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2.1. Le patologie delle forme di vita e il significato dell’agire per il successo Una prima osservazione, contenuta nella stessa Prefazione di Habermas, ri- guarda il fatto che la nozione di etica del discorso è impropria e ingannevo- le. Poiché il principio U deve operare come un coltello, separando l’etica dalla morale, coerenza vorrebbe che Habermas utilizzasse il termine mora- le del discorso. Scrive, infatti, Habermas che, per bene intendere il suo pen- siero, «si dovrebbe parlare più precisamente di una “teoria del discorso del- la morale”», salvo poi affermare di voler restare «fedele all’uso linguistico, divenuto terminologicamente corrente, di “etica del discorso”» 145 , e a ben vedere tutto il problema dell’impostazione filosofico morale di Habermas (e di questo libro) sta in questa questione 146 . Il testo è un tentativo, che si ripe- te secondo angolature diverse, di “ovviare” per quanto possibile al taglio operato dal principio U tra giusto e bene, per fare in modo che, rimanendo ancora semplicemente all’interno del giusto, divenga possibile recuperare un qualche nesso con il bene, che gli risulterebbe per certi aspetti “imma- nente” 147 . Secondo Habermas, se si distingue «sensatamente con precisione moralità da eticità», con ciò diviene anche possibile «valutare la razionalità di una concreta forma di vita nella misura in cui questa costituisca un con- testo che rende possibile ai suoi appartenenti la formazione di giudizi mo- rali, guidati da principi, e ne promuovono la conversione nella prassi» 148 . Come dire che, se valgono le obiezioni mosse all’etica del discorso, la mo- rale di Habermas nasce surrettiziamente da una forma di vita, cui essa poi ritorna al fine di giustificarla, attribuendole una razionalità maggiore rispet- to alle altre. Habermas nelle pagine successive cerca di sminuire il senso del- le affermazioni appena compiute, dando vita ad una serie di riflessioni par- ticolarmente interessanti. L’idea di fondo è che le altre forme di vita siano sì meno razionali, ma l’attributo della minor razionalità deve essere inteso in un senso debole – se non nei termini di un problema di tutt’altra fattispecie – come «patologia delle forme di vita» 149 . Scrive, infatti, Habermas: «se la forma di vita di un collettivo o la biografia di un individuo sia nell’insieme 151 145 Ibi, p. VII. 146 La stessa Einbettung (collocazione) che Habermas – come vedremo – compirà ne Il futuro della na- tura umana dell’etica del discorso in una Gattungs-Ethik o etica di genere, si basa ancora su questa scelta semantica che ha alle spalle la grande divisione operata dal principio U. 147 Habermas non si avvede qui del fatto che in questo modo ha già avvalorato tutte le pertinenti obie- zioni che gli vengono rivolte, circa la dipendenza contenutistica e non formale della sua impostazione, secondo quanto lo stesso Kelsen ha inteso opporre al formalismo morale. 148 HABERMAS, Teoria della morale, p. 39. 149 Ibi, p. 43.
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L'autonomia come dipendenza. L'io legislatore

Mar 28, 2023

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2.1. Le patologie delle forme di vita e il significato dell’agire per il successo

Una prima osservazione, contenuta nella stessa Prefazione di Habermas, ri-guarda il fatto che la nozione di etica del discorso è impropria e ingannevo-le. Poiché il principio U deve operare come un coltello, separando l’eticadalla morale, coerenza vorrebbe che Habermas utilizzasse il termine mora-le del discorso. Scrive, infatti, Habermas che, per bene intendere il suo pen-siero, «si dovrebbe parlare più precisamente di una “teoria del discorso del-la morale”», salvo poi affermare di voler restare «fedele all’uso linguistico,divenuto terminologicamente corrente, di “etica del discorso”»145, e a benvedere tutto il problema dell’impostazione filosofico morale di Habermas (edi questo libro) sta in questa questione146. Il testo è un tentativo, che si ripe-te secondo angolature diverse, di “ovviare” per quanto possibile al tagliooperato dal principio U tra giusto e bene, per fare in modo che, rimanendoancora semplicemente all’interno del giusto, divenga possibile recuperareun qualche nesso con il bene, che gli risulterebbe per certi aspetti “imma-nente”147. Secondo Habermas, se si distingue «sensatamente con precisionemoralità da eticità», con ciò diviene anche possibile «valutare la razionalitàdi una concreta forma di vita nella misura in cui questa costituisca un con-testo che rende possibile ai suoi appartenenti la formazione di giudizi mo-rali, guidati da principi, e ne promuovono la conversione nella prassi»148.Come dire che, se valgono le obiezioni mosse all’etica del discorso, la mo-rale di Habermas nasce surrettiziamente da una forma di vita, cui essa poiritorna al fine di giustificarla, attribuendole una razionalità maggiore rispet-to alle altre. Habermas nelle pagine successive cerca di sminuire il senso del-le affermazioni appena compiute, dando vita ad una serie di riflessioni par-ticolarmente interessanti. L’idea di fondo è che le altre forme di vita siano sìmeno razionali, ma l’attributo della minor razionalità deve essere inteso inun senso debole – se non nei termini di un problema di tutt’altra fattispecie– come «patologia delle forme di vita»149. Scrive, infatti, Habermas: «se laforma di vita di un collettivo o la biografia di un individuo sia nell’insieme

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145 Ibi, p. VII.146 La stessa Einbettung (collocazione) che Habermas – come vedremo – compirà ne Il futuro della na-tura umana dell’etica del discorso in una Gattungs-Ethik o etica di genere, si basa ancora su questascelta semantica che ha alle spalle la grande divisione operata dal principio U.147 Habermas non si avvede qui del fatto che in questo modo ha già avvalorato tutte le pertinenti obie-zioni che gli vengono rivolte, circa la dipendenza contenutistica e non formale della sua impostazione,secondo quanto lo stesso Kelsen ha inteso opporre al formalismo morale. 148 HABERMAS, Teoria della morale, p. 39.149 Ibi, p. 43.

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più o meno “conciliata”, più o meno “riuscita”, se un modo di vivere sia com-plessivamente “alienato”, ciò non è una questione cui si possa risponderemoralmente150. Questa assomiglia alla questione clinica, su come sia da va-lutare la costituzione fisica e psichica di una persona, piuttosto che alla que-stione morale: se una norma o un’azione sia giusta»151. Segue, però, imme-diatamente un’implicita ammissione della problematicità di questa spiega-zione: «se una vita sia riuscita o alienata non dipende da criteri di giustezzanormativa – sebbene i criteri intuitivi, difficilmente esplicabili per una, di-ciamolo negativamente, vita non-mancata, non varino in modo pienamenteindipendente dai criteri morali»152; non è vero cioè che non sia determina-bile sul piano razionale in che cosa consista una vita riuscita, tanto che neabbiamo – secondo Habermas – per lo meno un’intuizione, pur non essen-do questa giustificabile «da un punto di vista universalistico»153.

È interessante osservare l’analogia che Habermas istituisce tra il pro-blema della natura del bene (cui segue quello della razionalità delle formedi vita) e le questioni cliniche: in ciò pare esservi una ritrattazione della po-sizione espressa nelle Tanner Lectures del 1986, in cui Habermas ha carat-terizzato kelsenianamente le questioni attinenti alla vita buona, non solo co-me non-risolvibili sul piano filosofico, ma anche come irrazionali. L’eticadel discorso non può permettersi di disprezzare totalmente tali questioni,perché da esse in un certo senso dipende.

