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FRANCESCO MACHEDA La condotta irresponsabile del sindacato responsabile. La svolta liberista della Cgil
1. Introduzione
L’atteggiamento dalla Confederazione Generale Italiana
del Lavoro (CGIL) nel corso degli ultimi venti anni rispecchia il
suo sostegno al paradigma neo-liberale – sostanziato
dall’accettazione dell’assetto economico disegnato dagli accordi
di Maastricht – secondo cui lo sviluppo economico passerebbe
necessariamente attraverso politiche restrittive di riduzione della
spesa pubblica, flessibilità lavorativa e contenimento
dell’inflazione. Più in particolare, gli organi direttivi della CGIL
convengono con i governi e le istituzioni sovranazionali liberiste
circa la natura stessa del sindacato: esso è un’istituzione dedicata
allo svolgimento di funzioni ‘utili allo sviluppo e alla politica
economica’ a sostegno dell’’interesse nazionale’ – identificato
con il potenziamento delle forze di mercato – inserite tuttavia
all’interno di una cornice regolatoria che non pregiudichi la
‘coesione sociale’. Il fine è la creazione di un ambiente
favorevole all’incremento delle aspettative di profitto il quale,
una volta realizzatosi, verrebbe redistribuito ai lavoratori
mediante l’intervento della politica economica.
Il perseguimento di questa sorta di ‘terza via’ tra
keynesismo e ultra-liberismo ha significato il contenimento delle
richieste salariali, la liberalizzazione del mercato del lavoro e il
progressivo smantellamento del welfare state. Tali decisioni,
imponendo costi considerevoli per il mondo del lavoro,
risultavano difficilmente sostenibili dai partiti. Tanto più
considerando la situazione italiana agli inizi degli anni ‘90,
caratterizzata da un sistema politico e imprenditoriale fortemente
delegittimato dagli scandali di Tangentopoli. L’inclusione del
sindacato confederale ha così consentito di attivare meccanismi
alternativi di mobilitazione del consenso.
Indebolita e delegittimata dalla propria base a causa della
sua ignavia durante lo smantellamento delle conquiste salariali e
normative degli anni settanta protratte dai governi socialisti del
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decennio successivo, il coinvolgimento della CGIL al
risanamento dei conti pubblici era il presupposto necessario per
rimanere attori decisionali rilevanti in materia di beni pubblici,
con tutti i benefici economici e di potere che ne conseguivano.
Tale risanamento, lastricato da onerose concessioni alle
controparti padronali, implicava scelte dolorose che avrebbero
potuto generare conflitto sociale, contenibile solo attraverso il
pieno coinvolgimento della CGIL nella:
• Definizione e implementazione di tali politiche.
• Restrizione della democrazia interna al sindacato.
• Eliminazione della rappresentanza di qualsiasi soggetto in
grado di dare voce alle rivendicazioni dei lavoratori.
• Sostegno di una legislazione apertamente anti-conflittuale.
In ciò che segue, ricostruiremo le radici del processo di
convergenza della CGIL (e del sindacato confederale) agli
obiettivi economici neoliberisti. L’articolo è così organizzato.
Nella prima parte, si affronterà il ruolo nella CGIL
nell’elaborazione e nell’implementazione di una legislazione
apertamente anti-conflittuale (paragrafo 2.1) e nella
privatizzazione del pubblico impiego (paragrafo 2.2). La seconda
parte, analizzerà nel dettaglio i cardini della svolta neo-liberalista
appoggiata dalla CGIL - patti di luglio 1992 (paragrafo 3.1) e
1993 (paragrafo 3.2) – che, spostando i rapporti di potere a
favore della classe imprenditoriale, accentueranno la
divaricazione tra la dinamica dei salari e della produttività, oggi
denunciata dalla CGIL stessa. Nella terza parte, infine,
indagheremo la logica sottostante la riforma delle pensioni
fortemente caldeggiata dalla CGIL (paragrafo 4), primo passo
verso l’apertura dei fondi pensione privati.
La tesi sostenuta è che le continue concessioni elargite
alle controparti datoriali e la parallela repressione del conflitto
sociale da parte di questo sindacato al fine di garantire stabilità
sociale, flessibilità lavorativa e moderazione salariale, siano le
cause principali del malessere in cui riversa oggi il mondo del
lavoro, stretto tra bassi salari, crescente precarizzazione ed
erosione di diritti. Non solo. La crisi economica scoppiata nel
2007 dimostra come le ricette liberali condivise dalla CGIL non
conducano necessariamente alla crescita – di cui beneficerebbero
in ultima istanza anche i lavoratori – bensì alla depressione da
cui si cerca di uscire, per l’ennesima volta, con i ‘sacrifici’ della
classe lavoratrice.
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2. La CGIL nel pubblico impiego: la legge anti-sciopero n.146 del 1990
Lo sciopero è uno dei principali strumenti di lotta a
disposizione dei lavoratori per la difesa dei propri interessi. In
Italia, al pari di molti altri paesi, le conquiste retributive,
normative, politiche e sociali discendono in gran parte dalle
astensioni collettive dal lavoro. Dalla fine degli anni Settanta le
confederazioni sindacali concertative (CGIL, CISL e UIL)
ricorsero sempre meno alle pratiche conflittuali a causa del loro
sostanziale accordo alle politiche di austerity intraprese dai
governi di ‘solidarietà nazionale’, seguiti all’entrata del PCI
nell’area governativa. In reazione alla forte centralizzazione
organizzativa e contrattuale che meglio soddisfaceva le esigenze
di controllo sociale, dalla seconda metà degli anni ‘80 si
sviluppano assemblee dei lavoratori, comitati di lotta,
coordinamenti e rappresentanze di base che rientravano nella
galassia del ‘Sindacato di base’.
Questi organismi, che raccolsero velocemente il favore di
consistenti strati di lavoratori, valorizzavano la democrazia di
base, l’immediatezza d’intervento e il radicamento diretto degli
interessi in aperta polemica con la moderazione e il collusivismo
del sindacato confederale nella gestione del progressivo
smantellamento del settore pubblico. Sul finire degli anni
Ottanta, queste nuove forme di sindacalismo mostravano una
crescente e concreta capacità di opposizione, in particolar modo
nei trasporti e nella scuola.
Sollecitato dalle maggiori confederazioni sindacali – il
cui monopolio della rappresentanza degli interessi veniva
progressivamente eroso – nel 1990 il legislatore vara la legge n.
146 riguardante l’esercizio nei servizi che devono qualificarsi
‘pubblici ed essenziali’ in base ai criteri posti dalla legge stessa –
allo scopo di ‘contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con
il godimento dei diritti fondamentali della persona,
costituzionalmente tutelati’. In nome del ‘bilanciamento’ tra i
diritti considerati vengono apposte pesanti restrizioni
all’esercizio del diritto di sciopero nei trasporti, credito, pubblica
amministrazione, istruzione, energia, sanità, igiene urbana,
parastato ed enti locali. L’elencazione è tassativa ma non
esaustiva, poiché la legge demanda alla contrattazione collettiva
tra le parti sociali l’individuazione di ambiti completamente
nuovi di servizi da garantire, e di interi settori da pacificare.
