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CECILIA GIBELLINI LA GRAMMATICA DELLA FOLLIA. SVEVO, PASTI, BERTO, MARI, SAMONÀ, MANGANELLI
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La grammatica della follia. Svevo, Pasti, Berto, Mari, Samonà, Manganelli

Feb 03, 2023

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La salute non analizza se stessa e neppur si guar-da nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.(Italo Svevo, La coscienza di Zeno)

Confessione e bugia sono la stessa cosa. Per po-ter confessare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna.(Franz Kafka, Diari)

1. premessa

L’intento di questo saggio è di esaminare, senza pretese di esaustività ma scegliendo testi e casi significativi, in che modo, nella narrativa italiana del Novecento, il tema fortunato della nevrosi e della follia si traduca in termini stilistici. Ciò che qui interessa è individuare le strategie narrative, sintattiche, reto-riche e linguistiche, attraverso le quali gli autori hanno tentato

Capitolo IIl narratore bugiardo

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di mimare e riprodurre nella scrittura il disordine psichico dei tanti personaggi dalla mente malata che popolano la nostra let-teratura novecentesca.

I testi esaminati sono soprattutto romanzi, privilegiati perché nella narrazione di ampio respiro l’indagine stilistica si può allar-gare anche ai fatti strutturali e agli aspetti narratologici: quanto all’arco temporale, le opere si distribuiscono lungo buona parte del secolo (con una puntata anche nel terzo millennio), dal 1923 della Coscienza di Zeno di Italo Svevo1 al 1999 del romanzo di Michele Mari Rondini sul filo.

Nelle opere prese in esame, la gamma di disturbi mentali a cui la scrittura dà voce è assai ampia, dalla nevrosi dello Zeno sveviano (1923) o del narratore-protagonista del Male oscuro di Giuseppe Berto (1964), all’ossessione che cinge d’assedio la mente di personaggi come l’autobiografico «m.m.» di Rondini sul filo (1999), precipitandoli in un baratro sempre più fondo, alla malattia mentale vera e propria, il delirio di onnipotenza dei

1 La scelta del romanzo di Svevo come avvio per l’indagine è motivata dalla radicale novità introdotta dalla Coscienza di Zeno, che ha sancito l’ingresso della psicoanalisi nella letteratura italiana. Se infatti l’interesse per i disturbi del pen-siero esiste già nella letteratura ottocentesca e primo-novecentesca, esso risente ancora della visione settecentesca secondo cui la follia è provocata da un eccesso di passioni (la follia d’amore, strettamente intrecciata al tema dell’isteria): pen-siamo a romanzi collocabili tra la tarda Scapigliatura e il Decadentismo come Storia di una capinera (1870-71) di Giovanni Verga, Giovanni Episcopo (1891) e Forse che sì, forse che no di Gabriele d’Annunzio (1910). Su questi aspetti si veda il capitolo intitolato Folie d’amour e isteria: residui del diciannovesimo secolo nella narrativa del primo Novecento, nel volume di Vittorino Andreoli Il matto di carta. La follia nella letteratura, Milano, Rizzoli, 2008 (pp. 20-34); e gli Atti del seminario Nevrosi e follia nella letteratura moderna (Trento, maggio 1992), a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 1993. All’interno del volume va segnalato il saggio di Vittorio Coletti La sintassi della follia nella narrativa italiana del Novecento (pp. 267-279), che apre la sua analisi esaminando la scrittura del Giovanni Episcopo, registrandone le principali ‘infrazioni’ rispetto alla scrittura tradizionale («le mol-teplici domande di contatto […], le repliche […], le varie intrusioni dell’oralità») e «alla logicità metonimica della catena sintagmatica, per cui il tema muta conti-nuamente» (ibid., p. 270).

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personaggi manganelliani di Agli dèi ulteriori (1972) o quella, implacabile e senza nome, del «fratello malato» del romanzo Fratelli di Carmelo Samonà (1978).

Ad essere colpiti dal disturbo o dalla malattia mentale, dun-que, sono di volta in volta «matti di carta», per citare il titolo di un bel libro di Vittorino Andreoli,2 cioè personaggi, più o meno autobiografici (Zeno, i fratelli di Samonà, i protagonisti senza nome dei romanzi-fiume di Giorgio Manganelli); o viceversa gli autori stessi, che si espongono in prima persona, o si celano dietro maschere diafane, che lasciano intuire i loro connotati: come nel caso dei romanzi citati di Giuseppe Berto o di Michele Mari.

2. la CosCienza di zeno: la rottura del patto autobioGrafiCo

La coscienza di Zeno di Italo Svevo (1923) è un romanzo, che si presenta tuttavia come un’autobiografia: in una famosa lettera a Eugenio Montale, Svevo lo definisce «tutt’altra cosa» dai suoi romanzi precedenti, proprio in virtù del fatto che «è un’auto-biografia e non la mia».3 Proprio nella novità di far parlare in prima persona un personaggio, per di più «malato», consistono la difficoltà e la sfida dell’opera: «Sapevo la difficoltà di far par-lare il mio eroe direttamente al lettore in prima persona ma non la credevo insormontabile».4

L’autobiografia di un personaggio, dunque, il nevrotico Zeno Cosini, scritta su invito del suo psicoanalista, il Dottor S., come utile (anche se non ortodosso) «preludio alla psico-analisi». Il

2 v. andreoli, Il matto di carta. La follia nella letteratura, Milano, Rizzoli, 2008.3 Lettera a Eugenio Montale del 17 febbraio 1926, in i. svevo, Carteggio,

Milano, Dall’Oglio, 1965, p. 144.4 Ibid.

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Dottor S. si mostra convinto del potere terapeutico della scrittu-ra autobiografica, anche se, dovendo dare un nome allo scritto del suo recalcitrante paziente, egli si trova in evidente imba-razzo e oscilla tra diverse definizioni: nelle poche righe della Prefazione posta alle soglie del testo, il Dottore lo chiama, di volta in volta, «novella», «autobiografia» e «memorie». E, tutta-via, la terapia a cui sottopone Zeno fallisce: il paziente, «sul più bello», si è sottratto, lasciandogli un senso di dispetto e un acuto desiderio di vendetta. Non solo: la fase centrale della terapia psicoanalitica, «praticata assiduamente per sei mesi interi», pas-sa completamente sotto silenzio. Lo scritto di Zeno non incrocia mai l’analisi: la precede (quasi l’intero romanzo, dal Preambolo al capitolo settimo, Storia di un’associazione commerciale) o la segue (l’ultimo e ottavo capitolo, Psico-analisi), proclamandone rancorosamente il fallimento:

L’ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dot-tore, ma la mia risoluzione è irrevocabile. Ieri intanto gli mandai a dire che ero impedito, e per qualche giorno lascio che m’aspetti. Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz’adirarmi, sarei anche capace di riveder-lo. Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso (p. 391).5

Nel romanzo, non troviamo mai Zeno a colloquio col Dottore: quest’ultimo prende la parola all’inizio, nelle poche righe della Prefazione, per poi cederla a Zeno, che immediatamente, con la sua narrazione fluviale, travolge il lettore, risucchiandolo all’in-terno del proprio punto di vista soggettivo e manipolandolo attraverso un modo di raccontare che si mostra da subito estre-mamente tendenzioso. E tuttavia, pur relegata a quelle poche

5 Tutte le citazioni del romanzo sono tratte dall’edizione Garzanti con intro-duzione di Gabriella Contini e prefazione di Eduardo Saccone (Milano, 2010; prima ed. 1985).

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righe iniziali, la voce del Dottor S. ha un ruolo fondamentale: la Prefazione si chiude infatti, enfaticamente, con la constatazio-ne che nel suo manoscritto Zeno ha accumulato «tante verità e bugie» (p. 3). Mettendoci in guardia sulla sincerità dell’autore, egli condiziona tutta la nostra lettura del romanzo: il lettore è avvertito del fatto che si trova di fronte a un diario bugiardo, ed è implicitamente invitato a fare un lavoro analogo a quello del Dottore, di «lunga paziente analisi di queste memorie» (ibid.).6 Attraverso questo stratagemma, Svevo impegna da subito i suoi lettori a uno sforzo interpretativo molto intenso: si tratterà di leggere l’opera con il massimo grado di attenzione, verificando di volta in volta l’attendibilità di quanto Zeno racconta, cercan-do di smascherarlo, di individuare le sue menzogne, le reticen-ze, i modi della dissimulazione, le contraddizioni.

Non si tratta solo di un brillante stratagemma narrativo: si tratta anche di un’operazione di radicale rottura dei canoni di un genere, quello appunto dell’autobiografia. L’autobiografia – lo hanno ribadito i numerosi studi dedicati al genere a partire dallo storico volume di Philippe Lejeune7 – si fonda sul «patto autobiografico», che non è altro se non il patto finzionale, im-plicito in ogni narrazione,8 portato all’estremo: il lettore accetta di credere a ciò che il narratore scrive di sé, come a qualcosa di

6 Su questi aspetti, rimando al capitolo dedicato a Svevo da Mario Lavagetto nel volume La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Torino, Einaudi, 1992, pp. 181-199.

7 ph. lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 1975; ed. it. Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986.

8 «La regola fondamentale per affrontare un testo narrativo è che il lettore ac-cetti, tacitamente, un patto finzionale con l’autore, quello che Coleridge chiamava “la sospensione dell’incredulità”. Il lettore deve sapere che quella che gli viene raccontata è una storia immaginaria, senza per questo ritenere che l’autore dica una menzogna. Semplicemente, […] l’autore fa finta di fare una affermazione ve-ra. Noi accettiamo il patto finzionale e facciamo finta che quello che egli raccon-ta sia veramente avvenuto»: u. eCo, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994; il passo è tratto dal capitolo iv, I boschi possibili, p. 64.

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reale; per parte sua, il narratore si impegna alla sincerità, spesso dichiarandolo solennemente in apertura dell’opera. Michel de Montaigne apre i suoi Essais avvertendo i lettori:

Questo, lettore, è un libro sincero. […] Se lo avessi scritto per procac-ciarmi il favore della gente, mi sarei adornato meglio e mi presenterei con atteggiamento studiato. Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l’ha permesso il rispet-to pubblico. Ché se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo.9

Ancora più solenne il tono con cui Jean-Jacques Rousseau, aprendo le Confessioni, qualifica il suo intento di rappresentarsi «intus et in cute» come «un’impresa senza precedenti»: «Intendo mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della sua na-tura; e quest’uomo sarò io. Io solo». La sincerità dell’autore è tale che, al momento del «giudizio finale», egli si presenterà «al giudice supremo» con questo libro fra le mani, dichiarando fer-mamente: «Mi sono mostrato così come fui, spregevole e vile, quando lo sono stato, buono, generoso, sublime quando lo sono stato: ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l’hai visto».10

Al contrario, Svevo presenta il suo narratore come un bu-giardo, e lo fa in maniera eclatante, alle soglie del testo. Si trat-ta di un’innovazione destinata a fare scuola: nel 1941, Guido Piovene aprirà le sue Lettere di una novizia con una Prefazione in cui mette in guardia i lettori sulla «malafede» che accomuna tutti i personaggi del romanzo:

9 m. de montaiGne, Al lettore, in Saggi, a cura di F. Garavini, con un saggio di S. Solmi, Milano, Adelphi, 2005 (prima ed. 1966), p. 3.

10 j.-j. rousseau, Le Confessioni, Milano, Garzanti, 1988 (iv ed.), p. 14.

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I personaggi di questo romanzo, sebbene diversi tra loro, hanno un punto comune: tutti ripugnano dal conoscersi a fondo. Ognuno capi-sce se stesso solo quanto gli occorre; ognuno tiene i suoi pensieri so-spesi, fluidi, indecifrati, pronti a mutare secondo la sua convenienza, senza contraddizione né bugia né riforma; ognuno sembra pensare la propria anima non come sua essenzialmente, ma come un altro essere con cui convive, seguendo una regola di diplomazia, traendone di vol-ta in volta o voluttà, o medicina, o perdono.Se noi, più esatti o meno pietosi di lui, vogliamo dare a questo com-portamento il nome che gli compete, siamo forse costretti a definirlo malafede. La malafede è un’arte di non conoscersi, o meglio di regola-re la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza.11

Nella polifonia del romanzo epistolare il lettore troverà così tanti personaggi che parlano, ciascuno proponendo la propria verità, che non sarà mai quella degli altri. In questo modo, viene a mancare ogni criterio di certezza e di realtà; ogni punto di vista è, al tempo stesso, vero e ingannevole; e, come ha scritto Giorgio Bàrberi Squarotti, «è impossibile una scelta fra tutti che consenta di rassicurare la coscienza del lettore».12 A quest’ulti-mo non resterà che continuare a rivedere e modificare, lettera dopo lettera, la sua ricostruzione della verità, mano a mano che le menzogne e le reticenze di Rita e degli altri corrispondenti vengono prima poste – e credute – e poi svelate e smentite: una verità sempre in fieri, che sfugge e si sottrae fino all’ultima pagi-na del romanzo (e, di fatto, anche oltre).13

Quando nel 1964 Giuseppe Berto pubblica Il male oscu-ro, romanzo in cui Svevo è esplicitamente indicato, accanto al

11 G. piovene, Lettere di una novizia, a cura di E. Pellegrini, Milano, Bompia-ni, 1994, p. 3.

12 L’intervento si legge nel volume Guido Piovene, a cura di S. Rosso Mazzin-ghi, Vicenza, Neri Pozza, 1980.

13 Per l’analisi del romanzo, rimando al capitolo dedicatogli da Silvia Longhi nella seconda sezione del volume: Piovene. Inganni e autoinganni, pp. 121-137.

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Gadda della Cognizione, come precedente e modello, l’idea del carattere menzognero dell’autobiografia sembra essere radicata a tal punto che l’autore fa precedere al testo un avvertimento dal tono paradossale:

Da quando Flaubert ha detto “Madame Bovary sono io” ognuno ca-pisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più o meno scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il nar-cisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e persone.14

La “sincerità” sarebbe dunque da ricercarsi piuttosto nelle narrazioni romanzesche (che nascono sempre da un fondo auto-biografico) che non in quelle dichiaratamente autobiografiche, in cui invece la verità è stravolta da malizia, narcisismo e gusto della deformazione.

Ma torniamo alla pseudo-autobiografia di Svevo. Se nelle memorie di Zeno si trovano affastellate insieme verità e bugie, il lettore non dovrà affatto “sospendere l’incredulità”, bensì te-nerla viva, ed esaminare il testo con lo stesso atteggiamento del Dottore: cercando di capire, di volta in volta, se ciò che raccon-ta Zeno è vero o falso. Specularmente, il difficile compito del narratore sarà quello di minare continuamente la credulità del lettore, che, «una volta innescata, non conosce remore ed è so-stenuta da un incontenibile appetito referenziale»,15 inserendo nei discorsi di Zeno dichiarazioni menzognere, contraddizioni, lapsus.