Quando Habermas ha distinto il giusto dal bene, ha implicitamente crea-to le premesse per un vuoto teoretico destinato a rimanere incolmabile, incui la questione sul modo in cui l’uomo debba vivere, se, da un lato, espri-me una rivendicazione di “autonomia come indipendenza”, dall’altro, ri-schia di essere lasciata nell’ambito della «cieca decisione o del mero im-pulso»154. La chiamata in causa della clinica si spiega allora come un ten-tativo di colmare tale vuoto, affinché le questioni attinenti al bene, pur nonessendo intrise di motivi filosofici, non siano del tutto prive di una “qual-che” forma di razionalità155. Si tratta di una soluzione degna di considera-zione e tuttavia non priva di problemi che molto hanno a che fare con l’in-

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150 Sul piano cioè della ratio filosofica.151 Ibi, p. 45.152 Ibidem. Nostro il corsivo.153 Ibi, p. 46.154 Ibi, p. 84.155 Habermas ha sempre fatto ricorso alla psicoanalisi e più in generale alla ricerca psicologica per sup-plire ad investimenti di razionalità sostanziale che la sua filosofia non voleva preoccuparsi di dare. Ri-cordiamo come il riferimento a Kohlberg gli abbia permesso di assumere, senza riferimenti ontologicialla natura umana, la prospettiva (forse utopica) di un progresso morale immanente all’umanità.

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terpretazione habermasiana di Aristotele156. Il punto di partenza è una pre-sentazione non immediatamente evidente dell’impostazione morale aristo-telica che formulerebbe la vita buona a partire dal modo in cui «una deci-sione illusoria – il legame con un partner sbagliato, la scelta di un’alterna-tiva professionale errata – possa avere come conseguenza una vita manca-ta»157. Ed effettivamente Habermas non nega che la ragion pratica sia im-plicata in queste questioni, essendo impegnata a valutare la vita del sog-getto in vista della agognata soddisfazione. Si tratta, però, di una valuta-zione che si presenta come un Giano bifronte, composto di due facce: «quel-la descrittiva della genesi biografica dell’io e quella normativa dell’idealedell’io (das Ich-Ideal)»158. E il termine freudiano ideale dell’io – che nelpensiero del padre della psicoanalisi indica una questione costitutivamentenarcisistica –, è funzionale alla strategia già esaminata di attribuire alla vi-ta buona una qualche forma di razionalità in cui «le decisioni decisive cir-ca i valori vengono trattate come questioni cliniche della vita buona»159,non essendo la «auto-comprensione etica» null’altro che un «auto-accer-tamento clinico»160. Davvero in questo modo si avvalora il senso dell’o-biezione, non del tutto convincente, sovente mossa alla psicoanalisi di an-nullare nella patologia psichica il problema morale, come se nel suo agirel’uomo portasse in sé una zona franca di indifferenza e la vita attiva del-l’uomo fosse legislativa o imputabile solo in misura residuale. Ciò che col-pisce di questa soluzione non è tanto il suo carattere compromissorio percui, se, da un lato, si vuole negare un portato razionale e veritativo alla ri-flessione sulla vita buona, dall’altro, si cerca di ovviare all’irrazionalismoche di qui ne consegue. Impressiona invece il fatto che ciò avvenga attra-verso il richiamo non al sapere della psicoanalisi, ma al suo aspetto pretta-mente clinico. È evidente la portata irrazionalistica (anche per la stessa psi-coanalisi!) di questa soluzione, in cui si fa del problema etico un problemadi clinica, a partire dalla pretesa che con la filosofia un individuo possa, adesempio, stabilire in senso forte con che donna sposarsi, quasi cercando neifilosofi e nelle loro parole una legge con cui orientare il proprio moto piùsignificativamente umano avvertito privo di riferimenti. Se questa richiestaalla filosofia sembra fuori luogo e perlomeno sproporzionata, la delusione

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156 In primis per l’idea che solo il riferirsi al pensiero di questo autore, “mossa” tipica del pensiero neo-conservatore, condurrebbe la modernità a quello che Habermas ha chiamato il commiato salvifico dal-la filosofia.157 Ibidem.158 Ibidem.159 Ibidem.160 Ibidem.

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per la sua incapacità di risposta non giustifica la posizione che Habermasintende assumere, anche perché egli accetta che per certe questioni posse-diamo delle intuizioni (in qualche modo razionali)161, che in quanto tali,ammettono la possibilità di essere ripercorse in un’argomentazione: a benvedere è ciò che egli stesso fa, quando esplicita come la morale autonomadella giustizia richieda la solidale attenzione per il bene comune e dell’al-tro, riconoscendo l’irrazionalità di una forma di vita che escluda da sé giu-stizia e solidarietà. Ciò che qui occorre chiarire è che una coerente distin-zione fra etica e morale conduce o all’affermazione dell’irrazionalità dellaquestione della vita buona (Tanner Lectures) o alla negazione di imputabi-lità morale (Teoria della morale) per la gran parte della vita attiva dell’uo-mo: scelte, pensieri e azioni finiscono, a prescindere da una loro connota-zione pato-logica, sul divano dell’analista o nello studio dello psicologo.

Habermas giustifica questa seconda conseguenza (la negazione di im-putabilità morale e l’asserzione di neutralità) per il fatto – indubitabile – chele domande della vita buona implicano il soggetto in prima persona. «Larelativizzazione della validità delle asserzioni etiche non significa una de-ficienza; essa deriva dalla logica di una domanda che può essere rivolta so-lo a me (o a noi) e alla fine può anche ricevere una risposta anche soltantoda me (o noi)»162, secondo una (giusta) rivendicazione della titolarità delsoggetto sulla costituzione della propria biografia che ricorda da vicino ildiscorso heideggeriano sulla vita autentica. Ed è a questo punto che Ha-bermas, per uscire dalle pastoie in cui lo conduce la sua soluzione clinica163,richiama la distinzione fra etica e morale, radicalizzandola in modo deciso.Le proprie scelte identitarie164 «si orientano secondo un fine posto assolu-tamente per me, cioè secondo il bene supremo di una condotta di vita au-tarchica recante in sé il suo valore»165. Con ciò l’esigenza autonomista del-la morale habermasiana si traduce sul terreno dell’etica nella forma di un’i-stanza autarchica166. Che questa qualifica non sia positiva si capisce da ciòche segue. Se Habermas ha sempre qualificato la prospettiva morale nei ter-mini dell’agire comunicativo, egli ora riconduce, infatti, la prospettiva eti-ca alla figura dell’agire strategico – chiamato anche agire orientato al suc-

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161 Habermas ha detto, infatti, che esse non sono del tutto indipendenti da criteri morali, che sono il ra-zionale per eccellenza.162 Ibi, p. 94.163 Che gli rende difficile affermare la razionalità della forma di vita in cui la giustizia si accompagnaalla solidarietà.164 Quelle che rinviano alla domanda su chi vogliamo essere.165 Ibi, p. 108.166 La critica al concetto di autonomia, che come abbiamo visto può essere riconosciuta in Habermas,avviene così solo limitatamente al terreno dell’etica.