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Mediante la legge 146/90, l’esercizio dello sciopero è
depotenziato attraverso l’obbligo, per i soggetti proclamanti di:
• Erogare prestazioni indispensabili, individuate sia dalle
singole organizzazioni sindacali, sia dalla contrattazione
collettiva. In altri termini, sono le organizzazioni
rappresentative a decidere come contemperare il diritto di
sciopero ai diritti degli utenti.
• Fornire un preavviso minimo di 10 giorni dall’indizione.
• Indicarne la durata al momento della sua proclamazione.
Innanzitutto, appare chiaro come la garanzia dell’erogazione
di un livello di prestazioni indispensabili, riducendo il danno per
le controparti, eviri l’efficacia dell’azione conflittuale.
Secondariamente, sono le organizzazioni confederali che siglano
i contratti nazionali a decidere il livello quantitativo dei servizi
minimi. Ciò significa che qualsiasi soggetto organizzato in
disaccordo con i contenuti del CCNL – dall’assemblea
autoconvocata al sindacato di base – si trova costretto a dover
limitare le proprie azioni di sciopero a causa delle restrizioni
imposte dalle stesse organizzazioni sindacali a livello
centralizzato. In terza battuta, la fornitura del preavviso di
almeno dieci giorni consente alla controparte di adottare gli
strumenti necessari a minimizzare le perdite – depotenziando in
tal modo l’efficacia rivendicativa dell’azione conflittuale. Infine,
l’obbligo di indicare la durata dell’azione conflittuale preclude
qualsiasi possibilità di successo immediato dei lavoratori, dal
momento che vengono mutilate le più dure, ma, al contempo, le
maggiormente incisive forme di lotta come, ad esempio, gli
scioperi ad oltranza. Inoltre, con questa disposizione è
scongiurato il pericolo che altre rivendicazioni più avanzate, che
nascono durante l’azione collettiva di lotta, si sommino a quelle
precedenti.
Nel caso in cui tali previsioni non siano rispettate, la
legge si premunisce di inasprire il sistema sanzionatorio. A
carico delle organizzazioni sindacali si prevede l’esclusione dai
benefici patrimoniali (contributi sindacali e permessi retribuiti)
per un periodo non inferiore a un mese, e l’emarginazione dalle
trattative (per i sindacati ammessi, ovviamente) per un periodo di
due mesi dalla cessazione del comportamento illegittimo.
Uno degli aspetti più gravi della nuova legislazione co-
disegnata dalla CGIL, infine, è il possibile ricorso alla
precettazione – un provvedimento amministrativo col quale il
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dirigente pubblico o il potere esecutivo in prima persona impone
il termine di uno sciopero – ogni qualvolta vi sia il ‘fondato
pericolo di pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona
costituzionalmente garantiti’ causato dall’interruzione o
dall’alterazione del servizio. L’interruzione di pubblico servizio
e la precettazione interessano non solo i dipendenti pubblici, ma
anche i lavoratori delle aziende in via di privatizzazione i quali, a
fronte di un peggioramento delle condizioni salariali e
normative, continueranno a essere sottoposti all’obbligo di
garantire i servizi minimi, e di non scioperare.
A seguito della precettazione, il datore di lavoro deve
preventivamente comunicare i servizi minimi da garantire e le
esigenze di organico, richiedere ai dipendenti di manifestare la
loro volontà di aderire allo sciopero e, fra questi, decidere i
nominativi delle persone obbligate a presentarsi. Il datore deve
comunicare per iscritto ai lavoratori la precettazione, almeno
cinque giorni prima dell’effettuazione dello sciopero. Entro il
giorno successivo alla comunicazione, i lavoratori precettati
possono confermare la loro intenzione di aderire allo sciopero e
chiedere la sostituzione, suggerendo eventualmente un
nominativo di un collega. Se il datore non trova un sostituto
prima dello sciopero, ne comunica notizia al dipendente, che è
comandato nuovamente al servizio. I sostituti devono essere
scelti fra persone iscritte a sindacato non aderente allo sciopero,
oppure fra i colleghi, iscritti o meno a una rappresentanza
sindacale, che hanno dichiarato di non voler aderire. Sulla base
di queste indicazioni, infine, il datore predispone e pubblica un
piano per limitare al minimo i disagi per gli ‘utenti’.
Appare chiaro come il nuovo armamentario giuridico
abbia il fine di ridurre le ricadute negative figlie dell’astensione
generalizzata dal lavoro, minando l’unità dei lavoratori
nell’esercizio dell’azione conflittuale. Ma è lo stesso diritto di
sciopero che viene logorato profondamente attraverso un severo
apparato sanzionatorio. I lavoratori che protraggono le azioni di
sciopero al di fuori della cornice concertata da CGIL, CISL e
UIL, infatti, possono incorrere in pesanti sanzioni-
Primo, la magistratura può disporre l’arresto fino a un
anno per interruzione di pubblico servizio per i dipendenti che
non si presentano sul posto di lavoro, e fino a quattro per i
promotori di uno sciopero dichiarato illegale.
Secondo, sebbene l’indizione e/o l’adesione a uno
sciopero oggetto di ordinanza di precettazione non costituisca
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giusta causa di licenziamento, le sanzioni disciplinari possono
essere di natura amministrativa, pecuniaria, per arrivare fino alla
sospensione dal servizio. Il singolo datore di lavoro, oltre a poter
applicare le sanzioni previste sia dai codici interni e sia dal
CCNL in materia di servizi minimi da garantire, possiede anche
le facoltà di sospendere, di propria iniziativa, i lavoratori dal
servizio. Sebbene le sanzioni disciplinari debbano essere
concordate con la controparte sindacale, la loro applicazione è
demandata a un organo aziendale ‘terzo’ composto dalle
rappresentanze dei datori di lavoro e dei dipendenti, ed
eventualmente da una quota, anche maggioritaria, di decisori
‘indipendenti’ (?). Il sindacato (confederale) si trova pertanto
coinvolto a dovere decidere se comminare sanzioni disciplinari
ai lavoratori che rivendicano il miglioramento delle proprie
condizioni di lavoro.
Con la legge n.83 varata dal governo D’Alema nel 2000
e condivisa dalla CGIL assieme agli altri confederali, tali misure
verranno ulteriormente inasprite: si allargano i soggetti cui si
applica la disciplina, vengono previsti nuovi limiti, estesi i tempi
di preavviso e perfino richieste le modalità di attuazione dello
sciopero. Inoltre, s’inasprisce il sistema sanzionatorio,
allargando i presupposti per il ricorso alla precettazione.
Le esigenze di riduzione del conflitto condivise dalle
parti sindacali confederali e governative hanno avuto un
indubbio successo: se nel periodo 1980-89 i giorni di lavoro
persi sono in media 5.667.000, nel corso del decennio successivo
si assiste a una riduzione superiore del 75 percento, con una
media di 1.354.000 di giorni lavorativi perduti. Tuttavia, il
prezzo pagato dai lavoratori è assai alto: se durante gli anni ‘80
la capacità conflittuale aveva costituito un argine ai proposti
liberisti dei governi socialisti, nel corso degli anni ‘90,
l’amputazione del conflitto condivisa dal sindacato darà ‘il là’
alla stagione privatizzatrice-conservatrice perseguita dai governi
di centro-destra e centro-sinistra.
