell’opera che ci sia giunta. Fra
tutte le opere di Wagner, Tannhäuser è quella che ha subito il maggior numero di
modifiche e rielaborazioni, tanto che non è stata ancora raggiunta un’unità di pareri
su quale sia da considerare la versione definitiva. Già sotto la direzione di Wagner a
Dresda, il finale ebbe quattro varianti nelle diverse serate. Le perplessità per la
2 Cfr. R Wagner, Autobiografia, Milano 1983, p. 305.
7
rappresentazione di Dresda erano destate, come Wagner ammetterà più tardi nella
sua Autobiografia, dall’incapacità dell’attore protagonista di rappresentare tutte le
implicazioni ideologiche presenti nel personaggio di Tannhäuser.
Quella che oggi è maggiormente rappresentata nei teatri è la cosiddetta alte
Fassung, cioè la versione antica. L’Ur-Tannhäuser, il Tannhäuser originario, da
quella versione si discosta nettamente sia dal punto di vista drammatico che
musicale. Esso si distingue per il fatto che nel finale non ricompaiono sulla scena né
Venere né la salma di Elisabetta. Era una conclusione poeticamente più raffinata e
stilizzata, tuttavia Wagner decise di rendere più espliciti i dettagli per accrescere
l’effetto visivo, in favore di un pubblico poco abile nello scorgere le sfumature.
Debussy, colui che della sfumatura fece la propria poetica musicale, dirà di non
tollerare in Wagner proprio questo «timore di non essere capito, che si appesantisce
necessariamente di noiose ripetizioni»3, nel quale il compositore francese vedeva un
tratto esplicitamente germanico. È dunque un’esigenza di chiarezza che spinge
Wagner a render visibile Venere nel finale, assegnandole anche dei versi da cantare,
e a introdurre sulla scena i giovani pellegrini che recano il pastorale rinverdito come
segno tangibile della redenzione. In occasione di una messa in scena del 1847
Wagner pose sulla scena anche la salma di Elisabetta e sostituì il coro dei pellegrini
con un coro di tutti i presenti sulla scena. Il coro dei giovani pellegrini sarà poi
reintrodotto, perché ritenuto drammaticamente necessario per rendere ancora più
chiara la redenzione. Quest’ultima modifica fece approdare il Tannhäuser a una
prima versione definitiva.
Ma le vicissitudini del dramma non finiscono qui. Quattordici anni dopo, l’opera
fu sottoposta a un’ulteriore e importantissima revisione. Nel 1861 Napoleone III
decise infatti di far mettere in scena all’Opéra di Parigi il Tannhäuser. L’opinione
pubblica parigina ritenne sconveniente che l’opera fosse priva di un balletto nel
secondo atto, come voleva la tradizione francese. Così fu chiesto a Wagner di
colmare questa lacuna e inserire un balletto. Questo era ovviamente impossibile, ma
3 Cit. in Guido Salvetti, La nascita del Novecento, Torino 1991.
8
Wagner cercò comunque di accontentare il pubblico francese arricchendo la scena
del Venusberg. Su questa decisione influirono, probabilmente in modo decisivo,
anche fattori personali. Da molto tempo Wagner riteneva la scena del Venusberg il
punto debole del suo lavoro, perché non raggiungeva il risultato di mostrare la
contrapposizione tra il mondo di Venere e quello di Elisabetta come l’autore avrebbe
voluto. Già prima nel 1861 Wagner aveva ammesso in una lettera a Mathilde
Wesendonk:
All’epoca in cui scrissi Tannhäuser non ero in grado di realizzare pienamente ciò che in
quest’opera era necessario; mi sarebbe occorsa una ben maggiore maestria, che
conquistai solo dopo aver ideato poeticamente e musicalmente l’estrema trasfigurazione
di Isolde.4
Inoltre nella sua Autobiografia Wagner scriverà più tardi:
Nell’opera quella parte [la scena del Venusberg] era appena abbozzata: me ne resi conto
in seguito, quando mi accinsi a una revisione dell’opera per la rappresentazione che
ebbe luogo a Parigi, tanto che rifeci interamente la parte, riparando coscienziosamente a
ciò che avevo trascurato prima.5
Questi sono i motivi che spinsero Wagner a ridisegnare completamente il
Tannhäuser. L’esito fu quello che noi oggi chiamiamo Pariser Bearbeitung, cioè la
rielaborazione parigina. La scena del Venusberg nell’abbozzo originario della
versione parigina somiglia a una vera e propria pantomima coreografica con un
corteo di menadi, il sacrificio di un capro nero e l’apparizione di spiriti delle acque.
In luogo della corte d’amore della dea, con i suoi lievi piaceri dei sensi, è inserita
un’orgia sfrenata di demoni, piena di torrida sensualità, che raggiunge il culmine
nella tempesta orchestrale costruita sul Lustmotiv, il motivo del piacere sensuale.
Furono aggiunti anche due tableaux vivants raffiguranti il ratto d’Europa e Leda con
4 Lettera del 10 aprile 1860. 5 R. Wagner, Autobiografia, Milano 1983, p 309.
9
il cigno, simboleggianti la potenza dell’amore carnale. Nella scena tra Venere e
Tannhäuser la scrittura musicale si fa più complicata e raffinata, l’accompagnamento
orchestrale s’intreccia alle voci dei cantanti e si moltiplicano gli effetti
contrappuntistici. Un altro mutamento sta nella tenzone dei cantori, dalla quale è
eliminato l’intervento di Walter e il dialogo si costituisce solo tra Tannhäuser e
Wolfram. La versione di Parigi mostra in quale stile Wagner avrebbe composto
Tannhäuser se l’avesse ideato nel 1861. I pezzi nuovi si contrappongono tuttavia a
quelli scritti precedentemente e, nonostante il loro valore, minano l’unità dell’opera.
È per questo che la maggior parte dei teatri ha preferito, e preferisce ancora, mettere
in scena la versione di Dresda, nonostante Wagner abbia riconosciuto nella
rielaborazione parigina l’unica versione accettabile di Tannhäuser. La conferma di
questa predilezione è che proprio la versione parigina, però in tedesco, è quella che
Wagner fece rappresentare a Monaco nel 1867 e a Vienna nel 1875.
1.4 Paganesimo, Cristianesimo e questione sociale
Prima di addentrarsi nell’analisi delle fonti, è opportuno definire il tema di fondo
e il filo conduttore dell’opera. Baudelaire ha scritto:
Tannhäuser rappresenta il conflitto tra due principi che hanno prescelto il cuore come
campo di battaglia, e questi principi sono la carne e lo spirito, l’inferno ed il cielo,
Sanata e Dio!6
Adorno, nel suo famoso saggio su Wagner, sostiene che nelle opere giovanili del
compositore è evidente il conflitto tra sessualità e ascesi7. Più tardi il dualismo
giungerà a una sintesi per mezzo della redenzione dei personaggi attraverso la morte.
Il conflitto rimarrà comunque una categoria portante anche nei lavori successivi.
6 Baudelaire, Richard Wagner et Tannhauser à Paris, in Oeuvres Complètes, Paris 1976, II p. 707 7 Cfr. Adorno, Wagner, Torino 2008, p. 8
10
Nel Tannhäuser abbiamo un esempio di quella commistione tra mitologia ed
elementi cristiani che caratterizza molti libretti di Wagner. Qui più che di mitologia
germanica si tratta della tradizione pagana. La commistione tra le due tradizioni
appartiene d’altronde alla stessa leggenda di Tannhäuser, l’eroe cristiano che finisce
nelle brame di una delle dee pagane per eccellenza: Venere. Il merito di Wagner sta
nell’aver creato all’interno dell’opera precisi riferimenti per indicare questa
mescolanza. Molto chiaro è il passaggio nelle prime scene del primo atto: la prima
scena si configura – nonostante le diverse varianti – come una graziosa sfilata
pagana, che ci ricorda quasi le descrizioni delle feste e dei banchetti rinascimentali;
nella scena successiva Tannhäuser esordisce dicendo di aver sognato il suono delle
campane: è l’irruzione sulla scena del Cristianesimo. Le campane fungono da
richiamo per il cavaliere e torneranno anche più avanti nel testo. In questo momento
il Cristianesimo si sostituisce al Paganesimo e il protagonista decide di tornare nel
mondo. Il cavaliere resterà all’interno del Cristianesimo fino al momento della gara
dei cantori quando, in uno stato quasi di estasi, canterà la gloria dell’amore carnale,
scandalizzando il suo pubblico. È qui il vero scontro tra le due tradizioni e non a caso
è il momento centrale del dramma. Allo stesso tempo possiamo vedere in questo
punto lo scontro tra la storia e il mito. La storia è rappresentata dai cantori, che
simboleggiano il mondo, quel mondo che non può più accettare Tannhäuser dopo che
egli si è immerso nella dimensione mitica, quella del Venusberg. Scrive Adorno a tal
proposito:
I cavalieri, che han ricondotto il rinnegato Tannhäuser, contro la sua volontà, nel
cerchio dei loro costumi, vogliono ucciderlo, mossi da indignata virtù, per aver egli
dimostrato […] quanto il loro medio mondo superiore gli ha vietato di esperire.8
La contrapposizione tra i due mondi – quello mitico e quello storico, quello
pagano e quello cristiano – s’incarna nelle figure di Venere e di Elisabetta, che a una
8 Ibidem.
11
prima analisi rappresentano rispettivamente l’amor sacro e l’amor profano. Lo
scontro non ha risoluzione e Tannhäuser non riesce a ottenere nemmeno il perdono
del papa. La forte carica religiosa dell’opera e la presenza del papa rientrano nel
recupero romantico del cattolicesimo, che possiamo vedere all’opera in un autore
come Novalis. Il Medioevo è rappresentato in tutti i suoi aspetti mistici, cavallereschi
e cortesi. Tuttavia la leggenda di Tannhäuser reca in sé un elemento di critica
antipapista nella contrapposizione tra la condanna papale e la misericordia divina.
Nel contesto dell’antica leggenda italiana da cui derivò quella tedesca, questo
particolare ha tutt’altro significato: la mancata assoluzione da parte del Papa, se non
dopo un miracolo apparentemente impossibile, costituiva un invito a riporre la
propria fede nella volontà divina. L’episodio assunse il suo carattere antipapale solo
nella Germania del Cinque-Seicento, all’epoca delle guerre di religione e della
riforma protestante. Su questa lettura luterana dell’episodio si formò la tradizione
romantica tedesca e dunque anche il dramma wagneriano.
Sappiamo tuttavia dai suoi stessi scritti, che all’autore interessava ben poco il
tema religioso. Scrive Wagner nella Comunicazione agli amici:
Come mi devono sembrare sciocchi ora quei critici […] che vogliono attribuire al mio
Tannhäuser un’inclinazione specificatamente cristiana, tesa con impotenza verso il
cielo! È il poema della loro propria incapacità che riconoscono solo nel poema di colui
che non possono proprio assolutamente capire.9
Il finale dell’opera dimostra come il compositore non si pronunciò mai in modo
definitivo su una questione religiosa molto importante: se Tannhäuser abbia ottenuto
la redenzione grazie alla preghiere e al sacrificio di Elisabetta o se la grazia sia
arrivata per suprema predestinazione. Questo sarebbe stato un nodo fondamentale da
sciogliere qualora l’autore avesse voluto prendere una netta posizione religiosa. Ma
Wagner non si interessò a chiarire la questione e spostò i termini del conflitto sul
piano sociale. Più che una dialettica tra peccato e redenzione, è messa in rilievo
9 R. Wagner, Una comunicazione ai miei amici, Pordenone 1983, p. 60
12
l’estraneità dell’artista nei confronti della società. L’idea portata dall’artista,
rappresentata dal Venusberg, è costantemente rifiutata dalla società borghese. Quello
che si legge in filigrana è dunque il conflitto tra l’artista moderno e il mondo. In
questo senso Venere e Elisabetta non sono più due figure contrapposte. Tannhäuser
non vuole rinnegare Venere, ossia la dimensione artistica, ma soffre il fatto che essa
lo escluda dal rapporto con la realtà. Egli vuole essere un artista nella società ed
Elisabetta rappresenta questo tentativo di conciliare l’arte col mondo. Ma tale sintesi
può avvenire solo dopo la morte. Questo ci conduce a un altro punto nodale
dell’opera wagneriana: la redenzione.
