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LA PAROLA R. Magritte, La chiave dei sogni, 1930 Indice. Introduzione. La parodia della sofistica nelle Nuvole di Aristofane. La filosofia analitica. J. L. Austin. R. M. Hare L’Anonimo del Sublime. Lo sperimentalismo linguistico di Pascoli. Le parole in libertà del Futurismo italiano. La religione della parola di Ungaretti. La lingua della pubblicità. La cifratura di Cesare e i crittoanalisti arabi.
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LA PAROLA

Jan 02, 2016

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LA PAROLA

 

R. Magritte,La chiave dei sogni, 1930

Indice.

 

Introduzione.

La parodia della sofistica nelle Nuvole di Aristofane.

La filosofia analitica.

J. L. Austin.

R. M. Hare

L’Anonimo del Sublime.

Lo sperimentalismo linguistico di Pascoli.

Le parole in libertà del Futurismo italiano.

La religione della parola di Ungaretti.

La lingua della pubblicità.

La cifratura di Cesare e i crittoanalisti arabi.

The Navajo Code.

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Introduzione.

La parola si definisce in un comune dizionario come “insieme organico di suoni o di segni grafici con cui l’uomo riesce, parlando o scrivendo, a comunicare dei concetti mentali”. (Cortelazzo, Zolli – DELI. Zanichelli ). Essa è innanzitutto un segno che sta per qualcosa che si vuole comunicare (una cosa, uno stato d’animo, un’idea ecc…) e che ha bisogno di trovarsi nell’insieme di una frase per essere precisato e determinato.

Il significato che la parola assume nella comunicazione, tuttavia, come il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche scoprì, non è soltanto denotativo, ma dipende anche dall’uso che si fa di essa e dal contesto in cui è usata. È importante, ovvero, l’aspetto pragmatico del linguaggio verbale: con la parola si possono dare ordini, esprimere intenzioni o desideri, persuadere, pregare, re-interpretare la realtà e così via, e possono essere anche differenti gli effetti sul ricevente della comunicazione.

Il percorso che segue si propone di analizzare alcuni usi particolari della parola, toccando quattro ambiti diversi. Si inizierà con l’ambito filosofico e quindi con il linguaggio sofistico parodiato nella commedia Nuvole del commediografo greco Aristofane. Si vedranno poi alcune analisi svolte dalla filosofia analitica del XX secolo sul linguaggio ordinario e sul linguaggio etico.

Passando all’ambito artistico, si parlerà del trattato dell’Anonimo Sul Sublime, in cui la parola diventa uno degli strumenti per raggiungere il sublime. Dopodiché si analizzeranno i linguaggi fortemente innovativi dei poeti italiani moderni Pascoli, Marinetti e Ungaretti.

Seguirà l’ambito storico-sociale: l’”arte della strada” promossa dal Futurismo italiano di Marinetti sarà, infatti, un’ideale introduzione alla lingua della pubblicità, fenomeno delle moderne società di massa, e alle problematiche comunicative che questa particolare forma di linguaggio mass-mediatico porta con sé.

Alla fine di questo percorso, si esaminerà la forma di parola forse più curiosa, che tocca l’ambito matematico: la parola crittata. Quest’ultimo tema è trattato in due parti: la cifratura monoalfabetica e poi il codice navajo, trattato in lingua inglese.

 

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Calligramma di Apollinaire del 1915. 

 

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La parodia della sofistica nelle Nuvole di Aristofane.

 

Se nella filosofia ionica antica, l’uomo quasi non esisteva, ma esisteva solo il cosmo, e se presso i presocratici l’uomo v’era come parte del cosmo, per sofisti del V secolo a.C. esisteva solo l’uomo. Il cosmo rimaneva sullo sfondo. Il primo sofista, Protagora di Abdera, espresse con la massima « l’uomo è misura di tutte le cose » il fatto che in realtà ogni uomo attribuisse valore alle cose relativamente alla propria prospettiva conoscitiva. L’uomo era ora visto nei suoi rapporti con gli altri uomini, come soggetto politico e membro di una comunità nella quale agiva e parlava, dopo che altri ne avevano educato il pensiero ed istruito le parole. Il sofista era colui che girava di città in città ad insegnare a pagamento la sua arte: l’arte oratoria o arte della parola. Per questo, da Platone ed Aristotele in poi il termine sojistήV assunse significato negativo di detentore di un sapere vano imposto con sottigliezze dialettiche.

Ciò che meravigliava di questa scuola era la convinzione che la sapienza e la virtù potessero essere insegnate ed apprese. I sofisti partivano da una critica radicale della cultura tradizionale e fondavano i nuovi contenuti non su certezze e su valori assoluti, come volevano i tradizionalisti, ma su ipotesi e su valori relativi. E non progettavano solo di dissolvere le tenebre della tradizione, ma anche di vincere nella nuova società. E dato che nella democratica Atene vinceva chi convinceva, i sofisti insegnarono a costruire discorsi convincenti, ad usare ovvero i discorsi come strumenti di tέcnh politikή, un’arte in cui ormai non ci si poteva appellare a principi eterni, ma solo a principi liberamente concordati. In questo senso, la sofistica è la cultura della democrazia: senza l’uguaglianza dei diritti e la libertà di parola la sofistica non avrebbe potuto esprimersi. I sofisti curarono soprattutto le discipline connesse alla parola, per formare l’oratore politico. L’effetto di ciò fu rivoluzionario, poiché i giovani ricchi non si esercitavano più nelle armi o in palestra, ma a divenire buoni oratori. Essi si allenavano a rispondere a domande o a sostenere una discussione o a vincere una causa debole, mettendone in luce gli aspetti positivi. Le discipline studiate coprivano tutto lo scibile umano. Si può dire che la sofistica fu un felice tentativo non solo di rinnovare le conoscenze sull’uomo, ma anche di inventare nuovi metodi per comunicarle.

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Per l’etica e la morale tradizionali, tuttavia, l’azione dei sofisti non poteva che risultare pericolosa e altrettanto pericoloso era considerato il pensiero e il modo di vita innovativi di Socrate, pensatore estraneo alla sofistica, ma nonostante questo confuso spesso dai suoi concittadini con i sofisti. E Aristofane, il più importante commediografo ateniese operante nel V secolo, nella commedia Nuvole, messa in scena alle Dionisie del 423 a. C., riflette l’errore comune all’epoca di vedere in

Socrate un sofista – gli attribuisce infatti speculazioni filosofiche e linguistiche a lui lontane – e lancia un grido d’allarme forse troppo precoce per essere recepito dalla popolazione contro le tesi innovative del suo secolo, in difesa della tradizione.

La commedia è anche una parodia della sofistica. Nella trama il protagonista Strepsiade, oppresso dai debiti procuratigli dal figlio prodigo Fidippide, pensa di rivolgersi al pensatoio di Socrate per imparare a vincere le cause sbagliate in tribunale. Appresa la difficoltà dell’impresa vi manda il figlio. Costui diventa un ottimo retore, infallibile nelle argomentazioni, tanto da prendersi facilmente gioco del padre convincendolo che i figli possono picchiare i padri e demolendo così i valori della tradizione. Strepsiade finirà allora per dare incendio al pensatoio. Sul piano linguistico, il linguaggio comico utilizzato diventa una parodia del linguaggio sofistico. Esso è ricco di polisemie, ovvero termini dal significato doppio e per questo ambigui e motivo di equivoci. Una polisemia, secondo quanto scrive il critico Grilli, costituisce l’impianto della commedia stessa: è quella di τόκος che in greco significa tanto “figlio”, quanto “debito” e designa quindi la condizione di Fidippide nella commedia. L’ambiguità del linguaggio serve ad aumentare il potenziale umoristico della contrapposizione tra un orizzonte materiale come quello del protagonista e l’astrattezza inafferrabile degli ideali sofistici. Importanti termini filosofici intesi in un senso da Socrate sono recepiti dalla mente limitata e contorta di Strepsiade per le loro accezioni più concrete e materiali e quindi vengono demistificati e sdoppiati.

Eccone degli esempi:

 

La commedia antica in una pittura pompeiana.

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termine greco significato per Socrate significato per Strepsiade

αντιλέγειν contestare (un argomento) contestare (una restituzione debita)

λεπτός raffinato, sottile (di mente) magro, esile (di fisico)

νόμισμα consuetudine moneta

δινος Vortice (che governa il cosmo)

giara

φροντίζειν pensare preoccuparsi

 

Il capriccio metamorfico delle parole è il riflesso sul piano letterario del difficile incontro tra tradizione e nuova cultura. Aristofane riesce così a cogliere senza una conoscenza profonda della sofistica la minaccia di una destabilizzazione del linguaggio, non più intenso come qualcosa di assoluto, bensì convenzionale e basato alla maniera dei sofisti sui criteri dell’utilità contestuale.

Finché il linguaggio è il piano di mediazione tra assoluto e contingente, il Nome può allora essere Dio, così come era presso la filosofia di Eraclito e così come troveremo scritto nel prologo del Vangelo di Giovanni in ambito cristiano: « In principio era il Logos e il Logos era presso Dio, e Dio era il Logos. » Ma ora che cose e parole non hanno più relazione metafisica e i nomi sono divenuti segni convenzionali da usarsi a seconda del contesto e del tornaconto, è annullato il carattere assoluto della significazione e il sistema dei valori della polis rischia la contraffazione.

È questo il nucleo concettuale della scena principale delle Rane (405), ovvero l’agone tra Eschilo ed Euripide. Se per il primo il linguaggio era la traduzione del mondo in segni ed era quindi necessario ed univoco, per il secondo esso è un mero strumento convenzionale che influenza i rapporti umani ed è modificabile a seconda dell’opportunità. Questo discorso investe facilmente l’ambito politico e religioso. Infatti, se prima la lingua era il volto del divino, ora è la parola che si eleva a dio, poiché lo sconvolgimento della relazione metafisica tra parole e cose permette di tramutare i nomi in segni convenzionali modificabili a piacimento e di conseguenza si incorre nel tendenza di assolutizzare concetti relativi  e divinizzare ciò che si vuole. E nelle Nuvole Aristofane porta quest’ultimo pericolo agli estremi della comicità. Il già citato δινος è prima elevato da Socrate a divinità con l’accezione di Vortice, Strepsiade lo ridimensiona a semplice giara, quando la religione del pensatoio sembra non andargli più a genio, ma questo non gli impedisce all’occorrenza di divinizzarlo nuovamente: ed è questo il massimo momento di empietà della commedia.

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Se si considera poi l’agone tra Discorso Giusto e Ingiusto della stessa commedia, si noterà come il Discorso Ingiusto, espressione della nuova cultura, riesca a mettere in difficoltà il Discorso Giusto con un paradosso della tradizione, per cui Zeus, garante stesso di ogni giustizia, aveva mutilato il padre Crono per prendergli il potere. Zeus non è più considerato un individuo metafisico, come lo intenderebbe l’altro Discorso, ma diventa balia del linguaggio e si riduce a semplice personificazione dell’idea convenzionale di giustizia adattabile alle circostanze.

Come si è accennato prima, il vero personaggio empio della commedia non è Socrate, il quale comunque dimostra sincera e duratura devozione alle sue nuove divinità, ma è Strepsiade la cui religiosità è fondata unicamente sulla lingua. Se ne ha ulteriore conferma quando Socrate illustra le Nuvole come vere divinità. Strepsiade che dovrebbe aver compreso il profondo sentimento religioso cade nell’ennesima confusione e poiché inizialmente aveva definito le nuvole poco più che fumo e nebbia, al v. 814 anziché giurare per le Nuvole, giura per la Nebbia, divinità estranea a Socrate.

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La filosofia analitica.

La filosofia del XX secolo conosce una svolta linguistica: ne sono i principali autori Heidegger, Wittgenstein e Gadamer. Le tesi del secondo Wittgenstein della molteplicità e relatività dei linguaggi, della pragmatica del linguaggio e del ruolo terapeutico che la filosofia deve assumere nei confronti del linguaggio sono riprese ed approfondite dalla filosofia analitica. Per essa si intende un indirizzo di pensiero del secondo dopoguerra che si richiama, oltre che a Wittgenstein, anche a Moore,  a Russell e a Frege.

I principali esponenti della filosofia analitica fanno capo alle università inglesi di Cambridge e Oxford e a quella di Harvard, negli Stati Uniti. Si andavano affermando in quegli anni due slogan: « Non cercare il significato ma l’uso », ovvero che non bisogna chiarire il significato analitico di un’asserzione ma lo scopo per cui essa è stata fatta; e « ogni asserzione ha la sua propria logica », cioè che ci si deve rendere conto che il linguaggio ha molti compiti e molti livelli e che quello della descrizione del mondo è uno soltanto e non l’unico al quale gli altri siano riducibili.