2.1. La privatizzazione del pubblico impiego nel 1993
La ‘privatizzazione’ delle relazioni industriali nel
pubblico impiego del 1993 (d.lgs. n.29) è elaborata sulle
proposte avanzate da un gruppo di esperti delle organizzazioni
sindacali confederali, tra cui la CGIL, la quale concordava con la
controparte politica circa la necessità di ridurre la spesa
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governativa – condizione necessaria per il rientro nei parametri
di Maastricht – attraverso la moderazione delle richieste salariali
dei lavoratori pubblici, che da li a poco saranno colpiti da
decurtazioni salariali, dalla privatizzazione d’interi settori
produttivi e dallo smantellamento del welfare. Il mezzo era di
rafforzare i poteri della dirigenza e ridurre la libertà dell’azione
rivendicativa, all’interno di una cornice legislativa volta a
frenare le richieste provenienti dai lavoratori, mediante il
recupero del monopolio della rappresentatività da parte di CGIL,
CISL e UIL – le uniche in grado di garantire il consenso e la
‘responsabilità’ a fronte delle dolorose misure.
In termini pratici, ciò significa restringere il numero delle
organizzazioni ammesse ai tavoli delle trattative nazionali,
favorendo il sindacato confederale attraverso il principio di
maggiore rappresentatività in base al quale il sindacato trattante
debba avere:
• Un numero d’aderenti pari almeno al 5 percento del totale
delle deleghe relative al comparto interessato.
• Il 5 percento dei voti nelle elezioni di riferimento.
• Una struttura organizzativa presente in almeno un terzo delle
regioni o delle province.
• La presenza in almeno due comparti di negoziazione a
livello confederale.
In seguito al referendum abrogativo nel 1995 e al
tentativo dell’Aran (la controparte datoriale pubblica) di
restringere il numero delle confederazioni ammesse ai tavolo
negoziali – tentativo rigettato poco dopo da una sentenza del Tar
del Lazio – ci penserà il governo di centro-sinistra con la legge
Bassanini del 1997 a restringere i principi di rappresentatività.
Grazie a questo provvedimento, d’ora in avanti l’Aran potrà
limitarsi a riconoscere solo le organizzazioni sindacali che
abbiano nel comparto o nell’area una rappresentatività non
inferiore al 5 percento, considerando a tal fine la media tra dato
associativo e dato elettorale, ossia il numero di voti ottenuti nelle
elezioni delle rappresentanze unitarie del personale sul totale dei
voti espressi nell’ambito considerato. L’aspetto cruciale della
nuova normativa varata dal ‘governo amico’ e sostenuta della
CGIL e dagli altri confederali è il rapporto – nella formazione
della delegazione sindacale aziendale – tra componenti eletti e
rappresentanti delle organizzazioni sindacali firmatarie dei
CCNL. La logica di fondo è chiara: la ‘responsabilità’ a livello
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centralizzato funziona meglio se accompagnata dal controllo
sulla base a livello decentralizzato. L’elezione delle
rappresentanze aziendali dei lavoratori, infatti, omaggia le
confederazioni concertative firmatarie del CCNL (CGIL, CISL e
UIL e qualche altro sindacato vicino ai partiti conservatori) di
una posizione di rendita giacché un terzo dei rappresentanti è
assegnato d’ufficio e senza alcun mandato democratico espresso
dai lavoratori. La giustificazione addotta a tal privilegio risiede
nella necessità di ‘assicurare il necessario raccordo tra le
organizzazioni stipulanti i contratti nazionali e le rappresentanze
sindacali aziendali titolari delle deleghe assegnate dai contratti
medesimi’.
In ogni caso, i margini rivendicativi delle strutture
radicate sui posti di lavoro sono mutilati, poiché ‘la
contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei
limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con
le procedure negoziali che questi ultimi prevedono’. A livello
decentrato, quindi, dove potrebbero sprigionarsi le spinte
democratiche più genuine espresse dalle rappresentanze elette
direttamente dai lavoratori (indipendentemente dalla loro
filiazione sindacale) ‘le pubbliche amministrazioni non possono
sottoscrivere (…) contratti collettivi integrativi in contrasto con
vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che
comportino oneri non previsti negli strumenti di
programmazione annali e pluriennale di ciascuna
amministrazione’. 1 Per scongiurare qualsiasi successo
rivendicativo proveniente dalla base, infine, ‘le clausole difformi
sono nulle e non possono essere applicate’.
Il contenuto di quanto sopra è tanto semplice quanto
perverso: i temi della contrattazione a livello decentrato, dove
più stretto è il legame tra lavoratori e loro rappresentanti, sono
strettamente definiti a livello centralizzato dalla parte padronale
in accordo con CGIL, CISL e UIL. In tal modo, viene
scongiurata la discrepanza tra obiettivi macroeconomici definiti
a livello nazionale tra sindacati e potere politico (riduzione della
spesa pubblica, in particolar modo quella sociale) e
rivendicazioni salariali e normative a livello locale.
1 Con Pubblica Amministrazione si intende l’operatore che produce servizi
collettivi i quali, non formando oggetto di compravendita, non hanno un
prezzo di mercato, attuando inoltre la redistribuzione del reddito e della
ricchezza con operazioni di trasferimento o di erogazioni unilaterali in
denaro o in natura effettuate a beneficio degli altri operatori e settori.
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L’appoggio della CGIL alla restrizione della democrazia
sindacale, propedeutica all’arretramento rivendicativo, è
accompagnato dall’accordo sul cosiddetto salario accessorio,
ossia una quota di remunerazione legata al merito e alla mercé
del dirigente di turno che si trova a esercitare un consistente
potere ad libitum, che non di rado utilizzerà per premiare il
collusivismo degli zelanti rappresentanti designati dai sindacati
confederali.
Infine, CGIL, CISL e UIL, spesso nella veste di
organizzazioni sindacali ammesse alla contrattazione collettiva
nazionale, raggiungono un accordo con l’Aran grazie al quale il
loro ruolo descritto poc’anzi è premiato con il diritto a permessi,
aspettative e distacchi sindacali.
