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FRANCESCO MACHEDA La condotta irresponsabile del sindacato responsabile. La svolta liberista della Cgil 1. Introduzione L’atteggiamento dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) nel corso degli ultimi venti anni rispecchia il suo sostegno al paradigma neo-liberale sostanziato dall’accettazione dell’assetto economico disegnato dagli accordi di Maastricht – secondo cui lo sviluppo economico passerebbe necessariamente attraverso politiche restrittive di riduzione della spesa pubblica, flessibilità lavorativa e contenimento dell’inflazione. Più in particolare, gli organi direttivi della CGIL convengono con i governi e le istituzioni sovranazionali liberiste circa la natura stessa del sindacato: esso è un’istituzione dedicata allo svolgimento di funzioni ‘utili allo sviluppo e alla politica economica’ a sostegno dell’’interesse nazionale’ – identificato con il potenziamento delle forze di mercato – inserite tuttavia all’interno di una cornice regolatoria che non pregiudichi la ‘coesione sociale’. Il fine è la creazione di un ambiente favorevole all’incremento delle aspettative di profitto il quale, una volta realizzatosi, verrebbe redistribuito ai lavoratori mediante l’intervento della politica economica. Il perseguimento di questa sorta di ‘terza via’ tra keynesismo e ultra-liberismo ha significato il contenimento delle richieste salariali, la liberalizzazione del mercato del lavoro e il progressivo smantellamento del welfare state. Tali decisioni, imponendo costi considerevoli per il mondo del lavoro, risultavano difficilmente sostenibili dai partiti. Tanto più considerando la situazione italiana agli inizi degli anni ‘90, caratterizzata da un sistema politico e imprenditoriale fortemente delegittimato dagli scandali di Tangentopoli. L’inclusione del sindacato confederale ha così consentito di attivare meccanismi alternativi di mobilitazione del consenso. Indebolita e delegittimata dalla propria base a causa della sua ignavia durante lo smantellamento delle conquiste salariali e normative degli anni settanta protratte dai governi socialisti del
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La svolta liberista della Cgil - Macheda 2009

Jan 21, 2023

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Page 1: La svolta liberista della Cgil - Macheda 2009

FRANCESCO MACHEDA La condotta irresponsabile del sindacato responsabile. La svolta liberista della Cgil

1. Introduzione

L’atteggiamento dalla Confederazione Generale Italiana

del Lavoro (CGIL) nel corso degli ultimi venti anni rispecchia il

suo sostegno al paradigma neo-liberale – sostanziato

dall’accettazione dell’assetto economico disegnato dagli accordi

di Maastricht – secondo cui lo sviluppo economico passerebbe

necessariamente attraverso politiche restrittive di riduzione della

spesa pubblica, flessibilità lavorativa e contenimento

dell’inflazione. Più in particolare, gli organi direttivi della CGIL

convengono con i governi e le istituzioni sovranazionali liberiste

circa la natura stessa del sindacato: esso è un’istituzione dedicata

allo svolgimento di funzioni ‘utili allo sviluppo e alla politica

economica’ a sostegno dell’’interesse nazionale’ – identificato

con il potenziamento delle forze di mercato – inserite tuttavia

all’interno di una cornice regolatoria che non pregiudichi la

‘coesione sociale’. Il fine è la creazione di un ambiente

favorevole all’incremento delle aspettative di profitto il quale,

una volta realizzatosi, verrebbe redistribuito ai lavoratori

mediante l’intervento della politica economica.

Il perseguimento di questa sorta di ‘terza via’ tra

keynesismo e ultra-liberismo ha significato il contenimento delle

richieste salariali, la liberalizzazione del mercato del lavoro e il

progressivo smantellamento del welfare state. Tali decisioni,

imponendo costi considerevoli per il mondo del lavoro,

risultavano difficilmente sostenibili dai partiti. Tanto più

considerando la situazione italiana agli inizi degli anni ‘90,

caratterizzata da un sistema politico e imprenditoriale fortemente

delegittimato dagli scandali di Tangentopoli. L’inclusione del

sindacato confederale ha così consentito di attivare meccanismi

alternativi di mobilitazione del consenso.

Indebolita e delegittimata dalla propria base a causa della

sua ignavia durante lo smantellamento delle conquiste salariali e

normative degli anni settanta protratte dai governi socialisti del

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Francesco Macheda

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decennio successivo, il coinvolgimento della CGIL al

risanamento dei conti pubblici era il presupposto necessario per

rimanere attori decisionali rilevanti in materia di beni pubblici,

con tutti i benefici economici e di potere che ne conseguivano.

Tale risanamento, lastricato da onerose concessioni alle

controparti padronali, implicava scelte dolorose che avrebbero

potuto generare conflitto sociale, contenibile solo attraverso il

pieno coinvolgimento della CGIL nella:

• Definizione e implementazione di tali politiche.

• Restrizione della democrazia interna al sindacato.

• Eliminazione della rappresentanza di qualsiasi soggetto in

grado di dare voce alle rivendicazioni dei lavoratori.

• Sostegno di una legislazione apertamente anti-conflittuale.

In ciò che segue, ricostruiremo le radici del processo di

convergenza della CGIL (e del sindacato confederale) agli

obiettivi economici neoliberisti. L’articolo è così organizzato.

Nella prima parte, si affronterà il ruolo nella CGIL

nell’elaborazione e nell’implementazione di una legislazione

apertamente anti-conflittuale (paragrafo 2.1) e nella

privatizzazione del pubblico impiego (paragrafo 2.2). La seconda

parte, analizzerà nel dettaglio i cardini della svolta neo-liberalista

appoggiata dalla CGIL - patti di luglio 1992 (paragrafo 3.1) e

1993 (paragrafo 3.2) – che, spostando i rapporti di potere a

favore della classe imprenditoriale, accentueranno la

divaricazione tra la dinamica dei salari e della produttività, oggi

denunciata dalla CGIL stessa. Nella terza parte, infine,

indagheremo la logica sottostante la riforma delle pensioni

fortemente caldeggiata dalla CGIL (paragrafo 4), primo passo

verso l’apertura dei fondi pensione privati.

La tesi sostenuta è che le continue concessioni elargite

alle controparti datoriali e la parallela repressione del conflitto

sociale da parte di questo sindacato al fine di garantire stabilità

sociale, flessibilità lavorativa e moderazione salariale, siano le

cause principali del malessere in cui riversa oggi il mondo del

lavoro, stretto tra bassi salari, crescente precarizzazione ed

erosione di diritti. Non solo. La crisi economica scoppiata nel

2007 dimostra come le ricette liberali condivise dalla CGIL non

conducano necessariamente alla crescita – di cui beneficerebbero

in ultima istanza anche i lavoratori – bensì alla depressione da

cui si cerca di uscire, per l’ennesima volta, con i ‘sacrifici’ della

classe lavoratrice.

