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LA PASSIONE DI CRISTO IN UNA CANTATA DI BUXTEHUDE CONTEMPLAZIONE E AFFETTI

May 14, 2023

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LIM

Marta Crippa, Le trascrizioni di Padre Lorenzo Tardo dell’inno Ακαθιστοϛ; Mat-teo Garzetti, Lucernari ambrosiani: descrizione liturgica. Et fit lumen infinitum; Gionata Brusa, Una recente scoperta: l’Innario ambrosiano di Trino vercellese; Silvia Lombardi, I codici musicali di Santa Felicita a Firenze; Angelo Mafucci, Il messale di Guido d’Arezzo; Ezio Aimasso, L’antifonario iemale della Chiesa vercellese (Vercelli, Biblioteca Capitolare LXX); Giacomo Baroffio, Variabilità dell’organico nell’esecuzione del canto piano tra IX e XIV secolo; Mattia Rossi, Sull’alternatim e su un passo dantesco; Girolamo Dal Maso, Da cuore a cuore. La passione di Cristo in una cantata di Buxtehude: contemplazione e affetti; Giulio Osto, Una teologia ben temperata. Pierangelo Sequeri e la musica; Stabat Mater

Marco Gozzi, Lo Stabat mater e il canto fratto: alcune testimonianze francescane; Nicola Tangari, Alcune versioni dello Stabat mater nei libri corali conservati a Montecassino; Mauro Balma, Stabat Mater nell’area ligure: nuove ricerche (1994 - 2009); Fulvia Caruso, I canti della Settimana Santa delle Confraternite di Latera (VT) tra continuità e trasformazione; Ignazio Macchiarella, Note sullo Stabat Mater nelle pratiche dell’oralità musicale in Sardegna; Roberto Milled-du, Il canto dell’assenza. Lo Stabat Mater nel contesto rituale della Settimana Santa a Bosa

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NUOVA SERIEXXXIII – 20121-2

LIBRERIA MUSICALE ITALIANA

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Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 290 del 24/9/1979

Direttore / EditorGiacomo Baroffio

Direttore responsabile / Legal responsibilitySilvio Malgarini

Direzione e redazione / Editorial officeLIM Editrice srlVia di Arsina 296/f – I-55100 – Lucca

Grafica / GraphicsUgo Giani

Abbonamenti e arretrati / Subscriptions and back issues (per anno, spedizione inclusa / per year, postage included)

Italia / Italy € 47,00Estero / abroad € 60,00Numero singolo / single issue € 26,00

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Sommario

MICHEL HUGLO († 13 MAGGIO 2012) 5ANSELMO SUSCA († 1 OTTOBRE 2012) 11

SAGGI

Marta CrippaLE TRASCRIZIONI DI PADRE LORENZO TARDO DELL’INNO ΑΚΑΘΙΣΤΟΣ 15

Matteo GarzettiLUCERNARI AMBROSIANI: DESCRIZIONE LITURGICA.ET FIT LUMEN INFINITUM 49

Gionata BrusaUNA RECENTE SCOPERTA: L’INNARIO AMBROSIANO DI TRINO VERCELLESE 83

Silvia LombardiI CODICI MUSICALI DI SANTA FELICITA A FIRENZE 85

Angelo MafucciIL MESSALE DI GUIDO D’AREZZO 125

Ezio AimassoL’ANTIFONARIO IEMALE DELLA CHIESA VERCELLESE

(VERCELLI, BIBLIOTECA CAPITOLARE LXX) 129

Giacomo BaroffioVARIABILITÀ DELL’ORGANICO NELL’ESECUZIONE DEL CANTO PIANO TRA IX E XIV SECOLO 265

Mattia RossiSULL’ALTERNATIM E SU UN PASSO DANTESCO 271

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Girolamo Dal MasoDA CUORE A CUORE. LA PASSIONE DI CRISTO IN UNA CANTATA DI BUXTEHUDE: CONTEMPLAZIONE E AFFETTI 277

Giulio OstoUNA TEOLOGIA BEN TEMPERATA. PIERANGELO SEQUERI E LA MUSICA 323

STABAT MATER

Marco GozziLO STABAT MATER E IL CANTO FRATTO:ALCUNE TESTIMONIANZE FRANCESCANE 359

Nicola TangariALCUNE VERSIONI DELLO STABAT MATER

NEI LIBRI CORALI CONSERVATI A MONTECASSINO 401

Mauro BalmaSTABAT MATER NELL’AREA LIGURE: NUOVE RICERCHE (1994 - 2009) 413

Fulvia CarusoI CANTI DELLA SETTIMANA SANTA DELLE CONFRATERNITE DI LATERA (VT) TRA CONTINUITÀ E TRASFORMAZIONE 429

Ignazio MacchiarellaNOTE SULLO STABAT MATER NELLE PRATICHE

DELL’ORALITÀ MUSICALE IN SARDEGNA 445

Roberto MilledduIL CANTO DELL’ASSENZA. LO STABAT MATER NEL CONTESTO RITUALE

DELLA SETTIMANA SANTA A BOSA 459

RECENSIONI E SEGNALAZIONI 475

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Girolamo Dal Maso

DA CUORE A CUORE

LA PASSIONE DI CRISTO IN UNA CANTATA DI BUXTEHUDE: CONTEMPLAZIONE E AFFETTI

La Cantata «Membra Iesu Nostri»1 nasce all’insegna di una sua peculiare singolarità. Perfettamente compiuta in sé, è ugualmente aperta a una serie di rimandi. Apre percorsi devoti ed eruditi di lettura, insieme monade e vettore sorprendente e sorpreso di relazionalità. In essa attitudini diverse sanno coesistere. È una cantata – sebbene il termine non sia impiegato da Buxtehude2 – profondamente unitaria anche se composta da sette cantate. È un’opera vocale scritta da un organista, frutto – quindi – di uno spazio di libertà e creatività personale coltivato da Buxtehude lungo tutto l’arco della sua carriera. È dedicata a un carissimo amico che probabilmente l’au-tore non ha mai incontrato.3 Il testo si rifà a una poesia latina medioevale della tradizione cistercense adattata da un musicista che opera in una delle

1 BuxWV 75. D’ora in poi abbreviato MJN. Poiché la Cantata è un insieme di sette can-tate, useremo ‘Cantata’ per riferirci all’opera nel suo insieme. Quando invece si parle-rà delle singole parti e della cantata come genere musicale useremo ‘cantata’. Per una presentazione di MJN rinviamo al lavoro della Snyder, punto di riferimento bibliogra-fico a proposito di Buxtehude. Nelle citazioni a seguire, tra parentesi, riportiamo le pagine dedicate a MJN in modo specifico. KERALA J. SNYDER, Dieterich Buxtehude. Or-ganist in Lübeck, Rochester, University of Rochester Press 2007, Revised Edition, 198-200; ANDRÉ PIRRO, Dietrich Buxtehude, Genève, Minkoff 1976 (Ripr. facs. dell’ed. Fisc-hbacher, Paris 1913); ERIC LEBRUN, Dietrich Buxtehude, Paris, Bleu Nuit 2006, 127-132; GILLES CANTAGREL, Dietrich Buxtehude et la musique en Allemagne du Nord dans le seconde moitié du XVIIe siècle, Paris, Fayard 2006, 342-349; SERGIO MIRABELLI, Dieterich Buxtehude, Palermo, L’Epos 2003, 127s; MARTIAL LEROUX, Dietrich Buxtehude, in: EDMOND LEMAÎTRE (ed.), Guide de la musique sacrée et chorale profane. L’âge baroque (1600-1750), Paris, Fayard 1992, 219-238: 234s; JEAN-FRANÇOIS LABIE, Le visage du Christ dans la musique baroque, Paris, Fayard-Desclée 1992, 157-162.

2 SNYDER, Dieterich Buxtehude, 153.3 Gustav Düben (Stoccolma, 1629-1690), ‘nobile ed onorato amico’, fu Kapellmeister

della Cappella Reale di Stoccolma e, nella stessa capitale, organista della Chiesa tede-sca di S. Gertrude.

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roccaforti dell’ortodossia luterana, Lubecca.4 Antico e nuovo, vicino e lon-tano si richiamano e si armonizzano a vicenda, senza soste, in questo gio-iello sfaccettato di equilibrio formale, che sa rimanere in sé nello stesso momento in cui apre e si apre a trapassi sempre nuovi.

Vogliamo, in queste pagine, rintracciare alcuni fili interpretativi che nella loro varietà riescano, come l’opera presa in considerazione, a essere tessuti insieme in un tutto unitario e articolato. Ciò che potrebbe spezzare l’incanto unitario della Cantata è, in realtà, quanto le permette di vivere come organicità viva. Il gioco tra unità e relazione, tra identità e apertura trova in Buxtehude un raffinato interprete che, come giocatore e suona-tore, sa usare le regole del gioco e della composizione portandole ai loro esiti estremi,5 pur senza infrangerle. Questa fluidità, che è scioltezza e pure consistenza, è uno dei tratti peculiari del barocco,6 per il quale ogni opera è piega e monade.7 Piega, come movimento che porta a disegnare e configu-rare una nuova forma, come attenzione ai riflessi cangianti, come increspa-tura dove l’altro ha un suo accesso; monade, come compiutezza conclusa ma ricca di rinvii fuori di sé. MJN si staglia quindi come singolarità, come fisionomia propria, ma con discrezione, in una danza con quanto la pre-

4 Per una presentazione della vita culturale e religiosa di Lubecca ai tempi di Buxtehu-de, cfr. SNYDER, Dieterich Buxtehude, 36-70 e, più mirato alla musica sacra, cfr. GEOFFREY WEBBER, North german Church music in the age of Buxtehude, Oxford, Cla-rendon 1996.

5 Tale dinamismo propulsivo va inteso non in modo assoluto, ma contestualizzato al periodo in cui si colloca. In questo caso, le regole del gioco sono ancora in evoluzione e in via di definizione. Come esempi, possono valere due delle forme in cui Buxtehu-de si esprime con maggior scioltezza, quali – per la musica vocale – la cantata e – per la musica per organo – il preludio.

6 Tra le svariate possibilità di confronto ermeneutico, in queste pagine ci rifaremo alle suggestioni di Rousset e di Charvet, a cui affiancare per l’aspetto musicale gli studi di Labie e Sequeri. Ovviamente la discussione su cosa sia barocco, dove inizi e dove fini -sca, non può essere sviluppata in questa sede. Le nostre opzioni sono andate a quei testi che meglio ci sembra si adattino a un approccio interdisciplinare, tratto questo precipuamente barocco. Per inciso, notiamo che molti dei riferimenti bibliografici ol-tre che carattere interdisciplinare hanno un respiro europeo. JEAN ROUSSET, La littérature de l’âge baroque en France. Circé et le paon , Paris, José Corti 1953; JEAN ROUSSET, L’Intérieur et l’Extérieur. Essais sur la poésie et sur le théâtre au XVIIe siècle , Paris, José Corti 1968; JEAN-LOUP CHARVET, L’eloquenza delle lacrime, Milano, Medusa 2001; JEAN-LOUP CHARVET, La voce delle passioni, Milano, Medusa 2003; LABIE, Le visage du Christ; PIERANGELO SEQUERI, Musica e mistica. Percorsi nella storia occidentale delle pratiche estetiche e religiose, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2005 (in modo particolare cfr. L’evento fondatore e la rappresentazione sacra: mistica narrativa. Schütz, Bach: 230-240).

7 GILLE DELEUZE, La piega. Leibniz e il barocco (nuova edizione a cura di Davide Tarizzo), Torino, Einaudi 2004.

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cede e la segue8. Si colloca in modo incisivo per la bellezza dei risultati e, insieme, come pietra miliare, che marca un cammino, anello “fantastico”9 tra Schutz e Bach, come la vecchia storiografia riconosceva, ma anche come perno, come centro autonomo, punto di riferimento di forze polari. Un anello che merita, quindi, di essere considerato in sé e non solo per la catena aurea in cui sempre è stato ammirato.

1. Il mondo della Cantata

Il contesto storico, culturale, artistico, musicale e religioso in cui MJN si colloca è molto variegato. Estrarre i molteplici fili che legano la Cantata a questi multiformi paesaggi può portare il rischio di raccogliere una serie di materiali grezzi, per quanto preziosi, da raggomitolare a parte per farne la conta. Questi fili pure splendidi esistono però, dal punto di vista della Can-tata da cui sono estratti, solo come potenzialità. Presi in sé non comuni-cano la forza e la bellezza della trama in cui sono inseriti. L’ermeneutica del corpo della Cantata, se vuole essere una anatomia, lo può essere solo in quanto contemplazione, una visione interiore, una intelligenza del testo, che non sia dissezione, ma che sappia infilarsi nelle delicate e discrete trame della composizione in modo non distruttivo, non per riportarle in vita (giacchè ha in sé una sua certa immortalità) ma per coglierne e in-tuirne i movimenti vitali.10 Il mondo della Cantata, come serie di cerchi che

8 È interessante, al riguardo, vedere come mentre, in passato, gli storici musicali fosse-ro più attenti a cogliere l’influsso di Buxtehude nei suoi posteri (in modo particolare Bach; cfr., ad esempio, PETER WILLAMS, The organ music of J. S. Bach, Cambridge, Cam-bridge University Press 20032 [19801], 37-40, 126-133, 260-295, 499-526), ora sono più attenti a vagliare le sue fonti (cfr. WEBBER, North german Church).

9 L’aggettivo, non casuale, si riferisce a uno stile compositivo (‘Stylus Phantastikus’), tra i tanti che i trattati di retorica musicali tra Sei e Settecento campionano, che spes-so – poco meno che stereotipo critico – viene utilizzato come riferimento chiave allo stile, invero assai originale, di Buxtehude. SNYDER, Dieterich Buxtehude, 250-260; MIRABELLI, Dieterich Buxtehude, 53s.

10 Cosa intendiamo per anatomia lo mostrerà – si spera – il percorso che ci apprestiamo a fare. Tra i punti di riferimento al riguardo possiamo citare, in via di una approssi -mazione su cosa anatomia potesse essere nel Seicento, alcuni lavori, eterogenei tra loro, ma proprio per questo interessanti per il nostro discorso, di Van Delft, Bergamo e Pozzi. In modo particolare rileviamo i punti di osservazione quasi contrapposti di Van Delft e Bergamo, come a creare un campo ellittico in cui due centri o punti di os-servazione, che possiamo definire grossomodo come morale e mistico, si relazionano, e, da parte di Pozzi, la deriva sul cuore che – come si vedrà – è decisiva nell’ermeneu-tica di MJN. LOUIS VAN DELFT, Littérature et anatomie, in LOUIS VAN DELFT, Littérature et antropologie. Nature humaine et caractère à l’âge classique, Paris, Presse Universitaire de France 1993, 182-262; LOUIS VAN DELFT, Les spectateurs de la vie. Généalogie du regard moraliste, Québec, Les Press de l’Université de Laval 2005; MINO BERGAMO, L’anatomia dell’anima. Da François de Sales a Fénelon, Bologna, Il Mulino 1991;

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si allargano a partire dal suo cuore, può essere colto in una serie di riferi-menti storici e culturali.

1.1 L’opera di Buxtehude

Una prima contestualizzazione di MJN, la più immediata, è all’interno dell’opera vocale di Buxtehude. Delle sue 122 composizione per voce e strumenti, 86 sono in tedesco e 33 in latino. A queste se ne aggiungono due in svedese e una in italiano. I testi sono per la maggior parte versetti tratti dalla Bibbia tedesca, con una preferenza per il libro dei Salmi (35 ricor-renze) o versi di poesia in strofe, tra cui risaltano alcuni classici testi devo-zionali in latino (come i celeberrimi «Salve mundi salutare» e «Jesu dulcis memoria» attribuiti a S. Bernardo) e – ovviamente – i corali (32 esempi), tra cui alcuni di Lutero, di Rist, di Homburg, ma anche con testi del mistico Johann Scheffler, medico convertitosi al cattolicesimo, autore del «Cheru-bino serafico» e di numerosi inni devoti. Prima ancora di prendere in con-siderazione le fonti dirette di MJN sappiamo così che questa si inserisce in un’opera che da una parte manifesta in pieno la propria canonicità lute-rana, dall’altra – in sintonia con lo stesso spirito di Lutero – non cessa di attingere a tradizioni spirituali intense anche se apparentemente lontane. Sappiamo, inoltre, che l’autore è poliglotta con una cultura variegata.