È ciò che fa Svevo, dando vita a quello che Mario Lavagetto chiama efficacemente «un piccolo miracolo di ingegneria

14 G. berto, Il male oscuro, prefazione di C.E. Gadda, Milano, Rizzoli, 2009 (prima ed. 1964), p. 2.

15 lavaGetto, La cicatrice di Montaigne, cit., p. 189.

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narrativa».16 Vediamo di individuarne alcuni meccanismi fon-damentali.

3. resistenza

Le parole del Dottor S. trovano conferma immediatamente, non appena egli cede la parola a Zeno, che fin dalle prime righe del Preambolo si mostra, nei confronti dell’analista, disobbe-diente, riottoso, ostinato e compiaciuto di esserlo. A esser mes-so in scena è il canonico meccanismo freudiano della resistenza, quella su cui il Dottore ci ha messo in guardia nell’attacco della Prefazione: «Io sono il dottore di cui in questa novella si parla tal-volta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica» (p. 3).

Il Preambolo (pp. 3-5) si apre infatti con un primo tentativo di attivazione del ricordo, che tuttavia fallisce. Si tratta di un fallimento programmatico, dal momento che subito Zeno di-sobbedisce al Dottore, che gli ha raccomandato di non ostinarsi a rievocare gli anni lontani dell’infanzia e di accontentarsi di scrivere le «cose recenti», tra cui i sogni e le immaginazioni della notte prima, particolarmente preziosi. Zeno invece decreta che «un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci», ostinandosi ad andare indietro di «più di dieci lustri», pur nella consapevolezza di es-sere intralciato da «ostacoli d’ogni genere».

Sono messi in scena diversi meccanismi di resistenza: il gior-no prima il tentativo di raggiungere il «massimo abbandono» si è risolto in un sonno profondo; l’indomani, Zeno tenta un maggiore controllo attraverso la scrittura: la matita è vista come un possibile timone, strumento per imbrigliare i pensieri, ma la mente si ribella, gira a vuoto. Svevo qui affronta la sfida di de-

16 Ibid., pp. 184-185; e il paragrafo intitolato L’incredulità ricostruita, alle pp. 187-193.

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scrivere la situazione paradossale di un pensiero che non pensa a niente, latita, si avvolge su se stesso:

Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isola-to da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa… ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manife-starsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato (p. 4).

Già da queste poche righe emergono gli aspetti principali dello stile di Zeno, che mima la libertà di un discorso orale. Il racconto di Zeno, infatti, pur condensandosi intorno ai grandi blocchi tematici che costituiscono i capitoli centrali del roman-zo (Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale), ri-produce la libertà della seduta psicoanalitica: il discorso subisce frequenti accelerazioni, rallentamenti, si apre continuamente a digressioni, fa largo uso di anticipazioni e flash-back, spesso tende allo sproloquio. È una scrittura che si avvicina all’oralità, come confermano il largo uso della deissi e la diffusione del presente, che condiziona e altera il ricordo del passato.

La resistenza si manifesta anche attraverso atteggiamenti di ostilità, spesso camuffati dietro una maschera di accondiscen-denza. Zeno infatti rivela da subito la mancanza di fiducia e l’at-teggiamento di superiorità che prova nei confronti del Dottore e della stessa psicoanalisi:

per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso (p. 4).

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Zeno è sprezzante: non solo disobbedisce al Dottore, ma lo vuole battere, e farlo con i suoi stessi strumenti.

4. retiCenza

Mentitore sistematico e compulsivo, Zeno utilizza la men-zogna in tutte le sue gradazioni, dall’omissione della verità alla costruzione di racconti falsi.

Quanto all’omissione della verità, Zeno la utilizza costante-mente: la reticenza è il tratto distintivo del suo modo di comuni-care, come confermano moltissimi luoghi del romanzo. Si pos-sono indicare, a titolo d’esempio, due passi in cui Zeno si trova a interagire con altri dottori, repliche e proiezioni del Dottor S. e dunque, si direbbe, oggetto privilegiato del suo disprezzo.

Con il medico a cui Zeno racconta di essersi rivolto per libe-rarsi dal fumo attraverso le applicazioni elettriche (nel capitolo Il fumo), egli è dapprima reticente – aspetta infatti che sia il dottore ad accorgersi che è la nicotina «il veleno che inquinava il mio sangue» (p. 12); quindi manifesta il suo senso di supe-riorità («Quando compresi che da sé egli non sarebbe mai più arrivato a scoprire la nicotina nel mio sangue, volli aiutarlo ed espressi il dubbio che la mia indisposizione fosse da attribuire a quella», ibid.); infine è sarcastico: « – L’elettricità guarisce qual-siasi insonnia, – sentenziò l’Esculapio, gli occhi sempre rivolti al quadrante anziché al paziente» (p. 13).

Anche per il dottor Coprosich, il medico chiamato ad assi-stere il padre morente (nel capitolo La morte di mio padre), fin da principio Zeno prova una «viva antipatia» e «avversione» (p. 43). Di nuovo, il dialogo tra i due è compromesso dalla reticen-za di Zeno («Non gli riferii i discorsi strani di mio padre: forse temevo di essere costretto di dire qualche cosa delle risposte che allora io a mio padre avevo dato», p. 44), stavolta mossa dal timore meschino e narcisistico di rivelare le proprie mancanze.

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Il capitolo in cui l’uso della reticenza è più evidente è La moglie e l’amante, nel quale questa è finalizzata per lo più a giu-stificare la propria condotta e a far tacere i sensi di colpa. Mi limito a indicare un passo significativo, collocato all’inizio della vicenda, quando, al primo manifestarsi del senso di colpa con la moglie Augusta dopo il primo abbraccio con Carla, Zeno sem-bra prendere la decisione di troncare sul nascere la relazione adulterina: «Mentre distrattamente fingevo di mangiare, cercai il sollievo in un proposito ferreo: “Non la rivedrò più – pensai – e se, per riguardo, la dovrò rivedere, sarà per l’ultima volta”» (p. 185). È il sistema dei ferrei propositi puntualmente disattesi che il lettore conosce già, per averlo trovato ampiamente descritto nel racconto delle «ultime sigarette» nel capitolo sul fumo:

Mi alzai sempre accompagnato dai migliori propositi. Corsi al mio studio e preparai in una busta qualche poco di denaro che volevo offrire a Carla nello stesso istante in cui le avrei annunziato il mio ab-bandono. […] A me pareva fosse male lasciar trascorrere del tempo fra il mio buon proposito e la sua esecuzione (p. 187).

Ma ecco che un fatto accessorio, l’impazienza descritta nell’ultima frase, assume un’importanza sempre maggiore, tan-to da offuscare il proposito che l’aveva generato: quando dopo qualche ora Zeno rimane finalmente solo con Carla, tace del tut-to le ragioni della sua visita, e dopo averla abbracciata e baciata con foga le dà questa spiegazione:

Dovetti spiegarmi e per far presto non mi presi il tempo necessario per inventare e raccontai l’esatta verità. Le dissi della mia impazienza di vederla e di baciarla. Io m’ero proposto di venir da lei di buon’ora; in questo proposito avevo persino passata la notte. Naturalmente non seppi dire che cosa mi prefiggessi di fare venendo da lei, ma ciò era poco d’importante. Era vero che la stessa dolorosa impazienza l’avevo sentita quando avevo voluto andare da lei per dirle che volevo ab-

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bandonarla per sempre e quand’ero accorso per prenderla fra le mie braccia (pp. 193-194).

La reticenza, stavolta, si piega ad assecondare l’astuta sosti-tuzione che Zeno fa tra un fatto sostanziale – la decisione di abbandonare l’amante – e un’impressione accidentale – la sen-sazione che la cosa vada fatta al più presto: l’«esatta verità» che Zeno dichiara di raccontare non è altro che un aspetto parziale della verità, «l’impazienza»; il «proposito ferreo» dell’abbando-no si conferma così per ciò che del resto già in partenza Zeno aveva ammesso, uno stratagemma per dare un temporaneo, fit-tizio «sollievo» alla sua coscienza.

Un uso particolarmente sottile della reticenza è quello segna-lato da Mario Lavagetto a proposito del personaggio di Guido Speier. La sincerità di Zeno sulla figura dell’amico/rivale che tanto peso ha nel romanzo viene già minata nel passaggio in cui egli, rievocando i suoi difetti e le sue qualità, puntualizza: «ora che lo conosco meglio, so…». Non ci sarebbe nulla di strano, se Guido non si fosse già suicidato: un lapsus che attiva nel lettore attento e “incredulo” una serie di sospetti:

Se Guido non è morto, tutto può essere inventato. Forse Ada non ha mai avuto il morbo di Basedow; forse Zeno non l’ha mai chiesta in sposa; forse non è mai esistita; forse non sono mai esistite le sorelle Malfenti; forse Zeno non è mai stato sposato […]. Una storia vera si è così trasformata in una storia falsa.17

Il sospetto che tutto sia un’invenzione sembra confermato dal passo finale in cui il Dottor S. cerca di smascherare Zeno: Guido Speier è il nome di un deposito di legnami vicino al luo-go delle loro sedute:

17 lavaGetto, Confessarsi è mentire, in La cicatrice di Montaigne, cit., pp. 191-192.

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Pare che il dottore a proposito di Guido, abbia fatte anche delle inda-gini. […] Scoperse che un grandioso deposito di legnami, vicinissimo alla casa dove noi pratichiamo la psico-analisi, era appartenuto alla ditta Guido Speier & C. Perché non ne avevo io parlato? (p. 402)

Perché Zeno non ne ha parlato? si tratta di un particolare trascurato per distrazione? o non è invece possibile che Zeno abbia inventato tutto?

La replica di Zeno spiazza completamente il lettore: anziché rispondere direttamente all’obiezione del Dottore, egli si perde in un tergiversare tale da condurci a una totale incertezza sul limite tra verità e bugia in ciò che ha scritto:

Se ne avessi parlato sarebbe stata una nuova difficoltà nella mia espo-sizione già tanto difficile. Quest’eliminazione non è che la prova che una confessione fatta da me in italiano non poteva essere né completa né sincera. In un deposito di legnami ci sono varietà enormi di qualità che noi a Trieste appelliamo con termini barbari presi dal dialetto, dal croato, dal tedesco e qualche volta persino dal francese (zapin p. e. non equivale mica a sapin). Chi m’avrebbe fornito il vero vocabolario? Vecchio come sono avrei dovuto prendere un impiego da un commer-ciante in legnami toscano? Del resto il deposito legnami della ditta Guido Speier & C. non diede che delle perdite (pp. 402-403).

«Fragili, inconsistenti pretesti che si perdono in una specie di vaniloquio»:18 anche quando, subito dopo, Zeno sembra ribadire la “verità” della figura di Guido, chiamando in causa dei testi-moni, le sue parole perdono subito consistenza, scivolando im-mediatamente nelle sarcastiche considerazioni sull’«odio» che il Dottore prova per lui:

18 Ibid., p. 193.

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Io proposi al dottore di prendere delle informazioni su Guido da mia moglie, da Carmen oppure da Luciano ch’è un grande commerciante noto a tutti. A mio sapere egli non s’indirizzò a nessuno di costoro e devo credere che se ne astenne per la paura di veder precipitare per quelle informazioni tutto il suo edificio di accuse e di sospetti. Chissà perché si sia preso di tale odio per me? (p. 403).

5. buGie

L’inclinazione di Zeno a mentire non si traduce solo nella re-ticenza, ma anche nella sistematica costruzione di racconti falsi. Si tratta di un comportamento talmente frequente da essere, per lui, qualcosa di connaturato, automatico: il romanzo è costellato di ammissioni come quella che apre la citazione appena esami-nata, «per far presto non mi presi il tempo necessario per in-ventare», o come l’analoga, tratta dal capitolo La storia del mio matrimonio: «fui sincero perché non ebbi il tempo necessario di confezionare una bugia» (p. 65). Spesso, dunque, quando Zeno dice la verità lo fa solo per fretta, contro il suo uso abituale di mentire.

Per questo bugiardo sistematico le ragioni per mentire sono le più varie e articolate. Spesso si tratta del tentativo di com-piacere il prossimo: per esempio Ada, la maggiore delle sorelle Malfenti, la prima che Zeno decide di corteggiare; adottando però una strategia fallimentare, quella di parlare sempre con l’intento di stupirla o farla ridere:

Partii così alla conquista di Ada e continuai sempre nello sforzo di far-la ridere di me e alle spalle mie dimenticando ch’io l’avevo prescelta per la sua serietà. Io sono un po’ bizzarro, ma a lei dovetti apparire veramente squilibrato. […] Se avessi saputo tacere a tempo forse le cose sarebbero andate altrimenti (p. 70).

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Ancora più importante l’ammissione delle bugie inventate per compiacere l’analista, nel capitolo finale del romanzo:

È così che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiun-si. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna. Le mie erano invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive (p. 393).

[Il Dottore] Tentava di nuovo i sogni, ma di autentici non ne ebbimo più alcuno. Seccato di tanta attesa, finii coll’inventarne uno (p. 399).

per far piacere al dottor S. inventavo nuovi particolari della mia infan-zia che dovevano confermare la diagnosi di Sofocle (p. 404).

Lungi dal vergognarsi dei propri racconti bugiardi, Zeno se ne compiace. Egli ha un rapporto strano con la parola, che ten-de a sganciare dalla realtà:

io, che come aprivo la bocca svisavo cose o persone perché altrimenti mi sarebbe sembrato inutile di parlare. Senz’essere un oratore, avevo la malattia della parola. La parola doveva essere un avvenimento a sé per me e perciò non poteva essere imprigionata da nessun altro avve-nimento (p. 71).

È con orgoglio che, rievocando il periodo del fidanzamento con Augusta, in cui si era trovato a dover fingere una passione che in realtà non sentiva, Zeno ricorda di aver ingannato con le sue parole tutti, non solo la futura sposa, ma anche il suocero, «Giovanni il furbo»:

Augusta ricorda specialmente le affettuose parole che le mormoravo a quel tavolo. Fra boccone e boccone devo averne inventate di ma-

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il narratore buGiardo 207

gnifiche e resto stupito, quando mi vengono ricordate, perché non mi sembrerebbero mie (p. 147).

La forza delle sue bugie è tale che queste sembrano prendere una vita propria, tanto da alterare la sua visione della realtà. In qualche caso Zeno si trova ad ammettere di non saper più distinguere, nei suoi stessi racconti, tra ciò che è vero e ciò che è falso:

Eppure in gran parte quelle storielle [i racconti del suo passato che egli va facendo alle sorelle Malfenti] erano vere. Non so più dire in quanta parte perché avendole raccontate a tante altre donne prima che alle figlie del Malfenti, esse, senza ch’io lo volessi, si alterarono per divenire più espressive. Erano vere dal momento che io non avrei più saputo raccontarle altrimenti (p. 79).

