Versione preliminare ed incompleta. Non citare. Commenti benvenuti. LE BANCHE TRA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE E FRAMMENTAZIONE INTERNAZIONALE DEI PROCESSI PRODUTTIVI Daniele Langiu 1 Francesco Morello 2 Fabio Sdogati 3 SOMMARIO Il modificarsi del ruolo delle banche nell’economia viene quasi sempre studiato in modelli che prescindono dal modificarsi della struttura produttiva che caratterizza l’economia reale o, al massimo, tengono conto del modificarsi dell’economia ‘locale’. In questo lavoro si sostiene che il legame tra struttura produttiva e settore finanziario è molto più forte di quanto non si immagini normalmente, e in particolare si sostiene che la finanziarizzazione dell’economia, e la conseguente trasformazione del modo di essere delle banche, sono fenomeni correlati con la riconfigurazione della divisione mondiale del lavoro o, come si dice in termini più moderni, con l’emergere della frammentazione internazionale dei processi produttivi e delle catene globali di produzione. L’analisi della evoluzione di questi fenomeni da un lato e del contesto storico attuale dall’altro conducono alla conclusione che difficilmente le banche ritroveranno un ruolo attivo nel finanziamento delle attività delle famiglie e delle imprese, e che preferiranno essere pronte ad utilizzare la liquidità posseduta, e tanto generosamente offerta dalla BCE, per finanziare la privatizzazione di attività oggi erogate dalle pubbliche amministrazioni. 1 Politecnico di Milano, email: [email protected]2 Politecnico di Milano, email: [email protected]3 Ordinario di Economia Internazionale, Dipartimento di Ingegneria Gestionale, Politecnico di Milano e Direttore, Executive Education, MIP School of Management, email: [email protected].
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LE BANCHE TRA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA … · industriale, appare a tutti un miglioramento epocale rispetto al modello economico precedente, nel quale profitti e salari
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Versione preliminare ed incompleta.
Non citare.
Commenti benvenuti.
LE BANCHE TRA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE E
FRAMMENTAZIONE INTERNAZIONALE DEI PROCESSI PRODUTTIVI
Daniele Langiu1
Francesco Morello2
Fabio Sdogati3
SOMMARIO
Il modificarsi del ruolo delle banche nell’economia viene quasi sempre studiato in modelli che
prescindono dal modificarsi della struttura produttiva che caratterizza l’economia reale o, al
massimo, tengono conto del modificarsi dell’economia ‘locale’. In questo lavoro si sostiene che
il legame tra struttura produttiva e settore finanziario è molto più forte di quanto non si
immagini normalmente, e in particolare si sostiene che la finanziarizzazione dell’economia, e la
conseguente trasformazione del modo di essere delle banche, sono fenomeni correlati con la
riconfigurazione della divisione mondiale del lavoro o, come si dice in termini più moderni, con
l’emergere della frammentazione internazionale dei processi produttivi e delle catene globali di
produzione. L’analisi della evoluzione di questi fenomeni da un lato e del contesto storico
attuale dall’altro conducono alla conclusione che difficilmente le banche ritroveranno un ruolo
attivo nel finanziamento delle attività delle famiglie e delle imprese, e che preferiranno essere
pronte ad utilizzare la liquidità posseduta, e tanto generosamente offerta dalla BCE, per
finanziare la privatizzazione di attività oggi erogate dalle pubbliche amministrazioni.
La possibilità di incrementare i profitti è stata consentita anche dall’evoluzione della
struttura di mercato in cui operano le imprese che hanno sperimentato l’esternalizzazione di
alcune attività. Infatti, le imprese che hanno frammentato il proprio processo produttivo si
trovano ad operare in un sistema di mercato di oligopolio. Inoltre, le imprese dei paesi in cui
vengono rilocalizzate le attività produttive si trovano in una struttura mercato simile a quella di
concorrenza perfetta (Milberg, 2008). È quindi anche l’asimmetria tra la struttura di mercato in
cui operano le imprese che ‘offrono’ il frammento di produzione e quella in cui operano le
imprese che lo ricevono che determina l’aumento dei profitti delle imprese che guidano il
processo di frammentazione internazionale della produzione. Infatti, quest’asimmetria permette
a tali imprese di ottenere crescenti profitti, dato che sostengono costi decrescenti, e non
competono sul prezzo per continuare ad operare nel mercato. Tali profitti, tuttavia, sono stati
destinati crescentemente agli azionisti per perseguire il ‘nuovo’ obiettivo: la creazione di valore
per l’azionista.