Per quanto riguarda la designazione delle proprie opere vocali dal punto di vista del genere musicale, Buxtehude utilizza solamente il termine ‘aria’.11 Siamo, del resto, in un frangente di grande fluidità. Se teniamo conto che nemmeno Bach utilizza il termine cantata come oggi è comune-mente inteso, possiamo comprendere l’apparente poca chiarezza concet-tuale del tempo. In realtà, l’evoluzione della musica sacra da Schutz a Bach è abbastanza delineata. La fluidità dei concetti tipica dei contemporanei nei vari trattati di musica è, al riguardo, segnale non di confusione ma di un modo di intendere la musica e le sue classificazioni meno rigidamente di quanto le schematizzazioni degli studiosi moderni vorrebbe. Mettere or-dine, in questo caso, significa il più delle volte compilare elenchi minuziosi e sfibranti, in una operazione critica di mappatura e catalogazione simile a quella che si ritrova, divertita, nei racconti, pure loro per certi versi ba-rocchi, di Borges.

L’opera vocale di Buxtehude va collocata, poi, allargando l’orizzonte, dentro l’opera di un organista.12 In realtà era compito del Cantore provve-dere alla musica vocale, liturgica e non, e Buxtehude, in quanto organista, non aveva quindi obblighi al riguardo. Nonostante ciò la quantità della sua

GIOVANNI POZZI, Schola cordis : di metafora in metonimia, in GIOVANNI POZZI, Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi 1993, 383-422.

11 SNYDER, Dieterich Buxtehude, 153.12 SNYDER, Dieterich Buxtehude, 71-106.

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produzione vocale è ragguardevole, 122 composizioni a fronte delle 99 per organo. A lungo, e non del tutto a torto, Buxtehude è stato apprezzato per queste ultime, anche qui, a dire il vero, spesso più come passaggio fanta-sioso e non ancora del tutto compiuto, come premessa gravida di sviluppi verso Bach. Del resto proprio nel frontespizio autografo di MJN troviamo la firma ‘Dieterico Buxtehude organista ad S. Maria Virginis, Lubeck’. Questo era, in effetti, il suo lavoro principale. Merita in ogni caso atten-zione la musica strumentale composta da Buxtehude. Essa ci mette a parte, oltre che di una abilità tecnica straordinaria, di una sensibilità contempla-tiva, come mostrano ad esempio i grandiosi squarci lenti del Preludio in Re Maggiore13 o – per allargare l’assetto strumentale – le meravigliose sortite estatiche delle Sonate.14

1.2 Buxtehude come animatore culturale

Buxtehude non è però né solamente un compositore, né solo un abile suonatore. Egli è anche un impiegato, un funzionario e – tratto più mo-derno – un imprenditore e innovatore, un animatore culturale a tutto tondo. La funzione prestigiosa di amministratore e fabbriciere si combina con quella, di grande successo, di organizzatore di serate musicali a paga-mento in chiesa, le famose ‘Abendmusiken’15, vere e proprie opere, di cui era lodata la magnificenza e di cui – sorprendentemente – non rimane nes-suna traccia musicale. Questa dimensione urbana di socievolezza colta e spigliata ha, oltre il successo dei concerti di cui danno testimonianza le cronache del tempo, un altro riscontro concreto. L’unico ritratto conserva-toci di Buxtehude, infatti, lo vede inserito in un gruppo di musicisti16. Si tratta di un quadro del pittore olandese Johannes Voorhout datato 1674 in cui Buxtehude è raffigurato con il suo amico Johan Adam Reinken, facol-toso organista di Amburgo. Questi suona il clavicembalo con accanto un suonatore di viola da gamba (Johan Theile, altro musicista che scrisse, tra l’altro, per l’Opera di Amburgo) e una donna che suona il liuto, mentre

13 BUXWV 139. Ci riferiamo in particolare all’adagio (battute 62-69) e alle battute 87-94 che precedono il vigoroso finale.

14 Opus I Sonate I-VII BuxWV 252-258 e Opus II Sonate I-VII BuxWV 259-265.15 SNYDER, Dieterich Buxtehude, 54-70; LEBRUN, Dietrich Buxtehude, 79-86; MIRABELLI,

Dieterich Buxtehude, 140-145.16 MIRABELLI, Dieterich Buxtehude, 33-38; SNYDER, Dieterich Buxtehude, 109-112.

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Buxtehude, in abito da viaggio (ospite ad Amburgo, quindi) è appoggiato al clavicembalo con un gomito e ha accanto un foglio da musica. Con la mano all’orecchio, sembra voler intonare un canone. Questa ‘Scena di mu-sica domestica’ ci mette a parte di un ambiente raffinato e colto, in cui la musica è di casa come piacere e motivo di incontro. Non si può tacere, a proposito di viaggi e incontri tra colleghi organisti, il celeberrimo viaggio a piedi di Bach a Lubecca nel 1705, tre mesi dei quali Bach dovette rendere conto al consiglio della Chiesa Nuova di Arnstadt (450 chilometri da Lu-becca) dove era organista e nei quali, secondo il suo resoconto, trasse inse-gnamenti per la sua arte. In quell’occasione poté assistere ad alcune delle più riuscite Abendmusiken.17 Oltre a questa visita vanno poi ricordate quelle più brevi di Johann Mattheson e Haendel. Ma Amburgo, da cui par-tivano, era decisamente più vicina. Buxtehude è quindi una figura di riferi-mento per una generazione di musicisti, organisti e non, a cavallo tra Sei e Settecento.

Infine, l’organista di Lubecca è anche un intellettuale di respiro europeo. Sapeva almeno sei lingue (danese, svedese, tedesco, italiano, francese e, ov-viamente, anche il latino) ed era attento alle novità musicali che continua-mente si affacciavano sulle corti e sulle cappelle europee. In questo con-testo, che il ritratto di Voorhout rappresenta al meglio, si inserisce la sin-golare amicizia con Düben, fondamentale fosse solo per il fatto che a lui è dedicata MJN. L’importanza della relazione tra i due musicisti è ancora più decisiva da un punto di vista storiografico in quanto proprio le trascrizioni di Düben sono una delle fonti principali da cui conosciamo la variegata produzione di Buxtehude. Non è chiaro se i due si siano mai effettivamente incontrati, eppure avvertiamo – nei lasciti del loro commercio amicale – un ideale di amicizia elevato e spirituale, una sintonia di cuore e mente di ampio respiro. Il sedentario Buxtehude,18 come del resto il suo collega Bach, ma diversamente da Haendel (due modi di abitare e attraversare la civiltà europea nelle sue frastagliate diversificazioni), sa rinviare ad altro pur rimanendo nello stesso luogo.

1.3 La musica liturgica in questione

Prima di entrare nel merito degli elementi più strettamente compositivi e musicali della Cantata, è necessaria una ulteriore puntualizzazione, su una questione allora (ma in realtà sempre, come è per le questioni vera-mente importanti) scottante. Senza timori, Buxtehude entra con un sor-prendente equilibrio (almeno in MJN) in un terreno minato e affronta con

17 CHRISTOPH WOLFF, Johann Sebastian Bach. La scienza della musica, Milano, Bompiani 2003, 113-122; SNYDER, Dieterich Buxtehude, 104-106.

18 Da Lubecca, a quanto pare, i viaggi non furono molti e in ogni caso verso mete non lontane, come Amburgo.

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raffinata delicatezza e decisa coesione la questione molto discussa di come dovesse essere la musica sacra o, meglio, la musica per l’assemblea litur-gica in chiesa, nei suoi peculiari rapporti con le novità musicali dei generi profani.19 Il dibattito nel Seicento si fece agguerrito e i titoli dei libri pub-blicati al riguardo sono illuminanti, come «Una voce del custode da Sion devastata» del diacono di Rostock Theophil Grossgebauer (1661) e «L’a-buso punito della musica di Chiesa» di Muscovius (1694). In essi vengono criticati i costumi dei cantanti e l’utilizzo di musica frivola e incomprensi-bile, sulla scia delle deviazioni papiste. La risposta, per le rime, viene da Hector Mithobius, pastore luterano vicino ad Amburgo, con la sua «Psal-modia Christiana» (1665) e da Georg Motz con «La musica di Chiesa di-fesa» (1703). Questi ultimi sottolineano l’origine divina della musica e, in particolare, dell’ispirazione che – quando è autentica – ha origine dallo Spirito Santo. Di rilievo alcune osservazioni di Motz per il quale anche la musica strumentale può essere al servizio della comprensione dei testi sacri e non solo – come per i detrattori – futile divertissement.20 In realtà il dibattito riguarda da una parte il bisogno di una spiritualità autentica e cordiale, dall’altra la necessità di una riforma dei costumi e delle pratiche nella chiesa. Sullo sfondo – lo si intuisce – c’è il dibattito attorno al Pie-tismo.21 Buxtehude non manifesta interesse per il movimento iniziato da Spener, tuttavia bisogna riconoscere che molti dei temi che egli affronta nelle sue composizioni mostrano una spiccata sensibilità verso il misti-cismo. Oltre ai già citati autori medioevali, un esempio può essere il li-bretto delle ‘Abendmusiken’ del 1678 dal titolo «Le nozze dell’Agnello», oratorio in due parti in cui vengono sviluppati i temi della mistica spon-sale.22 Tra opzioni divergenti da combinare, la scelta, l’abilità di Buxtehude è quella di non rinunciare a nessuna potenzialità, di non indietreggiare in nessuno dei punti in questione, mostrando grande libertà interiore e intel-ligenza profonda della posta in palio. Nuovo e antico si fronteggiano, quindi, in MJN ma per elevarsi a vicenda, per un dialogo sciolto e sprez-zante. La nuova cantabilità si piega al ritmo e alla sonorità del latino, la theologia crucis di Lutero viene espressa attraverso testi devozionali me-

19 WEBBER, North german Church music, 13-21. Per lo stesso dibattito in ambito cattolico, possiamo prendere come esempio la situazione francese, cfr. MONIQUE BRULIN, Gémissement, soupirs, chez les auteurs spirituels et le smusiciens du XVII e Siècle en France, «La Maison-Dieu» 187, 1991, 47-73; MONIQUE BRULIN, À la recherché d’un lyrisme chrétien. L’acte du chant dans le culte au XVIIe Siècle en France, «La Maison-Dieu» 212, 1991/4, 73-94.

20 Molto illuminante è il bellissimo frontespizio di «Psalmodia Christiana», in cui musi-ca celeste (orientata in senso cristologico) e musica mondana (intesa in senso eccle-siale) sono combinate e coordinate.

21 SNYDER, Dieterich Buxtehude, 146-149.22 SNYDER, Dieterich Buxtehude, 58-61 e 9147-149.

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dioevali. Teatro e chiesa mostrano ancora una sottile coappartenenza; non solo parlano ancora la stessa lingua ma, nei momenti forse migliori, hanno ancora un medesimo, seppure articolato – e spesso da cui debordare – oriz-zonte di senso.

2. Ecce super montes

La dimensione spirituale e devozionale di MJN è veicolata in primo luogo dai testi. Buxtehude, come si è visto, ha familiarità con i classici con-templativi, in modo particolare per quelli che trasmettono una mistica af-fettiva, mettendo al centro della vita di fede l’orante e toccante incontro del devoto con Cristo. La scelta di utilizzare una poesia attribuita allora a S. Bernardo non è quindi indifferente23 e apre, da lontano, un possibile dia-logo con la nuova musica, quella delle arie. Portando alle estreme conse-guenze la cantabilità e la godibilità del verso (il ‘recitar cantando’), essa sembra già predisposta ad esprimere una partecipazione affettiva, affidata nella «Oratio rhytmica» a un latino quasi liturgico e innico, ma interior-mente predisposto a una effusione che solo la musica, con i suoi peculiari e ineffabili strumenti, può suggerire. Del resto, come in tutta la migliore tra-dizione di musica liturgica, in questo caso il testo non viene mai piegato alle esigenze musicali, ma è piuttosto ispiratore della musica stessa. Il testo non è solo pretesto ma momento sorgivo. Non è casuale occasione ma ‘kairos’. Esiste una propizia concomitanza fra parole e musica, come espe-rienza che si dice e si scopre con le parole, tanto quanto queste ultime in-troducono e approfondiscono tale esperienza. Le parole, che parlano di questa esperienza come di qualcosa, ma anche ne suggeriscono il senso e il suono, ne custodiscono il cuore, in una sua propria, unica e irripetibile grazia, tante volte modulata in melodie diverse, che la musica, sedotta da esse, cerca di ridire. Si crea così un gioco di eco vicendevole tra testo e mu-sica, tra scrittura letteraria e scrittura musicale, tra declamazione e canto, un gioco di incanto e seduzione vicendevole, un incontro di amorosi sensi. Il testo latino nella sonata è rispettato anche nelle parti di contrappunto in cui il gioco delle voci non copre o nasconde il testo ma lo rivela, assecon-dandone l’intima natura, facendone emergere potenzialità nascoste. Si crea in questo modo tra testo letterario e testo musicale (tra parola e musica) una simpatia, una sintonia, un gioco di echi e rimandi, fatto di vibrazioni e sottili armonie.

Soffermandoci sulla prima cantata (Ecce super montes), per certi versi programmatica, possiamo evidenziare nel gioco che si viene ad instaurare tra musica, parole e silenzio una dinamica ostensiva, che mira alla concre-tezza dell’esperienza spirituale, e una ricerca del fondamento di tale espe-

23 LABIE, Le visage du Christ, 153-169.

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rienza. Ecce super montes è, in questo senso, intuizione principiale, esordio gravido di sviluppi, incanto sorgivo. Musica e grazia si affacciano insieme come introduzione e sviluppo. Si tratta di aspetti solo apparentemente in-troduttivi a temi che, in realtà, sono fondanti e permettono alla composi-zione di impiantarsi e svilupparsi con una sua propria coerente e articolata fisionomia.