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2. La CGIL nel pubblico impiego: la legge anti-sciopero n.146 del 1990

Lo sciopero è uno dei principali strumenti di lotta a

disposizione dei lavoratori per la difesa dei propri interessi. In

Italia, al pari di molti altri paesi, le conquiste retributive,

normative, politiche e sociali discendono in gran parte dalle

astensioni collettive dal lavoro. Dalla fine degli anni Settanta le

confederazioni sindacali concertative (CGIL, CISL e UIL)

ricorsero sempre meno alle pratiche conflittuali a causa del loro

sostanziale accordo alle politiche di austerity intraprese dai

governi di ‘solidarietà nazionale’, seguiti all’entrata del PCI

nell’area governativa. In reazione alla forte centralizzazione

organizzativa e contrattuale che meglio soddisfaceva le esigenze

di controllo sociale, dalla seconda metà degli anni ‘80 si

sviluppano assemblee dei lavoratori, comitati di lotta,

coordinamenti e rappresentanze di base che rientravano nella

galassia del ‘Sindacato di base’.

Questi organismi, che raccolsero velocemente il favore di

consistenti strati di lavoratori, valorizzavano la democrazia di

base, l’immediatezza d’intervento e il radicamento diretto degli

interessi in aperta polemica con la moderazione e il collusivismo

del sindacato confederale nella gestione del progressivo

smantellamento del settore pubblico. Sul finire degli anni

Ottanta, queste nuove forme di sindacalismo mostravano una

crescente e concreta capacità di opposizione, in particolar modo

nei trasporti e nella scuola.

Sollecitato dalle maggiori confederazioni sindacali – il

cui monopolio della rappresentanza degli interessi veniva

progressivamente eroso – nel 1990 il legislatore vara la legge n.

146 riguardante l’esercizio nei servizi che devono qualificarsi

‘pubblici ed essenziali’ in base ai criteri posti dalla legge stessa –

allo scopo di ‘contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con

il godimento dei diritti fondamentali della persona,

costituzionalmente tutelati’. In nome del ‘bilanciamento’ tra i

diritti considerati vengono apposte pesanti restrizioni

all’esercizio del diritto di sciopero nei trasporti, credito, pubblica

amministrazione, istruzione, energia, sanità, igiene urbana,

parastato ed enti locali. L’elencazione è tassativa ma non

esaustiva, poiché la legge demanda alla contrattazione collettiva

tra le parti sociali l’individuazione di ambiti completamente

nuovi di servizi da garantire, e di interi settori da pacificare.

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Mediante la legge 146/90, l’esercizio dello sciopero è

depotenziato attraverso l’obbligo, per i soggetti proclamanti di:

• Erogare prestazioni indispensabili, individuate sia dalle

singole organizzazioni sindacali, sia dalla contrattazione

collettiva. In altri termini, sono le organizzazioni

rappresentative a decidere come contemperare il diritto di

sciopero ai diritti degli utenti.

• Fornire un preavviso minimo di 10 giorni dall’indizione.

• Indicarne la durata al momento della sua proclamazione.

Innanzitutto, appare chiaro come la garanzia dell’erogazione

di un livello di prestazioni indispensabili, riducendo il danno per

le controparti, eviri l’efficacia dell’azione conflittuale.

Secondariamente, sono le organizzazioni confederali che siglano

i contratti nazionali a decidere il livello quantitativo dei servizi

minimi. Ciò significa che qualsiasi soggetto organizzato in

disaccordo con i contenuti del CCNL – dall’assemblea

autoconvocata al sindacato di base – si trova costretto a dover

limitare le proprie azioni di sciopero a causa delle restrizioni

imposte dalle stesse organizzazioni sindacali a livello

centralizzato. In terza battuta, la fornitura del preavviso di

almeno dieci giorni consente alla controparte di adottare gli

strumenti necessari a minimizzare le perdite – depotenziando in

tal modo l’efficacia rivendicativa dell’azione conflittuale. Infine,

l’obbligo di indicare la durata dell’azione conflittuale preclude

qualsiasi possibilità di successo immediato dei lavoratori, dal

momento che vengono mutilate le più dure, ma, al contempo, le

maggiormente incisive forme di lotta come, ad esempio, gli

scioperi ad oltranza. Inoltre, con questa disposizione è

scongiurato il pericolo che altre rivendicazioni più avanzate, che

nascono durante l’azione collettiva di lotta, si sommino a quelle

precedenti.

Nel caso in cui tali previsioni non siano rispettate, la

legge si premunisce di inasprire il sistema sanzionatorio. A

carico delle organizzazioni sindacali si prevede l’esclusione dai

benefici patrimoniali (contributi sindacali e permessi retribuiti)

per un periodo non inferiore a un mese, e l’emarginazione dalle

trattative (per i sindacati ammessi, ovviamente) per un periodo di

due mesi dalla cessazione del comportamento illegittimo.

Uno degli aspetti più gravi della nuova legislazione co-

disegnata dalla CGIL, infine, è il possibile ricorso alla

precettazione – un provvedimento amministrativo col quale il

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dirigente pubblico o il potere esecutivo in prima persona impone

il termine di uno sciopero – ogni qualvolta vi sia il ‘fondato

pericolo di pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona

costituzionalmente garantiti’ causato dall’interruzione o

dall’alterazione del servizio. L’interruzione di pubblico servizio

e la precettazione interessano non solo i dipendenti pubblici, ma

anche i lavoratori delle aziende in via di privatizzazione i quali, a

fronte di un peggioramento delle condizioni salariali e

normative, continueranno a essere sottoposti all’obbligo di

garantire i servizi minimi, e di non scioperare.

A seguito della precettazione, il datore di lavoro deve

preventivamente comunicare i servizi minimi da garantire e le

esigenze di organico, richiedere ai dipendenti di manifestare la

loro volontà di aderire allo sciopero e, fra questi, decidere i

nominativi delle persone obbligate a presentarsi. Il datore deve

comunicare per iscritto ai lavoratori la precettazione, almeno

cinque giorni prima dell’effettuazione dello sciopero. Entro il

giorno successivo alla comunicazione, i lavoratori precettati

possono confermare la loro intenzione di aderire allo sciopero e

chiedere la sostituzione, suggerendo eventualmente un

nominativo di un collega. Se il datore non trova un sostituto

prima dello sciopero, ne comunica notizia al dipendente, che è

comandato nuovamente al servizio. I sostituti devono essere

scelti fra persone iscritte a sindacato non aderente allo sciopero,

oppure fra i colleghi, iscritti o meno a una rappresentanza

sindacale, che hanno dichiarato di non voler aderire. Sulla base

di queste indicazioni, infine, il datore predispone e pubblica un

piano per limitare al minimo i disagi per gli ‘utenti’.

Appare chiaro come il nuovo armamentario giuridico

abbia il fine di ridurre le ricadute negative figlie dell’astensione

generalizzata dal lavoro, minando l’unità dei lavoratori

nell’esercizio dell’azione conflittuale. Ma è lo stesso diritto di

sciopero che viene logorato profondamente attraverso un severo

apparato sanzionatorio. I lavoratori che protraggono le azioni di

sciopero al di fuori della cornice concertata da CGIL, CISL e

UIL, infatti, possono incorrere in pesanti sanzioni-

Primo, la magistratura può disporre l’arresto fino a un

anno per interruzione di pubblico servizio per i dipendenti che

non si presentano sul posto di lavoro, e fino a quattro per i

promotori di uno sciopero dichiarato illegale.

