L’altra faccia della Resistenza di Giuliano Fiorani (Bagattelle partigiane) Marzo 2004; il numero 36 di “Storia del ‘900”, pubblica “L’aviolancio rubato”;ora, a margine di quest’articolo riguardante un lancio alleato dell’agosto 1944 e destinato alle Fiamme Verdi di Valle Camonica ma, finito in mani Garibaldine… seguono, come dimostrato, polemiche a non finire, e minacce varie che vanno ad inasprire il già esistente contrasto fra gruppi partigiani di differente ideologia. A Brescia, il 16 agosto 1944, si riunisce il C.L.N. e dopo avere esaminato la situazione generale si deplorano i contrasti esistenti fra i gruppi operanti in montagna; poi, a settembre c’è il tentativo da parte del gruppo monarchico, con a capo Ravenna (Stella), Coppini (Leone) e Baroni (Corer), a volersi sostituire a Brasi (Montagna) al comando della 53ª Garibaldi e spostare la formazione partigiana d’orientamento comunista, sotto l’influenza delle Fiamme Verdi in prevalenza cattoliche. Ogni mezzo è buono per contrastare il passo ai comunisti e alla loro idea. Dopo il tentativo fallito, i monarchici sono disarmati e fatti allontanare dalla formazione Garibaldina. In ambienti partigiani garibaldini, l’accusa che si faceva alle Fiamme Verdi era d’aver costituito “un commando di preti”. Il riferimento era fatto a don Comensoli e alla canonica di
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L’altra faccia della Resistenza di Giuliano Fiorani · professor Budelli), il vice-comandante Ezio Ravenna, il tenente Coppini, ... Dalla lunga discussione, a me è stato pure tolto
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L’altra faccia della
Resistenza di Giuliano
Fiorani (Bagattelle partigiane)
Marzo 2004; il numero 36 di “Storia del ‘900”,
pubblica “L’aviolancio rubato”;ora, a margine di
quest’articolo riguardante un lancio alleato dell’agosto 1944 e
destinato alle Fiamme Verdi di Valle Camonica ma, finito in
mani Garibaldine… seguono, come dimostrato, polemiche a
non finire, e minacce varie che vanno ad inasprire il già
esistente contrasto fra gruppi partigiani di differente
ideologia.
A Brescia, il 16 agosto 1944, si riunisce il C.L.N. e dopo avere
esaminato la situazione generale si deplorano i contrasti
esistenti fra i gruppi operanti in montagna; poi, a settembre
c’è il tentativo da parte del gruppo monarchico, con a capo
Ravenna (Stella), Coppini (Leone) e Baroni (Corer), a volersi
sostituire a Brasi (Montagna) al comando della 53ª Garibaldi e
spostare la formazione partigiana d’orientamento comunista,
sotto l’influenza delle Fiamme Verdi in prevalenza cattoliche.
Ogni mezzo è buono per contrastare il passo ai comunisti e
alla loro idea. Dopo il tentativo fallito, i monarchici sono
disarmati e fatti allontanare dalla formazione Garibaldina. In
ambienti partigiani garibaldini, l’accusa che si faceva alle
Fiamme Verdi era d’aver costituito “un commando di preti”. Il
riferimento era fatto a don Comensoli e alla canonica di
Cividate (Valle Camonica, territorio bresciano) dove, ai
distaccamenti dipendenti delle Fiamme Verdi, era stato
diramato l’ordine che “bastava il cappello alpino per conoscersi
e non occorrono stelle di panno rosso”.
Nel 1969, Giovanni Brasi (Montagna), intervistato da Natale
Verdina, così ricorda l’ammutinamento dei monarchici:
“Le cause di quello che mi piace chiamare l’ammutinamento dei
monarchici sono da rintracciare nell’orientamento comunista
della Brigata. Gli uomini che lo avevano promosso erano
notevolmente antisocialisti e anticomunisti. Non credo avessero
un mandante, ma so che furono sollecitati da fuori ed anche da
alcuni elementi delle Fiamme Verdi. I contadini erano anch’essi
anticomunisti, ma avevano stima di noi e ci aiutavano in tutti i
modi. Il colpo fu tentato dai monarchici. Volevano uccidermi.
Lo seppi quasi per combinazione. M’informò una nostra
infermiera la quale una sera mi fermò di nascosto e mi
annunciò che aveva udito parlare tra loro, nella stanza vicino
all’infermeria (allora eravamo dislocati presso la Colonia del
professor Budelli), il vice-comandante Ezio Ravenna, il tenente
Coppini, il sottotenente Baroni ed altri.
Preparavano un piano secondo il quale durante la notte si
sarebbero impadroniti della formazione, eliminando Montagna,
Paglia, Faccardi, Galimberti e altri comunisti. Decisi di riunire
tutti gli uomini e tenni subito informato Paglia e gli altri;
destituii, segretamente, il comando e ne nominai uno nuovo,
provvisorio; sostituii le sentinelle e ordinai di sparare su chi si
fosse allontanato dal campo senza salvacondotto. Agli uomini
affermai che ero informato del piano e che già da più di un mese
avevo avvertito nella formazione il malcontento di alcuni,
alimentato dalla questione dai milanesi. Dichiarai, inoltre, che
certe richieste troppo frequenti di recarsi in famiglia e quella
certa insubordinazione che si aggirava in qualche gruppo mi era
già parsa sospetta. I monarchici avevano raccolto attorno a sé
ben quarantasette uomini su centocinquanta; tra questi c’erano
ventisette cecoslovacchi che erano stati istigati dalle promesse
delle Fiamme Verdi le quali avevano prospettato loro una vita in
formazione ben più confortevole di quanto noi non potessimo
dare. Spiegai loro che i confort c’erano per gli ufficiali che di
notte scendevano a dormire negli alberghi, ma lo stesso non
valeva per la truppa.
I monarchici avevano mandato un rapporto in 21 punti al
Generale Fiori (Masini), Comandante delle Fiamme Verdi,
dove chiedevano lo scioglimento della 53ª e la fucilazione del
comandante perché comunista. Vi si diceva anche che noi
abbandonavamo i feriti. Riuscii a controllare la situazione con
l’aiuto dei compagni. Disarmati, allontanai dalle formazioni i
ribelli dei quali solo alcuni russi e pochi altri chiesero d’essere
reintegrati nei ranghi della Brigata. Nei giorni successivi,
quando si presentò il Generale Masini per dirimere la
questione, iniziò un vero e proprio processo. Smantellai, punto
per punto, le loro accuse e Wolf dichiarò, di fronte a tutti,
d’aver avuto da Ravenna l’ordine di uccidere il Comandante.
Fiori ascoltò, si complimentò per l’efficienza e per
l’organizzazione della Brigata e concluse che avrei anche
potuto chiedere la pena di morte per il gruppo. Mi limitai a
chiedere che nessuno dei suoi membri potesse, in futuro,
entrare a far parte delle formazioni partigiane, d’ogni
formazione partigiana.”
Una ventina di monarchici rientrò nelle Fiamme Verdi; il
tenente Leone e il sottotenente Corer rilasciano al comando
della divisione Tito Speri, una relazione dettagliata sulla 53ª
Garibaldi (capitanata da Brasi), ma piuttosto risentita sia a
causa del loro allontanamento sia del loro anticomunismo. La
relazione, sulla “13 Martiri” del Brasi destinata al Comando
Generale Volontari della Libertà, è depositata presso
l’archivio Luigi Micheletti, di Brescia. È ripresa dal Verdina,
nel 1975, in “La resistenza nel Loverese” e, credo, sia
interessante dare una ripassata a questa relazione, per il
contenuto riguardante i rapporti tra le formazioni partigiane
autonome e quella ad orientamento politico. Utile anche un
breve accenno a dei fatti che meritano d’essere approfonditi e
conosciuti nei particolari.
**********
RELAZIONE SULLA BRIGATA 13
MARTIRI
AL COMANDO GENERALE
VOLONTARI DELLA LIBERTÀ
Sabato 16 settembre 1944
Il primo contatto col Comandante Montagna lo ho avuto verso
la metà dello scorso dicembre, nella zona di Sovere, pochi
giorni dopo il rastrellamento di “Fontana” Fredda” (Supine)
che aveva causato lo sfasciamento del “Gruppo Locardi”. Mi
era parso che combattesse unicamente per la liberazione
dell’Italia ancora in mano al nemico.