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cesso – «in cui le altre persone hanno soltanto il valore posizionale di mez-zi o di condizioni limitative per quanto riguarda la realizzazione del pro-gramma di azione di volta in volta proprio»167, una programma che, non di-mentichiamolo, è pensato – clinicamente – in vista della soddisfazione. «Ladomanda: “che cosa devo fare?” cambia […] il proprio senso non appenale mie azioni toccano gli interessi altrui, conducendo a conflitti che devo-no essere regolati imparzialmente, dunque dal punto di vista morale»168. Èin questo modo che dal punto di vista etico si passa «in quello morale»169:«noi ci approssimiamo al modo di considerare morale, non appena esami-niamo se le nostre massime siano conciliabili con le massime degli altri»170.A questo punto Habermas osserva: la verifica delle massime «che si facciaguidare dalla questione di come io voglio vivere impegna la ragion praticain una maniera diversa dalla riflessione se, dal mio angolo di visuale, unamassima universalmente osservata sia adeguata a regolare la nostra convi-venza. Nell’un caso si verifica se una massima sia buona per me ed ade-guata alla situazione; nell’altro se io possa volere che una massima vengarispettata come legge universale da ognuno. Ivi si tratta di una riflessioneetica, qui di una riflessione morale»171. Che cosa significa tutto questo? Cheil punto di vista universale deve prescindere strutturalmente da quello delsoggetto e dalla sua richiesta di soddisfazione172, perché quando il sogget-to agisce in questa prospettiva agisce “orientato al successo” e dunque “stru-mentalmente”. Agire in vista della propria soddisfazione, dunque, non so-lo è non-morale (nel senso che finora avremmo detto, chiamandolo etico)ma è immorale, tanto Habermas dà per scontato che nell’agire etico la miarelazione con l’altro sia degradante per la sua dignità; e ancora che non vipossa mai essere un modo in cui il mio agire in vista della soddisfazione

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167 Ibidem.168 Ibidem.169 Ibidem.170 Ibi, p. 109.171 Ibi, p. 110.172 «Una massima», scrive infatti Habermas, «può essere non buona per me» (cioè opporsi alla nor-matività clinica risultante dalla mia autocomprensione esistenziale) e nel contempo «può darsi che lamedesima massima sia ingiusta» e, dunque, moralmente e razionalmente errata, ma tra le due pro-spettive non c’è coincidenza (Teoria della morale, p. 110). Col che capiamo una nuova sfumatura del-la non coincidenza fra etica e morale che evidenzia quale sia la differenza in cui si incorre, in seno alcognitivismo, se si intende la morale in termini oggettivi o universalistici. Nell’etica oggettiva – qua-le è certamente quella aristotelica – ciò che è oggettivamente morale (cioè moralmente apprezzabilecome il giusto di cui parla Habermas) è tale sia per il soggetto sia universalmente. Nella prospettivaabbracciata da Habermas è invece possibile che ciò che è moralmente apprezzabile non sia anche ta-le per il soggetto, come se il vero universale (di tutti gli uomini) non riguardasse, dunque, anche il ve-ro del singolo uomo.

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possa trovare quest’ultima nella e attraverso la soddisfazione (e la dipen-denza dall’) dell’altro. Il che traduce in un senso inatteso il monito kantia-no che prescrive di trattare l’altro sempre come fine e mai come mezzo: nel-l’ottica qui presentata l’altro non può mai essere mezzo della mia soddi-sfazione (né io per lui). Se con queste considerazioni Habermas esce dalladifficoltà di riferirsi alla clinica (perché, in ogni caso, si sta parlando di qual-cosa di ingiusto), egli sviluppa la distinzione fra etica e morale in una dire-zione tutt’altro che formale, perché ammette la tesi secondo cui la ricercadella soddisfazione (e del successo) è, come tale, immorale. Una tesi cheannulla anche il senso della adesione habermasiana alla libertà di poter-es-sere-se-stessi che finora aveva sempre mantenuto in relazione alla sua spie-gazione della prospettiva etica. Aben vedere, questo ulteriore sviluppo rinfor-za il senso dell’obiezione di Tugendhat precedentemente esaminata. Nellaspiegazione di Habermas i partecipanti alla fondazione di una norma «nonpossono far valere semplicemente i loro interessi, ma nel loro “discorso”devono già partire dall’idea dell’imparzialità»; se così stanno le cose, però,è questo il senso dell’obiezione, proprio «l’imparzialità non sarà il risulta-to di tale “discorso”, ma il suo presupposto». Sappiamo così ora quale sianatura di un tale presupposto.

Habermas trae due ulteriori conseguenze dal taglio che lui ha operato traetica e morale.

(1) La prima di esse emerge dall’esame dell’obiezione di Taylor secon-do cui la sussunzione del bene nel giusto è sul piano teorico impossibile, inquanto una teoria della giustizia implica sempre in realtà una teoria del be-ne173. Habermas scrive che tale posizione, intrisa di «scetticismo cattoli-co»174, «non pone in dubbio la pretesa universalistica della giustizia, mal’autonomia della morale razionale»175. «Anche Taylor non vorrebbe tor-nare al diritto naturale tradizionale, […] ritiene tuttavia che sia impossibi-le una morale fondata autonomamente in base alla ragione»176, in quantol’identità del soggetto dipende dalla «formazione ineludibile e decisiva pernoi di orientamenti fondamentali»177. Ciò che interessa Habermas della po-sizione di Taylor è il fatto che egli ponga la domanda sul «“perché esseremorali?”», in modo tale che essa possa essere soddisfatta da una risposta

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173 Habermas si riferisce al testo, da noi già citato: TAYLOR, Radici dell’io. La costruzione dell’identitàmoderna.174 HABERMAS, Teoria della morale, p. 188.175 Ibi, p. 184. Perché, in effetti, il bersaglio non è l’universalità, ma l’idea autonomista che essa sia pos-sibile solo muovendo da un piano formale. 176 Ibi, p. 185.177 Ibi, p. 190.

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«non banale»178, come «finora» ad Habermas era invece sempre sembrato.La richiesta di Taylor è che «la filosofia ci debba preservare dall’essere cie-chi o cinici di fronte ai fenomeni morali», rendendoci al contrario «sensi-bili alla dimensione nascosta del bene»179. «Tuttavia» – risponde Habermas– «una filosofia post-metafisica, da un lato, arriva troppo tardi ad affinareil senso morale, dall’altro, non è in grado di assolvere il compito di supe-rare il cinismo morale»180. A questo punto Habermas si discosta anche dal-l’impostazione morale di Apel, il quale pensa di poter dare una risposta al-la «domanda sul fondamento razionale ultimo dell’essere morali»181, attra-verso l’immissione di un motivo esistenziale o teleologico – cosa che ap-pare ad Habermas «oberata da una pretesa ambiziosa»182. Proprio l’immis-sione di «un punto di vista teleologico in una teoria morale impiantata deon-tologicamente», «fa (infatti) esplodere il quadro concettuale di una teoriadeontologica»183. La distinzione fra etica e morale, eliminando il moventeesistenziale della ricerca della propria soddisfazione (etica), o addiritturaqualificandolo come immorale, non sa più rispondere alla domanda – nonbanale – a proposito della ragione per cui l’uomo debba essere morale. Ha-bermas rimane colpito da questo fatto e si accorge di non poter liquidare laquestione quasi si trattasse di «un problema di debolezza della volontà»184.E tenta di risolvere il problema, formulando in un modo insolito il motivoche sta alla base di ogni richiesta di diritto naturale: in certi casi, «dopo chenoi abbiamo stabilito la norma unicamente adeguata al caso, può diventareindispensabile verificare se il giudizio singolo che ne deriva esiga un’azio-ne che non è ragionevolmente pretendibile dal punto di vista esistenzia-le»185. In altri termini, quando l’appartenenza a una legge morale mette arischio l’identità di un soggetto, il problema del “perché agire moralmen-te?” trova la sua espressione più drammatica. E la risposta che Habermasescogita fuoriesce dal soggetto e rinvia al diritto statuale: «soltanto un’isti-tuzionalizzazione giuridica può assicurare l’osservanza generale delle nor-me moralmente valide. Questa è una ragione morale per il diritto in gene-rale»186: «il diritto di coercizione deve controbilanciare debolezze motiva-

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178 Ibi, p. 191.179 Ibidem.180 Ibidem.181 Ibi, p. 193.182 Ibi, p. 194. «Egli postula il dovere di aspirare al progresso morale» (ibi, p. 203).183 Ibi, p. 204.184 Ibi, p. 206.185 Ibidem.186 Ibi, pp. 206-207.