Secondo, sebbene l’indizione e/o l’adesione a uno

sciopero oggetto di ordinanza di precettazione non costituisca

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giusta causa di licenziamento, le sanzioni disciplinari possono

essere di natura amministrativa, pecuniaria, per arrivare fino alla

sospensione dal servizio. Il singolo datore di lavoro, oltre a poter

applicare le sanzioni previste sia dai codici interni e sia dal

CCNL in materia di servizi minimi da garantire, possiede anche

le facoltà di sospendere, di propria iniziativa, i lavoratori dal

servizio. Sebbene le sanzioni disciplinari debbano essere

concordate con la controparte sindacale, la loro applicazione è

demandata a un organo aziendale ‘terzo’ composto dalle

rappresentanze dei datori di lavoro e dei dipendenti, ed

eventualmente da una quota, anche maggioritaria, di decisori

‘indipendenti’ (?). Il sindacato (confederale) si trova pertanto

coinvolto a dovere decidere se comminare sanzioni disciplinari

ai lavoratori che rivendicano il miglioramento delle proprie

condizioni di lavoro.

Con la legge n.83 varata dal governo D’Alema nel 2000

e condivisa dalla CGIL assieme agli altri confederali, tali misure

verranno ulteriormente inasprite: si allargano i soggetti cui si

applica la disciplina, vengono previsti nuovi limiti, estesi i tempi

di preavviso e perfino richieste le modalità di attuazione dello

sciopero. Inoltre, s’inasprisce il sistema sanzionatorio,

allargando i presupposti per il ricorso alla precettazione.

Le esigenze di riduzione del conflitto condivise dalle

parti sindacali confederali e governative hanno avuto un

indubbio successo: se nel periodo 1980-89 i giorni di lavoro

persi sono in media 5.667.000, nel corso del decennio successivo

si assiste a una riduzione superiore del 75 percento, con una

media di 1.354.000 di giorni lavorativi perduti. Tuttavia, il

prezzo pagato dai lavoratori è assai alto: se durante gli anni ‘80

la capacità conflittuale aveva costituito un argine ai proposti

liberisti dei governi socialisti, nel corso degli anni ‘90,

l’amputazione del conflitto condivisa dal sindacato darà ‘il là’

alla stagione privatizzatrice-conservatrice perseguita dai governi

di centro-destra e centro-sinistra.

2.1. La privatizzazione del pubblico impiego nel 1993

La ‘privatizzazione’ delle relazioni industriali nel

pubblico impiego del 1993 (d.lgs. n.29) è elaborata sulle

proposte avanzate da un gruppo di esperti delle organizzazioni

sindacali confederali, tra cui la CGIL, la quale concordava con la

controparte politica circa la necessità di ridurre la spesa

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governativa – condizione necessaria per il rientro nei parametri

di Maastricht – attraverso la moderazione delle richieste salariali

dei lavoratori pubblici, che da li a poco saranno colpiti da

decurtazioni salariali, dalla privatizzazione d’interi settori

produttivi e dallo smantellamento del welfare. Il mezzo era di

rafforzare i poteri della dirigenza e ridurre la libertà dell’azione

rivendicativa, all’interno di una cornice legislativa volta a

frenare le richieste provenienti dai lavoratori, mediante il

recupero del monopolio della rappresentatività da parte di CGIL,

CISL e UIL – le uniche in grado di garantire il consenso e la

‘responsabilità’ a fronte delle dolorose misure.

In termini pratici, ciò significa restringere il numero delle

organizzazioni ammesse ai tavoli delle trattative nazionali,

favorendo il sindacato confederale attraverso il principio di

maggiore rappresentatività in base al quale il sindacato trattante

debba avere:

• Un numero d’aderenti pari almeno al 5 percento del totale

delle deleghe relative al comparto interessato.

• Il 5 percento dei voti nelle elezioni di riferimento.

• Una struttura organizzativa presente in almeno un terzo delle

regioni o delle province.

• La presenza in almeno due comparti di negoziazione a

livello confederale.

In seguito al referendum abrogativo nel 1995 e al

tentativo dell’Aran (la controparte datoriale pubblica) di

restringere il numero delle confederazioni ammesse ai tavolo

negoziali – tentativo rigettato poco dopo da una sentenza del Tar

del Lazio – ci penserà il governo di centro-sinistra con la legge

Bassanini del 1997 a restringere i principi di rappresentatività.

Grazie a questo provvedimento, d’ora in avanti l’Aran potrà

limitarsi a riconoscere solo le organizzazioni sindacali che

abbiano nel comparto o nell’area una rappresentatività non

inferiore al 5 percento, considerando a tal fine la media tra dato

associativo e dato elettorale, ossia il numero di voti ottenuti nelle

elezioni delle rappresentanze unitarie del personale sul totale dei

voti espressi nell’ambito considerato. L’aspetto cruciale della

nuova normativa varata dal ‘governo amico’ e sostenuta della

CGIL e dagli altri confederali è il rapporto – nella formazione

della delegazione sindacale aziendale – tra componenti eletti e

rappresentanti delle organizzazioni sindacali firmatarie dei

CCNL. La logica di fondo è chiara: la ‘responsabilità’ a livello

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centralizzato funziona meglio se accompagnata dal controllo

sulla base a livello decentralizzato. L’elezione delle

rappresentanze aziendali dei lavoratori, infatti, omaggia le

confederazioni concertative firmatarie del CCNL (CGIL, CISL e

UIL e qualche altro sindacato vicino ai partiti conservatori) di

una posizione di rendita giacché un terzo dei rappresentanti è

assegnato d’ufficio e senza alcun mandato democratico espresso

dai lavoratori. La giustificazione addotta a tal privilegio risiede

nella necessità di ‘assicurare il necessario raccordo tra le

organizzazioni stipulanti i contratti nazionali e le rappresentanze

sindacali aziendali titolari delle deleghe assegnate dai contratti

medesimi’.

In ogni caso, i margini rivendicativi delle strutture

radicate sui posti di lavoro sono mutilati, poiché ‘la

contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei

limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con

le procedure negoziali che questi ultimi prevedono’. A livello

decentrato, quindi, dove potrebbero sprigionarsi le spinte

democratiche più genuine espresse dalle rappresentanze elette

direttamente dai lavoratori (indipendentemente dalla loro

filiazione sindacale) ‘le pubbliche amministrazioni non possono

sottoscrivere (…) contratti collettivi integrativi in contrasto con

vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che

comportino oneri non previsti negli strumenti di

programmazione annali e pluriennale di ciascuna

amministrazione’. 1 Per scongiurare qualsiasi successo

rivendicativo proveniente dalla base, infine, ‘le clausole difformi

sono nulle e non possono essere applicate’.

Il contenuto di quanto sopra è tanto semplice quanto

perverso: i temi della contrattazione a livello decentrato, dove

più stretto è il legame tra lavoratori e loro rappresentanti, sono

strettamente definiti a livello centralizzato dalla parte padronale

in accordo con CGIL, CISL e UIL. In tal modo, viene

scongiurata la discrepanza tra obiettivi macroeconomici definiti

a livello nazionale tra sindacati e potere politico (riduzione della

spesa pubblica, in particolar modo quella sociale) e

rivendicazioni salariali e normative a livello locale.

1 Con Pubblica Amministrazione si intende l’operatore che produce servizi

collettivi i quali, non formando oggetto di compravendita, non hanno un

prezzo di mercato, attuando inoltre la redistribuzione del reddito e della

ricchezza con operazioni di trasferimento o di erogazioni unilaterali in

denaro o in natura effettuate a beneficio degli altri operatori e settori.