Dopo quest’appuntamento ne seguirono altri fino a che, nel
giugno scorso, unitomi con altri due miei colleghi “disertori”,
raggiungo la formazione, accolto da Montagna, con queste
testuali parole: “Ora che ho questi Ufficiali sono sicuro che la
Brigata “13 Martiri” otterrà immediatamente il
riconoscimento da parte del Comitato di Liberazione
Nazionale”. Alcuni giorni dopo, infatti, giunge un Ispettore, da
Milano, a noi presentato come un inviato dal C.L.N. per le
ultime pratiche del riconoscimento. In realtà, poi, sappiamo
che è inviato dal Comitato Comunista che non ha nulla a che
fare col C.L.N.
La formazione, allora, conta di una cinquantina d’uomini, con
cinque mitra e una ventina di moschetti. Spostatici nella zona
di Villa Facchinetti, la notte tra il 3 e 4 agosto, verso le ore
23,15, sentiamo il rumore di un quadrimotore sopra di noi.
Per una buona mezz’ora lo lasciamo girare. Il giro che compie
è pressappoco il dintorno di Torrezzo, Monte Guglielmo,
Presolana, Monte Coca. A mezzanotte, circa, dopo un
passaggio sulla “Villa”, Montagna decide d’accendere i fuochi,
neanche minimamente sperando in tutto quel ben di Dio che
poi piovve su di noi. Sono accesi dei fuochi in linea retta, l’uno
attaccato l’altro. Dopo altri giri sopra di noi, l’apparecchio
sgancia. Scendono ventuno paracaduti con 16-17 bidoni; i
rimanenti sacchi.
Il lancio contiene:
Due mitragliatori “Breda” con varie migliaia di colpi;
Cinquantadue parabellum inglesi. Ciascuno ha, circa,
duemila colpi;
Dieci pistole Smith & Wesson americane, ciascuna dotate
di una cinquantina di colpi;
Materiale vario (bombe incendiarie, dinamite, medicinali,
viveri, vestiari, ecc.)
Da un primo inventario ci convinciamo che il lancio è
completo (manca solamente la nota del materiale lanciato);
come conseguenza logicissima le armi richiamano uomini. In
pochi giorni superiamo il centinaio. Giungono, in seguito, una
ventina di cecoslovacchi quasi armati. Volevano salire dalle
Fiamme Verdi.
Montagna li trattiene con varie promesse.
Si sente, però, che molte cose non vanno. Ogni poco, necessita
una riunione per calmare gli uomini. In ognuna di queste,
Montagna promette che fisserà una linea di condotta, una
specie di “statuto” della formazione che si metterà a contatto
con altri gruppi, particolarmente con le Fiamme Verdi e varie
cose necessarie. Ore di discussione e promesse; dopotutto resta
come prima. Si tira, così, avanti. Intanto, lavora la
propaganda comunista e qualche risultato riesce ad ottenere.
Finalmente, il Comandante ci promette che ci porta verso la
Valcamonica per unirsi alle Fiamme Verdi.
Avviene il combattimento di Fonteno nel quale abbiamo poca
fortuna. Montagna non la sa per nulla sfruttare, anzi… causa
ancora maggiori disastri, in quella zona.
Ai primi di questo mese ci si porta nella zona di Bossico per
continuare verso la Val di Scalve (meta Concarena); qui,
giunge il tenente Renato, del gruppo C.2, con una lettera del
comando Fiamme Verdi nella quale si fa ben capire a
Montagna che non è così che si agisce e di dare una risposta
definitiva. Montagna riesce a temporeggiare per altri due-tre
giorni, promettendo che si sarebbe continuato il nostro
cammino verso la Valcamonica. Sabato 9, invece, ci si sposta
nella zona di Sovere. Montagna dice, a noi ufficiali, che ha
dovuto fare così perché in Val di Scalve c’era il
rastrellamento. Lui si ferma a Bossico e la formazione giunge
in Possimo, sopra Sovere, dove comincia lo sfasciamento.
Subito accorre Montagna e tenta, con varie promesse, di
dominare la situazione. In un primo tempo ci annuncia che
siamo riconosciuti, ma non può documentarci. Dopo le nostre
insistenze egli ci annuncia che, in seguito al combattimento di
Fonteno, crede di essere riconosciuto; poi si sa che non ha mai
fatto un passo per ottenere ciò, anzi, si crede d’intuire
chiaramente com’è la nostra posizione. Noi avremmo dovuto
essere una formazione comunista che, nel dopo guerra,
imporrà quest’idea, magari anche con le armi. Ben pochi
decidono di restare. Gli avvenimenti precipitano. Montagna
riesce, con l’ausilio di un ufficiale comunista e di pochi
fedelissimi a dominare la situazione ed a disarmarci
(soprattutto perché noi non si vuole spargere altro buon
sangue italiano). Io e un altro mio collega, seguiti da cinquanta
uomini, ci allontaniamo dalla formazione per raggiungere il
gruppo del tenente Orlando; prima della partenza, tranne noi
due ufficiali, tutti gli uomini sono disarmati, perquisiti come
dei delinquenti, arrovistati gli zaini, levate tutte le armi
comprese quelle personali, levati capi di vestiario del lancio,
levate le scarpe della formazione. Trattamento che non si fa
neppure a dei banditi.
Dalla lunga discussione, a me è stato pure tolto il parabellum
del lancio e al mio collega gli si lascia il mitra perché
personale. Alla mia obiezione che tutti i disarmati vengono con
me alle Fiamme Verdi e che essendo le armi del lancio fregate
a quest’ultima non lo poteva togliere, Montagna risponde
parlando della disorganizzazione delle Fiamme Verdi, delle
azioni banditesche compiute da queste (citando il “Gruppo
Federici”, di Endine, l’uccisione della Crotti di Corti, il
comportamento del Macario, ecc.).
Noi sappiamo, invece, che questo è tutto lavoro da lui
compiuto per tirar l’acqua al suo mulino.
Tenta di disarmare i ceki, ma vede che sono poco ben disposti
e, coraggiosamente, decide di lasciargliele.
La sera di mercoledì 13 corrente mese, parto coi miei uomini
dalla Colonia Budelli (sopra Gandino) e il mattino dopo
raggiungo il gruppo del tenente Orlando, mettendomi a sua
disposizione. Altri uomini m’avrebbero seguito, ma non
potettero partire scalzi e quasi totalmente svestiti. Tra l’altro
in più di tre mesi di permanenza nella formazione mi sono
state date lire cinquanta, il 25 luglio, come anticipo sul deca.
Molti uomini non hanno nemmeno percepito quelle. A chi
obietta d’avere speso soldi per mangiare a sufficienza,
risponde che tutto è stato un errore perché il comando passa
vitto a sufficienza (sic!). Un simile trattamento non credevamo
di meritarcelo, dopo mesi di montagna, varie azioni compiute,
sangue nostro sparso nei combattimenti, dopo che s’erano
procurate armi automatiche per la formazione. L’aver agito
da despota è la migliore affermazione che non si era per niente
riconosciuti. Chiediamo che si proceda al disarmo della
formazione Montagna o che sia trattata come si merita.
F.to Tenente Leone F.to Tenente Corer
Desidero richiamare l’attenzione della frase: “Montagna
risponde parlando della disorganizzazione delle Fiamme verdi,
delle azioni banditesche compiute da queste (citando il
“Gruppo Federici…)”. Perché a questo, i più si chiederanno:
“Chi è Federici? La Crotti? Macario, che cosa fece?
Diamo una risposta agli interrogativi. Federici è il capo
partigiano “Rico”, comandante del gruppo “Francesco Nullo”
di Giustizia e Libertà che, la notte del 12 agosto 1944, sul
monte Sparavera, in Valle Cavallina (Bg), ha l’incarico di
ricevere la missione Cadorna. Durante il lancio è in corso un
rastrellamento da parte di militi della G.N.R., battaglione O.P.
del “Macerata”, al comando del tenente Massimo Guzzini, e
con sparatoria da ambo le parti.