Quello della redenzione è uno dei temi fondamentali della drammaturgia
wagneriana. Abbiamo detto che la redenzione di Tannhäuser può essere avvenuta
grazie all’amore di Elisabetta oppure per predestinazione. Rimango un dato di fatto
le morti di Elisabetta e di Tannhäuser: la salvezza viene dal sacrificio estremo, quello
della vita. Sappiamo che questa commistione tra amore, morte e redenzione è un
tema di molti lavori wagneriani. Tuttavia in quest’opera, una delle prime di Wagner,
la redenzione si configura come una semplice rivincita della cultura borghese e
cristiana sull’opera d’arte. La redenzione non arriva tramite un processo di
purificazione, ma appare nell’opera come un deus ex machina, grazie al generoso
sacrificio di Elisabetta verso un Tannhäuser che ormai non pensa più a salvarsi dal
peccato, ma solo a tornarvi per perdersi definitivamente. In seguito la redenzione
attraverso l’arte passerà per le mani dell’eroe, ma qui Tannhäuser non fa nulla di
eroico. Questo dramma è tuttavia utile per indagare il primo affacciarsi e lo sviluppo
del tema che finirà per essere il fine dell’arte di Wagner, la sua ragione e la
giustificazione per una scelta estetica. Il messaggio a cui si giunge è che l’arte porti
alla redenzione. Nella musica questo concetto sarà ripreso nell’interpretazione
adorniana dell’arte di Schönberg, a proposito del quale Adorno, nella Filosofia della
musica moderna, parlerà proprio di redenzione attraverso l’arte. Ma siamo in
tutt’altro contesto, poiché l’arte di Wagner non può certo definirsi moderna in senso
adorniano. Tuttavia la lettura sociale data dallo stesso Wagner lo lega di certo a un
filosofo che farà dell’elemento sociale il centro del proprio sistema. E allora
13
possiamo spiegarci anche come mai Adorno dedicò un intero libro alla figura di un
compositore che in fin dei conti fa parte di quella borghesia tardo-ottocentesca che
non ha molto a che fare con una nozione novecentesca di modernità e con una
posizione politica principalmente socialista10. Anche Baudelaire, considerato da
molti l’iniziatore della modernità e il precursore di molta letteratura novecentesca,
non nasconderà il suo interesse per Wagner. Per non parlare poi del notissimo
connubio, finito in dissenso, con Nietzsche, un altro pensatore che possiamo
considerare pienamente novecentesco. Insomma nasce qualche dubbio sullo strano
rapporto tra tradizione e modernità che Wagner esprime nella sua arte. Di questo si
accorse Adorno, quando scrisse che «progresso e reazione nella musica wagneriana
non si lasciano separare come pecore da montoni, ma s’incrociano entrambi in quasi
inestricabile modo»11. Anche con il Tannhäuser Wagner vuole descrivere in fin dei
conti questa polarità. Si potrebbe approfondire questo punto, oppure indagare gli altri
spunti che ci offre un’opera come il Tannhäuser, ma lo scopo di questo lavoro è
quello di studiare le fonti letterarie ed è dunque opportuno ora entrare nel merito di
tale questione.
2. Le fonti
2.1 La leggenda di Tannhäuser
Prima di diventare il protagonista della famosa leggenda, Tannhäuser è stato un
personaggio storico e nella fattispecie un poeta. Non abbiamo molte notizie su di lui,
ma proviamo comunque a ricostruire la sua vita. Egli nacque intorno al 1205 da
nobile famiglia residente tra il salisburghese e la Baviera e morì probabilmente
intorno al 1268. La sua ultima poesia databile con certezza risale al 1266. Alcune
10 La posizione politica di Adorno non è in realtà così semplice da definire; si usa qui la categoria di socialismo in modo arbitrario al solo scopo di far comprendere in quale ambito si mosse il filosofo. 11 Adorno, Wagner, Milano 2008, p. 44.
14
notizie, ritenute dai critici abbastanza attendibili, ci vengono dalle sue poesie. Il fatto
che nei suoi testi egli elenchi un gran numero di luoghi e città ci induce a pensare che
egli fosse un viaggiatore. Sembra che abbia partecipato alla crociata del 1228, anche
se quello che il poeta descrive è solo il suo soggiorno in Puglia in attesa di essere
imbarcato. Nel Codice Manessiano12, che riporta molte delle sue poesie, è ritratto
con l’abito dell’ordine teutonico. Egli fu anche cortigiano alla corte di Federico II
detto il bellicoso, l’ultimo dei Babenberg a regnare sull’Austria, dal quale ricevette
una casa a Vienna e alcuni feudi nella Bassa Austria. Nel suo consueto tono
scherzoso Tannhäuser descrive se stesso che, fino ad allora povero, entra nei suoi
nuovi feudi con un sacco vuoto e un servo che lo segue a piedi. Dopo aver perduto i
suoi beni, condusse vita d'avventure, vagando di corte in corte nella Germania e
probabilmente anche in Francia e in Italia. Infine sparì, senza lasciare tracce di sé.
Tannhäuser fu l’ultimo erede del Minnesang13, dal quale riprese gli elementi
dell’amor cortese e dell’elogio verso il proprio signore, temi ormai abbastanza
convenzionali. Nelle sue poesie troviamo però anche elementi nuovi, come l’amore
per l’enciclopedismo e una vena scherzosa e ironica che lo avvicina a una poesia più
realistica e aderente alla vita quotidiana.
Ma dov’è il collegamento tra questo poeta medievale e il personaggio
leggendario? C’è principalmente un aspetto che il Tannhäuser reale lasciò di sé
stesso all’interno della leggenda. Egli infatti in gioventù sperimentò i piaceri della
vita e anche le sue poesie sono spensierate e gioiose, ma andando avanti con gli anni
sentì sulla propria anima il peso del peccato. Ecco allora che nei suoi testi iniziarono
ad apparire preghiere e implorazioni di penitenza. Da questo tratto del personaggio
storico possiamo dedurre il carattere del protagonista della leggenda, che dopo
essersi immerso nel peccato ricerca il perdono. Se anche si voglia ammettere che il
Busslied, canto di penitenza, a lui attribuito non sia suo, questo dimostra come già
12 Questo importante manoscritto miniato, detto anche Codex Manesse, prende il nome dalla famiglia
che lo commissionò, i Manesse. Esso conserva la gran parte della poesia dei Minnesänger, fu scritto tra il 1304 e il 1340 ed è attualmente conservato nella Biblioteca dell’università di Heidelberg. 13 Genere di poesia amorosa sviluppatosi in Germania tra il XII e il XIV secolo.
15
nel XIV secolo egli avesse assunto nella memoria dei suoi contemporanei il carattere
di peccatore penitente. Tannhäuser inoltre si lega alla tradizione del Minnesang, la
versione tedesca della lirica dei trovatori provenzali. Questo ci rimanda ai cantori
sulla Wartburg, la cui storia confluirà nel dramma di Wagner proprio insieme a
quella di Tannhäuser. Ma c’è dell’altro e ci viene dai testi del poeta: Il mito di Paride
e Venere ricorre ben quattro volte nelle poesie di Tannhäuser. Inoltre egli fu alla
corte di Federico II, che da molti osteggiatori era considerato alla stregua di un
Anticristo. Fu forse per questo che egli venne accostato all’elemento diabolico. In
alcune poesie attribuite più tardi allo stesso Tannhäuser, il poeta è prigioniero della
diavolessa Venere. Ma quando tali poesie furono scritte e attribuitegli è intuibile che
la leggenda fosse ormai formata.
Se dunque è certo che il personaggio storico abbia alcuni tratti in comune con
quello leggendario, non è stato tuttavia finora possibile individuare un momento
preciso nel quale si sia formata intorno a lui la leggenda del soggiorno nel Monte di
Venere. Probabilmente non c’è stato un momento preciso, ma è stato un processo
continuo messo in atto dalla fantasia popolare nel lasso di tempo che va dalla morte
del poeta alle prime attestazioni scritte che lo collocano sul Venusberg. La leggenda
narra che egli soggiornò per molti anni – il numero cambia nelle varie versioni –
sulla montagna di Venere e che successivamente, pentito, avesse compiuto un
pellegrinaggio a Roma, dove papa Urbano IV gli avrebbe rifiutato l'assoluzione fino
a che non sarebbe fiorito il pastorale che teneva in mano. Dopo tre giorni il pastorale
fiorisce, ma Tannhäuser, che si era sentito ormai condannato all’Inferno, aveva già
optato per un disperato ritorno fra le braccia della dea pagana.
Come per ogni storia tramandata oralmente le versioni sono molte e nessuna di
queste è quella definitiva. Probabilmente la nascita della leggenda è da collocare
intorno al XIV secolo. Essa presenta molti punti di contatto con le storie dei Monti
Sibillini presso Norcia, che nel 1420 Antoine de la Sale raccolse dalla viva voce del
popolo, ma che erano già affiorate nel romanzo Il Guerrin meschino di Andrea da
Barberino e saranno largamente diffuse durante il Rinascimento. Questo aspetto
verrà approfondito più avanti, per ora basti dire che è possibile che il soggiorno di
16
Tannhäuser sul Monte di Venere derivi dal soggiorno di Guerrino, o di altri
personaggi, presso il Monte Sibilla. Non è tuttavia possibile desumere con certezza
da nessun testo come precisamente il personaggio di Tannhäuser abbia potuto
inserirsi nella leggenda, diventandone l'eroe. Possiamo formulare l’ipotesi che
qualche tedesco sceso in Italia sia stato talmente colpito dalla storia sentita sui Monti
Sibillini da trapiantarvi il proprio poeta. Abbiamo notizia durante il XIV secolo di
molti cavalieri tedeschi arrivati al seguito di Albornoz, di Luigi il Bavaro e di Enrico
VIII. Abbiamo poi una testimonianza di Papa Pio II, che in una lettera inviata nel
1441 dall’Austria al fratello Giorgio, evidenzia l’interesse germanico per una località
della penisola, in cui venivano praticate arti magiche per la presenza di divinità
ultraterrene: questa località era chiamata proprio Monte di Venere. Possiamo dunque
dare per certo che nel periodo di formazione della leggenda di Tannhäuser in area
tedesca fosse diffusa la leggenda italiana. Ma è anche possibile, come affermano
molti studiosi tedeschi, che la leggenda di Tannhäuser e Venere sia autoctona.
Sono queste le due ipotesi sull’origine della leggenda: alcuni ritengono che sia di
origine germanica, altri propendono per l’influenza e la contaminazione con la
leggenda italiana. Il problema non è probabilmente da porsi in questi termini, che
risultano un po’ riduttivi se consideriamo che la cultura medievale era molto più
cosmopolita di quanto ci si aspetterebbe. La questione meriterebbe una trattazione
più ampia, che tuttavia esula dal fine che ci siamo prefissi per questo lavoro. Si può
però pensare di rivedere le ipotesi sull’origine della leggenda da una prospettiva
diversa. Pensare che in fondo la tradizione italiana e quella tedesca possono essere
inserite in una unica grande tradizione europea. Forse si potrebbe così trovare un
modello originario, un archetipo – potremmo dire antropologico – sul quale poggiano
entrambe le tradizioni e dal quale esse hanno preso vita in ambiti geografici diversi,
per poi ritrovarsi nel corso della storia.
Gli studiosi che supportano l’origine germanica della leggenda trovano un loro
punto di forza nel fatto che la tradizione tedesca conosceva già da molto tempo la
leggenda del Venusberg, la mitica residenza della dea Venere. In questo luogo si
narrava che gli uomini potessero godere di tutti i piaceri mondani, quei piacere che il
17
Cristianesimo aveva demonizzato. Si può facilmente immaginare quale miscela di
fascinazione e orrore potesse rappresentare un siffatto luogo nella cultura popolare.
Molti studiosi antichi e moderni si sono adoperati per dare una collocazione al
paradiso di Venere e molte regioni della Germania – e non solo – rivendicano l’onore
di ospitarlo. Anche escludendo i testi riguardanti Tannhäuser, nella letteratura dei
secoli XV e XVI troviamo infatti moltissime allusioni al Monte di Venere. Possiamo
dunque affermare che l’esistenza di questo luogo leggendario non si collega solo al
personaggio di Tannhäuser, ma vive nella cultura tedesca medievale e rinascimentale
di una propria autonomia. Il nome Venusberg non risale tuttavia al Medioevo, ma fa
la sua apparizione nel XV secolo. Viene menzionato per la prima volta da Johannes
Nider, frate domenicano autore di numerosi trattati religiosi, che si chiede se sia
possibile l’esistenza di un tale luogo. Nello stesso periodo però con la parola
Venusberg viene indicata in alcuni testi tedeschi anche la montagna dei Sibillini in
Italia e abbiamo già visto a tal riguardo la lettera di Papa Pio II al fratello. Anche
Felix Hammerlin nelle sue cronache parla della montagna italiana chiamandola
Venusberg. In uno dei manoscritti che riportano i cosiddetti Heldenhbücher, libri
degli eroi, appare per la prima volta la figura del cavaliere Eckart che davanti al
Venusberg ammonisce i cavalieri a non entrarvi. La montagna di Venere torna poi
nel poema Die Möhrin di Hermann von Sachsenheim, che per primo ci offre una
lunga descrizione del paradiso della dea. In questo periodo la leggenda ha grande
diffusione e molti si adoperano per trovare il Venusberg. Alcuni ritengono che si
trovi in Toscana. Il domenicano Felix Faber, autore di un resoconto di viaggio in
Terrasanta14, ipotizzò addirittura che il Venusberg si trovasse sull’isola di Cipro. Per
Sebastian Brant il Venusberg è uno dei tanti modi in cui si manifesta la follia umana
e rappresenta la seduzione della lussuria e l’inganno del diavolo15. È impossibile
citare tutti i luoghi in cui compare la mitica montagna di Venere. Possiamo però
14 F. Faber, Evagatorium in Terrae Sanctae, Arabiae et Egypt, 1483. 15 Cfr. S. Brant, Das Narrenschiff, 1494, cap. 13.
18
affermare che da un certo momento in poi la leggenda del Venusberg risulta
indissolubilmente intrecciata a quella di Tannhäuser.