L'analisi a cui fa riferimento la filosofia analitica ha avuto una pluralità di significati. Quello prevalente ha identificato la filosofia con una sistematica e accurata analisi del linguaggio, volta da un lato ad esaminare i problemi posti dal linguaggio con gli errori e i fraintendimenti che esso comporta, dall'altro a individuare e a risolvere problemi chiarendo il significato delle proposizioni adottate. Anche se continueranno ad esservi sostenitori come i costruttivisti della necessità di costruire un linguaggio perfetto, la filosofia analitica ha, in larga misura, abbandonato il presupposto dell'assolutezza del linguaggio ideale e della messa in discussione del linguaggio ordinario in nome di un linguaggio ritenuto rigoroso e scientifico. La filosofia analitica viene designata anche come "filosofia del linguaggio ordinario", poiché per la sua variegata gamma metaforica e idiomatica fa presa sul mondo con maggior immediatezza di ogni linguaggio artificiale. Il significato dei termini è inteso non come corrispondenza fra essi ed elementi della realtà, come aveva sostenuto il primo Wittgenstein, ma in riferimento al loro uso e alla correttezza di tale uso rispetto alle regole prescritte dal sistema linguistico di cui essi fanno parte.

L'analisi logico-linguistica viene intesa come opera di chiarificazione concettuale volta a risolvere problemi. Se ne mette, perciò, in rilievo la funzione terapeutica, cioè di liberazione dai dubbi, dagli indovinelli, dalle perplessità e dalle confusioni linguistiche da cui essi sorgono e la funzione euristica e cioè la capacità di trovare soluzioni ai problemi teorici, ma si punta anche a ricostruire una "geografia dei concetti" del nostro pensiero. Lo strumento usato nel fare tutto ciò, però, non è più la formulazione di un linguaggio logicamente perfetto fondato sul principio di verificazione come per il neopositivismo, bensì una considerazione dell’uso effettivo delle

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espressioni linguistiche e degli scopi cui esse sono dirette. Le regole del linguaggio vanno cercate con l’osservazione.

Vi è una costante attenzione verso i più disparati tipi di linguaggio, verso le concrete forme d'uso dei linguaggi, piuttosto che verso i loro princìpi logico-formali. Di qui anche l'interesse per una grande varietà di discipline, per i loro linguaggi e significati: dall'etica alla politica, dalla psicologia alla matematica, alla storiografia, alla religione. La filosofia analitica esprime anche un interesse positivo per l'uso linguistico dei termini nelle proposizioni della metafisica che non vengono trattate come pseudo-proposizioni, cioè proposizioni prive di senso (come aveva fatto, ad esempio, Carnap) ma solo studiate con lo scopo di comprendere quel particolare "gioco linguistico", lo specifico uso dei termini e delle proposizioni che esso adotta e che è determinato dalle regole interne al gioco stesso. Filosofi del linguaggio ordinario, nel senso prima precisato, i filosofi di Oxford hanno prestato particolarmente attenzione al linguaggio:

- etico-giuridico ( " Il linguaggio della morale " di Hare; " Filosofia morale contemporanea " di Warnock);

- storiografico (Gardiner, " La natura della spiegazione storica "; Dray, " Leggi e spiegazione in storia ";

- religioso (Flew, Hare, Hich, Mitchell);

- metafisico (Strawson, Hare, Hampshire, Waismann).

 

Il filosofo Rorty, secondo cui la filosofia stessa è un gioco linguistico, finalmente capace ai giorni nostri di esplodere in tutta la sua vivacità creativa, riconosce il merito alla filosofia analitica di dimostrare che i problemi filosofici sono inconsistenti, perché nascono da abusi del linguaggio ordinario. Rorty proporrà poi una via d’uscita a questo, ovvero ammettere che la filosofia non è tanto abuso del linguaggio ordinario, ma « proposta implicita di riformare il linguaggio ».

Analizziamo ora in particolare le analisi linguistiche di due importanti filosofi analitici: Austin, per quanto riguarda il linguaggio ordinario, e Hare, per quanto concerne il linguaggio etico-morale.

 

J. L. Austin.

 

Originale rappresentante della filosofia analitica è John Langshaw Austin, nato a Lancaster il 26 marzo 1911. I suoi interessi vanno dalle ricerche di analisi linguistica a quelle sul pensiero antico. Si è dedicato prevalentemente all'insegnamento al Christ Church College dell'Università di Oxford dal 1952

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fino alla morte, sopraggiunta prematuramente l'8 febbraio 1960. In vita pubblicò soltanto articoli, ora raccolti in Saggi Filosofici  (1961). Postumi sono stati pubblicati da colleghi e allievi alcuni importanti corsi e manoscritti: Senso e sensibilia, da un corso del 1947, pubblicato nel 1964 da Warnock, e How to do with words nel 1962.

Austin insieme a Ryle domina la scena intellettuale di Oxford nel secondo dopoguerra. In lui l'appello al linguaggio ordinario, prevalente a Oxford e Cambridge tra gli anni '40 e gli anni '50. acquista maggior peso. Il linguaggio ordinario va preso in massima considerazione perché è "ricco" e, quindi, può costituire un utile strumento di analisi e paragone per il filosofo che lavora in aree "filosoficamente calde" e che si sono sviluppate magari sotto il segno della super-semplificazione. Austin assume il linguaggio ordinario come oggetto privilegiato dell'analisi filosofica, ponendosi il compito di fare una specie di inventario delle più comuni espressioni che vi sono usate. Il linguaggio ordinario costituisce un oggetto di studio molto più ricco e significativo di quelli offerti dai saperi

altamente formalizzati. Mentre, infatti, i filosofi studiano concetti astratti e perciò generalissimi e semplificatori, gli analisti devono concentrarsi sui concetti del linguaggio ordinario, perché ricchi di sfumature e di una vasta gamma di significati che solitamente sono trascurati dal filosofo tradizionale. Per Austin bisogna dedicarsi all'analisi linguistica in filosofia, perché le parole, che sono uno strumento per noi importantissimo, non ci inducano in inganno. Occorre prestare attenzione, dunque, alle trappole che il linguaggio ci prepara, perché il mondo delle parole è caratterizzato da arbitrarietà e da inadeguatezza rispetto al mondo delle cose. L'analisi del linguaggio, delle parole, delle loro definizioni, delle loro etimologie, è un lavoro preliminare essenziale per impostare bene le questioni teoriche e avviarne la soluzione. Il filosofo inglese non considera questo lavoro sul linguaggio come sostitutivo e alternativo rispetto ad altri metodi filosofici, ma come un'attività preliminare all'indagine filosofica e, più in generale, a quella teorica. Naturalmente, fa presente Austin, quest'appello al linguaggio comune non è l'ultima parola in filosofia; ma, si noti, essa è la prima. Scrive Austin in Una difesa per le scuse (1956): " noi adoperiamo una raffinata consapevolezza dei termini per affinare la nostra percezione dei fenomeni ".

Austin è noto come l'autore della teoria degli atti linguistici. Più che l'aspetto descrittivo del linguaggio, a cui la filosofia ha dato molto spazio, essenziale è lo studio delle funzioni, cioè degli usi linguistici. Ogni parola o proposizione ha, infatti, più usi, ciascuno dei quali va considerato distintamente. La tesi di Austin è che si debba evidenziare non solo il carattere descrittivo del linguaggio, ma anche quello operativo. Egli stesso ha definito la sua attività « fenomenologia linguistica ». Egli parla, quindi, della necessità di valorizzare adeguatamente la funzione di prestazione ("performance") del linguaggio, quella, cioè, nella quale esso si configura come un fare, legato all'azione, all'esecuzione di atti. Austin distingue, così, gli "enunciati constativi" dagli

J. L. Austin.

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"enunciati performativi" o operativi, i quali furono esposti in How to do with words (1962): gli enunciati constativi constatano dei fatti e come tali li descrivono; gli enunciati performativi compiono azioni e, in tal modo, tendono a realizzare modifiche nella situazione esistente. I primi possono essere veri o falsi, i secondi possono essere efficaci o inefficaci, cioè avere o non avere successo, realizzarsi o meno, senza che ci si debba chiedere se siano veri o falsi. Essi non descrivono un evento o un'azione, ma servono proprio a compiere quell'azione. Successivamente, Austin accantona tale distinzione e sviluppa la tesi della funzione operativa, attiva, del linguaggio mediante una teoria degli speech acts, ovvero atti linguistici, la cui teorizzazione fu dapprima esposta in lezioni tenute tra il 1951 e il 1955. Secondo questa teoria ogni espressione linguistica è un atto: anche l'enunciato ritenuto constativo è un'azione (ad esempio, dire "domani vado a…" equivale a un impegno, a un atto, è enunciazione performativa e non solo indicativa e descrittiva). Così, egli distingue tre possibili e distinti aspetti di un atto linguistico, entro i quali classifica gli enunciati inizialmente descritti come constativi e performativi:

l' atto locutore è quello con cui si dice qualcosa dotato di significato (ad esempio, "quella porta è aperta") e può essere studiato dal punto di vista fonetico, lessicale o grammaticale;

l' atto illocutore è un atto effettuato col dire qualcosa: esso, oltre a informare, constatando una data realtà (ad esempio, il fatto che quella porta sia effettivamente aperta), può contenere un'esclamazione, una preghiera o un suggerimento (ad esempio, l'invito a chiudere quella porta aperta). L'atto illocutivo ha quindi una forza collegata alla reale intenzione di chi compie quell'atto linguistico.

L' atto perlocutore è l'atto compiuto per il fatto di dire qualcosa: quello per cui si raccoglie il suggerimento (o comando, invito, ecc.) implicito in quell'atto "illocutorio" e si esegue ciò che viene suggerito (si chiude, cioè, la porta). Mette in evidenza l'interattività costitutiva del linguaggio, cioè gli effetti sugli interlocutori che l'atto linguistico determina. Queste distinzioni sono ormai patrimonio comune della Filosofia analitica, così come lo è il senso del suo appello al linguaggio ordinario e la visione della finalità dell'analisi.

Con Austin la filosofia del linguaggio ha recuperato definitivamente l’orizzonte della soggettività come fonte degli enunciati e ha aperto un ulteriore passaggio verso la filosofia fenomenologia. Pensare, infatti, l’atto linguistico come l’attività significa riconoscere lo spessore storico ed esistenziale della persona e la sua con testualità sociale. Di qui deriva l’idea di Strawson che il concetto di « persona » sia un concetto primitivo necessario ad assicurare la stessa coerenza del linguaggio ordinario, in cui è presupposto un ente descrivibile tanto per coscienza, quanto per corporeità. L’analisi totale del mondo della « persona », in quanto quest’ultima è originariamente responsabile degli atti linguistici, non è possibile come semplice esame di enunciati o di atti; essa deve costituirsi come « metafisica », ovvero come descrizione e analisi dell’origine delle forme con cui esprimiamo o pensiamo il mondo.

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R. M. Hare.

 

Richard Mervyn Hare nacque il 21 marzo 1919 a Blackwell. Tra le sue opere importanti ricordiamo  Il linguaggio della morale  (1952), Libertà e ragione (1963) e Il pensiero morale (1981), in cui si ci pone soprattutto il problema del significato e della razionalità del discorso morale. Il suo pensiero viene solitamente suddiviso in due fasi: una prima costituita dalla teoria metaetica del prescrittivismo universale e una seconda caratterizzata, invece, dal predominare dell' interesse etico-normativo e improntata all'elaborazione prima e alla difesa poi di un particolare tipo di utilitarismo dell'atto. All'interno di ciascuna di esse sembra riscontrabile un'ulteriore divisione: una forma (le nozioni di prescrittività ed universalizzabilità) e un elemento assimilabile ad un contenuto (le preferenze) per la parte metaetica; una forma (l'universalizzabilità dei princìpi) e un elemento decisamente contenutistico (i fatti attinenti al mondo) per la parte normativa.

Si è molto discusso, se le due fasi siano in contraddizione o in continuità tra di loro. Tuttavia, Hare stesso sembra mettere in risalto i punti di unione tra le due fasi del proprio pensiero. Se è vero che il metodo analitico è una costante, è però anche vero che la facoltà di chiarire i concetti morali mediante l'analisi delle loro proprietà logiche non è, da sola, sufficiente allorché lo scopo delle proprie riflessioni sia l'elaborazione di una dottrina normativa e non solo un tipo di pensiero rigorosamente metaetico. La materia che Hare prende allora in considerazione è costituita dalla "preferenze". Queste sono strettamente collegate con le prescrizioni. « Il requisito di universalizzare le nostre

prescrizioni, il quale a sua volta è un requisito logico, posto che ragioniamo moralmente, ci chiede di trattare le prescrizioni degli altri (vale a dire, i loro desideri e predilezioni, e in generale le loro preferenze) come se fossero le nostre » (Moral thinking: its level, method and point). Preferenze ed elementi descrittivi, che permettono di collegare i termini morali (buono) a criteri diversi a seconda delle classi d'oggetti che vengono giudicate, richiedono e ad un tempo giustificano la commistione di forma e sostanza, di metaetica ed etica normativa propria del pensiero di Hare. A fare da sfondo a metodi e sostanze il centralissimo concetto dell'universalizzabilità, che permea di sé il pensiero di Hare conferendogli coerenza ed eleganza.