La sottile descrizione psicologica di un mentitore compulsi-vo si intreccia così alla riflessione metaletteraria sulla creazione e sull’invenzione narrativa. È infatti in questo genere di afferma-zioni che è più facile intuire, sotto la maschera di Zeno, i conno-tati di Svevo, dello scrittore orgoglioso della propria capacità di inventare storie espressive e solide come «cose vive». In più luo-ghi Zeno paragona se stesso a un poeta («Nessun poeta avrebbe potuto improvvisare a rime obbligate meglio di me», p. 104) o a un attore («dissi io fingendo spavento da quel grande attore che in me è andato perduto», p. 105).

Nelle ultime pagine del romanzo, l’apologia del proprio dia-rio bugiardo si trasforma in una riflessione metalinguistica: in uno dei passaggi finali di polemica nei confronti del Dottore, Zeno giustifica il carattere menzognero della sua autobiografia con un fatto di natura linguistica:

Egli [il Dottor S.] non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo

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scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo della nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto (p. 393).

Il tentativo di giustificare le reticenze e le mistificazioni del proprio racconto si sovrappone così alla problematica riflessio-ne sulla lingua di un autore cresciuto in una città austriaca fino al 1918 e «più d’ogni altra votata al poliglottismo»:19 uno scrit-tore che fin dagli anni giovanili aveva desiderato di soggiornare a Firenze per imparare l’italiano «dalle vive fonti», e che invece era stato dalle circostanze della vita «condannato al dialettac-cio»; ma che tuttavia individuava come unico efficace strumento espressivo «la sua lingua viva», e cioè «la loquela triestina».20

6. Contraddizioni e fiGure dell’antitesi

Un continuo movimento di dire e disdire percorre il roman-zo, svelando gli aspetti più contradditori e ambivalenti della personalità di Zeno, anche nei loro risvolti meschini e malevoli.

Impressionante a questo proposito è il quadro che emerge dal capitolo La morte di mio padre, continuamente percorso da

19 a. CavaGlion, Italo Svevo, Milano, Bruno Mondadori, 2000. Ma su questi aspetti si veda tutta la voce Dialetto, ibid., alle pp. 55-59.

20 Così nel Profilo autobiografico: «Non si può raccontare efficacemente che in una lingua viva e la sua lingua viva non poteva esser altra che la loquela triesti-na, la quale non ebbe bisogno di attendere il 1918 per essere sentita italiana». i. svevo, Tutte le opere, edizione diretta da M. Lavagetto, vol. ii, Racconti e scritti autobiografici, ed. critica con apparato genetico e commento di C. Bertoni, saggio introduttivo e cronologia di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2004.

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un’oscillazione tra le dichiarazioni di affetto e altruistico trasporto nei confronti del genitore da un lato e, dall’altro, le ammissioni da cui emerge l’insopprimibile narcisismo di fondo del narratore.

Il lettore, ormai abituato a dubitare delle dichiarazioni di Zeno, specie quando formulate in tono solenne, inizia a leggere il resoconto dell’evento da subito presentato come «una vera, grande catastrofe» (p. 29), affermazione seguita da una puntua-lizzazione un po’ sospetta: «Il mio dolore non era solo egoistico come potrebbe sembrare da queste parole. Tutt’altro! Io pian-gevo lui e me, e me solo perché era morto lui».

Excusatio non petita, accusatio manifesta: il racconto dell’ago-nia e della morte del padre, che occupa le pagine successive, in realtà non fa che smentire questa dichiarazione di amore filiale. Zeno non fa che contraddirsi: prima ammette di non aver mai cercato la vicinanza del padre mentre questi era in vita, «Fino alla sua morte io non vissi per mio padre. Non feci alcuno sforzo per avvicinarmi a lui e, quando si poté farlo senz’offenderlo, lo evitai» (p. 29).

Ma più avanti, nell’esplosione emotiva generata dall’agonia del padre, dice esattamente il contrario: «Su quel sofà piansi le mie più cocenti lacrime. Il pianto offusca le proprie colpe e per-mette di accusare, senz’obbiezioni, il destino. Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto» (p. 43).

Al di là delle dichiarazioni sparse qua e là, ad emergere pre-potentemente è l’egoismo della voce narrante: il rimorso e il dolore per le proprie mancanze nei confronti del padre conta-no solo in quanto ulteriori cause di malattia per Zeno («Magari l’avessi assistito meglio e pianto meno! Sarei stato meno mala-to»; «Piansi molto, ma piuttosto su me stesso che sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera», p. 54), che non cessa mai di pensare a sé, come rivela l’abbondanza dei pronomi e dei possessivi di prima persona:

Continuamente vedevo dinanzi a me la sicura imminente morte di

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mio padre e mi domandavo: «Che cosa farò io ora a questo mondo?» (p. 42)

Non so […] se tanta ira puerile fosse rivolta al dottore e non piuttosto a me stesso. Prima di tutto a me stesso, a me che avevo voluto morto mio padre e che non avevo osato dirlo. Il mio silenzio convertiva quel mio desiderio ispirato dal più puro affetto filiale, in un vero delitto che mi pesava orrendamente (p. 49).

Un procedimento analogo si ripete anche nella descrizione del rapporto con Giovanni Malfenti, uomo ammirato e frequen-tato per la sua «forza», che conta solo in ciò che si riflette su Zeno e sulla sua percezione di sé. Si noti, di nuovo, la frequenza dei possessivi e dei pronomi di prima persona:

Alla sua tomba come a tutte quelle su cui piansi, il mio dolore fu dedica-to anche a quella parte di me stesso che vi era sepolta. Quale diminuzio-ne per me venir privato di quel mio secondo padre, ordinario, ignorante, feroce lottatore che dava risalto alla mia debolezza, la mia cultura, la mia timidezza. Questa è la verità: io sono un timido! Non l’avrei scoper-to se non avessi qui studiato Giovanni. Chissà come mi sarei conosciuto meglio se egli avesse continuato a starmi accanto! (p. 64)

È dunque il narcisismo di Zeno la lente che deforma tutte le sue percezioni, le sue riflessioni, i giudizi che egli esprime sugli altri, che non sono mai univoci né coerenti dal momento che rispecchiano sempre e soltanto i suoi umori e i suoi tor-tuosi percorsi mentali. Così, nel capitolo La moglie e l’amante, quel Guido Copler che per Zeno rappresenta un tramite per avviare la relazione extraconiugale, ma anche un elemento di disturbo nonché potenziale rivale, nel giro di qualche riga passa dall’essere qualificato come «quel noioso Copler» al «povero mio amico», non appena una provvidenziale malattia interviene a toglierlo d’impiccio (p. 181).

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L’ambivalenza è il tratto distintivo di Zeno:21 per questo il suo stile è caratterizzato, a tutti i livelli, dalla frequenza delle figure dell’antitesi: si pensi alle locuzioni contradditorie come quelle negli esempi segnalati sopra, all’uso quasi ossessivo dell’ossimo-ro, cui si accennerà poco oltre, o alla ricchezza di connettivi e congiunzioni avversative, soprattutto il ma, che costellano la scrittura del personaggio seguendone e segnalandone le tortuo-sità. Si legga, per esempio, qualche stralcio dal racconto dell’av-vio della storia con Carla (pp. 172-175):

Cantò «La mia bandiera». Dal mio soffice sofà io seguivo il suo canto. Avevo un ardente desiderio di poterla ammirare. Come sarebbe stato bello di vederla rivestita di genialità! Ma invece ebbi la sorpresa di sentire che la sua voce, quando cantava, perdeva ogni musicalità. […] Ricordai di trovarmi dinanzi ad una scolara e analizzai se il volume di voce fosse bastevole. Abbondante anzi! […]Io dissi con grande sincerità che mi riservavo di riudire la signorina di là a qualche mese e che allora mi sarei pronunciato sul valore della sua scuola. Meno sinceramente aggiunsi che certamente quella voce meritava una scuola di primo ordine. Poi, per attenuare quanto di sgradevole ci poteva essere stato nelle mie prime parole, filosofai sulla necessità per una voce eccelsa, di trovare una scuola eccelsa. Questo superlativo coperse tutto. Ma poi, restato solo, fui meravigliato di aver sentito la necessità di essere sincero con Carla. Che già l’avessi amata? Ma se non l’avevo ancora ben vista![…] Il curioso si è che sentii il bisogno di raccontare tale visita ad Augusta. Si potrebbe forse credere che sia stato per prudenza, visto che il Copler ne sapeva e che io non mi sentivo di pregarlo di tacere. Ma però ne parlai troppo volentieri.[…] Non potevo mettere a pericolo la pace della mia famigliuola;

21 Anche Vittorino Andreoli, stilando la «cartella clinica» di Zeno, affetto da «nevrosi isterica», indica nella «profonda ambivalenza» il suo tratto caratterizzan-te: Il matto di carta, cit., pp. 40-41.

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ossia: non la misi a pericolo finché il mio desiderio di Carla non in-grandì.Ma esso ingrandì costantemente. […]Perché il mio desiderio avrebbe dovuto darmi un rimorso quando pareva fosse proprio venuto a tempo per salvarmi dal tedio che in quell’epoca mi minacciava? Non danneggiava affatto i miei rapporti con Augusta, anzi tutt’altro. Io le dicevo oramai non più soltanto le parole di affetto che avevo sempre avute per lei, ma anche quelle che nel mio animo andavano formandosi per l’altra. Non c’era mai stata una simile abbondanza di dolcezza in casa mia e Augusta ne pareva incantata. Ero sempre esatto in quello che io chiamavo l’orario della famiglia. La mia coscienza è tanto delicata che, con le mie maniere, già allora mi preparavo ad attenuare il mio futuro rimorso.

I tortuosi percorsi mentali con cui Zeno descrive i suoi sen-timenti ambivalenti nei confronti della futura amante si conclu-dono qui con l’abile manovra con cui egli previene il «rimorso» per un peccato non ancora commesso convincendosi che que-sto, lungi dal minacciare la relazione con la moglie, sia invece in grado di portarle beneficio: vera opera di pioveniana «diploma-zia» o «malafede» intesa come «arte di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza», ignorando il principio «loïco» secondo cui «assolver non si può chi non si pente, / né pentere e volere insieme puossi / per la contradizion che nol consente».

7. le formule dell’autoironia

Ironia e autoironia sono tratti distintivi della scrittura di Zeno, e si esprimono in modalità espressive e scelte formali ricorrenti. Queste si registrano con evidenza già nelle prime pagine del ro-manzo, nel capitolo Il fumo: Zeno evoca i primi ricordi legati al fumo – i pacchetti delle prime sigarette da lui fumate intorno al

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1870, il furto degli spiccioli dal panciotto del padre per comprar-le – e li fa seguire da un’affermazione ottimistica e autoironica, che introduce il motivo centrale dell’«ultima sigaretta»: «Ecco che ho registrata l’origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un’ultima siga-retta e forse la getterò via subito, disgustato» (p. 6).

L’avverbio chissà, così come gli iterati forse che lo rafforzano, è molto frequente nel capitolo e in genere nell’intero romanzo, tan-to da poter essere indicato come spia lessicale dei procedimenti autoironici di Zeno. Esso accompagna la formulazione di un pen-siero positivo o ottimistico, smentendolo tuttavia nel momento stesso in cui viene espresso: per esempio, può lasciar trapelare la sua mancanza di fiducia nella terapia, come quando, rievocando una bugia detta al padre, parla di «una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto non abbia grande importanza nella mia cura)» (ibid.); o come quando, più avanti, gli si affaccia l’idea di aver sempre usato la dipendenza dal fumo come alibi per la propria inettitudine:

Adesso che sono qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? (p. 10)

Se la prima domanda appare del tutto plausibile, la seconda si qualifica come retorica: Zeno stesso non crede alla possibilità di una riuscita come «uomo ideale e forte», tanto da smentire su-bito dopo: «Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione». In questo modo, anche il peso della prima ammissione risulta smorzato e in qual-che modo svanisce, riassorbito dalle riflessioni successive.

Proseguendo nell’«analisi storica» della propensione al fumo, ritroviamo un’analoga formulazione a proposito del medico che lo sottoponeva alle applicazioni elettriche e che Zeno avrebbe

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voluto gli proibisse le sigarette: «Chissà come sarebbero andate le cose se allora fossi stato fortificato nei miei propositi da una proibizione simile» (p. 13).

In realtà, il lettore sa già che è proprio la proibizione a eccita-re il desiderio di Zeno: egli ha già ammesso come, dopo l’infan-zia, furono «le proibizioni» ciò che valse a eccitare il vizio (p. 8); e ha raccontato di come, ammalatosi intorno ai vent’anni e rice-vuto da un medico l’ordine di «assoluta astensione dal fumo», la proibizione abbia avuto in lui un effetto poderoso:

Ricordo questa parola assoluta! […] Mi colse un’inquietudine enorme. […] Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi: – Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!. Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta (p. 9).

Nel racconto del rituale dell’«ultima sigaretta» l’autoironia si esprime attraverso il contrasto tra la solennità della formu-lazione del proposito e il puntuale disattendimento: contrasto condensato nell’ossimoro del «solito ferreo proposito» (p. 11). La solennità dei propositi, qui come altrove, trova il suo sigillo nell’atto della scrittura: quando mente a se stesso, Zeno ha bi-sogno di scriverlo; del resto, anche il suo diario può esser visto come una grande opera di autoapologia e mistificazione.

Così, il tono della scrittura si impenna quando Zeno rievoca il momento solenne del proponimento, sempre «rifatto con la fede più ingenua» (p. 11): «ricordo una data che mi parve do-vesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio» (ibid.); un’altra data è ricordata «perché mi parve conte-nesse un imperativo supremamente categorico» (p. 11); quando rievoca l’ultima sigaretta del «Primo giorno del primo mese del 1901», l’effetto autoironico è invece affidato al tono lapidario della chiosa finale: «Ancora mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita».

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Anche il capitolo Storia del mio matrimonio è percorso dal contrasto tra i solenni propositi formulati da Zeno e l’esito pa-radossale della vicenda, anticipato già nelle pagine iniziali: «non so […] se sia dovuto alla sua furberia [di Giovanni Malfenti] o alla mia bestialità ch’io abbia sposato quella delle sue figliuole ch’io non volevo» (p. 67). Alla luce di questo esito, le gravi e ferme dichiarazioni d’intenti di Zeno suonano da subito come fortemente autoironiche: «In quell’iniziale a erano racchiuse quattro fanciulle, ma tre di loro sarebbero state eliminate subito e in quanto alla quarta anch’essa avrebbe subito un esame seve-ro. Giudice severissimo sarei stato» (p. 66).