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zionali e indeterminatezze cognitive del discorso morale basato sull’astra-zione e idealizzazione»187. Nella scissione tra etica e morale risulta annul-lato il movente soggettivo alla moralità. Cosicché quanto dovrebbe sgorga-re dal soggetto stesso viene delegato da Habermas al diritto, ovvero a un’i-stanza che rimane fondamentalmente remota rispetto alla propria iniziativae alla qualifica kantiana del soggetto come legislatore. Se Habermas rico-nosce, sollecitato da Taylor, di non saper indicare una ragione per l’esseremorali, egli banalizza, però, il senso di questo “deficit motivazionale”: sec’è questo problema è perché qualcosa nell’uomo si ribella a tale spiega-zione, e non per un capriccio infantile che attenda una soluzione di evolu-zione in un nuovo stadio di kohlbergiana memoria. L’uomo è costituito perricercare la propria soddisfazione, e una legge che, come quella haberma-siana, non tenga conto di questo dato deve registrare un rifiuto del sogget-to. È interessante osservare come con questa conseguenza il pensiero mo-rale di Habermas segua un itinerario circolare, in cui la richiesta di autono-mia iniziale finisce nella delega al diritto statuale: curioso approdo per unfilosofo kantiano. Siamo così in grado di venire alla seconda conseguenza,che qui accenniamo soltanto, per poi riprenderla in occasione dell’esamedel testo il Futuro della natura umana.

(2) Alla base del principio U c’è un ulteriore presupposto che Haber-mas comincia ad esplicitare con chiarezza proprio in Teoria della morale,quando si accorge che l’etica del discorso poco potrebbe dire sulle que-stioni morali attinenti l’ambiente e la vita animale: si può affermare, anzi,che per l’etica del discorso, in senso stretto, tali problemi morali non sia-no neppure formulabili. «Il profilo antropocentrico» – scrive Habermas –«delle teorie di tipo kantiano sembra renderle tendenzialmente incapaci diravvisare le questioni risultanti dalla responsabilità morale dell’uomo peril suo ambiente non-umano»188. Per ovviare a questo nuovo deficit, «co-me nel caso dell’ampliamento dello spettro delle questioni di giustizia al-le questioni della vita buona, anche qui si tratta di integrare le questionimorali in senso stretto […] con questioni di altro tipo»189. Particolarmen-te interessante è ora la natura della difficoltà, perché essa rivela il presup-posto che stiamo cercando: «qui c’è una chiara barriera […]. Difatti, glianimali non possono entrare con noi in una reciprocità di principio che de-termina la nostra condotta verso gli esseri umani»190. «L’integrità verso la

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187 Ibi, p. 208. Lo stesso pensiero circa la spinta fornita dal diritto alla moralità sarà ribadito in Fatti enorme. 188 Ibi, p. 228.189 Ibidem.190 Ibidem.

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singola persona richiede che venga stabilito un approccio di rapporti sim-metrici di riconoscimento in cui individui insostituibili possano assicura-re soltanto reciprocamente la loro fragile identità come membri di una co-munità»191. Il presupposto (come vedremo contenutistico) che sta alla ba-se dell’etica del discorso non è semplicemente la pari dignità di tutte lepersone, ma l’istituzioni di rapporti simmetrici, in cui si traduce la richie-sta alla base di U, di un «universale scambio di ruoli». Vedremo nel pros-simo paragrafo la problematicità di questa soluzione, che al momento po-trebbe apparire solo come una traduzione della regola aurea. Qui ci limi-tiamo ad osservare che la difficoltà di Habermas nasce, ancora una volta,dalla cesura fra etica e morale. Una prospettiva morale basata sul bene, in-fatti, si allarga di diritto alla considerazione e alla valutazione di tutto ciòche è tale in senso ontologico: ovvero anche l’ambiente e gli animali192.Possiamo così affrontare il punto di vista di Habermas in relazione a Il fu-turo della natura umana.

2.2. La Gattungs-Ethik tra passato e futuro

A questo punto della nostra trattazione il senso generale dell’opera di Ha-bermas dovrebbe essere chiaro, per cui nelle pagine che seguono ci limite-remo ad indicare alcuni nodi del testo significativi per il quadro che stiamotracciando. Habermas parte dall’assunto secondo cui «con la decisione ir-reversibile che una certa persona prende nei riguardi della dotazione natu-rale di un’altra persona, nasce un rapporto interpersonale mai visto pri-ma»193, sulla scia di una trasformazione teorica in cui «ciò che per Kant eraancora il “regno della necessità”, è diventato – nella prospettiva evolutiva– il “regno della casualità”»194. Per tale ragione la gravità della situazionemotiva secondo Habermas una strategia argomentativa che, come abbiamovisto, accetta l’onere di recuperare una qualche nozione normativa di natu-ra umana, quando invece l’etica del discorso si serve della struttura del lin-guaggio, proprio per rendere inutile un tale riferimento “neo-conservato-re”. Ma che cosa vuol dire per Habermas riferirsi alla nozione di natura uma-na? Perché il cambiamento – invero molto rilevante – non sia travolgente,occorre stare attenti a che questo “recupero” non segua la strategia di «ri-

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191 Ibi, p. 232.192 Certo anche qui in una prospettiva comunque antropocentrica che, al di là di tutte le pretese, appa-re intrascendibile.193 HABERMAS, Il futuro della natura umana, p. 16.194 Ibi, p. 30. Si tratta del mutamento del quadro teorico alla base del progetto, da cui siamo partiti, diporre mano alla casualità dell’origine dell’uomo.

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molarizzare la natura umana»195: tale operazione «avrebbe l’inaccettabilesignificato di una sua ri-sacralizzazione. Dopo che scienza e tecnica hannoallargato i nostri margini di libertà al prezzo di […] un disincantamento del-la natura esterna, sembra ora che qualcuno voglia bloccare questa inarre-stabile tendenza attraverso l’erezione di tabù artificiali, dunque, in base aun nuovo “incantamento” della natura interna»196. La strategia è allora quel-la di collocare (Einbettung) la teoria discorsiva della morale in «una certacomprensione etica del genere (Gattungsethik). Alludo a quella autocom-prensione da cui dipende la possibilità di continuare ad intenderci come gliautori indivisi della nostra storia di vita, nonché di continuare a riconoscercimutuamente come persone che agiscono in maniera autonoma»197. La «prio-rità del giusto sul bene non deve farci chiudere gli occhi sul fatto che – asua volta – l’astratta morale razionale dei soggetti titolari dei diritti umanitrova sostegno entro una preliminare autocomprensione etica del generecondivisa da tutte le persone morali»198. Da questa affermazione – che av-valla l’obiezione anti-formalista costantemente rivolta alla teoria discorsi-va della morale di Habermas – segue la già spiegata necessità di preserva-re la casualità dell’origine dell’uomo.