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2.2. La “creazione di valore per l’azionista”
Il processo di produzione di valore, cioè di reddito e, quindi, di ricchezza, è ovviamente
al centro dell’attenzione degli economisti. Come, e soprattutto, chi, crea valore? Gli economisti
classici modellavano questo processo ad un solo fattore produttivo, il lavoro. Era una
modellazione storicamente giustificata dalla assenza, o quantomeno dalla recente, sporadica
comparsa del capitale, che alcuni modellavano addirittura come ‘lavoro morto’, il che
consentiva di sottolineare che tutto il valore viene generato dal lavoro. Quando vi è un solo
fattore produttivo, un solo creatore di valore, non si pongono problemi di distribuzione del
reddito, poiché questo appartiene per definizione a chi lo ha prodotto e chi lo ha prodotto è uno
solo.
Ma l’affermarsi di processi produttivi che impiegavano quantità non trascurabili di
capitale pose il problema di come il valore prodotto vada distribuito tra i due fattori produttivi –
vale a dire tra i due gruppi sociali in cui può essere suddiviso l’aggregato ‘famiglie’, e cioè
capitalisti e lavoratori. A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo una nuova scuola di
economisti, detti neo-classici, elabora la teoria secondo cui il fattore lavoro va retribuito con il
valore del proprio prodotto marginale, il salario, mentre il profitto sarà un’entità residuale, cioè
che rimane dopo che tutti gli altri costi di produzione sono stati onorati. Che si creda o meno a
questo particolare teoria, ciò che conta è che sia stato stabilito il principio secondo cui esiste un
secondo fattore produttivo e che esso va remunerato.
Sorge, all’inizio degli anni ottanta del XX secolo, una letteratura la quale enfatizza che
il management delle imprese deve preoccuparsi di più della remunerazione del capitale e
aumentare la quota dei profitti distribuiti sul totale del valore aggiunto, e prestare minore
attenzione alla quota di profitti non distribuiti – quella cioè potenzialmente destinabile ad
investimenti, miglioramento delle condizioni di lavoro, ricerca e sviluppo. Figura 6 riporta
l’andamento nel tempo dei profitti distribuiti dal settore industriale rispetto al totale del valore
aggiunto generato nel processo produttivo industriale.
Secondo questa teoria, l’obiettivo dell’impresa è quello di aumentare il valore che gli
azionisti riconoscono ad essa. Tale valore è positivamente correlato ai flussi di cassa attesi che
l’impresa sarà in grado di distribuire agli azionisti e al capital gain che gli azionisti otterranno
dall’aumento del valore delle azioni delle imprese stesse. Nel momento in cui l’obiettivo di
massimizzazione del valore economico per gli azionisti diventa il fine ultimo secondo cui
l’amministrazione dell’impresa deve agire, le imprese agiscono per aumentare il prezzo delle
azioni della società, in modo da generare un capital gain per gli azionisti, distribuiscono
crescenti dividendi, pagati anche attraverso l’acquisizione di nuovo debito, e accrescono il
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riacquisto di azioni della società stessa, in modo da aumentare il prezzo delle azioni stesse e in
modo da distribuire risorse agli azionisti (Lazonick & O'Sullivan, 2000; Krippner, 2005; Palley,
2007; Gallino, 2009). Dunque, si è passati dall’attenzione alla crescita, finanziata con i profitti
trattenuti e reinvestiti, alla massimizzazione del valore per gli azionisti e dei rendimenti di breve
periodo, ottenuta attraverso tre azioni principali: la riduzione delle dimensioni dell’impresa, la
distribuzione di una percentuale di profitti maggiore attraverso dividendi più alti e, infine, un
maggior volume di acquisti di azioni proprie.
Non è difficile immaginare quale sia il nuovo problema dell’azionista il quale abbia
osservato per anni una caduta dei profitti industriali: egli chiederà che il management trovi il
modo di ricostituire margini post-seconda guerra mondiale o, quanto meno, fermarne la caduta.