Dichiarazioni che inizialmente sembrano confermate dalla semplice frase con cui Zeno, dopo aver incontrato Augusta, la liquida seccamente («Ecco che delle quattro fanciulle dalla stessa iniziale una ne moriva in quanto mi riguardava», ibid.), e viceversa dalla solennità con cui formula il proposito di sposare Ada, a ogni costo:

Quel colpo di fulmine […] fu sostituito dalla convinzione ch’ebbi imme-diatamente che quella donna fosse quella di cui abbisognavo e che dove-va addurmi alla salute morale e fisica per la santa monogamia (p. 69).

Qui avrei pur potuto accorgermi dell’importanza che Ada aveva ora-mai per me, perché per quietarmi io andavo dicendomi che s’essa non m’avesse voluto, avrei rinunziato per sempre al matrimonio. Il suo rifiuto avrebbe dunque mutata la mia vita (p. 84).

Il punto di svolta è segnato dall’opprimente colloquio con la signora Malfenti che allude a un interessamento di Zeno per Augusta, in seguito al quale egli formula di nuovo un solenne proposito, quello di non tornare mai più in quella casa:

non m’avrebbe rivisto mai più! […] io non ci pensavo più! Com’era bella la libertà! Per un buon quarto d’ora corsi per le vie accompa-

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gnato da tanto sentimento. Poi sentii il bisogno di una libertà ancora maggiore. Dovevo trovare il modo di segnare in modo definitivo la mia volontà di non rimettere più il piede in quella casa (pp. 90-91).

Tuttavia, il senso di vuoto che subito dopo assale Zeno, che inizia a desiderare con «dolorosa impazienza» di rientrare in casa Malfenti, magari con un pretesto, trasforma repentinamente il proposito iniziale in una semplice posa. D’ora in poi, i compor-tamenti di Zeno si riducono a mosse strategiche in una sorta di partita a scacchi: «Con l’invio del mazzo di fiori io avevo assunta una bellissima attitudine che bisognava conservare. Dovevo ora stare fermo, perché la prossima mossa toccava a loro» (p. 91).

Inutile dire che i vincitori di questa partita saranno i Malfenti, che d’ora in poi sapranno pilotare nella direzione da loro previ-sta i comportamenti di Zeno, progressivamente ridotto a grotte-sco burattino nelle loro mani: ed è proprio nei toni del comico e del grottesco che il narratore stesso, con un’efficace operazione di straniamento, descrive il proprio bizzarro e insensato com-portamento, culminante nella mirabolante scena delle dichiara-zioni a catena fatte nell’arco di un solo pomeriggio.

8. forza e debolezza, salute e malattia: Coppie oppositive e ambivalenza

La mente di Zeno tende a polarizzare la realtà ragionando per grandi coppie oppositive: in particolare, forza/debolezza e salute/malattia.

La «debolezza» sembra essere, insieme alla «malattia», il tratto distintivo di Zeno: basti pensare al suo rapporto di attra-zione/repulsione per Giovanni Malfenti, a lui complementare in quanto incarnazione di «forza» e «salute». Ma anche sotto questo aspetto, Svevo si diverte a confondere le carte e spiazzare il lettore: se, per esempio, leggiamo il capitolo La morte di mio

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padre, ci sentiamo disorientati nel sentire che Zeno, a più ripre-se, si qualifica «forte» rispetto al padre:

fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza (p. 30).

io, accanto a lui, rappresentavo la forza e talvolta penso che la scom-parsa di quella debolezza, che mi elevava, fu sentita da me come una diminuzione (p. 32).

Ma a questa antinomia dà una spiegazione capziosa:

in me c’è e c’è sempre stato – forse la mia massima sventura – un impetuoso conato al meglio. Tutti i miei sogni di equilibrio e di forza non possono essere definiti altrimenti. Mio padre non conosceva nulla di tutto ciò. Egli viveva perfettamente d’accordo sul modo come l’ave-vano fatto ed io devo ritenere ch’egli mai abbia compiuti degli sforzi per migliorarsi (p. 30).

Ebbene, questa descrizione della «debolezza paterna» in realtà coincide con ciò che altrove Zeno chiama «forza» o «sa-lute». Per tutto il capitolo (ma l’analisi si potrebbe estendere a tutto il romanzo) il narratore gioca sul continuo ribaltamento dei ruoli, come rivelano le riflessioni finali al funerale:

Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accom-pagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizio-so: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte (p. 56).

Lo stesso gioco di opposizioni e sovrapposizioni è riscontra-bile se si esamina la coppia salute/malattia: vero Leitmotiv del

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romanzo, che lo percorre letteralmente dalle prime alle ultime righe. Anche in questo caso, la scrittura rivela la forte ambiva-lenza di Zeno: egli si dice malato, desidera la salute ma al tempo stesso la odia, la disprezza, la respinge.

Il caso emblematico è il rapporto con Augusta: figlia del «sano» e «forte» Giovanni, la donna rappresenta la «salute per-sonificata» (p. 150), ed è quindi per lui opposto e complemento (Augusta vs Zeno, A e Z). E, tuttavia, Zeno la «ama» a fatica, lottando contro la sua perplessità di fondo, che a volte diventa anche voglia di deriderla:

Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza. […]Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di sog-giornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall’infettare chi a me s’era confidato. Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo muovermi come un uomo sano (pp. 150-151).

Non solo: la salute è ciò che Zeno cerca perché è ciò che gli manca, che non ha mai avuto e che, anzi, ha odiato:

Stavo collaborando alla costruzione di una famiglia patriarcale e di-ventavo io stesso il patriarca che avevo odiato e che ora m’appariva quale il segnacolo della salute. […] Io volevo la salute per me a costo d’appioppare ai non patriarchi la malattia, e, specialmente durante il viaggio [di nozze], assunsi talvolta volentieri l’atteggiamento di statua equestre (p. 152).

Altrove, Zeno ammette di non essere nemmeno in grado di definire o di “vedere” la salute: vera e propria idea fissa che con-

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tinua a riemergere, essa diventa pervasiva e mette in pericolo la possibilità stessa della narrazione:

Io sto analizzando la sua [di Augusta] salute, ma non ci riesco perché mi accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire (p. 152).

È nelle pagine finali del romanzo che questa tensione irri-solta si esprime al massimo: gli ultimi appunti scritti da Zeno, datati 24 marzo 1916 (pp. 422-425), esordiscono con la dichia-razione, da parte del narratore, della propria piena e assoluta guarigione:

[Il dottor S.] crede di ricevere altre mie confessioni di malattia e de-bolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono gua-rito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri. Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. […] Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia.

E tuttavia, contradditorio e ambivalente fino in fondo, subito dopo Zeno avvia la riflessione finale sulla malattia come condi-zione costitutiva dell’uomo («Qualunque sforzo di darci la sa-lute è vano»), e in specie dell’uomo moderno («La vita attuale è inquinata alle radici. […] l’uomo diventa sempre più furbo e più debole»), per concludersi con la famosa visione finale della «catastrofe inaudita» procurata da «un uomo fatto come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato», che, distruggendo la terra, le restituirà la «salute»: «Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa er-rerà nei cieli priva di parassiti e di malattie».

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9. dal diario buGiardo al memoriale psiCotiCo

Si è già accennato alla fortuna dell’invenzione narrativa del-la Coscienza di Zeno col suo narratore bugiardo: nel corso del Novecento altri autori procederanno lungo la strada aperta da Svevo, e si spingeranno ben oltre, dando voce a personaggi non solo bugiardi e nevrotici, ma anche a individui segnati da forti squilibri mentali e da percezioni distorte e allucinate della realtà.

Basti ricordare la protagonista del già citato romanzo Lettere di una novizia di Guido Piovene: erede di Zeno per la sottigliez-za psicologica e linguistica con cui fa uso della reticenza, della menzogna e dell’insinuazione allo scopo di giustificare se stessa e manipolare il prossimo, nel quadro tuttavia di uno squilibrio ben più violento e pericoloso.

Ma si pensi anche a un racconto come Le labrene di Tommaso Landolfi (1974), vera e propria cronaca di un “impazzimento” raccontato dall’interno: la voce narrante, inizialmente ferma e (apparentemente) lucida, e poi sempre più scossa dal delirio, è infatti quella del protagonista che scivola via via dalla fobia alla pazzia. Di questo fatto il lettore si rende conto gradualmen-te: da principio dà credito al narratore, ma progressivamente la sua credulità si incrina e il patto finzionale viene compromesso. Tuttavia, solo la pagina finale rivelerà al lettore che la voce che gli parla è quella di un pazzo rinchiuso in una stanza di mani-comio, in preda alle allucinazioni più violente; e la sua sintassi, prima ampia e razionalmente costruita, si spezza in frasi brevi, intervallate da puntini di sospensione, e in angosciose domande ed esclamazioni:

La mia convalescenza, che sembrava ben avviata, adesso invece… Non v’è dubbio, si tratta d’una pericolosa ricaduta. Comincio a figu-rarmi, a vedere cose strane, spaventose…Stamane destandomi m’è addirittura parso di non essere a casa mia, ma in un luogo orrendo, sconosciuto; m’è parso… esito a dirlo… che

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il cielo inquadrato dalla finestra non fosse libero e puro, ma come se-gnato e spartito da una sinistra ombra nera… Signore! un’inferriata?E perché questa stanza è vuota d’ogni suppellettile? perché il letto da cui mi sono or ora levato è solo un giaciglio? perché, perché le smorte pareti mi appaiono… oh Dio salvami dall’orrore… mi appaiono im-bottite? perché, perché, perché mi è impossibile muovere le braccia e le mani, quasi fossero avvinte in croce sul mio petto?Da uno spioncino nella porta mi osserva un viso beffardo; o pietoso, fa lo stesso. Se soltanto potessi raggiungerlo, esso, lo giuro, non irri-derebbe né compassionerebbe più nessuno per l’eternità… Oppure il viso è quello medesimo di Enrichetta, venuta a godersi il nuovo trionfo?...E su tutto, tutto dominando, di tutto motrice, questa labrena…Ancora una volta, di dove entrata qui se in questa stanza nessuno entra mai, neppure mia moglie?... E come pararsene, nelle mie condizioni?Essa mi guarda, coi tondi, sporgenti, lucenti occhi; spia l’opportunità di venirmi a petto, di venirmi a faccia a faccia… Essa conosce il suo sguardo, il suo immenso potere…In essa è concentrato tutto il male, tutto il dolore del mondo…Mio Dio, salvami.22

Si tratta di un meccanismo di grande efficacia, debitore di alcuni grandi racconti di Edgar Allan Poe come Il gatto nero o Il cuore rivelatore,23 e che anche il cinema ha saputo sfruttare, a

22 Il racconto si legge nell’antologia Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino, Milano, Rizzoli, 1982, p. 88.

23 Nei quali, tuttavia, il motivo della follia del narratore non è suggerito gra-dualmente, ma apre il racconto, pur nella forma della ricusazione. Nel primo caso, il narratore è un condannato a morte che parla per togliersi un peso dall’anima: «Per il racconto stranissimo eppure casalingo che mi metto a stendere per iscritto, non mi aspetto né chiedo di essere creduto. Sarebbe pazzia pretenderlo trattan-dosi di un caso nel quale i miei sensi rifiutano di prestar fede a loro stessi. Eppure matto non sono; e certissimamente non sogno. Ma domani morirò e vorrei libe-rarmi l’anima di questo peso». Nel secondo, il protagonista confessa il suo delitto a un tu imprecisato (una guardia carceraria, un giudice, un giornalista, un medico,

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partire dal famoso film muto di Robert Wiene, Il Gabinetto del dottor Caligari (1920), «dove tutto è psicotico perché, si scopri-rà solo nell’ultima scena, tutto è raccontato da un pazzo».

Si pensi anche a due recenti romanzi statunitensi, Fight Club di Chuck Palahniuk (1996) e Shutter Island di Dennis Lehane (2003), entrambi trasposti in due omonimi film di successo, il primo diretto da David Fincher nel 1999, il secondo da Martin Scorsese nel 2010.

In Fight Club,24 l’io narrante è quello di un giovane uomo senza nome, un impiegato oppresso dalla sua «vita minuscola» e tormentato dall’insonnia, la cui vita subisce un radicale muta-mento quando incontra una sorta di misterioso messia nichilista, Tyler Durden. Con lui dà vita a una rete di ‘fight club’ clandesti-ni, primo passo di un progetto di radicale e violenta distruzione della civiltà dell’America borghese e consumistica, il «Progetto Caos». Il colpo di scena si ha nell’ultima parte del romanzo (a partire dal capitolo 21, dei trenta che lo compongono), quando il narratore, deciso a porre fine agli esiti estremi a cui il Progetto Caos sta conducendo, prende gradualmente coscienza del fatto che Tyler non esiste ed è una creazione della sua mente.

Se Fight Club si colloca «tra il sadico e il noir»,25 Shutter

uno psichiatra, forse un prete) per dimostrare la propria lucidità: «Questo è vero, sono un uomo nervoso, spaventosamente nervoso, e lo sono sempre stato; ma perché pretendete che sono pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti – mica me li ha distrutti – logorati. E già avevo l’udito finissimo, e tutto ho sentito del cielo e della terra. Anche dell’inferno ho sentito parecchio. Com’è dunque che sarei pazzo? State attenti! E osservate con quanto senno, con quale calma sono capace di raccontarvi tutta la storia». Le citazioni sono tratte dall’antologia e.a. poe, Racconti del terrore, traduzioni di D. Cinelli e E. Vittorini, introduzione di s. Perosa, con un saggio di D.H. Lawrence, Milano, Mondadori, 2009 (prima ed. 1985), pp. 232 (Il gatto nero) e 224 (Il cuore rivelatore).

24 L’edizione italiana, con traduzione di Tullio Dobner e postfazione di Fer-nanda Pivano, è uscita, con lo stesso titolo dell’originale, presso Mondadori nel 2003.