Secondo Hare, è necessario porsi il problema del significato delle nozioni morali, se non ci si vuole affidare solo all'intuizione, meramente soggettiva. Soltanto elaborando una teoria del significato dell'etica è possibile evitare il relativismo e sfuggire all'ammissione di una equivalenza tra tutti i discorsi

R. M. Hare.

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etici. Ciò può avvenire non affrontando direttamente questioni normative, ovvero che cosa è bene o che cosa è male, ma investigando sulle forme specifiche del discorso morale: il compito di quest'indagine appartiene ad una disciplina, chiamata meta-etica. La costante più importante di tutta la produzione hareana rimane il metodo analitico di rilevare, discutere e, possibilmente, risolvere i problemi. Va sottolineato un punto fondamentale: egli adotta il metodo proprio della filosofia analitica del linguaggio applicandolo al linguaggio morale, e tentando di scoprire il 'significato', le proprietà logiche fondamentali che regolano i termini propri di tale linguaggio ('buono', 'dovere', giusto'…).

Hare afferma: « la prescrittività dei giudizi morali può essere descritta formalmente come la proprietà di comportare almeno un imperativo […]. Formuliamo un enunciato prescrittivo se e solo se, per qualche atto A, qualche situazione S e qualche persona P, se P assente (oralmente) a ciò che diciamo e non fa A in S, è logicamente necessario che l'assenso di P sia insincero » (Moral thinking: its level, method and point). Una proprietà formale, dunque. Il primo dei due poli del prescrittivismo universale risulta così essere un elemento squisitamente legato alla filosofia analitica del linguaggio, e specificamente del linguaggio morale che viene, così, assimilato ad una sorta di linguaggio prescrittivo. Ciò testimonia innanzitutto l'importanza attribuita a tutti quegli aspetti logici e di significato dei termini morali che costituiscono il contesto filosofico all'interno del quale Hare si muove soprattutto nei primi anni della sua carriera.; in secondo luogo è indice del tentativo di percorrere la 'terza via in etica', distaccandosi parimenti dall' "emotivismo" (per il quale le nozioni etiche sarebbero delle realtà oscure e soggettive, tranquillamente rimpiazzabili da un particolare tono di voce o da alcuni punti esclamativi) e dal "naturalismo" (che vedrebbe, invece, nelle nozioni etiche delle realtà con proprietà assolutamente riconducibili alle proprietà delle realtà naturali).

Il linguaggio della morale, secondo Hare, è costituito da "proposizioni prescrittive" o "imperativi", ovvero proposizioni che comandano ciò che si deve o non si deve fare. Infatti, valutare un'azione come buona o cattiva equivale a prescrivere che essa sia o non sia eseguita. Gli imperativi si distinguono dalle "proposizioni descrittive", le quali descrivono uno stato di cose e possono essere vere o false. Essi, tuttavia, accanto ad un elemento propriamente prescrittivo, detto "neustico" (dal greco νεύειν, "inclinare"), contengono un elemento che appartiene anche al linguaggio descrittivo, ed è detto "frastico" (dal greco φράζειν, "dichiarare"). Ad esempio, l'imperativo "chiudi la porta!", che di per sé non è né vero né falso, ha in comune con la proposizione descrittiva "stai chiudendo la porta" l'elemento frastico, "chiudere la porta".

Hare condivide la cosiddetta "legge di Hume", secondo cui il dovere non può essere dedotto dall'essere, ovvero, da premesse descrittive non è possibile dedurre logicamente conclusioni imperative, che prescrivano ciò che si deve o non si deve fare. All'obiezione che la meta-etica, limitandosi a descrivere le proprietà del linguaggio morale, lascia in realtà le cose come stanno, Hare risponde mostrando che le proposizioni morali implicano un principio di "universalizzabilità": chi enuncia una proposizione prescrittiva, infatti, se non

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vuole contraddirsi, la farà prevalere per tutti coloro che si trovano nella situazione prevista dall'imperativo. In questo senso, la scelta dell'azione non è abbandonata solamente all'intuizione o alle emozioni meramente individuali, ma può essere fondata su argomentazioni che si richiamano esplicitamente a questo principio.

Tra le varie spiegazioni dell'universalizzabilità, Hare propone la seguente come la più completa: " è contraddittorio dare giudizi morali diversi su situazioni di cui ammettiamo l'identità per quanto riguarda le loro proprietà descrittive universali. Per giudizi 'diversi' intendo 'tali che, se fossero riferiti alla medesima situazione, sarebbero reciprocamente incompatibili' " (Moral thinking: its level, method and point). Egli riconosce che nei giudizi etici nei quali compaiono termini morali (ad esempio 'buono') è presente una componente descrittivistica che permette di collegare, in modo variabile, tali termini a criteri diversi; questa mutevolezza è determinata dalla diversità delle classi di oggetti giudicate. Quando diciamo che una mela è 'buona' abbiamo in mente qualità del tutto diverse rispetto a quando diciamo che questa è una 'buona' esecuzione della quinta sinfonia di Beethoven; cambiano i criteri del nostro giudizio, rimane invariata l'intenzione di lodare ed eventualmente raccomandare ciò che abbiamo giudicato 'buono'. Facendo così proprie alcune istanze del "descrittivismo", Hare attacca i suoi due avversari principali: al contrario di quanto afferma l'emotivismo i nostri giudizi morali non sono immotivati, non esprimono soltanto un nostro stato d'animo ma sono il risultato di un processo razionale volto al reperimento, nell'oggetto giudicato, di alcuni criteri che giustificano il giudizio stesso; il fatto che il significato descrittivo di un termine possa legittimamente variare permette di svincolare un termine morale (il 'buono' dell'esempio) da un insieme fisso e immutabile di proprietà cui il naturalismo lo vorrebbe invariabilmente collegato. Hare può ora ripescare all'interno della meta-etica anche l' "etica normativa", che investiga su che cosa si debba o non si debba fare, in particolare l'etica dell'utilitarismo, in netta ripresa negli anni del dopoguerra in Inghilterra, e dalla quale Hare riprende la nozione di "preferenza". L'impegno proprio del discorso morale di esprimere prescrizioni universalizzabili impone che si tenga conto delle preferenze di tutte le altre persone coinvolte nei casi in esame, senza stabilire differenze pregiudiziali fra tali preferenze, in modo da massimizzare le preferenze di tutti.

 

L’Anonimo del Sublime.

Nel contesto del dibattito tra apollodorei e teodorei si colloca il più originale trattato di critica letteraria restituitoci dalla cultura greca. Esso è noto con il titolo Sul Sublime. Sono incerti invece l’autore e la datazione, come conferma la stessa tradizione manoscritta. Il codice Parisino Greco 2036 pare attribuirlo a Dionigi di Alicarnasso (I sec. a.C.) o a Cassio Longino (III d.C.), ma in entrambe i casi vi sono contraddizioni di pensiero per l’uno o di datazione per l’altro: molti elementi collocano il trattato non oltre la meta del I sec. d. C. L’opera è dedicata ad un certo Postumio Floro Terenziano ed è

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esplicitamente un’integrazione polemica dell’omonima opera di Cecilio di Calatte. Se Cecilio si era preoccupato di enumerare i vari casi di sublime letterario, l’Anonimo si preoccupa del concetto generale della categoria estetica del sublime e dei modi per raggiungere il vertice dell’arte della parola.

La polemica riguardante l’arte della retorica era tra coloro che concepivano l’arte come scienza e quindi come prodotto di regole tecniche (apollodorei) e coloro che la ritenevano risultato di qualità e predisposizioni del soggetto. Il sublime, ovvero ciò che è unanimemente, ovunque e sempre definito bello, ciò che produce persuasione ed estasi in ogni uditore, è invece per l’Anonimo tanto frutto di una elevazione del linguaggio (definizione retorica), quanto « la risonanza di un animo grande » (definizione filosofica e della critica).

La geniale densità di quest’ultima sentenza si apre a molteplici significati: implicitamente, infatti, si istaura una necessaria e quasi naturale interdipendenza tra dimensione artistica e qualità etica, parametro dell’animo grande. Così facendo, L’Anonimo non si limita a scrivere un semplice trattato di estetica, ma rivendica una comunanza in cui si riconoscono tutti gli uomini che affidano ai valori dello spirito il senso del loro esistere. Ed inoltre la sentenza introduce il discorso della comunicazione col pubblico.

L’opera è quindi sì espressione del pathos dell’artista, ma « troppo esposti al pericolo sono i grandi ingegni quando vengano lasciati a se stessi senza disciplina ». Vi deve quindi essere un metodo, un esercizio, una tecnica. L’autore elenca cinque fonti del sublime a cui se ne aggiunge poi una sesta.

È scritto al capitolo VIII:

 

« Cinque sono, si può dire, le fonti da cui la sublimità dello stile in massima deriva, a tutte cinque presupponendosi come base comune la naturale facondia, senza la quale non c'è assolutamente nulla da fare. La prima e piú importante è l'attitudine alle grandi concezioni, così come l'abbiamo definita nei libri più sopra trattati di Senofonte; seconda è la passione profonda ed ispirata. Ora queste due sono disposizioni del sublime per la maggior parte innate. Le altre invece si conseguono, piuttosto, per via dell'arte: vale a dire, la speciale foggia delle figure (che si ritengono essere di due tipi, figure di pensiero e figure di elocuzione); poi la nobiltà della espressione (che comprende parimenti due parti, la scelta delle parole e l'elocuzione traslata ed elaborata); infine, quinta fonte del sublime, racchiudente tutte quelle che precedono, la composizione - o collocazione delle parole - intonata a gravità e grandezza. »

 

Tra queste fonti possiamo distinguerne due legate alla φύσις ( le grandi concezioni e la passione profonda, che sono requisiti morali) e tre legate all’arte, ovvero le figure retoriche, la nobiltà dell’espressione e la

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composizione. Esiste però una sesta fonte, legata tanto ad un aspetto, quanto all’altro: le jantasίai.

È importante l’uso delle fantasie come l’Anonimo scrive al capitolo XV, 1-2:

 

« A conferire altezza e grandiosità di linguaggio, nonché impeto oratorio, sono poi anche adatissime, o mio giovane amico, le fantasie: quelle che, in tal senso, alcuni denominano piuttosto idolopée. Fantasia infatti genericamente si chiama tutto ciò che in qualche modo produce un pensiero generatore di parola; ma ormai il nome è invalso per significare quelle espressioni in cui, ciò che tu dici, per effetto d’entusiasmo e di passione ti pare di vederlo e lo poni sotto gli occhi degli uditori. Che ad altro tende la fantasia degli oratori, ad altro quella dei poeti, tu lo sai certamente; e sai che il fine della fantasia poetica è la sorpresa, mentre quello dell’oratoria è l’evidenza, e che nondimeno l’una e l’altra cercano il patetico e il concitato.

 

O madre, ti supplico, non lanciare contro di me

le vergini dell’occhio sanguigno e in figura di serpenti.

Eccole, eccole che m’incalzano da presso!

 

Ahimè, mi ucciderà! Dove fuggo?

 

Qui il poeta stesso le ha viste, le Erinni, e quel ch’egli ha visto così, con la propria fantasia, per poco ha costretto anche gli uditori a contemplarlo. »

 

Le due citazioni provengono rispettivamente dall’Oreste e dall’Ifigenia di Euripide. Le fantasie sono tutto ciò che crea parole dalla parte dell’autore ed immagini dalla parte dell’uditore: sono quindi ciò che permette la comunicazione, lo scambio di parti e la sintonia con il pubblico.

L’Anonimo rintraccia esempi di fantasie anche nelle opere degli altri due maggiori tragici, Sofocle ed Eschilo e di quest’ultimo riporta una delle sue « fantasie altissimamente eroiche » dei Sette contro Tebe:

 

“Sette impetuosi condottieri,

un toro immolando sopra un negro scudo

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e con le mani la taurina strage toccando,

per Ares e per Enyo e pel Terrore avido di sangue

giurarono.”

 

Dopo aver parlato della fantasia poetica, l’Anonimo si occupa dell’oratoria e si interroga sull’uso, estraneo all’oratoria, della fantasia da parte dei sommi oratori del suo tempo i quali dovrebbero attenersi al vero e al reale e non portare il discorso sul favoloso e sull’assurdo:

 

« A che serve dunque la fantasia oratoria? Presumibilmente essa nel discorso introduce molti e svariati elementi di vivacità e passione, ma in particolare mescolandosi alle argomentazioni dei fatti, non solo persuade l’uditore, sì lo soggioga. “Eppure, se in questo medesimo istante – dice [Demostene] – si udisse gridare davanti al tribunale, quindi uno dicesse che aperte le carceri e i carcerati fuggono, nessuno, giovane o vecchio, sarebbe tanto infingardo da non correre in aiuto secondo le sue forze; e se poi uno, qui presentandosi, dicesse: colui che li ha rilasciati, eccoli lì: questi, senza poter fare parola, sarebbe ucciso all’istante”.