La frammentazione internazionale della produzione è esattamente la strategia industriale che le
imprese adottano per rispondere alla richiesta degli azionisti: dalle maquilladoras (Messico) alle
forniture di abbigliamento (Hong Kong), processori (Singapore), televisori (Taiwan) e
automobili (Corea del Sud). La strategia complementare adottata dall’azionista è di rientrare al
più presto in possesso del proprio capitale e, con ciò, della liberta di allocarlo dove meglio
crede: laddove, inevitabilmente, il rendimento sarà più alto, a parità di rischio. In breve, si
vengono accumulando quantità crescenti di capitale sganciato dall’impiego industriale di lungo
periodo, capitale pronto ad essere impiegato tanto sul mercato monetario (impieghi di breve)
quanto su quello finanziario (impieghi di lungo).
2.3. La finanziarizzazione delle imprese industriali e la deindustrializzazione
dei paesi a più alto reddito pro-capite
L’aumento della quota di dividendi è in linea con la teoria di massimizzazione del
valore economico per gli azionisti. Tale obiettivo ha cambiato la strategia delle imprese, che
passano da un modello che incentivava le imprese a trattenere profitti per poi essere investiti in
capitale industriale ad un modello che prevede una riduzione delle attività svolte dall’impresa,
perché crescentemente esse sono svolte all’estero, e una maggiore distribuzione agli azionisti
dei profitti generati a valle del processo produttivo. Le imprese sono passate da un modello di
svolgimento delle loro attività denominato “trattieni e investi” ad un modello “ridimensiona e
distribuisci” (Lazonick & O'Sullivan, 2000). Tale ridimensionamento delle attività svolte
dall’impresa ha ridotto, di conseguenza, la necessità di investimenti in capitale industriale. In tal
modo i profitti delle imprese devono trovare una nuova fonte di rendimento e sono
crescentemente ‘dirottati’ verso attività finanziarie e/o distribuiti agli azionisti. È da tenere
presente che la pressione degli azionisti ha un ruolo rilevante nella finanziarizzazione del
capitale, in particolar modo a seguito dell’ascesa degli investitori internazionali (assicurazioni,
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fondi comuni di investimento mobiliare, fondi pensione) come detentori delle azioni delle
imprese non finanziarie10
. Infatti, tali investitori allocano il loro capitale, costituito dai risparmi
di persone ed entità giuridiche, tra le imprese che gli garantiscono il maggior rendimento
relativo, in altre parole tra le imprese che distribuiscono una quota relativamente maggiore dei
profitti generati. Le imprese saranno, dunque, incentivate a distribuire una quota crescente di
profitti in modo tale che l’investitore istituzionale non faccia mancare il suo apporto di capitale
nell’impresa.
La riduzione della profittabilità relativa delle imprese del settore industriale ha spinto le
imprese a trovare modi alternativi per aumentare i profitti. Da questo punto di vista, la
frammentazione internazionale della produzione ha consentito alle imprese di ridurre i costi di
produzione. Questi maggiori profitti non solo sono stati crescentemente distribuiti agli azionisti,
ma sono stati investiti anche in attività finanziarie. In questo modo si sono create le condizioni
per la trasformazione del modello di accumulazione del capitale: da un modello capitalistico
industriale ad un modello capitalistico finanziario. La finanziarizzazione ha, dunque, l’effetto di
aumentare la quota parte dei profitti realizzati dalle imprese che vengono distribuiti agli
azionisti tramite dividendi o acquisto di azioni dell’impresa stessa.
Si sta dunque assistendo ad una profonda trasformazione delle economie dei paesi ad
alto reddito pro-capite. Il processo di deindustrializzazione riduce la quota di valore aggiunto
derivante dal settore industriale dei paesi ad alto reddito pro-capite, tramite due processi: la
frammentazione internazionale della produzione e la finanziarizzazione delle imprese al suo
interno. Il primo processo modifica il modo di produrre delle imprese del settore industriale e
oltrepassa i tradizionali confini del settore industriale nel senso che alcune attività non vengono
più svolte nel settore industriale nazionale ma nel settore industriale estero. Il secondo processo
coinvolge il settore finanziario. È il settore finanziario che, crescentemente, influenza le
decisioni di organizzazione della produzione e le scelte di investimento. Esso, infatti, diventa il
settore d’uso dei profitti realizzati dalle imprese industriali che progressivamente accrescono le
proprie attività finanziarie (Figura 7 e Figura 8). Inoltre, esso rappresenta la destinazione dei
profitti delle imprese industriali, dato che crescentemente esse distribuiscono dividendi agli
azionisti.