Alla figura della dea dell’amore è legata anche un’altra leggenda che ebbe vasta
diffusione nel Medioevo, anche prima di quella di Tannhäuser e del Venusberg: è la
storia dell’anello e della statua di Venere. La leggenda dell’anello di Venere
comparve in una cronaca in versi di William von Malmesbury del 1124: durante la
cerimonia nuziale lo sposo infila l’anello al dito di una statua di Venere e la dea va a
trovarlo nel suo letto nuziale strozzandolo con i propri abbracci. Della malia
esercitata da un’immagine marmorea di Venere su un giovane poeta tratta anche la
novella Das Marmorbild, ossia la statua di marmo, del 1819 di Joseph von
Eichendorff, che riprende anche elementi della tematica di Tannhäuser. Vedremo più
avanti che anche Heine mostrò interesse per questa storia nel saggio Gli spiriti
elementari. All’anello di Venere e alla visita mortale della statua rimanda anche la
Venus d’Ille del 1837 di Prosper Mérimée. Questa volta a interessarsi dell’argomento
è un autore francese. In questo racconto una statua di rame della dea, recante sul
piedistallo la scritta “Cave Amantem”, si innamora di un giovane che si sta per
sposare e tenta in tutti i modi di ostacolarne le nozze. Prima spezza la gamba di un
amico di lui, dopo ruba l’anello che il giovane aveva incautamente infilato al dito
della statua e alla fine lo uccide proprio la notte delle nozze, schiacciandolo con il
proprio peso. Il tema è ripreso anche nella letteratura inglese: è presente infatti in
alcune poesie di William Morris16 e nel poemetto Charmides (1881) di Oscar Wilde.
Con questi ultimi due autori siamo però già oltre l’opera di Wagner.
Compiamo ora un breve excursus sulla fortuna della leggenda di Tannhäuser dal
Rinascimento all’Ottocento, per capire a grandi linee quali siano state le tappe
percorse dalla storia prima di arrivare a Wagner. La prima fonte scritta tedesca, in cui
la leggenda di Tannhäuser appare ormai formata, risale al 1453 ed è il già citato
poema Die Möhrin di Hermann von Sachsenheim. In esso l’autore narra di avere
incontrato Tannhäuser a fianco di Venere nel cuore della montagna incantata. Hans
16 Scrittore inglese attivo negli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento.
19
Sachs è autore di un Fastnachtspiel17 dal titolo Das hoffgesindt Veneris, i servi della
corte di Venere, del 1517, in cui varie figure sfilano davanti a Venere e ne restano
vittime; tra esse c’è anche Tannhäuser. Ma in queste opere la figura di Tannhäuser
appare solo di sfuggita. Dobbiamo attendere ancora per trovare la storia esposta in
modo completo, ossia con la fuga di Tannhäuser, il mancato perdono del papa e il
ritorno da Venere. La leggenda di Tannhäuser giunse alla sua piena vitalità nel
Volkslied. Le prime stampe sono del 1515 e avvengono prima su fogli singoli e solo
in seguito in volumi. La diffusione della leggenda fu rapida e vastissima e nel XVII
secolo è riportata da molti autori. Tra essi vanno ricordati almeno Kornmann18 e
Praetorius19, che offriranno materiale agli scrittori romantici. Durante il
Romanticismo la leggenda di Tannhäuser conobbe infatti una fortuna ancora più
vasta. Prima Arnim e Brentano e poi i fratelli Grimm ripresero la leggenda per
includerla nelle loro raccolte di canti popolari. Anche Ludwig Bechstein inserì la
leggenda nella sua raccolta di saghe germaniche. Già Tieck nel 1799 aveva
intrecciato, in uno dei racconti riuniti più tardi nel Phantasus, la leggenda di
Tannhäuser con quella del fido Eckart. Goethe, che fu grande estimatore dell’opera
di Arnim e Brentano, riconobbe nella vicenda di Tannhäuser “un grande motivo
cristiano-cattolico”. Emanuel Geibel e Friedrich von Sallet narrarono la leggenda in
alcune loro poesie, mentre Clemens Brentano meditò di trarne un libretto per la
musica di Weber. Heine trattò la materia nel saggio Gli spiriti elementari e scrisse
anche una propria versione della ballata medievale. Molti di questi autori saranno
approfonditi nel corso della trattazione, perché costituiscono le fonti dirette del
Tannhäuser wagneriano. Il dramma di Wagner si pone infatti alla fine di questa
lunga tradizione, che aveva visto la leggenda fiorire nella letteratura tedesca ed
europea.
17 Rappresentazione teatrale carnevalesca, in cui una serie di figure sfilano in corteo. 18 Kornmann, Mons Veneris, Frau Venus Berg, 1614. 19 Johannes Schulze (Pratetorius), Blocksberg Verrichtung, 1668.
20
2.2. La leggenda dei cantori sulla Wartburg
L’altra leggenda che compare nel dramma di Wagner è quella della gara dei
cantori sulla Wartburg. Come nel caso di Tannhäuser, anche qui c’è un fondamento
storico, anche se abbastanza vago. La gara tra i cantori dovrebbe essere avvenuta tra
il 1205 e il 1208 nel castello della Wartburg, in Turingia, ma non abbiamo documenti
storici affidabili che confermino che l’episodio si avvenuto davvero. L’autore del
poema originario che tramanda la storia è ignoto. Probabilmente era un giullare di
Turingia, forse lo stesso cui dobbiamo il poema che narra la storia di Lohengrin.
Anche questa leggenda prese corpo nei Volksbücher, che l’hanno traghettata fino alle
soglie dell’età moderna. I poemi intorno alla gara dei cantori sono in realtà molti e
riflettono il grande fervore letterario che regnava alla corte del Langravio Hermann I
agli inizi del XIII secolo. Questi poemi ci sono pervenuti tramite i manoscritti nei
quali sono riportate la maggior parte delle canzoni del Medioevo tedesco. Una
raccolta di poemi lirici intitolati Der Sängerkrieg auf der Wartburg, scritta tra il 1240
e il 1260, fu tradotta in tedesco moderno e pubblicata da Karl Simrock nel 1858.
Questa pubblicazione nasce dopo il dramma di Wagner ma dimostra che il tema
godeva all’epoca di una nuova fortuna.
I cantori che sono citati nei testi sono personaggi sia storici, come Wolfram von
Eschenbach e Walther von der Vogelweide, che di fantasia, come Klingsor
d’Ungheria e Heinrich von Ofterdingen. Le versioni antiche, quelle del XIII secolo,
descrivono episodi specifici della gara come il Fürstenlob e la Rätselspiel. Nel
Fürstenlob, cioè l’elogio del principe, assistiamo a una contesa tra sei cantori20. Essi
sono chiamati a concorrere di fronte al principe e alla contessa su chi tra loro avrebbe
cantato nel modo migliore le lodi del signore. La pena per il perdente è la morte.
Heinrich von Ofterdingen è il più eloquente e attira così l’invidia dei suoi compagni,
che lo fanno cadere in un inganno che ne determina la condanna a morte. Ma
20 I loro nomi sono: Heinrich von Ofterdingen, Walther von der Vogelweide, Biterolf, Reinmar von
Zweter, Wolfram von Eschenbach e Heinrich Schreiber.
21
Heinrich riesce a ottenere la protezione della contessa Sophia, nella quale
riconosciamo un prototipo di Elisabetta. Le pena viene sospesa per un anno, durante
il quale Heinrich si reca in Ungheria e chiede l’aiuto dello stregone Klingsor.
Heinrich e Klingsor tornano in Turingia per riprendere la contesa. Il Rätselspiel, la
gara degli indovinelli, è il successivo duello tra Wolfram von Eschenbach e il mago
Klingsor. Wolfram si dimostra capace ed eloquente e quando Klingsor chiama un
demone per continuare il duello, Wolfram inizia a cantare i misteri cristiani e il
demone non può più rispondere. Nella gara tra Wolfram e Klingsor gli interpreti
hanno visto lo scontro tra il laico illetterato, che si riconosce solo la tradizione
cristiana, e il dotto sapiente, rappresentante dell’emancipazione della scienza.
La leggenda della Wartburg e quella di Tannhäuser non hanno alcun legame tra
di loro per quanto riguarda l’origine e la materia narrativa. Wagner fu il primo a
fonderle con massima attenzione ai dettagli, basandosi sull’ipotesi di Lucas secondo
la quale Tannhäuser e Heinrich von Ofterdingen sarebbero la stessa persona.
L’ipotesi è contenuta nel saggio di Lucas Über der Wartburgkrieg (1838), di cui
Wagner era venuto a conoscenza grazie all’amico Lehr. Fu così che alla figura di
Tannhäuser si unirono le suggestioni della poesia fiorita intorno al motivo della gara
dei cantori sulla Wartburg. La fusione delle due leggende è suggerita forse anche da
un passo delle Sagen di Ludwig Bechstein (1836). Tuttavia lo stesso Wagner scrive
che l’idea dell’unione tra le due leggende gli era apparsa accennata già nel canto
popolare. L’intreccio dei due mondi leggendari fu ciò che colpì più di tutto Wagner e
che determinò la scelta dell’argomento.
Prima di Wagner la leggenda era stata ripresa da altri autori romantici. Già verso
la fine XVII secolo, Johann Jakob Bodmer in Wiederentdeckung des Mittelalters (La
riscoperta del Medioevo) ci offre un resoconto della gara dei cantori. Nel 1802 viene
pubblicato postumo il romanzo Heinrich von Ofterdingen di Novalis, in cui però non
è descritta la gara dei cantori. Il romanzo è infatti incompiuto e l’episodio avrebbe
dovuto trovare spazio nella seconda parte. La tenzone è invece descritta nelle opere:
Die Serapionsbrüder (1818) di Hoffmann, Der Sängerkrieg auf der Wartburg (1828)
del barone La Motte Fouquè e nelle Deutsche Sagen (1816) dei fratelli Grimm.
22
Anche le arti figurative contribuirono a questa rinascita ottocentesca della leggenda,
che viene assunta nel Romanticismo a simbolo culturale germanico. Il pittore
austriaco Moritz von Schwind tra il 1854 e il 1856 dipinse nel castello della
Wartburg un ciclo di affreschi sulla gara dei cantori.
2.3 Parola d’autore
La ricerca delle fonti di un’opera di qualsiasi genere è un lavoro abbastanza
difficile e mai certo. Nel caso di Wagner tuttavia ci viene in aiuto l’autore stesso. Di
lui si dice che abbia scritto più parole che musica e in effetti il catalogo delle opere
letterarie wagneriane è vastissimo, nonostante egli abbia più volte dichiarato il
proprio odio per il mestiere dello scrittore. La maggior parte dei suoi scritti sono
opere speculative, in cui l’autore espone le proprie idee sull’arte musicale. Ci sono
poi i libretti dei suoi drammi, alcune novelle e molti articoli per riviste e giornali.
Abbiamo infine alcuni lavori autobiografici, tra cui spicca la sterminata autobiografia
e un ricco epistolario scambiato con vari personaggi della sua epoca. In questa
vastissima bibliografia ci sono, inevitabilmente, precisi riferimenti alle letture
compiute per la stesura di Tannhäuser e delle altre opere.
I testi che utilizzeremo per il nostro scopo sono: Eine Mitteilung an meine
Freunde (Una comunicazione agli amici) del 1851 e Mein Leben (Autobiografia)21,
scritta tra il 1865 e il 1880. Mentre il secondo testo non pone problematiche
particolari dal momento che il titolo non lascia dubbi riguardo l’argomento, per il
primo è necessario specificare di che genere si opera si tratti. È anch’esso un testo
per alcuni aspetti autobiografico, ma di carattere diverso rispetto alla successiva
Autobiografia. La Comunicazione agli amici fu scritta da Wagner durante l’esilio in
Svizzera con lo scopo di far conoscere agli amici la sua evoluzione artistica e
spirituale fino a quel momento. È una meditazione sulla propria arte letta attraverso
21 Per comodità queste opere nel capitolo saranno citate con il titolo italiano.
23
la genesi delle sue prime opere. Tra le opere che Wagner aveva scritto prima di quel
1851 c’è anche il Tannhäuser e questo breve scritto nasce proprio come introduzione
all’edizione delle tre opere romantiche di Wagner. Appare chiaro allora che il testo
fornisce un’importante testimonianza nello studio delle fonti del dramma. Dalla
Comunicazione agli amici apprendiamo che l’opera in cui Wagner scoprì la figura di
Tannhäuser fu il racconto Der getreue Eckart und der Tannhäuser (1799) di Tieck.
La tenzone dei cantori pervenne invece alla sua fantasia attraverso la trasposizione
della leggenda effettuata da Hoffmann in Die Serapionsbrüder (1819). Ma non fu la
lettura di queste opere a colpire l’attenzione di Wagner: la fantasia del compositore si
accese quando rilesse quelle stesse storie nelle raccolte di racconti medievali. In
queste versioni egli colse lo spirito proprio della leggenda, quel puramente umano la
cui ricerca egli innalzerà a scopo della sua arte. Ecco allora che l’autore ci parla
dell’empatia profonda che provò per Tannhäuser. Riferendosi a questo personaggio
Wagner scrive: «Questa figura scaturiva dal profondo di me stesso». E ancora:
L’autentica e semplicissima figura umana verso la quale soltanto tendeva la mia
aspirazione più profonda mi era appena apparsa proprio sotto le sembianze di
Tannhäuser.22
È questa la scintilla che mette in moto l’ingegno dell’artista. Egli decide di
abbandonare il progetto di un dramma storico sulla figura di Manfred, figlio di
Federico II, che stava elaborando. È l’ennesimo scontro tra la storia e il mito in
Wagner, in cui il mito ha sempre la meglio. Nella Comunicazione agli amici il
definitivo rifiuto della storia rappresenta il più importante risultato teorico. Il rifiuto
del dramma storico spiega anche perché Wagner non si dilunghi troppo a parlare dei
drammi Rienzi e La Saracena o almeno perché non lo faccia in termini troppo
elogiativi. A questo punto dell’evoluzione artistica del compositore la decisione è
ormai stata presa: d’ora in poi i drammi di Wagner avranno soltanto soggetti mitici.