2.1 Dimensione ostensiva

Le parole mettono da subito al centro Cristo. Si tratta di una ostensione delle sue membra che l’esordio evidenzia in modo chiaro con un deittico: Ecce. Tuttavia questa dimensione ostensiva e contemplativa sottostà a un delicato lavorio ermeneutico. In effetti, il corpo di Cristo paziente ‘in realtà’ non è presente allo sguardo del fedele, sia esso colui che canta o colui che tale canto ascolta. Questa presenza non è, del resto, nemmeno solo interiorizzata, una presenza solo al cuore e alla mente. Da questo punto di vista, la Cantata potrebbe essere intesa come un ostensorio il cui centro sia però vuoto, un vuoto da riempire, uno spazio e un tempo da col-mare. La dimensione ostensiva non è qualcosa che si impone da sé ma ri-chiede un esercizio di attenzione, una composizione di luogo, o, meglio an-cora, in questo caso, una composizione affettiva delle membra di Cristo. Egli è presente attraverso il canto e attraverso la reazione che quest’ultimo suscita nel fedele. È il canto – sempre un canto di parole, ma pur sempre, in quanto tale, principalmente canto – a rendere presente, a cantare Cristo nel cuore del fedele, ad essere la miccia che accende gli affetti devoti. Voce e orecchio, canto e strumenti, cuore e intelligenza sono congregati al ser-vizio dei fedeli oranti. Per intendere in modo corretto la Cantata è quindi necessaria una previa riflessione e una attenta contestualizzazione a pro-posito del mistero della presenza di Cristo che il canto veicola. Questione centrale del rapporto tra cattolici e protestanti, quello della presenza reale ha fatto consumare oceani di inchiostro in cui, di volta in volta, sono nau-fragate opzioni metafisiche e apparse insperate scialuppe di salvataggio per i pensosi teologi e pastori. Ecce super montes pedes evangelizzantis: i piedi del portatore di liete notizie, il Vangelo in persona, i cui piedi sono qui (ecce) è Cristo stesso, i suoi piedi trafitti dai chiodi. Gesù è presente prima di tutto attraverso la sua Parola. La Sacra Scrittura (qui presente nella citazione del profeta Nahum) è, nello Spirito che l’ha fatta nascere e continuamente la rende Parola viva, il primo segno reale della presenza di Cristo. Non è quindi senza motivo che Buxtehude, a mo’ di antifona, in-quadri i versi pseudo-bernardiani con delle citazioni scritturistiche. Questo abbraccio che inizia e conclude le singole cantate è, prima di tutto, un vet-tore di senso, il contesto vitale di una forma di devozione che voglia essere autenticamente cristologica ed ecclesiale. Questa Parola per risuonare ha

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bisogno di annunciatori (Rom. 10,14-17). Il suo luogo proprio è la Chiesa: è in essa che risuona la Parola evangelica, è in essa che i piedi del divino messaggero si posano. La Cantata ha, infatti, come suo luogo di vita e di esecuzione non il teatro o l’accademia privata ma la chiesa, intesa sia come edificio fisico, sia come assemblea radunata per la celebrazione liturgica. Questa dimensione comunitaria è espressa in modo bello e chiaro dal coro che canta i versetti biblici. Ecce super montes: è il coro a cantare i versi scritturistici, facendosi portavoce della Parola di Dio e, attraverso il suo canto, si rivolge all’assemblea radunata in chiesa per la celebrazione litur-gica, coinvolgendola nel flusso comunicativo che, nella logica dell’incontro tra dizione e ascolto, si fa dialogo orante. Per certi versi, può sembrare sor-prendente che sia affidato al latino questa funzione attualizzante, soprat-tutto se consideriamo quale importanza ha la traduzione in tedesco della Bibbia per la vita della comunità luterana. In questo caso, però, il latino non è considerato come lingua morta, come retaggio del passato, come fos-sile riesumato, ma in quanto lingua ancora vivente, come lingua che sa an-cora parlare e può essere ancora intesa. Ecce: il profeta Nahum parla dell’e-vangelizzatore, lo vede, lo indica presente. Questa visione, secondo l’ese-gesi tradizionale, è orientata a Cristo. È lui il vero obbiettivo della contem-plazione e dell’annuncio. Tra profezia e sua realizzazione, tra Antico e Nuovo Testamento si stabilisce un rapporto che, nell’esegesi spirituale, so-prattutto nella corrente sapienziale, non va in un solo senso, dal passato al presente e dal presente al futuro. La presenza di Cristo – in questo caso nelle Sacre Scritture – è così piena, centrale e traboccante che non solo egli è il compimento delle promesse e previsioni antiche (leggere l’Antico nel Nuovo) ma anche già allora, misteriosamente, profeticamente ma real-mente era presente (leggere il Nuovo nell’Antico).24

Tuttavia il canto che si fa ostensione è un esordio che ha una premessa. La battuta iniziale del Primo Concerto (due solenni minime che intonano

24 È la spiritualità cristologica sapienziale a sviluppare in modo particolare questo trat-to. Tra gli esempi a cavallo tra Sei e Settecento possiamo ricordare, in ambito cattoli-co, S. Louis-Marie Grignion de Montfort (1673-1916) con il suo «Amour de la Sagesse Éternelle» in cui sviluppa una sorprendente teologia biblica estetica, il cui carattere ostensivo si ritrova pure in MJN. Cfr. OLIVIER MAIRE, Bible e mystique. Une lecture de l’Amour de la Sagesse éternelle de saint Louis-Marie Grignion de Montfort, Dissertation de licence en théologie, Centre Sèvres, Paris 1989, pro manuscripto; GIROLAMO DAL MASO, Dieu Seul. Scrittura mistica e teologia in S. Louis-Marie Grignion de Montfort, Roma, Ed. Monfortane 2005, 159-266. Per la storia dell’esegesi, da Origine fino al Me-dio Evo, rimandiamo alla monumentale ricerca di HENRI DE LUBAC, Histoire et esprit: l’intelligence de l’Écriture d’après Origène, Paris, Aubier 1950; HENRI DE LUBAC, Exégèse médiévale: les quattre sens de l’Écriture, 4 voll., Paris, Aubier 1959-1964.

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un Do minore con il dispiego di tutte le voci e strumenti25) riprende la prima battuta della Sonata introduttiva.26

25 L’organico della Cantata prevede due violini, una viola, una viola da gamba, continuo e violone, a parte l’eccezionale utilizzo di cinque viole da gamba (con continuo e vio-lone) della sezione «Ad Cor». Le voci sono due soprano, alto, tenore e basso.

26 C’è da fare una precisazione di carattere storico critico sulla partitura. Abbiamo avuto tra le mani due edizioni a cura di Schlage e Kilian che hanno fatto scelte diverse: DIETERICH BUXTEHUDE, Membra Jesu nostri. BuxWV 75 (herausgegeben von Thomas Schlage), Stuttgart, Carus 2006; DIETERICH BUXTEHUDE, Membra Jesu Nostri. Partitur (edited by Dietrich Kilian), Berlin, Merseburger Verlag s. d. Per la citazione delle bat-tute della partitura e per gli esempi musicali ci rifacciamo all’edizione di Schlage.A parte le diversità dell’organico strumentale e della trascrizione del basso continuo, in modo particolare la prima parte («Ad Pedes») presenta delle opzioni divergenti, cambiando la prima aria e il finale. La prima aria è affidata secondo la revisione di Schlage al primo soprano, mentre in quella di Kilian al coro (pur mantenendo la dici-tura aria). Schlage, inoltre, riporta il coro «Salve mundi salutare» dopo la sinfonia fi-nale. Ancora più sorprendente è la chiusura, per Schlage in Do maggiore, per Kilian in Sol maggiore, anche se – nella prima sinfonia – gli accordi sono invertiti. Non avendo la possibilità e la competenza di verificare i manoscritti possiamo fare due considerazioni. Da un punto di vista formale entrambe le opzioni sembrano plausibili. Per la prima aria, la voce solista sarebbe la forma naturale, come poi si ritrova nel re -sto della Cantata. Tuttavia il coro permetterebbe di fare da pendant con il coro finale, prima del concerto, che effettivamente sembra un masso erratico proiettato dentro la cantata. Per il finale, entrambe le possibilità sono in continuità con la scrittura musi-cale: quella in Sol maggiore riprende e ripete le battute 23 e 113, mentre quella in Do maggiore riprende la battuta 25 e 115 e conclude modulando dalla sensibile alla toni-ca.Oltre queste considerazioni, ci sembra che la nostra lettura possa essere supportata da entrambe le opzioni. In riferimento al finale – ad esempio – gli elementi portanti (il rapporto tra tonica e dominante e la pausa alle battute 24 e 114) ci sembrano validi quale che sia la scelta della partitura. Ora, proprio questo ci sembra un elemento tipi -co della maestria di Buxtehude: anche opzioni contraddittorie possono dire una stessa cosa. Ovviamente, per rimanere al finale, che la conclusione sia la dominante o la to-nica fa cambiare di molto lo sviluppo musicale ma, in entrambi i casi, si crea una rete di rimandi tra il prima e il dopo, tra tonica e dominante, in cui ciò che conta è appun-to non il fisso rapporto statico ma il gioco armonico tra le due, gioco da cui tutta la Cantata ha origine.Anche le registrazioni discografiche che abbiamo potuto ascoltare presentano scelte diverse. Come esempio della partitura nella revisione di Schlage possiamo prendere quella, superba, di Gardiner (Archive 447 298-2, con puntuale presentazione della

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Al dialogo tra i due violini della sonata si sostituisce, come ripresa ed emanazione, il dialogo tra le voci. Il canto dei violini si ritrova, quasi spar-pagliato, pur nell’impeccabile senso di ordine formale, nel gioco di incrocio tra le singole voci.27

Buxtehude, per sottolineare questa funzione quasi fondante della musica strumentale, il suo momento principiale, come principio originario che si sviluppa, nella sinfonia accompagna le voci con gli strumenti ‘cantanti’ (violini e violone) solo quando le voci umane cantano omofonicamente.28 In questo modo sono messe in risalto le parole principali (Ecce pedes evan-gelizantis annunciantis pacem) da cui promana il canto delle singole voci intrecciate tra loro, come un nucleo denso che venga aperto e dispiegato,

Snyder), di Van Nevel (Eufoda 1294) e di Fasolis (Naxos 8.553787). La revisione di Ki-lian è stata invece scelta da Jacobs (Dvd Harmonia mundi – Schweizer Fernsehen HMD 9909006).

27 Ad esempio la battuta 2 del secondo violino è ripresa dalla battuta 15 del secondo so-prano, le battute 3-4 dalle battute 19-20 del primo soprano, la battuta 5 dalla battuta 31 del secondo soprano, mentre la battuta 2b del secondo violino si ritrova nella bat-tuta 15b del primo soprano.

28 Si tratta di due serie: Ecce (battute 13 e 25), pedes evangelizantis (19-20 e 27b-28), an-nunciantis pacem (21b-23 e 32b-35).

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come un tappeto raccolto che venga dispiegato rivelando i nascosti, impli-citi giochi di colori e di linee, come un cuore che venga fatto pulsare.

2.2 Fondamento ed evocazione

Nel gioco musicale di pieni e di vuoti che si rimandano a vicenda trova significato particolare la battuta 24, una pausa di silenzio.

Nel ritmo di raccoglimento e dispiegamento, di sistole e diastole, questo silenzio non è propriamente una pausa, una interruzione. Come i violini tacciono dopo aver introdotto le voci perché queste possano comporre le proprie melodie (già raccolte e concentrate implicitamente nell’accordo iniziale) per poi ricomporle di nuovo in unità, questo silenzio è in realtà elemento vettoriale fondamentale, conficcato non a caso proprio nel cuore della sinfonia, nel suo mezzo. È come se voci e strumenti in questa battuta respirassero, tirassero il fiato. Si tratta di un silenzio di raccoglimento, di concentrazione cordiale, quasi di rammemorazione primordiale e genetica, da cui la musica riparte come da un nuovo inizio. C’è continuità ma anche novità. La battuta 25 è diversa dalla prima battuta della sinfonia. In modo particolare merita attenzione il gioco armonico della successione di modu-lazioni, il progredire delle tonalità armoniche. Prima della pausa alla bat-tuta 24, infatti, voci e strumenti terminano in un accordo di Sol maggiore (dominante). Dopo la pausa, la ripresa (sempre all’unisono) è in Do, e la to-nalità, in questo caso maggiore, è indicata – un po’ insolitamente – dal basso, attraverso dei mi bequadro che si ripetono per tre battute e mezza, fino a modulare in Fa minore. Il passaggio da dominante a tonica, caratte-

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rizzata da un passaggio dalla tonalità minore a quella maggiore, è impor-tante in quanto il Do maggiore, introdotto dal Sol maggiore prima della pausa – che in questo caso unisce e divide insieme – sarà poi l’accordo fi-nale.29 Il rapporto tra tonica e dominante è, per tutta la Cantata, nella sua prima parte («Ad Pedes») come nel suo insieme, fondamentale. Il quinto grado, infatti, è ragione aurea che organizza tutta l’architettura sonora di MJN.

3. Architettura ostensiva

I manoscritti di MJN permettono una lettura diversificata della sua struttura.30 Da una parte l’originale vergato da Buxtehude con un unico ti-tolo presenta le sette parti come un insieme unitario. Sappiamo però che le singole parti sono state copiate anche a parte e, in effetti, ognuna delle sette sezioni è in sé compiuta. Il rapporto tra il tutto e le parti è molto im-portante. Si tratta dello stesso rapporto che esiste tra il corpo e le membra. Come tante membra formano un solo corpo, così le parti della Cantata for-mano una sola Cantata. C’è un rapporto dinamico tra le parti che è insieme continuità e discontinuità, una fabula del discorso. Siamo di fronte a una strategia di com-posizione in cui le varie parti sim-boleggiano mai perfet-tamente uguali, mai troppo dissimili.31

Alcuni elementi formali ci permettono di evidenziare come sia intesa da Buxtehude l’ostensione del corpo di Cristo, ossia come l’anatomia spiri-tuale delle membra del Salvatore e del soggetto orante che le contempla sia organizzato in modo da suggerire e promuovere una elevazione32 con un respiro liturgico.

29 Nella battuta finale la designazione della tonalità maggiore non è più affidata alla voce di basso ma al tenore. Per i problemi di lettura divergente dei manoscritti nella partitura cfr. supra nota 26.

30 SNYDER, Dieterich Buxtehude, 199.31 È questo uno dei tratti del barocco messi in rilievo da Rousset che ben si adatta

all’ostensione della membra di Cristo: ‘Aucune forme isolée, aucun élément statique, mais un mouvement ensemble de corps se pénétrant et se prolongeant si organiquement qu’ils semblent naître les unes des autres, comme un seul être qui se transformerait en ses divers aspects’. ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 163.

32 L’elevazione è uno dei molteplici tratti della devozione barocca, a cui è affidata una dimensione di cordiale lirismo. Un esempio grandioso è l’opera di Bérulle, soprattutto nei suoi esiti estremi. Cfr. PIERRE DE BÉRULLE, Œuvres complètes. III / 7-8. Discours de l’état et des grandeurs de Jésus. Narré, Vie de Jésus, Élévations. Mémorial. Élévation sue Sainte Madeleine, Paris, Oratoire de Jésus – Cerf 1996.

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3.1 Gratia elevans

È stata evidenziata la regola su cui Buxtehude costruisce MJN. Da un punto di vista armonico si parte dalla tonalità di Do minore per concludere – attraverso una serie di quinte – ancora in Do minore. Questa successione armonica procede di pari passo con la successione delle membra.

È una dinamica elevante:33 si passa – di quinta in quinta – dai piedi (Do minore) e dalle ginocchia (Mi bemolle maggiore, relativa del Do minore), alle mani (Sol minore, quinta del Do), al costato (Re minore, quinta del Sol), al petto (La minore, quinta del Re), al cuore (Mi minore, quinta del La) per concludere con il volto (Do minore, tonica dell’inizio). Piedi e ginoc-chia (tonica e relativa) sono la base non solo fisica ma anche armonica. Inoltre le prime tre parti (piedi, ginocchia, mani) con la loro tonalità (Do, Mib, Sol) formano l’accordo di Do minore. La cantata è quindi ben impian-tata, strutturata alla partenza, con un movimento che si apre con il Do mi-nore e con il Do minore si conclude, dopo uno sviluppo coerente. In questa progressione, una elevazione dalle membra inferiori del corpo a quelle su-periori, culminante con il volto,34 risalta il brusco passaggio tra il Mi mi-nore del cuore e il Do minore del volto, due tonalità armonicamente molto lontane, come mostrano anche il diesis (Mi minore) e i due bemolli (Do mi-nore) in chiave. Il Mi minore era ritenuta una delle tonalità patetiche per eccellenza. Se consideriamo che per il cuore Buxtehude cambia per l’unica volta nella Cantata anche l’organico strumentale, inserendo addirittura cinque viole da gamba, strumento patetico per eccellenza, ci accorgiamo che il vertice (sebbene non la conclusione) del discorso armonico è proprio la parte del cuore. Questa centralità è marcata ulteriormente dal fatto che Buxtehude concentra la sua contemplazione orante attorno al cuore, consi-

33 ‘Le baroque enlève’. ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 242.34 La tensione ascensionale è un altro dei tratti barocchi: ‘Le clocher de la Sapience

suggère une métaphore dejà souvent rencontrée: la flamme qui s’élève, le tourbillonement ascensionnel’. ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 167.