I fattori fondamentali che determinano questi processi e, indirettamente, la
deindustrializzazione sono la riduzione della profittabilità delle attività industriali e la crescente
rilevanza della teoria secondo cui le imprese devono creare valore per l’azionista.
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Tale ascesa è avvenuta in primo luogo negli Stati Uniti durante gli anni ottanta a seguito della
deregolamentazione del settore finanziario (Lazonick & O'Sullivan, 2000).
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3. Il nuovo modello finanziario: ‘originate to distribute’
Nel giro di pochi anni attorno all’inizio degli anni ’80 si osserva dunque l’affermarsi di
tre fenomeni concomitanti:
1. La progressiva deindustrializzazione dei paesi a più alto reddito pro-capite;
2. La ‘liberazione’ di capitale dall’immobilizzo di lungo termine nella forma di
capitale industriale e la crescente finanziarizzazione delle imprese industriali;
3. L’emergere di nuovi comportamenti sul mercato dei prestiti bancari e, di
conseguenza, la crescente finanziarizzazione delle economie.
Gran parte della letteratura definisce il terzo di questi fenomeni come ‘innovazione
finanziaria’, ma non spiega quali ne siano state le cause scatenanti. Qui si sostiene che tale
innovazione fu da un lato il frutto dei primi due, e cioè dell’aumentare progressivamente più
rapido della disponibilità di capitale finanziario sempre meno affezionato all’impiego industriale
e sempre più alla ricerca di impieghi alternativi; e dall’altro di un cambiamento radicale nella
comprensione del rischio creditizio da parte delle banche e degli intermediari finanziari: un
cambiamento che fu alla base del passaggio dal vecchio modello ‘originate to hold’ al nuovo
‘originate and distribuite.’
Si ricorderà che nel modello originate to hold la banca origina il rischio, cioè offre
credito e, in via di principio, trattiene il titolo rischioso fino a maturità. Nel modello originate
and distribute l’erogazione del prestito ha una motivazione aggiuntiva: il rischio insito nel
‘mutuo’ viene venduto e il credito rimosso dal bilancio della banca erogante. Si forma così un
mercato nuovo, quello di mutui ipotecari cartolarizzati (Mortgage Backed Securities, MBS) che
non esisteva nel vecchio modello in cui le banche commerciali non potevano eseguire queste
operazioni. E le MBS sono uno degli strumenti finanziari preferiti dagli investitori.
Nel nuovo sistema finanziario le banche hanno rinunciato in gran parte alla loro
funzione di prestiti a imprese e famiglie per contrarsi invece sul commercio di titoli e divise e
sulla speculazione condotti sia in proprio, sia per conto di imprese e detentori di grandi
patrimoni (Gallino, 2011). Questo è il nuovo ruolo delle banche, le quali progressivamente
hanno sostituito i tradizionali metodi per fare profitti – i prestiti alle imprese e alle famiglie –
con la più allettante speculazione sul mercato finanziario, con soldi propri o con i ‘soldi degli
altri’ (Gallino, 2010). È evidente dalla Figura 9 e dalla Figura 10 che le banche commerciali
statunitensi hanno progressivamente ridotto i prestiti concessi sia alle imprese sia alle famiglie.
L’intermediazione finanziaria tradizionale del modello capitalistico industriale che vedeva le
banche commerciali il meccanismo attraverso cui si ‘moltiplicava’ la liquidità in circolazione
sembra trasformarsi.