Nel primo numero del 2002 la «Deutsche Zeitschrift für Philosophie»ha ospitato una discussione del testo di Habermas ad opera di Ludwig Siepe Robert Spaemann che, pur rinvenendo motivi di apprezzamento della stra-tegia di Habermas, muovono ad essa alcune obiezioni199. Mentre le osser-vazioni di Spaemann mettono in dubbio la possibilità di un discorso à laHabermas senza una fondazione metafisica200, quelle di Siep pongono il

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195 Habermas trae l’espressione (nota 17, p. 28) dal testo di W. VAN DEN DAELE, Die Moralisierung dermenschlichen Natur und die Naturbezüge in gesellschaftlichen Institutionen, «Krit. Vj. Für Gesetzge-bung und Rechtswissenschaft», 2/1987, pp. 351-366.196 HABERMAS, Il futuro della natura umana, p. 28. Il linguaggio è quello marxiano di Conoscenza edinteresse.197 Ibidem. 198 Ibi, p. 44. 199 L’Appendice dell’edizione italiana de Il futuro della natura umana contiene una prima risposta del-l’autore tedesco a queste ed altre osservazioni critiche.200 Spaemann osserva infatti che senza una fondazione metafisica il tentativo di Habermas di inquadrarela morale in un’etica di genere è destinato a fallire, dato che «vi è una difficoltà cruciale nella posizio-ne della concezione della vita buona come una faccenda privata, subordinata rispetto ad un universali-smo indifferente a queste concezioni; e la difficoltà è data dal fatto che in questo modo non si riesce arispondere alla domanda: “perché essere morali?”» (R. SPAEMANN, Habermas über Bioethik, «DeutscheZeitschrift für Philosophie», 1/2002, pp. 105-109, qui p. 105). Secondo Spaemann, non è poi nemme-no posssibile banalizzare il significato della riflessione metafisica: «ciò che Habermas chiama “meta-fisica” non è nient’altro che il prendere sul serio il modo in cui noi facciamo esperienza di noi stessi»(p. 107). Per una discussione delle osservazioni di Spaemann rinviamo al sintetico scritto di: O. BRINO,

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problema esplicito della novità o continuità di queste tesi rispetto all’im-pianto tradizionale di Habermas. Nel saggio Moral und Gattungsethik Sieposserva che la tesi di Habermas può essere interpretata in due modi: da unlato, come se lui dicesse, rimanendo nel paradigma dell’autonomia, che«persone autonome devono poter non considerare il loro corpo come né pro-gettato né fatto da nessun altro»201; dall’altro, che «la preferenza di una for-ma di vita costituisce essa stessa un’opzione di etica di genere»202. Ora, se-condo Siep, la prima formulazione non sarebbe particolarmente in con-traddizione con l’impianto precedente: «basta postulare una determinatacomprensione della natura umana (quasi nella forma di un argomento tra-scendentale, in modo analogo a Fichte che deduceva una certa natura delcorpo come condizione dei rapporti di riconoscimento fra le persone)»203,col che si rimarrebbe semplicemente nell’ambito di una «implementazionedell’etica del discorso»204 e, dunque, del principio dell’autonomia. Siep in-tende che non è questo il senso complessivo della tesi di Habermas, ma ri-schia di misconoscere la grande novità che Habermas introduce già a que-sto livello. Pur rimanendo effettivamente nel seno dell’autonomia, Haber-mas accede in questo testo, infatti, all’idea di una considerazione moraleche dipende dal terreno dell’“universalità antropologica”, pur rimanendoindifferente rispetto allo status del corpo. Secondo Haucke205, un simile ri-ferimento della morale all’antropologia206 è davvero una novità del pensie-ro habermasiano, tanto da permettere di riformulare il problema posto ne Ilfuturo della natura umana, proseguendo sulla via intrapresa da Habermas207,come se questo nascesse dalla percezione di una sorta di contraddizione in-terna alla stessa autonomia. In base all’indagine antropologica di Plessner– da cui Haucke muove nella sua valutazione del testo di Habermas – il cor-po non è una semplice proprietà, qualcosa che il soggetto abbia: il corpo èsì qualcosa che si ha, ma prima di tutto è qualcosa che si è208 (il soggetto è

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Bioetica e “Metafisica”. Il dibattito tra Habermas, Siep e Spaemann in merito a “Il Futuro della na-tura umana”, «Humanitas» 4/2004, pp. 744-752.201 L. SIEP, Moral und Gattungsethik, «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 1/2002, pp. 111-120, quip. 112. Una discussione interessante delle tesi di Habermas, con un particolare confronto con la lette-ratura nord-americana, si trova anche in L. HONNEFELDER, Bioethik und Menschenbild, «Jahrbuch fürWissenschaft und Ethik», 7/2002, pp. 33-53.202 SIEP, Moral und Gattungsethik, p. 112. 203 Ibidem. 204 Ibidem. 205 K. HAUCKE, Das Unverfügbare und die Unantastbarkeit der Würde. Habermas, die Bioethik undPlessners philosophische Anthropologie, «Philosophische Rundschau», 49/2002, pp. 165-177.206 HAUCKE, Das Unverfügbare und die Unantastbarkeit der Würde, p. 166.207 Proseguendola, perché come vedremo, secondo Haucke, l’errore di Habermas è proprio il non aver-la percorsa fino in fondo. 208 “Un momento della persona” è l’espressione di Haucke.

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– anche – il suo corpo). Ora, secondo Haucke, questa antropologia non ne-ga necessariamente l’autonomia come valore, che viene al contrario radi-cata nella corporeità come sua “condizione di esercizio”209. Valorizzando,in relazione al corpo, la distinzione tra gewachsen e gemacht, tra ciò che siè spontaneamente costituito e ciò che invece è stato intenzionalmente pro-dotto, Habermas vede una sorta di contraddizione che comparirebbe nel mo-mento in cui l’uomo può disporre della casualità della costituzione del suocorpo. Se, da un lato, ciò pare realizzare l’autonomia, dall’altro, la minac-cia radicalmente, perché la programmazione del corpo di un uomo impedi-sce a quest’ultimo di riconoscersi nel suo stesso corpo. Ora, poiché il cor-po non è un mero oggetto, ma l’espressione della soggettività, si introducea questo punto una frattura nella comprensione che il soggetto ha di sé, qua-si fosse una alienazione210. L’autonomia produce in altri termini un risulta-to contraddittorio, perché genera eteronomia211. Il modo con cui Haucke hapresentato l’intuizione di Habermas fa capire come il cambiamento sia pre-sente e rilevante. Secondo Rusconi, tale cambiamento anzi è così signifi-cativo da essere addirittura sconcertante e non solo perché Habermas per-de, con questo testo, la sua laicità («ciò che per le chiese è “sacro” divieneper il laico Habermas eticamente “indisponibile”»)212, ma per il fatto che«l’etica di Habermas vuole essere post-metafisica». Poiché, però, essa ri-mette «in gioco assunti “biologici naturali”», Habermas «crea una grandeincoerenza nel suo impianto costruito sulla teoria dell’agire comunicati-vo»213. «Nel suo libro Habermas mette allo sbaraglio il suo pensiero più diquanto non si renda conto»214.