Così anche Iperide, accusato, di avere, dopo la sconfitta [di Cheronea], proposto un decreto che dava la libertà agli schiavi: “Questo decreto [disse] non già l’oratore lo ha scritto, bansì la battaglia di Cheronea”. Oltre ad argomentare coi fatti qui l’oratore ha messo in opera la fantasia; perciò anche i limiti della persuasione egli li ha superati in grazia a questo modo di concepire. Poiché sempre, quasi per natura, nei casi di tal fatta noi diamo ascolto a ciò che mediante la fantasia ci colpisce, nella quale l’elemento pragmatico si nasconde come rivestito da grande barbaglio di luce. Né ciò ci accade già senza ragione: quando infatti due corpi si congiungono in uno, sempre il più potente attira a sé la forza dell’altro. »

 

Per quanto estranea a tal genere, quindi, la fantasia oratoria, se è usata al momento opportuno, può arrecare un maggiore successo al discorso. Infine, dopo aver parlato delle fonti, al capitolo XXIII l’autore si chiede se sia preferibile la grandezza associata a difetti oppure la mediocrità senza cadute di stile. E ammette che tutti i più grandi ingegni « sono i meno esenti da macchie, poiché l’assoluta esattezza espone al pericolo della minuzia ». Porta l’esempio di Omero in cui sono presenti non poche imperfezioni, ma nessuno altro autore, neppure il più perfetto nello stile come Apollonio o Teocrito, è preferibile al grande modello epico.

 

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Lo sperimentalismo linguistico di Pascoli.

 

La poesia italiana del Novecento conosce rispetto alla produzione precedente un’importante rivoluzione sul piano linguistico e stilistico. E il poeta che per primo attuò uno sperimentalismo linguistico e che con ciò avrebbe influenzato tutta la lirica novecentesca seguente, fu Giovanni Pascoli. Nato a San Mauro di Romagna nel 1855 e morto a Bologna nel 1912, studiò ad Urbino e a Bologna ed intraprese poi la carriera di insegnante. È assieme a D’Annunzio massimo esponente del Decadentismo italiano.

Centrale nella sua poetica è la riscoperta dell’infanzia, o meglio, del fanciullino che vi sarebbe in ogni uomo. Il fanciullino è una voce schietta, pura, immediata che parla dentro di noi, ma che smettiamo di ascoltare divenendo adulti. Esso ci fa vedere la realtà con gli occhi puri di un bambino e ci permette di cogliere la bellezza, la musicalità e la poesia che sta nelle cose. Il poeta è colui che dotato di particolare sensibilità sa ascoltare il suo fanciullino e sa farlo rivivere dentro di sé. Egli è l’interprete privilegiato di una verità assoluta che celerebbero le cose sotto dei simboli. Pertanto v’è in Pascoli una poetica del particolare simbolico che porta allo scavo dentro la realtà fenomenica e dunque alla valorizzazione delle onomatopee, dei termini tecnici puntuali, dei fonosimbolismi puri. La base ancora positivistica della sua cultura spinge Pascoli a valorizzare il modo concreto di essere delle cose e a renderlo linguisticamente con esattezza mimetica; ma d’altra parte la sua tendenza orfica lo porta poi ad assegnare una funzione rivelatrice a quei particolari e alla loro voce che solo la poesia può esprimere.

L’aspetto che forse colpisce più immediatamente della poesia pascoliana è la sintassi. Essa è ben diversa dalla sintassi della tradizione poetica italiana, che era modellata sui classici e perciò fondata su complesse ed elaborate gerarchie di proposizioni principali, coordinate e subordinate. Pascoli fa prevalere la paratassi sulla ipotassi, in modo che la struttura poetica si frantuma in una serie di coordinate. Vi sono frequenti frasi ellittiche che mancano del soggetto o del verbo oppure che assumono la forma dello stile nominale, diventano ovvero successione di semplici sostantivi. Il prevalere del nome sul verbo implica la fiducia nel potere rivelatore immediato della parola, nel valore epifanico del nome e del rapporto tra parole e cose. Se l’architettura della frase classica indicava la volontà di chiudere i dati del reale in una rete di rapporti logici, la frantumazione pascoliana, invece, svela il rifiuto di una sistemazione logica dell’esperienza ed il prevalere della sensazione immediata, dell’intuizione, dei rapporti analogici, allusivi e suggestivi che indicano una trama di segrete corrispondenze tra le cose, al di là del visibile. È insomma una sintassi che traduce perfettamente la visione fanciullesca ed alogica di Pascoli, che mira a rendere l’alone indefinito che circonda le cose e a scendere intuitivamente nel profondo della loro essenza.

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Non essendovi più gerarchie, nel mondo pascoliano si introduce un relativismo che non ha più punti di riferimento esterni ed oggettivi.

Riguardo al lessico, si assiste a fenomeni analoghi. Pascoli non usa un lessico fissato entro un unico codice, come era proprio di tutta la tradizione monolinguistica della poesia italiana a partire da Petrarca. Mescola tra loro codici linguistici diversi, pone a fianco termini tratti dai settori più disparati. Non nascono tuttavia conflitti parossistici di registri: come le cose convivono senza gerarchie, così accade pure per parole che le designano. È un principio formulato nel Fanciullino: come il poeta vuole abolire la lotta fra le classi sociali, così vuole abolire la lotta fra le classi di oggetti e parole. Come nota Contini: « quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa, che si crede in un modo certo, ontologicamente ben determinato, in un mondo gerarchizzato dove i rapporti stessi tra l’io e il non-io, tra l’uomo e il cosmo sono determinati, hanno dei limiti esatti, delle frontiere precognite. Le eccezioni alla norma significheranno allora che il rapporto tra l’io e il mondo in Pascoli è un rapporto critico, non è un rapporto tradizionale. È caduta quella certezza assistita di logica che caratterizzava la nostra letteratura fino a tutto il primo romanticismo. »

Vediamo ora da quali codici linguistici Pascoli trae il suo lessico. Abbiamo innanzitutto termini aulici e preziosi della lingua dotta o ricavati dai modelli antichi – come epiteti, formule omeriche – oppure abbiamo ricalchi dal greco e dal latino, riprodotti con parnassiana raffinatezza nella loro grafia originale. Un esempio sono i Poemetti conviviali come Alexandros, di cui segue l’inizio:

 

– Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!

Non altra terra se non là, nell’aria,

quella che in mezzo del bricchier vi brilla,

 

o Pezetèri: errante e solitaria

terra, inaccessa. Dell’ultima sponda

vedete là, mistofori di Caria,

 

l’ultimo fiume Oceano senz’onda.

[…]

 

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Altri codici sono il linguaggio colloquiale e dimesso del parlato, il dialetto dei contadini della Garfagnana, come il verso che si ripete in La partenza del Boscaiolo (Canti di Castelvecchio) « tient’a su! tient’a su! tient’a su!» oppure termini tecnici degli oggetti del lavoro agricolo, mai prima ammessi in poesia. Prendiamo come esempio l’ultima quartina della poesia Lavandare dalla raccolta Myricae, in cui oltre a riportare fedelmente un canto popolare, utilizza termini tecnici come aratro e maggese:

[…]

Il vento soffia e nevica la frasca,

e tu non torni ancora al tuo paese!

Quando partisti, come son rimasta!

Come l’aratro in mezzo alla maggese.

V. Van Gogh, L’aratro, 1890

Pascoli dimostra infine una conoscenza buona della terminologia botanica ed ornitologica, come in Digitale purpurea (Poemetti): « i ginepri tra cui zarlano i tordi? / i bussi amari? », come in Nel parco « ma non s’adiri il giovinetto alloro, / il leccio, il pioppo tremulo ed il lento / salice »o come si vede nei titoli stessi di alcune poesie: Il vischio, Pervinca, L’assiuolo, I puffini dell’Adriatico ecc…

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E non mancano termini stranieri, come espressioni inglesi o parole desunte da quell’inglese italianizzato che parlavano gli emigranti che troviamo in The hammerless gun (Canti di Castelvecchio) o in  Italy (Primi poemetti), di cui seguono alcuni versi:

 

[…]

«Ioe, bona cianza!… »« Ghita, state bene!…»

«Good bye».«L’avete presa la tichetta?».

«Oh yes».«Come partite in fretta!»

[…]

 

Grande rilievo hanno poi gli aspetti fonici delle parole. Ciò che colpisce sono le forme definite da Contini «pregrammaticali» o « cislinguistiche », espressioni che si situano al di sotto del livello strutturato della lingua e non hanno valore semantico. Sono in prevalenza riproduzioni onomatopeiche come il fru fru e il chiù ne L’assiuolo, oppure come il din don dan delle campane in Sera estiva (Myricae) o come in The hammerless gun:

 

[…]

E me segue un tac tac di capinere,

e me segue un tin tin di pettirossi,

un zisteretetet di cincie, un rererere

di cardellini

[…]

 

Queste onomatopee non mirano ad una riproduzione neutra del dato oggettivo, ma assumono quasi un senso oracolare ed indicano l’esigenza di aderire immediatamente all’oggetto, di penetrare nella sua essenza segreta evitando la mediazione del pensiero. Al di là delle onomatopee costantemente i suoni delle parole possiedono per Pascoli un valore fonosimbolico, ovvero assumono un proprio significato senza riferirsi al significato della parola. I rimandi di suoni che si creano all’interno di un testo poetico pascoliano costituiscono come suggerisce Beccaria la vera

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architettura del testo, a supplire l’assenza di strutture logiche e sintattiche. Un esempio è la poesia Il gelsomino notturno (Canti di Castelvecchio) in cui ricorrono i fonemi dell’avverbio «là»: « là sola una casa bisbiglia »; « un lume là nella sala »; « È l’alba » ecc...

 Infine, caratteristico del linguaggio simbolista pascoliano è l’uso delle figure retoriche dell’analogia e della sinestesia. Il meccanismo del linguaggio analogico è la metafora, ma Pascoli non si accontenta di una somiglianza facilmente riconoscibile ed accosta due realtà fra loro lontane, eliminando per di più i passaggi logici intermedi e identificando immediatamente gli estremi. Ad esempio in Temporale, appartenente a Myricae, sullo sfondo nero del cielo temporalesco spicca la nota bianca di un casolare che viene di colpo accostata al bianco di un’ala di gabbiano: « Tra il nero un casolare: un’ala di gabbiano. » Come esempio di sinestesia, invece, si possono citare alcuni versi de La mia sera: « Dormi! bisbigliano, Dormi! / là, voci di tenebra azzurra », in cui la sensazione visiva e cromatica si fonde con una sensazione fonica: il colore diviene una voce.

 

Le parole in libertà del Futurismo italiano.

 

Il primo Novecento fu il periodo delle avanguardie, movimenti artistici e letterari che si opponevano tanto alla mercificazione, quanto alla museificazione dell’arte le quali vanificavano e neutralizzavano gli intenti polemici ed innovatori delle opere degli artisti. La contestazione di questi nuovi artisti e letterati si muoveva contro l’oggettività del Naturalismo e contro l’arte come contemplazione e conoscenza separata e privilegiata del Decadentismo. In Italia, il sovversivismo piccolo-borghese degli intellettuali si realizzò pienamente con il movimento del Futurismo italiano. Il suo fondatore, Tommaso Martinetti, pubblicò il manifesto del movimento sul giornale francese Figaro il 20 febbraio 1909. Vi si leggeva l’esaltazione della macchina, della tecnica, dell’aggressività e della velocità: « Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. ». L’arte doveva partire dal presente, dalla società contemporanea e volgersi al futuro, anziché al passato. E riguardo ai  nemici da combattere scriveva Marinetti: « Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria. »

Era un movimento che intendeva interpretare la tendenza al nuovo, al progresso meccanico, alla modernità della civiltà industriale. Il programma futurista, allargandosi fino ad abbracciare i più disparati aspetti dell’arte e del costume sociale, finì per presentarsi come un progetto di rifondazione totale, attribuendo particolare importanza agli aspetti pratici e promozionali. In campo politico erano interventisti, in quanto vedevano nella guerra, la « sola igiene del mondo » e la possibilità di scatenare le forze primordiali e di promuovere la costruzione di nuove macchine. Caratteristica era poi

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l’interartisticità, ovvero la comprensioni di tutte le arti dalla letteratura, alla pittura, dalla architettura alla musica e al cinema. Una grande innovazione del Futurismo in ambito artistico- letterario riguardò le tecniche espressive. I futuristi erano sostenitori della « parole in libertà » che distruggessero la sintassi e costruissero un nuovo linguaggio, alogico e analogico, dove domina la sinestesia, ovvero la realtà della materia anziché della psiche umana. Importante fu il Manifesto tecnico pubblicato il 11 maggio 1912. Fu incluso nella prima antologia dei Poeti futuristi pubblicata dalle Edizioni di «Poesia», rivista internazionale fondata a Milano nel 1905 dallo stesso Marinetti con Sem Benelli e Vitaliano Ponti. Tra i collaboratori italiani erano, tra gli altri, Pascoli, Gozzano, Lucini e Palazzeschi. Segue il manifesto:

 

 « In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre dalla testa dell'aviatore, io sentii l'inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero. Bisogno furioso di liberare le parole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino! Questo ha naturalmente, come ogni imbecille, una testa previdente, un ventre, due gambe e due piedi piatti, ma non avrà mai due ali. Appena il necessario per camminare, per correre un momento e fermarsi quasi subito sbuffando!