Quali sono gli effetti della nuova stagione concertativa
della CGIL (e delle altre organizzazioni confederali) sul mondo
del lavoro impiegato nelle amministrazioni pubbliche? In primo
luogo, se nel quinquennio 1987-1991 le retribuzioni nella
pubblica amministrazione aumentano del 40.7 percento a fronte
di un incremento dell’inflazione pari al 28.7 percento, tra il 1993
e il 1999 tale valore si ferma al 3.2 percento, mentre l’inflazione
viaggia ad un ritmo annuo del 3.4 percento. In altri termini, la
responsabilità del sindacato si sostanzia nella decurtazione dei
salari reali dei dipendenti pubblici. Scorrendo il conto
economico consolidato delle pubbliche amministrazioni (Tabella
1), si può notare come dopo il 1990 i redditi da lavoro
dipendente abbiano conosciuto un trend discendente, perdendo
2.3 punti percentuali in un decennio. In secondo luogo, la tabella
mostra come le prestazioni sociali a favore dei cittadini abbiano
attraversato una dinamica simile, diminuendo di quasi due punti
percentuali nel medesimo intervallo. I consumi intermedi (i beni
e servizi consumati quali input nel processo produttivo), invece,
hanno raggiunto la soglia del 5 percento a causa dell’aumento
degli acquisti di beni e servizi da fornitori privati e messi a
disposizione direttamente ai beneficiari, il settore delle famiglie.
Tradotto, la privatizzazione e il successivo acquisto di beni e
servizi (prima forniti dalle pubbliche amministrazioni) sul
mercato non ha consentito alcun risparmio, contrariamente alle
previsioni dei governi e dei sindacati consociativi. Al contrario,
pare che questa strategia abbia causato una lievitazione dei costi,
nonostante il drastico ridimensionamento del pubblico in
economia. Infine, gli investimenti fissi lordi, il cui aumento
dovrebbe sfociare nella maggiore efficienza dei servizi offerti
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attraverso la modernizzazione del processo produttivo, hanno
conosciuto una caduta verticale, pari a quasi un punto
percentuale.
Tabella 1. Spese amministrazioni pubbliche 1980-2000 (% PIL)
Fonte: Banca d’Italia 2000, 2010
In definitiva, anche tralasciando il peggioramento delle
condizioni normative e salariali dei dipendenti espulsi dal settore
pubblico in seguito alla privatizzazione d’interi comparti, gli
accordi riguardanti la ristrutturazione del pubblico impiego
concertati tra governo, CGIL, CISL e UIL non si sono nemmeno
tramutati in un miglioramento delle condizioni di lavoro per
coloro rimasti, se non per una quota assai minoritaria che occupa
le gerarchie più elevate, la cui remunerazione è aumentata
esponenzialmente nel corso dell’ultimo ventennio.
3. La restaurazione liberista: l’eliminazione della Scala mobile nel 1992
Fino al 1992, il potere d’acquisto dei lavoratori é
parzialmente difeso dai meccanismi di indicizzazione automatica
delle retribuzioni al costo della vita, la cosiddetta scala mobile.
Ciò significa che i tentativi imprenditoriali di contrastare
l’erosione dei margini di profitto – causata sia dalle conquiste
salariali sia dall’inasprimento della competizione
internazionale – ricorrendo all’aumento dei prezzi di vendita dei
loro prodotti non si traduceva immediatamente in una
diminuzione delle retribuzioni reali. A livello macroeconomico,
questa dinamica si palesava in un’inflazione endemica la cui
causa fu additata dal mondo politico, accademico,
imprenditoriale e sindacale all’irragionevole desiderio di
conservare il potere d’acquisto delle retribuzioni lavorative,
piuttosto che dalla ragionevole esigenza di espansione dei
margini di profitto delle imprese.
1980 1985 1990 1995 2000
Redditi da lavoro dip. 11.0 11.8 12.7 11.2 10.4
Consumi intermedi 3.9 4.9 4.8 6.8 5.0
Prestazioni sociali 14.1 17.2 18.2 16.7 16.4
Investimenti fissi lordi 3.2 3.7 3.3 2.1 2.4
Totale 32.2 37.6 39.0 36.8 34.2
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L’irrigidimento del regime di cambi fissi, caratteristico degli
ultimi anni del Sistema Monetario Europeo accompagnato dalle
‘necessità’ e di allineare il tasso d’inflazione alla media
dell’Europa comunitaria e di ridurre il debito pubblico, offrono
alla triade sindacale la possibilità di ribadire il loro senso di
responsabilità, facendosi carico del risanamento dei conti
pubblici e del recupero di competitività delle imprese. Più nel
dettaglio, i tre sindacati confederali dichiarano di ‘perseguire una
crescente equità nella distribuzione del reddito e la crescita
occupazionale mediante l’allargamento della base produttiva e la
difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni e delle pensioni’. I
mezzi più appropriati per realizzare questi nobili fini sono trovati
nel:
• Seppellimento della scala mobile.
• Blocco degli incrementi salariali sino alla fine del ‘93.
• Come contropartita, la concessione del pagamento una
tantum, indipendentemente dalle qualifica, pari allo 0.7
percento della retribuzione totale, elargito nel gennaio ‘93.
• Aumento dell’IRPEF dell’1 percento necessario a finanziare
l’industria privata.
Il 31 luglio 1992, Bruno Trentin, segretario della CGIL,
firma, assieme alle altre confederazioni, l’accordo che abolisce
l’indicizzazione dei salari al costo della vita, mentre introduce il
blocco salariale per i successivi 18 mesi. Entrambe le
concessioni, sono decise senza aver ottenuto alcun mandato dalla
propria organizzazione. Nonostante la promessa di Giuliano
Amato di mantenere la parità di cambio, il governo svaluta
pesantemente la lira il mese successivo l’accordo. Ma grazie al
blocco dell’indicizzazione salariale, i costi del provvedimento
sono scaricati quasi interamente sulle spalle dei lavoratori: se
fino all’inizio del 1992 il tasso di crescita delle retribuzioni
contrattuali nel settore privato risulta ancora superiore al 9
percento, due anni dopo scende sotto il 2 percento.
Da ultimo, l’aggiustamento dei conti pubblici è
completato dalla manovra finanziaria ‘lacrime e sangue’ da
ottanta miliardi di lire che prevedeva lo smantellamento del
sistema sanitario, le prime misure di riforma delle pensioni con
l’allungamento della vita lavorativa e la decurtazione delle
indennità pensionistiche. L’obiettivo della ‘crescita
occupazionale’ si traduce in realtà nella più grossa ondata di
licenziamenti della storia d’Italia: nel 1993 sono eliminati 556
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mila posti di lavoro, facendo salire la disoccupazione al 12
percento l’anno seguente. La CGIL, tuttavia, dimostra il
proverbiale senso di responsabilità, contenendo il malcontento
sociale. Il tutto, in difesa degli ‘interessi nazionali’.
3.1. I patti di luglio 1993
La sottoscrizione del ‘protocollo sulla politica dei redditi
e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del
lavoro e sul sostegno al sistema produttivo’ avvenuta il 23 luglio
1993 segna un ulteriore passo della CGIL verso i porti del
pensiero liberista. Quest’accordo è la chiave di volta della
realizzazione della politica economica del governo Ciampi, tesa
al recupero della fiducia dei mercati attraverso il contenimento
del costo del lavoro al fine di ‘liberare risorse’ per il
finanziamento delle imprese e per l’attuazione delle
privatizzazioni. Governo e sindacati concertativi s’impegnano a
realizzare politiche macroeconomiche volte a:
• Ridurre l’inflazione ai livelli dei maggiori paesi
industrializzati.