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La riduzione dei prestiti concessi a famiglie e imprese è una conseguenza necessaria se
le banche hanno la possibilità di accrescere i propri profitti in altri modi, precedentemente non
attuabili. Ecco quindi che l’innovazione finanziaria, intesa come la trasformazione del modello
di funzionamento delle banche, ha permesso alle banche stesse di aumentare il rendimento delle
proprie attività. Se nel tradizionale modello ‘originate-to-hold’ le banche si limitavano a creare
il prestito e mantenerlo nel proprio bilancio, nel modello ‘originate-to-distibute’ le banche
possono rivendere il prestito da loro creato e distribuirlo sia ad altre banche sia a istituti
finanziari non bancari. In particolare, dall’inizio degli anni novanta questo secondo modello ha
consentito alle banche di trasferire il rischio di credito al di fuori del tradizionale sistema
bancario (Bord & Santos, 2012). La cartolarizzazione dei debiti delle imprese e delle famiglie
ha, infatti, permesso alle banche di trasferire il rischio di credito ad istituti finanziari non
necessariamente di natura bancaria.
4. Il contesto macroeconomico attuale
E dunque, quale destino per le banche?
La buona teoria economica ci insegna a non aspettarci straordinari tassi di crescita
economica mentre la spesa pubblica viene contratta e, di conseguenza, c’è alta disoccupazione
e i redditi delle famiglie cadono. E le banche non danno a prestito ad imprese produttive in
difficoltà. E ogni volta che una impresa chiude, chi lavora ne soffre, e ne soffre la banca
esposta. Un circolo vizioso che solo la spesa pubblica potrebbe spezzare. Ma non lo si vuole.
Irragionevolmente? O esiste invece una agenda diversi dei governi europei, una agenda al cui
centro non c’è, evidentemente, la ripresa economica?
Quanto ancora possiamo vivere in questo scenario? Le previsioni del FMI pubblicate il
9 Luglio dicono che c’è poca ragione di credere che l’Europa uscirà dalla sua ‘mite recessione’
prima del 2014. E la cosiddetta ‘strategia di riduzione del debito’? Bene, le prospettive non
appaiono rosee nemmeno su quel fronte. Proviamo a giocare con un esempio.
Il governo italiano ha un debito pubblico che ammonta pressappoco a 2 trilioni di €, pari
a circa il 125% del suo PIL. Se si prende sul serio le decisioni assunte a livello europeo il 2
marzo 2012 e note come ‘fiscal compact,’ questo rapporto dovrà essere uguale al 60% circa nel
2032. Vero, il linguaggio del testo non è davvero stringente e saranno fatte delle concessioni.
Dunque, supponiamo di limare solo un quarto del debito. Assumendo che la recessione di cui
siamo tutti testimoni sia un invenzione del FMI e dell’OCSE e che il reddito è, e sarà, stabile
(cioè, assumendo che la teoria economica abbia torto e che le riduzioni del debito non siano
recessive), noi stiamo parlando di ridurre il debito di 25 miliardi all’anno per vent’anni
consecutivi. Il che, ponendola in maniera diversa, implica un surplus di bilancio dello stesso
ammontare.
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Naturalmente, questa non è una strada percorribile da alcun governo. Esiste quindi
soltanto un modo che io vedo in grado di garantire che la riduzione del debito rimarrà al livello
desiderato: privatizzazioni. Non sto parlando, ovviamente, di idee ridicole di cui si è sentito
parlare in fase di avvicinamento a questa politica, quali la vendita di vecchie caserme militari o
di strisce di spiagge di proprietà dello Stato. Mi riferisco alla cosa reale, quegli ‘articoli’ che
sono ad un tempo grandi, corpulenti e non redditizi (in questo momento) per il settore privato:
mi riferisco ai servizi di pubblica utilità, la sanità, l’istruzione, il trasporto pubblico e le
municipalizzate in genere.