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derando membra vicine ad esso: Latus, Pectus e Cor si trovano infatti vicine nel corpo santissimo di Cristo. Tutte e tre sono trafitte da un’unica lancia. Tale sottolineatura è voluta da Buxtehude, non è casuale. Nel testo poetico di Arnuldo da Lovanio, infatti, mancano alcune sezioni che sono state ag-giunte, attingendo da altre fonti, alcune parti, e sono esattamente il cuore e il capo. Che questo sia il cuore della cantata, nel trapasso tra cuore e capo, dove però la sottolineatura cade sul cuore, lo indica anche la scelta reda-zionale dei versetti biblici delle sinfonia. Costato e cuore, infatti, si aprono e concludono con dei versetti tratti dal Cantico dei Cantici, uno dei testi capitali della mistica affettiva. Capo e cuore sono così introdotti e armoniz-zati in modo da costituire un duplice esito del percorso della cantata:35 il capo è il membro più elevato in cui si risolve e compie il discorso armonico ritornando al Do minore iniziale; il cuore è la conclusione della progressione armonica per quinte, messo al centro anche per le scelte retoriche e musicali di Buxtehude che mirano a sottolinearne la singolarità. L’architettura della Cantata è così molto elaborata, pure nella sua semplicità. La libertà espres-siva e la fantasia sono combinate con l’equilibrio e una sapiente, raffinata organizzazione. Nulla è lasciato al caso e tutto è posto in relazione. Da questo punto di vista il progetto della Cantata, nelle sue linee generali (scelta dei testi e loro ordine, scelta delle tonalità e loro ordine, scelta degli organici), è come un grande ostensorio che offra e presenti alla preghiera la persona di Cristo, o come una chiesa in cui i vari elementi architettonici siano coordinati e orientati verso uno spazio via via più sacro.36 Si tratta di

35 Quello di un esito altalenante tra mente e cuore, mistica intellettuale ed affettiva, è un tratto caratteristico della spiritualità moderna. ‘L’orazione del cuore, altamente misti-ca nel suo principio, insegna a salire verso l’unione con Dio percorrendo col pensiero il cammino in discesa del Dio che si abbassa nell’incarnarsi in Cristo. (…) La sintesi grafica di cuore e capo abbrevia l’anatomia umana in uno schema che giustappone termini contrari: testa e cuore, intelletto ed emozione; un ossimoro iconico. Poiché il luogo dell’orazione non è la testa, ma il cuore, l’esercizio consisterà nel far scendere dall’alto dell’intendimento al centro dove scaturisce l’emozione santa. Una discesa in-tellettuale, che si radica in una discesa fisica legata alla struttura del corpo umano’. POZZI, Sull’orlo del visibile parlare, 389-390.

36 Possiamo parlare al riguardo, prendendo lo spunto da Rousset, di barocco interiore (ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 240), in cui dentro e fuori, interiorità ed este-riorità giocano insieme. Non quindi il barocco delle facciate (‘façade au sense le plus large, véritable composition autonome en mesure d’organiser l’espace selon ses rythmes propres, faisant à l’extèrieur de l’édifice ce que les autres systèmes ne se souciaient de faire, è ce degré, qu’à l’intérieur’. Ivi, 166) o di una vuota teatralità (‘cette évolution aboutit à l’architecture du théâtre, qui est une architecture dont ne subsiste que le décor et dont la seule fonction n’est que la montre, le paraître’. Ivi, 169). Il centro è in MJN ancora il cuore, interiorità che si ostende e si affaccia. Osten-tazione e dissimulazione sono qui comprese come potenzialità da inserire nel discorso spirituale, di ‘un idèal de maîtrise, de composition et de présentation de soi’ (Ivi, 222).

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un movimento in cui una tensione tipicamente seicentesca si configura con un atteggiamento ancora classico:

Au lieu de se présenter comme l’unité mouvante d’un ensemble multiforme, l’œuvre classique réalise son unité en immobilisant toutes ses parties en fonction d’un centre fixe; au lieux d’être animée par un mouvement qui se propage au-delà d’elle-même, elle se contient à l’intérieur de ses propres limites ; au lieu de faire éclater ou vaciller ses structures, elle les stabilise et le renforce ; au lieu d’inviter le spectateur à la mobilité et à l’inquiétude, elle le rassemble sur lui-même et le contraint au repos, le dénoue dans l’apaisement d’une contemplation silencieuse.37

Le scelte retoriche di Buxtehude mirano a rendere omogenea la contem-plazione delle membra di Cristo e a renderla insieme toccante. La retorica teatrale si incontra qui con la cultura dell’interiorità. Buxtehude da una parte smuove e disorienta la rigidità di un unico riferimento, orientando l’ostensione in molteplici direzioni (musica e parole, corpo di Cristo e sue membra, soprattutto articolando cuore e capo) ma, nello stesso tempo or-ganizza il suo discorso in modo unitario.38 Il rapporto tra corpo e membra è articolato tra unicità (un solo corpo) e diversità (varie membra). Tutta l’at-tenzione compositiva di Buxtehude è nel rimandare continuamente l’uno all’altra: il corpo sussiste nelle membra, tanto quanto queste sono parti vive di un unico, medesimo corpo. L’immagine del corpo è in questo caso generatrice di significato. Essa infatti si può riferire al corpo di Cristo tra-mite il corpo della Cantata; ma il corpo di Cristo rinvia, nella Cantata, al corpo scritturistico, alla Parola fatta carne in quel corpo ma presente pure nelle Sacre Scritture; rinvia anche al corpo ecclesiale – altro regime della presenza di Cristo – luogo proprio, come si è visto, della Cantata. Si creano così delle fughe di senso che Buxtehude riesce a comporre in modo mira-bile e coeso.

3.2 Esegesi liturgica

La dinamica dell’ermeneutica biblica in MJN è illuminante. L’esegesi del testo biblico è affidato alle parti corali delle sinfonie e si combina con i testi devozionali delle arie per solisti e coro.

37 ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 246.38 ‘On a vu les architectes comme les lyriques et les drammaturges donner des examples

de compromis, combiner le refus et l’acquiscement, mélanger intimement des caractères baroques et classiques.’ Ivi, 245. ‘L’esprit classique rassemble l’homme sur un point central où tuout son temps vécu et à vivre converge ; l’esprit baroque le projette sur une multitude de points éparpaillès autour de lui’. ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 248.

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Sonata> Strumen-tale

Sinfo-nia

> Coro > Testi biblici

3 Arie > Solisti e Coro

> Testi poetici devozionali

Sinfo-nia

> Coro > Testi biblici

Siamo di fronte a una esegesi che potremmo definire di tipo liturgico39. Due elementi formali della Cantata lo suggeriscono. Innanzitutto è impor-tante la struttura delle sonate, in cui le sinfonie svolgono il ruolo di anti-fone che abbracciano, introducono e concludono le arie

La venerazione del corpo di Cristo avviene tramite le Scritture, come suggerisce il ruolo antifonale delle sinfonie. Musica e canto esplorano e scandiscono gli affetti devoti, indugiando sia sul testo letterario che sul suo legame con la musica. Corpus Christi, Corpus scritturale, corpo ecclesiale, il corpo stesso della Cantata coesistono in MJN in modo relazionale, si di-cono l’uno nell’altro, si rifrangono e si coappartengono. Si crea un gioco di corrispondenze e di rifrazioni che illumina il fedele e lo tocca, lo coinvolge. Questa trama fluida, questa fuga di senso e di sensi non va a discapito del-l’identità delle singole parti e dei singoli corpi, ma piuttosto la eleva, la esalta e la esorbita. Cogliendo tale identità nel suo cuore, nel centro suo in-timo, con lo stesso movimento la fa traboccare estaticamente, la fa risco-prire d’incanto abitata da altro e da altri, che tuttavia le sono familiari. Il singolo credente trova così qualcosa di sé, qualcosa di vero e profondo, inalienabile e per certi versi inattingibile, in Cristo, nei testi sacri, nella stessa comunità orante di cui è parte viva40. Trova, nello stesso slancio, qualcosa di sé anche nella musica, nei versi cantati, nelle sonate che gli parlano di Cristo e – parlandogli di Lui, dei suoi piedi, delle sue mani, del suo cuore – il fedele scopre qualcosa del suo proprio cuore, delle sue pro-

39 Possono valere, al riguardo, le bellissime parole di Bianconi a proposito di Schütz: “Un’attitudine profonda alla devozione individuale e comunitaria è insita nel senso stesso del servizio divino, che è soprattutto esegesi teologica e spirituale del Verbo”. LORENZO BIANCONI, Il Seicento, Torino, EDT 1991, 144. Siamo di fronte a una “esegesi musicale della parola biblica” (ivi, 153).

40 La corriflessività fra testo sacro, Cristo, Chiesa e fedele è una dinamica fondamentale dell’esegesi spirituale e ha origine nella pratica della Lectio Divina e – ancor prima – nell’esegesi origeniana, che poi si è sviluppata come meditazione. Sui legami tra mu-sica e meditazione, al riguardo, ci permettiamo di rinviare a GIROLAMO DAL MASO, Danza e silenzio. Teologia e affetti in Bach, in: «Il Pensiero. Rivista di filosofia», N. S. 2, 43, 2004, 147-161; GIROLAMO DAL MASO, Meditazione e scrittura musicale nelle Leçons de Ténèbres di François Couperin, «Rivista di storia e letteratura religiosa» 4, 41, 2005, 725-750.

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DA CUORE A CUORE 295

prie mani, giunte in preghiera, mani che vorrebbero accarezzare le ferite del Signore, mani e cuore forse anche trafitti a imitazione di Cristo – o non è forse piuttosto Lui che porta su di Sé le piaghe di una umanità mortal-mente ferita, portando nello stesso tempo un annuncio, una speranza di pace?

4. Emblemi e risonanze

All’interno di MJN, uno dei momenti privilegiati da Buxtehude è riser-vato alla musica strumentale. Siamo di fronte a una esegesi del testo spiri-tuale affidato non solo alle parole ma anche al commento musicale, quando le parole tacciono ma il senso del discorso non cessa di essere indicato. Il venir meno delle parole permette alla musica di parlare a suo modo. Questo ritmo di parole e musica che si ripete nell’arco di tutta la Cantata apre e coltiva uno spazio di risonanza cordiale. In «Ad Pedes» la musica strumentale, come si è visto, si relaziona in modo dinamico con il canto. Allargando l’orizzonte in una prospettiva più sistematica, all’interno della Cantata possiamo evidenziare il rapporto che le sonate intrattengono entro le singole parti e il ruolo di accompagnamento dei ritornelli.

Sonata > StrumentaleSinfonia

AriaRitornello > Strumentale

AriaRitornello > Strumentale

AriaSinfonia

Ci sembra che sottolineare la qualità ostensiva e meditativa di queste se-zioni strumentali aiuti a valorizzare la capacità architettonica e organizza-trice dello stile di Buxtehude, quella sua abilità nel coordinare le varie parti del discorso musicale (abilità che ritroviamo nelle composizioni per or-gano) ma anche una certa sua sensibilità, un accostarsi felice e stupito (dal punto di vista musicale) ai momenti più distesi e introversi. In questo senso, la meditazione è una sosta dal punto di vista architettonico e del rapporto tra le parti del discorso musicale e retorico, una pausa che induce a riflettere e a interiorizzare; ma anche uno stile, una preferenza accordata congenialmente ai generi e ai tempi musicali più distesi, come se questi po-tessero essere il cuore dello stesso discorso architettonico. Ritroviamo, anche da questa ottica, quel rapporto fra il tutto e le parti che non è solo

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articolazione fluida ma anche vettore di senso, movimento di elevazione e raccoglimento che punta ad evidenziare un cuore del discorso musicale.41

4.1 Le sonate come emblemi

Ognuna delle sette sonate è emblema di una delle membra di Cristo e, ugualmente, di una passione ad essa corrispondente. Le membra stesse, ciascuna e tutte, sono emblema, corpo toccato e suonato dalla passione.42 Vediamo, in successione, come si presentano e offrono all’ascolto e alla meditazione.

La sonata «Ad Pedes» è – lo si è visto – esordio e introduzione alla con-templazione e al canto: un deittico (Ecce), un accordo (Do minore) raccolto (lettura verticale delle note della partitura) e disteso (lettura orizzontale delle note della partitura) in poche minime che si aprono alle crome e al dialogo dei due violini, che prima vibrano all’unisono e poi singolarmente. L’accordo iniziale si apre, si scioglie e si eleva.43 Il primo violino intona una melodia dal Sol al Do (intervallo di quarta), seguito, una terza sotto, dal se-condo violino (dal Mi al La). Poi, mentre il primo violino indugia sulla to-nica, il Do (con un solo leggero movimento discendente e subito ascen-dente sulla sensibile, Si), il secondo violino riscende al Mi. In poche battute siamo coinvolti in un movimento di elevazione e raccoglimento, emblema di tutta la Cantata.

La seconda sonata introduce le ginocchia che accolgono, sostengono, ac-coccolano e tremano, con delicata, malinconica dolcezza. Sono ginocchia trasfigurate: le ferite delle cadute lungo la Via Crucis sono meditate alla luce della loro causa (l’amore salvifico di Cristo, innanzitutto del Signore verso il fedele e, sua conseguenza, del fedele verso Cristo) e del loro fine (la salvezza del fedele). Questa dolce sonata è in tremulo, come una ninna-nanna. Le minime, lunghe e distese sono quasi cullate dal tremulo e dalle modulazioni, soprattutto finali, del basso continuo. I violini fanno quasi da sottofondo, avvolgendoli come in una culla, ai turbamenti armonici del basso. L’esordio, un accordo (ancora più lungo di quello della prima so-nata) di Mi Bemolle maggiore insiste e, come nella prima sonata che non può non richiamare (è la sua relativa maggiore), altrettanto poi si sviluppa a suo modo.

41 Abbiamo, a questo punto, almeno tre elementi principali che – da un punto di vista più generale – si combinano nello stile di Buxtehude: la dimensione cordiale e medi-tativa, il senso architettonico della misura e del rapporto tra le parti, lo stile ‘phanta -stikus’ come ingegno e sorpresa.

42 Vale, al riguardo, quanto Charvet dice dei vocalizzi di Couperin all’interno delle sue Leçons de Ténèbres: ‘Non si tratta di momenti puramente decorativi, ma di emblemi delle passioni’. CHARVET, La voce delle passioni, 52.

43 Cfr. esempio musicale supra.

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La terza sonata è emblema di ferita e languore. Quest’ultimo è richia-mato dalle prime cinque battute, con il basso a insistere sul Sol.

Anche i violini tracciano un abbozzo di lamento con una melodia piana, senza stacchi, con intervalli di seconda.44 Questi stessi intervalli di seconda – a volte anche diminuita – saranno ripresi dal canto all’inizio della sin-fonia. Alla sesta battuta, repentino, un cambio, una scossa. Il violone, che fino ad allora non si era sbloccato dal Sol, crolla dal Sol alto al Re basso (più di tre ottave) in una battuta e mezza. Pure il canto dei violini si fa mo-vimentato e scosso. È rappresentato in modo emblematico il trapasso da un dolore languido a uno pulsante, dal gelo bloccato dei brividi alle scosse dello spasimo.

La quarta sonata ha andamento singhiozzante (movimento e attitudine che Mozart esplorerà nel suo testamentario «Lacrimosa»), di brevi singulti (crome) che alla fine si distendono in una successione quasi regolare di se-miminime, sparendo le crome.

44 ‘La Seconda, che è il rovescio della Settima maggiore e fa vibrare la nota accanto, cioè la nota falsa, non costituisce il più indifferenziato e il meno armonioso degli interval-li, il più vicino al suono bruto?’ VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile, Mila-no, Bompiani 1998, 33.

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C’è, in questo emblema, un sussulto, proprio nel mezzo, all’ottava bat-tuta, un po’ retorico e ad effetto, ma efficace, con un brivido ascensionale – un sobbalzo che è sospiro e ripresa – delle note che singhiozzando scende-vano lentamente in basso. Sono presentati – come nella sonata precedente – due tipologie di dolore coordinate a due tipologie di pianto. La stessa me-lodia ha due versanti connessi che si dicono l’uno nell’altro. La sofferenza di Cristo (ora pulsante, ora languida) si dice nel pianto del fedele (ora più calmo, ora più scosso) che da quella sofferenza è com-mosso.

La quinta sonata ha un andamento meno singolare. Accentua il suo va-lore di introduzione alla sinfonia. Non ha tratti che la pongano in rilievo. È emblema di una sosta, come una pausa di meditazione, uno spazio di rac-coglimento. Vale più come vettore che per il contenuto che porta con sé. Questo carattere ri-flessivo è sottolineato dalla ripetizione finale dell’ul-tima battuta (10 e 11) che non è solo una scelta stilistica, un espediente re-torico fine a se stesso. Nella musica barocca ogni artificio, ogni abbelli-mento, ogni scelta retorica non ha senso in sé (questo potrebbe essere piut-tosto un gioco tipicamente rococò45) ma in quanto dona senso al discorso musicale in cui si inserisce.46 Questa sonata è emblema di indugio medita-

45 Possiamo parlare, in questo caso di ‘baroque du baroque’ o di un ‘baroque d’épa-nouissement’. ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 175s.

46 ‘L’ornamento è ben più di una decorazione, esso è portatore di significato. (…) Si orna solo quando c’è esattamente qualcosa in più da dire. (…) L’ornamento non sta lì solo per sorprendere, ma anche per emozionare. Esprimendo la passione, dimostra di non

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tivo e accorato e crea la possibilità di uno spazio di raccoglimento. È, lette-ralmente, introduzione. Non è un caso che la sinfonia a cui introduce sia fondamentale per l’ermeneutica dell’intera Cantata. Essa infatti, nel testo, evidenzia i contenuti della mistica affettiva, introducendo la teoria dei sensi spirituali:

Si tamen gustatis,quoniam dulcis est Dominus.