25 Così Fernanda Pivano nella postfazione all’edizione italiana del romanzo (Milano, Mondadori, 2003), p. 221.

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Island26 si presenta come un thriller: il protagonista è infatti l’agente dell’F.B.I. Teddy Daniels, mandato con il suo nuovo partner Chuck Aule sull’isolotto che dà il nome al romanzo, e che ne costituisce l’inospitale e claustrofobica ambientazione. L’ex fortezza militare che occupa l’isola, presto privata di qual-siasi collegamento con la terraferma a causa di un violento ura-gano, è la sede di un istituto psichiatrico destinato a ospitare pazienti particolarmente gravi e pericolosi. I due agenti avviano faticosamente, in un clima di ostilità e diffidenza, la loro indagi-ne, dedicata alla misteriosa scomparsa di una paziente internata per l’uccisione dei suoi figli; ma la loro missione ha anche lo scopo ufficioso e segreto di verificare quali siano i metodi di cura adottati nell’ospedale, dove si sospetta che, su mandato dei servizi segreti, i pazienti più gravi siano usati come cavie umane e sottoposti a terapie sperimentali estreme. La narrazione pro-cede tra il complicarsi dell’indagine e l’aggravarsi del malesse-re di Teddy, che soffre di frequenti e dolorose emicranie e di una sorta di innata fobia per il mare, ed è oppresso da ricordi tormentosi: gli orrori della seconda guerra mondiale (siamo nel 1954) e la tragica morte della moglie Dolores, vittima di un in-cendio doloso. È solo nelle ultime pagine del romanzo che il senso di angoscia che come una morsa va stringendosi intorno al protagonista trova la sua sconvolgente spiegazione: Teddy in realtà è un paziente dell’ospedale, ricoverato per aver sparato alla moglie dopo aver scoperto che la donna aveva ucciso i tre fi-gli, e tutta la vicenda di cui è stato protagonista non è stata altro che una messinscena orchestrata dagli psichiatri per costringer-lo ad affrontare la realtà traumatica del suo passato.

26 L’edizione italiana, con traduzione di Chiara Bellitti, è uscita presso Piemme nel 2005, con il titolo L’isola della paura.

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10. realtà e alluCinazione: l’aCCademia del dottor pastiChe

Se nei testi appena citati il capovolgimento tra realtà e allu-cinazione è affidato al colpo di scena finale, tanto che il lettore, spiazzato, si sente costretto correre indietro per tutto il libro a cercare e reinterpretare situazioni, azioni e dialoghi per arrivare a capire ciò che effettivamente è successo, diverso è il meccani-smo narrativo sotteso al romanzo di Umberto Pasti, L’Accademia del dottor Pastiche, edito dal Saggiatore nel 2008.27

Si tratta di un romanzo strano e inquietante, di cui è davve-ro arduo ricostruire la “trama”. Dei dieci capitoli che lo com-pongono, il primo e l’ultimo fanno da cornice, dandogli una struttura circolare; negli otto capitoli centrali, vero corpo del romanzo, la voce narrante è quella del protagonista, «Gi», Giona, Gionatan, giovane che dopo aver passato l’adolescenza tra le mura di diversi collegi o istituti di correzione, si ritrova in Barocco (Marocco), Paese nordafricano sfigurato dalla mo-dernità, dove è affidato alle cure di una bizzarra psichiatra dai capelli rossi, Psiche Salvini, alla quale è stato affidato, dalla mi-steriosa organizzazione rieducativa denominata Paideia Int., il compito di “erigere la sua identità”.

In Barocco, Giona entra in contatto con un vecchio signore eccentrico, il dottor Pastiche, che ricorda nei tratti fisici e in certe fisime Carlo Emilio Gadda, ma si presenta come un curato di campagna, e se ne va in giro in clergyman accompagnato da Henrietta, un’incantevole scimmietta vestita di trine, damasco e lisi taffettà. L’uomo coltiva un sogno pedagogico che nasconde «un segreto malinconico»: nel paesaggio paradisiaco di Dunia,

27 Si tratta del secondo romanzo dello scrittore, traduttore e giornalista, che vive tra Milano, Tangeri e i pressi di un villaggio nel nord del Marocco, dopo L’età fiorita (Milano, Il Saggiatore, 2000); successivamente è uscito presso Bompiani Giardini e no. Manuale di resistenza botanica (2010).

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plaga rimasta miracolosamente intatta dalle speculazioni edilizie che sfigurano il Paese, ha allestito un’Accademia in cui, attra-verso strane adunate, esercitazioni para-militari e oscuri traffici notturni, addestra un pugno di giovani contadini analfabeti a risvegliare, tra pratiche sessuali sadomasochiste e riti blasfemi, i desideri dei turisti stanchi delle conquiste troppo facili.

Già dal primo incontro Giona prova per Pastiche uno strano senso di familiarità e di attrazione:

Nonostante lo sgradevole senso di familiarità ispiratomi dalla sua ap-parizione (ne avevo attribuito la causa alla divisa che indossava), anzi, proprio per questo, quell’omino canuto, chiuso come un coleottero nel guscio usurato del suo clergyman, questo scarabeo ammaestrato che si portava alle labbra la tazza con entrambe le zampine superiori, mentre le inferiori, troppo corte per posarsi, annaspavano nel vuo-to, mi aveva fatto paura. Lo conoscevo già, questo insetto necroforo – questo geotrupide becchino. Da dove? quando? a quale funerale? nella terra di che fossa? […] Lo avevo già incontrato: certamente, lui sapeva tutto di me. […] Avevo subito intuito che eravamo fatti della stessa pasta (p. 24).

Unitosi all’Accademia di Pastiche, il giovane si ritrova con sorpresa a trascorrere «l’estate più felice» della sua vita: sente cicatrizzarsi le vecchie piaghe, svanire il «senso d’irrealtà» che lo minaccia da sempre, e per la prima volta sperimenta un sen-timento di appartenenza.

La narrazione qui si distende descrivendo l’immersione di Giona e dei compagni in una natura paradisiaca e mitica, sorta di Arcadia esotica e marina in cui si rinnova un’età dell’oro, evocata con toni lirici:

In quei meriggi, stesi gli uni accanto agli altri beati come paria, riposa-vamo nell’ombra velenosa degli oleandri, fumando kif (nonostante le pastiglie, avevo iniziato anche io). Se Pastiche era lontano, concentra-

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to sul quaderno, Henrietta aspirava qualche boccata. Poi, accompa-gnata dalla piccola viola da braccio che Rachid aveva costruito usando un legno, del filo da pesca e una lattina di olio bucata per ottenere il foro di risonanza, si metteva a ballare (non più l’allemanda, bensì la danza del ventre), imitata dai bambini. Frattanto altri, chi armato di un ferro, chi di un coltellaccio, esploravano gli scogli sommersi da-vanti al santuario di Sidi Mbail, (i più fortunati erano sempre loro, il foruncoloso Jelel e Mustafà), e di lì a poco sarebbero tornati tenendo per i tentacoli un polipo o una murena per la coda, oppure stringen-dosi al petto il cappello colmo di ricci vivi. […] Ma dalla pietraia ci arrivava il suono di un flauto, un filo di acqua fresca che sgorgava, sforandolo, dall’immenso muro minerale del canto delle cicale. I lio-corni si erano accucciati ai nostri piedi. Uno leccava il mio, la pianta poi le dita. Russavano formiche e maggiolini, gemevano nel sonno gli oleandri, i giunchi. Anche le aquile dormivano lassù, adagiate nei loro nidi grandi e complicati. Questa era la felicità, pensavo addormentan-domi, pregustando il risveglio al tramonto, e l’ultimo bagno coi miei amici nell’oceano trasformato in una plaga d’oro (p. 133).

L’incanto si rompe con il rapimento e la morte di Henrietta: un evento drammatico di cui tuttavia i fatti essenziali sfuggo-no, confusi da una narrazione lacunosa. Dopo questo evento, «niente è più come prima», e il racconto di Giona si trasforma nella dolorosa, graduale presa di coscienza del fatto che quanto ha vissuto e narrato non è reale. È una verità che si affaccia gra-dualmente; dapprima si manifesta come un rapido barbaglio, presto dimenticato, all’interno dei monologhi interiori di Giona: «Della stessa pasta, io e Pastiche? A volte, mi sembra che siamo una persona sola (“Bravo! Facciamo progressi!” direbbe Psiche Salvini. “Avanti così, Giona. Tu non sei schizofrenico, ce la puoi fare”)» (p. 27).

Entra poi nella narrazione vera e propria, come rivelazione inizialmente affidata ad altre voci, quella lontana dell’ex padre spirituale (e carnefice) Hewitt, che in una conversazione tele-

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fonica con Giona liquida l’intera faccenda nominandola secca-mente con la sua denominazione medica,

«Devi avere i piedi per terra, liberati da quel figuro… Una scimmia, Dio mio, neanche… Come hai detto che si chiama?»«Henrietta? Il dottor Pastiche?»«Come lo hai chiamato?»«Dottor Pastiche.»«Ma questo è il solito nucleo psicotico figliolo. È schizofrenia.» (p. 109)

e quella più affettuosa e comicamente colloquiale di Psiche:

«Ma non era il dottor Pastiche […]?»«E daje!» Psiche Salvini fece spallucce: «Lo voi capi’ ch quello è meno de zero? Che propio nun esiste proprio? Te lo voi ficca’ nella capa, che nun c’ha l’identità?».Fu come se una luce, via via sempre più chiara, si fosse accesa. Co-minciavo a capire cosa significava erigere identità. Per la prima volta, intuivo il nodo – il nodo – che lega l’irrealtà e l’identità, le sorelle siamesi incestuose che si alitano l’un l’altra in bocca un fiato fetido, le Scilla e Cariddi del mio viaggio prigioniero nella pancia di un pesce che pesce non è (p. 111).

Occorreranno però molte altre pagine perché il narratore percorra tutto il suo cupo calvario psichico: alla fine, dopo aver visto svanire, insieme ad Henrietta, anche Pastiche, i luoghi di Dunia e i compagni dell’Accademia, e stretto da un nodo sem-pre più opprimente, Giona arriva a chiedersi quanto di ciò che ha vissuto e raccontato sia reale, a partire dai primi incontri con Pastiche:

Ricordai l’incontro sulla Plage Diplomatique, l’arrivo di lei [Henrietta] che mi balzava in braccio… E se, esausto dopo le percosse del poeta

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in erba, io mi fossi semplicemente accasciato sulla sedia di un banale baretto, e fossi stato, tanto per cambiare, maledetto il mio destino, solo? Se fossi stato solo anche nella bettola, circondato dall’ostilità del padrone e degli altri avventori suscitata dal mio abbigliamento pazzesco e dal mio concionare di ubriaco, solo, per l’appunto, come un cane? (p. 175)

È così che, infine, Giona si trova in una casa, circondato da un gruppo di individui «familiari eppure sconosciuti», tra cui ri-conosce Psiche Salvini e alcuni giovani che hanno le fattezze dei vecchi compagni dell’Accademia, ma sono vestiti da infermieri. Sono loro i «testimoni impassibili della sua rovina», rappresen-tata dall’ammissione finale:

Sì. Ero, eravamo, l’unico erede di un impero solare che non esisteva. La triade trimurti ricomposta. «Il dottor Pastiche!» gridai. Rendendo-mi conto che tutti quanti mi fissavano col fiato sospeso, e che quanto stavo per affermare avrebbe avuto conseguenze definitive sulla mia vita, sul limitare del giardino di questa casetta in affitto da cui domani, sì, domani me ne sarei andato: «Il dottor Pastiche…» – dopo di che conclusi, senza più ricorrere alle virgolette perché la lingua che canta dictata di noi scarabei stercorari necrofori è muta, pertanto non le conosce, ero io, sono io, solo io (p. 179).

11. sCrittura dell’alluCinazione e seGnali della verità

Il finale dell’Accademia del dottor Pastiche non è certo un col-po di scena. Anzi, si può dire che la sfida del libro consiste nel sovvertire in modo sistematico l’opposizione tra verità e men-zogna. Tutto quello che l’io narrante dice risulta sospetto, fin dall’inizio, e la rivelazione finale è preparata e anticipata da una fitta rete di segnali, che il lettore accorto deve tentare di inter-pretare fin dalle prime pagine. Giona, che emerge da un passato

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violento e oscuro, è costantemente minacciato da una sensazio-ne di irrealtà, come constata dolorosamente in più luoghi:

Avevo dovuto soffocare la solita, maledetta sensazione di lievitare e d’insinuarmi ovunque. I piedi per terra, ragazzo. Tempo, a tempo, amico, altro che perdersi nei meandri del passato, nei labirinti di un presente che non c’è (p. 42).

Il suo racconto è continuamente solcato da strappi e cicatrici: sullo sfondo di luoghi descritti in termini allucinati, si muovo-no personaggi che sembrano fantasmi, dai tratti caricaturali ed evanescenti al tempo stesso. In questa allucinata fantasmagoria, alcuni motivi tornano ossessivamente, a incarnare le fobie e le manie del narratore: i rituali di sacrificio ed espiazione (le ferite autoinflitte, la crocifissione), gli insetti, i merletti settecenteschi, le pratiche sessuali sadomasochiste e blasfeme.

Al centro del romanzo è il problema dell’identità di Giona, che fin dall’inizio risulta labile e sfuggente: fin dalle prime pa-gine il lettore si accorge di avere davanti a sé un io diviso, e il racconto è tutto percorso da segnali che confermano questa impressione.

Già l’incipit del romanzo fornisce tutti gli indizi per capire ciò che Giona ammetterà solo alla fine, cioè che lui, Pastiche ed Henrietta sono una stessa persona. Il primo capitolo, in cui la narrazione è in terza persona, si apre con la descrizione di Giona che cammina mormorando frasi sul proprio io diviso, con in mano il clergyman, indumento caratteristico di Pastiche, e un telegramma da cui ricaviamo che la madre gli si rivolge con l’appellativo scherzoso di «scimmietta»:

«Io non sono il re», ripeteva tra sé e sé il ventottenne bruno che cam-minava sulla spiaggia […]. «Io non sono il re» mormorava cercando di calmarsi, facendo dondolare la giacca del clergyman che teneva in mano. «È il re, che è me». […]

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Il giovane si fermò, estrasse di tasca il telegramma, lo rilesse: Scimmiet-ta siamo pazzi gioia tuo miglioramento stop (p. 13).

E poco oltre, riferendosi alla morte di Henrietta (ma il let-tore lo saprà solo a lettura inoltrata del romanzo), formula il proposito solenne di crearsi un’identità una e trina:

Lei sarebbe rinata dentro di lui. E sarebbero stati in tre per tutta la vita, tre petali di un fiore a coronare questo stesso stelo, tre in uno, uno e trino, triade trimurti riassorbita in un corpo (p. 14).

Una narrazione di questo tipo invita a una lettura non lineare, ma in continua evoluzione, una lettura che muta in base ai segnali che via via si ricompongono attraverso un costante gioco di rico-noscimento. Si prenda ad esempio la descrizione di Pastiche:

Lo esaminai con attenzione. La faccia lunga, con le ganasce cascanti come bargigli di tacchino percorse da reticoli di venuzze, esprimeva il coraggio ottuso di una vecchia bestia da soma. Ma la simpatia su-scitata dal cavallo da tiro stracco, che però procede, veniva smentita, raggelata, dalla bocca, una fessura larga e priva di labbra, schifata, volta in giù. I capelli erano bianchi, corti. Le braccia e le gambe, brevi – gli orribili calzini a righe sparivano nelle scarpe stringate che dondo-lavano a due spanne dalla sabbia; sotto la giacchetta nera lo stomaco era prominente, da buongustaio o da bevitore. […] Adesso che era di profilo, mi resi conto che era una versione in miniatura di Carlo Emilio Gadda, ma somigliava anche a qualcun altro, qualcuno visto di recente, non avrei saputo dire dove (p. 74).