         Ecco che cosa mi disse l'elica turbinante, mentre filavo a duecento metri sopra i possenti fumaiuoli di Milano. E l'elica soggiunse:

         1.  Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono.

         2. Si deve usare il verbo all'infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all'io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all'infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l'elasticità dell'intuizione che la percepisce.

         3. Si deve abolire l'aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L'aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è inconcepibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione.

      4. Si deve abolire l'avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l'una all'altra le parole. L'avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.

5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto.

G. Balla, Velocità astratta - l'auto è gia passata, 1913

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         Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza dei mondo, la percezione per analogia diventa sempre più naturale per l'uomo. Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio ancora, bisogna fondere direttamente l'oggetto coll'immagine che esso evoca, dando l'immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale.

       6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s'impiegheranno segni della matematica: + - x : = > <, e i segni musicali.

         7. Gli scrittori si sono abbandonati finora all'analogia immediata. Hanno paragonato per esempio l'animale all'uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora, press'a poco, a una specie di fotografia... ( […] v’è in ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e solidi, quantunque lontanissimi.)

         L'analogia non è altro che l'amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico, e polimorfo, può abbracciare la vita della materia. […]

         Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia, come diceva Voltaire.

Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia deve essere un seguito ininterrotto di immagini nuove senza di che non è altro che anemia e clorosi.

         Quanto più le immagini contengono rapporti vasti, tanto più a lungo esse conservano la loro forza di stupefazione. Bisogna - dicono - risparmiare la meraviglia del lettore. Eh! via! Curiamoci, piuttosto, della fatale corrosione del tempo, che distrugge non solo il valore espressivo di un capolavoro, ma anche la sua forza di stupefazione. Le nostre vecchie orecchie troppe volte entusiaste non hanno forse già distrutto Beethoven e Wagner? Bisogna dunque abolire nella lingua tutto ciò che essa contiene in fatto d'immagini stereotipate, di metafore scolorite, e cioè quasi tutto.

         8. Non vi sono categorie d'immagini, nobili o grossolane o volgari, eccentriche o naturali. L'intuizione che le percepisce non ha né preferenze né partiti-presi. Lo stile analogico è dunque padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita.

         9. Per dare i movimenti successivi d'un oggetto bisogna dare la catena delle analogie che esso evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola essenziale. […]

         Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più fuggevole e di più inafferrabile nella materia, bisogna formare delle strette reti d'immagini o analogie, che verranno lanciate nel mare misterioso dei fenomeni. Salvo la

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forma a festoni tradizionale, questo periodo del mio Mafarka il futurista è un esempio di una simile fitta rete di immagini:

      Tutta l'acre dolcezza della gioventù scomparsa gli saliva su per la gola, come dai cortili delle scuole salgono le grida allegre dei fanciulli verso i maestri affacciati al parapetto delle terrazze da cui si vedono fuggire i bastimenti... […]

         10. Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell'intelligenza cauta e guardinga, bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine.

         11. Distruggere nella letteratura l'«io», cioè tutta la psicologia. L'uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella letteratura, e sostituirlo finalmente colla materia, di cui si deve afferrare l'essenza a colpi d'intuizione, la qual cosa non potranno mai fare i fisici né i chimici.

         Sorprendere attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi, la respirazione, la sensibilità e gli istinti dei metalli, delle pietre, del legno ecc. Sostituire la psicologia dell'uomo, ormai esaurita, con l'ossessione lirica della materia. […]

Bisogna introdurre nella letteratura tre elementi che furono finora trascurati:

il rumore (manifestazione del dinamismo degli oggetti);

il peso (facoltà di volo degli oggetti);

l'odore (facoltà di sparpagliamento degli oggetti).

         Sforzarsi di rendere per esempio il paesaggio di odori che percepisce un cane. Ascoltare i motori e riprodurre i loro discorsi.

         La materia fu sempre contemplata da un io distratto, freddo, troppo preoccupato di sé stesso, pieno di pregiudizi di saggezza e di ossessioni umane.

         L'uomo tende a insudiciare della sua gioia giovane o del suo dolore vecchio la materia, che possiede una ammirabile continuità di slancio verso un maggiore ardore, un maggior movimento, una maggiore suddivisione di sé stessa. La materia non è né triste né lieta. Essa ha per essenza il coraggio, la volontà e la forza assoluta. Essa appartiene intera al poeta divinatore che saprà liberarsi dalla sintassi tradizionale, pesante, ristretta, attaccata al suolo, senza braccia e senza ali perché è soltanto intelligente. Solo il poeta asintattico e dalle parole slegate potrà penetrare l'essenza della materia e distruggere la sorda ostilità che la separa da noi.

         Il periodo latino che ci ha servito finora era un gesto pretensioso col quale l'intelligenza tracotante e miope si sforzava di domare la vita

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multiforme e misteriosa della materia. Il periodo latino era dunque nato morto.

         Le intuizioni profonde della vita congiunte l'una all'altra, parola per parola, secondo il loro nascere illogico, ci daranno le linee generali di una psicologia intuitiva della materia. Essa si rivelò al mio spirito dall'alto di un aeroplano. Guardando gli oggetti, da un nuovo punto di vista, non più di faccia o per di dietro, ma a picco, cioè di scorcio, io ho potuto spezzare le vecchie pastoie logiche e i fili a piombo della comprensione antica. […]

         Noi inventeremo insieme ciò che io chiamo l'immaginazione senza fili. Giungeremo un giorno ad un'arte ancor più essenziale, quando oseremo sopprimere tutti i primi termini delle nostre analogie per non dare più altro che il seguito ininterrotto dei secondi termini. Bisognerà, per questo, rinunciare ad essere compresi. Esser compresi, non è necessario. Noi ne abbiamo fatto a meno, d'altronde, quando esprimevamo frammenti della sensibilità futurista mediante la sintassi tradizionale e intellettiva.

         La sintassi era una specie di cifrario astratto che ha servito ai poeti per informare le folle del colore, della musicalità, della plastica e dell'architettura dell'universo. La sintassi era una specie d'interprete o di cicerone monotono. Bisogna sopprimere questo intermediario, perché la letteratura entri direttamente nell'universo e faccia corpo con esso.  […] 

        Perché servirsi ancora di quattro ruote esasperate che s'annoiano, dal momento che possiamo staccarci dal suolo? Liberazione delle parole, ali spiegate dell'immaginazione, sintesi analogica della terra abbracciata da un solo sguardo e raccolta tutta intera in parole essenziali.

         Ci gridano: «La vostra letteratura non sarà bella! Non avremo più la sinfonia verbale, dagli armoniosi dondolii, e dalle cadenze tranquillizzanti!» Ciò è bene inteso! E che fortuna! Noi utilizziamo, invece, tutti i suoni brutali, tutti i gridi espressivi della vita violenta che ci circonda.

Facciamo coraggiosamente il «brutto» in letteratura, e uccidiamo dovunque la solennità. Via! non prendete di quest'arie da grandi sacerdoti, nell'ascoltarmi! Bisogna sputare ogni giorno sull'Altare dell'Arte! Noi entriamo nei dominii sconfinati della libera intuizione. Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in libertà!

         Non c'è in questo, niente di assoluto né di sistematico. Il genio ha raffiche impetuose e torrenti melmosi. Esso impone talvolta delle lentezze analitiche ed esplicative. Nessuno può rinnovare improvvisamente la propria sensibilità. Le cellule morte sono commiste alle vive. L'arte è un bisogno di distruggersi e di sparpagliarsi, grande innaffiatoio di eroismo che inonda il mondo. I microbi - non lo dimenticate - sono necessari alla salute dello stomaco e dell'intestino. Vi è anche una specie di microbi necessaria alla vitalità dell'arte, questo prolungamento della foresta delle nostre vene, che si effonde, fuori dal corpo, nell'infinito dello spazio e del tempo.

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         Poeti futuristi! Io vi ho insegnato a odiare le biblioteche e i musei, per prepararvi a odiare l'intelligenza, ridestando in voi la divina intuizione, dono caratteristico delle razze latine. Mediante l'intuizione, vinceremo l'ostilità apparentemente irriducibile che separa la nostra carne umana dal metallo dei motori.

         Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico. Con la conoscenza e l'amicizia della materia, della quale gli scienziati non possono conoscere che le reazioni fisico-chimiche, noi prepariamo la creazione dell'uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall'idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell'intelligenza logica. »

 

Per capire meglio quanto è stato detto sopra, possiamo prendere in considerazione la celebre poesia “Bombardamento” di Marinetti, la cui poetica è ben espressa nel manifesto. Questa poesia descrive il bombardamento ad opera dei Bulgari della città turca di Adiranopoli, a cui il poeta assistè durante la guerra tra queste due nazioni nel 1912. Si nota in questo testo l’intento di tradurre l’ossessività della materia di cui si parla nel manifesto. Gli effetti del bombardamento sono resi tramite dei significanti onomatopeici, i quali evidenziati in neretto rispetto al testo della composizione, cercano di ricreare in modo sensibile il suono dei rumori assordanti e dei boati:

 

[…]

ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare

spazio con un accordo tam-tuuumb

ammutinamento di 500 echi per azzannarlo

sminuzzarlo sparpagliarlo all’infinito

nel centro di quei tam-tuuumb

[…]

 

Da notare poi l’assenza di punteggiatura, di una sintassi tradizionale, l’utilizzo dei numeri e del verbo all’infinito. Ta parentesi ed in maiuscoletto si leggono delle specie di didascalie che forniscono indicazioni sulle velocità delle azioni e sui tempi di lettura, quasi come se si trattasse si uno spartito musicale; analoga è la funzione degli spazi bianchi che corrispondono alle pause e ai silenzi. Vi sono inoltre numerosi avverbi di luogo ad indicare il

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movimento spaziale e termini con forte valenza onomatopeica per il raddoppiamento delle consonanti:

 

[…]

Giù giù in fondo all’orchestra stagni

diguazzare               buoi bufali

pungoli carri pluff plaff inpen-

narsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack

ilari nitriti iiiiiii… scalpicii tintinii 3

battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac

(lento due tempi) Sciumi Marita

o Karvevena croooc craaac grida degli

ufficiali sbataccccchiare come piatttti d’otttttone

[…]

 

E ancora assai significativo è il termine « vampe » ripetuto in corsivo piccolo e graficamente messo in rilievo, a rappresentare i bagliori e i fuochi delle artiglierie che si accendono, qua e là e le onomatopee in piccolo (cip-cip-cip; don-dan-don-din-bèèè) che riproducono i suoi della natura sommersi dal frastuono assordante. La parola ricrea il dinamismo della materia e la simultaneità delle sensazioni, trasferendole sul piano acustico e visivo, in cui vari elementi tendono a mescolarsi e a compenetrarsi.

 

Page 30: LA PAROLA

La religione della parola di Ungaretti.

Un altro poeta fortemente rivoluzionario, almeno nella sua prima produzione, in cui la parola acquista un valore nuovo è Giuseppe Ungaretti. Egli nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1888 in una famiglia di origine lucchese. Studiò a Parigi dove ebbe modo di conoscere la poesia decadente e simbolista, dopodiché si trasferì in Italia per partecipare con entusiasmo alla guerra del 1914. Divenne poi professore universitario ed insegnò letteratura italiana a San Paolo in Brasile e a Roma.

Ricollegandosi alla lezione del Simbolismo, portò alle estreme conseguenze il procedimento dell’analogia. Riprese in ciò anche alcuni presupposti della poetica di Marinetti, di cui però respingeva il dinamismo meccanicistico. Scriveva infatti Ungaretti: «Se il carattere dell’800 era quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti e di pali e di carbone e di fumo – il poeta d’oggi cercherà dunque di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all’innocenza, quale lontananza da varcare; ma in un baleno». In queste parole troviamo alcuni termini essenziali per intendere la natura del suo linguaggio poetico: se la «memoria» è il carico dei ricordi personali e storici che l’uomo porta con sé, e che lo collegano alla dimensione contingente della vita, l’«innocenza» rappresenta la ricerca di una purezza edenica, la riconquista dell’identità perduta, che metta l’uomo a contatto con la dimensione originaria dell’essere. Ma la «lontananza da varcare» deve essere bruciata «in un baleno», proprio per liberarsi di ogni impurità portando il contingente nella sfera dell’assoluto. Di conseguenza, la poesia assume un valore religioso e metafisico, perché diventa il luogo di incontro tra storia e assoluto, individuale ed universale.