Si crea uno spazio affettivo, un ricettacolo e una corrispondenza per la teoria degli affetti spirituali. In questo modo la componente oggettiva (il contenuto della dottrina contemplativa) è da subito intima alla compo-nente soggettiva (la partecipazione cordiale del fedele), così da non poter esistere una senza l’altra. Quanto si crede di Cristo implica un coinvolgi-mento del devoto; gli affetti del fedele sono generati e segnati dalla con-templazione orante di Cristo, vero Dio e vero uomo.

La sesta sonata, come si è già notato, si distingue dalle altre. Cambia l’organico, formato da ben cinque viola da gamba. È la sonata più lunga, ben 38 battute. Al suo interno, unico caso tra le sonate della Cantata, ha notazioni di tempo che cambiano, dall’adagio all’allegro, tre volte, con un ultimo cambiamento da allegro al conclusivo adagio, come pure le indica-zioni del tempo, da 4/4 a 3/2. L’alternanza di momenti più lenti ad altri più scossi era già stata esplorata nella terza cantata, ma in questo caso il di -scorso è molto più articolato e intenso. Sarà bene ritornarci.

Infine, la settima sonata, conclusione e raccoglimento insieme.

Due violini come portati dal vento, in un gioco leggero di riprese, come folate; una linea melodica che va e viene, si innalza e poi si adagia, si con-cede e si nasconde nella sua eco. Un movimento che è saluto, carezza, no-stalgia, una mestizia mista ad affetto, essenziale. Non si perde in fronzoli e per questo è abitata da consolazione. Mestizia e consolazione, dolore e af-fetto: la qualità spirituale dell’ispirazione permette a questa leggerezza di non essere vacuo motivo estetico o emotivo, neppure vuoto pensiero dida-scalico, ma melodia alitata, soffiata. Viene da fuori eppure sgorga dal cuore, non le è estranea. Non lo attanaglia, piuttosto apre in esso uno

essere una semplice prova di abilità tecnica’. JEAN-LOUP CHARVET, La passione dell’or-namento, in CHARVET, La voce delle passioni, 47-56.

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spazio di corriflessività, di corresponsorialità. Si concede umilmente e dona di concedersi ad essa. Suscita, evoca, offre libertà di abbandonarsi a quel moto cordiale dello spirito. Non è immateriale, movimento etereo: tocca il cuore, che è pur sempre un muscolo, con le sue leggi fisiche e biologiche, i suoi ritmi e i suoi sobbalzi, il suo umile vigore. Riconcilia carne e spirito. L’aria, il motivo della sonata è introduzione, respiro, crea uno spazio perché i polmoni si dilatino e la voce nella sinfonia prenda fiato e possa poi dirsi ed esprimersi, per un canto che unisce voci e violini. Una melodia disegnata dal vento, da leggere folate che si susseguono, quasi un gioco. Eppure questa leggerezza è abitata da una gravità e compostezza, che pure dà a pensare. Una carezza: qualcosa di esterno che tocca, ma è pure intimo, non è estraneo.

4.2 I ritornelli come tempo di risonanza

Se le sonate sono come degli emblemi che introducono le parole e i con-cetti spirituali in musica, i ritornelli – l’altro elemento strumentale della Cantata – costituiscono come una cassa di risonanza delle parole. Incasto-nati tra le arie, non sono meri momenti di transizione, ma accompagna-mento e sostegno. Sottolineano il momento e il movimento estatico delle parole, l’ineffabile del dire.47 La musica è al servizio della dimensione toc-cante del discorso, attraverso il coinvolgimento emotivo e retorico. Seb-bene meno sviluppato della sonata, ogni ritornello ha un suo andamento proprio. Le scelte di Buxtehude sono, in questo caso, dettate da un desi-derio di sobrietà, quasi a mettere in secondo piano le potenzialità degli strumenti che sono orientate, retoricamente, al dialogo con le parti cantate. Lo stile ha tratti facilmente delineabili, come il gioco tra i due violini che si rincorrono e poi concludono omofonicamente nella prima cantata, ripren-dendo la sonata e la sinfonia; l’uso del legato che esprime una qualità affet-tiva (sempre nella prima cantata), di una catena di crome (seconda cantata), o – diversamente – di malinconiche semiminime che si tratten-gono nella terza cantata, mimando il languore della sonata iniziale; un uso molto dinamico del violone, quasi un controcanto, nella quinta cantata. Possiamo soffermarci sulle ultime due cantate. Nella sesta, riprendendo la dinamica della sonata, il ritornello ha un cambio di tempo e, sempre ri -prendendo la dinamica della sonata, un duplice, differenziato andamento. Dopo la sinfonia, con procedura singolare, c’è un ritornello.

47 JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile. In riferimento ai mutamenti tra Rinascimento e Barocco (sebbene il termine non sia usato dall’autore) a proposito del silenzio con-templativo si rinvia alle osservazioni di Sequeri in: PIERANGELO SEQUERI, L’Uno e i mol-ti, lo Spirito e la voce. Palestrina e il Grand Siècle, in SEQUERI, Musica e mistica, 155-227.

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Il tempo cambia da 4/4 a 3/2 e la melodia è disegnata da lunghe note, contribuendo a dare un valore di pausa riflessiva in questo preciso mo-mento, al cuore del discorso. Dopo la prima e la seconda aria, invece, il tempo rimane di 4/4 ma le note sono per lo più una lunga scansione di crome, con un accompagnamento dinamico del basso, affidato al violone. Nella terza aria, cantata dal basso, continua l’organico di cinque viole del ritornello che rimarrà fino alla fine della Sonata, sottolineando il legame tra i versi pseudo-bernardiani cantati dal basso e i versetti del Cantico della sinfonia finale.

Nella settima cantata, meno sviluppata per lo spazio dato alla grande fuga finale sull’Amen, il ritornello manifesta il suo legame con il canto delle arie in un duplice movimento. Da una parte, si incastona in modo dialogico dentro le stesse arie (la prima e la terza) facendo da controcanto alle voci, dall’altra (dopo prima e la seconda aria) sviluppa una sua propria melodia, ma in continuità con quella inserita nelle arie, come se questa, fi-nalmente, potesse sciogliersi liberamente ad esprimersi in suo proprio di-scorso.

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Nei punti evidenziati si coglie la relazione dinamica che esiste tra canto e testo, da una parte, e sonata, sinfonia e ritornello dall’altra. Buxtehude gioca sui loro possibili e sottili nessi e trapassi. Unisce il prima e il dopo, il dentro e il fuori, li pone in rapporto dialogico, li fa insistere mentre li pone in relazione. Musica vocale e musica strumentale sono ora vicine, ora giu-stapposte, ora continuano uno stesso discorso, ora cambiano tempo, ora lo continuano a seconda dei frangenti. Se esiste una regola, sembra essere quella che sa piegarsi all’occasione, quella che dona la maggiore malleabi-lità alle singole parti, piegandole o adagiandole al discorso che è prima di tutto discorso spirituale, sebbene tradotto e veicolato dal discorso musi-cale.48

5. Mistica affettiva: cuore e sensi spirituali

Se fino ad ora ci siamo soffermati sull’elemento più propriamente musi-cale, non è da dimenticare che, come si notava all’inizio, i testi hanno in MJN una rilevanza straordinaria. Già la scelta redazionale ci mette a parte di una riflessione teologica che nulla lascia al caso.

5.1 Il Cantico dei Cantici e la mistica sponsale

Come chiave ermeneutica, possiamo concentrarci sui testi biblici che Buxtehude stesso, probabilmente, ha scelto per la parte centrale della Can-

48 Il discorso musicale va inteso qui come circolarità fra testo musicale e testo poetico secondo la dinamica sopra evidenziata di una alleanza tra parola e musica.

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tata, quella che ruota attorno al cuore49. Abbiamo, da questo punto di vista, un trittico incorniciato da due citazioni del Cantico:

IV) Ad Latus > Ct. 2,13-14 ‘Surge, amica mia, speciosa mia, et veni:columba mea in foraminibus petrae,in caverna maceriae’.

V) AdPectus > 1 Pt. 2,2-3 ‘Sicut modo geniti infantes rationabiles,et sine dolo (lac) concupiscite,ut in eo crescatis in salutem.Si tamen gustatis,quoniam dulcis est Dominus’.

VI) Ad Cor > Ct. 4,9 ‘Vulnerasti, cor meum,soror mea, sponsa’.

In questo modo ha risalto, come centro di una inclusione, anche l’unico testo del Nuovo Testamento scelto da Buxtehude, nel quale l’orientamento cristologico viene evidenziato dalla sparizione della parola ‘lac’ che da una parte distoglie dall’attributo specificamente femminile, dall’altro permette di spostare in modo più marcato l’attenzione dal seno al cuore50. Nella quarta e nella quinta sinfonia, l’attenzione può cadere sui versi finali, in cui viene ripetuta una duplice serie di immagini correlate, rispettivamente in foraminibus petrae, in caverna maceriae e gustatis quoniam dulcis. Il cuore, che nella sesta cantata, è compreso come trafitto e ferito (vulnerasti) è anche caverna-ricettacolo e sede del gusto. Abbiamo così tre simboli che, nella loro articolazione, esprimono la mistica affettiva: l’anfratto-ricetta-

49 Anche in questo caso Buxtehude è testimone di una lunga tradizione. ‘Al cuore di Cristo si arriva dopo che l’attenzione devota si era concentrata lungamente su un altro aspetto del corpo fisico di Cristo, contiguo, ma diverso: la piaga del fianco. Non per via di sviluppo logico nasce il nuovo pensiero, ma per via di trasferta da devozione a de-vozione. Lo squarcio nel petto coinvolse il cuore, ma ciò provocò il trasferimento della piaga dal lato destro al lato sinistro del corpo divino. La ferita inferta dalla lancia era sempre stata localizzata a destra, dagli apocrifi a san Bernardo e oltre; il culto nascente del cuore la spostò a sinistra per farla coincidere con l’organo. Nacque allora la metafora del cuore abitacolo, che si era già diffusa, ma con oggetto il fianco, nel-l’ambito della devozione delle piaghe. Guglielmo di Saint-Thierry sembra il primo che applichi decisamente al cuore e non al fianco l’immagine; dopo di lui il tema spesseg-gia al punto che non mette conto estrarre tessere d’identità da una folla di così nobili testimonianze.’ POZZI, Sull’orlo del visibile parlare, 403.

50 È la spiritualità cristologica sapienziale, ancora una volta, a integrare l’elemento fem-minile attraverso la figura della Sapienza. Sull’importanza della Sapienza per la spiri-tualità barocca, cfr. PAOLO FONTANA, Teologia e spiritualità nel Grand Siècle, in GIUSEPPE OCCHIPINTI (ed.), Storia della teologia. 2: da Pietro Abelardo a Roberto Bellarmino, Bolo-gna-Roma, Ed. Dehoniane 1986, 639-660. Più in generale sugli intrighi fra teologia e spiritualità in ambito protestante, oltre ai già citati lavori di Labie e Sequeri per l’am-bito più propriamente musicale, cfr. ROBERTO OSCULATI, Vero cristianesimo. Teologia e società moderna nel pietismo luterano, Bari-Roma, Laterza 1990.

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colo (foraminibus e caverna), il gusto-dolcezza (gustatis e dulcis) e la ferita (vulnerasti). Questi tre elementi si ritrovano disseminati in tutta la Cantata.

5.2 Ferite d’amore

Il tratto su cui, ovviamente, Buxtehude insiste di più è quello legato alle ferite e al dolore che esse comportano. Già abbiamo visto come la musica strumentale presenti le ferite di Cristo e il dolore corrispondente nel fedele in un duplice modo, alternando languore e spasimo. La ferita è cantata in modo esplicito a proposito delle mani trafitte, nella sinfonia Qui sunt plagae istae, in cui, non a caso, riappare un aggettivo dalla funzione deit-tica. La causa materiale della sofferenza (lignum) è ripetuta insistente-mente dal primo soprano nella terza cantata. Abbiamo, in questo caso, un sottile trapasso nelle arie. Se il primo soprano si sofferma a contemplare le ferite aperte di Cristo, il secondo sottolinea la commozione del fedele di fronte a tanto penoso spettacolo.

Alle gocce di sangue che fuoriescono dalle mani stese (expansis che si prolunga, dolente, per tre battute) di Cristo corrispondono quindi le la-crime che sgorgano dagli occhi del fedele. Quegli occhi che prima vedono le stille sanguigne, ora sono essi stessi a sciogliersi nel pianto.

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Lacrimas riprende l’expansis dell’aria precedente, creando un legame tra le mani sanguinanti del Signore e gli occhi gementi del fedele, legame sot-tolineato dai versi precedenti: plagis tantis, clavis duris, guttis sanctis (rife-riti alle mani di Cristo) dans lacrimas (tre battute) cum osculis. Le lacrime, vibrazione emotiva, possono arrivare a degli scossoni come nel tremore, aria dell’alto nella quinta cantata, unico caso in cui una parola è spezzata da pause, e al languore come fa il secondo soprano nella sesta cantata: lan-guens amoris vulnere. Si crea in questo modo un filo cangiante tra la sin-fonia (vulnerasti cor meum) e l’aria del secondo soprano (languens amoris vulnere), per cui la ferita del cuore è interpretata come ferita d’amore. Il patetismo è espresso in modo sofferto sia dal soffermarsi sulla parola lan-guens che dall’insistere sulla sesta minore (vulnerasti). Se questo è uno dei vertici patetici della Cantata, dal punto di vista retorico anche l’aria del basso, con l’accompagnamento delle viole, ha una rilevanza particolare. Sono le note più profonde e basse, che discendono (viva cordis voce) per poi risalire (dulce cor te amo e devoto tibi pectore), tessendo insieme i fili della mistica affettiva: il cuore che parla e che ama, che gusta la dolcezza, è la sede della devozione (devoto è ripetuto 5 volte, la quarta con dei melismi).

Legati all’esperienza del dolore e della sofferenza – di cui le ferite di Cristo sono icona – sono, poi, molteplici i momenti in cui la meditazione si sofferma sulla fallibilità e drammaticità dell’esperienza umana.

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Nella prima cantata, la miseria della condizione umana è espressa dal basso con un indignum che scende fino al Mi basso (battuta 5) per poi risa-lire velocemente, drammaticamente, alla nota più alta dell’aria (Re be-molle) di benignum, accentuando oltremisura la distanza tra il me indi-gnum del devoto e il te benignum di Cristo. Poco dopo è l’alto a soffermarsi sulla dupla morte, esito drammaticamente mortale del peccato.

5.3 I sensi spirituali: la dolcezza

Il tratto della dolcezza ha una straordinaria presentazione nella sinfonia della quinta cantata, in cui la musica accompagna il testo con una sotti-gliezza ermeneutica degna dei grandi maestri spirituali, giocando tra il dirsi delle parole e il loro tacere, tra il flusso del discorrere e il suo arre -starsi stupito.