Nelle sue memorie, il generale Raffaele Cadorna scrive: “Il
comandante partigiano prese su di sé l’incarico di ritirare i
container e di portarli al nostro futuro alloggiamento; per il
momento consigliava d’abbandonare la località e di trasferirci
in una casa sita a qualche distanza da lì, in località che offriva
maggiore sicurezza…” Il giorno dopo, prosegue il generale,
una brutta sorpresa lo attende perché: “… a detta dei
conducenti che avevano trasportato sui muli il nostro
bagaglio… avevano trovato alleggerite le valigie… nonché
scomparso il piccolo container con il milione…”
Ad inchiesta conclusa dal generale Masini, il capo partigiano
Costante Federici (Rico) è destituito e allontanato dalla
formazione partigiana. Il danaro non sarà più recuperato.
Crotti di Corti (si continua a sbagliare il cognome; la signora
si chiamava Faustina Cretti): chi era e com’è uccisa. Il futuro
animatore (con Romolo Ragnoli) delle Fiamme Verdi di Valle
Camonica, decorato con medaglia di bronzo, don Carlo
Comensoli (1894-1976), dall’anno 1928 al 1937 svolge la sua
attività pastorale a Costa Vopino (terra bergamasca); la
sorella Franceschina (1890-1960) lo segue come perpetua.
Durante il della sua permanenza pastorale, il fratello più
giovane, Antonio, (1899-1978), conosce e sposa Maria Cretti
(1907-1995), sorella di Faustina (1908-1944) sposata con
Giacomo Bretoni (Tato), macellaio nella frazione di Corti.
Imparentandosi, in questo modo, con la famiglia Comensoli.
Dal 21 al 28 luglio 1944, la casa e la macelleria di Bretoni, più
volte sono soggette a saccheggio da parte di partigiani, i
fratelli M…; una prima volta, il macellaio si salva in casa della
madre, rimanendovi nascosto in una cassapanca per un’intera
notte. Alla seconda incursione partigiana, Bretoni è ferito; la
moglie Faustina Cretti uccisa! La sorella Maria, sposata al
Comensoli, lo stesso anno dà alla luce il terzo figlio che sarà
chiamato Faustino, a memoria della sorella uccisa durante la
rapina per mano partigiana.
Macario (persona ben conosciuta dal Brasi), dopo l’otto
settembre 1943 era stato tra i primi, con Faccardi (entrambi
reduci dalla Russia), a seguire Brasi (1901-1974) in montagna.
Seguirà l’uccisione di Paolo Rosa, podestà di Lovere
(assassinio accaduto il 29 novembre 1943) e di Giuseppe
Cortesi, Commissario Prefettizio. Indimenticabile il sequestro
di Valentino Fabbri, Segretario politico in Costa Volpino, per
opera del Faccardi.
Da notare che Paolo Rosa, notaio, per sua rettitudine, dopo il
25 luglio 1943, dai rappresentanti antifascisti di Lovere, era
stato messo a capo del “Comitato di Pacificazione” e in quel
comitato vi faceva parte anche Brasi; per questo i partigiani si
fecero degli scrupoli e, dopo pochi mesi, l’uccisero. Da lì…
l’origine della guerra civile nel Loverese.
Valentino Fabbri sarà liberato dai tedeschi, il 7 dicembre.
Talmente così provato da una brutta esperienza che si rifugerà
a Milano, da parenti, si farà sei mesi di galera a guerra finita.
Durante quel sequestro, egli era stato tenuto nudo e legato in
una stalla di montagna dove Macario lo bastonava
ripetutamente, rinfacciandogli le castagne che aveva dovuto
mangiare per sfamarsi al suo ritorno dalla Russia.
Luigi Macario (1919-1945) sarà allontanato dalla 53ª
Garibaldi perché troppo violento e poco ubbidiente. Passerà in
Valle Camonica con la Brigata “Lorenzetti”. A novembre
1944, per motivi di carattere politico, passa alla 54ª Garibaldi,
in Val Saviore; infine, con la 54ª Bis, in Val Negra, sopra
Pisogne, Gianico, Artogne, Pian Camuno e Vissone: tutte zone
costantemente soggette a ruberie, violenze e soprusi da questi
partigiani.
Un parroco, don Antonio Pennacchio, scriverà nel suo diario:
“Oggi 24 febbraio 1945… Entrano in comune due ribelli
armati e dopo avere rovistato tutto, impongono a De Martino
di seguirli. Lo conducono a Vissone ed, infine, in Val Negra.
Qui lo uccidono e lo seppelliscono sul posto. Il giorno dopo, il
parroco ad un colloquio con Luigi Macario… e si è conosciuta
la fine di De Martino”. Ancora dal diario di don Pennacchio:
“Oggi 25 aprile 1945… I garibaldini si sono stanziati in una
casa di un ex fascista; qui rimangono fino al 13 giugno
quando, dopo aver rapinato e compiuto ogni sorta di soprusi,
abbandonano il paese.”
Macario sarà ucciso il 25 aprile durante l’assalto al presidio
del battaglione “Tagliamento” alle scuole di Pian Camuno.
A Gianico, il 22 gennaio, erano stati uccisi e oltraggiati due
vicebrigadieri della Divisione “Etna” della G.N.R. Trattansi di
Pietro Pendoli e dell’amico Sergio Bagnoli, capitati (per
sbaglio) in visita durante la rapina al negozio di generi
alimentari della famiglia Pendoli. Questo brutale assassinio
farà scrivere a don Carlo Comensoli, sul proprio diario: “Oggi
22 gennaio 1945. I garibaldini, a Gianico, uccidono due
sottufficiali della G.N.R…” Don Comensoli non perdeva
l’occasione per segnalare e condannare certi crimini, ma per
l’uccisione di Faustina, cognata del fratello Antonio e da lui
ben conosciuta durante la sua permanenza nella parrocchia di
Costa Volpino (anch’essa uccisa durante la rapina per mano
partigiana), non ritiene opportuno segnalarlo nel diario; in
quei giorni, trova posto per un fatterello non ben specificato:
“29 luglio. Scontro equivoco in Val dell’Orso, tra una squadra
di Biennio e una di Guglielmo”. Equivoco? Avanti con gli
scontri tra squadre, con i tentativi di disgregazione di bande
partigiane ad opera d’altre, con le rapine ai negozi e con i
gestori uccisi!
Da una relazione sulle attività della SAP Loveresi, operanti in
concorso con la 53ª Garibaldi e depositata presso l’Istituto
Nazionale per la Storia del movimento di liberazione,
apprendiamo che “…azioni di non particolare rilevanza, ma
con volontà e impegno, sono state operate da questa squadra
d’azione. Con una nota interessante che chiude la relazione
dove, alla voce recuperi è segnato “Inviamo al centro nr. 33
pezzi d’argento, un orologio d’oro, un anello d’oro”. Il
responsabile (Filippo) – Il Comandante (Mario).”
Non dimentichiamo, anche questa è stata una guerra civile,
l’altra faccia di quella che adesso vogliono che si chiami
Resistenza, ma che il quotidiano “L’Unità”, del 4 novembre
1944, chiamava “Santissima Guerra Civile” è, non sono
bagattelle.
P.S. Nel maggio 1975, Ercole Verzeletti, fresco di stampa e con
dedica, manda il suo libro “Fazzoletti rossi, fazzoletti verdi”
ad Alessandro Petenzi (Andreino), suo caposquadra della 53ª
Garibaldi, dove: “Al caro Andreino, in ricordo di tempi
lontani e indimenticabili. Con fraterno affetto, Ercole
Verzeletti”. Il caro Andreino, per motivi intuibili, respinge il
libro con la seguente motivazione: “Ti ringrazio, ma rifiuto ciò
che hai scritto riguardo alla 53ª Garibaldi. Sono tutte balle.
Andreino”.
(continua)
L’altra faccia della Resistenza
(2)
di Giuliano Fiorani (Sorrisi e bugie partigiane)
Dopo la prima parte, mi si è fatto notare che la battuta a fine
articolo: “Sono tutte balle.” del tenente Andreino, caposquadra
partigiano della 53ª Garibaldi e comandante dell’autore del
libro “Fazzoletti rossi, fazzoletti verdi”, Ercole Verzeletti, non
pregiudica la validità del libro e nemmeno l’impegno
resistenziale dell’autore. Oltre tutto era noto il carattere
scherzoso del sempre sorridente tenente Andreino (Alessandro
Petenzi, classe 1915).