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L’appoggio della CGIL alla restrizione della democrazia

sindacale, propedeutica all’arretramento rivendicativo, è

accompagnato dall’accordo sul cosiddetto salario accessorio,

ossia una quota di remunerazione legata al merito e alla mercé

del dirigente di turno che si trova a esercitare un consistente

potere ad libitum, che non di rado utilizzerà per premiare il

collusivismo degli zelanti rappresentanti designati dai sindacati

confederali.

Infine, CGIL, CISL e UIL, spesso nella veste di

organizzazioni sindacali ammesse alla contrattazione collettiva

nazionale, raggiungono un accordo con l’Aran grazie al quale il

loro ruolo descritto poc’anzi è premiato con il diritto a permessi,

aspettative e distacchi sindacali.

Quali sono gli effetti della nuova stagione concertativa

della CGIL (e delle altre organizzazioni confederali) sul mondo

del lavoro impiegato nelle amministrazioni pubbliche? In primo

luogo, se nel quinquennio 1987-1991 le retribuzioni nella

pubblica amministrazione aumentano del 40.7 percento a fronte

di un incremento dell’inflazione pari al 28.7 percento, tra il 1993

e il 1999 tale valore si ferma al 3.2 percento, mentre l’inflazione

viaggia ad un ritmo annuo del 3.4 percento. In altri termini, la

responsabilità del sindacato si sostanzia nella decurtazione dei

salari reali dei dipendenti pubblici. Scorrendo il conto

economico consolidato delle pubbliche amministrazioni (Tabella

1), si può notare come dopo il 1990 i redditi da lavoro

dipendente abbiano conosciuto un trend discendente, perdendo

2.3 punti percentuali in un decennio. In secondo luogo, la tabella

mostra come le prestazioni sociali a favore dei cittadini abbiano

attraversato una dinamica simile, diminuendo di quasi due punti

percentuali nel medesimo intervallo. I consumi intermedi (i beni

e servizi consumati quali input nel processo produttivo), invece,

hanno raggiunto la soglia del 5 percento a causa dell’aumento

degli acquisti di beni e servizi da fornitori privati e messi a

disposizione direttamente ai beneficiari, il settore delle famiglie.

Tradotto, la privatizzazione e il successivo acquisto di beni e

servizi (prima forniti dalle pubbliche amministrazioni) sul

mercato non ha consentito alcun risparmio, contrariamente alle

previsioni dei governi e dei sindacati consociativi. Al contrario,

pare che questa strategia abbia causato una lievitazione dei costi,

nonostante il drastico ridimensionamento del pubblico in

economia. Infine, gli investimenti fissi lordi, il cui aumento

dovrebbe sfociare nella maggiore efficienza dei servizi offerti

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attraverso la modernizzazione del processo produttivo, hanno

conosciuto una caduta verticale, pari a quasi un punto

percentuale.

Tabella 1. Spese amministrazioni pubbliche 1980-2000 (% PIL)

Fonte: Banca d’Italia 2000, 2010

In definitiva, anche tralasciando il peggioramento delle

condizioni normative e salariali dei dipendenti espulsi dal settore

pubblico in seguito alla privatizzazione d’interi comparti, gli

accordi riguardanti la ristrutturazione del pubblico impiego

concertati tra governo, CGIL, CISL e UIL non si sono nemmeno

tramutati in un miglioramento delle condizioni di lavoro per

coloro rimasti, se non per una quota assai minoritaria che occupa

le gerarchie più elevate, la cui remunerazione è aumentata

esponenzialmente nel corso dell’ultimo ventennio.

3. La restaurazione liberista: l’eliminazione della Scala mobile nel 1992

Fino al 1992, il potere d’acquisto dei lavoratori é

parzialmente difeso dai meccanismi di indicizzazione automatica

delle retribuzioni al costo della vita, la cosiddetta scala mobile.

Ciò significa che i tentativi imprenditoriali di contrastare

l’erosione dei margini di profitto – causata sia dalle conquiste

salariali sia dall’inasprimento della competizione

internazionale – ricorrendo all’aumento dei prezzi di vendita dei

loro prodotti non si traduceva immediatamente in una

diminuzione delle retribuzioni reali. A livello macroeconomico,

questa dinamica si palesava in un’inflazione endemica la cui

causa fu additata dal mondo politico, accademico,

imprenditoriale e sindacale all’irragionevole desiderio di

conservare il potere d’acquisto delle retribuzioni lavorative,

piuttosto che dalla ragionevole esigenza di espansione dei

margini di profitto delle imprese.

1980 1985 1990 1995 2000

Redditi da lavoro dip. 11.0 11.8 12.7 11.2 10.4

Consumi intermedi 3.9 4.9 4.8 6.8 5.0

Prestazioni sociali 14.1 17.2 18.2 16.7 16.4

Investimenti fissi lordi 3.2 3.7 3.3 2.1 2.4

Totale 32.2 37.6 39.0 36.8 34.2

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L’irrigidimento del regime di cambi fissi, caratteristico degli

ultimi anni del Sistema Monetario Europeo accompagnato dalle

‘necessità’ e di allineare il tasso d’inflazione alla media

dell’Europa comunitaria e di ridurre il debito pubblico, offrono

alla triade sindacale la possibilità di ribadire il loro senso di

responsabilità, facendosi carico del risanamento dei conti

pubblici e del recupero di competitività delle imprese. Più nel

dettaglio, i tre sindacati confederali dichiarano di ‘perseguire una

crescente equità nella distribuzione del reddito e la crescita

occupazionale mediante l’allargamento della base produttiva e la

difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni e delle pensioni’. I

mezzi più appropriati per realizzare questi nobili fini sono trovati

nel:

• Seppellimento della scala mobile.

• Blocco degli incrementi salariali sino alla fine del ‘93.

• Come contropartita, la concessione del pagamento una

tantum, indipendentemente dalle qualifica, pari allo 0.7

percento della retribuzione totale, elargito nel gennaio ‘93.

• Aumento dell’IRPEF dell’1 percento necessario a finanziare

l’industria privata.

Il 31 luglio 1992, Bruno Trentin, segretario della CGIL,

firma, assieme alle altre confederazioni, l’accordo che abolisce

l’indicizzazione dei salari al costo della vita, mentre introduce il

blocco salariale per i successivi 18 mesi. Entrambe le

concessioni, sono decise senza aver ottenuto alcun mandato dalla

propria organizzazione. Nonostante la promessa di Giuliano

Amato di mantenere la parità di cambio, il governo svaluta

pesantemente la lira il mese successivo l’accordo. Ma grazie al

blocco dell’indicizzazione salariale, i costi del provvedimento

sono scaricati quasi interamente sulle spalle dei lavoratori: se

fino all’inizio del 1992 il tasso di crescita delle retribuzioni

contrattuali nel settore privato risulta ancora superiore al 9

percento, due anni dopo scende sotto il 2 percento.

Da ultimo, l’aggiustamento dei conti pubblici è

completato dalla manovra finanziaria ‘lacrime e sangue’ da

ottanta miliardi di lire che prevedeva lo smantellamento del

sistema sanitario, le prime misure di riforma delle pensioni con

l’allungamento della vita lavorativa e la decurtazione delle

indennità pensionistiche. L’obiettivo della ‘crescita

occupazionale’ si traduce in realtà nella più grossa ondata di

licenziamenti della storia d’Italia: nel 1993 sono eliminati 556

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mila posti di lavoro, facendo salire la disoccupazione al 12

percento l’anno seguente. La CGIL, tuttavia, dimostra il

proverbiale senso di responsabilità, contenendo il malcontento

sociale. Il tutto, in difesa degli ‘interessi nazionali’.