Descrizione su cui il lettore sarà tentato di tornare, quando, nel prosieguo del racconto, Psiche Salvini inviterà Giona a guar-darsi allo specchio per ritrovare quei tratti sul proprio volto:

«’Un te sei accorto de gnente?». Aveva estratto dalla borsetta il porta-

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cipria di metallo. Fattane scattare l’apertura, me lo porgeva. Mi guar-dai. Aveva ragione. La tosatura non mi donava. La faccia sembrava più massiccia, più pesanti le guance. «Hai visto?» Continuai l’ispezione. Mi si erano ingrandite, pareva, le orecchie, e allungato il naso, ma per il resto, tutto consueto, a meno che… Sì, adesso che l’attaccatura delle basette non era più coperta dalle ciocche scure, per la prima volta mi accorgevo di avere qualche capello bianco… ma a quasi trent’anni… «Chevvedi fije’?» Eppure, dal contrasto tra le basette incanutite e la faccia abbronzata dal sole… «Te rendi conto?...» […] La bocca, forse per la concentrazione con cui andavo studiando la mia immagine, si era assottigliata e contratta, assumendo una piega severa, anzi, una piega amara… «Ce sei arrivato?» Assentii. […] Provai un brivido di felicità, un moto di trionfo. Finalmente sapevo a chi assomigliava il dottor Pastiche – ovviamente grazie a Psiche, al suo specchietto do-rato (p. 92).

Si troveranno così simmetrie perfette, come quella tra la sensazione provata da Giona che Pastiche fosse da sempre una parte di lui,

Insomma, se rifletto mi sembra che il dottor Pastiche stesse esistendo già dentro di me: un modo mio, un mio modo e un mio tempo, il rea-lismo della mia realtà al gerundio di un presente assente (64)

e l’immagine di qualcosa (qualcuno) che, nascosto dentro Pastiche, tentava di affiorare:

Stringendola con entrambe le mani, si era portata la tazzina alle lab-bra. Mentre aspirava il liquido, dai suoi bronchi saliva un sibilo enfise-matico – qualcos’altro, qualcun altro, che gemeva e soffiava e raspava dentro di lui per affiorare, per venire fuori (p. 73).

O, ancora, si potranno riconoscere, nelle incantevoli mise della scimmietta, i capi di abbigliamento che Giona porta nella

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sua sacca da viaggio, rovesciata su un tavolo da un doganiere all’arrivo in Barocco:

Aveva aperto il parasole verde giada. Spiegato le cuffie di merletto. I taffettà. I pantaloni a sbuffo di damasco ciliegia e quelli color granato. I tailleur nasturzio, ciclamino, blu scilla, corda e pervinca, pavone, petunia (p. 39).

[Henrietta] era una bambina ottocentesca con una cuffia di pizzo trat-tenuta sotto il mento da un nastro di raso. Di pizzo erano il colletto e i polsi dell’abito paglierino; ampia la gonna, a pieghe, lacera, con l’orlo bagnato. Trascinava negligentemente dietro di sé uno scialle indiano e un parasole verde giada dal manico di ebano (p. 76).

[Henrietta] elegantissima in un tailleur-bermuda color corda a rigoni pervinca (p. 93).

Un gioco di riconoscimento e svelamento che, tuttavia, è tutt’altro che meccanico, dal momento che è confuso dal ca-rattere frammentario della narrazione, e da uno stile fulgido, sperimentale, estremamente vario nelle forme e nei toni, che spaziano dal tragico al comico, dal lirico all’espressionistico. Letteralmente costellato di allusioni e citazioni più o meno esplicite, il romanzo è leggibile anche come un esercizio di pa-rodia e attraversamento dei generi: un pastiche, appunto, come chiarisce la citazione dal Doctor Faustus di Thomas Mann posta in exergue e poi ripresa anche nel testo:

Sentii crescere in me la propensione, che scoprii non essere solo mia, a considerare tutta la vita come un prodotto culturale che assume la for-ma di cliché mitici, e a preferire la citazione all’invenzione autonoma.

È allora possibile individuare nell’opera di Gadda, impareg-giabile maestro del pastiche, il riferimento forte di questo roman-

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zo, a cui Pasti fa dichiarato omaggio non solo dando a Pastiche i tratti dello scrittore, ma anche concentrando la sua inventi-va linguistica sui toponimi, come nella Cognizione: il Barocco/Marocco con le sue città di Danger e Al-Dila (da pronunciare alla francese, «Aldilà», come viene precisato nel testo, p. 43).

I giochi di parole del resto costellano il romanzo. Basti pen-sare ai nomi allusivi dei protagonisti (Giona come il profeta ri-luttante della Bibbia uscito dal ventre della balena e mandato a Ninive, città del peccato; la psichiatra salvatrice Psiche Salvini; e, appunto, Pastiche); e si legga un passo da un monologo di Giona:

Perché non mi avevano spedito in Thailandia, a farmi infilare palline da ping pong nel popong dai Vietcong? a Hong Kong? Perché non mi esiliavano in una favela brasiliana, a perdere la favella – per favore, Pastiche, per favore – a colpi di fava nel Rio Bò? (p. 36)

E ancora a Gadda sarà naturale riferirsi per il plurilingui-smo del romanzo, in cui ai tanti registri della voce di Giona si mescolano il francese e lo spagnolo degli abitanti del Barocco, la parlata brianzolo-romagnola di Sidi Birbissa, l’imbarazzante sultano del Paese che assomiglia moltissimo all’ex-presidente del consiglio italiano dalle medesime iniziali, o il romanesco di Psiche Salvini.

Tutti elementi che concorrono a potenziare il senso di disar-monia e irrealtà, vera cifra e chiave interpretativa del romanzo, che trova forse la sua espressione più forte nelle descrizioni allu-cinate, elenchi martellanti di immagini stridenti e voci dissonan-ti, come, per esempio, quella della città di Danger in cui Giona approda all’inizio dell’opera:

Casermoni non finiti si affacciavano sulla strada sterrata, impeciati e irti di antenne televisive come feticci voodoo. Le paraboliche spun-tavano nel lerciume di veroncini ingombri di elettrodomestici e di

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spazzatura, sotto tetti a pagoda, a stupa, maya, khmer, sopra cariate insegne al neon che pulsavano nonostante facesse ancora giorno. Sui marciapiedi, tra le pozzanghere e il guazzo di scarichi otturati dall’im-mondizia, scansando carrette cariche di mandarini e fuoristrada giap-ponesi, suore in nero, con le facce coperte, camminavano a passetti stizziti, di gatte inzaccherate; coppie ribalde di ginnasti in tuta anda-vano per mano, o a braccetto, o abbracciate, fischiando a zumurrud caracollanti nel guado su zatteroni di gomma, in mini di jeans con cuori di strass a scoppiare sull’iperbole delle curve più tese: «Abbò-na… mitifai? Che me la dài, micia chiattona?». […] Dappertutto, sbirraglia, militari, mercenari, agenti di sicurezza e di cambio, ruffiani, intermediari, palazzinari, ricattatori, politici e bambole televisive de-capitate, venditrici, imbonitrici, bovare bovaristiche, circi senza porci, penelopi dei proci, citrulle sgallettate, carnivore di grana, verginelle ricucite che smadonnavano: con le dita nel naso, le mani in saccoccia o nella bisaccia altrui, in caccia, le cartuccere e le tracolle a tracolla, i berretti da baseball o le parrucche in testa, sulla palta di facce mo-dellate dai bisturi, bulinate dal botulino, lumeggiate dal pennellino intinto nel silicone… (pp. 41-42)

La percezione distorta di un testimone psicotico si trasfor-ma così nella brillante e spietata descrizione della realtà-irrealtà postmoderna: un’epifania del caos.

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1. forzature della sintassi

Nella narrativa italiana del Novecento diversi sono stati i ten-tativi di tradurre i segnali di una mente perturbata attraverso operazioni di forzatura dello stile e della sintassi tradizionali: dallo sperimentalismo onirico di Sanguineti in Capriccio italiano alla paratassi esasperata di Ottieri in Campo di concentrazione, fino alle impressionanti confessioni-fiume (dai caratteri e dagli esiti ben distinti) di Berto nel Male oscuro e di Mari in Rondini sul filo, i due testi su cui mi soffermerò più a lungo.

Il romanzo di Ottiero Ottieri intitolato Campo di concentra-zione (1972) registra, nella forma frammentaria ed ellittica degli appunti di un diario, la storia di una malattia mentale e delle (vane) terapie a cui si sottopone il narratore-protagonista. Lo stile del romanzo risente del sistema delle libere associazioni proprio della seduta analitica. Si assiste infatti a una forzatu-ra della scrittura tradizionale attraverso una vistosa frammen-tazione della sintassi e un uso disinvolto della grammatica: la narrazione si dipana come una sequenza di frasi brevi, talvolta brevissime, spesso nominali o comunque ellittiche, che svolgo-no la catena dei pensieri e delle associazioni della voce narrante

Capitolo IILa sintassi della confessione-fiume

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procedendo per analogia o per giustapposizione. Anche se il racconto rispetta un ordine cronologico lineare, i tempi verbali sono appiattiti sul presente (soprattutto indicativo e infinito). Paratassi, stile nominale, frequenza di frasi infinitive e interro-gative, inserzioni plurilinguistiche sono i tratti distintivi di que-sta scrittura, che procede a singhiozzo, come evidenzia un passo tratto dalle pagine iniziali:

Passate tre settimane di clinica (durante le quali è stato inconcepibile scrivere).Ricordarsi di dire che la sera stando «meglio» ho gli stessi problemi di scelta che a casa. Raccontarli all’analista.Le occasioni e l’amica.La vergogna di…La posta alla…Una via l’altra. La ridda delle donne vagheggiate. Ritorno come prima. Le «poesie» rivengono di moda dopo la paura enorme, il rivolgimento del cielo e della terra (nelle prime tre settimane) e la «disperazione nera». Non vi è altro aggettivo alla disperazione che: nera.Come usavo, non mi muovo piuttosto che scegliere.Il pericolo è che non ci siano novità (dall’esterno?).Che tutto torni come prima.Il rinnovamento. Gli occhi nuovi. Guarire.Che subentri l’agitazione ansiosa.Il non potere non volere perdere nulla.After all that desperation the danger is to be the same as before.1

Più complessa l’operazione svolta da Edoardo Sanguineti nel romanzo Capriccio italiano (1963), non a caso ritenuto uno dei testi fondamentali della neoavanguardia.

1 o. ottieri, Campo di concentrazione, Milano, Bompiani, 1972, pp. 9-10. Si veda il già citato saggio di Coletti, La sintassi della follia nella narrativa italiana del Novecento, pp. 272-274.

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Il romanzo, strutturato in centoundici brevi capitoli, trasfor-ma il nucleo narrativo iniziale – la crisi coniugale tra l’io narrante e la moglie in attesa di un figlio, il misterioso incidente di cui la donna è vittima – in una sorta di racconto visionario che insiste ossessivamente sui temi della morte, dell’eros, del corpo nella sua fisicità e nudità, della paternità, della malattia. Il consueto andamento narrativo è stravolto: il racconto procede per “situa-zioni” che si succedono e si ramificano l’una dall’altra, in una continua alternanza e confusione di realtà e sogno. La narrazio-ne, il sogno, i ricordi del passato si intrecciano e sovrappongono attraverso una sovversione delle regole spazio-temporali che dà al testo una dimensione potentemente onirica.

Le avventure vissute o più spesso sognate dal protagonista, i personaggi senza nome e senza volto, i luoghi che si succedono l’un l’altro comunicando attraverso passaggi misteriosi, i tempi narrativi che intrecciano e confondono presente e passato, fan-no del romanzo una grande opera di trascrizione della dimen-sione onirica e dei suoi meccanismi di condensazione. Si legga un passaggio:

Poi ho guardato in alto, nel lungo vuoto delle scale, e là in alto c’era soltanto la testa di C., che sembrava come appesa su, al soffitto di quelle scale, tutta appesa in quel lungo vuoto. Allora me ne andavo poi per la piazza, in quel giardino della piazza, nel freddo. Vedevo gli alberi, e me li guardavo di sotto in su, sempre di sotto in su, contro il cielo, che così sembravano come degli alberi giapponesi. «Sto ma-le», dicevo forte, «sto male tanto». Ma che poi era come che me ne dimenticavo. E mi sono fermato. Ed ecco il mio figlio più grande, che arriva tutto nell’alba, camminando tra i fiori gelati. Ci ha gli occhiali bianchi, che sono come bianchi di brina, e cammina come se ci facesse a mosca cieca, tanto incerto. «Papà», mi dice, quando ce l’ho vicino, «voglio vedere i treni». È già grande, il mio figlio più grande, ma io me lo prendo in braccio lo stesso, e gli mando il mio fiato caldo sopra gli occhiali, perché così ci vede. E allora, quando mi vede, dice: «Ma sei

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bello, tu, papà». E io gli ho dato come un bacio. Intanto ci eravamo fatto tutto il nostro vialetto di ghiaia, e adesso eravamo fermi, in piedi di fronte alla stazione, proprio sotto l’orologio. «Aspettami qui», dico a mio figlio. E vado dal giornalaio. «Voglio un biglietto di ingresso per la stazione», gli dico, al giornalaio. Adesso siamo dentro la stazione, e io sono dentro il bar della stazione. Soffio il mio fiato caldo contro i vetri del bar, e vedo mio figlio che cammina lì, tra un binario e l’altro. Siamo in tanti, adesso, a guardarlo, e adesso facciamo come un muc-chio, anzi, perché è solo un piccolo pezzo di vetro, quello che si può vederci attraverso. Lui è fermo, vicino a una locomotiva di un treno molto lungo, e ci tocca le ruote, e poi si infila lì, tra tutti gli ingranaggi della locomotiva, lì in mezzo. «È già grande», dico a quelli che guar-dano lì con me, «è già grande, per la sua età». Poi quella locomotiva fa come una grande nuvola di fumo, e poi tutto quel lungo treno in-comincia a muoversi, e la grande nuvola di fumo arriva lì, sopra i vetri del bar. Il vetro è tutto tanto opaco, adesso.2

Uno stile “in presa diretta”, che mima l’informalità del par-lato – anzi, di un parlato affannosamente improvvisato – con il prevalere della paratassi e della coordinazione, le ripetizioni, l’abbondanza dei deittici (là, lì, lì in mezzo), le forme colloquiali (ma che poi era come che me ne dimenticavo, ci ha gli occhia-li bianchi, ci tocca le ruote), le ridondanze pronominali (me li guardavo, me lo prendo in braccio); e che, contemporaneamente, dà il senso dell’indeterminazione e della vaghezza, soprattutto attraverso l’uso del come (come degli alberi giapponesi, come un bacio, come un mucchio).3

2 Cito dall’edizione: e. sanGuineti, Capriccio italiano, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 108.

3 Si veda ancora Coletti, La sintassi della follia nella narrativa italiana del Novecento, pp. 274-275.

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2. il male osCuro: un romanzo-non romanzo e i suoi modelli

Il male oscuro, capolavoro di Giuseppe Berto, pubblicato nel 1964,4 è un’opera dal carattere fortemente autobiografico: si trat-ta infatti dell’impressionante resoconto, fatto in prima persona da un narratore che è alter ego dell’autore, della sua «lunga lotta col padre» e del «male oscuro», la nevrosi, da essa generato.