La rilevanza data da Habermas al tema del corpo, dunque, non può es-sere intesa come una semplice implementazione dell’etica del discorso,ma indica un sostanziale mutamento. Veniamo allora alla seconda formu-lazione che Siep ha dato del problema. La strategia di Habermas alla lu-ce della nuova ottica «non può essere ridotta al sostegno della morale au-tonoma», perché «deve più coerentemente essere inquadrata in un’antro-

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209 Già questo spiega quanto sia lontana in questo testo l’impostazione di Habermas dal suo impiantoprecedente. 210 Ibi, p. 169.211 Certo ciò lascia aperto il più complesso problema dell’esistenza – o meno – di una contraddittorietàdell’autonomia nel momento in cui un soggetto potesse riporgrammare la sua – non scegliendo, dun-que, per un altro – costituzione corporea.212 G.E. RUSCONI, Intervento di G.E. Rusconi, in L. BOELLA(a cura di), Discussione, «Aut-Aut», 318/2003,pp. 52-64, qui p. 53. In ciò si vede come per alcuni autori la laicità non sia un metodo di ricerca, che as-sume l’epochè di husserliana memoria, quanto un insieme di contenuti.213 Ibi, pp. 52-53. Nostro il corsivo. 214 Ibi, p. 53. Nostro il corsivo.

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pologia valutativa e in una concezione normativa della natura»215: comescrive lo stesso Habermas, «una valutazione della morale in complessonon è un problema morale ma di etica del genere»216. Quando è la stessamorale ad essere messa a tema, con ciò si prende di mira quella che Ha-bermas ha chiamato “la razionalità di una forma di vita”. Se in Teoria del-la morale Habermas cominciava a intravedere la necessità di una fonda-zione della morale su una base etica, ora tale fondazione è tematizzataapertamente e la Gattungsethik viene messa a garanzia della morale inquanto tale. Con ciò, però, i rapporti fra etica e morale vengono invertiti,facendo della prima la condizione della seconda, anche se – ma si trattadi un punto di vista valido solo se la teoria discorsiva della morale riu-scisse davvero a essere formale – Habermas pretende che sia la morale adeterminare la natura (umana) e non la natura la morale217. Come giusta-mente ha osservato Siep, l’intuizione di Habermas «richiede [infatti] undiscorso sui valori umani della costituzione naturale dell’uomo all’inter-no di una certa concezione della natura», poiché «le domande circa l’i-dentità del genere sono domande valoriali attinenti a un’antropologia va-lutativa, che presuppone un’immagine valutativa del mondo»218. Ciò con-ferma ancora una volta l’impressione secondo cui la concezione haber-masiana del giusto dipenda surrettiziamente da una determinata com-prensione del bene. Ecco perché Siep sostiene che, nonostante il suo de-ficit fondativo, occorre guardare a Il futuro della natura umana come auno scritto in netta contro-tendenza rispetto al precedente pensiero ha-bermasiano e Rusconi rileva come la mossa di Habermas sia anche parti-colarmente «problematica» visto che «introduce come dato evidente l’e-sistenza di “fondamenti naturali della vita”, che sono nel contempo fon-damenti normativi»219, ovvero – con palese violazione della legge di Hu-me – fatti che divengono improvvisamente valori: un altro inequivocabi-le segnale del cambiamento segnato da questo testo.

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215 SIEP, Moral und Gattungsethik, p. 113. 216 Ibi, p. 114. 217 «L’argomento di Habermas» – osserva Brino – «si fonda su argomenti “morali” e giunge solo re-troattivamente a “pre-condizioni” naturali, fermandosi laddove tali pre-condizioni risultino soddisfat-te» (BRINO, Bioetica e “Metafisica”, p. 750). Troveremo un’impostazione simile anche nella moraleautonoma.218 SIEP, Moral und Gattungsethik, pp. 115-116. Questa critica di Siep è alla base del suo testo SIEP,Konkrete Ethik, Grundlagen der Natur- und Kulturethik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004 (per una di-scussione di questo interessante tentativo di fondazione post-metafisica dell’etica mi permetto di ri-mandare al mio articolo La casualità dell’origine dell’uomo e la rinascita del pensiero aristotelico, «Ri-vista di Filosofia Neo-Scolastica», 1/2005, pp. 105-130).219 RUSCONI, Intervento di G.E. Rusconi, p. 53.

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L’immagine de Il futuro della natura umana si consolida, dunque, nel-la forma di un pensiero di rottura con ciò che lo precede? Sebbene questatesi abbia molti elementi a suo favore, a noi pare in realtà non del tutto giu-stificata, se si vanno a vedere i presupposti della soluzione di Habermas.

(1) Il primo di essi riguarda l’antropologia. Se è vero, infatti, che Ha-bermas introduce il tema della corporeità connettendolo alla questione delpoter-essere-se-stessi, tale riassunzione dell’identità fra corpo e soggettoviene lasciata a metà e, in un passo particolarmente centrale del testo, sem-bra addirittura ridimensionata. Osserva giustamente Haucke: «per Haber-mas l’organismo e il corpo (Leib) sono rilevanti sul piano normativo, per-ché in esso è incorporata la persona. Questo riferimento alla contestualiz-zazione naturale dell’essere-persona non viene però sviluppato fino a so-stenere che anche il corpo (Leib) è un momento della persona. Si eviden-zia qui l’eredità del dualismo kantiano, la radicale separazione fra natura epersona»220 che ridimensiona la novità del discorso habermasiano. Questaosservazione può essere precisamente verificata se si esamina il punto divista del nostro autore a proposito del concetto di dignità umana: questa«non è una qualità che si possiede per natura, come l’intelligenza o il co-lore degli occhi»221. Poiché essa non è un dato ontologico che l’uomo pos-sa derivare dal suo stesso essere, è al contrario qualcosa che si acquisiscenel momento in cui, tramite un atto socializzante, egli cessa di essere unsemplice organismo e diviene persona. «L’uomo» – scrive Habermas – «na-sce come essere “non finito” in senso biologico e resta per tutto il tempodella sua vita dipendente dall’aiuto, dalle cure e dal riconoscimento del suoambiente sociale. […] L’individuazione biografica si compie tramite so-cializzazione. Ciò che – a partire dalla nascita trasforma l’organismo in unavera e propria persona è l’atto, socialmente individualizzante, della sua ac-cettazione nel pubblico nesso interattivo di un mondo di vita intersogget-tivamente condiviso. […] Solo nella sfera pubblica di una comunità lin-guistica, l’essere di natura si costituisce come individuo e come personadotato di ragione»222. Questo sguardo antropologico radicalmente dualisti-co chiarisce anche quale sia la funzione della morale: «la regolazione nor-mativa dei rapporti umani può essere vista come un poroso involucro pro-tettivo nei confronti delle contingenze cui sono esposti sia il corpo vulne-rabile sia la persona in esso incarnata. Gli ordinamenti morali sono fragilicostruzioni che proteggono simultaneamente entrambe le cose: il fisico dal-

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220 HAUCKE, Das Unverfügbare und die Unantastbarkeit der Würde, p. 169.221 HABERMAS, Il futuro della natura umana, p. 35.222 Ibi, p. 37.