E chi si può permettere questi ‘articoli’? Bene, forse le banche, che potrebbero aver
trovato un investimento meno rischioso di quello chiesto loro dalle imprese produttive. Questo
scenario è caratterizzato da due aspetti principali. Secondo l’ipotesi che stiamo sviscerando, nel
lato reale dell’economia troviamo governi che tagliano il debito pubblico, per la maggior parte
attraverso privatizzazioni; e nel lato finanziario dell’economia le banche detengono molta
liquidità che da anni ormai non stanno dando a prestito alle imprese - né la daranno. Non è
difficile immaginare le banche commerciali che prestano denaro a qualche agente privato per
comprare, ad esempio, servizi di pubblica utilità. Ma dove, si chiederà, potranno le banche
trovare la liquidità necessaria? Semplice: la liquidità viene fornita da anni ormai nelle forme
più tradizionali ed avveniristiche allo stesso tempo mediante le Long Term Refinancing
Operations, dalle Quantitative Easing 1, 2, 3 … La Banca Centrale Europea, la Federal
Reserve, la Bank of England e, in misure ed intensità relativamente inferiori, la Bank of Japan
hanno intrapreso politiche monetarie fortemente espansive sia riducendo il proprio tasso di
sconto (Figura 11) sia adottando operazioni di mercato aperto, definite ‘non convenzionali’,
aumentando il totale dell’attivo iscritto nel proprio bilancio (Figura 12). Tutta liquidità che le
banche non riversano sul mercato del credito e che preferiscono invece ri-depositare presso la
banca centrale o, al massimo, utilizzare per comperare titoli del debito dei governi. Tutta
liquidità, in altre parola, in attesa di impieghi proficui. E le Outright Monetary Transactions
servono, nell’interim, a sostenere i bilanci delle banche.
Perfino in uno scenario in cui il rimborso delle LTRO innescasse una riduzione nella
disponibilità di credito, le banche avrebbero la soluzione per qualsiasi problema di liquidità.
Qual è la soluzione? Emettere Asset Backed Securities, cioè obbligazioni garantite: garantite,
naturalmente, dalle public utilities, sanità, istruzione……
La risposta alla domanda ‘perché così tanta liquidità, visto che non serve a rilanciare
l’attività produttiva?’ Dal 2007 la risposta è una sola: per dare tempo a sufficienza alle banche
di ripulire i propri bilanci. Ma sorge un’altra domanda: ma perché, allora, una politica fiscale
recessiva? Non dovremmo adottare una politica fiscale espansiva, se fosse quello l’obiettivo?
Non aiuterebbe le banche nel loro intento? Non è forse vero che il processo di riduzione della
leva dura molto più a lungo quando più è persistente la stagnazione dell’economia reale?
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È proprio questa combinazione di politiche monetarie aggressivamente espansive e
politiche fiscali aggressivamente recessive ad aver attirato la nostra attenzione. Le prime sono
state costantemente espansive fin dall’agosto 2007 e, addirittura, lo sono diventate ancora di più
con QE, LTRO, OMT; le seconde, decisamente espansive nel 2008 e prima metà del 2009, si
sono poi trasformate in politiche recessive. Per di più, se si prendono seriamente le istanze di
politica annunciate dalle istituzioni e dai leader europei, si è già detto che la politica fiscale
continuerà ad essere aggressivamente recessiva negli anni a venire.
E’ chiaro a tutti che la combinazione politica monetaria espansiva e politica fiscale
recessiva non genera ripresa. In particolare, è possibile mostrare che i paesi che hanno adottato
politiche di austerità maggiori hanno mostrato, contemporaneamente, una riduzione della
crescita maggiore rispetto agli altri paesi (Figura 13). Lo sapevamo anche cinque anni fa, ma i
governi europei, e i loro consiglieri economici, hanno continuato a battere la grancassa della
ripresa promettendo che minori debiti pubblici avrebbero generato un miglioramento delle
aspettative delle famiglie e delle imprese, le quali avrebbero ricominciato a spendere ed
investire…. Credo fortemente che questa sia una favola che nessuno può prendere sul serio. A
generare i surplus dei bilanci dei governi saranno necessariamente entrate di tipo non fiscale.
Inizialmente per paesi come Italia, Spagna, Grecia, Cipro, Portogallo e a seguire, probabilmente,
per Slovenia, Francia, Olanda, cioè per quei paesi che hanno le percentuali più abbondanti di
capitale preso a prestito dai governi, l’intervento di consolidamento sarà costituito dalla vendita
di attività detenute dai governi, come la scuola pubblica, la sanità, le autostrade, municipalizzate
e così via. Chiaramente, se questo dovesse accadere, il grande ammontare di liquidità messo a
disposizione dalle autorità monetarie e detenuto dalle banche, avrebbe trovato l’impiego
appropriato.