• Diminuire il debito e il deficit statale per garantire la stabilità
valutaria.
• Mantenere un’‘elevata e stabile crescita economica’,
attraverso, ‘politiche di sostegno al sistema produttivo, alla
ricerca e allo sviluppo’.
Il perno attorno a cui ruota l’accordo neo-corporativo è il
tasso d’inflazione programmata (TIP) nella parte riguardante il
contratto nazionale di categoria – quest’ultimo di durata
quadriennale per la materia normativa e biennale per quella
retributiva. Col nuovo sistema, le rivendicazioni salariali non
sono più basate sull’inflazione passata (per recuperare il potere
d’acquisto eroso dall’aumento dei prezzi) bensì sulle previsioni
di governo e banca centrale riguardo l’inflazione futura,
esplicitamente depurata dagli effetti provocati dai cambi valutari,
dai prezzi delle materie prime e da quelli associati a shock
stagionali di breve periodo. Ossia, di un’inflazione programmata
a essere inferiore per costruzione a quella reale, date le
condizioni strutturali dell’economia italiana.
Sul piano contrattuale, il consenso della CGIL sugli
obiettivi di fondo della ventata neo-liberista suggellata a
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Maastricht, si traduce nella rinuncia di ogni sorta di
rivendicazione salariale. 2 Il Grafico 1 mostra gli scarti tra
inflazione reale e programmata dopo gli accordi del 1993.
Grafico 1. Inflazione programmata ed effettiva ‘93-’08 (var. %)
Fonte: elaborazione dati Istat.
La natura dell’accordo facilita la sottostima costante del
governo (tranne il 1997) dell’inflazione programmata, al fine di
stabilire le compatibilità (restrittive) entro cui porre le richieste
salariali del sindacato confederale-concertativo. Nel
quindicennio 1993-2008, i documenti di programmazione
economica e finanziaria dei governi di centro-destra e di centro-
sinistra stimeranno un’inflazione pari al 31.4 percento, quando,
in realtà, l’inflazione reale salirà del 44.6 percento.
I meccanismi di recupero dei differenziali tra inflazione
programmata ed effettiva da compiersi in occasione dei rinnovi
biennali di categoria (clausola di salvaguardia) previsti dal patto
si riveleranno totalmente inefficaci a preservare il potere
d’acquisto dei lavoratori. L’accordo firmato dalla CGIL e dalle
altre organizzazioni concertative, infatti, prevede che per i
periodi di vacanza contrattuale i lavoratori debbano ricevere ‘un
elemento provvisorio della retribuzione’ pari al 30 percento del
tasso d’inflazione programmata per i primi 3 mesi e al 50
percento del tasso programmato per i primi 6. Una volta
raggiunto l’accordo, l’indennità è cancellata dalla busta paga.
Oltre a permettere al padronato, pubblico e privato, di poter far
slittare i rinnovi contrattuali scongiurando pericoli di scioperi
2 Come prevedibile, l’impegno assunto dai datori di lavori di contenere i
prezzi ‘entro livelli necessari alla politica dei redditi’ è presto accantonato.
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(secondo le disposizioni del patto che analizzeremo a breve), il
meccanismo di recupero ex post dell’inflazione si rivelerà assai
sconveniente per i lavoratori: tra il 1992 e il 2002, sebbene la
crescita cumulata delle retribuzioni contrattuali nel settore
privato sia superiore di 5 punti rispetto al TIP, risulta nondimeno
essere 3.6 punti inferiore rispetto all’inflazione effettiva
(Casadio et.al: 2004).
Il secondo livello di contrattazione, aziendale o
territoriale, di durata quadriennale, ‘riguarda materie e istituti
diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del
CCNL’. Giacché gli assetti normativi, retributivi e le procedure
per la presentazione delle piattaforme contrattuali aziendali
vengono definiti in ambito nazionale, diviene problematico per
la contrattazione aziendale – qualora fosse sostenuta da
rappresentanze non allineate alle direttive di CGIL, CISL e UIL
(coloro che firmano i CCNL) – strappare condizioni migliori. Al
limite, i potenziali miglioramenti dovrebbero essere ancorati ad
eventuali aumenti di redditività e produttività delle imprese.
In altre parole, la contrattazione integrativa, oltre a
subordinare pesantemente i livelli periferici (più a contatto con la
base dei lavoratori) ai voleri del sindacato confederale, è uno
strumento attraverso il quale la CGIL riconosce l’opportunità di
accrescere il grado di flessibilità delle retribuzioni rispetto
all’andamento economico delle imprese. I tempi del salario come
variabile indipendente sono lontani anni luce: il benessere del
lavoratore (maggiore salario) è totalmente subordinato
all’interesse dell’impresa (maggior profitto).
Tale strategia neo-corporativa dimostrerà tutti i suoi
limiti: mentre il primo livello si rivelerà totalmente inefficacie a
conservare il potere d’acquisto dei lavoratori, il secondo livello
sarà applicato neppure a un terzo delle imprese nazionali,
costituendo anzi un incentivo per gli imprenditori a puntare sul
basso costo del lavoro piuttosto che sull’aumento degli
investimenti per sostenere i profitti. In definitiva, tra primo e
secondo livello si crea una dinamica perversa: i contratti
nazionali di categoria impongono moderazione salariale. Quelli
di secondo livello dovrebbero agganciare i salari agli aumenti di
produttività delle imprese. Sennonché, la moderazione salariale
del primo livello spingerà gli imprenditori a privilegiare
l’impiego di lavoro (spesso sottopagato) all’intensità di capitale,
determinando la caduta della produttività, il cui aumento, invece,
avrebbe dovuto sostenere la contrattazione di secondo livello.
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Non solo. Oltre ad incentivare i trucchi di bilancio delle
imprese (poiché le erogazioni aggiuntive sono subordinate
all’andamento degli utili aziendali), il secondo livello di
contrattazione non è neppure in grado di redistribuire i pochi
incrementi di produttività raggiunti. Il Grafico sottostante mostra
la dinamica della produttività e dei salari reali nel settore privato.
Grafico 2. Retribuzioni reali pro capite e produttività nel settore
privato (indice 1990=100)
Fonte: Istat, Conti Nazionali. Settore privato al netto dell’agricoltura
Dal biennio 92-93 assistiamo ad una marcata inversione
di tendenza tra le due variabili e da allora la forbice tenderà
sempre più a dilatarsi: su poco meno di venti punti d’aumento in
termini di produttività nel settore privato, solo otto saranno
redistribuiti al lavoro.
Gli obiettivi macro e micro economici coerenti ai nuovi
assetti contrattuali – moderazione e flessibilità salariale –
necessari al conseguimento delle compatibilità stabilite dagli
accordi di Maastricht richiedono la repressione del dissenso che
potrebbe scaturire dagli effetti di tali politiche. Si tratta cioè di
ridurre ai minimi termini l’azione delle strutture organizzative
esterne a CGIL, CISL e UIL e di reprimere le spinte conflittuali
provenienti dal mondo del lavoro. Tali obiettivi verranno
raggiunti attraverso la definizione di una:
• Rappresentanza sindacale che raccordi gli intenti delle
organizzazioni concertative che stipulano i contratti
nazionali e le rappresentanze aziendali titolari delle deleghe
affidate dagli stessi contratti.