A tale proposito, ho sottomano una fotografia del 30 aprile
1945; l’immagine immortala che poco prima del mezzogiorno,
il sorridente Andreino posa con altri partigiani: sono
all’esterno del cimitero di Lovere (Bg) e hanno appena fucilato
sei legionari della 4ª Compagnia “Tagliamento” della R.S.I.
Non capisco proprio che cosa ci sia da ridere!
Fra Ginepro, Cappellano militare, nel suo “Martirologio
Italico”, così ricorda quel tragico fatto:
“Il 26 aprile, dopo avere portato in salvo all’ospedale di Lovere,
due suoi soldati feriti, De Vecchi e Le Pera (vedasi il testo
“Campa cent’anni con la tua coscienza”, incorporato nella
rassegna di questo sito N.d.R.), il sergente De Lupis, con altri
legionari, cadde in mano ai partigiani. Furono rinchiusi in un
caseggiato, vicino alla Parrocchia di Lovere, dove rimasero
quattro giorni; la porta si aperse solo per ricevere dei
maltrattamenti. Il 30 aprile uno squarcio di luce penetrò quelle
mura gelide. Il legionario, Giorgio Femminini, componente il
gruppo disgraziato, aveva ottenuto d’unirsi in matrimonio con
Laura Cordasco, sorella di un legionario. I due promessi sposi,
con Amerigo testimonio, furono avviati in chiesa dove ebbe
inizio la commovente cerimonia, testé interrotta dall’irruzione di
un gruppo di partigiani. Il sacerdote non ebbe il coraggio
d’opporsi e la festa nuziale si trasformò in fucilazione! Amerigo
procedette al luogo del supplizio, in testa a tutti, cantando le
canzoni della legione… “Bisogna morire da forti come siamo
vissuti!”, ripeteva ai compagni di martirio; disse, a tutti, parole
di perdono; poi, mentre il plotone d’esecuzione puntava il mitra,
estrasse la fotografia dei genitori e della fidanzata… La raffica
non fu mortale per il sergente De Lupis, il quale rizzatosi da
terra, grondante di sangue, esclamò verso i carnefici: “Stupidi,
non sapete nemmeno sparare!”
I partigiani erano già in posa per la foto ricordo dove, oltre al
sorridente Andreino, si può notare un altro partigiano che
finirà in galera per rapina a mano armata; un altro partigiano
della foto, pochi mesi dopo, morirà di setticemia in
conseguenza ad una ferita d’arma da fuoco, non curata.
Urlava e chiedeva perdono. Si sosteneva che con un complice
(partigiano O.Z.) aveva cercato d’introdursi in una villa sopra
Bossico, per compiere una rapina, ma furono accolti a fucilate
e dovettero fuggire; il complice sarà trovato cadavere, poco
lontano, e ricoperto di formiche.
In quei giorni di disordine e di manifestazioni “spontanee della
liberazione”, i magazzini vicino alla possente Villa Milesi
(attualmente Piazza Marconi) sono adibiti a deposito
automezzi dei soldati tedeschi. Questi, appena lasciato Lovere,
il 26 aprile, sono presi in consegna dai partigiani ma, il
deposito è soggetto a continue sparizioni di materiali e altro.
Una notte, l’addetto alla custodia del deposito, sorprende tre
giovani (il primo è colui della fotografia al cimitero di Lovere;
il secondo fa il rappresentante di un’organizzazione
partigiana; il terzo si era lasciato trascinare dai primi due)
nell’atto di succhiare la benzina dai serbatoi degli automezzi
(su commissione di un autonoleggiatore) e asportare le gomme
di scorta. Alla minaccia di denuncia al Brasi, i tre si mettono a
piangere e a commuovere l’anziano custode che, alla fine, non
li denuncerà, a patto di rimettere a posto la refurtiva.
Ritorniamo al tenente Andreino che, tra un sorriso e una
battuta, rilascia pure un’interessante testimonianza del suo
periodo partigiano trascorso. Nel 1973, ad Antonio Censi,
Andreino racconta:
“In montagna è andato subito Giovanni Brasi; io ho seguito lui.
Inizialmente abbiamo fatto collegamento… che ricordo mi sono
trovato io in collegamento… Lì, abbiamo impostato, sempre
inizialmente, a quella che era la lotta clandestina e quella
partigiana; poi, siamo recati in montagna; lì arrivo in
formazione, notando che eravamo, allora, circa
duecentocinquanta… insomma, eravamo un bel gruppo, forte.
Arrivo in formazione e mi chiamano perché c’era la riunione del
Comando. Io funzionavo come caposquadra. Si diceva
“caposquadra” ma sarebbe stato come sottotenente, ecco… e mi
ricordano che per tutto quello che hai fatto “tu sei il
caposquadra adesso, ti diamo i tuoi uomini, te ne devio
interessare…”. Al caposquadra, dopo non c’era più bisogno che
fosse il comando che gli nominava il vice della squadra. Il
caposquadra nominava, per conto suo, il proprio vice capo. Il
caposquadra doveva organizzarla lui, la sua squadra. Il
comando, dopo, interferiva per ordinare un’azione; però dopo,
l’azione veniva eseguita secondo il criterio del caposquadra. Non
si partiva dal comando di dire: “Vai a compiere quest’azione,
devi fare così e costà…”; No, al momento, quando s’arriva sul
punto dell’azione, era il caposquadra che decideva: “Adesso
bisognare fare così…” (Brano tratto dalla bozza del libro, ora
già pubblicato, sulla 53ª Brigata Garibaldi).
Da uno che sorride ad un
altro che muore. Il vice brigadiere della “Tagliamento”, Amerigo De Lupis,
poco prima della fucilazione, consegna alla sua ragazza
loverese, un biglietto; poche righe scritte in punto di morte:
sono per i genitori e per lei.
“Mamma, papà, Zizi, vi lascio. Tra poco sarò fucilato. Non
piangete e state certi che io morirò da forte come da forte ho
vissuto. Ve lo giuro: a voi il mio ultimo pensiero. Baci. Vostro
Amerigo.”
Avanziamo…
Arriviamo all’impegno resistenziale dell’autore del libro:
“Fazzoletti Rossi, Fazzoletti Verdi”; la pubblicazione “Difendo
le Fiamme Verdi”, a pagina 206, giudica in questo modo il
suddetto libro del Verzeletti: “Contiene tante di quelle
scempiaggini e pseudo idee stereotipe sui cattolici, che meritano
d’essere conosciute per valutare l’acuto ingegno dell’autore.”
Ercole Verzeletti, in quarta di copertina si presenta: “Di
famiglia antifascista, fino l’otto settembre collabora con la
Resistenza. Catturato nel 1945 per delazione di una spia, è
liberato il 25 aprile e prende parte alla liberazione di Lovere
nelle fila della 53ª Garibaldi…” A questo punto è bene sapere
che Verzeletti dopo l’otto settembre 1943 (ha compiuto, da
poco, quattordici anni), per motivi di famiglia, è assunto come
tuttofare al Comune di Costa Volpino; il 9 novembre 1944, il
Podestà di quel Comune, delibera un aumento nella minima di
lire 30 giornaliere a decorrere dal 1/10/1944, vista la circolare
nr. 19516 della prefettura, riguardante la concessione
dell’assegno speciale di cui al Decreto legge del 16/10/1944 del
Duce, a favore del personale di ruolo e avventizio degli Enti
ausiliari. Il giovane Verzeletti, pertanto, come dipendente
comunale (antifascista o meno) può beneficiare del D.L. del
Duce, in aggiunta al trattamento economico goduto e, fino a
sei mesi dopo la cessazione dello stato di guerra; ma anche con
diritto a ricevere gli arretrati dei mesi ottobre – novembre –
dicembre 1944, vale a dire 92 giorni moltiplicati 30 lire,
somma l’importo di £ 2760, riscuotibili subito come
documentato dalla delibera comunale nr. 19321 di protocollo e
nr. 117 del Registro Delibere, pubblicato all’albo comunale il
giorno 10/12/1944. Firmato dal Commissario Prefettizio,
Attilio Giannettoni, e dal segretario, Alessandro Bertolini.
Senza che fosse opposta alcun’opposizione!