22 R. Wagner, Una comunicazione ai miei amici, Pordenone 1985, p. 51.
24
C’è un altro elemento nella Comunicazione agli amici, questa volta prettamente
biografico, rilevante per la nostra indagine. Possiamo infatti ricostruire una piccola
geografia di paesaggi che colpì l’animo di Wagner. Egli dice che, durante il viaggio
da Parigi a Dresda, passò per la valle della Turingia dalla quale di scorge la Wartburg
sulla collina. La vista diretta del luogo che già aveva stimolato la sua fantasia negli
anni parigini attraverso le letture dovette contribuire nella decisione di portare avanti
quel soggetto, dal quale egli si sentiva attratto «in modo del tutto spontaneo e
istintivo»23. I luoghi hanno un ruolo fondamentale nella nascita del Tannhäuser.
Wagner racconta che la stesura dell’abbozzo avvenne durante una gita nei monti
della Boemia. Sappiamo che questa gita si svolse in un luogo fortemente evocativo,
simile a quei luoghi che si incontrano anche nella tradizione italiana dei Monti
Sibillini. Questo luogo è lo Schreckenstein, la Roccia dell’Orrore, presso Aussig. La
suggestione per i paesaggi costituisce un elemento tipicamente romantico ed è una
caratteristica ricorrente in Wagner. Nella stessa Comunicazione agli amici egli ci
offre un’immagine letteraria bellissima di sé stesso sulla cima di una montagna che
scruta il mondo al di sotto. È questa un’allegoria della posizione dell’artista del
mondo, che abbiamo detto essere tema centrale nel Tannhäuser. Inoltre è proprio
sulla cima di una montagna che Tannhäuser si smarrisce nel paradiso di Venere.
Questa immagine ci ricorda che Wagner in quegli anni di esilio in Svizzera non di
rado si concedeva gite in montagna, ma ci riporta alla mente anche Il viandante sul
mare di nebbia di Caspar David Friedrich.
L’altro testo nel quale Wagner parla delle fonti del Tannhäuser è
l’Autobiografia, scritta tra il 1865 e il 1880 in parte sotto dettatura alla moglie
Cosima. L’opera sarà pubblicata postuma solo nel 1911 e alcuni dubbi sono stati
sollevati dai critici su quanto la mano della moglie possa aver operato per mitigare
alcuni aspetti del carattere del marito. La prima sezione finisce con l’anno 1842,
Dobbiamo quindi presumere che con quella data Wagner ritenesse conclusa la prima
fase della propria produzione. Uno degli ultimi eventi riportati in quella sezione è
23 Ivi, p 52
25
l’irruzione nella fantasia di Wagner di Tannhäuser, che lo induce ad abbandonare il
dramma storico su Manfred. Questo era già raccontato nella Comunicazione agli
amici. In effetti Wagner dice qui poco di nuovo rispetto alla Comunicazione agli
amici; anzi, leggendo il testo viene il dubbio che quando Wagner scrisse questa parte
dell’Autobiografia guardò proprio al vecchio scritto, per riportare alla mente eventi
che ormai erano abbastanza lontani nel tempo. Abbiamo però la conferma che
l’incontro con la vera tradizione popolare fu determinante. Scrive Wagner: «In quel
periodo un soggetto mi sedusse all’improvviso. L’avevo trovato in un libro popolare
sul Venusberg, che mi era capitato per caso tra le mani»24. Ma qui c’è un altro punto
importante: Wagner afferma di aver individuato per la prima volta un rapporto tra la
storia di Tannhäuser e quella della Wartburg proprio nella tradizione popolare. «Ciò
che fece cader la bilancia dalla parte del libro popolare fu il trovarvi Tannhäuser
messo in rapporto, sia pure fuggevolmente, con il torneo dei cantori alla
Wartburg»25. Wagner allora inizia a informarsi sul tema e si fa portare dall’amico
Lehr un bollettino annuale della “Società tedesca di Königsberg”, nel quale Lucas
parla della tenzone poetica sulla Wartburg e ne fornisce una versione in alto-tedesco.
Questo testo è l’ultima fonte che Wagner cita.
Dai testi di Wagner ricaviamo quindi alcuni dati utili. Abbiamo intanto due
autori che possiamo considerare come letture certe di Wagner: Tieck e Hoffmann.
Ma oltre a questi nomi desumiamo una nozione che dovremmo tenere presente
nell’andare avanti nello studio: nella scelta del tema ebbe un grande peso,
probabilmente maggiore di quello esercitato dagli autori moderni, la tradizione
popolare vera e propria.
24 R. Wagner, Autobiografia, Milano 1983, p. 219 25 Ivi, p. 220
26
2.4 Le fonti dirette
Per fonti dirette si intendono quei testi che l’autore effettivamente conobbe e sui
quali basò il proprio lavoro. Abbiamo detto che le due leggende dalle quali nacque il
dramma di Wagner si perdono nella tradizione medievale. Questa tradizione di
presenta sotto forma prevalente orale; ma dobbiamo presumere che all’epoca di
Wagner, o comunque nel suo contesto sociale, la tradizione orale fosse ormai del
tutto svanita. È per questo che occorre, per capire veramente da dove sia nato il testo
che leggiamo, individuare quali siano stati i testi scritti, le opere letterarie, che
Wagner ebbe tra le mani e dalle quali la sua fantasia trasse lo spunto per il tema
dell’opera. Abbiamo detto che l’idea di scrivere un dramma sul tema del cavaliere
tedesco venne a Wagner dalla lettura di un libro di leggende germaniche, uno dei
tanti Volksbücher che circolavano in quel periodo e nei quali erano state codificate la
maggior parte delle leggende popolari tedesche. La tradizione dei Volksbücher si
diffonde in Germania nel XVI secolo, con la diffusione della stampa, ma già un
secolo prima ne troviamo alcuni precedenti in Francia e Inghilterra. Forse a causa del
suo essere un prodotto d’importazione, il Volksbuch accolse leggende e fiabe sia
tedesche che straniere. I temi dei testi codificati in queste raccolte erano tra i più vari,
come è varia la fantasia popolare. I canti della tradizione tedesca inseriti in queste
raccolte appartengono al genere del Volkslied, che era nato per evoluzione dalla lirica
cortese. Prima di essere raccolti questi componimenti circolavano su fogli volanti,
chiamati in tedesco Flugblätter. Gli autori dei Volkslieder sono perlopiù ignoti e i
racconti si perdono nella tradizione orale. Il Volkslied è infatti in origine il canto del
popolo lavoratore, che si affina più tardi attraverso l’utilizzo dello stile della lirica
cavalleresca. Il Volkslied mantiene tuttavia un carattere di naturalezza e spontaneità,
che è ciò che colpirà Wagner. Questa ingenuità dello stile deriva dal fatto che il verso
non debba rispettare un numero di sillabe prestabilite e che nel Volkslied il contenuto
coincida sempre con l’espressione, non c’è mai nulla di sottointeso o che va oltre il
testo.
27
Non possiamo sapere con esattezza quale edizione dei canti popolari Wagner
ebbe tra le mani, ma è certo che in essa egli lesse la leggenda di Tannhäuser e quella
della gara dei cantori sulla Wartburg. Abbiamo già detto che ebbe grande presa su
Wagner anche la lettura del saggio Über der Wartburkrieg di Lukas (1938). Wagner
fu aiutato nelle ricerche sull’argomento anche da Johann Georg Theodor Graesse,
bibliotecario presso la corte di Sassonia a Dresda, che nel 1846 completerà il saggio
Die Sage vom Ritter Tannhäuser. Letture sia antiche che moderne accesero dunque
l’interesse del compositore sull’argomento. Il tema del cavaliere e del Venusberg
aveva avuto un’ampia fortuna in ambito tedesco durante il Romanticismo. È questa
tradizione, così vicina a Wagner, la fonte diretta primaria per il dramma. Alcuni di
questi autori, come abbiamo visto, sono citati direttamente da Wagner nella
Comunicazione agli amici e nell’Autobiografia. È tuttavia quasi impensabile che
Wagner non avesse letto l’intera produzione romantica tedesca sull’argomento nel
momento in cui si accinse a scrivere il libretto del Tannhäuser. Lo scopo di questo
capitolo è dunque quello di analizzare nel dettaglio questi testi, che sono quelli che ci
conducono direttamente all’oggetto del nostro interesse. L’analisi procederà in
ordine cronologico.
2.4.1 Ludwig Tieck
Il primo autore a essere preso in considerazione è Ludwig Tieck, che nel 1799
scrive il racconto Der getreue Eckart und der Tannhäuser (Il fido Eckart e
Tannhäuser), poi inserito nella raccolta Phantasus. Sappiamo già che questo
racconto costituì il primo incontro di Wagner con la figura di Tannhäuser. Ma
l’interesse di Wagner per l’argomento si accese solo alla lettura della leggenda nel
Volksbuch, nel quale il soggetto ha il suo originario carattere popolare. Wagner
individuò il motivo del mancato interesse destato in lui della novella di Tieck nel suo
carattere moderno, che produce una mescolanza di «misticismo e civetteria».
L’atteggiamento sprezzante nei confronti di Tieck conferma quanto Wagner dichiara
28
nell’Autobiografia: dalle sue fonti romantiche egli trasse l’atmosfera generale di un
caratteristico medioevo tedesco, ma non le implicazioni più profonde. La sua ricerca
è volta verso l’uomo nella sua purezza, tale come può essere trovato solo nel mito. In
questo sta la fine commistione della tradizione romantica con la leggenda medievale
originaria.
La novella di Tieck si divide in due parti. La prima parte narra la storia del
cavaliere Eckart che, fedelissimo al granduca di Borgogna, si vede sospettato di
tradimento e scacciato dalla corte. Il granduca fa uccidere i figli di Eckart, che erano
andati a chiedere spiegazioni per l’allontanamento del padre. Eckart disperato
incontra nel bosco un vecchio, che gli racconta di aver perso i figli nella montagna di
Venere. Il vecchio gli parla di un musico, che con le sue note prende in trappola
chiunque le ascolti e le conduce in quel regno di perdizione. Durante una tempesta
Eckart si trova a dover soccorrere il granduca. In questo momento l’antica fedeltà
vince sul desiderio di vendetta: Eckart il fido porta in salvo l’uccisore dei suoi figli.
Quando il granduca scopre chi lo ha salvato, si pente delle proprie azioni e prima di
morire affida la custodia del propri figli a Eckart. Ma ecco apparire il musico che
attira verso il Venusberg i figli del granduca. Eckart allora si batte e muore
sacrificandosi. Da allora la leggenda narra che chi voglia recarsi presso il monte di
Venere sia persuaso a desistere dal fido Eckart, che aspetta all’ingresso della grotta.
La seconda parte della novella è ambientata quattrocento anni più tardi. È qui
che si parla di Tannhäuser, che dopo essere sparito per anni racconta all’amico
Federico la sua storia. Egli avrebbe ucciso il promesso sposo della sua amata Emma,
che sarebbe poi morta a sua volta. Tornato a casa Tannhäuser avrebbe poi assistito
alla morte dei genitori. In questa condizione di disperazione si era trovato a entrare
nel regno di Venere, dove avrebbe poi passato anni nella lussuria e nel peccato.
Tannhäuser dice a Federico che ora vuole andare a Roma per confessare il suo
peccato e chiedere il perdono del papa. Federico però dice a Tannhäuser che è stata
tutta una fantasia: Emma è in realtà la moglie di Federico stesso. Tannhäuser non
ottiene il perdono del papa e torna da Venere, ma prima passa da Federico e lo bacia.
29
Emma viene trovata morta e Federico sparisce. Si dice infatti che chi è baciato da un
reduce del Venusberg sia a sua volta preso dalla malia irresistibile di Venere.
La storia che ci racconta Tieck è diversa da quella di Wagner. La leggenda è
ovviamente la stessa, ma i particolari cambiano. Tieck inserisce infatti un elemento
di dubbio e di mistero. Quello che sembra al lettore è che la storia di Tannhäuser sia
il racconto di un folle. In effetti se Emma è la moglie di Federico, Tannhäuser
assume tutti i connotati di un malato di mente, che ha confuso la fantasia con la
realtà. Il racconto leggendario ci mostra così la sua natura fantastica. È un processo
che, con un termine novecentesco, potremmo dire metatestuale e quindi tipicamente
moderno. Il mito svela la propria finzione e interrompe quella che il poeta inglese
Coleridge chiama suspension of disbelief, la sospensione dell’incredulità, l’elemento
necessario per la lettura di ogni racconto fantastico. È questo probabilmente che non
piacque a Wagner, che invece preferì la versione originaria, quella tramandata dalla
voce delle persone che credevano veramente che sulla montagna ci fosse il regno di
perdizione di Venere e che Tannhäuser vi avesse trovato la dannazione. Tieck
aggiunge insomma una nota di cinismo che a Wagner proprio non piace. E ancora
più tipicamente moderno è il velo di mistero che copre il finale. La visione di
Tannhäuser alla fine è realizzata: Emma muore e Federico, il suo sposo, scompare.
Nella vicenda che ci racconta Wagner invece il finale è ben chiaro. I personaggi
muoiono, ma non ci sono dubbi sulla loro morte, né sul destino che spetta alle loro
anime: il mito non prevede alcun mistero, tutto alla fine è chiarificato.