• Estensione della legge antisciopero a tutti i lavoratori da
applicare nei periodi più caldi dei rinnovi contrattuali,
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quando l’azione di sciopero servirebbe proprio a strappare
condizioni migliorative alla controparte.
In primo luogo, l’assetto contrattuale descritto in precedenza
richiede il controllo confederale-concertativo sulle strutture
decentrate. Nella parte patto relativa alla rappresentanza
sindacale aziendale si afferma senza ambiguità che ‘al fine di
assicurare il necessario raccordo tra le organizzazioni stipulanti i
contratti nazionali e le rappresentanze aziendali titolari delle
deleghe assegnate dai medesimi, la composizione delle
rappresentanze deriva per due terzi dall’elezione da parte di tutti
i lavoratori, e per un terzo da designazione da parte delle
organizzazioni stipulanti il CCNL, che hanno presentato liste in
proporzione ai voti ottenuti.’ La Cgil, in compagnia di Cisl e Uil,
è mossa dal bisogno di garantire la rappresentanza dei propri
sindacalisti sui luoghi di lavoro, gli unici in grado di recepire le
linee guida dettate dai livelli superiori. Per questa ragione, in
maniera simile a quanto avvenuto nel pubblico impiego, il
sindacato concertativo beneficerà di una quota di delegati sui
luoghi di lavoro, indipendentemente dal consenso ottenuto dai
lavoratori.
In secondo luogo, Cgil, Cisl e Uil si impegnano a estendere
alcuni provvedimenti della legge antisciopero ai lavoratori di
tutte le categorie del settore privato. In sostanza, il sindacato
concertativo garantisce che nei tre mesi antecedenti alla
presentazione delle piattaforme e nel primo mese successivo alla
scadenza dei contratti, non potranno essere intraprese azioni
conflittuali.
Nella parte dell’accordo relativa le politiche del lavoro e
al sostegno al sistema produttivo, la CGIL, assieme alle altre
associazioni firmatarie, fornisce il proprio consenso riguardo la
generale precarizzazione dei rapporti lavorativi: dal rilancio
dell’apprendistato all’uso generalizzato dei contratti di
formazione lavoro, dalla riduzione dei salari per i neo-assunti,
fino all’affitto di manodopera gestito da apposite agenzie.
L’opera sarà completata quattro anni dopo, con l’accordo neo-
corporativo del settembre 1996 alla base della legge 196/1997,
più comunemente conosciuta come Pacchetto Treu.
Inoltre, la CGIL acconsente ai provvedimenti
concernenti gli sgravi fiscali alle imprese al fine di ‘conseguire e
mantenere la crescita occupazionale’. In realtà, da lì a poco la
disoccupazione supererà il 12 percento, mentre si da il via libera
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a processi di ristrutturazione sostenuti dallo Stato, attraverso
l’uso di ‘ammortizzatori sociali’, quali cassa integrazione e una
mai avvenuta ricollocazione della forza lavoro in mobilità.
Per quanto attiene al sostegno del sistema produttivo, le
organizzazioni concertative convengono a realizzare ‘un più
intenso e diffuso progresso tecnologico’, strutturando l’attività di
ricerca e di sperimentazione per le industrie, i servizi, il
commercio, l’agricoltura con ‘una maggiore interconnessione tra
pubblico e privato’. L’auspicata interconnessione si basa su un
dato preciso: siccome la ricerca in Italia è sviluppata quasi
interamente dal settore pubblico, si cerca di mettere a
disposizione del privato a costo zero queste risorse. Nei fatti,
l’Italia rimarrà il fanalino di coda tra i paesi OCSE in quanto a
spese in ricerca e sviluppo (data la maggior convenienza
dell’impiego di manodopera a basso costo, frutto della nuova
politica dei redditi), mentre le università diverranno centri di
pratiche clientelari dove i singoli docenti gestiranno
privatamente il rapporto tra fondi pubblici e interessi privati.
In definitiva, se gli accordi di luglio hanno dato avvio,
contrariamente alle premesse, a un rallentamento della
produttività, quella poca guadagnata non è stata per nulla
ridistribuita. Ciò ha significato una gigantesca ridistribuzione dai
salari ai profitti. Sembrerebbe che l’inflazione programmata sia
servita solo a programmare la riduzione dei salari e a consegnare
ai profitti tutto l’aumento di efficienza. Il Grafico 3 mostra la
quota dei salari sul PIL in Italia, Gran Bretagna, Francia,
Germania e Francia, definiti come la proporzione tra costo totale
del lavoro e valore aggiunto.
Grafico 3. Quota dei salari sul PIL (in percentuale)
62
67
72
1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002
U.K. Francia Germania Spagna Italia
Fonte: The Conference Board Total Economy Database, January 2010
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Se ancora nel 1992 l’Italia, rispetto agli altri paesi
europei di dimensione comparabile, poteva vantare la
distribuzione del reddito più favorevole al fattore lavoro, dopo
l’inaugurazione dell’era neo-corporativa assistiamo a un
drammatico trend discendente: nel decennio 1992-2002 la quota
dei redditi da lavoro sul Pil scenderà di ben 9 punti percentuali,
dal 72 al 63 percento. Durante lo stesso intervallo, la discesa si
fermerà a poco più di 3 punti in Gran Bretagna, 2 punti in
Francia e Germania e 4 punti percentuali in Spagna.
4. La riforma delle pensioni del 1995
L’appoggio della CGIL alla riforma delle pensioni del 1995
conferma il suo indirizzo liberista. La legge che il parlamento
approverà nel luglio di quell’anno troverà la sua origine da un
progetto di riforma steso dalle burocrazie del sindacato
confederale. Queste ultime condividevano (e condividono
tuttora) le linee guida dettate dal Fondo Monetario
Internazionale e dalla Banca Mondiale, che assegnano un ‘ruolo
fondamentale alle parti sociali nella promozione e nello sviluppo
della previdenza complementare’.3
Anche la CGIL, infatti, condivide l’idea liberista secondo
cui è necessario ridurre il primo pilastro pensionistico pubblico a
favore del secondo pilastro privato attraverso lo sviluppo dei
fondi pensioni, rafforzando in tal guisa i processi di
finanziarizzazione dell’economia. Più nello specifico, la
riduzione delle pensioni pubbliche aumenterebbe il risparmio
nazionale da mettere a disposizione delle oligarchie finanziarie
per i loro investimenti. Siccome ciò non può accadere con il si-
stema pubblico a ripartizione (perché non ci sono capitali
accumulati) si punta a ridurlo per fare spazio ai fondi pensione.