Di Verzeletti, in quel periodo, non si sa come collaborò con la
Resistenza; come e da chi sia stato catturato e da chi è stato
liberato il 25 aprile, non è dato a sapere ma… afferma che lo
stesso giorno ha preso parte alla liberazione di Lovere. In
realtà, Lovere è stata liberata la sera del 26 aprile! Ne
testimonia il comunicato del “Comitato di Liberazione di
Lovere”, datato 27 aprile 1945, dove si nota un estratto: “...si
ordina a tutti i cittadini che, approfittando del caos momentaneo
di ieri, asportarono oggetti e viveri già appartenenti alle Forze
Armate Germaniche…”,eh sì, perché i militari tedeschi
abbandonarono indisturbati Lovere la mattina del 26 aprile e,
nel pomeriggio, i loveresi saccheggiarono gli alloggiamenti
della scuola materna ormai deserti.
C’è da precisare che Giovanni Brasi (comandante la 53ª
Garibaldi), con altri capi partigiani, si trovava al colle di
Zambla, al Comando Generale, dove la notte che va dal 25 al
26 aprile ricevette l’ordine di scendere su Bergamo e in unione
alle Fiamme Verdi per liberare la città. Arrivati che furono,
trovarono la Prefettura già occupata dai GAP e da altre forze
partigiane. “Presi accordi col Comando Tedesco perché non
avvengano urti con dette forze…”. Solo verso sera (26/04)
arrivarono a Lovere i partigiani guidati da Faccardi e Moretti.
Inizia l’occupazione del paese quando all’entrata sorpresero,
senza saperlo, il sergente De Lupis e la scorta che aveva
accompagnato De Vecchi e Le Pera, entrambi feriti, al locale
ospedale. Pertanto, il Verzeletti ha contribuito poco alla
liberazione di Lovere, tanto più che fin dalla mattina del 26
aprile, il locale presidio della 612ª Compagnia Provinciale
della G.N.R. aveva deposto le armi su consiglio del curato, don
Placido, e rinchiusi in Canonica.
Sarà, forse, per questo motivo che il tenente Andreino afferma
per lo scritto nel libro “Fazzoletti Rossi, Fazzoletti Verdi”
che “sono tutte balle”?… oppure, perché riguardo al massacro
dei 43 Legionari della Compagnia Tagliamento, avvenuto a
Rovetta il 28 aprile e lo scontro nella località Fondi di
Schilpario (medesimo giorno) con 11 partigiani uccisi, il
Verzeletti ha avuto il coraggio di scrivere: “La parola fine alla
sua storia (Legione Tagliamento, N.d.R.) la metteranno i nostri
partigiani che, a Rovetta, giustizieranno nei giorni
dell’insurrezione i resti di un reparto che ha compiuto
un’ultima, feroce e inutile strage ai Fondi di Schilpario, il 28
aprile 1945.”
Per chi non lo sapesse, è utile precisare che i 43 ragazzi della 4ª
e 5ª Compagnia Tagliamento, furono fucilati dai partigiani la
mattina del 28 aprile, dopo un paio di giorni di prigionia
partigiana. Con il concorso dei partigiani partiti da Lovere,
come dalla requisitoria del Procuratore Generale di Brescia,
dove si rileva che:“…Alle dieci, circa, di quel giorno, giunsero
in Rovetta due autocarri carichi di partigiani appartenenti alla
Brigata “Camozzi”, “13 Martiri”, “G.L.” Un’ora dopo, a gruppi
di quattro o cinque, i militi prigionieri furono condotti nei pressi
del cimitero e fucilati…”
A Fondi di Schilpario, lo scontro tra partigiani e i militi della
5ª e 6ª Compagnia Tagliamento avvenne la sera del 28 aprile,
come dal Comunicato partigiano riportato da don Comensoli
nel suo diario dove si legge specificata la causa di quel tragico
fatto:
“Il comando del sotto settore di Schilpario comunica che la sera
del 28 aprile 1945, verso le ore 21, per mezzo di un nostro
autocarro, una nostra pattuglia formata da venti uomini
muoveva in perlustrazione nella zona sita ad Est di Schilpario,
ove erano state segnalate forze Repubblicane provenienti dal
Passo del Vivione. Raggiunta la località Fondi, la nostra
pattuglia si trova improvvisamente accerchiata e fatta segno ad
un nutrito fuoco d’armi automatiche. Nello scontro, undici
uomini componenti la pattuglia rimanevano uccisi, e tre altri
feriti. Si è potuto accertare che le forze avversarie erano
costituite da elementi della 5ª e 6ª Compagnia, appartenenti al
Battaglione della Legione d’Assalto Tagliamento, provenienti
dal Mortirolo. A seguito dell’interrogatorio di uno degli
elementi, che hanno partecipato all’azione e catturato in seguito,
ci risulta che guidavano detta azione i seguenti ufficiali e
sottufficiali: Maggiore Oreste Menegozzo; tenenti Silvestri e
Pucci; sottotenenti Baldo, Amato, Agostini e Cristofori; il
sergente maggiore Eleuteri; i caporali maggiore Fontana, De
Fazi, Esposito e Brizzolari; i caporali Chiaretti e Feretti. I
nominativi… ci risultano in un campo di concentramento di
Piacenza, provenienti da Corteno dove s’erano arresi alla
Brigata Schivardi. Vi preghiamo gentilmente d’occuparvene
affinché siano rintracciati e resa giustizia”.
Tra i nominativi citati dal Comunicato partigiano del
Comando di Schilpario e riportato dal parroco nel suo diario,
come partecipante allo scontro di Fondi, la sera del 28 aprile
1945, vi è De Fazi Gino che rilascia una dichiarazione, sotto
menzionata.
Dichiarazione di Gino De Fazi, nato a Civitavecchia (Rm), il
27/03/1924, residente in Civitavecchia, Via Traiana nr. 56,
reduce della 1ª Legione Tagliamento, partecipante allo scontro
di Fondi di Schilpario (Bg) avvenuto nella notte tra il 28/29
aprile 1945.
“La mattina del 28 aprile 1945, alle pendici del Mortirolo,
veniva organizzato un gruppo di combattimento al comando
del maggiore Oreste Menegozzo, costituito da un plotone della
VIª Compagnia e da due plotoni della Vª Compagnia avente lo
scopo di rilevare i nostri esigui presidi, isolati, al Passo della
Manina ed al Passo della Presolana, per poterli ricongiungere
alla Legione. Con tale intento ci dirigemmo verso il Passo del
Vivione e, da qui, raggiungemmo la località Fondi di
Schilpario ove ci restammo per riposarci e con l’intenzione di
riprendere, poi, la marcia. Dopo la mezzanotte del 28 aprile e,
quindi, nei primi minuti del giorno 29, notammo un
automezzo che, a fari accesi, privi d’ogni protezione
attenuatrice, si dirigeva proprio verso il punto dove c’eravamo
fermati e dove avevamo preso normali misure di sicurezza per
evitare sorprese. A tale scopo, c’eravamo appostati dietro ad
alcune baracche poste lungo i lati della strada dove si trovava
una fornace ormai in disuso; appena giunto nel piazzale
dell’ex fornace (quindi, vicino al nostro luogo
d’appostamento), l’automezzo invece che fermarsi all’alt
intimato dalla sentinella, proseguiva la sua marcia. Ricordo
d’aver udito nettamente una raffica di mitra o di
mitragliatrice; dopo altre raffiche d’armi automatiche e
scoppi di bombe a mano, ebbi il tempo di notare che sulla
cabina di guida dell’automezzo era appoggiato un fucile
mitragliatore che cominciò a sparare; nonché dalla cabina di
guida scese un uomo in divisa che agitava le mani, gridando.
Egli fu colpito e cadde a terra. Lo scontro durò pochi minuti e
subito dopo il silenzio. M’avvicinai al corpo disteso del milite
che avevo visto scendere dalla cabina. Era disteso in una pozza
di sangue e riconobbi in lui il nostro tenente medico Scolari.
Era stato colpito al petto e alla schiena. Seppi, poi, che il
tenente Scolari s’era offerto d’accompagnare i partigiani
dell’automezzo, per agevolare le trattative di resa che questi
venivano a chiederci. Rendendoci conto dell’inutilità di
proseguire verso il compito che c’eravamo prefissati,
decidemmo il ripiegamento del gruppo che, sempre a piedi,
raggiunse Edolo (Bs) la sera del 29 aprile, dove speravamo di
trovare le truppe che dovevano presidiare la Valtellina per
l’ultima resistenza. Ad Edolo non trovammo nessuno. La
mattina del 30 aprile venimmo a conoscenza del crollo della
R.S.I. e dell’avvenuta morte del Duce.