La crescita spirituale (crescatis) dipende dal desiderio (concupiscite), ma questo è reso possibile da una previa esperienza: il gustare la dolcezza del Signore. Nella partitura Buxtehude indugia su una parola, quasi meno che parola, quella che esprime in sé la possibilità stessa dell’esperienza e la in-troduce come grazia sospesa: si. Le lunghe note del basso continuo, del-l’alto e tenore prima, del basso poi – come eco – aprono uno spazio di stu-pore, una possibilità che non si impone ma si affaccia. S. Giovanni della Croce aveva intuito l’importanza di questa fragile, promettente sospen-

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sione (si) nel discorso spirituale. Balthasar ha colto questo momento in modo incisivo:

O cristallina fuentesi en esos tus semblantes plateadosformases de repentelos ojos deseadosque tengo e n mi entrañas dibujados. (…)

Come è meraviglioso questo «se» nostalgico così inerme nel suo aprirsi; se questo potesse avvenire che sulla mobile e splendente superficie (che è pure quello della fonte stessa cristallinamente diafana fino in fondo e perciò in-sondabile) Tu improvvisamente, exaiphnês, spalancassi il vero sguardo, la profondità senza fondo dello sguardo – Videntem videre – la cui penombra, contorno, allusione già si trova nell’occhio e nella fonte dell’anima; se Tu davanti a me, ma in me, se davanti ai miei occhi, ma nei miei occhi, il Tuo occhio aprissi!51

La corrifflessività e coappartenenza tra Dio e devoto che Giovanni della Croce esprime nello sguardo che li simboleggia e ha in quel si un tocco mi-rabile, come uno spazio che si apra alla reciproca, libera interazione, nel testo scelto da Buxtehude viene espressa da un altro senso, il gusto. È di capitale importanza che il petto sia, in MJN, collegato al cuore. Anche in questo il musicista riprende una cadenza del discorso spirituale di Gio-vanni della Croce e di tutta la mistica affettiva: la crescita nella fede è cer-tamente approfondimento della conoscenza di Cristo, progresso dottrinale (quali creature rationabiles che, da infantes, imparino dapprima a balbet-tare i nomi e la grammatica dei misteri), ma – nello stesso tempo – coin-volgimento personale, in una prospettiva che deve molto al linguaggio e alla simbologia del Cantico:

È senz’altro attendibile che il commento spieghi la fonte cristallina con la fede (…) e che intenda i «sembianti argentati» come le singole «proposizioni di fede» che quaggiù sono «argentee» e che solo nell’altra vita mostreranno il loro segreto. Ugualmente attendibile è che gli «occhi desiati» siano inter-pretati come i «raggi divini» e come le «eterne verità» che a noi quaggiù brillano incontro ancora oscure dagli articoli della fede. L’essere questi occhi nel cuore dell’uomo «disegnati» o «abbozzati» significa certamente che il cuore possiede queste verità nelle virtù infuse, per quanto oscure e imperfet-te. Oltre a tutto questo, dice il commento, esiste un altro abbozzo, quello del-l’amore; l’amante porta un’immagine dell’amato nel cuore e «l’amore tra-

51 HANS URS VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica. 3 : Stili eeclesiali, Milano, Jaca Book 1986, 115.

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sformante crea tra i due una tale somiglianza che ciascuno sembra sia l’altro e che entrambi siano uno solo» (…)Giovanni si allinea qui espressamente alla dottrina e alla scuola di Bernardo e Bonaventura. La volontà in quanto amore si libra al di sopra dell’intelletto La volontà in quanto amore si libra al di sopra dell’intelletto che resta indie-tro, al quale proposito ci si deve ricordare che per l’antica psicologia la vo-lontà-amore include per gran parte il«cuore» nel senso biblico del termine e con questo si accosta al senso di ciò che oggi noi chiamiamo persona, centro personale. Perciò questa trascendente volontà d’amore in Giovanni viene soddisfatta da Dio mediante ciò che egli nella sua lingua chiama «tocco so-stanziale», mediante contatto immediato (amenôs) da essenza a essenza, da persona a persona, che attraversa e supera gli atti particolari del conoscere, del sentire e del desiderare .52

Nella pur diversa prospettiva, ancora marcatamente metafisica e scola-stica, di Giovanni della Croce, l’esperienza della vista si combina con quella del tatto (un tocco) perché ha la sua sede nel cuore, nel centro per-sonale dell’uomo e di Dio. Ciò che è importante è il rilievo dato ai sensi. Essi sono effettivamente questi tocchi che bussano al cuore, degli atti, dei frangenti in cui il devoto e Cristo si coappartengono, in cui la dolcezza di Cristo diventa la dolcezza del devoto.53 Il gustare non è atto che si imponga ma spazio di corrispondenza, possibilità di crescita. Non è nemmeno espe-rienza chiusa in sé ma spazio aperto, anzi apertura di uno spazio, disvela-mento di possibilità ulteriori. Il tratto sensibile e concreto è poi da subito compreso per Buxtehude in una sfera più elevata: la dolcezza riguarda un essere razionale (rationabiles). Ciò che egli ancora non sa dire (infantes) è tuttavia vissuto e sentito (gustatis), sebbene, agli occhi della stessa ragione, in modo ancora implicito (si) ma non per questo meno reale. Il cuore in-tuisce e gusta quanto ancora non può comprendere pienamente. La musica offre a Buxtehude la possibilità di esplorare questo momento della crescita

52 VON BALTHASAR, Gloria, 115 e 118.53 L’esegesi di Giovanni della Croce da parte di Balthasar è forse, da questo versante, li -

mitata. Egli non indugia nella fenomenologia del tocco, non la percorre e non la canta (come fa invece per la notte oscura e per tutta la via negativa). Essa è quasi da subito assorbita e risucchiata dal tocco sostanziale a discapito di ogni altro tocco che tutta-via non è mero accidente o premessa da superare. Attraversare e sostare questi infini-ti paesaggi del tocco spirituale ci sembra una operazione a cui Balthasar sfugge pre-mendogli di arrivare, forse troppo presto, al cuore del discorso. Ma, appunto, il cuore si racconta e si canta anche in tutte queste soste che sono primizia e pregustazione. La teoria dei sensi spirituali pende, in questo caso, decisamente verso la spiritualizza-zione, trascurando – invece – il suo tratto sensibile. L’unità personale – il cuore – da questo punto di vista, non è mai dato in astratto ma nella circolarità con i suoi atti che – come vorrebbe mostrare la nostra esegesi di Buxtehude – aprono uno spazio di stupore in cui, effettivamente, il cuore trova un modo di dirsi e di essere detto.

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spirituale. Essa riesce a suggerire qualcosa che, pur coordinato alle parole, sfugge loro ma, nello stesso tempo, sfugge pure a lei stessa. Giovanni della Croce stesso ne accenna a proposito della musica callada e della soledad so-nora, quando effettivamente il discorso, il dialogo si fa da cuore a cuore, trascendendo i tocchi che lo annunciavano.54 Il si, nel suo fragile proporsi, tra pausa e premessa, è simbolo di uno spazio trascendentale. La partitura, con le corrispondenti battute quasi vuote di note, simboleggia questo spazio che è condizione di possibilità per le note successive, per i tocchi a venire. Come nel caso degli accordi iniziali nella prima e seconda cantata, come pure nel caso degli intervalli meditativi, siamo di fronte a una logica del raccoglimento e della sospensione del discorso affinchè esso possa dirsi o – in questo caso – possa progredire. Questi tempi di rallentamento non sono solo parte di un discorso retorico ma svolgono la funzione di ‘kairoi’. Disvelano una profondità che si affaccia quasi timidamente, portano alla superficie un respiro che avvolge e alita quanto segue e precede. Attra-verso la correlazione tra il gusto e questa pausa estatica, esso è da subito preservato dal pericolo di godere di sé autonomamente. La dolcezza esiste, può essere gustata, solo entro questo spazio incantato. Se si imponesse, sfacciatamente, verrebbe meno al suo stesso essere. Ci sembra mirabile il modo con cui Buxtehude mette al centro la dolcezza aprendola da subito a una comprensione ampia e profonda.

5.4 La caverna, rifugio e ricettacolo d’amore

L’immagine della caverna, invece, interpreta la ferita del cuore e il suo essere schiuso come apertura di uno spazio intimo in cui entrare e mette al centro l’accoglienza.55 Il cuore come ambito relazionale della persona, non come vuoto fondo abissale, inattingibile resto metafisico, cima insondabile, ma come dimora invitante e sede degli affetti personali,56 in tutto MJN, è espresso nell’insistito ricorso alla seconda persona singolare, come nella prima cantata il tuorum su cui si soffermano gli abbellimenti della sinfonia, o il cum te cantato insistentemente, quasi un rincorrersi, dai due soprani e dal basso nella seconda cantata. Abbiamo come uno spazio accogliente: il

54 ‘I «toques», i contatti da essenza a essenza che nel centro del cuore dell’io rendono presente il centro del cuore del Tu, sono l’esperienza quasi mortale, trascendente ogni felicità di continuo rinominata, compatibile con il bacio all’inizio del Cantico dei can-tici’. VON BALTHASAR, Gloria, 128.

55 ‘L’attenzione al cuore carneo di Cristo si sviluppa partendo dalla metafora dell’aper-tura al fianco, da quando viene qualificata come porta d’un abitacolo che si fa rifugio al contemplativo’. POZZI, Sull’orlo del visibile parlare, 419.

56 ‘Nel seguito della fortuna latina, decisivo è, come sempre, sant’ Agostino. Cauto nel-l’uso del vocabolo [cuore, ndr.] quando parla dell’anima e dell’intelletto in sede spe-culativa, ne moltiplica la presenza quando dà luogo al discorso affettivo e introspetti-vo’. POZZI, Sull’orlo del visibile parlare, 400.

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corpo si fa ricettacolo e compagno, come indica l’insistere della preposi-zione ‘con’ (cum te e com-plector). Il Tu è – come richiamava l’esegesi jua-nista di Balthasar – da una parte l’oggetto della fede, di cui il devoto non può disporre, ma – interiormente a questa stessa dinamica della fede – nello stesso tempo è una persona a cui rapportarsi. L’abbraccio che lega l’io e il Tu è uno stringersi alle membra di Cristo per potersi stringere a Lui personalmente, per abbracciarlo nel cuore. Questo desiderio di inti-mità, di entrare nella comunione, ha anche una sfumatura che la mistica moderna ha spesso sottolineato. Il cuore, in quanto ricettacolo, è anche un rifugio per il fedele.57 Il secondo soprano, nella quarta cantata, esprime questo rifugio come porto di salvezza, in cui l’avversario mortale non hanno potere:

Hora mortis meus flatusIntret, Jesu, tuum latus,Hinc expirans in te vadat,Ne hunc leo trux invadat,Sed apud te permaneat.

L’invadat del truce leone cede, finalmente, posto all’apud te permaneat. È questo l’esito che la preghiera già pregusta in quanto già da ora il fedele è apud te. La relazione con il Tu è relazione vivificante e permanente, pro-prio nel momento della transitorietà per eccellenza, la morte. Tuttavia, il rifugio per il contemplativo è, dapprima, proprio in questa dimensione di relazionalità vissuta ed esperita, spazio di dolcezza e amore. Lontano dalle insidie del mondo il devoto gusta la dolcezza dell’amore, come canta il primo soprano nella prima aria:

Salve latus salvatoris,in quo latet mel dulcoris,in quo patet vis amoris,ex quo scatet fons cruoris,qui corda lavat sordida.

57 Questo mistero soltanto è l’assoluto refugio, al di là di ogni cosa del mondo e di ogni atto e stato spirituale, il «nascondiglio» in cui riposa in sicurezza massima, il «muro» e «volto di pace» e in tutto ciò la gran soledad de todas la cosas. È la solitudine in cui Dio ha condotto il suo popolo per parlare ad esso e per sposarsi con lui (Os 2,16), il «silenzio in cui si percepiscono le parole dell’infinita Sapienza». Chi è nascosto così è sicuro: «se l’anima possiede queste cose nel segreto (a solas), anche le comprende nel segreto, le gode nel segreto». VON BALTHASAR, Gloria, 106.

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5.5 Le ragioni del cuore

Il cuore, ricettacolo dell’amore, che risiede nel costato, è contemplato secondo la ricchezza di sensi che la mistica sponsale ha elaborato nel corso dei secoli. Se la ferita sottolinea la passione subita, l’immagine della ca-verna invita ad entrare in una dimensione più interpersonale e intima, se-condo una linea interpretativa che si approfondisce con la dottrina dei sensi spirituali, sottolineando in modo particolare il gusto: è nel cuore-ca-verna che il devoto riceve la visita di Gesù e ne gusta la dolce presenza. Il tratto negativo, quello della sofferenza, è in questo modo bilanciato da un linguaggio spirituale che coglie in modo positivo, come dimora e come dol-cezza, la passione. Si crea una circolarità, per cui la passione è dolore e gioia, sofferenza e dolcezza. È evidente che in questo modello di spiritua-lità il dato oggettivo e dottrinale è intimamente connesso con quello sog-gettivo e personale. Se la Cantata stessa, con il suo alternare versetti biblici e versi poetici, parti corali e arie soliste, è costruita sul rapporto vicende-vole tra ‘fides quae’ e ‘fides qua’, proprio il cuore evidenzia questa plura-lità tra senso letterale e senso spirituale, senso cristologico e senso eccle-siale. L’ermeneutica biblica è, come si è già visto, orientata a una pluralità di sensi sorprendente, come prisma che rifrange la stessa, unica luce in vari colori e direzioni, che pure hanno un medesimo punto di avvio e di di-ramazione a cui non cessano di rinviare. Vulnerasti cor meum: l’aggettivo possessivo, nella cantata, rimane ambiguo, o meglio polisemico. Il cuore, infatti, è prima di tutto quello della Sulamita dei versi di Salomone, se-guendo il senso letterale del testo veterotestamentario. Il cuore, però, nella Cantata, è quello di Cristo, oggetto della contemplazione del fedele: «Ad Cor» indica una delle membra di Cristo, e attraverso di essa tutta la sua persona. Ma il cuore è anche quello della Sposa di Cristo, la Chiesa, imper-sonificata dalla donna del Cantico. Questo senso ecclesiale è, nella lettera-tura spirituale antica, il più diffuso e anche Buxtehude in una delle sue Abendmusiken si rifà esplicitamente a questa tradizione.58 Ma, infine, la sposa del Cantico è immagine dell’anima innamorata di Cristo, rapita e fe-rita dall’amore. Questo tratto, che in epoca moderna prende sempre più piede, è ancora secondario, una delle tante sfumature possibili e non an-cora la principale. La dimensione soggettiva della fede e dell’amore teolo-gale ha una componente più comunitaria ed ecclesiale che privata e perso-nale, pur non essendo quest’ultima assente. Si tratta, inoltre, di un cuore che canta. Il titolo della Cantata, nell’autografo, lo dichiara esplicitamente: humillima devotione totius cordis decantata. Il cuore è la sede propria della devozione, la cui umiltà e umiliazione è stata ricordata, proprio in quanto canta e canta con tutto se stesso. Il gioco prismatico di specchi e di riflessi si fa quindi molto articolato. Dal senso letterale al senso spirituale il cuore

58 Cfr. supra nota 22.

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del Cantico assume sfumature ora cristologiche, ora ecclesiali, ora antropo-logiche senza che si possa escluderle una dall’altra. Inoltre questo stesso gioco fa sì che il tratto oggettivo (Cristo, la Chiesa, il fedele) non sia colto chiuso in se stesso ma in relazione, coinvolto in una molteplicità di rap-porti in cui si sviluppa il suo stesso essere. La componente soggettiva non è quindi esterna a quella oggettiva, non è un involucro che – astrattamente – potrebbe pure venire meno.