La figura di Eckart, che all’ingresso del Venusberg cerca di trattenere coloro che
vanno verso la perdizione, lascia qualche traccia nel Wolfram di Wagner. Il musico
che attira le anime nel Venusberg ci ricorda invece il pastore che intona il canto a
Venere, che Tannhäuser incontra uscendo dal Venusberg. La funzione dei due
personaggi è del tutto diversa e il pastore ha molto meno potere del musico di Tieck,
ma le due figure potrebbero essere imparentate.
Un’annotazione finale sul testo di Tieck. All’inizio della seconda parte del
racconto Tannhäuser parla di sé stesso in questi termini:
30
A qualcuno, nel momento in cui nasce, è assegnato uno spirito perverso che durante la
vita lo angoscia e non lo lascia in pace finché non abbia raggiunto la meta della sua
malvagia predestinazione. Così accadde a me: tutto il corso della mia vita è soltanto la
pena continua del mio nascere. Il mio risveglio sarà solo l’Inferno.26
Questo passo ci dà lo spunto per accostare la figura di Tannhäuser a quella
dell’ebreo errante, che è il prototipo per il protagonista dell’Olandese volante e
indica l’impossibilità di trovare una collocazione nel mondo. Abbiamo già visto
come Wagner attribuisse al suo Tannhäuser una forte carica sociale, intendendo il
suo personaggio proprio come il simbolo della ricerca dell’artista di un ruolo nel
mondo. In questo Wagner potrebbe aver avuto qualche suggestione da Tieck. Per il
resto il racconto di Tieck, al di là degli aspetti puramente contenutistici, risulta
abbastanza estraneo dalla visione e alle idee wagneriane sull’arte.
2.4.2 Achim von Arnim e Clemens Brentano
Più vicina alla tradizione popolare e per questo più congeniale allo spirito
wagneriano è la versione della leggenda di Tannhäuser inserita nella raccolta Des
Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo) di Achim von Arnim e Clemens
Brentano, pubblicata in tre volumi tra il 1803 e il 1805. L’idea dei due scrittori fu
quella di riunire quei testi che circolavano in forma anonima e che documentavano la
tradizione popolare tedesca. Questo proposito si inserisce all’interno della ricerca
tipicamente romantica delle fondamenta della propria unità nazionale nel terreno
della storia e delle storie che il Medioevo ha tramandato. Il merito di Arnim e
Brentano fu quello di aver recuperato una gran quantità di testi che circolavano solo
in volantini e opuscoli o erano tramandati solo oralmente e che quindi rischiavano di
andare persi entro poco tempo. Ma i due poeti inserirono anche testi propri, riscritti a
partire dalle storie raccontate dalle leggende popolari. Nella lettera che diede inizio al
26 Tieck, Novalis, C. Brentano, Fiabe romantiche, Torino 1942, p. 84
31
progetto per il Wunderhorn, Brentano scrive ad Arnim: «I migliori canti popolari
dovrebbero trovare qui una sistemazione definitiva, e altre poesie si potrebbero
comporre in aggiunta»27. Destò alcune critiche nei contemporanei il fatto che i due
scrittori decisero a volte di manipolare i testi secondo una sensibilità poetica
decisamente moderna. Lo stesso Brentano criticò di Arnim il carattere troppo
poeticizzato delle sue ricostruzioni dei testi popolari. La questione si inserisce nel
dibattito tra Naturpoesie (poesia naturale) e Kunstpoesie (poesia d’arte), che
sappiamo interessò anche Wagner, che scelse la poesia popolare.
Vale la pena tracciare brevemente la storia del genere della raccolta popolare tra
fine la fine del XVIII secolo e l’epoca romantica. Questi lavori risultarono infatti
grandi fonti di ispirazione per l’intera produzione wagneriana. Di questo genere di
raccolte fanno parte inoltre anche le Deutsche Sagen dei fratelli Grimm, di cui si
parlerà più avanti. La nuova attenzione verso la tradizione popolare viene
dall’Inghilterra, dove Thomas Percy nel 1765 aveva pubblicato la raccolta Reliquies
of Ancient English Poetry. In Germania i primi interessamenti si ebbero da parte di
Gottfried Bürger, che nel saggio Herzensausguss über Volkspoesie (Sfogo del cuore
sulla poesia popolare) aveva auspicato l’avvento di un “Percy tedesco”. Importante
anche il contributo di Goethe, che già nel 1771 aveva trascritto alcune ballate
alsaziane e che accolse con grande interesse e ammirazione il lavoro di Arnim e
Brentano. Nel 1773 Tieck curò una raccolta di Minnelieder (Canti medievali). Ma il
momento fondamentale è la pubblicazione da parte di Herder dei due volumi di
Volkslieder nel 1778-79. La raccolta di Herder fu di certo il modello principale per
Arnim e Brentano, anche se nel Wunderhorn manca l’intento di critica sociale. Tra
Herder e il Wunderhorn si pongono poi molti altri autori di raccolte di questo genere,
tra i quali si possono ricordare Bothe, Bodmer, Elwert, Eschenburg, Gräter e
Becker28.
27 Lettera del 15 febbraio 1805. 28 Ecco i titoli delle loro opere:
J. J. Bodmer, Altenglische und altschwäbische Balladen, 1781
A. Elwert, Ungedrukte Reste alten Gesang nebst Stücken nurer Dichtkunst, 1784
32
Quello che ci interessa più da vicino è che all’interno del Wunderhorn è riportata
anche la Ballata di Tannhäuser. La fonte diretta di Arnim e Brentano è Praetorius,
che aveva trascritto la leggenda nel suo Blocksberg-Verrichtung del 1668. Il
componimento del Wunderhorn è piuttosto breve e assume quasi il carattere di una
favola con morale finale. Il ritmo è abbastanza serrato e si compone di un botta e
risposta, prima tra Venere e Tannhäuser e poi tra Tannhäuser e papa Urbano. La
storia di Tannhäuser assume nella versione di Arnim e Brentano il carattere
antipapale di cui abbiamo già parlato. Il finale infatti, a mo’ di morale, recita:
«Nessun prete dovrebbe mai fare questo, condurre l’uomo alla disperazione; se
costui vuole pentirsi e fare penitenza, che il peccato gli sia rimesso». Ma questo
carattere deriva dalle fonti che Arnim e Brentano utilizzarono ed è presente già nelle
prime versioni a stampa della leggenda nel XVI secolo.
Come nel libretto di Wagner, Venere prima di cedere alla richiesta di
Tannhäuser e lasciarlo andare via cerca di convincerlo a restare invitandolo a
condividere con lei le gioie dell’amore. Nella versione di Arnim e Brentano le
risposte di Tannhäuser risultano più dirette e anche abbastanza dure. Wagner
addolcisce questa durezza di modi probabilmente perché si rende conto che
Tannhäuser è ancora attratto dai piaceri di Venere anche nel momento in cui vi
rinuncia. Quello che spinge però Tannhäuser a fuggire dal Venusberg è la voglia di
libertà. Questo aspetto è spiegato chiaramente da Wagner, che carica il personaggio
di una profondità psicologica ben maggiore di quella che aveva nel canto popolare.
Wagner ci fa capire fino in fondo quello che muove l’animo di Tannhäuser, mentre
nel canto riportato da Arnim e Brentano possiamo solo supporlo. C’è un unico
accenno nel componimento del Wunderhorn che ci fa capire quanto Tannhäuser sia
combattuto, nelle parole: «Tannhäuser uscì dalla montagna, addolorato e pentito».
Possiamo dunque affermare di certo che l’episodio del dialogo tra Venere e
F. H. Bothe, Volkslieder nebst untermischten andern Stücken, 1795
Fr. D. Gräter, in Bragur. Zeitschrift für deutsche Volkskunde, 1791-1802 J. J. Eschenburg, Denkmäler altdeutscher Dichtkunst, 1799
R. Z. Becker, Mildheimisches Liederbuch, 1799
33
Tannhäuser, nonostante Wagner se ne dichiarerà sempre insoddisfatto, risulta
drammaticamente ben strutturato e teso a darci l’immagine di un personaggio sempre
in bilico tra bene e male. Nel fare questo Wagner restò comunque fedele al suo
presupposto di rappresentare il puramente umano. Lo scandaglio psicologico non
arriva mai a quel carattere troppo moderno che Wagner aveva rifiutato in alcuni suoi
contemporanei.
2.4.3 Jacob e Wilhelm Grimm
La tappa successiva del nostro percorso è costituita dalla raccolta delle Deutsche
Sagen (Saghe germaniche) dei fratelli Grimm del 1816. In questa raccolta, come in
quella di Arnim e Brentano, è interessante notare la continuità con la tradizione del
Volksbücher, che costituiscono un’inesauribile fonte di materiali. I Grimm si
inseriscono nel dibattito tra Naturpoesie e Kunstpoesie: Jacob sosteneva una poesia
ingenua, vera e nata dal bisogno di fare poesia, mentre Wilhelm propendeva per una
poesia più mediata da poter pubblicare e diffondere anche tra un pubblico straniero.
Nelle Deutsche Sagen dei fratelli Grimm troviamo la leggenda di Tannhäuser,
quella dei cantori sulla Wartburg e quella di Lohengrin29. I fratelli Grimm
costituiscono dunque una fonte sia per quanto riguarda la leggenda di Tannhäuser
che per quella dei cantori. Il modo di raccontare dei Grimm non fa uso dei dialoghi,
che erano invece fondamentali nelle versioni popolari, in quella di Arnim e Brentano
e nel più tardo componimento di Heine, di cui si parlerà in seguito. Nonostante
questa diversa tecnica narrativa, notiamo una sostanziale equivalenza tra la versione
di Arnim e Brentano e quella del fratelli Grimm per quanto riguarda la storia di
Tannhäuser, tanto che appare anche la stessa sentenza antipapale nel finale.
Entrambe le versioni si rifanno probabilmente al medesimo modello. Dal punto di
29 Quella di Tannhäuser è la saga numero 171, quella dei cantori sulla Wartburg la numero 561 e
quella di Lohengrin la numero 542.
34
vista contenutistico i fratelli Grimm non ci offrono quindi nessuna novità e non ne
offrirono nemmeno a Wagner. Notiamo, come nel caso di Arnim e Brentano, una
certa concisione, che Wagner abbandonerà per adattare la leggenda alla forma più
ampia del dramma musicale.
Più esteso è il capitolo delle Deutsche Sagen che riguarda la leggenda dei cantori
sulla Wartburg. Il testo è dedotto dai fratelli Grimm a partire da vari manoscritti, tra
cui il già citato Codice Manesse e il Codice di Jena. La storia si incentra sulla figura
di Heinrich nella prima parte e su quella di Klingsor nella seconda. Heinrich von
Ofterdingen perde per l’invidia dei compagni la sfida di canto ed è condannato a
morte, ma Sophia stende su di lui la sua ala protettrice e ottiene che la pena sia
rimandata di un anno. In questo anno Heinrich va in Ungheria presso il mago
Klingsor, che però è inizialmente presentato piuttosto come un maestro cantore.
L’aspetto magico e diabolico di Klingsor subentra nel momento in cui Heinrich si
ritrova come per incantesimo sulla Wartburg dalla sera alla mattina. Klingsor si
scontra con Wolfram e poi lascia spazio a uno dei propri diavoli. Ma Wolfram lo
vince facendo appello alla fede e alla parola divina. Si nota come le due parti siano
indipendenti l’una dall’altra, come era nelle versioni antiche. Nel finale infatti non
abbiamo delucidazioni sul destino di Heinrich. L’aspetto diabolico di Klingsor, che
sarà centrale in Hoffmann, appare qui solo poco per volta.
I fratelli Grimm offrirono insomma a Wagner, più che Arnim e Brentano, un
approccio diretto con la tradizione popolare e con i testi più antichi. Wagner si ispirò
alle loro saghe anche per altre opere, come I maestri cantori di Norimberga, il
Lohengrin e Parsifal, in cui torna la figura di Klingsor. Per l’ampiezza della materia
offerta e per l’approccio alla leggenda affine a quello wagneriano possiamo
considerare i fratelli Grimm, a differenza di Tieck, un modello positivo per Wagner.
35
2.4.4 Ernst Theodor Amadeus Hoffmann
Hofmann costituisce una delle fonti principali di Wagner per la leggenda dei
cantori sulla Wartburg. L’episodio de La gara dei cantori (1818) è inserito nella
raccolta Die Serapionsbrüder (I confratelli di Serapione), pubblicata tra il 1819 e il
1821. Quest’opera costituisce un prodotto molto particolare, una sorta di Decameron
tedesco. Il modello per la struttura è quello del già citato Phantasus di Tieck e
l’occasione della sua stesura fu la richiesta fatta a Hoffmann da parte del suo editore
di raccogliere alcuni dei suoi racconti sparsi in un unico libro. L’autore esaudì la
richiesta e aggiunse anche molti materiali nuovi. I racconti sono inseriti in una
cornice costituita da un incontro tra vecchi amici che si riuniscono dopo dodici anni.
Il Serapione del titolo è un uomo che uno dei protagonisti, Cipriano, racconta di aver
incontrato in un bosco. Egli era stato un uomo di cultura e di mondo ma, indotto
dalla follia a credere di essere il martire Serapione di Alessandria, si era ritirato a vita
da eremita. La storia di Serapione è la prima novella della raccolta, ma il testo che ci
interessa è contenuto nella parte terza.