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le offese esterne e la persona dalle offese interne o simboliche»223. Osser-va allora Haucke che l’affermazione di Habermas immediatamente se-guente, secondo cui «“la soggettività” […] “sarebbe ciò attraverso cui ilcorpo umano diventa un recipiente animato dello spirito”224, è il modo conil quale Habermas si affatica per indebolire il dualismo»225 che egli stesso,seguendo Kant, ha costituito. La stessa strategia – superflua in una conce-zione unitaria dell’uomo e presentata da Haucke come «una prosecuzionedel dualismo kantiano con altri mezzi»226 – «di distinguere tra la dignitàdella vita umana e quella dignità dell’uomo che viene giuridicamente ga-rantita ad ogni persona»227 reca in sé lo stampo di questa problematica an-tropologia228. Se è vero che Habermas introduce con il riferimento al cor-po una novità nel suo sistema, va anche detto che egli si sforza di conci-liare l’intuizione unitaria di questo testo con il dualismo antropologico e ilconcetto di autonomia mutuato da Kant.

Con ciò il senso complessivo della novità risulta drasticamente ridi-mensionato, anche se si può trovare la condizione perché essa venga nonsolo riaffermata, ma addirittura amplificata. Quando Habermas scrive che«l’uomo nasce come essere “non finito” in senso biologico e resta per tut-to il tempo della sua vita dipendente dall’aiuto, dalle cure e dal riconosci-mento del suo ambiente sociale» implicitamente riprende il filo dell’an-tropologia che aveva cominciato a delineare ai tempi di Conoscenza e in-teresse: in esso una prospettiva materialistica delineava un’antropologiaunitaria, dotata della forza normativa di quella teoria morale parallela ap-pena abbozzata nel seno stesso della teoria dell’agire comunicativo. Il les-sico di questo libro lo ricorda in modo letterale, basta porre attenzione, co-me ha notato Paolo Costa, al fatto che con il termine «natura umana Ha-bermas non intende qui nulla più che la natura interna degli uomini. Egli

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223 Ibi, p. 36. In realtà quest’ultima affermazione semplifica il grave problema che questo testo intenderisolvere, l’incapacità di parlare del corpo: altrimenti non si capirebbe la novità di questo libro. 224 Ibidem.225 HAUCKE, Das Unverfügbare und die Unantastbarkeit der Würde, p. 173.226 Ibi, p. 174227 HABERMAS, Il futuro della natura umana, p. 38. 228 Attraverso questa labile distinzione (perché, a ben vedere, i due termini non possono essere scissi:non è possibile tutelare la dignità della persona umana, senza tutelare la dignità della vita umana) Ha-bermas cerca di ovviare al problema – molto grave nella sua prospettiva in cui l’embrione non può es-sere indicato come persona – di tutelare necessariamente a livello embrionale la casualità dell’originedell’uomo. L’insostenibilità di questa soluzione emerge non appena si guardi come viene concluso ilpasso in questione. Scrive Habermas che la distinzione fra i due tipi di dignità «si riflette del resto nel-la fenomenologia dei rapporti sentimentali che intratteniamo con i defunti» (ibi, p. 38): qui la situazio-ne della vita nascente viene accomunata a quella dell’assenza di vita.

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non presuppone, infatti, un’accezione normativamente teleologica o co-munque metafisicamente controversa di natura umana e si limita ad enfa-tizzare»229 alcune sue caratteristiche generali, che ricordano da vicino i pre-supposti relativi al lavoro e all’agire comunicativo. Il riferimento a Marxrende ragione dell’intuizione di questo testo, che individua nella casualitànaturale dell’origine del corpo dell’uomo il substrato naturale che permettela libertà del poter essere se stesso. E questo sembra essere il senso gene-rale del libro. Come scrive ancora Costa, Habermas ha, infatti, trovato inquesto testo «un modo astuto ed elegante» per reintrodurre «nel proprio si-stema quelle tematiche tipiche dell’antropologia filosofica che egli avevaespunto in quanto “metafisiche” a un certo punto della propria carriera in-tellettuale (in particolare dopo Conoscenza e interesse)»230. Non resta orache esaminare la seconda ragione a favore di una forte continuità de Il fu-turo della natura umana con l’essenza del pensiero di Habermas: dobbia-mo con ciò esaminare il secondo presupposto per collocare la morale inun’etica di genere.

(2) La ragione di fondo della scelta di invertire (di fatto) i rapporti fraetica e morale è data da una sottolineatura presente in tutto il testo, anchese ben nascosta. Il punto dolente del progetto di eliminare la casualità del-l’origine non sta, infatti, nella reificazione dell’embrione, né nella contrad-dizione insita nel progetto di affermazione dell’autonomia. Il problema sipone come la conseguenza «di un modello inedito di relazione tra le per-sone caratterizzato da una peculiare asimmetria»231. Il presupposto dell’u-niversale scambio di ruoli richiesto dal principio U viene così riformulatoa partire dalla prospettiva, esplicitata in Teoria della morale, della neces-sità di una simmetria dei rapporti. Se la dignità personale è qualcosa che siacquisisce in forza di un atto socializzante, tale atto deve avere, secondoHabermas, una precisa condizione, incentrata sulla simmetricità della rela-zione. «Io vorrei dimostrare come la dignità umana, intesa in senso stretta-mente morale e giuridico, rimandi alla simmetria delle relazioni»232. Cosìegli chiarisce il nodo di una proposta che sembra riproporre il punto di vi-sta della cosiddetta regola aurea: «al programmato è pregiudizialmente im-pedito di scambiarsi di ruolo col suo programmatore. Il prodotto – diciamocosì – non può a sua volta progettare un design per il designer. Qui la pro-grammazione non ci interessa più dal punto di vista per cui essa limitava il

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229 P. COSTA, Che cosa significa “moralizzare la natura umana”?, «Humanitas» 4/2004, pp. 737-744,qui p. 750. 230 COSTA, Che cosa significa “moralizzare la natura umana”?, p. 751. 231 HABERMAS, Il futuro della natura umana, p. 44. 232 Ibi, p. 35.

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poter-essere-se-stessi e la libertà etica di un altro233, quanto piuttosto in ri-ferimento alla questione se, ed eventualmente come, essa comprometta unarelazione simmetrica tra il programmatore e il prodotto in tal modo “dise-gnato”. La programmazione genetica consolida una dipendenza tra perso-ne le quali sanno di non potersi, in linea di principio, scambiare le posizio-ni sociali. Ma questo tipo di dipendenza sociale – irreversibile […] – vie-ne a formare un corpo estraneo nei reciproci e simmetrici rapporti di rico-noscimento caratterizzanti una comunità morale e giuridica di persone li-bere ed eguali»234. La ragione della collocazione della morale nella Gat-tungsethik – così innovativa rispetto alla generale strategia habermasiana –si motiva allora per preservare il nucleo stesso della Diskursethik: la sim-metria dei rapporti. Il cambiamento è in altri termini un cambiamento fat-to per riproporre il contenuto, finalmente giunto allo scoperto, che sta die-tro alla teoria della giustizia di Habermas. Come ora cercheremo di mo-strare, alla base di questa teoria e della rivendicazione di simmetria – la ra-dice è la stessa – c’è un’influenza marxiana235.