3.1. I patti di luglio 1993

La sottoscrizione del ‘protocollo sulla politica dei redditi

e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del

lavoro e sul sostegno al sistema produttivo’ avvenuta il 23 luglio

1993 segna un ulteriore passo della CGIL verso i porti del

pensiero liberista. Quest’accordo è la chiave di volta della

realizzazione della politica economica del governo Ciampi, tesa

al recupero della fiducia dei mercati attraverso il contenimento

del costo del lavoro al fine di ‘liberare risorse’ per il

finanziamento delle imprese e per l’attuazione delle

privatizzazioni. Governo e sindacati concertativi s’impegnano a

realizzare politiche macroeconomiche volte a:

• Ridurre l’inflazione ai livelli dei maggiori paesi

industrializzati.

• Diminuire il debito e il deficit statale per garantire la stabilità

valutaria.

• Mantenere un’‘elevata e stabile crescita economica’,

attraverso, ‘politiche di sostegno al sistema produttivo, alla

ricerca e allo sviluppo’.

Il perno attorno a cui ruota l’accordo neo-corporativo è il

tasso d’inflazione programmata (TIP) nella parte riguardante il

contratto nazionale di categoria – quest’ultimo di durata

quadriennale per la materia normativa e biennale per quella

retributiva. Col nuovo sistema, le rivendicazioni salariali non

sono più basate sull’inflazione passata (per recuperare il potere

d’acquisto eroso dall’aumento dei prezzi) bensì sulle previsioni

di governo e banca centrale riguardo l’inflazione futura,

esplicitamente depurata dagli effetti provocati dai cambi valutari,

dai prezzi delle materie prime e da quelli associati a shock

stagionali di breve periodo. Ossia, di un’inflazione programmata

a essere inferiore per costruzione a quella reale, date le

condizioni strutturali dell’economia italiana.

Sul piano contrattuale, il consenso della CGIL sugli

obiettivi di fondo della ventata neo-liberista suggellata a

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La condotta irresponsabile del sindacato responsabile

13

Maastricht, si traduce nella rinuncia di ogni sorta di

rivendicazione salariale. 2 Il Grafico 1 mostra gli scarti tra

inflazione reale e programmata dopo gli accordi del 1993.

Grafico 1. Inflazione programmata ed effettiva ‘93-’08 (var. %)

Fonte: elaborazione dati Istat.

La natura dell’accordo facilita la sottostima costante del

governo (tranne il 1997) dell’inflazione programmata, al fine di

stabilire le compatibilità (restrittive) entro cui porre le richieste

salariali del sindacato confederale-concertativo. Nel

quindicennio 1993-2008, i documenti di programmazione

economica e finanziaria dei governi di centro-destra e di centro-

sinistra stimeranno un’inflazione pari al 31.4 percento, quando,

in realtà, l’inflazione reale salirà del 44.6 percento.

I meccanismi di recupero dei differenziali tra inflazione

programmata ed effettiva da compiersi in occasione dei rinnovi

biennali di categoria (clausola di salvaguardia) previsti dal patto

si riveleranno totalmente inefficaci a preservare il potere

d’acquisto dei lavoratori. L’accordo firmato dalla CGIL e dalle

altre organizzazioni concertative, infatti, prevede che per i

periodi di vacanza contrattuale i lavoratori debbano ricevere ‘un

elemento provvisorio della retribuzione’ pari al 30 percento del

tasso d’inflazione programmata per i primi 3 mesi e al 50

percento del tasso programmato per i primi 6. Una volta

raggiunto l’accordo, l’indennità è cancellata dalla busta paga.

Oltre a permettere al padronato, pubblico e privato, di poter far

slittare i rinnovi contrattuali scongiurando pericoli di scioperi

2 Come prevedibile, l’impegno assunto dai datori di lavori di contenere i

prezzi ‘entro livelli necessari alla politica dei redditi’ è presto accantonato.

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Francesco Macheda

14

(secondo le disposizioni del patto che analizzeremo a breve), il

meccanismo di recupero ex post dell’inflazione si rivelerà assai

sconveniente per i lavoratori: tra il 1992 e il 2002, sebbene la

crescita cumulata delle retribuzioni contrattuali nel settore

privato sia superiore di 5 punti rispetto al TIP, risulta nondimeno

essere 3.6 punti inferiore rispetto all’inflazione effettiva

(Casadio et.al: 2004).

Il secondo livello di contrattazione, aziendale o

territoriale, di durata quadriennale, ‘riguarda materie e istituti

diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del

CCNL’. Giacché gli assetti normativi, retributivi e le procedure

per la presentazione delle piattaforme contrattuali aziendali

vengono definiti in ambito nazionale, diviene problematico per

la contrattazione aziendale – qualora fosse sostenuta da

rappresentanze non allineate alle direttive di CGIL, CISL e UIL

(coloro che firmano i CCNL) – strappare condizioni migliori. Al

limite, i potenziali miglioramenti dovrebbero essere ancorati ad

eventuali aumenti di redditività e produttività delle imprese.

In altre parole, la contrattazione integrativa, oltre a

subordinare pesantemente i livelli periferici (più a contatto con la

base dei lavoratori) ai voleri del sindacato confederale, è uno

strumento attraverso il quale la CGIL riconosce l’opportunità di

accrescere il grado di flessibilità delle retribuzioni rispetto

all’andamento economico delle imprese. I tempi del salario come

variabile indipendente sono lontani anni luce: il benessere del

lavoratore (maggiore salario) è totalmente subordinato

all’interesse dell’impresa (maggior profitto).

Tale strategia neo-corporativa dimostrerà tutti i suoi

limiti: mentre il primo livello si rivelerà totalmente inefficacie a

conservare il potere d’acquisto dei lavoratori, il secondo livello

sarà applicato neppure a un terzo delle imprese nazionali,

costituendo anzi un incentivo per gli imprenditori a puntare sul

basso costo del lavoro piuttosto che sull’aumento degli

investimenti per sostenere i profitti. In definitiva, tra primo e

secondo livello si crea una dinamica perversa: i contratti

nazionali di categoria impongono moderazione salariale. Quelli

di secondo livello dovrebbero agganciare i salari agli aumenti di

produttività delle imprese. Sennonché, la moderazione salariale

del primo livello spingerà gli imprenditori a privilegiare

l’impiego di lavoro (spesso sottopagato) all’intensità di capitale,

determinando la caduta della produttività, il cui aumento, invece,

avrebbe dovuto sostenere la contrattazione di secondo livello.

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Non solo. Oltre ad incentivare i trucchi di bilancio delle

imprese (poiché le erogazioni aggiuntive sono subordinate

all’andamento degli utili aziendali), il secondo livello di

contrattazione non è neppure in grado di redistribuire i pochi

incrementi di produttività raggiunti. Il Grafico sottostante mostra

la dinamica della produttività e dei salari reali nel settore privato.