Il racconto di Hoffman si distanzia in molti particolari da quello dei fratelli
Grimm. Proviamo a farne un riassunto. La storia de La gara dei cantori è letta da
Cipriano, che afferma di aver scritto la novella ispirandosi a un libro di Johann
Christoph Wagenseil30. La narrazione si apre con l’immagine di un uomo che,
durante la notte dell'equinozio di primavera, legge davanti al camino un libro di
Wagenseil mentre fuori si scatena una tempesta. L’uomo si addormenta e sogna di
essere in un bosco. Qui incontra un gruppo di cavalieri intenti a cantare soavi
melodie. Appare allora proprio Wagenseil, vestito in abiti secenteschi, che spiega
all’uomo che quelli che ha visto sono i cantori della Wartburg e tra loro stavano il
30 Wagenseil, giurista e storico vissuto tra il 1633 e il 1705, aveva infatti aggiunto un’appendice alla
sua opera De sacri Romani imperii libera civitate Norimbergensi commentatio (1697), in cui
ripercorreva la storia della gara dei cantori. Hoffmann si ispirò inoltre, probabilmente, per la
descrizione della Wartburg, allo studio di J.C.S. Thorn Schloss Wartburg, ein Beitrag zur Kunde der Vorzeit (1815).
36
langravio Ermanno di Turingia e la bellissima contessa Matilde. Wagenseil dice
anche che sta per iniziare una gara di canto tra i sei cantori, proprio lì nel bosco, e
invita l’uomo a seguirlo per assistervi. I maestri a turno cantano la loro canzone e
Matilde sta per premiare con la corona Wolfram, ma Heinrich si ribella perché non è
ancora stata ascoltata la sua canzone. La canzone di Heinrich è una lode a un signore
supremo e misterioso. Per la rabbia Ofterdingen pizzica con troppa forza le corde del
suo liuto fino a spezzarle. Il liuto si trasforma allora in un orrendo mostro, che alza in
aria Heinrich. Intanto gli altri cantori ascendono al cielo a bordo si alcune nuvole.
Qui si interrompe il sogno, ma Cipriano prosegue a raccontare la storia. Racconta che
presso la corte di Ermanno di Turingia spiccavano due cantori: Wolfram era un
cantore di successo, i cui canti erano limpidi e dolci, l’altro era Heinrich, anima
grande e tormentata. La sua poesia andava dritta al cuore, ma «nel suo canto si
inserivano certe brutte note stridenti che parevano salire dal fondo d’un animo
esacerbato»31. Heinrich ha infatti un segreto: il suo amore per Matilde. Matilde è
però innamorata di Wolfram, che tra l’altro mostra a Heinrich una forte amicizia. Il
cantore allora decide di andar via per sempre dalla Wartburg e si allontana nella
foresta. In una notte di luna piena in mezzo alla foresta mentre sta cantando una
bellissima canzone, vinto dalla nostalgia, una risata stridente lo interrompe. Un
individuo tutto nero e con una barba rossa appuntita gli dice che la sua canzone non
somiglia nemmeno lontanamente alla nobile arte del canto e gli descrive come essa
dovrebbe essere. Heinrich, colpito, chiede all’uomo di diventare suo maestro, ma
l’uomo lo manda dal maestro negromante Klingsor. Lo sconosciuto gli lascia un libro
dalla copertina rossa e con quel libretto Heinrich si reca da Klingsor e ne diventa
allievo. Intanto alla Wartburg Matilde continua a concedere i suoi favori a Wolfram,
il quale però è preoccupato della scomparsa dell’amico. Tutti lo danno per perduto,
quando Heinrich ritorna alla Wartburg e viene accolto festosamente. Egli sconfigge
Wolfram nel canto e conquista i favori di Matilde. Nel canto di Heinrich, Wolfram
riconosce però la forza oscura del male. Dice Wolfram a Heinrich: «Nella tua
31 E. T. A. Hoffmann, I confratelli di San Serapione, Torino 1969, p 255
37
canzone c’era qualcosa di sinistro che mi ha fatto rabbrividire»32. Anche Matilde è
presa dalle forze del male, cambia completamente il suo atteggiamento verso i
cantori e addirittura lascia la Wartburg. Il fatto che Heinrich abbia studiato presso
Klingsor scatena l’ira del langravio, che indice una gara tra i cantori. Heinrich viene
questa volta battuto ed è spinto dalla rabbia a intonare una canzone nella quale
offende il langravio e le dame di corte. Questo scatena l’ira dei cantori, ma Heinrich
chiede o ottiene che la maestria dei cantori sia giudicata da Klingsor. Quando questi
giunge presso la Wartburg, Wolfram decide di conoscerlo e viene coinvolto in una
gara contro il maestro, riuscendo a vincendolo attraverso la purezza e l’ingenuità del
canto. Il negromante accetta la sconfitta ma decide di inviargli un certo Nasias, con
cui Wolfram dovrà gareggiare e fare attenzione a non perdere. Nasias, che è un
demonio, arriva e viene a sua volta vinto da Wolfram. Dopo un colloquio col
langravio, Klingsor rifiuta di giudicare la gara tra i cantori. Sarà il langravio stesso
con due consiglieri a farlo, secondo la volontà del popolo. Il perdente sarebbe stato
decapitato sul posto. La sorte sceglie Wolfram come sfidante di Heinrich. Wolfram
vince su Heinrich e vede apparire Matilde risanata dall’influenza del male. Heinrich
finito lo scontro sparisce prima di essere giustiziato e ci si rende conto che
probabilmente esso era solo un’ombra inviata da Klingsor. Nel finale Wolfram riceve
una lettera da Heinrich, che gli dice di essere rinsavito dal male che lo aveva colpito.
Wolfram è riuscito così a salvare l’amico e a ricongiungersi alla donna amata.
Nella storia raccontata da Hoffmann è evidente l’influenza del mito di Faust.
Importante a tal proposito è il discorso che fa Wolfram a Heinrich, quando gli dice
«Ho l’impressione, devo dirtelo francamente, che tu abbia comprato la tua maestria a
prezzo di tutte le gioie che vengono elargite soltanto agli animi infantilmente buoni e
devoti»33. Quello che Heinrich fa è a tutti gli effetti un patto con il diavolo.
L’elemento diabolico è presente anche nel Tannhäuser di Wagner, nel quale è
rappresentato da Venere. Inoltre durante la sua gara contro Wolfram, il demone
32 Ivi, p.268 33 Ibidem
38
Nasias canta una canzone d’amore proprio sulle delizie del Monte di Venere. In quel
momento Wolfram viene preso da una visione in cui gli appare la dea dell’amore, ma
riesce a destarsi attraverso il ricordo di Matilde. Allo stesso modo, attraverso il
ricordo di Elisabetta nel finale del Tannhäuser di Wagner il protagonista viene
indotto a desistere dal tornare sul Venusberg.
Possiamo quindi osservare come la leggenda originaria dei cantori della
Wartburg tenda nelle rielaborazioni ottocentesche ad accogliere o ampliare questo
aspetto oscuro. Una tale attenzione al lato maligno può essere ricondotta senz’altro
alla temperie romantica. Anche nel racconto di Hoffmann troviamo quel carattere
troppo moderno e poco genuino che Wagner aveva criticato in Tieck. Esso si apre
infatti con un sogno di un uomo che si addormenta leggendo: in questo modo è
annullata la finzione fantastica. La razionalità cerca qui la sua giustificazione davanti
ad eventi che altrimenti non sarebbero spiegabili. Anche la forma in cui Hoffman
costituisce gli episodi prettamente fantastici risente di un’estetica moderna che poco
si accorda al canto popolare. Ma questa modernità, come nel caso del racconto di
Tieck, non annulla i punti di contatto con il libretto di Wagner. La gara dei cantori di
Hoffmann va infatti considerata una fonte primaria di Wagner per quanto riguarda la
leggenda della Wartburg.
Notiamo tra Hoffmann e Wagner una certa ridistribuzione nella valenza e nel
carattere dei personaggi. Heinrich è sostituito in Wagner da Tannhäuser, che da lui
deriva il carattere del cavaliere errante, che si perde nel bosco e perde sé stesso
attraverso un patto col diavolo, che lo porta alla rovina oltre che alla perdita della sua
anima. Di conseguenza Klingsor è rimpiazzato da Venere e in Matilde riconosciamo
invece i tratti di Elisabetta. Tuttavia mentre Elisabetta è sempre fedele a Tannhäuser
dall’inizio alla fine, Matilde si sente attratta da Heinrich solo nel momento in cui egli
è sotto il dominio del diavolo, al quale soccombe lei stessa. Possiamo quindi
presupporre anche che l’amore di lei facesse parte di un faustiano patto col diavolo di
Heinrich e che quindi la sua attrazione per Heinrich fosse indotta dalle potenze del
male. Il personaggio che sia in Hoffmann sia in Wagner mantiene il suo carattere
positivo è Wolfram. Egli è fedele all’amico, come Eckart era fedele al suo padrone, e
39
come Eckart cerca di mantenere Heinrich/Tannhäuser lontano da male. Nella
versione di Hoffmann il suo ruolo risulta di certo più centrale. Egli è qui il vero
vincitore, colui che riesce materialmente a vincere le forze del male. In Wagner la
portata del personaggio di Wolfram risulta ridotta per far spazio a Tannhäuser. Infine
troviamo un altro slittamento. In Hoffmann Heinrich ama Matilde, che però
inizialmente ha occhi solo per Wolfram. Nel dramma di Wagner è invece Wolfram
ad amare non corrisposto Elisabetta, che ama Tannhäuser. Possiamo ancora notare
che Matilde in Hoffmann ha il ruolo di un vero oggetto del desiderio, mentre l’amore
di Wolfram per Elisabetta in Wagner è appena accennato e non influisce affatto sullo
sviluppo dell’azione.
Molti sono i punti di contatto tra Hoffmann e Wagner. Tra le altre cose, appare
evidente come le varie gare poetiche riportate da Hoffmann siamo confluite
nell’unica gara raccontata da Wagner. C’è infatti nel racconto di Hoffman un
particolare importante: la canzone su Venere cantata da Nasias e cantata anche da
Heinrich, o dalla sua ombra, nello scontro definitivo con Wolfram. Anche
Tannhäuser canterà durante quella gara fatale le lodi di Venere. Questo elemento fu
di certo accolto da Wagner attraverso la lettura di Hoffmann. È possibile inoltre che
lo stesso Hoffmann nello scrivere la storia tenne presente, oltre alla gara dei cantori,
anche la leggenda di Tannhäuser, della quale possiamo riconoscere molti tratti.
2.4.5 Heinrich Heine
La vera sorpresa nello studio delle fonti del Tannhäuser è il contributo che
sembra venire da Heine. Egli trattò la storia di Tannhäuser in più di un’occasione e
anzi essa risulta essere una delle sue tematiche ricorrenti. Stupisce che Wagner non
lo menzioni mai negli scritti nei quali parla della genesi del dramma. È comunque
certo che il compositore avesse letto Heine. Ci dà un piccolo indizio a tal proposito
lo stesso Heine, non senza una punta di polemica. Nella prefazione del 1954
all’edizione della pantomima La dea Diana scrive infatti: «La vicenda della mia
40
pantomima, infatti, è già sostanzialmente contenuta nella terza parte del Salon, da cui
più di un maestro Barthel ha attinto parecchie pinte di mosto»34. L’allusione di Heine
sarebbe rivolta proprio a Wagner, che aveva desunto dal saggio Gli spiriti elementari
la vicenda del Tannhäuser e dalle Memorie del signor von Schnabelewopski quella
de L’olandese volante. In realtà quello che voglio dimostrare è che l’influenza di
Heine su Wagner va ben oltre i semplici contenuti leggendari, che d’altronde lo
stesso Heine ammette di aver desunto da altri autori e dalle raccolte popolari. Il
mondo poetico di Heine esercita una forte influenza sul pensiero di Wagner. Il punto
centrale di questa affinità spirituale tra i due artisti sta nell’attenzione al mito e nel
rapporto tra paganesimo e cristianesimo. Abbiamo già visto come in Wagner questi
siano temi centrali. Inoltre sia Wagner che Heine sono stati collocati dalla critica in
quel particolare momento della storia artistica ottocentesca che segna il passaggio dal
Romanticismo al Realismo borghese. Vedremo ora come Heine abbia affrontato le
questioni che poi saranno importanti per Wagner con grande originalità e con
risultati davvero interessanti.
Il testo più strettamente collegato alla vicenda di Tannhäuser è il saggio Gli
spiriti elementari, uscito per la prima volta nel 1837 nel terzo volume del Salon.
Ancora prima dell’apparizione di Tannhäuser, Heine affronta un tema che diventerà
centrale in Wagner, il rapporto tra paganesimo e cristianesimo. Heine racconta infatti
la storia dello scrittore Hinrich Kitzler che, scrivendo un’opera sulla perfezione del
Cristianesimo, è portato dallo studio dei testi a un sentimento opposto. Kitzler passa
dalla parte del paganesimo, ne rimpiange la distruzione e depreca la barbarie che ha
sostituito la perfezione classica. Questo porta lo scrittore a ripudiare il suo libro e a
gettarlo nel fuoco del camino. Quello che Kitzler rifiuta è l’iconoclastia dei primi
cristiani, quel loro scagliarsi contro i simboli del paganesimo, che sono anche i
simboli di un’epoca originaria e dorata della cultura che non tornerà più. Qui c’è
l’artista contro la società, contro il Cristianesimo che nega la dimensione della
34 H. Heine, Gli Dei in esilio, Milano 2000, p. 61
41
bellezza e dell’arte. Questo ci ricorda da vicino l’interpretazione sociale che Wagner
darà del suo Tannhäuser.