E per poter fare ciò, la poesia si colloca nella zona oscura di confine che sta a ridosso dell’inconoscibile e dell’inesprimibile. Fondamentale, in questo senso, è il culto della parola, che è caricata al massimo di tensione espressiva. La parola isolata nel bianco tipografico della pagina è la parola carica di senso che il poeta cerca di far uscire dal silenzio della vita per esprimere l’assoluto. Si esprime così la fiducia nel potere della poesia quale rivelazione della verità per mezzo della ricerca sulle parole. La parola assume il valore di un’improvvisa e folgorante illuminazione: essa si identifica con l’attimo in cui, attraverso l’immediatezza del rapporto analogico, la poesia sfiora la totalità e la pienezza dell’essere. La parola viene fatta risuonare nella sua autonomia e nella sua purezza o, se si vuole, nella sua innocenza, inserita in versi brevi o addirittura isolata fino a farla coincidere con la misura del verso stesso, quasi per collocarla nel vuoto e nel silenzio, oltre ogni rapporto contingente con la realtà.

La poetica ungarettiana dell’attimo si fonda sull’autobiografismo da cui trae i temi principali dell’esordio letterario: il deserto, il viaggio, il porto, il miraggio… Ma fu l’esperienza della I Guerra Mondiale a segnare il suo stile essenziale e a portare a maturazione questa prima ricerca poetica

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dell’attimo: la guerra costringe a vivere nel precario confine tra la vita e la morte, dove ogni cosa può rovesciarsi nel suo opposto e scomparire per sempre all’improvviso. Essa priva il soldato della sua identità, rendendolo anonimo e sradicandolo dalle sue origini. La poesia così diventa anche ricerca di una nuova identità, l’identità del soldato in trincea condiviso da molti uomini al fronte. Si può parlare allora di unanimismo ungarettiano, ovvero della realizzazione dell’uomo singolo, il poeta, attraverso una condizione comune a tanti.

Particolarmente significativi sono i titoli delle due prime raccolte pubblicate del 1916 e del 1919 che confluiranno in Allegria (1931): il porto sepolto e Allegria di naufraghi. Il primo titolo indica il segreto della poesia nascosto nel profondo di un abisso, in cui il poeta deve immergersi. Il secondo ha valore ossimorico, in quanto è l’allegria di un attimo del naufrago su cui incombe la presenza latente della morte.

Sul piano tecnico, come avviene nella raccolta di poesia Allegria,  l’opera consiste nel distruggere il verso tradizionale che, con la sua sintassi ancora naturalistica, è distante dal vero obiettivo della ricerca poetica. Oltre alla costruzione sintattica della frase, è abolita anche la punteggiatura.

Dichiarazione di poetica è la poesia Commiato all’interno della raccolta del 1931:

 

Gentile

Ettore Serra1

poesia

è il mondo l’umanità

la propria vita

fioriti dalla parola

la limpida meraviglia

di un delirante fermento

 

Quando trovo

in questo mio silenzio

una parola

scavata è nella mia vita

Page 32: LA PAROLA

come un abisso

 

1. Ettore Serra: l’amico ufficiale, conosciuto al fronte, che patrocinò la pubblicazione nel 1916 del Porto Sepolto.

 

In questi versi, la poesia è sia un momento di verità generale ( «mondo l’umanità» ), sia una rivelazione per l’uomo singolo ( «propria vita»; «mia vita» ). È infine messa in risalto la valorizzazione della parola quale ritrovamento prezioso ed eccezionale di senso e di verità nel silenzio che caratterizza solitamente la vita.

L’esito estremo a cui potesse giungere la ricerca poetica di Ungaretti, nella sua ansia di un’estrema riduzione e semplificazione, che arrestandosi alle soglie del silenzio cerca di raggiungere l’assoluto è Mattina:

 

M’illumino

d'immenso

 

La concentrazione spasmodica di significato coincide con un alone di indefinitezza. Alla comprensione del testo è indispensabile il titolo Mattina che indica il sorgere della luce del sole e allora si comprende il passaggio rapido e alogico dalla sensazione fisica della luminosità al sentimento interiore di vastità. Questa poesia è composta di quattro parole, due delle quali sono monosillabi ed apostrofate, cosicché si riducono a due sole emissioni di voce. I termini si caricano poi di un vasto significato, riproducendo l’infinito e l’eterno. Ungaretti traduce così il linguaggio dell’ineffabile, la sensazione di una pienezza quasi soprannaturale che non può essere definita in termini logici e concettuali.

Altro esempio di componimento ai limiti della ricerca poetica ungarettiana è Soldati:

 

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

Page 33: LA PAROLA

 

Anche qui il significato del testo si completa con il titolo con cui si istaura una similitudine retta da «si sta», verbo impersonale che sottolinea una condizione di anonimato e quindi di solitudine e abbandono. Il paragone inoltre permette di dar voce ad un dolore inespresso ed ignorato, unicamente affidato all’immanenza di qualcosa che sta per accadere, staccata da un minimo scarto portatore di morte. La poesia, scritta tutta di seguito, acquisterebbe il sapore di un appunto prosaico:

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Ma nella forma poetica, nella spezzatura dei versi e nella scansione isolata, intervallata da pause profonde, il testo si carica della precarietà e della relatività di quella vicenda esistenziale sospesa continuamente tra vita e morte. Il ritmo del componimento e la pronuncia interiore delle parole assumono un’importanza decisiva per quanto riguarda la capacità di cogliere il significato più complesso e profondo delle parole, nella ricchezza delle loro risonanze segrete.

Il culto della parola verrà mantenuto da Ungaretti anche ne Il sentimento del tempo, la sua seconda importante raccolta, dove però lo stile torna ad assumere forme classiche e non è più presente il tema della guerra.

Page 34: LA PAROLA

La lingua della pubblicità.

 

Uno dei tratti distintivi delle società moderne, dette società di massa, è l’utilizzo dei mass-media, ovvero dei mezzi di comunicazione di massa. A questi mezzi spetta la diffusione dell’informazione, di una cultura di massa, ma anche di modelli di vita standardizzati. Anche la lingua da essi usata si caratterizza per essere uno standard. Nell’Italia dei decenni passati, in particolare, i mass-media come la televisione hanno svolto un importante ruolo di alfabetizzazione, in un paese dove la lingua nazionale non era ancora parlata da tutti, divulgando un lessico, un sistema di significati e di comportamenti linguistici standardizzati.

Ogni medium ha poi sviluppato un suo particolare tipo di linguaggio. Vedremo ora in particolare la lingua della pubblicità, una lingua specialistica e universale al contempo. Essa è da decenni un importante oggetto di studio non solo di pubblicitari e psicologi interessati al comportamento dei possibili acquirenti, ma anche di linguisti, storici della lingua e semiologi.

Già dalle sue prime apparizioni sulla scena sociale ed economica, la pubblicità, che ancora in Italia si chiamava réclame, cominciò ad attingere ai più svariati ambiti della lingua trasformando di volta in volta il materiale linguistico a sua disposizione secondo la finalità primaria della persuasione.

Un messaggio pubblicitario può, infatti, essere raffinato, divertente, ammiccante, originale, ma ciò che ne determina il successo è la sua capacità di convincere, di farsi largo più o meno subdolamente nei pensieri e nella loro parte più inconscia del possibile consumatore.

Come dice Fabbri: «La pubblicità ha due scopi fondamentali: individuare il prodotto, il marchio, e riuscire a venderlo. Lo scopo della pubblicità non è la verità. Questa è una cosa molto importante. Spesso si dice: "è una pubblicità menzognera". Lo scopo non è la verità, è l’efficacia. La pubblicità è il potere della finzione. »

L'utente di TV e stampa viene continuamente bombardato da slogan, messaggi e consigli per gli acquisti. Tutti noi ci imbattiamo quotidianamente in immagini e slogan pubblicitari che catturano la nostra attenzione e ci rimangono in testa. Quando questo avviene, la parola pubblicitaria cessa di essere semplicemente parola e va a fondersi e confondersi con altri elementi visivi, iconici, sonori, paralinguistici, intertestuali per dare vita a ciò che Baldini definisce il messaggio pubblicitario in cui ogni particolare è studiato con la massima attenzione non, come ormai molti sostengono, per informare

Pubblicità della Vespa.

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o presentare un prodotto al pubblico, ma per creare un oggetto del desiderio attraverso un sapiente uso delle immagini, dei suoni e soprattutto delle parole, tanto da riuscire a far coincidere nell'immaginario collettivo l'idea di felicità o di successo con un certo aperitivo, make-up o deodorante che dir si voglia.

Analizziamo ora più da vicino le caratteristiche della parola pubblicitaria. Essa può derivare dalla lingua comune, dai linguaggi tecnico-specialistici, dalla lingua della letteratura, dal gergo dei giovani, dalle lingue straniere e, anche se in minor parte, dai dialetti italiani. A seconda del target a cui è rivolto o del contesto in cui appare un annuncio pubblicitario, il copywriter in questione tenterà di operare una scelta linguistica oculata in merito all'ideazione dello slogan, alla stesura della body-copy e all'eventuale creazione di nomi di prodotto.

In relazione al prodotto si cui si tratta, poi, può a volte essere semplice e chiaro, o avvalersi di terminologie specifiche se l’argomento esige spiegazioni tecniche ( pubblicità di prodotti energetici, di automobili e gli oggetti che devono essere illustrati nelle loro caratteristiche tecniche).

Molto spesso il linguaggio pubblicitario cerca di colpire per la sua originalità. Troviamo perciò parole nuove, inventate o meglio create con i meccanismi che la lingua possiede: la composizione (esempi sono lavasbianca, polpapronta, stirammira, passaparola) e la derivazione (esempi come viaggiabile, comodosa, fabulosa). Troviamo parole tronche, facili da memorizzare (bondì, pomì), frasi con rime, assonanze o consonanze (Rowenta, per chi non si accontenta, ecc… )

È molto usato il linguaggio figurato. Tra le figure retoriche vi sono:

l’iperbole, ovvero l’esagerazione del concetto che si vuole esprimere, talvolta usando impropriamente la suffissazione, come i superlativi dei nomi: “pomodorissimo”;

la metafora, con cui si trasferisce a un vocabolo il significato di un altro, attribuendogli un senso figurato: si tratta di una similitudine più breve ed efficace;

Ad esempio: “Cornetto Algida: un cuore di panna”

la metonimia, che sostituisce una parola a un’altra che ha con la prima una relazione, come ad esempio l’effetto per la causa, il concreto per l’astratto, il contenente per il contenuto, ecc..

“Sofficini findus: sempre più famiglie scelgono il sorriso”. Qui il concetto atratto di felicità è espresso tramite l’immagine concreta del sorriso.

Un tipo particolare di metonimia è la sineddoche, quando la sostituzione ne indica una parte per il tutto o il tutto per la parte;

la personificazione, che attribuisce azioni o qualità umane a cose;

Page 36: LA PAROLA

Ad esempio: “Barometro Giove. Vede in cielo, in terra e in ogni luogo”.

la litote, che afferma un concetto mediante negazione del suo contrario; l’allusione, che consiste nel dire una cosa per farne intendere un’altra; l’alliterazione e la paronomasia, figure di suono, che sfruttano l’effetto

fonico del ripetersi di vocali o consonanti in gruppi di parole.

Ad esempio: “L’eleganza si guarda, la sicurezza ti riguarda” (Audi).

La sinestesia, un particolare tipo di metafora che indica l’unione di due parole indicanti sensazioni diverse;

l’ossimoro, accostamento di parole di significato opposto.

“Multipla Fiat: singolare e plurale.” Qui sono accostati due termini contrari che a loro volta possono essere intesi come polisemie (“singolare” sta per “originale”…)

 

Un altro mezzo usato dalla pubblicità è, infatti, la polisemia, cioè l’effetto dei diversi significati che le parole possono assumere. Ad esempio, una campagna vendita di stelle di Natale per sostenere la ricerca AIL ha utilizzato come slogan la seguente frase: “Se credi che la leucemia sia un male inguaribile devi farci un favore. Piantarla.” Notiamo il doppio significato del verbo “piantare.

Anche l’ironia è un importante mezzo pubblicitario. In una analisi di semiotica strutturale su una pubblicità del whisky Black &White, in cui ai colori bianco-nero sono associati i valori di vita-morte, Bertrand fa notare che mettere in gioco in una pubblicità di whisky valori del genere o valori come cultura occidentale-cultura orientale potrebbe sembrare eccessivo se il tutto non venisse formulato in chiave ironica. «Tuttavia, » come riporta Grandi a proposito degli studi di Bertrand  « l’ironia, come fenomeno discorsivo, è in genere difficile da descrivere: sovrappone livelli semantici diversi; copre tutta la gamma, dalla cattiveria alla timida insinuazione; funziona come distanziazione dell’emozione e della credulità; asserisce l’opposto di quanto effettivamente enuncia; fuorvia cercando al tempo stesso di segnalare se stessa e di creare col destinatario una forma di complicità. » Questo discorso si può collegare alle influenze sul destinatario, argomento di cui si parlerà più avanti.