A seguito di trattative intercorse tra il nostro Comandante
Maggiore Menegozzo e un prete del posto, si decise la resa ai
partigiani delle Fiamme Verdi. Tale decisione non era
condivisa da tutti. Il plotone della VIª Compagnia decideva di
dirigersi verso il Passo del Tonale, con la speranza di
ricongiungersi alla Legione Tagliamento che, da detto passo,
era transitato il giorno precedente raggiungendo la Val di
Non; i due plotoni della Vª Compagnia s’arresero in grande
maggioranza, il rimanente decise di disperdersi.
Personalmente scelsi quest’ultima soluzione e mi diressi sui
monti verso Sud, sperando di raggiungere una località del lago
d’Iseo, dove una ragazza m’aveva promesso ospitalità. Pochi
chilometri dopo raggiunsi una borgata di cui non ricordo il
nome, la quale era certamente una frazione del Comune di
Edolo. Naturalmente ero in divisa, affamato, stanco e con tutte
le armi fornitemi in dotazione. All’ingresso di questa frazione
mi venne incontro un sacerdote che m’implorò,
inginocchiandosi, di fermarmi e di cambiare la mia divisa con
abiti civili che egli stesso m’avrebbe procurato. Scavai una
fossa dentro la quale nascosi le armi e la divisa; poi, mi rivestii
con gli abiti borghesi fornitimi dal sacerdote il quale volle
sapere la mia destinazione; mi suggerì di lasciare i sentieri dei
monti e di prendere la strada provinciale che, da Edolo, porta
a Boario Terme. Seguii il suo consiglio e, giunto sulla strada
provinciale, mi mescolai ad un gruppo di prigionieri
provenienti dall’Austria e dalla Germania, che mi accolse
benevolmente e che mi dette una coperta.
Giunti a Cedegolo, trovammo un posto di blocco dei
partigiani. Fui riconosciuto, fatto prigioniero e portato nei
locali di una scuola. Era la sera del 30 aprile. Il giorno
successivo, verso le ore 17, fui prelevato con un mio
commilitone (siciliano, di cognome Scuccimarra). Ci
portarono al cimitero di Cedegolo; ci misero, ciascuno, presso
i pilastri del cancello d’ingresso dopo averci legato i polsi.
Formarono un plotone d’uomini e ci annunciarono che
saremmo stati fucilati. Il mio camerata s’accasciò al suolo; io
rimasi fermo e vidi un partigiano che, agitando una sciabola,
stava lanciando l’ordine di sparare. Questa volta, le luci di
un’auto che s’avvicinava a gran velocità, fa provvidenziale,
perché l’intervento di un sacerdote valse a salvarci la vita. Era
il 1° maggio 1945.
Il successivo giorno fummo caricati su un treno stracarico
d’altri camerati che dalla stazione di Cedegolo ci condussero a
Brescia dove, incolonnati, sfilammo per le vie della città. In
testa alla colonna v’era la madre del tenente Scolari. Fui
rinchiuso nel carcere “Gli Spalti” di Brescia e,
successivamente, nel Castello di Brescia dove “soggiornai”
fino al 23 dicembre 1945, data del mio rilascio, munito del
foglio di via obbligatorio.”
Civitavecchia lì, 04/12/2000
Milite Scelto M. Gino De Fazi
Gruppo Reduci 1ª Legione d’Ass. M “Tagliamento”.
Del treno stracarico di codesti prigionieri diretti a Brescia,
sentiamo la testimonianza del Sergente Maggiore, Mariano
Renzetti, che ricorda quel viaggio…
“…Venimmo condotti a Darfo e, insieme con altri militari della
R.S.I. e Tedeschi, fatti salire su un treno. La Compagnia
“Tagliamento” ebbe il “privilegio” di un vagone riservato, con
la scritta della Legione sulla fiancata in modo da attirare su di
sé le maggiori attenzioni per le “migliori” accoglienze, che,
infatti, furono numerose e sentite, poiché ogni stazione
ferroviaria costituì una vera “Via Crucis” fatta di botte da orbi e
minacce di morte da parte della “piazza” scatenata e aizzata. A
Marone (Bs) ebbi la testa spaccata con il calcio di un fucile. La
destinazione fu Brescia…”
Dopo il comunicato del Sotto Settore Partigiano di Schilpario e
la testimonianza del milite De Fazi presente allo scontro in
località Fondi, torniamo al Verzeletti. Non si può affermare
che a Rovetta sono stati giustiziati i militi di quel reparto della
Legione “Tagliamento”, che la notte del 28 aprile 1945, ai
Fondi, ebbero uno scontro a fuoco con un gruppo di
partigiani. Impossibile, perché i legionari trucidati la mattina
del 28 aprile, all’esterno del cimitero di Rovetta, erano da due
giorni in mano partigiana e sottoposti a continui
maltrattamenti! Non potevano, pertanto, essere presenti –
dopo morti – la sera di quel terribile giorno in località Fondi
di Schilpario!
Dopo i sorrisi e le bugie, i Tribunali! A Brescia, il 21 aprile
1951, un capo partigiano (“Uomo senza carisma e personalità
che non ha avuto il coraggio di opporsi.” Parole di un altro
partigiano) e alcuni dei suoi uomini, imputati della strage di
Rovetta, furono dichiarati, dal Tribunale bresciano, non
punibili perché il fatto era considerato un atto di guerra! Per
lo scontro ai Fondi di Schilpario, invece, il comandante di
quella Compagnia “Tagliamento”, il Maggiore Oreste
Menegozzo, fu processato per strage: dal Tribunale Militare di
Milano, il 28/08/1952, è condannato a diversi anni di
reclusione, alla degradazione, all’interdizione perpetua dai
pubblici uffici ed altre conseguenze di legge.
P.S. Dalla frase del Capo Squadra Andreino, ossia quel
dire “sono tutte balle” alle“scempiaggini” , da vedere il libro
sulle Fiamme Verdi del Presidente dell’Associazione, Ermes
Gatti, al giudizio che troviamo sul nr. 16, dell’anno 1985, del
periodico dell’Istituto Storico della Resistenza Bresciana, che
dedica una rassegna alle pubblicazioni sulla Resistenza e alla
Storiografia Locale, dove sono elencati e commentati
brevemente vari libri su quell’argomento. Tra questi, il libro
di Verzeletti (“Fazzoletti Rossi, Fazzoletti Verdi”)
dell’Edizioni di Cultura Popolare, che si becca il seguente
giudizio: “Il testo, per la parzialità della documentazione e
della ricostruzione delle vicende, è di scarsa o nulla
attendibilità…” Vi pare poco!
L’altra faccia della resistenza
(3)
di Giuliano Fiorani (La giustizia partigiana – MINO DEL BELLO)
Dal servizio informazioni del Comando militare provinciale
Divisione orobica, tramite il bollettino nr. 5 e 6 del 27/11/1944,
si viene a sapere che: “Il partigiano Angelo Del Bello, della
brigata “Camozzi” di Giustizia e Libertà, è stato condannato a
morte dal Tribunale militare partigiano per abbandono di posto,
d’insoburdinazione e rapina a danno della popolazione civile. La
sentenza è stata eseguita. Tale fatto, ribadisce la decisa volontà
di questo Comando di reprimere con inesorabile intransigenza
qualunque atto di codardia, di delinquenza ed ogni altro
comportamento contrastante ai principi di probità e giustizia, cui
si uniforma il nostro movimento patriottico.”
Questo comunicato, fa riferimento al processo del capobanda
partigiano Angelo Del Bello “Mino” (di Fiorano al Serio), in
località Lago Nero, il 7/11/1944, e della sua esecuzione con
altri partigiani, in località Marinoni, frazione di Ardesio, il
10/11/1944. I partigiani uccisi con “Mino” sono Giovanni
Filippini (Pompiano – Bs) e Stefano Villa (Verolanuova – Bs)
che si erano aggregati il giorno precedente alla banda; poi,
Antonio Belvisi (Pantelleria) e due partigiani provenienti dalla
53ª Garibaldi, i russi Miscia e Michele.