Grafico 2. Retribuzioni reali pro capite e produttività nel settore

privato (indice 1990=100)

Fonte: Istat, Conti Nazionali. Settore privato al netto dell’agricoltura

Dal biennio 92-93 assistiamo ad una marcata inversione

di tendenza tra le due variabili e da allora la forbice tenderà

sempre più a dilatarsi: su poco meno di venti punti d’aumento in

termini di produttività nel settore privato, solo otto saranno

redistribuiti al lavoro.

Gli obiettivi macro e micro economici coerenti ai nuovi

assetti contrattuali – moderazione e flessibilità salariale –

necessari al conseguimento delle compatibilità stabilite dagli

accordi di Maastricht richiedono la repressione del dissenso che

potrebbe scaturire dagli effetti di tali politiche. Si tratta cioè di

ridurre ai minimi termini l’azione delle strutture organizzative

esterne a CGIL, CISL e UIL e di reprimere le spinte conflittuali

provenienti dal mondo del lavoro. Tali obiettivi verranno

raggiunti attraverso la definizione di una:

• Rappresentanza sindacale che raccordi gli intenti delle

organizzazioni concertative che stipulano i contratti

nazionali e le rappresentanze aziendali titolari delle deleghe

affidate dagli stessi contratti.

• Estensione della legge antisciopero a tutti i lavoratori da

applicare nei periodi più caldi dei rinnovi contrattuali,

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Francesco Macheda

16

quando l’azione di sciopero servirebbe proprio a strappare

condizioni migliorative alla controparte.

In primo luogo, l’assetto contrattuale descritto in precedenza

richiede il controllo confederale-concertativo sulle strutture

decentrate. Nella parte patto relativa alla rappresentanza

sindacale aziendale si afferma senza ambiguità che ‘al fine di

assicurare il necessario raccordo tra le organizzazioni stipulanti i

contratti nazionali e le rappresentanze aziendali titolari delle

deleghe assegnate dai medesimi, la composizione delle

rappresentanze deriva per due terzi dall’elezione da parte di tutti

i lavoratori, e per un terzo da designazione da parte delle

organizzazioni stipulanti il CCNL, che hanno presentato liste in

proporzione ai voti ottenuti.’ La Cgil, in compagnia di Cisl e Uil,

è mossa dal bisogno di garantire la rappresentanza dei propri

sindacalisti sui luoghi di lavoro, gli unici in grado di recepire le

linee guida dettate dai livelli superiori. Per questa ragione, in

maniera simile a quanto avvenuto nel pubblico impiego, il

sindacato concertativo beneficerà di una quota di delegati sui

luoghi di lavoro, indipendentemente dal consenso ottenuto dai

lavoratori.

In secondo luogo, Cgil, Cisl e Uil si impegnano a estendere

alcuni provvedimenti della legge antisciopero ai lavoratori di

tutte le categorie del settore privato. In sostanza, il sindacato

concertativo garantisce che nei tre mesi antecedenti alla

presentazione delle piattaforme e nel primo mese successivo alla

scadenza dei contratti, non potranno essere intraprese azioni

conflittuali.

Nella parte dell’accordo relativa le politiche del lavoro e

al sostegno al sistema produttivo, la CGIL, assieme alle altre

associazioni firmatarie, fornisce il proprio consenso riguardo la

generale precarizzazione dei rapporti lavorativi: dal rilancio

dell’apprendistato all’uso generalizzato dei contratti di

formazione lavoro, dalla riduzione dei salari per i neo-assunti,

fino all’affitto di manodopera gestito da apposite agenzie.

L’opera sarà completata quattro anni dopo, con l’accordo neo-

corporativo del settembre 1996 alla base della legge 196/1997,

più comunemente conosciuta come Pacchetto Treu.

Inoltre, la CGIL acconsente ai provvedimenti

concernenti gli sgravi fiscali alle imprese al fine di ‘conseguire e

mantenere la crescita occupazionale’. In realtà, da lì a poco la

disoccupazione supererà il 12 percento, mentre si da il via libera

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a processi di ristrutturazione sostenuti dallo Stato, attraverso

l’uso di ‘ammortizzatori sociali’, quali cassa integrazione e una

mai avvenuta ricollocazione della forza lavoro in mobilità.

Per quanto attiene al sostegno del sistema produttivo, le

organizzazioni concertative convengono a realizzare ‘un più

intenso e diffuso progresso tecnologico’, strutturando l’attività di

ricerca e di sperimentazione per le industrie, i servizi, il

commercio, l’agricoltura con ‘una maggiore interconnessione tra

pubblico e privato’. L’auspicata interconnessione si basa su un

dato preciso: siccome la ricerca in Italia è sviluppata quasi

interamente dal settore pubblico, si cerca di mettere a

disposizione del privato a costo zero queste risorse. Nei fatti,

l’Italia rimarrà il fanalino di coda tra i paesi OCSE in quanto a

spese in ricerca e sviluppo (data la maggior convenienza

dell’impiego di manodopera a basso costo, frutto della nuova

politica dei redditi), mentre le università diverranno centri di

pratiche clientelari dove i singoli docenti gestiranno

privatamente il rapporto tra fondi pubblici e interessi privati.

In definitiva, se gli accordi di luglio hanno dato avvio,

contrariamente alle premesse, a un rallentamento della

produttività, quella poca guadagnata non è stata per nulla

ridistribuita. Ciò ha significato una gigantesca ridistribuzione dai

salari ai profitti. Sembrerebbe che l’inflazione programmata sia

servita solo a programmare la riduzione dei salari e a consegnare

ai profitti tutto l’aumento di efficienza. Il Grafico 3 mostra la

quota dei salari sul PIL in Italia, Gran Bretagna, Francia,

Germania e Francia, definiti come la proporzione tra costo totale

del lavoro e valore aggiunto.

Grafico 3. Quota dei salari sul PIL (in percentuale)

62

67

72

1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002

U.K. Francia Germania Spagna Italia

Fonte: The Conference Board Total Economy Database, January 2010

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18

Se ancora nel 1992 l’Italia, rispetto agli altri paesi

europei di dimensione comparabile, poteva vantare la

distribuzione del reddito più favorevole al fattore lavoro, dopo

l’inaugurazione dell’era neo-corporativa assistiamo a un

drammatico trend discendente: nel decennio 1992-2002 la quota

dei redditi da lavoro sul Pil scenderà di ben 9 punti percentuali,

dal 72 al 63 percento. Durante lo stesso intervallo, la discesa si

fermerà a poco più di 3 punti in Gran Bretagna, 2 punti in

Francia e Germania e 4 punti percentuali in Spagna.

4. La riforma delle pensioni del 1995

L’appoggio della CGIL alla riforma delle pensioni del 1995

conferma il suo indirizzo liberista. La legge che il parlamento

approverà nel luglio di quell’anno troverà la sua origine da un

progetto di riforma steso dalle burocrazie del sindacato

confederale. Queste ultime condividevano (e condividono

tuttora) le linee guida dettate dal Fondo Monetario

Internazionale e dalla Banca Mondiale, che assegnano un ‘ruolo

fondamentale alle parti sociali nella promozione e nello sviluppo

della previdenza complementare’.3

Anche la CGIL, infatti, condivide l’idea liberista secondo

cui è necessario ridurre il primo pilastro pensionistico pubblico a

favore del secondo pilastro privato attraverso lo sviluppo dei

fondi pensioni, rafforzando in tal guisa i processi di

finanziarizzazione dell’economia. Più nello specifico, la

riduzione delle pensioni pubbliche aumenterebbe il risparmio

nazionale da mettere a disposizione delle oligarchie finanziarie

per i loro investimenti. Siccome ciò non può accadere con il si-

stema pubblico a ripartizione (perché non ci sono capitali

accumulati) si punta a ridurlo per fare spazio ai fondi pensione.