Nello sviluppo della pubblicità, dal Carosello ad oggi, per il pubblicitario non basta più informare e nemmeno enfatizzare, crogiolarsi in uno spreco di superlativi e termini come "nuovo", "il primo", "il mago di", "una rivoluzione nel campo di" (anche se la tecnica dell'iperbole non è stata di certo abbandonata dai copywriter). La novità di cui si sente fortemente il bisogno è sapersi adeguare al pubblico di oggi, più consapevole ed evoluto, che non si accontenta di essere semplicemente informato o stupito, ma vuole essere sedotto. A tal proposito la Altieri Biagi nella presentazione di una antologia dedicata a questo tema osserva:

Page 37: LA PAROLA

« i pubblicitari se ne rendono conto: rinunciano sempre di più all'enfasi, all'iperbole; introducono forme di understatement, di ironia, di straniamento; abbandonano la manipolazione linguistica vistosa (quella che deforma la parola, o instaura il neologismo, per esempio); affidano il messaggio a parole non marcate, magari sfruttandone la polisemia, o utilizzano figure retoriche raffinate, come la metafora, la metonimia, la sineddoche; alla filastrocca, allo slogan in rima, preferiscono soluzioni ritmiche meno vistose e più sofisticate, sottili suggestioni allitteranti. Insomma, i pubblicitari migliori puntano sempre di più sulla dignità artistica del prodotto e sul coinvolgimento estetico-emotivo dello spettatore che deve essere sedotto visivamente e acusticamente. »

Proprio come un film o un videoclip, la pubblicità è assurta – ormai secondo l'opinione di molti - al rango di opera d'arte ( un arte “della strada”, come dicevano i Futuristi), ne vengono valutate e giudicate le peculiarità artistico-spettacolari, viene trattata insomma a tutti gli effetti come oggetto culturale. Volendo fare un paragone che utilizzi termini tipicamente pubblicitari, si può dire che come qualsiasi articolo da cucina che si rispetti deve essere non solo altamente funzionale, ma anche piacevolmente ergonomico, così anche la parola pubblicitaria dovrà avere i requisiti fondamentali di efficacia e incisività, ma non potrà trascurare aspetti come la creatività e la ricerca di soluzioni linguistiche accattivanti e innovative.

 

Vediamo ora alcune idee riguardo al coinvolgimento del destinatario dello spot pubblicitario e del suo linguaggio. Possiamo innanzitutto citare le parole di Fabbri: « È da sottolineare che sia coloro che insistono sui pericoli sia coloro che enfatizzano le potenzialità dei nuovi media sembrano partire da un’assunzione condivisa: l’affermazione di McLuhan secondo la quale "il medium è il messaggio"; infatti entrambi i fronti sembrano convinti che l’uso di un certo linguaggio possa modificare il modo stesso in cui i soggetti che ricevono le informazioni vedono la realtà, e pertanto il modo stesso di essere dei soggetti, pur arrivando poi, a partire da questa premessa, a conclusioni radicalmente diverse. »

In secondo luogo, sempre il Fabbri dice che: « la pubblicità cerca di farci aderire a un sistema di valori. La pubblicità crea tre cose: un senso di potere, un senso di volere e un senso di dovere. La pubblicità mira a creare i desideri, desideri al di sopra delle nostre possibilità. La pubblicità quindi crea divari tra il desiderio e il potere, le possibilità. Questo può creare dei fenomeni gravissimi. »

Riguardo ai valori a cui la citazione faceva menzione, è riportato qui di seguito il quadro dei valori analizzati da Floch in un’analisi semiotica su varie campagne di pubblicità dell’automobile. Il quadro può però essere esteso anche ad altri prodotti. Da notare il contrasto che si viene a creare tra le prime due categorie di valori (utilitaristici ed esistenziali) e le ultime due (non-utilitaristici ed non-esistenziali):

Page 38: LA PAROLA

Valorizzazione pratica:

valori utilitaristici come

maneggevolezza

confort

affidabilità

 

Valorizzazione utopica:

valori esistenziali come

vita

identità

avventura

Valorizzazione critica:

valori non-esistenziali come

costo/vantaggi

qualità prezzo

Valorizzazione ludica:

valori non-utilitaristici come

gratuità

raffinatezza

 

Nella comunicazione massmediatica, inoltre, è assente un rapporto comunicativo diretto. Tutto si gioca al livello del testo pubblicitario. Chi crea una pubblicità, quindi, oltre a pensare al contenuto, pensa alle possibili interpretazioni di un destinatario con cui non ha un’interazione faccia a faccia. Costruisce allora nel messaggio anche un simulacro del destinatario, ovvero una immagine ipotetica di costui che su di questo abbia presa.

Tra gli elementi  che vengono postulati a proposito del ricevente effettivo nel corso della costruzione del messaggio ci sono, secondo Chabrol e Charaudeau, i seguenti: una certa identità sociale […]; una certa sensibilità a un certo immaginario realista o di fiction; una certa sensibilità ai comportamenti linguistici, ad esempio la modalità di presentazione discorsiva può essere narrativa, dimostrativa, umoristica ecc…; il destinatario può essere interpellato oppure volutamente cancellato per offrire un effetto di oggettività del messaggio ecc…

Come dice ancora Fabbri: « Sono due strategie [che la pubblicità usa]: una è raccontare delle storie esterne, obiettive, anche se fittizie; l’altra è quella di apostrofarvi direttamente. C'è un celeberrimo manifesto di propaganda di guerra che dice "I want you". Un signore vi guarda direttamente negli occhi. Questa è una delle strategie più efficaci: spesso la pubblicità odierna è una variante stilistica su questo modello. E' una pubblicità che ci interpella direttamente, che ci chiede di entrare nell’immagine. »

Inoltre, « il contratto enunciativo che si stabilisce nel caso del messaggio pubblicitario è tale per cui un soggetto comunicatore tende a incitare il soggetto destinatario a un determinato comportamento […], attraverso la

Page 39: LA PAROLA

messa in scena di un discorso di seduzione o di provocazione. L’immagine del destinatario costruita all’interno del messaggio è quella di un soggetto che soffre di una certa “mancanza” (ovviamente nel senso di Propp), e che è chiamato a divenire l’”eroe” di una “ricerca” di un certo “oggetto”, che sarà possibile ottenere grazie a un “aiutante” (magico) rappresentato dal prodotto.

Seduzione e provocazione sono le strategie che intervengono per persuadere il destinatario circa un suo presunto coinvolgimento in questa storia. In effetti, come sostengono Chabrol e Charaudeau ogni asserzione contenuta in un messaggio pubblicitario costituisce una risposta implicita a degli argomenti circolanti  nell’opinione pubblica a proposito di un certo prodotto: così il testo [pubblicitario] prevede un tipo di lettore modello dotato di una certa competenza, capace di rendersi conto di quali sono gli argomenti impliciti ai quali il messaggio risponde e di seguire le mosse argomentative che vengono sferrate in questo universo della comunicazione che si presenta come essenzialmente polemico. » (R. Grandi, I mass-media fra testo e contesto, Milano Lupetti Ed. 1994 pagg. 80-81 )

Riportiamo un’altra citazione del Fabbri: « Noi abbiamo, nello stesso tempo, comportamenti di tipo razionale e anche componenti fondamentali di tipo passionale, emotivo. Non riusciremo a liberarci né della passione, né della ragione. La ragione è una buonissima cosa, è utilissima e ci serve per andare avanti. Le emozioni sono altrettanto indispensabili. Se una persona non desidera veramente qualcosa, non mette neanche la ragione in gioco. L’altra componente è la credenza: se non credessimo alle cose che facciamo, la ragione non ci servirebbe. La credenza si trova tra la passione e la ragione. La pubblicità manipola la credenza, manipola nello stesso tempo le nostre ragioni e le nostre passioni. E' per questo che è difficile resistervi. »

Interessante è, infine, l’analisi sulla manipolazione svolta dal sociologo lituano Greimas, che ne individua tre tipi:

1. manipolazione secondo il volere, che si manifesta attraverso la persuasione e la seduzione;

2. manipolazione secondo il potere, tipico delle pubblicità sociale, che si manifesta nella provocazione e nella minaccia. Si costruisce un’immagine negativa in cui viene coinvolto il destinatario e lo si ricopre di colpevolezza, senza però negare la sua moralità;

3. manipolazione secondo il sapere, che si mostra tramite ragionamenti logici o dimostrazioni scientifiche.

In ultimo, il linguaggio pubblicitario, a causa delle sue caratteristiche di universalità e dell'abitudine dei parlanti a citarlo e spesso ad imitarlo, può condurre, come nota Grassi, "all'automatismo linguistico e, in sostanza, all'ozio intellettuale".

 

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La cifratura di Cesare e i crittoanalisti arabi.

Fin dai tempi antichi re, regine e generali hanno avuto bisogno di un sistema di comunicazione efficiente e sicuro, affinché informazioni importanti per lo stato o per la guerra non finissero in mano nemica. Proprio questo rischio promosse fin da subito la nascita di sistemi di codificazione dei messaggi che permettessero di rendere comprensibile il testo solo a chi possedesse la giusta chiave di lettura, ovvero al mittente ed al ricevente. Le scritture segrete si sono sviluppate nel tempo seguendo principalmente lo schema illustrato qui sotto:

Parallelamente allo sviluppo delle scritture segrete, però, sono sorti nel corso della storia anche tentativi di decifrazione dei messaggi crittati ed è nata una sfida continua tra crittografi e decrittatori a chi riuscisse a superare l’altro in bravura. Si accennerà ora solo alcuni esempi di crittografia e di decifrazione, senza arrivare fino ai giorni nostri, sia perché l’argomento è davvero vasto, si perché è sufficiente un accenno in questa sede.

Un tipo di scrittura segreta usata già al tempo dei Romani era la cifratura. In questo metodo di crittografia, ogni lettera mantiene la sua posizione nella parola, ma è sostituita da un altro simbolo. L’insieme dei simboli utilizzati è detto alfabeto cifrante. Il primo esempio documentato di impiego militare della cifratura per sostituzione è riportato nel De bello Gallico di Cesare: l’autore narra di aver mandato un messaggio a Cicerone che era sul punto di arrendersi. L’alfabeto cifrante utilizzato era composto di caratteri greci anziché latini. Cesare faceva largo uso della cifratura, tant’è che Valerio Probo poté scrivere un trattato solo sui suoi cifrari. È grazie a Svetonio, tuttavia, che conosciamo un altro metodo utilizzato molto da Cesare e per questo conosciuto come la cifratura di Cesare. Consisteva nel sostituire ogni lettera con la lettera spostata a destra di un tot di posti nell’alfabeto:

Alfabeto chiaro

A B C D E F G H I K L M N O P Q R S T V X Y Z

Alfabeto cifrante

D E F G H I K L M N O P Q R S T V X Y Z A B C

 

Page 41: LA PAROLA

Una frase come “Caesar in Galliam venit” diventa FDHXDV MQ KDOOMDP ZHQMY.

È chiaro che impiegando qualsiasi spostamento si ottengono un numero di alfabeti cifranti uguale al numero delle lettere dell’alfabeto meno il caso in cui alfabeto chiaro e alfabeto cifrante coincidono.

Se si ammette poi una riorganizzazione dell’alfabeto chiaro, gli alfabeti cifranti possibili diventano numerosissimi (con un alfabeto di 23 lettere sono 25 mila miliardi di miliardi).

Il procedimento crittografico necessita di due elementi importanti: un algoritmo, che definisce il metodo da utilizzare (ad esempio: che il posto di ogni lettera dell’alfabeto chiaro sia preso da una lettera dell’alfabeto cifrante) ed una chiave, che definisce l’alfabeto cifrante. La garanzia della segretezza sta nel fatto che, se anche il messaggio cade in mano ostile ed il nemico comprende l’algoritmo utilizzato, tuttavia egli non è in possesso della chiave che conoscono solo mittente e ricevente. La chiave poteva essere semplicemente una parola breve le cui lettere costituivano l’inizio dell’alfabeto cifrante a cui poi seguivano le lettere rimanenti in ordine alfabetico. Semplicità e affidabilità sono i pregi grazie ai quali la cifratura per sostituzione dominò la crittografia per tutto il primo millennio della nostra era. Gli inventori di scritture segrete non sentivano il bisogno di cambiare questo metodo. Tuttavia, nel vicino Oriente si andava preparando la controffensiva dei decrittatori.