Dal verbale del processo contro “Mino” Del Bello si apprende
che il Tribunale partigiano è composto dai seguenti patrioti:
“Marcello” Piero Redaelli (Presidente designato dal
CNL);
“Mario” Mario Invernici (Commissario della Divisione
Orobica);
“Nino” Giuseppe Gasparini (Comandante Brigata
“Camozzi”);
“Renato” Fortunato Fasana (Aiutante maggiore della
Brigata “Camozzi”);
“Timoteo” Zaverio Fornoni (Commissario di valle);
“Bepi” Giuseppe Lanfranchi (Comandante formazione
Brigata “Camozzi”);
“Massimo” Bruno Amati (Comandante formazione
“Camozzi”).
La giuria, è composta dai seguenti patrioti:
“Modesto” Modesto Seghezzi;
“Fulmine”…;
“Ernesto”…;
“Bufalo” Pietro Filisetti;
“Angelo”…;
“Camillo”…;
“Lupo” Guido Capitanio.
Il comunicato del Comando provinciale e il verbale del
processo parlano chiaro: nei confronti del capobanda
partigiano Del Bello e altri, per motivi disonorevoli è stato
applicato l’articolo nr. 241 del Codice Penale Militare di
Guerra. Vediamo di chiarire il senso del processo e la
condanna.
Angelo Del Bello (capo di un gruppo partigiano della Brigata
“Camozzi”, operante in Valle Seriana) che cosa ha combinato
di così grave da meritare la pena capitale? Varie
testimonianze lo danno per coraggioso, intelligente e istruito;
aveva studiato in seminario. Raccontano che, più volte, per
superare i posti di blocco, si travestiva da prete e, una volta,
costretto, con disinvoltura celebrò la messa perché sospettato
dai fascisti. Un “coraggioso”: con il suo gruppo inizialmente
composto di venti uomini bene organizzati, intraprendenti ed
attivi, compie azioni clamorose contro obiettivi nemici.
Sabotaggi e colpi di mano, come a fine giugno del 1944,
quando assaltano la caserma dei carabinieri di Gromo,
recuperando armi e munizioni. La caserma sarà abbandonata
dai militi dell’Arma perché era stata completamente
saccheggiata e devastata. In seguito, il gruppo di Del Bello si
sposterà da Bondo Barbata a Valzurio, sopra Villa d’Ogna.
Il 14/07/1944, l’Alta Valle Seriana è oggetto di un
rastrellamento. I tedeschi, provenienti da Bergamo,
incendiano Valzurio dopo aver circondato il paese, ma i
partigiani che v’erano colà dislocati, avvertiti dalle sentinelle,
avevano fatto appena in tempo a fuggire! Mario Perini “Papù”
ricorda che…: “Massimo Bruno Amati diede il motto “Si salvi
chi può! Ordine sparso!” Tanto era il panico e il trambusto della
fuga”. Per “Giorgio” Mario Ravaglia, invece: “…è stata
proprio una ritirata composta, non abbiamo perso niente.”
Di diverso parere sono gli abitanti di Valzurio che hanno, alla
fine, posseduto le case bruciate! Fiorina Baronchelli, riguardo
al comportamento dei partigiani, fa notare: “Di sbagliare…
veramente… hanno sbagliato anche loro… invece, di stare qui
in paese, che se vengono a bruciare… andate su alle stalle… e,
invece, loro no.”Alberto Pezzoli “Tabari”, uno dei partigiani
che riuscì a fuggire, conferma quanto sopra: “Valzurio è stato
bruciato perché c’eravamo noi; se ci fossimo spostati, non
sarebbe accaduto niente.” Giuseppe Lanfranchi “Bepi”, futuro
comandante dei gruppi partigiani facenti capo alla
“Camozzi”, con fierezza ammette: “Questo è un errore di
preparazione, di carattere militare.”
L’allora parroco di Valzurio, don Zaccaria Tomasoni, a
ricordo di quella giornata, scrive nel libro della
Parrocchia: “Era il 14 luglio 1944; da nove giorni i ribelli e
patrioti si trovavano in Valzurio. Erano in numero di quaranta,
circa. In sulla sera, durante la loro presenza in Valzurio, essi
solevano discendere nei paesi sottostanti per comprare, dai
negozianti, a prezzi di calmiere e colla violenza, cibarie.
Portavano ancora motociclette, biciclette e altri oggetti in
Valzurio, rapinati. Nel giorno 14 luglio 1944, la S.S. saliva, in
parte, in Valzurio, per la strada che vi conduce e parte da
Ardesio, saliva in Colle di Palazzo per disperdere e uccidere i
ribelli… Scortata da due autoblinda, raggiungeva la contrada
Valzurio, appiccava il fuoco alle due estremità e al centro della
contrada, abbruciando quasi tutte le case…”
Il 16/08/1944, Del Bello e Fasana, con i loro gruppi, compiono
un’azione spettacolare in pieno giorno, alla stazione di
Gazzaniga: lì, disarmano i militi fascisti e prendono in
ostaggio due ufficiali tedeschi di passaggio. Lo scopo
dell’azione era di avere vari ostaggi da scambiare con
Francesco May, detenuto a S. Agata e condannato a morte
(penna sospesa per motivi procedurali). Immediati i
rastrellamenti: il 17, in Val Vertova; il 22, al Roccolone, con
sette partigiani morti e altri feriti (tra questi, Fasana “Renato”
che sarà curato da Giulia Del Bello, sorella di “Mino”, e
portato in ospedale da Pasqualino Carrara. Il 27 settembre, le
squadre di Giuseppe Gasparini “Nino” e Fortunato Fasana
“Renato” realizzano l’assalto al Passo della Manina, dove
erano di presidio i tedeschi, a protezione dei lavori della
“Bleu-line” (opera di fortificazione). Lo stesso giorno, il
gruppo di Lino Chiapparini “Lino” tenta il sabotaggio al
ponte del Costone di Castione, per dividere e isolare la media
dall’alta Val Seriana.
A fine settembre, “Mino” e Grassi del C.9 di Valle Camonica,
partecipano all’azione di Borno, al rifugio Copellotti dove,
sopra l’abitato, vi è la sede di una scuola di guerra per ufficiali
tedeschi. I partigiani causano gravi perdite al nemico ma,
anche fra di loro vi saranno morti e feriti. Del Bello sarà
accusato d’avere male coordinato lo sganciamento a fine
azione, il che causerà morti e feriti tra i partigiani; al
momento opportuno troviamo Del Bello e alcuni elementi della
sua banda a fotografare un loro ricordo. Vicino al partigiano
Mino posano: Bepi Ghitti, Rino Doddis, Cesare Rota, Bruno
Venturelli, Giosuè Filisetti (“Piero”) e Battista Rottigni. Sul
retro della fotografia non può mancare la dedica del
capobanda: “Borno, 27/09/1944. Valle di Scalve. I superstiti
della banda Del Bello che rientrano vittoriosi dall’azione contro
i tedeschi, dopo averne uccisi venti tra ufficiali e sottufficiali. –
Genitori carissimi, so che l’accetterete con orgoglio sapere che
vostro figlio sia fra questi prodi.” Poco importa, se alcuni
partigiani sono stati uccisi e altri catturati, per la leggerezza
dimostrata da Del Bello nella fase di ripiegamento in Val di
Scalve, da sembrare una penosa odissea. Dopo l’esempio
dell’azione “successo-sorpresa” sui tedeschi, nell’assalto al
rifugio Copellotti si poteva fare di meglio, e ciò dimostra la
scarsa attitudine di Mino nel saper gestire gli uomini di una
banda.
A questo punto come abbiamo veduto, azioni coraggiose e
spettacolari dove le rappresaglie non sono mancate, e chi le ha
maggiormente subite, sono stati gli incolpevoli abitanti della
vallata; poi, contrasti e rivalità fra i capi gruppo, membri la
brigata “Camozzi”, ai quali lo stesso Comandante non riesce a
mediare, portano ad accuse e minacce, specialmente fra Bruno
Amati “Massimo” (nominato comandante della formazione…
anzi, imposto da Norberto Duzioni “Cerri”, del Comando
provinciale) e Del Bello che non gli riesce d’accettarlo.