Tuttavia, la nostra discussione ci ha portato a concludere che questo non è un risultato
voluto a tutti i costi dagli intermediari finanziari. Infatti, il finanziamento delle privatizzazioni
potrebbe addirittura essere lasciato a qualche banca locale, piccola, relativamente non
competitiva. Le banche più grandi e più competitive potrebbero moltiplicare i propri
investimenti, iniziati anni fa, nei paesi emergenti, ad alta crescita, politicamente affidabili. In
quei paesi cioè, in cui la produttività del capitale è più alta e, di conseguenza, lo sono anche i
rendimenti dell’investimento finanziario.
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5. Note conclusive
La crisi finanziaria attuale, emersa in un primo momento come un problema di debito
privato, è stata poi scientemente trasformata in una questione di debito pubblico. Dato che non
vi è nulla all’interno della buona teoria economica che suggerisca che vi siano debiti buoni e
cattivi, non vi è una spiegazione ovvia al perché il debito pubblico sia finito sotto un attacco
così feroce da parte del settore finanziario. L’interpretazione dell’evidenza fin qui discussa è che
il processo di costituzione di reti di produzione internazionali ha superato la sua fase esplorativa
ed è ora pronto a decollare su di una scala nuova e massiccia. Ma questo richiede grandi
quantità di capitali, la cui provenienza può essere soltanto l’Europa. E ciò richiede un enorme
ridimensionamento del settore pubblico. Che questa sia una politica voluta o meno dal settore,
un’ondata di privatizzazioni è nelle carte. E la liquidità per renderla possibile è già presente. E’
proprio questo che deve avvenire se si vuole realizzare quella inversione del ciclo della
distribuzione del reddito che, iniziata moderatamente circa quaranta anni fa negli Stati Uniti, sta
assumendo carattere di generalità in tutti i paesi ad alto reddito pro capite.
Nel frattempo, un tempo probabilmente molto lungo, che cosa avverrà della liquidità
che, ci è stato assicurato ancora in questi giorni, le banche centrali continueranno a riversare nel
sistema per un periodo di tempo “prolungato”? Una cosa è certa: non andrà a finanziare attività
produttive in molti dei paesi ad alto reddito pro-capite. Certamente verrà invece utilizzata per
finanziare il processo di deindustrializzazione e, parallelamente, per contribuire, negli stessi
paesi, al processo di produzione di reddito senza produzione.
E dal punto di vista normativo, quale potrebbe essere uno scenario plausibile? Per
rispondere, occorre guardare ancora una volta agli Stati Uniti, dove il dibattito ruota attorno a
tre posizioni principali:
i. Quella di Paul Volcker, già Presidente della Fed e autore, insieme a Ronald Reagan, della
grande deindustrializzazione. Volcker vede con favore un ritorno alla separazione
radicale tra banche commerciali e banche di investimento, realizzata attorno alle grandi
linee della Glass-Steagall;
ii. Quella di Lawrence Summers, già membro del Council of Economic Advisors del
Presidente Obama. Summers sembra prediligere una forma di banca universale non
lontana da quella affermatasi negli ultimi quindici anni, ma soggetta a più stringente
regolazione da parte delle autorità di controllo;
iii. Quella di Jamie Dimon, amministratore delegato di J. P. Morgan e grande sostenitore
della campagna elettorale di Obama. Dimon lotta per una deregolamentazione la più
ampia possibile del settore.
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25
Figura 1. Distribuzione del PIL tra reddito da lavoro da un lato e redditi da capitale e rendite
finanziarie dall’altro negli Stati Uniti (dati in miliardi di dollari).
Fonte: Federal Reserve Bank of the United States.
Figura 2. Distribuzione del PIL tra reddito da lavoro da un lato e redditi da capitale e rendite
finanziarie dall’altro, in Italia (dati in miliardi di euro).