Sono così raggiunti due risultati: da un lato si concentra il

capitale monetario disperso al fine d’investirlo sulle piazze

finanziarie e dall’altro si supera la diffidenza individuale dei

lavoratori per gli investimenti borsistici, affidandoli a operatori

specializzati. La riforma Dini rappresenta così il primo tassello

della privatizzazione delle pensioni e per il loro impiego

3 ‘La CGIL ha sempre ritenuto che un sistema misto – e a ripartizione

(quello pubblico) e a capitalizzazione (quello privato) – sia uno dei

fondamenti degli interventi di adeguamento e di riordino del sistema

previdenziale obbligatorio portato avanti in questi anni dai governi che si

sono succeduti, dal 1995 al 2000’ (CGIL 2004)

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finanziario. Come comprensibile, le dirigenze sindacali sentono

il bisogno di giustificare sia l’avvio della previdenza

complementare sia la decurtazione delle pensioni pubbliche

additando la necessità di riequilibrare il sistema previdenziale

del nostro paese, a loro detta insostenibile. Tuttavia i dati che si

riferiscono all’andamento della spesa sociale in Italia dal 1990 al

1995 (Grafico 1) e la quota della spesa pensionistica sul prodotto

interno lordo nel 1995 (Grafico 2) sconfessano tali motivazioni

emergenziali.

In primo luogo, dal 1990 al 1995 la spesa sociale italiana,

all’interno della quale la spesa previdenziale è compresa, non

attraversa nessuna esplosione.

Grafico 4. Spesa sociale sul PIL 1990-1995 (in %)

17

22

27

1990 1991 1992 1993 1994 1995

U.K. Francia Germania Spagna Italia

Fonte: elaborazione su dati OECD

Al contrario, si assiste a una leggera flessione, dal

momento che essa passa dal 19.95 al 19.9 sul totale del PIL. A

livello comparato, nel 1995 la spesa sociale italiana è

sensibilmente inferiore ai livelli registrati in Francia (28.6

percento) e Germania (26.5 percento), poco minore di quella di

un paese ancora arretrato come la Spagna (21.4 percento) e

addirittura sotto quella inglese – che pur aveva subito gli attacchi

del duo conservatore Thatcher-Major.

In secondo luogo, i dati ci dicono che i livelli di spesa

pensionistica italiana non sono affetti da alcuna anomalia. Nel

1995, l’incidenza delle pensioni italiane sul Pil ammonta al 9.3

percento, in Spagna circa un punto sotto, mentre Francia e

Germania rispettivamente un punto e 1.3 punti superiori. Solo la

Gran Bretagna presenta livelli inferiori, a causa del maggiore

sviluppo del sistema pensionistico privato.

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20

Grafico 5. Spesa pensionistica sul Pil nel 1995 (in %)

Fonte: elaborazione su dati OECD

I dati utilizzati dalle organizzazioni sindacali e dal potere

politico-economico, tuttavia, denotano una situazione ben più

grave, riscontrando addirittura di 2 o 3 punti percentuali

superiori ai livelli qui presentati. Tuttavia, le statistiche italiane,

diversamente da quelle fornite da OECD ed EUROSTAT non

separano le spese di assistenza da quelle previdenziali. In altre

parole, siccome in Italia gli istituti previdenziali si accollano

indebitamente le spesa assistenziali (cassa integrazione, sussidi

di disoccupazione e mobilità, assegni di accompagnamento per

anziani disabili e pensioni minime, sussidi per superstiti, TFR,

ecc.) che negli altri paesi sono erogate da istituti separati o

finanziate dalla fiscalità generale, è normale riscontrare

un’’anomia italiana’. Però, una volta depurato il dato italiano

dalle spese assistenziali, vediamo come il nostro paese presenti

livelli di spesa ben al di sotto degli stati più avanzati d’Europa.

Un’altra motivazione addotta circa le necessità di ridurre

il pilastro pubblico risiede nelle ragioni demografiche, per cui

l’inesorabile invecchiamento della popolazione renderebbe

insostenibile il sistema pensionistico. Tralasciando che tali

previsioni non considerino l’aumento di produttività

dell’economia, le organizzazioni sindacali – piuttosto di proporre

di compensare l’aumento dei pensionati sul numero dei

lavoratori attraverso una corrispondente redistribuzione di

reddito a favore dei primi – convengono con il governo ‘tecnico’

presieduto da Dini sulla necessità di ridurre il rapporto tra

pensione e redistribuzione. Ciò è concretamente perseguito

attraverso l’adozione del sistema contributivo che, oltre ad

avvantaggiare enormemente lo stato – che beneficia dei montanti

retributivi lasciati in uso dai lavoratori per l’intera durata della

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loro carriera – dimezza le pensioni future: una volta a regime, il

nuovo sistema garantirà ai ‘privilegiati’ che abbiano maturato

almeno 35 anni di anzianità contributiva appena il 45 percento

del salario. I più ‘sfortunati’, ossia coloro impiegati con contratti

parasubordinati o con una storia lavorativa intermittente,

rischieranno di vedersi una pensione vicina al 35 percento del

salario percepito.

Non ultimo, nel caso in cui le misure menzionate non

fossero sufficienti a consentire un risparmio annuo almeno pari a

5 miliardi di euro, scatterebbe la ‘clausola di salvaguardia’ che

otterrebbe l’obiettivo di utilizzare il taglio delle pensioni per

diminuire il debito pubblico. In altre parole, la CGIL ha firmato

una cambiale in bianco: proprio da quest’ultima si misura si

comprende che l’obiettivo non sia salvaguardare i conti pubblici,

ma tagliare il pilastro pensionistico pubblico.

Escluso l’allargamento della protezione previdenziale ai

lavoratori atipici con l’introduzione di un apposito fondo

previdenziale – tra l’altro finanziato da una copertura totalmente

insufficiente – l’appoggio sindacale alla ‘riforma Dini’ non

prevede altre concessioni. Si tratta di un gioco a somma negativa

per i lavoratori. Il ‘coraggio’ sindacale, infatti, sostiene anche gli

aspetti della riforma pensionistica che, seppure di minore portata

rispetto al passaggio del metodo contributivo, prevedono

ulteriore restrizioni per i lavoratori odierni, futuri pensionati.

Vediamoli.

Innanzitutto, sono eliminate le pensioni di anzianità,

quelle che si basano sugli anni di lavoro. Le pensioni divengono

pensioni di vecchiaia, l’età media di riferimento è quella di 62

anni per andare in pensione senza penalizzazioni e chi deciderà

di ritirarsi prima sarà pesantemente penalizzato. Scorgendo un

documento ufficiale della CGIL steso nel 2004, tuttavia, questo

sarebbe a tutto vantaggio dei lavoratori, che così potranno

scegliere quanto lavorare secondo le loro esigenze. Secondo,

sono ridimensionati i trattamenti d’invalidità e di reversibilità

(per il coniuge, per i figli minori e i familiari a carico). Terzo,

non è prevista alcuna norma specifica riguardo ai lavori usuranti.