Sono così raggiunti due risultati: da un lato si concentra il
capitale monetario disperso al fine d’investirlo sulle piazze
finanziarie e dall’altro si supera la diffidenza individuale dei
lavoratori per gli investimenti borsistici, affidandoli a operatori
specializzati. La riforma Dini rappresenta così il primo tassello
della privatizzazione delle pensioni e per il loro impiego
3 ‘La CGIL ha sempre ritenuto che un sistema misto – e a ripartizione
(quello pubblico) e a capitalizzazione (quello privato) – sia uno dei
fondamenti degli interventi di adeguamento e di riordino del sistema
previdenziale obbligatorio portato avanti in questi anni dai governi che si
sono succeduti, dal 1995 al 2000’ (CGIL 2004)
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finanziario. Come comprensibile, le dirigenze sindacali sentono
il bisogno di giustificare sia l’avvio della previdenza
complementare sia la decurtazione delle pensioni pubbliche
additando la necessità di riequilibrare il sistema previdenziale
del nostro paese, a loro detta insostenibile. Tuttavia i dati che si
riferiscono all’andamento della spesa sociale in Italia dal 1990 al
1995 (Grafico 1) e la quota della spesa pensionistica sul prodotto
interno lordo nel 1995 (Grafico 2) sconfessano tali motivazioni
emergenziali.
In primo luogo, dal 1990 al 1995 la spesa sociale italiana,
all’interno della quale la spesa previdenziale è compresa, non
attraversa nessuna esplosione.
Grafico 4. Spesa sociale sul PIL 1990-1995 (in %)
17
22
27
1990 1991 1992 1993 1994 1995
U.K. Francia Germania Spagna Italia
Fonte: elaborazione su dati OECD
Al contrario, si assiste a una leggera flessione, dal
momento che essa passa dal 19.95 al 19.9 sul totale del PIL. A
livello comparato, nel 1995 la spesa sociale italiana è
sensibilmente inferiore ai livelli registrati in Francia (28.6
percento) e Germania (26.5 percento), poco minore di quella di
un paese ancora arretrato come la Spagna (21.4 percento) e
addirittura sotto quella inglese – che pur aveva subito gli attacchi
del duo conservatore Thatcher-Major.
In secondo luogo, i dati ci dicono che i livelli di spesa
pensionistica italiana non sono affetti da alcuna anomalia. Nel
1995, l’incidenza delle pensioni italiane sul Pil ammonta al 9.3
percento, in Spagna circa un punto sotto, mentre Francia e
Germania rispettivamente un punto e 1.3 punti superiori. Solo la
Gran Bretagna presenta livelli inferiori, a causa del maggiore
sviluppo del sistema pensionistico privato.
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Grafico 5. Spesa pensionistica sul Pil nel 1995 (in %)
Fonte: elaborazione su dati OECD
I dati utilizzati dalle organizzazioni sindacali e dal potere
politico-economico, tuttavia, denotano una situazione ben più
grave, riscontrando addirittura di 2 o 3 punti percentuali
superiori ai livelli qui presentati. Tuttavia, le statistiche italiane,
diversamente da quelle fornite da OECD ed EUROSTAT non
separano le spese di assistenza da quelle previdenziali. In altre
parole, siccome in Italia gli istituti previdenziali si accollano
indebitamente le spesa assistenziali (cassa integrazione, sussidi
di disoccupazione e mobilità, assegni di accompagnamento per
anziani disabili e pensioni minime, sussidi per superstiti, TFR,
ecc.) che negli altri paesi sono erogate da istituti separati o
finanziate dalla fiscalità generale, è normale riscontrare
un’’anomia italiana’. Però, una volta depurato il dato italiano
dalle spese assistenziali, vediamo come il nostro paese presenti
livelli di spesa ben al di sotto degli stati più avanzati d’Europa.
Un’altra motivazione addotta circa le necessità di ridurre
il pilastro pubblico risiede nelle ragioni demografiche, per cui
l’inesorabile invecchiamento della popolazione renderebbe
insostenibile il sistema pensionistico. Tralasciando che tali
previsioni non considerino l’aumento di produttività
dell’economia, le organizzazioni sindacali – piuttosto di proporre
di compensare l’aumento dei pensionati sul numero dei
lavoratori attraverso una corrispondente redistribuzione di
reddito a favore dei primi – convengono con il governo ‘tecnico’
presieduto da Dini sulla necessità di ridurre il rapporto tra
pensione e redistribuzione. Ciò è concretamente perseguito
attraverso l’adozione del sistema contributivo che, oltre ad
avvantaggiare enormemente lo stato – che beneficia dei montanti
retributivi lasciati in uso dai lavoratori per l’intera durata della
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loro carriera – dimezza le pensioni future: una volta a regime, il
nuovo sistema garantirà ai ‘privilegiati’ che abbiano maturato
almeno 35 anni di anzianità contributiva appena il 45 percento
del salario. I più ‘sfortunati’, ossia coloro impiegati con contratti
parasubordinati o con una storia lavorativa intermittente,
rischieranno di vedersi una pensione vicina al 35 percento del
salario percepito.
Non ultimo, nel caso in cui le misure menzionate non
fossero sufficienti a consentire un risparmio annuo almeno pari a
5 miliardi di euro, scatterebbe la ‘clausola di salvaguardia’ che
otterrebbe l’obiettivo di utilizzare il taglio delle pensioni per
diminuire il debito pubblico. In altre parole, la CGIL ha firmato
una cambiale in bianco: proprio da quest’ultima si misura si
comprende che l’obiettivo non sia salvaguardare i conti pubblici,
ma tagliare il pilastro pensionistico pubblico.
Escluso l’allargamento della protezione previdenziale ai
lavoratori atipici con l’introduzione di un apposito fondo
previdenziale – tra l’altro finanziato da una copertura totalmente
insufficiente – l’appoggio sindacale alla ‘riforma Dini’ non
prevede altre concessioni. Si tratta di un gioco a somma negativa
per i lavoratori. Il ‘coraggio’ sindacale, infatti, sostiene anche gli
aspetti della riforma pensionistica che, seppure di minore portata
rispetto al passaggio del metodo contributivo, prevedono
ulteriore restrizioni per i lavoratori odierni, futuri pensionati.
Vediamoli.
Innanzitutto, sono eliminate le pensioni di anzianità,
quelle che si basano sugli anni di lavoro. Le pensioni divengono
pensioni di vecchiaia, l’età media di riferimento è quella di 62
anni per andare in pensione senza penalizzazioni e chi deciderà
di ritirarsi prima sarà pesantemente penalizzato. Scorgendo un
documento ufficiale della CGIL steso nel 2004, tuttavia, questo
sarebbe a tutto vantaggio dei lavoratori, che così potranno
scegliere quanto lavorare secondo le loro esigenze. Secondo,
sono ridimensionati i trattamenti d’invalidità e di reversibilità
(per il coniuge, per i figli minori e i familiari a carico). Terzo,
non è prevista alcuna norma specifica riguardo ai lavori usuranti.