Nella devozione cordiale di Buxtehude possiamo rinvenire, oltre a questo gioco tra dimensione soggettiva e oggettiva, fra attitudine e conte-nuto, altri punti di forza. Il cuore è vettore di senso nella comprensione an-tropologica, operando in modo determinante al coordinamento articolato e differenziato ma unitario delle varie parti o membra. Esso mette ordine ed esprime l’ordine delle passioni, le ragioni del cuore. Tutta l’architettura della Cantata mira a questo centro. Inoltre, il cuore dà voce alle passioni, dà carne alla parola e al discorso su di esse. Lavora quindi sul linguaggio, ai suoi confini, esprimendo la dimensione estatica del discorso spirituale. La musica in MJN si fa spesso carico di questo tratto, come abbiamo visto nel caso delle sonate e dei ritornelli o nella cantata «Ad Pectus» a propo-sito del gusto. Questa attenzione a ciò che, pure centrale, deborda dal di-scorso porta a sottolineare i legami del cuore con la dimensione sensibile e sensoriale. In modo particolare esso diventa la sede dei sensi spirituali, così che la contemplazione di Cristo paziente coinvolge vista, tatto e gusto. Non è da sottovalutare il senso di consistenza e di fisicità che l’immagine di corpo porta con sé. La porta dei sensi è la prima via di accesso, fonda-mentale e ineludibile. A Cristo il fedele arriva contemplando e cantando le sue membra; la parola evangelica che salva e porta pace è custodita in vo-lumi spesso preziosi e per risuonare ha bisogno di qualcuno che la legga e la proclami – o la canti – di qualcuno che la ascolti e di un luogo concreto in cui tale Parola divina e umana possa risuonare; la musica stessa esiste concretamente perché dei solisti, un coro e una orchestra la eseguono nel-l’aula ecclesiale. La partitura, come si è visto, è un grande ostensorio, ela-borato ad arte perché possa contenere e mostrare le membra di Gesù. Queste membra rappresentano il suo corpo, realmente presente, ma non in modo unilaterale: i piedi sono i suoi piedi, ma sono anche i piedi di cui parla il profeta Nahum e di cui scrive, secoli dopo, in versi Arnulfo; sono i piedi della Chiesa, essa stessa evangelizzatrice. Questa visione di Cristo, vi-sione spirituale, non è però orientata principalmente alla vista. L’Ecce inau-gurale trova la sua forza nel fatto che proprio mentre invita a contemplare Cristo, a guardarlo, nello stesso istante tale annuncio è, letteralmente, toc-cante. L’organo della contemplazione, il cuore, ha più a che fare con il tatto che con la vista. Quest’ultima, senso superiore che si colloca nel membro più elevato del corpo (volto, capo), riguarda in realtà il cuore. All’immate-rialità fulminea e immota della visione, Buxtehude preferisce affiancare il

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contatto cordiale. L’antica teoria dei sensi spirituali si apre a una forma in-tegrale di sinestesia: l’udito fa vedere, la vista fa toccare, il tatto fa gustare. Ciò è possibile perché l’organo spirituale centrale è ormai il cuore, che porta a una riorganizzazione dei sensi spirituali e dei loro rapporti gerar-chici. La dinamica tra l’inizio della prima sonata e l’inizio della prima sin-fonia (Ecce super montes) può essere analizzato oltre che nel rapporto tra canto e musica strumentale, tra musica cantata e musica suonata in altre direzioni. Tra la parola che annuncia e rende possibile – tramite l’ascolto – una visione e la musica che di tale profezia è precorritrice esiste una al-leanza che merita di essere ulteriormente approfondita. La sonata intro-duce un tema musicale che il coro riprende. Se la musica viene prima, sono le parole a rivelarne il senso. Sono le voci a dare un senso e un contenuto all’esperienza, a indicare Cristo. Si tratta di un unico ascolto in due mo-menti relazionati tra loro. Ci sembra che questo nodo non possa e non debba essere sciolto. Ciò che è prima ha bisogno di ciò che è dopo; ciò che segue dà compimento a quanto lo precede. L’operazione ermeneutica di Buxtehude è squisitamente spirituale. Il suo discorso sui sensi spirituali è tanto chiaro quanto implicito. È un retroterra di cui è raffinato esploratore e, servendosi della musica, riesce a evidenziarne nello stesso tempo la di-mensione più sensibile e la dimensione più spirituale, il tratto erotico e quello intellettuale. Se il melodramma successivo insisterà sempre più sul carattere passionale, emozionale e pulsionale degli affetti, il discorso di Buxtehude al riguardo è compreso ancora in termini spirituali e integrali: il cuore è ancora a metà, via media, tra viscere e mente e – per questo – riesce ancora a coordinarle e a metterle in feconda relazione. L’antropo-logia sottesa a MJN è così profondamente unitaria nello stesso istante in cui si articola e differenzia. Quanto più i sensi sono, nella loro caratteri-stica peculiarità, sensuali e sensibili, tanto più possono essere spirituali; quanto più sono spirituali, tanto più, per essere tali, devono essere real-mente impiantati nella realtà concreta dei sensi. Natura e soprannatura sono, in questo modo, reciprocamente vincolate, in una dinamica di assun-zione e coinvolgimento, di comunione ed elevazione.

Conclusione: voci del cuore

Nell’epoca moderna in cui – impresa invero apparentemente poco origi-nale, trattandosi di un riferimento a Socrate – la sapienza è fatta scendere dal cielo alla terra, si sviluppa un’‘ottica antropocentrica59’. L’uomo, final-

59 VAN DELFT, Les spectateurs de la vie, 5. ‘Anthropocentique par eccelence, le «petit monde» des anatomists servira de modèle aux moralists qui scrutent l’«intérieur de l’homme»: l’«anatomie morale» – l’analyse psychologique – sera grandement redevable à cette figure. Dans l’ordre de l’écriture, enfin, meme attraction et meme

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mente, con nuovi strumenti quali telescopio e microscopio può vedere e conoscere i misteri della natura, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. In questo contesto prende piede un modello anatomico in cui, come ha mirabilmente mostrato Van Delft,60 il variegato spettacolo della vita umana è colto nei suoi molteplici ma connessi aspetti da uno sguardo indagatore e fine, minuto e prezioso.

Nondimeno, paradossalmente, in questa attenzione insistita e discreta alla realtà umana ormai emancipatasi, anche in questa attitudine amabil-mente e decisamente mondana, non mancano esperienze che la rinviano al Cielo.61 La missione stessa degli anatomisti, questi tecnici della dissezione e dell’ostensione erudita, apparentemente presi in un lavoro (uno scavo, let-teralmente) scientifico della realtà umana nella sua più denudata connota-zione materiale, è ancora l’‘ascensio mentis’62 e, mentre le competenze e lo statuto stesso dell’anatomia si autonomizzano dal sapere teologico, resta ancora una profonda autocomprensione morale. Ogni lezione di anatomia ha la sua lezione morale.63

Si assiste anche – fenomeno barocco – a una spettacolarizzazione: gli anatomisti operano, in determinate occasioni, in anfiteatri. Ma gli scheletri che vengono rappresentati nell’anfiteatro di Leida, Bernini non esita a met-terli, scherzosi e sfrontati, nei monumenti funebri (essi pure luoghi di pas-saggio) conficcati al cuore della cattolicità, in S. Pietro. Anche il moralista – come l’uomo barocco in genere – gioca tra ostentazione e dissimula-zione. Nasconde per mostrare e mostra nascondendo. Assistiamo anche a una conversione all’interiorità, a un lavorio sulla memoria, ad esempio. L’incisione nella memoria, attraverso la brevità sapienziale di frammenti (pensieri, massime, favole), richiama l’incisione praticata dagli anato-misti:64 più lo scavo è preciso e mirato, più l’obiettivo è raggiunto.

Mentre gli anatomisti morali scavano nell’uomo ed esplorano le più ri-poste pieghe del suo cuore, tutte, siano esse labirinto, nascondigli, oscurità, notte, abisso, tenebre, profondità, terre sconosciute, velo,65 altri vi scavano non per trovarvi una sapienza del vivere e dell’agire, ma – finalmente –

eprise: la notion de «petit monde» rend compte dans une large mesure et de l’essor du fragment et de la conception de l’écrit comme l’abregé du théâtreou du livre du monde’. Ivi, 17.

60 VAN DELFT, Littératture et anatomie; VAN DELFT, Les spectateurs de la vie.61 Da parte sua, l’intento di Buxtehude è chiaro: ‘En un grand mouvement ascensionnel

la méditation part de la terre, avec les pieds que les clous ont transpercés, pour s’éle-ver vers le ciel, jusqu’à la face sublime de l’Homme des douleurs, non sans marquer un temps particulièrement intens sur le cœur du Rédempteur’. CANTAGREL, Dietrich Buxtehude, 344.

62 VAN DELFT, Les spectateurs de la vie, 31.63 VAN DELFT, L’anatomie-spectacle, in VAN DELFT, Littératture et anatomie, 201-216.64 VAN DELFT, L’incision de la mémoire, in VAN DELFT, Les spectateurs de la vie, 183-201.65 VAN DELFT, Les spectateurs de la vie, 116.

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per perdervisi. Per essi la via del cuore porta al Cielo. La paziente, amo-rosa, implacabile e spesso sfibrante attenzione a tutte le possibili partizioni dell’interiorità cede il passo, in alcuni casi, a un paradosso: c’è una parte dell’uomo, la più intima, che gli sfugge. È questo pure un gioco tutto ba-rocco. A volte l’anatomia, con la sua logica di ostentazione e dissimula-zione, con la sua moralità teatrale, in cui divertimento e autoconsapevo-lezza imparano a danzare insieme tra frivolezza e serietà, cede il passo al -l’ostensione. Lo sguardo che analizza, esaurita la sua carica di curiosità im-pertinente, alla fine si perde. La dimensione visiva, in questa epoca, ha uno dei suoi simboli più caratteristici negli emblemi,66 in cui l’immagine si pone in dialogo e invita al dialogo con il testo in un trionfo concentrato della fantasia e del concetto. Agli emblemi gli anatomisti aggiungono tutta una serie di cartografie, atlanti del mondo interiore che si dona allo sguardo. In essi, emblemi o mappe, lo sguardo e il pensiero a volte si raddensano in sintesi erudite, altre si disperdono in fughe di senso sempre nuove.67 Questa ottica, che scivola dall’analisi (l’oggetto è sempre più minutamente sezionato) verso esegesi sempre nuove (l’oggetto merita e necessita di un sapere enciclopedico), testimonia un frammentarsi del mondo del mondo e del sapere, dei saperi.68 Da questo punto di vista, l’attitudine di Buxtehude è piuttosto quella della ri-com-posizione.69 Le membra di Gesù possono es-sere intese come emblemi di un’unica impresa, dentro un discorso d’a-more: si tratta di reliquie d’amore.70 Il cammino dell’uomo moderno è co-

66 MARIO PRAZ, Studies in seventeenth century imaginery, Roma, Ed. di Storia e Letteratu-ra 1964. ‘The century which produced the great mystics produced also the emblemat-ics. (…) Perhaps because their imagination was too vivid they sought shelter in a world empty of perception, in the ineffable’. Ivi, 16, O, per dirla con Rousset ‘dans l’apeisement d’une contemplation silencieuse’. ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 256.

67 VAN DELFT, L’ancienne sémiologie: l’homme microcosme, in VAN DELFT, Littératture et anatomie, 226-241.

68 ‘De là, à première vue, un éclatement, une dèsarticulation, une dispersion. Par degrés, plus rien ne subsiste, sous el regard du moralist-spectateur, de bel ordre, de la parfaite figure, de l’explication globale traditionnels. Notamment les progrès de sciences com-me la cosmographie, l’anatomie, altèrent en profondeur l’image du monde e celle de l’homme’. VAN DELFT, Les spectateurs de la vie, 7-8. Si tratta di una scena preparata già da tempo: ‘Questo scioglimento (del corpo, ndr.) fa parte di una lenta defezione del-l’organicità cosmica sin dal XIV secolo. In quel tempo si moltiplicano le eccentricità in rapporto agli ordini dei corpi celesti, sociali o individuali. Un’unità di frammenta in schegge’. MICHEL DE CERTEAU, Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua (Secoli XVI e XVII), a cura di Carlo Ossola, Firenze, Leo S. Olschki Ed. 1989, 149.

69 Al riguardo, molto bella è la riflessione di Michel Serres nell’avant-propos del libro di Lebrun su Buxtehude, una sentita e toccante, oltre che erudita, meditazione (e un in-vito alla meditazione) sull’unità del corpo di Cristo. MICHEL SERRES, La musique rebatît les corps, in LEBRUN, Dietrich Buxtehude, 4-5.

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steggiato di ‘detriti di corpi e brusii di voci’;71 tutto va in frantumi, in primis il Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa, e le Sacre Scritture, e via via tutto il resto, dai saperi alle pratiche più ordinarie. Buxtehude, nei con-fronti di Gesù, compie un gesto pietoso, commosso di ricomposizione. Il corpo, nelle sue differenziate membra, riesce ancora a richiamare l’unità della Divina Persona, pure nelle sue due nature, che – a quanto pare – solo un’attitudine contemplativa può preservare e disvelare: ‘c’è racchiuso nel ricettacolo del corpo un tesoro di misteri da riconoscere’.72 Le varie membra del corpo di Cristo, pur differenziate e poste in successione, una accanto all’altra, non sono indagate e analizzate, alla fin fine isolate le une dalle altre, e nemmeno, in modo macabro, ri-assemblate, ma – appunto – contemplate, coordinate. La competenza scientifica cede il passo alla reto-rica,73 il sapere spirituale si umilia e si rifugia in una maniera di parlare, che si defila sempre, diventando un discorso esotico, bizzarro, selvaggio. Possiamo evidenziare due aspetti di questo discorso retorico, due modi che caratterizzano il discorso di Buxtehude, il suo modo di parlare di Cristo: il fondamento biblico (non un uso didascalico o apologetico) e le lacrime (un dirsi che si scioglie).

Le membra di Cristo sono contemplate da Buxtehude ‘sub specie aeter-nitatis’.74 D’incanto la Sapienza Divina è riportata dalla terra, dove ha vo-luto scendere, alla sua prima, definitiva dimora, il Cielo. Come si è visto, ogni cantata è incastonata e inquadrata dentro un versetto biblico che si ri-pete all’inizio e alla fine. Non si tratta di una attitudine didascalica (che ben si adatterebbe a un moralista o a un uomo dei Lumi, in questo alleati) quanto piuttosto di un atto fondante. Non è una decorazione morale.75 Il ruolo antifonico, con la sua pregnanza liturgica, accompagna e sottolinea il

70 ‘Nella tradizione dei «blasoni» del XVI secolo, poesie dedicate a parti del corpo (la gamba, il seno, il collo, il sesso), la letteratura mistica isola frammenti di corpi e ne fa reliquie dell’altro, reliquie d’amore. Una certa parte del corpo simile a un lessico o a un liuto è stata «toccata», e questo frammento diventa la metonimia del corpo impos-sibile che sarebbe – nella condizione di interezza – la scrittura dell’Altro, rifatto e re-citato da lui. La memoria compone in tal modo, con briciole, le sue reliquie. Parti sin -gole sgranano un linguaggio del patire amoroso’. DE CERTEAU, Il parlare angelico, 120.

71 DE CERTEAU, Il parlare angelico, 119.72 DE CERTEAU, Il parlare angelico, 152.73 Il corpo sottoposto a movimento metaforico (metaforizzato) ‘alle ragioni della filoso-

fia preferisce i paragoni della retorica, più docili a una legge che viene dall’alto attra-verso le alterazioni del corpo e non dalla produzione di un essere-proprio tramite un sapere giuridico o scientifico.’ DE CERTEAU, Il parlare angelico, 157. Jankélévitch sottoli-nea il legame e la tensione tra la retorica e la musica, parlando ‘ degli idola della reto-rica, che assimilano la musica a un linguaggio. (…) La «metafisica» della musica (…) riposa interamente su metafore…’ JANKÉLÉVITCH, La musica e l’ineffabile, 77.

74 CANTAGREL, Dietrich Buxtehude, 346.75 ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 219.

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valore della presenza di Cristo, presente – lo si è visto – in molteplici, ri-frangenti modi attraverso la sua Parola. Quella che poteva sembrare una fuga e una dispersione di senso (Cristo presente nella Sacra Scrittura, nella Chiesa che proclama tale Divina Parola, nel devoto che l’ascolta e anche la canta, sia esso singola voce o coro, e via dicendo) è in realtà l’unico af-fondo possibile, collocarsi nel luogo in cui lo Spirito parla e rende viva, ef-ficace, penetrante la Parola di Dio. Non si tratta quindi solamente di cre-dere a quello che un testo sacro proferisce (‘Ecce super montes’), di sapere a chi esso potesse mai riferirsi, ma di credere che quei piedi (alla fine, in fondo, quelli di Cristo che tutti gli altri – profeta o apostolo – assume in sé) sono ancora qui, presenti, di sapere che il devoto, stupito e addolorato perché sono trafitti, li può, li deve ancora adorare.