Consegue che Del Bello e i suoi uomini lasciano la formazione;
si è sull’orlo di uno scontro tra gruppi! “Massimo” giunge a
progettare il disarmo e l’isolamento di Mino, dopo avergli
ridimensionato l’organico del gruppo (Del Bello, da venti
uomini iniziali rimase con soli sei), e il 18 settembre scrive al
Commissario Zaverio Fornoni “Timoteo”: “Le nuove grane del
pazzoide Mino. Ha fregato lo Sten di Montenero; tutte le scarpe
ordinate per la mia squadra, a Gromo. Vuoi che martedì, in
quaranta, andiamo a disarmare sei uomini e un pazzo?
Volentieri.” Di rimando, “Mino” Del Bello scrive ad Amati,
con tono minaccioso: “Prego il falso tenente Massimo a non
volere più nominare il mio nome né oralmente né per iscritto,
pena una decisiva lezione.”
Per i gruppi della brigata “Camozzi”, Del Bello è diventato un
elemento non più controllabile. La situazione va risolta e la
sorte di Del Bello è segnata: certi colpi di testa portano a
ritorsioni dolorose e le insoburdinazioni al processo del
07/11/1944. All’imputato Angelo Del Bello sono contestati:
furti, violenze, minacce ed esecuzioni di fascisti per iniziativa
personale. Tutta la sua attività è così delegittimata. L’accusa è
sostenuta da Fortunato Fasana (suo compagno d’assalto al
treno, a Gazzaniga), che rileva i reati d’insubordinazione,
rifiuto d’obbedienza e abbandono del posto; Fasana propone
per l’imputato la pena capitale, mediante fucilazione. Nulla
vale che, a sua difesa, siano ricordate le gesta che hanno avuto
il plauso e l’ammirazione dei superiori.
La Giuria, dopo discussione “ritiene l’imputato colpevole
d’indisciplina, insoburdinazione e abbandono del posto…” A
conclusione del processo, a Del Bello è confermata la pena di
morte come richiesto dall’accusa, e che la sentenza sia resa
pubblica. Successivamente ci sarà la commutazione della pena
con l’espatrio in Svizzera ma, per un colpo di testa, Mino ne
conseguirà la sua esecuzione e di cinque altri partigiani: tutto
il proprio gruppo!
Don Severino Tiraboschi, parroco di Valgoglio, il 26/07/1945,
in una lettera a don Antonio Giuliani, sui fatti accaduti nella
sua parrocchia, dell’episodio riguardante il Del Bello, scrive:
“Data 08/11/1944. Mi sono portato al Lago Nero per assistere
Del Bello, comandante di una formazione partigiana,
condannato alla fucilazione per ricatti, indisciplina e atti
inconsulti… Durante il viaggio sono pregato d’interporre
l’opera mia per la salvezza.” L’impressione per don Tiraboschi
è che s’intenda procedere con estrema decisione e senza troppe
mediazioni. Prosegue il parroco:“Fuori si cerca di comporre il
plotone d’esecuzione, ma non si riesce. Lo hanno condannato
tutti, nessuno vuole ucciderlo; anzi, ne prendono le difese.
Allora gli si fa chiedere la domanda di grazia e, infine, si
stabilisce di farlo passare in Svizzera.”
Del Bello ritiene che la condanna non sia altro che
un’intimidazione nei suoi confronti; infatti, noncurante,
ascoltava la sentenza chiacchierando con i suoi compagni. Il
sacerdote quando s’accinge a confessarlo, si rende conto della
realtà; scrive ancora egli: “Sono invitato ad entrare da lui; mi sì
da carta e busta da lettera per gli eventuali saluti che volesse
mandare ai familiari. Alla vista della mia persona, la scena
cambia completamente: smania, grida, si getta per terra.
Un’anima disperata!”
A processo concluso (ritenuto che fosse stato punito a
sufficienza con la sentenza di morte), Del Bello è scortato a
Valgoglio da due uomini che dovevano condurlo in Svizzera.
Disarmatoli, riesce ad allontanarsi, cercando di aggregare
attorno a sé altri uomini. È immediatamente ricercato, anche
nel timore che voglia compiere qualche vendetta. Il 10
novembre, Del Bello e due partigiani bresciani, Filippini e
Villa, da pochi giorni in zona, sono catturati in località
Marinoni di Ardesio; immediatamente passati per le armi da
Fortunato Fasana “Renato”. Il pomeriggio, Belvisi
“Pantelleria” e i due russi Miscia e Michele, sono raggiunti e
uccisi a Valgoglio. Il processo e la soppressione di Del Bello e
dei cinque suoi uomini peseranno negativamente tra gli
abitanti della valle e nei confronti dei partigiani, come una
poca chiara rivalità tra comandanti.
Un volantino (messaggio alla popolazione) sarà fatto circolare
per descrivere e far interpretare la vicenda di Del Bello,
dove: “…la sua fine, se rallegra i suoi nemici toglie anche una
grave preoccupazione a quel popolo che sentiva in lui una
minaccia continua, per le possibili azioni di rappresaglia che la
sua incosciente condotta poteva attirare. Dalla loro parte, le
organizzazioni patriottiche che con questo severo atto di giustizia
intendono fermamente proseguire in quest’azione
d’epurazione”.
Di giustizia partigiana?
Andiamo avanti!
Tocchiamo il 15/05/2005. Sulla strada che porta a Val Canale è
inaugurato un piccolo monumento (iniziativa privata del
signor Riccardi, residente ad Ardesio) dedicato ad Angelo Del
Bello, Giovanni Filippini e Stefano Villa, uccisi la mattina del
10/11/1944, in località Marinoni. Del monumento voluto, il
signor Riccardi spiega:
“Sono rimasto molto colpito dall’uccisione dei tre giovani
partigiani… ho fatto, insieme ai vecchi del paese e al parroco,
una piccola ricerca sull’accaduto, in cui si parla della
fucilazione dei tre nascosti… uccisi dai soldati nemici che li
trovarono. I loro corpi giacquero sul posto per cinque giorni,
congelati dal rigido inverno…”
La verità è un’altra! Presente alla cerimonia, l’ingegner
Giacomo Batoli, capo partigiano della brigata “Cacciatori
delle Alpi”, operanti nella zona dei laghi Gemelli, che spiega
perché e come Del Bello e i cinque partigiani furono uccisi non
dai soldati nemici, ma dagli amici partigiani!
“Nell’ambito di Giustizia e Libertà, v’era un certo Duzioni… ed
aveva mandato in Valzurio (dove si trovava Del Bello e i suoi) il
Bruno Amati “Massimo”, con una lettera con la quale il
comando della brigata doveva passare nelle mani di “Massimo”.
La conseguenza fu che Del Bello, che conoscevo come persona
piena di coraggio e di carisma, un vero trascinatore, con i suoi
uomini e le sue armi, nella notte se n’andò per i fatti suoi, e fu
costretto a fare il partigiano per conto proprio, illegalmente e
con la conseguenza di venire ucciso da un altro partigiano in un
eccesso di moralismo. Sorte che non meritava per nulla! Il
responsabile risponde al nome di Fortunato Fasana,
comandante della brigata G.L. 24 maggio, di stanza in Val
Seriana. Costui, ottimo partigiano e medico, negli ultimi mesi
della guerra divenne preda di un raptus omicida e ne combinò di
tutti i colori, anche nei giorni della Liberazione, tanto che per
evitare la vendetta dei parenti delle vittime, si rifugiò… in Cina
dove svolse, da volontario, la professione di medico…”
Il quotidiano “L’Eco di Bergamo”, del 02/01/1948, fa sapere
che il dottor Fortunato Fasana parte per la Cina con la
missione dei padri Camillini.
Il raptus omicida che fine ha fatto?
La vendetta dei parenti delle vittime?
Il dottor Fasana lo ritroviamo per diversi anni, in occasione
delle commemorazioni dell’eccidio di Cornalba, del 25/11/1944
e del 01/12/1944. Fasana sarà oratore ufficiale, nel 1945, nel
1961 e nel 1983, dove il sindaco, Alessandro Vistalli, colpito
dalla sua personalità, così ricorda: “…alla fine del suo discorso
mi ha detto: “Mi trovo, adesso, a lavorare in Africa, come
medico in un centro d’aiuto”. Io ho collegato che quell’uomo è
venuto qua, ha fatto la resistenza… ma, poi, è ritornato ancora
ad aiutare altre persone”.
Il dottor Fasana, in definitiva, chi era? Un pazzo, oppure un
buon samaritano?
Mino Del Bello, partigiano, ucciso da altri colleghi, chi era?