Quarto, l’accordo governo-sindacati non interessa le casse
autonome dei liberi professionisti: avvocati, commercialisti,
consulenti del lavoro, geometri, ingegneri, notai, architetti,
farmacisti, giornalisti, medici, rappresentanti di commercio,
veterinari. Quinto, non ci sarà più alcuna distinzione tra età
pensionabile di uomini e donne sebbene su queste ultime gravino
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ulteriori compiti domestici e di cura. Sesto, sono previsti
incentivi a rimanere al lavoro: nonostante la disoccupazione
giovanile in Italia sia la più elevata tra i paesi OECD e i salari
nel loro insieme tra i più bassi, si cerca di calmierare il mercato
del lavoro con un allargamento dell’offerta di lavoro. Da ultimo,
dopo aver esteso il Tfr anche ai dipendenti pubblici, la legge
prevede l’attivazione dei fondi pensionistici chiusi istituiti con i
contratti nazionali di lavoro e identifica nel Tfr lo strumento base
per il loro finanziamento. Appare chiaro, quindi, come i futuri
tentativi dei governi Berlusconi e Prodi di gettare il salario
differito sui mercati finanziari fosse già inscritto nella riforma
Dini, controfirmata dai sindacati concertativi. Non solo. La legge
335 del ‘95 prevede che questi nuovi fondi pensione beneficino
di ampie esenzioni fiscali, al fine di favorirne lo sviluppo.
I provvedimenti della riforma Dini, fieramente
rivendicati dalla CGIL, nel corso del decennio successivo hanno
consentito miglioramenti di bilancio pubblico per una cifra
maggiore di 11 miliardi di euro rispetto alle previsioni iniziali
del legislatore. Il prezzo da pagare, tuttavia, è stato alto. Sebbene
la CGIL sostenga che la legge 335/1995 abbia saputo ‘coniugare
un progetto di radicale innovazione del nostro sistema
pensionistico con i valori fondamentali dell’equità e della
solidarietà’, favorire ‘l’emersione dell’evasione contributiva’ e
impedire ‘abusi ed inique redistribuzioni di reddito dai lavoratori
con percorsi lavorativi piatti e stabili ai lavoratori con carriere
dinamiche e soggette ad aumenti rilevanti’, scorgendo i dati
parrebbe riscontrare una realtà meno rosea.
Primo, la nuova riforma ha provocato la rottura della
solidarietà intergenerazionale: la disparità di trattamento in senso
peggiorativo, infatti, si applicava completamente ai giovani al
primo impiego, mentre risultava parzialmente innovativa per i
lavoratori che avessero maturato non meno di 18 anni di
contribuzione, rimanendo invariata per coloro che avessero
oltrepassato 18 anni di contribuzione. Secondo, abbiamo
assistito a una sostanziale decurtazione delle pensioni attuali se è
vero, com’è vero, che nel 2008 il 45,9 percento delle pensioni
aveva importi mensili inferiori a 500 euro e il 26 percento
importi mensili compresi tra 500 e mille euro (Istat 2010) Terzo,
la riforma é stata totalmente inefficacie nel contrastare l’elusione
contributiva. Semmai, l’ha incoraggiata giacché stabiliva che la
copertura assicurativa dei lavoratori, non garantita dai datori di
lavoro, fosse posta totalmente a carico dei primi, ma ‘senza oneri
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a carico dello Stato e secondo criteri attuariali’, per un limite
massimo di tre anni. In particolare si fa riferimento a
‘formazione professionale, studio e ricerca e per le tipologie
d’inserimento nel mercato del lavoro ove non comportanti
rapporti di lavoro assistiti da obblighi assicurativi, nei casi di
lavori discontinui, saltuari, precari e stagionali per i periodi
intercorrenti non coperti da tali obblighi assicurativi’. Queste
tipologie di lavoro – che comportano prestazioni a salario diretto
ridotto e un’infima contribuzione – saranno incentivate l’anno
seguente dal ‘Patto per il lavoro’, legalizzando in tal modo
l’evasione contributiva. E infine, pare che non si sia evitato
nemmeno il rischio di ‘abusi ed inique redistribuzioni di reddito
dai lavoratori con percorsi lavorativi piatti e stabili ai lavoratori
con carriere dinamiche e soggette ad aumenti rilevanti’ dal
momento che tra le nuove generazioni tali ‘carriere dinamiche’
rappresentano per lo più una mera utopia.
5. Conclusioni
I gruppi dirigenti della Confederazione Generale Italiana del
Lavoro (CGIL) hanno giocato un ruolo primario nella
ristrutturazione liberista dell’economia italiana che ha preso
avvio dai primi anni Novanta. In quest’epoca, viene tracciato un
sentiero lastricato da pesanti concessioni al mondo
imprenditoriale e dallo smantellamento dei diritti lavorativi e
sociali. Il ruolo collusivo del sindacato confederale non è
percepibile solamente dalla pace sociale garantita alla
controparte padronale, ma anche (e soprattutto) dal ruolo attivo
nell’elaborazione del nuovo setting istituzionale: gli organi
direttivi della CGIL sono parte attiva nella definizione della
legge anti-sciopero e nella privatizzazione delle relazioni di
lavoro nel pubblico impiego. Reprimono la democrazia sindacale
caldeggiando la riforma della rappresentanza sia sui luoghi di
lavoro sia a livello centralizzato, necessaria a controllare il
dissenso sociale che loro stessi hanno contribuito
(accidentalmente, sia chiaro) a creare, sostenendo le manovre
‘lacrime e sangue’ del duo Amato-Ciampi. La stagnazione dei
salari, di cui oggi tanti dirigenti della Cgil si lamentano, non è
altro che il frutto, da loro stessi coltivato, dell’uccisione della
scala mobile che, oltre a divaricare drammaticamente la
dinamica della produttività da quella dei salari, ha reso più
conveniente impiegare lavoro sotto-pagato piuttosto che
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investire in macchine e innovazione. Non ultimo, la decantata
‘Riforma’ Dini, oltre a sacrificare le nuove generazioni
‘donandole’ pensioni da fame, ha aperto la strada al business dei
fondi pensione, pronti a essere gettati sui mercati finanziari.
Riguardo quest’ultimo punto, quel che più preoccupa è il
conflitto d’interesse all’interno del quale la Cgil, assieme agli
altri confederali, si trova immersa: da un lato, come istituzione
che co-gestisce gli investimenti dei fondi pensione privati, si
deve conformare a criteri di efficienza propri dei mercati
finanziari: bassa inflazione (salari sotto il livello di sussistenza),
stabilità sociale (il conflitto non è tollerato), smantellamento del
welfare (maggiore opportunità di lucro dei privati nei settori
oligopolistici delle public utilities) ed alta produttività (aumento
dei ritmi di lavoro e licenziamenti facili). Dall’altro lato, come
istituzione volta alla protezione degli interessi dei lavoratori,
dovrebbe tendere verso obiettivi diametralmente opposti, ossia
alti salari, azioni conflittuali volte al raggiungimento di una
distribuzione del reddito più favorevole, rallentamento dei ritmi
di lavoro (o, detto altrimenti, miglioramento delle condizioni di
vita), estensione dello stato sociale e salvaguardia
dell’occupazione. A oggi, pare che gli imperativi finanziari siano
di gran lunga quelli privilegiati.
Bibliografia
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Banca d’Italia (2010), Bollettino economico, Roma.
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1994-2005, Paris.
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