Il libro nasce infatti su consiglio dello psicoanalista a cui Berto, nell’Appendice al romanzo, racconta di essersi rivolto per «diperazione», dopo una crisi d’angoscia talmente terrificante da convincerlo che non avrebbe scritto mai più:

Il punto di forza della psicoanalisi […] non è tanto la dottrina quanto l’analista. Io ebbi la fortuna di trovare un uomo straordinariamente buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso. Egli mi aiutò a uscire senza eccessivo sconforto dalle crisi più brutte del male, mi condusse gradualmente a guardare dentro me stesso senza paura o vergogna di ciò che vi avrei potuto trovare perché qualunque cosa vi avessi trovato sarebbe stato sempre qualcosa di attinente all’uomo, mi portò a mettere ordine nella mia coscienza, coltivò e rinforzò la voglia che avevo di guarire. Sostenuto da lui ricominciai a scrivere come un paralitico che dopo l’attacco di trombosi rieduca a poco a poco gli arti immobilizzati e li riporta a compiere i movimenti […]. L’analista mi consigliò di non insistere nei due tentativi di romanzo da anni riposti nel mio cassetto, era preferibile che tentassi una storia del tutto nuo-va, e non dovevo pretendere troppo da me stesso, la cosa essenziale essendo che arrivassi comunque alla fine del lavoro, non dovevo per alcun motivo fermarmi prima della fine.Così scrissi Il male oscuro, che è press’a poco il racconto della mia malattia.5

4 L’edizione da cui cito, indicando d’ora in poi semplicemente il numero di pagi-na, è: G. berto, Il male oscuro, prefazione di C.E. Gadda, Milano, Rizzoli, 2009.

5 G. berto, Appendice a Il male oscuro, cit., pp. 416-417.

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Come La coscienza di Zeno, il romanzo di Berto è il racconto della propria malattia, fatto in prima persona da un nevrotico su consiglio dell’analista: ma a differenza del personaggio svevia-no, bugiardo e riottoso nei confronti del Dottore, l’io narrante del Male oscuro è sincero e “obbediente”.

Oltre alle informazioni sulla genesi dell’opera, nella stessa Appendice Berto fornisce al lettore alcune indicazioni sul genere in cui inscriverla, e sul tema:

Il male oscuro è e non è un romanzo. Come romanzo è la storia di un mezzo intellettuale di provincia che viene a Roma sognando di scrive-re un capolavoro e finisce per vivere ai margini del cinema tra i caffè di via Veneto e quelli di piazza del Popolo, pieno d’invidia per quelli che hanno fortuna. La morte del padre e alcuni madornali errori clinici lo conducono alla nevrosi. Nonostante questo si sposa, ha una figlia, continua a lavorare alla meno peggio scrivendo per il cinema, spaesato e ridicolo e sempre più ammalato. Infine ricorre a uno psicoanalista che mette in luce la vera causa della nevrosi: la censura troppo stretta di un Super-Io rigido e pletorico. Curandosi assiduamente riesce a guarire, ma una volta guarito scopre che la moglie lo tradisce ormai da alcuni anni. È un colpo spaventoso, che minaccia di travolgerlo. Tut-tavia il dolore rimane dolore, non si trasforma in angoscia. È la prova della sua guarigione dalla nevrosi. Però non riesce ad accettare il male che gli hanno fatto: si ritira in un luogo solitario come un anacoreta, rifiutando la società e la famiglia, sempre più pensando al padre, alla fine identificandosi in lui nell’accettazione della morte.Come non-romanzo Il male oscuro è la descrizione di una nevrosi da angoscia e della cura per guarirla e delle esplorazioni nell’inconscio per mezzo dei sogni e delle associazioni.6

Un’autobiografia romanzesca, quindi, ma anche un viag-

6 Ibid., pp. 418-419.

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gio attraverso la nevrosi, i cui modelli dichiarati sono Svevo e Gadda. I due autori rappresentano per Berto innanzitutto due fratelli spirituali, in quanto «insigni esempi di scrittori nevroti-ci», in lotta perenne con la difficoltà di scrivere:

Italo Svevo, che per oltre vent’anni riuscì a non scrivere nulla, e Car-lo Emilio Gadda che imposta i suoi rari romanzi su trame robuste, addirittura con un bel delitto dentro, e inevitabilmente si perde nel nulla.7

Oltre che modelli letterari, i due autori rappresentano per Berto presenze rassicuranti: «Mi pareva di avere alle spalle Svevo e Gadda, ed era a mio avviso una buona compagnia».8

Il legame del Male oscuro con La coscienza di Zeno è evidente, oltre che nel carattere comune di «autocartella clinica» a cui si è già fatto cenno, anche da altri elementi forti: innanzitutto la cen-tralità dell’evento della morte del padre (che nel romanzo sve-viano occupa un intero capitolo), l’antagonista che sottraendosi fisicamente alla lotta diventa inattaccabile; ma anche la profonda ambivalenza che segna i rapporti del narratore con il prossimo (i parenti, i medici, gli intellettuali, le donne e in particolare la moglie) e in generale i suoi comportamenti. È impossibile non pensare a Zeno quando il narratore, fermatosi a riposare nella casa natale durante la malattia del padre, racconta di aver sen-tito la bocca bruciare a causa delle molte sigarette fumate, e ciò nonostante di essersene accesa un’altra (p. 42). Il fumo come coazione autodistruttiva: ovvero, un implicito omaggio a Svevo.

Legami che tuttavia non si riducono a semplici echi letterari, ma che rivelano un intimo intreccio tra letteratura e vita. Lo conferma il fatto che Berto, che nel romanzo scrive ‘psicoanali-si’ e non ‘psicanalisi’, dichiara di non sapere se su questa scelta

7 Ibid., p. 415.8 berto, Appendice a Il male oscuro, cit., p. 418.

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abbia influito di più la targa «Istituto di Psicoanalisi» nella qua-le si era imbattuto per tre anni recandosi dal suo dottore, o la lettura di Svevo che scrive, appunto, ‘psicoanalisi’.9

Il riferimento a Gadda è ancora più esplicito. Dalla Cognizione del dolore Berto ricava il titolo del romanzo, e la prima delle tre citazioni poste in epigrafe:

Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato.

Se Berto dichiara esplicitamente di inserirsi nel solco dei due romanzieri, egli però rivendica anche la propria originalità, sia sul piano formale che tematico. La sua opera da un lato presen-ta uno stile e una struttura del tutto originali; dall’altro conduce l’analisi del profondo a un livello di profondità e di “verità” del tutto inaudito:

Il mio libro ha dei precedenti illustri nella nostra narrativa: prima di tutto La coscienza di Zeno di Svevo e poi La cognizione del dolore di Gadda, aborto di romanzo ma mirabile descrizione d’un nevrotico. Io seguo le loro strade, però con un’assoluta indipendenza di modi narra-tivi e con una preparazione del tutto svincolata dalla letteratura, poiché racconto un’esperienza personale. Inoltre credo che nessuno prima di me si sia spinto così a fondo, senza preconcetti né divieti, nell’analisi di un uomo. Se la malattia del protagonista era annidata nell’odio per il padre, nelle funzioni sessuali, nell’ansia di trovare Dio, nei meccanismi intestinali, negli abissi della masturbazione, nell’avvilimento di fronte ai radicali, nell’esaltazione del primo bacio, nel terrore dell’omoses-sualità, nell’ossessione del cancro, nella smodata ambizione, nei tor-

9 G. berto, Soprappensieri. I complessi della psicoanalisi, «Il Resto del Carli-no», 24 aprile 1965.

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bidi stimoli segreti, ebbene lì bisognava che io l’andassi a cercare col coraggio di andare il più possibile in fondo, non dimenticandomi ciò che il mio analista mi aveva insegnato: qualsiasi cosa fosse venuta fuori, sarebbe stata comunque qualcosa attinente all’uomo. Ecco, proprio questo è ciò che può dare una giustificazione al mio libro e in particolar modo alle sue parti più crude e diciamo pure sgradevoli: la validità ver-so tutti, l’esplorazione di una parte di noi stessi che forse non abbiamo il coraggio di guardare, ma c’è, esiste in noi, e nasconderla non serve che a renderci sempre più ammalati e infelici.10

Un atteggiamento antitetico, dunque, rispetto a quello dei narratori bugiardi e inaffidabili trattati nella sezione precedente di questo saggio: l’autore qui si impegna coraggiosamente nella ricerca di una verità profonda e autentica, proponendo al letto-re un patto di reciproca fiducia e lealtà, all’insegna di un ideale di “umanità” scevro di qualsiasi moralismo.

3. tra monoloGo e dialoGo interiore: la struttura

Il male oscuro è un romanzo assolutamente innovativo per struttura e tecnica narrativa. Si presenta infatti come un lungo e ininterrotto monologo, senza alcuna forma di articolazione in-terna (suddivisione in parti o sezioni, titoli), fatto salvo per qual-che pausa rappresentata da stacchi tipografici che richiamano timidamente la tradizionale articolazione in “capitoli”. La nar-razione procede come una travolgente confessione-fiume, fatta di periodi lunghissimi quasi privi di punteggiatura e costruiti attraverso il sistema delle libere associazioni freudiane.

Fin dalle prime pagine, l’autore mette in relazione la sua tec-nica narrativa con il procedimento psicoanalitico. La sua è una

10 berto, Appendice a Il male oscuro, cit., p. 419.

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sorta di scrittura automatica che porta alla luce gli elementi del suo profondo, di cui è diventato consapevole con la malattia prima e con la cura poi:

e invero ho l’impressione che la storia in certo qual modo si scriva da sola, cosa che non contrasta insanabilmente con le dottrine nominate poco fa, o almeno con la cosiddetta parapsicologia, e in effetti accade che fatti e pensieri sgorghino in gran parte automaticamente da quelle oscure profondità dell’essere dove la malattia prima e la cura poi sono andate a sfruculiarli fino a fargli venire questa immoderata voglia di esternarsi della quale mi sembra d’essere passivo esecutore, nel senso che non le presto se non la mia diligenza espressiva, e diciamo pure stile, che in meno dolorose circostanze mi avrebbe portato chissà do-ve, sul cammino della gloria intendo dire (p. 4).

E tuttavia, questa confessione, che dapprima spiazza e poi travolge il lettore, non è propriamente un monologo. Essa vuole riprodurre la modalità del dialogo psicanalitico, come rivelano gli ampi passi in cui l’io si rivolge a un tu. Ma qual è il tu a cui il narratore si rivolge? In realtà si tratta di un dialogo a più livelli: innanzitutto con l’analista, interlocutore presente ma silenzioso, a cui egli si rivolge facendo esplicito riferimento al linguaggio e alle categorie freudiane:

insomma col fatto che io bene o male sono riuscito a passare la secon-da ginnasio mio padre ha fatto un bel capitombolo nella mia stima e contemporaneamente il mio Io si è affermato con straordinaria indi-pendenza rompendo schiavitù sia divine sia umane, oh come potrei inebriarmi della mia peccaminosa libertà, e invece c’è lì il Super-Io che sta a guardare i miei errori e li immagazzina accumulando materiale prezioso per la futura nevrosi (p. 319)

In questo senso si può interpretare il fatto che i personaggi che interagiscono con il narratore sono tutti senza nome: il pa-

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dre è «il padre» o «il padre mio», la donna che sposa è prima «la ragazzetta» e poi «mia moglie», lo psicanalista è «il vecchietto» o il «medico».11 Scelta che traduce l’idea che nella confessione psicanalitica contino non i nomi, ma i ruoli. Unica eccezione, la figlia, che il narratore decide di chiamare «Augusta», dandole il nome della madre (che è anche il nome, nel romanzo di Svevo, della moglie di Zeno, rappresentazione della salute). Pur entro lo schema del complesso edipico che si rinnova, la bambina rap-presenta l’unico affetto sano e disinteressato, capace addirittura di fargli vedere in una nuova luce, cioè in una prospettiva non narcisistica, la figura del padre morto:

ad ogni modo fatto è che io ero andato avanti nella vita senza amore per il padre pareva e quindi senza gran che curarmi dell’eventuale esi-stenza di un amore del padre per me ed ora capita che se mia figlia si ostina a ficcarmi le dita negli occhi per tenermeli aperti a forza, o se io la faccio ballare sui miei ginocchi canticchiando come un cretino trot-ta trotta bambinella, o se lei mi chiede baci come fa frequentemente riempiendomi di felicità di colpo riemerge dal fondo dei quarant’anni nel frattempo passati un padre mai percepito prima al quale ficco i miei piccoli diti dentro gli occhi, o che mi fa saltare sulle sue ginocchia dicendo trotta trotta cavallino, santo cielo anche lo stesso identico tono di voce, e la cadenza se ben ricordo (pp. 206-207)

Un lungo dialogo con l’analista, dunque, ma non solo. C’è un altro interlocutore presente ma silenzioso, a cui il narratore si rivolge ininterrottamente: ed è il padre, centro del racconto e presenza continuamente evocata, origine del senso di colpa, del desiderio di gloria, del timore del fallimento, del «male oscuro»

11 Del resto già nel breve romanzo del 1948 Le opere di Dio i protagonisti sono quasi sempre nominati come «padre», «madre», «nonno», «nonna», palesando «l’intento paradigmatico della vicenda» (cfr. p. CuliCelli, La coscienza di Berto, Firenze, Le Lettere, 2012, p. 99).