In questo frangente, la retorica spirituale si allea alla musica, per dire quel di più che le sfugge e che le è necessario. Possono, al riguardo, valere le belle riflessioni della Caravero sul canto poetico che sa suscitare visioni, il poeta come annunciatore ed ermeneuta.76 Quale voce può proclamare ‘ecce super montes pedes evangelizantis’? Innanzitutto una voce, che renda viva la scrittura. Un testo letto e un testo declamato, e ancor più can-tato, non sono lo stesso testo. Tra la visione e l’ascolto si crea una alleanza: tutto il corpo è coinvolto e, tramite esso, lo spirito. ‘Radicata com’è negli organi di respirazione e di fonazione, la parola allude alle viscere, al corpo profondo dove ribollono gli umori delle passioni. Come suggerisce Platone, il pensiero sta invece nella posizione assai più nobile della testa e, precisa-mente, in quella parte divina del midollo che costituisce il cervello’.77 Bux-tehude, in questo discorso, porta a un riordino delle membra: se la parte più elevata è la testa, il centro del corpo è il cuore. Non si tratta così di contrapporre fonazione-ascolto a visione, quanto di coordinarli. È il sog-getto spirituale, in tutta la sua integrità, a essere ridefinito.78 La voce, una

76 ADRIANA CARAVERO, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Milano, Feltrinelli 2003, 101-102.

77 CARAVERO, A più voci, 74.78 Per quanto suggestiva e corretta in altri contesti, ci sembra che l’analisi della Carave-

ro sia da questo punto di vista non del tutto pertinente: ‘I codici che organizzano l’io e il discorso si rompono sotto l’onda di un flusso vocale, nel quale qualcuno ride, piange, grida e respira, cantando nella scrittura l’avvento della sua stessa disorganiz-zazione.’ (CARAVERO, A più voci, 158). In alcuni casi, ciò che eccede l’io anche lo com-pone, lo genera, lo costituisce. ‘Vivificato dalla voce del primo amore, il testo dunque canta: è musicale e incantatorio, proprio come il canto epico. Esso è fatto per gli orec-chi più che per gli occhi.’ (ivi, p. 159) Da parte nostra intendiamo il comparativo, forse contro le intenzioni dell’autrice, nel suo valore di relazione, come oscillazione mai completamente fissa su uno solo dei due poli. Ci sembra questo, nel contesto del no-stro discorso, il limite più grande della ricerca comunque di grande rilievo della Cara-vero. La pur giusta evidenziazione di un dominante pensiero logocentrico (con il cor-rispettivo primato dell’elemento visivo nell’interpretazione dell’esperienza dell’ascol-

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voce che canta, richiama l’unità e la relazionalità dell’essere umano,79 ha a che fare con la corporeità del parlare, si situa nell’articolazione del corpo e del discorso.80 Così la musica, nel canto come nelle parti strumentali (ab-biamo visto come anche esse siano coordinate e messe in reciproca rela-zione nella Cantata), permette al testo di lavorare ai suoi propri limiti.81 La voce dà carne alla parola82 e lo fa, nel barocco, molto spesso con gli orna-menti, i quali non sono fronzoli (membra inutili nel corpo del discorso) ma espressioni e vettori di sentimenti.83

Se è vero che ‘la musica barocca si dipinge come si compone un quadro’,84 bisogna aggiungere che l’oggetto della visione-ascolto può es-sere colto solo da un organo che possa insieme ascoltare e vedere. Si tratta, ovviamente, del cuore. Il cuore, a suo modo, può vedere, sentire, gustare. Non è più, in epoca barocca, il centro fisso e rigido del classicismo. 85 Tutte le differenziate attività spirituali, tutte le membra sono incentrate patetica-mente su di esso, in esso raccolte. Si tratta di un centro vibrante e pulsante, sede dei sensi spirituali, in un rapporto sottile con il capo.86

to) non permetta di cogliere con la necessaria attenzione alcune parti del paesaggio culturale che tratteggia. In modo particolare le sue osservazioni andrebbero tarate con più precisione proprio per i momenti fondanti da un punto di vista storico di tale percorso, ossia l’affacciarsi e il trionfare dell’Opera. Tra gli ambiti in questione ci per-mettiamo di evidenziarne almeno tre che potrebbero portare a un discorso più flessi-bile. In modo più generale sarebbe da ripensare proprio la musica barocca (in cui l’O-pera compie i suoi primi passi, se così possiamo dire) nel suo insieme, come parte di una cultura attenta ai trapassi; la riflessione al riguardo, invece, ci pare già troppo orientata agli sviluppi successivi, alla luce di ciò che il canto sarà in seguito. Potrebbe, poi, essere utile ritornare su Mozart come momento cruciale, considerando ad esem-pio, come fa magistralmente Charvet il rapporto musicale, drammaturgico e patetico tra Don Giovanni e Don Ottavio. Infine si potrebbe leggere anche con altre sfumature la vicenda dei castrati, considerata non solo da un punto di vista sociologico e del-l’impatto sulla società dei costumi, ma per il loro proprium musicale, come voci del tutto singolari e non solo come già orientate al fenomeno della ‘Prima donna’. Cfr. CHARVET, Le lacrime di Ottavio, in CHARVET, L’eloquenza delle lacrime, 31-34; CHARVET, La voce ha le sue ragioni che la ragione non conosce… , in CHARVET, La voce delle passio-ni, 25-39.

79 CARAVERO, A più voci, 14.80 CARAVERO, A più voci, 32.81 BRULIN, Gémissement, soupir, 72.82 CARAVERO, A più voci, 96.83 CHARVET, La passione dell’ornamento, in: CHARVET, La voce delle passioni, 47-56.

‘L’ornamentation elle-même ne vise pas le seul agrément des auditeurs, mais revendique d’être associée à l’émotion’. BRULIN, Gémissement, soupirs, 72.

84 CHARVET, La voce delle passioni, 21.85 ‘L’œuvre classique réalise son unité en immobilisant toutes ss parties en function

d’un centre fixe’. ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 246.86 Potrebbe valere, come già ricordato, quanto Rousset dice delle fontane di Bernini: ‘un

seul être qui se tranformerait en ses divers aspects’. ROUSSET, La littérature de l’âge

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Così facendo, la contemplazione cristologica si è, nel nostro discorso, lentamente sublimata in una estetica cristologica trascendentale, come una spirale ascensionale, una esorbitazione – essa pure raffinatezza barocca, come la cupola di S. Ivo alla Sapienza. È qui, nel cuore, che Cristo e fedele si incontrano, in cui si attua una conformazione cordiale. Vedere con il cuore, sentire con il cuore, gustare con il cuore a immagine del cuore di Cristo contemplato e cantato. Cristo nel suo cuore si schiude al cuore del fedele, il fedele nel suo cuore di schiude al cuore di Cristo. In questo fran-gente trascendentale si fonda l’ermeneutica cristologica di MJN con le con-seguenze che abbiamo visto per la costituzione della soggettività umana, tramite la coordinazione tra ascolto e visione.

Buxtehude, inoltre, non insiste tanto sulle membra di Cristo, sulle loro ferite, non indugia teatralmente sulle piaghe e sul sangue. Il corpo di Cristo non è spettacolarizzato; un pudore devoto comanda lo sguardo. Buxtehude si sofferma sullo sguardo del devoto. Ma non si tratta di uno sguardo distaccato, di una visione chiara e distinta, di un occhio scrutatore. L’occhio del fedele è bagnato dalle lacrime. Non la pupilla (tantomeno un fantomatico microscopio spirituale), ancora troppo umana, troppo carnale, è la lente interiore con cui posare lo sguardo su Gesù paziente. Tale dia-framma, fragile e stupito, è la lacrima, nella sua fluidità solidale alla carne e allo spirito, nella sua evanescente grazia apparentata al tempo e all’e-terno. La visione, per cogliere l’oggetto diletto della sua attenzione, deve disfarsi, deve farsi altra. Come la parola, nella voce, a volte per esprimersi si scioglie in gemiti, così la visione, negli occhi, deve sciogliersi in la-crime.87 È la logica dell’incarnazione,88 dove però la carne si scioglie, si spi-ritualizza, si eleva pur rimanendo tale.89 La musica alterando il corpo, ne ri-vela la verità. Di fronte a Gesù morto ‘non c’è che il dolore dell’amore, sa-pere cieco del corpo’.90 La scena della passione è quindi, proprio mentre si sofferma sulla membra ferite, una scena interiore. La passione è interioriz-zata proprio mentre tocca il corpo e dal corpo prende avvio: ‘la voce del cuore è anche quella dei singhiozzi, dei sospiri, di quel lamento profano che è solo una tappa verso l’estasi’.91 La scena della passione è così da Bux-

baroque, p. 163.87 Si tratta di un procedimento, tra le altre cose, squisitamente retorico: ‘delle lacrime il

Barocco farà una retorica divina, l’eloquenza discreta dell’anima’. CHARVET, La voce delle passioni, 23.

88 CHARVET, Una parola incarnata, in CHARVET, L’eloquenza delle lacrime, 55-58.89 Altro paradosso: sciogliendosi, il corpo dovrebbe, per le forze gravitazionali, scendere

e spandersi sulla terra. Invece, sottoposto alla pressione soprannaturale della grazia, si eleva al Cielo.

90 DE CERTEAU, Il parlare angelico, 164.91 CHARVET, La voce delle passioni, 27. De Certeau, a proposito di questo discorso, parla

di reliquie di corpi, frammenti induttori, rumori enunciativi (DE CERTEAU, Il parlare angelico, 119-124)

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tehude composta e disfatta. Compone per disfare e disfa per comporre, il corpo si interiorizza e il cuore si dice e si esteriorizza nel canto e nei ge-miti. E la musica, forse, aiuta a ricomporne il senso.92

Tutto questo, nella sua raffinata elaboratezza, ha pure un non so che di finzione. Potrebbe essere intesa come una operazione angelica. Gli angeli, che in tutti i modi riempiono le chiese e le tele barocche, i libri di emblemi e le biografie dei santi, portano ad incandescenza la dimensione vettoriale e trascendentale, ‘il carattere formale di una operazione’.93 Nondimeno il cuore è toccato, trafitto. Questa fiction, che ha forse in Bernini il suo ec-celso produttore,94 in Buxtehude è, per così dire, suggerita di traverso. In Bernini l’angelo si fa presenza concreta (altro paradosso), in Buxtehude la sua funzione agisce come vettore, non è messo in scena. Tra il corpo (e le sue membra) e l’anima (e le sue parti) un parlare angelico scuote il devoto, lo ferisce. Il corpo e l’anima, a immagine di Cristo, sono piagati e questa piaga, dolorosa e salutare, si fa ricettacolo, rifugio del contemplativo. Il fe-dele orante e Cristo sono rifugio l’uno all’atro, patiscono l’uno per l’altro. L’esegesi spirituale è in questo caso uno spazio di risonanza cordiale, di conformazione devota.

Le membra sono, allora, esteriorità che rinvia all’interiorità. L’emblema tipico della Cantata è il cuore: esso è, certo, il cuore trafitto di Cristo, ma – da subito – cantare di Lui significa cantare l’amore, e l’affetto di Cristo non fa altro che suscitare, riordinare ed elevare gli affetti del devoto. La musica liturgica barocca ha sempre giocato su questo binomio, in bilico tra osten-tazione teatrale e appassionata spiritualità. È un tratto peculiare del suo li-rismo, una cadenza del discorso che le sembra propria e che Buxtehude esprime al meglio. Il cuore di Cristo, da cui possiamo intravedere tutte le

92 Cfr. l’alleanza tra poesia e musica: ‘Il commento prolifera a partire a partire da questi residui utilizzati come pretesti e incastonati come reliquie. Proprio attraverso tale frammentazione, la poesia permette una produzione di senso (dove il «senso» è d’al-tronde un cammino a ritroso verso l’inizio). Attraverso questa disseminazione, esso è nel medesimo stato in cui si trovava i corpo dislegato prima di essere posseduto da un rumore o da un silenzio, quando i frammenti di un corpo frantumato erano diventati significanti con i quali fabbricare frasi. Nell’opera di Juan de la Cruz, tuttavia, il co-smo esiste ancora nella sua totalità, situato all’inizio della declaratiòn ma in quanto «canzone»; non più mondo ma poema; totalità non di esseri ma di parole; musica non più di astri e di sostanze, ma di accordi e di ritmi, una forma verbale di movimento, l’accenno sonoro di una danza o di un «passo». È ancora, di nuovo, il cosmo perduto, ma ritornato come canzone, «totalità» che non è «nulla»’. DE CERTEAU, Il parlare ange-lico, 166.

93 DE CERTEAU, Il parlare angelico, 199. Cfr. anche l’analisi di Careri sugli angeli della Cappella Fonseca a Roma. GIOVANNI CARERI, Voli d’amore. Architettura, pittura e scul-tura nel «bel composto» di Bernini, Bari-Roma, Laterza 1991, 29ss.

94 ‘Linguaggio o musica di un angelo che è la «finzione» dell’ignoto, la freccia trafigge Teresa’. CARERI, Voli d’amore, 163.

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altre membra, è un emblema che, proprio mentre fissa l’immagine, la di-sloca: l’immaginazione tende all’ineffabile. L’interiorità nel suo continuo affacciarsi sul corpo (ma pure il corpo incidendo sull’interiorità) non è una eccezione marginale nell’epoca che anche Buxtehude rappresenta. È una sfumatura, una cadenza profondamente inscritta nei suoi protagonisti. Ina-bita la grandeur, lo sfarzo, l’appariscenza e la teatralità. Il barocco non è unico, ha sempre dell’altro. La contemplazione di Cristo, in Buxtehude, cu-stodisce, salvaguardia e suggerisce questa esperienza dello spirito. La mu-sica sembra poter cogliere e trasmettere questa leggerezza, la grazia come evento. Per questo, probabilmente, Bernini amava il movimento,95 per questo lacrime e fuoco non cessano di rincorrersi e dirsi le une nell’altro, 96 e la materia – ancora in Bernini – si fa altro.97 Questo barocco, assai poco monolitico, educa all’attenzione, alle sfumature, ai trapassi, alla vita. Forse l’anatomia richiama troppo l’autopsia. Chi mai potrebbe dissezionare il corpo dell’amato, molto più che – nel caso – si tratta del corpo del Salva-tore? Meglio, allora, una ostensione amorevole.

Nell’oscillazione tra ostensione e dissimulazione, ossia il teatro delle passioni, è fondamentale un punto di partenza, da cui, appunto, partire, una scena da sovvertire e ricostruire, nel rapporto tra dentro e fuori, ma-schera e volto, persona e personaggio. Il rapporto fra vita e teatro si fa fluido o scoppia, per cui non si comprende se siamo di fronte a una fin-zione (fiction), a una presa in giro (commedia), proiezione dell’animo in-quieto (tragedia) o sua sapiente dissimulazione (honnêteté).

L’Uno è diventato una passione, una quête, una nostalgia. Ma è ancora presente nella sua assenza, non più o non solo come struttura e fonda-mento onnicomprensivo, ma come ispirazione e aspirazione. Una metafi-sica è ancora in atto, non come sistemazione organica (ormai demitizzata e astratta in enciclopedia) ma come slancio vitale, come sussulto dello spi-rito, come pungolo fecondo, come piaga d’amore. Essere e apparire sono ancora legati, c’è ancora un ordine ma non più nell’ordine della stabilità. La gerarchia è ancora all’opera, ma come vettore.

95 ‘Un homme n’est jamais plus semblable à lui-même lorsqu’il est en mouvement’. Cit. in ROUSSET, La littérature de l’âge baroque, 246. 139.

96 Non è un caso che, studiando gli emblemi, Praz si soffermi, a proposito dell’amore profano, sul legame tra lacrime e fuoco, in una meditazione per immagini e parole che risale fino a Petrarca e Ovidio. Così pure Charvet indugia su questa suggestiva comunione ossimorica. Cfr. PRAZ, Studies in seventeenth century, 88-98; CHARVET, Il fuoco delle lacrime, in CHARVET, L’eloquenza delle lacrime, 65-67.

97 ‘L’uomo barocco non conosce la forma definitiva delle cose. Da qui il dolore di essere bruciato da più fuochi di quanti non accenda, un essere in perpetuo divenire.’ CHARVET, La voce delle passioni, 38.

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La scena della passione è una scena interiore, ma tocca il corpo e dal corpo è toccata. Attraverso una musica dell’anima98 – ma dell’anima in quanto ha a che fare con il corpo, con le sue ferite, che fanno scorrere non solo sangue, ma gemiti e lacrime – il cuore batte ancora. Il cuore del de-voto e, sua scaturigine e fine, il cuore di Cristo.99

98 CANTAGREL, Dietrich Buxtehude, 347.99 Non è un caso che le riflessioni della Brulin sul canto, alla ricerca di un lirismo cri -

stiano, si concludano con un riferimento all’oggetto della fede, che – in ogni caso – precede lo stesso atto di fede: “En effet, comme l’affirmait saint Thomas d’Aquin, la foi en acte ne s’achève pas à son énoncé, mais à son objet, dans une expérience: “Ac -tus autem credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem” (Sum. Theol. IIa, IIae, q. 1, art.2).’ BRULIN, À la recherché d’un lyrisme chrétien, 94.