Fonte: ISTAT
0
1000
2000
3000
4000
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7000
8000
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1977
1979
1981
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1985
1987
1989
1991
1993
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Mil
iard
i d
i €
Reddito da lavoro dipendente Reddito da capitale, rendita finanziaria e altro
26
Figura 3. Profitti delle imprese statunitensi e monte salari negli Stati Uniti (1° trimestre
1980=100 – 4° trimestre 2012)
Fonte: Federal Reserve Bank of United States of America
Figura 4. Rapporto tra profitti netti e valore aggiunto alla produzione nazionale delle imprese
manifatturiere statunitensi (1950-2011)
Fonte: National Income and Product Accounts Tables, Bureau of Economic Analysis, Aprile
2013
-400-200
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Monte Salari
Profitti lordi delle imprese non finanziarie
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20
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10
27
Figura 5. Importazioni di beni intermedi, dati annuali, 1990-2010
Fonte: OECD.Stat, Maggio 2013
Figura 6. Quota di dividendi distribuiti dalle imprese statunitensi sul totale dei profitti
lordi, 1946-2011
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2012
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00
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03
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09
28
Figura 7. Quota di attività in fondi di investimento comuni sul totale delle attività finanziarie
detenute dalle imprese 'corporate' non finanziarie, 1970-2011
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2012
Figura 8. Rapporto tra il totale delle attività finanziarie e delle attività non finanziarie iscritte a
bilancio dalle imprese 'corporate' non finanziarie, 1970-2011
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2012
0%
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11
29
Figura 9. Quota di prestiti commerciali e industriali erogati dalle banche commerciali
statunitensi sul totale del loro attivo, gennaio 1973 – maggio 2013
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2013
Figura 10. Quota di prestiti alle famiglie erogati dalle banche commerciali statunitensi sul totale
del loro attivo, gennaio 1973 – maggio 2013
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2013
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30
Figura 11. Tasso di sconto di alcune Banche Centrali, gennaio 2007 – maggio 2013
Fonte: US Federal Reserve, Eurostat, Bank of England, Bank of Japan, 2013
Figura 12. Totale dell’attivo iscritto a bilancio di alcune Banche Centrali alla fine di ciascun
periodo, gennaio 2007(=100) – maggio 2013
Fonte: Federal Reserve Bank of St. Louis, European Central Bank, Bank of England, 2013
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31
Figura 13. Variazione del PIL pro-capite reale e misure di austerità – tagli alla spesa e aumenti
del prelievo fiscale – in rapporto al PIL
Fonte: IMF World Economic Outlook, aprile 2013; IMF Fiscal Monitor, ottobre 2012
32
Tabella 1: Deregolamentazione del settore finanziario statunitense, USA. Eventi principali,
1980-2004
Fonte: Adattato da Sherman (2009)
1980, Depository Institutions Deregulations and Monetary Control Act (DIDMCA)
Per permettere alle banche e alle saving and loans di competere i fondi d'investimento comuni, viene creata un commissione il cui compito è quello di sovrintendere nei successivi sei anni alla graduale ma completa eliminazione del tetto sui tassi d'interesse
1982, Garn-St. Germain Depository Insitutions Act
Deregolamentazione quasi completa delle saving and loans. Viene consentita loro la concessione di prestiti commerciali e l'utilizzo di nuovi strumenti per competere direttamente con i fondi comuni d'investimento.
1994, Riegle-Neal Interstate Banking and Branching Efficiency Act
Rimozione delle pre-esistenti restrizioni sulla possibilità di svolgere attività bancaria e/o di possedere succursali a livello interstatale.
1996, Fed Reiterprets Glass-Steagall Act
La Federal Reserve reinterpreta il Glass-Steagall Act diverse volte. Alla fine viene concesso alle holding bancarie di ottenere fino al venticinque percento dei propri ricavi da operazioni effettuate attraverso le banche d'investimenti appartenenti al gruppo.
1999, Financial Modernization Act (conosciuto anche come Gramm-Leach-Bliely Act)
Il Glass-Steagall Act viene completamente abrogato.
2000, Commodity Futures Modernization Act
Viene impedito alla Commodity Futures Trading Commission (CFTC) di regolamentare la maggior parte dei contratti derivati over-the-counter (OTC), inclusi i credit default swaps (CDS).
2004, Voluntary Regulation
La Security and Exchange Commission (SEC) propone un sistema di regolamentazione volontaria sotto il programma Consolidated Supervised Entities, consentendo alle banche d'investimento di detenere un'ammontare inferiore di capitale a riserva e di aumentare la leva finanziaria