Quarto, l’accordo governo-sindacati non interessa le casse

autonome dei liberi professionisti: avvocati, commercialisti,

consulenti del lavoro, geometri, ingegneri, notai, architetti,

farmacisti, giornalisti, medici, rappresentanti di commercio,

veterinari. Quinto, non ci sarà più alcuna distinzione tra età

pensionabile di uomini e donne sebbene su queste ultime gravino

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Francesco Macheda

22

ulteriori compiti domestici e di cura. Sesto, sono previsti

incentivi a rimanere al lavoro: nonostante la disoccupazione

giovanile in Italia sia la più elevata tra i paesi OECD e i salari

nel loro insieme tra i più bassi, si cerca di calmierare il mercato

del lavoro con un allargamento dell’offerta di lavoro. Da ultimo,

dopo aver esteso il Tfr anche ai dipendenti pubblici, la legge

prevede l’attivazione dei fondi pensionistici chiusi istituiti con i

contratti nazionali di lavoro e identifica nel Tfr lo strumento base

per il loro finanziamento. Appare chiaro, quindi, come i futuri

tentativi dei governi Berlusconi e Prodi di gettare il salario

differito sui mercati finanziari fosse già inscritto nella riforma

Dini, controfirmata dai sindacati concertativi. Non solo. La legge

335 del ‘95 prevede che questi nuovi fondi pensione beneficino

di ampie esenzioni fiscali, al fine di favorirne lo sviluppo.

I provvedimenti della riforma Dini, fieramente

rivendicati dalla CGIL, nel corso del decennio successivo hanno

consentito miglioramenti di bilancio pubblico per una cifra

maggiore di 11 miliardi di euro rispetto alle previsioni iniziali

del legislatore. Il prezzo da pagare, tuttavia, è stato alto. Sebbene

la CGIL sostenga che la legge 335/1995 abbia saputo ‘coniugare

un progetto di radicale innovazione del nostro sistema

pensionistico con i valori fondamentali dell’equità e della

solidarietà’, favorire ‘l’emersione dell’evasione contributiva’ e

impedire ‘abusi ed inique redistribuzioni di reddito dai lavoratori

con percorsi lavorativi piatti e stabili ai lavoratori con carriere

dinamiche e soggette ad aumenti rilevanti’, scorgendo i dati

parrebbe riscontrare una realtà meno rosea.

Primo, la nuova riforma ha provocato la rottura della

solidarietà intergenerazionale: la disparità di trattamento in senso

peggiorativo, infatti, si applicava completamente ai giovani al

primo impiego, mentre risultava parzialmente innovativa per i

lavoratori che avessero maturato non meno di 18 anni di

contribuzione, rimanendo invariata per coloro che avessero

oltrepassato 18 anni di contribuzione. Secondo, abbiamo

assistito a una sostanziale decurtazione delle pensioni attuali se è

vero, com’è vero, che nel 2008 il 45,9 percento delle pensioni

aveva importi mensili inferiori a 500 euro e il 26 percento

importi mensili compresi tra 500 e mille euro (Istat 2010) Terzo,

la riforma é stata totalmente inefficacie nel contrastare l’elusione

contributiva. Semmai, l’ha incoraggiata giacché stabiliva che la

copertura assicurativa dei lavoratori, non garantita dai datori di

lavoro, fosse posta totalmente a carico dei primi, ma ‘senza oneri

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a carico dello Stato e secondo criteri attuariali’, per un limite

massimo di tre anni. In particolare si fa riferimento a

‘formazione professionale, studio e ricerca e per le tipologie

d’inserimento nel mercato del lavoro ove non comportanti

rapporti di lavoro assistiti da obblighi assicurativi, nei casi di

lavori discontinui, saltuari, precari e stagionali per i periodi

intercorrenti non coperti da tali obblighi assicurativi’. Queste

tipologie di lavoro – che comportano prestazioni a salario diretto

ridotto e un’infima contribuzione – saranno incentivate l’anno

seguente dal ‘Patto per il lavoro’, legalizzando in tal modo

l’evasione contributiva. E infine, pare che non si sia evitato

nemmeno il rischio di ‘abusi ed inique redistribuzioni di reddito

dai lavoratori con percorsi lavorativi piatti e stabili ai lavoratori

con carriere dinamiche e soggette ad aumenti rilevanti’ dal

momento che tra le nuove generazioni tali ‘carriere dinamiche’

rappresentano per lo più una mera utopia.

5. Conclusioni

I gruppi dirigenti della Confederazione Generale Italiana del

Lavoro (CGIL) hanno giocato un ruolo primario nella

ristrutturazione liberista dell’economia italiana che ha preso

avvio dai primi anni Novanta. In quest’epoca, viene tracciato un

sentiero lastricato da pesanti concessioni al mondo

imprenditoriale e dallo smantellamento dei diritti lavorativi e

sociali. Il ruolo collusivo del sindacato confederale non è

percepibile solamente dalla pace sociale garantita alla

controparte padronale, ma anche (e soprattutto) dal ruolo attivo

nell’elaborazione del nuovo setting istituzionale: gli organi

direttivi della CGIL sono parte attiva nella definizione della

legge anti-sciopero e nella privatizzazione delle relazioni di

lavoro nel pubblico impiego. Reprimono la democrazia sindacale

caldeggiando la riforma della rappresentanza sia sui luoghi di

lavoro sia a livello centralizzato, necessaria a controllare il

dissenso sociale che loro stessi hanno contribuito

(accidentalmente, sia chiaro) a creare, sostenendo le manovre

‘lacrime e sangue’ del duo Amato-Ciampi. La stagnazione dei

salari, di cui oggi tanti dirigenti della Cgil si lamentano, non è

altro che il frutto, da loro stessi coltivato, dell’uccisione della

scala mobile che, oltre a divaricare drammaticamente la

dinamica della produttività da quella dei salari, ha reso più

conveniente impiegare lavoro sotto-pagato piuttosto che

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Francesco Macheda

24

investire in macchine e innovazione. Non ultimo, la decantata

‘Riforma’ Dini, oltre a sacrificare le nuove generazioni

‘donandole’ pensioni da fame, ha aperto la strada al business dei

fondi pensione, pronti a essere gettati sui mercati finanziari.

Riguardo quest’ultimo punto, quel che più preoccupa è il

conflitto d’interesse all’interno del quale la Cgil, assieme agli

altri confederali, si trova immersa: da un lato, come istituzione

che co-gestisce gli investimenti dei fondi pensione privati, si

deve conformare a criteri di efficienza propri dei mercati

finanziari: bassa inflazione (salari sotto il livello di sussistenza),

stabilità sociale (il conflitto non è tollerato), smantellamento del

welfare (maggiore opportunità di lucro dei privati nei settori

oligopolistici delle public utilities) ed alta produttività (aumento

dei ritmi di lavoro e licenziamenti facili). Dall’altro lato, come

istituzione volta alla protezione degli interessi dei lavoratori,

dovrebbe tendere verso obiettivi diametralmente opposti, ossia

alti salari, azioni conflittuali volte al raggiungimento di una

distribuzione del reddito più favorevole, rallentamento dei ritmi

di lavoro (o, detto altrimenti, miglioramento delle condizioni di

vita), estensione dello stato sociale e salvaguardia

dell’occupazione. A oggi, pare che gli imperativi finanziari siano

di gran lunga quelli privilegiati.

Bibliografia

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