La ragione della distruzione dei templi, spiega Heine, sta nel fatto che i cristiani
li ritengano le dimore dei demoni pagani. La colpa originaria dei cristiani agli occhi
di Heine nasce dal non aver rispettato un precetto semplice, espresso da Eschilo in
alcuni bellissimi versi del suo Agamennone: «Se si rispettano i templi e gli Dei dei
vinti, i vincitori si salveranno». Nel suo saggio Heine spiega:
La credenza popolare vuole che nelle rovine degli antichi templi continuino a dimorare
le vecchie divinità greche, le quali, tuttavia, con la vittoria di Cristo hanno perduto ogni
potere, sono diavoli malvagi che di giorno si tengono nascosti tra le civette e i rospi dei
ruderi tenebrosi del loro trascorso splendore, mentre la notte escono in leggiadre
sembianze per allettare e sedurre qualche viandante ingenuo o qualche giovanotto
temerario.35
Da qui alla leggenda della grotta di Venere il passo è davvero breve. Quello che
Heine descrive in queste righe non è altro che la leggenda di Venere e del Venusberg
e quel «giovanotto temerario» è Tannhäuser. Ed infatti il saggio si chiude proprio
con la ballata scritta da Heine sulla storia di Tannhäuser. Ma prima di arrivare a
questo, Heine ci offre qualche altro spunto interessante quando ci dice che i racconti
di cavalieri infatuati della dea pagana sono spesso ambientati in Italia. Questo
supporterebbe l’ipotesi sulla genesi italiana della leggenda tedesca, ma dobbiamo
ricordare che Heine è una fonte abbastanza tarda e non sappiamo quanto la sua
affermazione sia documentata. Quella sull’origine italiana potrebbe essere benissimo
una glossa che inserì per sentito dire o a partire dall’immaginario già ottocentesco di
un’Italia vista come la terra del mistero, oltre che il luogo dove il paganesimo
romano era fiorito. Dopo questo breve accenno Heine ci racconta la storia di un
giovane cavaliere che, invaghitosi della una statua di una dea pagana, va ogni giorno
a visitare i resti di un tempio, finché una sera non è invitato a cena da una donna
35 Ivi, p. 11
42
misteriosa e sorprendentemente somigliante alla statua. Dopo la cena, il cavaliere si
addormenta tra le braccia della donna e fa un sogno: lei si è trasformata in un mostro,
al quale lui taglia la testa. La mattina seguente si sveglia vicino ai resti del tempio e
vede con orrore che la statua da lui amata giace a terra con la testa mozzata. Heine
riporta poi un’altra storia simile, quella del giovane che infila l’anello a una statua di
Venere e questa inizia a perseguitarlo nel suo letto nuziale. Allora interviene il prete
Palumnus, che libera il ragazzo dall’incantesimo ma tre giorni dopo è trovato morto.
Le due storie sono imparentate e si ricollegano entrambe alla figura della statua di
Venere, di cui si è già parlato. Heine, in questo come in altri casi, cita le proprie
fonti. Dice di aver letto la storia per la prima volta nel Mons Veneris (1614) di
Kornmann e in seguito nei Disquisitionum magicarum libri sex (1608) di Antoine del
Rio, il quale ipotizza un’origine iberica della leggenda. Tra gli autori moderni Heine
cita invece il barone von Eichendorff, autore della novella Das Marmorbild (1819) e
Willeband Alexis con Venus in Rom (1831). Negli stessi anni Prosper Mérimée,
come abbiamo visto, stava elaborando il soggetto nella novella La Vénus d’Ille
(1837). L’abbondanza di indicazioni bibliografiche ha fatto ritenere ad alcuni
studiosi che Wagner abbia approfondito la conoscenza sull’argomento proprio
partendo dal saggio di Heine, che sarebbe stato il punto di partenza per uno studio
della leggenda.
Dall’opera di Kornmann Heine desume anche la teoria degli spiriti elementari,
che dà il titolo al saggio. Essi altri non sarebbero che quegli dei che si sono visti
privati del loro potere dalla venuta di Cristo e che ora sopravvivono in vari modi.
Quali siano questi modi è detto da Heine in un altro bellissimo saggio: Gli dei in
esilio. Bisogna intanto dire che la forma usata dall’autore non è quella saggistica vera
e propria; il carattere leggendario delle storie riportate colora questi saggi di una forte
vena narrativa, che fa di essi una piacevolissima lettura. Lo dichiara lo stesso Heine
quando scrive di aver usato «la parola a tutti comprensibile […] lo stile sano, chiaro,
popolare!»36. Questo ci ricorda molto le scelte estetiche wagneriane più volte esposte
36 Ivi, p. 32
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in queste pagine. Ne Gli dei in esilio Heine parla di quelle leggende diffuse durante il
Medioevo delle quali sono protagonisti i vecchi dei pagani che, caduti dal loro trono
olimpico, si ritrovano a dover sopravvivere tra le insidie del mondo. E allora avremo
Apollo allevatore di bestiame, Marte soldato mercenario, Bacco che continua a
tenere le sue feste su isole segrete spaventando i barcaioli, Mercurio mercante di
denari e di anime, Nettuno che emerge dal mare ad ammonire i naviganti di
passaggio all’Equatore e infine Giove, il re degli dei, relegato a fare vita da eremita
in un’isola al Polo Nord. Quello del dio in esilio sarà un tema che avrà forte presa in
Wagner. Basti pensare al Wotan del Ring. Ci viene qui in aiuto ancora una volta
Adorno: uno degli ultimi capitoli del suo saggio porta il titolo Dio e mendicante. In
esso Adorno parla di come nella figura di Wotan possa vedersi un percorso di
decadenza dal grande Dio, temuto e rispettato, a un mendicante, che vaga per le
contrade offrendo la propria saggezza, ma senza più incutere alcun timore. È la
liberazione dell’uomo dal mito, che sappiamo essere un momento importante anche
nella filosofia di Adorno. Potrebbe esserci qui una contraddizione, si potrebbe
obiettare che Wagner aveva sempre difeso il mito. Tuttavia mostrare la caduta del
dio assume il significato di una nuova pietà verso quelle grandi culture del passato,
che dal suo podio di borghese Wagner non può più considerare attuali, ma che
innalza comunque sull’altare della propria arte.
Ma torniamo alla nostra questione. Abbiamo visto che le tematiche e le idee
poetiche di Heine coincidono con quelle di Wagner. Heine è però anche una fonte
diretta per il dramma di cui ci stiamo occupando. La parte finale del suo saggio sugli
Spiriti elementari affronta infatti proprio la leggenda di Tannhäuser e lo scritto si
chiude con un poemetto di Heine su questo soggetto. Nella descrizione della
leggenda da parte di Heine troviamo di nuovo il personaggio di Eckart, che
ammonisce contro i pericoli celati dal monte. Heine quindi ci narra la leggenda e poi
ci dice dove ha letto il canto popolare che la tramanda. La fonte primaria è ancora il
libro di Kornmann, ma Heine parla anche dell’opera Blocksberg-Verrichtung (1668)
di Praetorius, da cui la leggenda sarebbe arrivata nella raccolta di Arnim e Brentano.
Anche Heine, come in seguito Wagner, è colpito dalle «parole superbamente
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semplici, piene di una forza originaria»37 del canto popolare. Le versioni di questo
canto sono molte, ma Heine ne nomina qui un’altra che sarebbe pervenuta a lui
attraverso Bechstein, intitolata Il canto di Danhauser, che confluirà nella raccolta
Die Sagen von Eisenach und der Wartburg, dem Hörsselberg und Reinhardsbrumm
(1835). Anche questa versione fu molto probabilmente letta da Wagner e se non
viene trattata in modo più approfondito in questo lavoro è per la minore portata del
suo autore e perché in sostanza si pone sulla stessa linea della raccolta di Arnim e
Brentano e di quella dei Fratelli Grimm.
Il saggio Gli spiriti elementari si chiude dunque con la versione di Heine della
ballata di Tannhäuser, che era già apparsa nel Salon. Lo scopo della canzone,
dichiarato nella prima strofa, è quello di mettere in guardia i buoni cristiani dalle
astuzie di Satana. Il poemetto è diviso in tre parti. La prima di esse è formata dal
nucleo centrale delle ballate precedenti, che riguarda il dialogo tra Tannhäuser e
Venere. La novità della versione di Heine sta nelle altre due parti del poema. La
seconda è la confessione di Tannhäuser al papa Urbano, in cui il cavaliere dichiara
apertamente il suo amore smisurato e incontrastabile per Venere. Il tono è lirico e la
poesia tocca in questo punto delle vette altissime, è il momento più bello del poema.
Vale la pena riportare alcuni versi:
Io la amo, la amo con tutte le mie forze38
nulla può frenare il mio amore.
Esso è come una cascata impetuosa,
la cui forza nessun uomo può arginare.
Balza in avanti di roccia in roccia
romba e spumeggia ancora.
Si romperebbe il collo mille volte
pur di non rallentare il proprio corso.
Se il cielo sconfinato fosse mio,
37 Ivi, p. 22. 38 Si riferisce a Venere.
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solo a lei lo donerei tutto,
le darei il sole, le darei la luna
le darei ogni stella che splende.
Io la amo, la amo con tutte le mie forze
come una fiamma che mi divora
è forse già questo il fuoco dell’inferno
che arde e brucia in eterno?
Sembra quasi che Tannhäuser, preso dalla foga della rievocazione della sua
amata, si sia dimenticato che sta parlando al papa per ottenere l’assoluzione.
Tannhäuser sta cantando le lodi del peccato e della lussuria davanti al vicario di
Cristo. Una volta ascoltate simili parole Urbano non può far altro che dichiararlo
dannato in eterno. Questa situazione ricorda quella che viene a crearsi quando il
Tannhäuser wagneriano canta le lodi dell’amore carnale durante la tenzone dei
cantori. Lo scandalo suscitato a queste parole nel papa e nei cavalieri della Wartburg
deve essere lo stesso. In entrambi i casi Tannhäuser sembra completamente preso
come in un incantesimo, un fascino irresistibile, che annulla la sua sfera razionale e
inibitoria. L’ultima parte del poema ha un tono completamente diverso: Tannhäuser,
incassato il rifiuto del papa, torna da Venere. La dea gli chiede di descriverle i luoghi
che ha visitato nel viaggio di ritorno da Roma e lui glieli elenca. In questa sezione
del componimento entra in gioco l’ironia di Heine. Attraverso un evidente
anacronismo il poeta si riferisce con salace sarcasmo ad eventi e personaggi a lui
contemporanei. Il poemetto si chiude così su questa nota ironica, dopo la grande
effusione lirica della seconda parte. D’altronde la commistione tra il registro lirico e
quello ironico è un ingrediente tipico della poesia di Heine.
Il personaggio di Tannhäuser appare infine in un altro testo che Heine scrive in
quegli anni, la pantomima La dea Diana. Nel primo quadro alcune ninfe stanno
danzando attorno alla statua della dea quando arriva Diana stessa inseguita da un
cavaliere, i due danzano assieme e arrivano anche Apollo e le Muse. Ci sono qui
molti elementi che abbiamo già incontrato: il cavaliere, la dea, la statua e la natura.
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Nel secondo quadro il cavaliere è nel suo castello con la moglie. Nel mezzo di un
ballo in maschera arriva Diana con Apollo e le Muse e dice al cavaliere di
raggiungerla sul monte di Venere. Ma all’ingresso del Venusberg il cavaliere è
sfidato a duello e ucciso da Eckart. Diana disperata lo porta da Venere, al cui fianco
sta l’amato Tannhäuser. Qui Apollo riesce a riportare in vita il cavaliere e la
pantomima si chiude tra scene di giubilo. Venere posa la propria ghirlanda di rose sul
capo di Diana, e quella di Tannhäuser sulla testa del cavaliere. Heine colloca nel
palazzo di Venere, come in una sorta di limbo dantesco, una serie di personaggi che
la credenza popolare ha relegato lì per la loro lussuria. Ci sono Elena, Cleopatra,
Giuditta, Ovidio, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Artù e Goethe. Nella pantomima
dunque la figura di Tannhäuser fa solo una piccola apparizione, ma è evidente come
la storia di Diana e il cavaliere sia fortemente imparentata a quella di Venere e
Tannhäuser.
Riassumendo possiamo affermare che l’importanza di Heine per Wagner
consiste in tre elementi: prima di tutto il poemetto di Heine su Tannhäuser è fonte di
ispirazione per il dramma di Wagner; in secondo luogo Wagner condivide con Heine
l’interesse per il paganesimo destituito e per il mito; infine il saggio di Heine offrì a
Wagner una ricca bibliografia, che probabilmente fu il punto di partenza per
approfondire la materia.
2.5 La tradizione italiana: Venere e la Sibilla Appenninica
Abbiamo delineato quelle che sono probabilmente da considerare le fonti dirette
del dramma wagneriano. Certo è che il tema fu trattato da molti autori non solo in
Germania e non solo nell’Ottocento. Quelle prese in considerazione finora sono le
letture che Wagner non poteva non aver affrontato. È invece poco credibile che egli
conoscesse la tradizione italiana e quella francese in modo approfondito. È tuttavia di
particolare interesse anche questo filone, che ci sposta in un luogo diverso, i Monti i
Sibillini, e in un’epoca successiva, quella a cavallo tra Medioevo e Rinascimento.