La civiltà islamica, opulenta e pacifica, a partire dal 750 d.C. entrò nella sua età aurea sotto la dinastia Abbaside e conobbe lo sviluppo delle arti e delle scienze, come attestano le pitture e l’artigianato dell’epoca e le numerose parole arabe che sono entrate a far parte del lessico scientifico. Questo splendore fu dovuto al fatto che i califfi non badarono tanto ad ampliare i loro domini, ma cercarono piuttosto di rendere coesa e ben governata una società in rapido progresso. La crescita dei commerci, dell’economia e della sicurezza dei cittadini poggiava su un’amministrazione efficiente che dipendeva a sua volta sulla sicurezza delle comunicazioni garantita dalla crittografia. Per i funzionari arabi era routine crittare tutta la documentazione fiscale, tant’è che nei trattati di amministrazione una capitolo era sempre riservato alla crittografia. Ci si serviva di solito di un alfabeto cifrante ottenuto per semplice riorganizzazione dell’alfabeto chiaro. I funzionari arabi potevano a volte usare alfabeti contenenti simboli inconsueti. Gli arabi, tuttavia, resero ben presto obsolete queste tecniche crittografiche, proprio perché inventarono la crittoanalisi, la scienza dell’interpretazione di un messaggio di cui si ignora la chiave. I crittoanalisti arabi furono coloro che trovarono il punto debole della sostituzione monoalfabetica, un sistema che da secoli resisteva a ogni assalto. Questa scienza potò nascere solo quando la civiltà raggiunse una maturità sufficiente in discipline quali la matematica, la statistica e la linguistica. E la civiltà araba rappresentò il terreno ideale specie nel periodo Abbaside.

La nascita crittoanalisi fu possibile anche perché studi analoghi si teneva presso le scuole di teologia in cui i capitoli del Corano erano datati a seconda

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della frequenza di certe parole che erano considerate più o meno recenti. L’analisi dei crittoanalisti però non si fermava alle parole, ma giungeva alle lettere e ci si accorse che v’erano lettere che comparivano più frequentemente di altre. Nella lingua araba, le lettere a e l sono le più frequenti e compaiono, ad esempio, dieci volte più spesso della ğ. Questa fu la grande scoperta della crittoanalisi. La più antica descrizione del procedimenti crittoanalitico si deve allo studioso del IX Abū Yūsuf ibn Ishāp al-Kindī, soprannominato «il Filosofo degli arabi». In una sua opera troviamo scritto:

 

« Un modo di svelare un messaggio crittato, se conosciamo la lingua dell’originale, consiste nel trovare un diverso testo chiaro nella stessa lingua, abbastanza lungo da poter calcolare la frequenza di ciascuna lettera.

Chiamiamo «prima» quella che compare più spesso, «seconda» quella che segue per frequenza, «terza» la successiva, e così via, fino a esaurire tutte le lettere del campione chiaro.

Esaminiamo poi il testo in cifra che vogliamo interpretare, ordinando [in base alla frequenza] anche i suoi simboli. Troviamo il simbolo più comune, e rimpiazziamolo con la «prima» lettera dell’alfabeto chiaro; il simbolo che lo segue per frequenza sia rimpiazzato dalla «seconda» lettera, il successivo simbolo più comune sia rimpiazzato dalla «terza» lettera e così via, fino ad aver preso in considerazione tutti simboli del crittogramma che intendevamo svelare. »

 

Nella lingua italiana ad esempio le tre lettere più comune sono in ordine la e, la a e la i. Quindi, se in un crittogramma la lettera più ricorrente è la F, molto probabilmente essa indicherà la e, e così via. Il metodo di al-Kindī dimostra come sia possibile decifrare un crittogramma senza conoscerne la chiave. Tuttavia, non può essere sempre applicato meccanicamente, perché può capitare la volta in cui il messaggio originale che è stato crittato ripeta un numero elevato di volte una lettera di norma poco frequente nella lingua, come potrebbe essere la z in italiano. Questo può accadere soprattutto con messaggi brevi. Tuttavia, la scoperta dei crittoanalisti arabi fu sufficiente a rendere decifrabile una qualsiasi cifratura monoalfabetica.

Bisogna aspettare poi il XV per trovare una cifratura alternativa. L’inventore fu l’architetto Leon Battista Alberti che propose di utilizzare in modo alternato due alfabeti cifranti ma non riuscì a trasformare la sua geniale scoperta in una tecnica definita. Ci pensò il diplomatico francese Blaise de Vigenère. Egli costruì una tavola comprendente tutti le cifrature di Cesare possibili (la riga zero è l’alfabeto chiaro):

 

Page 43: LA PAROLA

0 a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z

1 B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A

2 C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B

3 D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C

4 E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D

5 F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E

6 G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F

7 H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G

8 I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G H

9 J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G H I

10 K L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G H I J

11 L M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G H I J K

12 M N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G H I J K L

13 N O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G H I J K L M

14 O P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G H I J K L M N

15 P Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G H I J K L M N O

16 Q R S T U V W X Y Z A B C D E F G H I J K L M N O P

17 R S T U V W X Y Z A B C D E F G H I J K L M N O P Q

18 S T U V W X Y Z A B C D E F G H I J K L M N O P Q R

19 T U V W X Y Z A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S

20 U V W X Y Z A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T

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21 V W X Y Z A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U

22 W X Y Z A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V

23 X Y Z A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W

24 Y Z A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X

25 Z A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y

26 A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z

 

Dopodiché, il procedimento è semplice: si prende come chiave una parola, ad esempio FIUME, e la si ripete tante volte sul messaggio da crittare (“chiamare rinforzi”):

 

F I U M E F I U M E F I U M E F

c h i a m a r e r i n f o r z i

 

Sulla tavola di Vigenère ogni numero definisce un alfabeto cifrante che inizia con una certa lettera. Ora, la prima lettera da crittare è una c e la corrispondente lettera della chiave è una F. Bisogna allora andare a guardare lungo la riga dell’alfabeto cifrante numero 5 che inizia con la F, quale lettera corrisponde alla c dell’alfabeto chiaro (riga zero):

 

0 a b c d e f g

1 B C D E F G H

2 C D E F G H I

3 D E F G H I J

4 E F G H I J K

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5 F G H I J K L

La lettera cercata è H.

Portando avanti il procedimento si ottiene il messaggio crittato: HPCMQFZYDMSNIDDN.

Ad emarginare anche questo sistema di crittografia sarà poi Charles Babbage il quale sfrutterà il punto debole del sistema di Vigenère: la ripetizione degli alfabeti cifranti entro un numero limitato di lettere può portare alla ripetizione di alcune stringhe.

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The Navajo Code.

A code is a type of cryptography in which every word is substituted by a symbol or another word.  An example is the Navajo Code, that was made of words from an unknown Indian dialect which the American Army used in the World War II to transmit information that the Japanese Army did not have to understand. The following article is about this special code:

Guadalcanal, Tarawa, Peleliu, Iwo Jima: the Navajo code talkers took part in every assault the U.S. Marines conducted in the Pacific from 1942 to 1945. They served in all six Marine divisions, Marine Raider battalions and Marine parachute units, transmitting messages by telephone and radio in their native language -- a code that the Japanese never broke.

The idea to use Navajo for secure communications came from Philip Johnston, the son of a missionary to the Navajos and one of the few non-Navajos who spoke their language fluently. Johnston, reared on the Navajo reservation, was a World War I veteran who knew of the military's search for a code that would withstand all attempts to decipher it. He also knew that Native American languages--notably Choctaw--had been used in World War I to encode messages.

Johnston believed Navajo answered the military requirement for an undecipherable code because Navajo is an unwritten language of extreme complexity. Its syntax and tonal qualities, not to mention dialects, make it unintelligible to anyone without extensive exposure and training. It has no alphabet or symbols, and is spoken only on the Navajo lands of the American Southwest. One estimate indicates that less than 30 non-Navajos, none of them Japanese, could understand the language at the outbreak of World War II.

Early in 1942, Johnston met with Major General Clayton B. Vogel, the commanding general of Amphibious Corps, Pacific Fleet, and his staff to convince them of the Navajo language's value as code. Johnston staged tests under simulated combat conditions, demonstrating that Navajos could encode, transmit, and decode a three-line English message in 20 seconds. Machines of the time required 30 minutes to perform the same job. Convinced, Vogel recommended to the Commandant of the Marine Corps that the Marines recruit 200 Navajos.

In May 1942, the first 29 Navajo recruits attended boot camp. Then, at Camp Pendleton, Oceanside, California, this first group created the Navajo code.

Navajo code talkers.

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They developed a dictionary and numerous words for military terms. The dictionary and all code words had to be memorized during training.

Once a Navajo code talker completed his training, he was sent to a Marine unit deployed in the Pacific theater. The code talkers' primary job was to talk, transmitting information on tactics and troop movements, orders and other vital battlefield communications over telephones and radios. They also acted as messengers, and performed general Marine duties.

Praise for their skill, speed and accuracy accrued throughout the war. At Iwo Jima, Major Howard Connor, 5th Marine Division signal officer, declared, "Were it not for the Navajos, the Marines would never have taken Iwo Jima." Connor had six Navajo code talkers working around the clock during the first two days of the battle. Those six sent and received over 800 messages, all without error.

The Japanese, who were skilled code breakers, remained baffled by the Navajo language. The Japanese chief of intelligence, Lieutenant General Seizo Arisue, said that while they were able to decipher the codes used by the U.S. Army and Army Air Corps, they never cracked the code used by the Marines. The Navajo code talkers even stymied a Navajo soldier taken prisoner at Bataan. (About 20 Navajos served in the U.S. Army in the Philippines.) The Navajo soldier, forced to listen to the jumbled words of talker transmissions, said to a code talker after the war, "I never figured out what you guys who got me into all that trouble were saying."

In 1942, there were about 50,000 Navajo tribe members. As of 1945, about 540 Navajos served as Marines. From 375 to 420 of those trained as code talkers; the rest served in other capacities.

Navajo remained potentially valuable as code even after the war. For that reason, the code talkers, whose skill and courage saved both American lives and military engagements, only recently earned recognition from the Government and the public.

 

The Navajo Code Talker's Dictionary

When a Navajo code talker received a message, what he heard was a string of seemingly unrelated Navajo words. The code talker first had to translate each Navajo word into its English equivalent. Then he used only the first letter of the English equivalent in spelling an English word. Thus, the Navajo words "wol-la-chee" (ant), "be-la-sana" (apple) and "tse-nill" (axe) all stood for the letter "a." One way to say the word "Navy" in Navajo code would be "tsah (needle) wol-la-chee (ant) ah-keh-di- glini (victor) tsah-ah-dzoh (yucca)."

Most letters had more than one Navajo word representing them. Not all words had to be spelled out letter by letter. The developers of the original code assigned Navajo words to represent about 450 frequently used military terms that did not exist in the Navajo language. Several examples: "besh- lo"

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(iron fish) meant "submarine," "dah-he- tih-hi" (hummingbird) meant "fighter plane" and "debeh-li-zine" (black street) meant "squad."

 

Department of Defense Honors Navajo Veterans

Long unrecognized because of the continued value of their language as a security classified code, the Navajo code talkers of World War II were honored for their contributions to defense on Sept. 17, 1992, at the Pentagon, Washington, D.C.

Thirty-five code talkers, all veterans of the U.S. Marine Corps, attended the dedication of the Navajo code talker exhibit. The exhibit includes a display of photographs, equipment and the original code, along with an explanation of how the code worked.

Dedication ceremonies included speeches by the then-Deputy Secretary of Defense Donald Atwood, U.S. Senator John McCain of Arizona and Navajo President Peterson Zah. The Navajo veterans and their families traveled to the ceremony from their homes on the Navajo Reservation, which includes parts of Arizona, New Mexico and Utah.

The Navajo code talker exhibit is a regular stop on the Pentagon tour.

 

Article from: http://www.history.navy.mil/faqs/faq61-2.htm

 

 

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Bibliografia e referenze fotografiche.

Bibliografia:

 

www.filosofico.net

G. Privitera R. Pretagostisti, Storie e forme della letteratura greca, 1997 Einaudi Scuola Milano

D. Del Corno, Antologia della letteratura greca, 1991 Principato Milano

G. Baldi, Dal testo alla storia dalla storia al testo, 1994 Paravia Torino

R. Luperini, La scrittura e l’interpretazione, 2004 Palumbo Ed. Firenze

R. Grandi, I mass-media fra testo e contesto, 1994 Lupetti Ed. Milano

A. Farina, Il testo, 2000 DeAgostini Ed. Novara

S. Singh, Codici & segreti, 1999 Ed. BUR Milano

http://www.history.navy.mil/faqs/faq61-2.htm

 

 

Referenze fotografiche:

 

www.ac-amiens.fr

www.loria.fr

didaskalia.open.ac.uk

www.philosophy.ox.ac.uk

www.1st-art-gallery.com

www.msjc.edu

www.motoclubvizzolo.it

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www.archives.gov