L’accusa di non seguire, dunque, un vero metodo procedurale – scriveHonneth in un originale saggio di qualche anno fa236 – «è un tema già esa-minato [scil.: dai critici di Habermas], ma non in modo corretto perché es-si, invece di limitarsi alle questioni di giustizia, partono già da immagini divita buona»237, mentre alla base della concezione della giustizia di Haber-mas non c’è «una forma di vita, ma un principio di giustizia sociale che met-te in questione la rigorosa distinzione fra punto di vista formale e contenu-tistico»238. L’idea di Honneth, secondo cui la teoria di Habermas non di-penderebbe da una teoria del bene, non tiene conto, perché gli è preceden-te di circa quindici anni, dello sviluppo che il pensiero di Habermas ha avu-to nel saggio che stiamo considerando in riferimento alla necessaria collo-cazione della morale nella Gattungsethik, la quale altro non è se non unarazionalizzazione di una forma di vita (secondo quanto già anticipato in Teo-ria della morale) e, dunque, un’indagine sul bene. Nondimeno, il suo pun-to di vista è estremamente interessante e attuale, perché qualifica il conte-nuto che sta alla base della riflessione morale habermasiana. «Si tratta» –

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233 Il che significa che anche qui il problema etico continua ad essere irrilevante.234 Ibi, p. 66. 235 A. HONNETH, Diskursethik und implizites Gerechtigkeitskonzept. Eine Diskussionsbemerkung, in E.ANGEHRM - G. LOHMANN (a cura di), Ethik und Marx. Moralkritik und normativen Grundlagen dermarxschen Theorie, Hain Verlag bei Athenäum, Königstein 1986, pp. 268-274. 236 HONNETH, Diskursethik und implizites Gerechtigkeitskonzept, p. 268.237 Ibidem. 238 Ibidem.

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scrive il commentatore tedesco – «di una concezione della giustizia che èassunta nell’etica del discorso come un’idea regolativa, che va ben oltre lateoria della semplice giustizia distributiva»239. Secondo Honneth, essa traespunto dall’egualitarismo marxista. «Si accetta una norma non solo se es-sa può rivendicare validità da tutti i partecipanti al discorso, ma in base alpresupposto che ogni discorso debba avere luogo alle condizioni di una par-tecipazione libera e paritaria in termini di chances per tutti i partecipan-ti»240. Deve esserci cioè – e si tratta di una «curiosa inconseguenza»241 nel-l’impianto – una sorta di «libertà egualitaria nella presa di posizione mora-le»242: le possibilità di azioni devono essere identiche e i rapporti simme-trici. Che qui si tratti di una traduzione nel linguaggio morale habermasia-no dell’egualitarismo marxista – e non quindi un semplice e generico rife-rimento alla regola aurea – si rende evidente per il fatto che la concezionedi Habermas presuppone, osserva ancora Honneth, «una prassi politica cheattraverso cautele democratiche cerchi di realizzare in modo storico ed em-pirico le condizioni di libertà per il discorso pratico»243: si tratta in fondodella «critica sociale alla società di classe»244 sviluppata come teoria del di-scorso morale.

Questa analisi è davvero importante. Non solo essa mostra come allabase della morale ci sia una concezione del bene, proprio per l’idea di unacritica alla società classista245, ma essa evidenzia anche come nel pensie-ro di Habermas sia rimasta operante, sullo sfondo, una concezione eguali-taria radicalmente irrealistica. Essa prevede, infatti, come legittima soloquell’azione che un soggetto compie in direzione di un altro soggetto, conla premessa che l’altro possa a sua volta compierla nello stesso modo e nel-le identiche circostanze. Il carattere irrealistico di questa concezione è evi-dente, perché esistono differenze non solo fra gli uomini (di cultura, tem-peramento, doti e talenti), ma anche nelle posizioni sociali, per quanto cisi trovi in una società senza classi: un medico sarà sempre un medico e unpaziente un paziente (quand’anche ad essere paziente fosse lo stesso me-dico), e la loro reciproca relazione non sarà moralmente giusta o ingiustain forza del suo carattere a-simmetrico, senza il quale tale relazione anzi

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239 Ibidem. 240 Ibi, p. 270. 241 Ibidem. 242 Ibi, p. 273. 243 Ibidem. 244 Ibidem. 245 Diversamente da quanto pensa Honneth, poiché tale critica non è altro che un tentativo di raziona-lizzare una forma di vita.

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non ci sarebbe affatto246. A differenza di quanto pensa Habermas, la di-scordanza di posizioni deve essere intesa (o, perlomeno, è possibile che losia) come una risorsa: un soggetto può trarre beneficio da ciò che un altropuò fare proprio per il posto che egli occupa. Solo presupponendo, comefa esplicitamente Habermas in Teoria della morale, che l’agire in vista del-la soddisfazione sia per ciò stesso strumentale, ovvero lesivo della dignitàdell’altro, si può pensare che la condizione della moralità sia la simmetriae, dunque, l’egualitarismo che teorizza l’abolizione della “differenza di po-sizioni sociali”.

La coraggiosa novità de Il futuro della natura umana ripropone così ilcuore teorico della concezione discorsiva della morale di Habermas e, inciò, il mutamento che egli introduce viene riassorbito, anche se le sue os-servazioni critiche in relazione al progetto di eliminare la casualità dell’o-rigine rimangono come tali valide e perspicue247. La presenza di Marx inquesto scritto, per quanto non esplicitamente dichiarata, è in realtà decisi-va. Essa, da un lato, rinverdisce quella possibilità parallela di teoria mora-le che abbiamo individuato nella trattazione habermasiana del materialismostorico e, dall’altro, giustifica la tesi, introdotta per la prima volta in Teoriadella morale, secondo cui l’agire orientato al successo è agire strumentale:dunque, agire non-morale.

3. Il significato antropologico del diritto e la critica al concetto diautonomia

Esaminata la teoria morale di Habermas nel suo divenire, siamo ora ingrado di analizzare, compiendo un piccolo passo a ritroso, la concezionehabermasiana del diritto da lui esposta nelle Tanner Lectures248 e nella

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246 Senza entrare qui nella disquisizione sui modelli teorici con cui pensare la relazione medico-pa-ziente (paternalistico, contrattualistico, ecc.), osserviamo che l’errore comune sta proprio nel far va-lere immediatamente come un’equazione l’idea secondo cui, essendo un tale rapporto a-simmetrico,esso sia per ciò stesso anche conflittuale. Inoltre opera qui il presupposto in discussione in questo la-voro secondo cui la dipendenza – che è frutto inevitabile di posizioni diverse (non solo in senso so-ciale) – è qualcosa che in quanto tale lede necessariamente l’autonomia (un pensiero che, a ben vede-re, Habermas stesso contraddice quando fa dipendere l’accesso alla qualifica di persona da un atto so-cializzante).247 Diremo una parola in più su questo punto nell’ultimo paragrafo del capitolo.248 HABERMAS, Recht und Moral. Tanner Lectures on Human Values, a cura di K. Baynes, University ofUtah Press, Salt Lake City 1988, vol. III, pp. 217-279 (trad. it. di L. Ceppa, Morale Diritto e Politica,Einaudi, Torino 1992). D’ora in poi ci riferiremo all’edizione italiana di questo testo con il titolo di Tan-ner Lectures.

Musio - Autonomia come 13-07-2006 12:50 Pagina 169