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Questa tradizione ci consente di capire come all’inizio del Quattrocento la figura
leggendaria di Tannhäuser fosse già talmente consolidata da attraversare i confini
nazionali tedeschi e andarsi a innestare su una precedente tradizione italiana. Il
capitolo è volto proprio ad approfondire questo tema.
I monti Sibillini, al confine tra Marche ed Umbria, prendono il nome da una
montagna, il monte Sibilla, che riveste un ruolo importante nella cultura popolare del
luogo. Narra la leggenda che nella grotta posta sulla cima del monte vivesse la
Sibilla, figura fondamentale per ricollegarci al Tannhäuser. Nella zona sono tutt’ora
vive e tramandate molte leggende riguardo le fate, che sarebbero al servizio della
Sibilla. Si dice che tali fate scendano durante la notte nei paesi per ballare con i
giovani montanari, per poi far ritorno all’alba dalla Sibilla in cima alla montagna.
Questi racconti non sono collegati al nostro tema, ma dimostrano come quella
tradizione sia ancora viva e produca sempre nuovi risultati e ci ricordano come la
fantasia popolare sia una grande fucina di storie. Tali leggende interessarono ben
presto scrittori ed esploratori. La prima testimonianza scritta ci viene dal romanzo Il
Guerrin Meschino di Andrea da Barberino, scritto intorno al 1410 ma edito solo nella
seconda metà del secolo. L’episodio che ci interessa è contenuto nella Parte Quinta
dell’opera. Il Guerrino cerca la maga che dimora sul Monte Sibilla affinché essa gli
sveli, per mezzo delle sue doti profetiche, il nome dei suoi genitori. Un oste lo
accompagna al romitorio situato nei pressi della montagna. I romiti, ascoltate le sue
esigenze, gli consigliano il comportamento da tenere per non essere ingannato dalla
Sibilla e non perdere l’anima: egli deve tenere sempre in mente Gesù e non deve
assolutamente rimanere sulla montagna più di trecentosessantacinque giorni. Entrato
nella buia grotta, il Guerrino la percorre per molto tempo finché incontra Macco, un
peccatore trasformato in serpente. Più avanti trova una porta in ferro che lo
ammonisce di riuscirne entro un anno. Tre bellissime damigelle lo accolgono e lo
portano oltre un’altra porta che immette in un meraviglioso giardino. Nel loggiato
stanno altre magnifiche fanciulle, tra le quali spicca una ancora più bella vestita con
un abito decorato con oro e gemme. È la Sibilla, che gli mostra le ricchezze e gli fa
assaporare i frutti del suo paradiso. La Sibilla dà anche prova delle sue doti di
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veggente al Guerrino, senza però rivelargli l’identità dei suoi genitori. Il Guerrino,
irritato, esce dalla grotta senza aver saputo quello che tanto desiderava conoscere,
ossia la verità sulle sue origini. Tornato al romitorio, i monaci gli consigliano di
andare a chiedere perdono al papa. Recatosi a Roma, Guerrino ottiene il perdono.
Anche se Tannhäuser non ottiene il perdono del papa come Guerrino, notiamo già da
questo breve riassunto dei fatti che la storia raccontata da Andrea da Barberino è
praticamente la stessa del cavaliere tedesco, con minime differenze.
Negli stessi anni del resoconto di fantasia di Andrea da Barberino, abbiamo un
resoconto reale riguardo la grotta della Sibilla. Lo scrittore satirico Antoine de La
Sale, affascinato dalla leggenda, salì infatti fino alla Grotta della Sibilla nel maggio
del 1420, soggiornandovi qualche giorno. Da questa esperienza trasse la materia per
un racconto sulla Sibilla appenninica. L’episodio è narrato in Le Paradis de la Reine
Sibylle (1444), contenuto nel libro intitolato La Salade. Dopo la lunga risalita della
montagna, De la Sale racconta di essere arrivato nella grotta e riferisce di aver visto
nella prima camera alcuni sedili intagliati nella pietra, con molti nomi incisi come
quello di Thomin de Pons e di Her Hans Wanbrambourg. La presenza di queste
incisioni confermerebbe che alcuni cavalieri tedeschi erano arrivati alla grotta già
prima di quell’epoca. De la Sale, oltre ad aver visitato la grotta, raccolse anche le
leggende sulla Sibilla presso gli abitanti di quei luoghi e usò questo materiale per il
suo racconto.
La figura della Sibilla della leggenda ci ricorda molto da vicino quella di Venere.
In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una figura diabolica di donna che risiede su
una montagna, dove trattiene con l’inganno giovani cavalieri. La storia di Venere-
Sibilla ci permette di compiere un viaggio tra letteratura e leggenda, tra l’Italia, la
Francia e la Germania, inserendo la storia di Tannhäuser in un contesto decisamente
europeo. Questo filone apre una serie di interrogativi che però si perdono nel passato
e offrono poco alla materia del nostro studio, ossia l’opera di Wagner. Abbiamo detto
che Venere rappresenta il polo del paganesimo, ma se ora la mettiamo in rapporto
alla Sibilla scopriamo che anche qui l’elemento cristiano e quello pagano risultano
intrecciarsi. Già nell’alto Medioevo la Sibilla entra nella liturgia ufficiale della
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Chiesa come preannunciatrice della nascita di Cristo. Se ci spostiamo nella geografia
reale, quella dei Monti Sibillini, troveremo accanto alla grotta della Sibilla, dove si
riteneva che la profetessa vivesse, il lago di Pilato, uno dei personaggi di primo piano
dei Vangeli. Inoltre non possiamo ignorare che spesso nei pressi delle grotte delle
profetesse pagane siano sorte le grotte sedi di culto e di devozione cristiana: basti
pensare alla grotta si San Michele Arcangelo sul Gargano e a quella della Madonna
di Lourdes. Questo fenomeno rientra a pieno titolo nel processo di cristianizzazione
dei riti pagani più volte descritto dagli storici delle religioni e ci ricorda anche gli dei
esiliati di Heine. Nelle arti figurative la Sibilla come preannunciatrice di Cristo è un
tema che si ripete in moltissimi pittori, tra cui Michelangelo, Raffaello, Ghirlandaio e
Pinturicchio. Nel Pastore di Erma, risalente alla prima metà del II secolo d.C.,
abbiamo la prima menzione cristiana della Sibilla. San Giustino la cita qualche anno
dopo come autorità profetica, seguito dal suo discepolo Taziano l’Assiro e da Teofilo
di Antiochia. Ma il processo di cristianizzazione trova un intoppo quando le grotte
delle Sibille diventano, nella fantasia popolare, luoghi di perdizione e i loro abitanti
sono trasformati in demoni. La Sibilla Appenninica, ossia colei che confonderà i
propri tratti con quelli della Venere del Tannhäuser, non è tuttavia tra le profetesse
antiche e la sua grotta presso i monti Sibillini non è luogo di culto in epoca classica.
La leggenda della Sibilla Appenninica nasce dunque in ambito popolare durante il
Medioevo. Antoine de la Sale, come già ricordato, raccoglierà nel 1420 tale leggenda
dai racconti della popolazione locale, prima di compiere la sua spedizione presso la
Grotta della Sibilla. Questa Sibilla trova dunque i suoi natali nella fantasia del popolo
medievale. Fernand Desonay, che si è occupato approfonditamente della materia39,
ha proposto una derivazione di questa Sibilla dalla figura della Cibele, ma la tesi è
poco convincente. La Sibilla dei monti Sibillini è nella fantasia popolare una figura
dannata, una donna costretta fino al giudizio a dimorare in cima alla sua montagna.
In questo già possiamo notare i primi tratti che allontanano questa Sibilla dalle
Sibille cristiane, derivate dalla tradizione classica. Quello che manca ancora, e che
39 Cfr. Desonay, Le Paradis de la Reine Sibylle, Paris 1930
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deriva dalla tradizione germanica, è il carattere sensuale di questa figura. Se
aggiungiamo questo ingrediente ci accorgiamo di come la Sibilla Appenninica
finisca per coincidere con la Venere del Tannhäuser. Ma questa è più di una
semplice supposizione a posteriori. A dare ragione all’identificazione e a dimostrare
l’intrecciarsi già nel Medioevo delle due figure sono gli stessi testi italiani. Ne Il
Guerrin Meschino di Andrea da Barberino la Sibilla Appenninica svolge la stessa
funzione di Venere e ne ha tutti i caratteri. Il romanzo di Andrea da Barberino risale
agli inizi del XV secolo e dimostra quindi come la leggenda italiana e quella tedesca
risultassero sovrapposte già a quell’epoca. In Andrea da Barberino Sibilla/Venere ha
una caratteristica che però manca nelle fonti tedesche e che deriva dalla tradizione
classica e cristiana, cioè la profezia. La colpa della Sibilla Appenninica, scrive
Andrea da Barberino, è quella di essere stata invidiosa di Maria e di aver ritenuto di
essere più degna di diventare la madre di Cristo. In questo elemento troviamo quella
contrapposizione tra Venere e Maria che appare nel dramma di Wagner, ma non
sappiamo quanto il riferimento fosse consapevole. In Andrea da Barberino la Sibilla
che il protagonista del romanzo incontra ha sia il dono della profezia, caratteristica
della tradizione italiana classica e cristiana, sia il carattere della sensualità, innestato
attraverso la tradizione germanica di Venere. Indagando la personalità e l’opera
dell’autore del Guerrin Meschino, scopriamo che tutti i suoi romanzi altro non sono
se non trasposizioni di romanzi francesi, a volte andati perduti. Possiamo allora
ipotizzare la presenza di qualche fonte a noi ignota, che abbia portato nel romanzo di
Andrea da Barberino gli elementi del paradiso e del cavaliere gaudente forse
passando per la Francia. È una prova di questo passaggio intermedio francese, o
secondo altri critici svizzero, il fatto che nel romanzo di Antoine de la Sale
l’influenza del motivo germanico si fa ancora più palese. Qui il monte degli
Appennini è del tutto trasformato in un Venusberg e la Sibilla ha perso il suo
carattere profetico ed è soltanto la dea della voluttà.
Dalla tradizione italiana dunque Wagner riprese, quasi sicuramente
inconsapevolmente, una serie di elementi che abbiamo già visto intrecciarsi con le
leggende germaniche. In questo campo però dobbiamo arrenderci, almeno con la
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documentazione attuale, a non avere delle certezze. Il fatto di chiudere questa ricerca
proprio con un momento irrisolto vuole ricordare che non si è voluto, né si sarebbe
potuto, esaurire un argomento così vasto, ma solo risolvere alcune questioni intorno
all’origine del dramma di Wagner.
Conclusioni
Quello trattato è un tema estremamente interessante, che permetterebbe di
sfruttare una serie di spunti ben più vasta di quella che qui è possibile approfondire.
Studiare le leggende ha sempre qualcosa di inesauribile ed estremamente
affascinante. L’aspetto più bello di questi studi è forse che essi uniscono il lavoro in
biblioteca al lavoro sul campo. Le leggende toccate sono però tante e sarebbero
potute diventare ancora di più. Ho cercato di non cedere troppo a queste spinte
centrifughe e a restare a quello che mi ero prefisso. Lo scopo, si è detto all’inizio, era
quello di individuare le fonti del dramma di Wagner. Abbiamo visto come il
compositore si sia rifatto a un materiale leggendario molto vasto e molto rielaborato
già nell’epoca in cui compose il suo dramma. Questo patrimonio popolare costituisce
una sua fonte importante in funzione della sua scelta estetica di voler trattare il
puramente umano, cioè una materia depurata dalle contingenze della storia e che
mostri l’uomo e i suoi sentimenti allo stato naturale. Ma entra qui in gioco uno dei
tipici conflitti wagneriani: nella sua natura di artista prevalentemente e fino in fondo
borghese egli non poté fare a meno di legarsi, volente o nolente, alla cultura a lui
contemporanea. Ecco allora che emergono le fonti moderne. C’è Tieck: anche se
Wagner ne rifiutò l’estetica, la sua opera gli era nota. C’è poi Heine, che ribadisco
essere a mio parere la fonte più importante. Se Tieck è una fonte rifiutata, Heine è la
fonte nascosta. In lui Wagner riprese l’attenzione per gli dei pagani e la liricità della
figura di Tannhäuser. Ci sono poi – come abbiamo visto – Hoffmann, Arnim e
Brentano e i fratelli Grimm. Questi sono stati gli autori trattati, ma – come si è forse
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dedotto – la ricerca sarebbe potuta essere estesa a tanti altri autori minori, che magari
avrebbero offerto altre sorprese anche alla luce della genesi del dramma wagneriano.
Quello che si è voluto dimostrare è come il Tannhäuser di Wagner sia la sintesi
di tanti elementi e tanti contributi, il canto del cigno di una lunghissima tradizione,
che affonda le sue radici nella storia della cultura europea. E forse allora Wagner può
dire davvero di aver raggiunto il puramente umano, avendo toccato con la sua storia
le fondamenta della cultura. Quello che si tocca nel dramma è il momento in cui
l’uomo prese coscienza di sé e si emancipò dalla condizione animale. Questo è il
momento fondamentale e originario di cui ci parla la vicenda di Tannhäuser, ciò da
cui ogni cosa è nata, quello che il mito prova a portare alla luce e spiegare. In fondo è
una domanda esistenziale, alla quale Wagner ha tentato di dare la sua risposta