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che opprime l’io narrante. Come e più del dottore, il padre è una presenza occulta e silenziosa, a cui il narratore si rivolge ossessivamente, con i toni più diversi (dalla preghiera all’ironia, dalla commozione al sarcasmo), senza tuttavia ricevere rispo-sta. La morte del padre, evento scatenante della nevrosi, rap-presenta il sigillo finale posto dalla crateré anánke, dalla «dura necessità»,12 sulla decennale storia di un dialogo mai riuscito: prima, mentre il padre era in vita, perché intentato ed evitato, ora perché impraticabile, impossibile:

mio Dio tutta la mia vita non era stata che una serie di infingardaggini nei confronti del padre fino a questa ultima fuga nel momento in cui stava per crepare (p. 50)

il peccato che avevo da scontare con così scrupolosa puntualità non era necessario che mi affaticassi il cervello per scovarlo, era rimasto lì tutto quel tempo sotto pelle, sotto ogni membrana pensante del mio cervello, e diciamo pure nelle pieghe della mia coscienza ammesso che ne avessi una anche in quel periodo di condotta dissoluta, era cioè la fine del padre mio che veniva a galla, la mia fetente viltà nel lasciarlo solo con la sua morte crudele (p. 100)

Con la morte, la lotta contro questo interlocutore onnipre-sente e irraggiungibile diventa impari, e assume proporzioni ontologiche: il padre terreno si sovrappone con il Padreterno, con il Dio da cui il narratore credeva di essersi liberato negli anni giovanili e che invece torna a perseguitarlo con il senso del peccato e della colpa:

12 Per citare l’espressione omerica usata da Gadda proprio a proposito di Berto: «Il male oscuro è oscuro quanto il dolore che fa strazio di noi allorché ci sentiamo oggetto di reiterate percosse o ferite, di insistite offese. È il logorio a cui ci sommette di giorno in giorno, d’ora in ora, la nostra “Erlebnis”, l’esperienza del vivere, la pena o la fatica durata, la “dura necessità”». Il testo di Gadda, pubbli-cato in «Terzo Programma», i, 1965, è ora leggibile come Prefazione all’edizione citata de Il male oscuro, pp. v-xv; la cit. a p. vii.

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ma io non posso cavarmela così a buon mercato, io devo andare in chiesa e chiederlo direttamente a lui se esiste o no, mi inginocchio come per pregare e gli dico se esisti devi distruggermi avanti distrug-gimi se ne hai il coraggio, folgorami come facesti con Saulo sulla via di Damasco per salvarmi oppure mandami secco all’inferno come ti pare ma fammi qualcosa perché io ti bestemmio, vengo qui nella tua casa a bestemmiarti e tu non mi fai niente, e insomma a forza di ragionare in questo modo mi libero dalla fastidiosa presenza di Dio sicché ora non ho più paura dell’inferno o di addolorare il Signore che si mette tra me e i miei piaceri, sono libero io ma c’è il Super-Io anche se natu-ralmente non lo so, ossia c’è il rimorso per la cattiva azione compiuta, l’amarezza dell’appagamento, la rabbia per la debolezza della carne, l’ansia della punizione (p. 318)

Il romanzo è tutto percorso dalla sovrapposizione tra le due figure, specie nelle invocazioni dirette al «padre mio» intessute di citazioni e allusioni liturgiche e scritturali, da Domine non sum dignus a in manus tuas commendo spiritum meum agli echi del Padre nostro.

Si legga il passo in cui, in ospedale, in attesa di essere sot-toposto a un’operazione chiururgica che poi si rivelerà inutile, il protagonista, «lasciato solo a gemere sul lettino in un gelido corridoio male illuminato» (p. 119), invoca l’aiuto divino:

padre mio perché non allontani da me questo calice, dico padre che sei nei cieli e non tu che stai nella tua cassa di noce che m’è costata invano un occhio della testa, vedi quanto sei entrato in me padre terreno se penso ai quattrini anche nei limiti estremi dell’agonia, e doppiamente rimpiango di non aver fatto testamento perché ci avrei espresso pure la volontà di venir seppellito con la minore spesa possibile nel cimi-tero popolare di Prima Porta, mentre ora sono certo che a qualcuno verrà l’idea di trasportarmi chissà quanto costosamente al paese natale magari per collocarmi in una definitiva residenza borghese accanto a te (pp. 121-122)

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Una preghiera al «padre» la cui ambiguità è inizialmente chiarita con la precisazione che si tratta del Padre del Cielo, salvo poi proseguire rivolgendosi proprio al padre terreno, con il conseguente rotolare precipitoso di idee fisse e manie (qui, la morte, strettamente intrecciata al denaro).

Ma questo dialogo con un interlocutore invisibile, amato e odiato al tempo stesso, di cui si teme e insieme si desidera il giudizio, è anche il rapporto dello scrittore con il suo pubblico, con i suoi lettori.

La scrittura, come la prassi psicoanalitica e come la confessione,13 è una forma ibrida, a metà tra il monologo inte-riore e il dialogo immaginario, in occasione della quale l’interlo-cutore, ossia il lettore, è fisicamente assente, lontano nello spa-zio e nel tempo. Questa distanza rende possibile per l’autore il processo di estrinsecazione di sé, nella speranza di trovare in un confidente ideale comprensione e solidarietà; e tuttavia, porta con sé anche l’ansia di un giudizio imperscrutabile, ed è fonte di profonda angoscia per chi, come Berto, è ossessionato dall’idea del «capolavoro» e dalla «gloria».

4. lo stile, tra innovazione e tradizione

Si è già accennato alla genesi del Male oscuro: dopo un lungo silenzio, Berto scrisse il romanzo di getto, quasi in un’esperienza di scrittura automatica:

13 In più luoghi Berto paragona la psicoanalisi alla confessione: «Prendiamo la confessione che si fa al prete e quella che si fa all’analista: sono due cose d’una somiglianza sconcertante, non solo come tecnica ma anche come finalità» (G. berto, Soprappensieri. Peccati veniali, in «Il Resto del Carlino», 16 maggio 1965). Esse sono accomunate dal medesimo meccanismo di rivelazione e di occultamen-to: durante l’ammissione di colpa il confessore è dietro la tendina, e allo stesso modo l’analista è alle spalle del paziente mentre quest’ultimo si abbandona alla libera associazione di idee. È come se entrambi non ci fossero.

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Lo buttai giù in Calabria, in un luogo isolato che si chiama Capo Va-ticano, impiegando poco più di due mesi di tempo, senza gravi diffi-coltà. Era come se avessi scoperto il bandolo d’un filo che mi usciva dall’ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po’ male si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male. Ricordavo le parole del Prometeo incatenato che poi ho voluto mettere sul frontespizio del libro: “il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”. La grande paura era di fermarmi e forse fu questa paura che mi fece trovare un modo di scrivere, sembra, abbastanza nuovo: pe-riodi interminabili che corrono per pagine e pagine senza punti, con pensieri che si collegano l’uno all’altro in apparente libertà – sono, in fondo, le associazioni della psicoanalisi – ma con un costante deside-rio di ordine, di logica, di chiarezza.14

Nasce così uno stile fluviale, sorta di inarrestabile stream of consciousness fatto di periodi lunghissimi in cui le frasi si suc-cedono abbandonando il sistema di connessione logica e cro-nologica e affastellando pensieri e ricordi con un continuo spo-stamento tra il piano del presente e il piano del passato. Una scrittura che travolge ogni misura sintattica tradizionale, così come l’alternarsi dei tempi verbali: se infatti generalmente il presente domina come tempo del racconto, alternato al passato per i ricordi, in alcune parti il sistema cambia, rendendo labile e fluido il senso della durata temporale.

La punteggiatura è quasi soppressa: rare le virgole, rarissimi i punti fermi. Viceversa, abbondano le congiunzioni e i connet-tivi (anzi, sicché, sebbene, dal momento che, sennonché, ossia, però, invero, in effetti, nel senso che): «nodi che compattano il periodare, riempitivi che esorcizzano la tentazione delle pause, affluenti che impediscono al discorso di prosciugarsi».15

È una narrazione continuamente mossa da spinte centri-

14 berto, Appendice a Il male oscuro, cit., p. 417.15 CuliCelli, La coscienza di Berto, cit., p. 162.

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fughe: impossibile individuare un filo conduttore, un centro. Il racconto si costruisce attraverso un affastellarsi di digres-sioni: in quelle che all’apparenza si presentano come divaga-zioni, talvolta deliri, sono affrontati in realtà i temi vitali del romanzo: la morte, il sesso, il denaro. Le ragioni più profonde e inconfessate emergono nella periferia del testo, che diventa centro.

Berto stesso è consapevole del carattere innovativo del suo stile, pur confessando il proprio timore, terminata la prima ste-sura del romanzo, di trovare esperienze analoghe in altri autori, da cui poteva esser stato inconsciamente condizionato:

Prima d’andare avanti era però necessario vedere un’altra cosa, cioè se per caso altri non avessero già scritto nello stesso modo. Temevo Joyce, che conoscevo fino a Dedalus, non oltre. Misi in bella copia una trentina di cartelle e le portai a un critico di mestiere, di quelli che sanno press’a poco tutto. Esaminò il mio scritto e giudicò che non vi era alcuna connessione con Joyce. Casomai ci potevano essere delle affinità con i francesi dello sguardo e del nuovo romanzo, ma questo non mi faceva paura: non li conoscevo, ed erano troppo nuovi perché potessero essermi arrivati per via indiretta.16

Ma non è certo il gusto dello sperimentalismo a muovere il nostro autore. A dare valore conoscitivo e contenuto umano al suo stile è la constatazione che questo è in grado di avvicinar-si con maggiore “verità” alla natura complessa e ambivalente dell’animo, in una visione che risente certo della psicanalisi ma anche dell’idea gaddiana del mondo come ‘garbuglio’:

Sono arrivato a capire che non vi è niente di semplice a questo mon-do. I nostri sentimenti, i nostri pensieri sono terribilmente complicati

16 berto, Appendice a Il male oscuro, cit., pp. 417-418.

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e pieni di ambivalenze e contrasti. Un continuo movimento, anche dialettico. È molto difficile, allora, dire che una cosa è così; in realtà una cosa è così e anche cosà, un sentimento è a questo modo e anche a quest’altro modo e così di seguito, all’infinito.17

È Berto stesso a suggerire che all’origine di questo stile inno-vativo sia stata la «paura di fermarsi». Il suo, più che un flusso di coscienza, è un compulsivo e necessario flusso di scrittura, che risponde coattivamente a una «smania di scrivere», continua-mente minacciata dall’impasse del foglio bianco:

vedrai scriverò subito il capitolo quarto e poi il quinto e il sesto, io credo che se faccio il sesto poi arrivo senz’altro alla fine, poi dovrò limare si capisce ma l’importante è buttare giù fino alla fine perché il tempo di limare lo si trova sempre, ma non vorrei che si sbagliasse a giudicarmi per questo ossia per questa smania di scrivere (p. 225)

Il protagonista del Male oscuro è infatti ossessionato da una storia che non riesce a completare, non essendo capace di supe-rare lo scoglio del quarto capitolo:

stavo lì con quei tre capitoli che ormai non rileggevo più tanto erano perfetti e me li accarezzavo da fuori sulla cartella blu dove li tene-vo custoditi pensando quando sarò guarito andrò avanti, ma nel mio inconscio c’era qualcosa che diceva sta’ a vedere che sei capace di scrivere opere d’arte proprio tu che al bar Venezia t’impappinavi a dire la poesia, ricordati come t’impappinavi, e in realtà nei momenti di maggiore assennatezza io temevo molto di non essere adatto a scrivere capolavori però non potevo mica ammetterlo così alla buona, dovevo per forza trovare una scusa (p. 360)

17 La citazione è tratta da a. botta, Il mio tipo di lettore, in «L’Europeo», 51, 15 dicembre 1966, p. 77.

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Ecco dunque svelato il profondo rapporto tra nevrosi e scrit-tura, o, meglio, tra nevrosi e paura di scrivere:

La nevrosi è una malattia basata sulla paura. Paura di tutto: della mor-te, della pazzia, della gente, della solitudine, del movimento, del futu-ro. Per uno scrittore è, particolarmente, paura di scrivere.18

La scrittura, dunque, anzi, questa scrittura torrenziale, che rompe gli argini della punteggiatura e della sintassi tradizio-nale, ha una funzione terapeutica: serve a liberare l’autore da quell’ipertrofico Super-Io che a lungo lo ha paralizzato con il suo rigore. Ed è proprio questa tensione tra smania di scrivere e fobia di fermarsi che percorre in filigrana l’andamento sintattico del romanzo, e che raggiunge l’esito di travolgere e risucchiare contemporaneamente autore e lettore.

Finora si è insistito sul carattere innovativo dello stile di Berto. In realtà, al di là dell’impressione di accumulo e sconfi-namento di ogni ordine e misura, la base linguistica e sintattica del romanzo è regolare: grammatica, morfologia verbale, rego-le della sintassi complessa sono rispettate; anche il lessico, pur nella tendenza alla mimesi dell’oralità, si attesta su un registro medio, senza vistosi sperimentalismi. È stato osservato che il romanzo potrebbe essere riscritto rimettendo al suo posto la punteggiatura, e il risultato sarebbe che l’impressione di caos verrebbe ridotta senza apportare modifiche sostanziali.19

Del resto, l’autore stesso in un’intervista dichiarò di tenere come riferimento, per la sintassi, gli autori latini: «Io scrivo at-taccandomi ad una sintassi non italiana, ma addirittura latina. Non rinuncio a un piuccheperfetto congiuntivo, non appena ciò

18 berto, Appendice a Il male oscuro, cit., p. 415.19 Coletti, La sintassi della follia nella narrativa italiana del Novecento, cit.,

p. 277.

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mi sia possibile».20 Il ritmo e la cadenza della sua prosa risenti-rebbero soprattutto delle assidue letture della prosa classica e di Boccaccio. Il suo modo di narrare risulta così sospeso tra inno-vazione e tradizione, tra flusso di coscienza e sintassi latina.

5. traGiCo e ComiCo: idee Coatte e umorismo

Presentando Il male oscuro a un anno dalla pubblicazione, Carlo Emilio Gadda individua il nucleo dell’arte di Giuseppe Berto nella capacità di dar forma all’ossessione, attraverso «il moltiplicato, insistito ritorno alla pagina delle idee coatte».21 Senza soffermarsi sulla questione della presenza, nell’opera di Berto, del suo romanzo, La cognizione del dolore, e del suo pro-tagonista Gonzalo, memorabile figura di “ossesso”, Gadda uti-lizza una lunga metafora venatoria per descrivere il rincorrersi nel tessuto del romanzo delle fissazioni ricorrenti:

L’opera di Giuseppe Berto si contempera […] di un’arte del raccon-tare che snida accanitamente il disperso branco dei motivi, dei temi reali, con la muta latrante delle idee implacabili, le sue proprie dovute alla nevrosi e quelle di certi altri sciagurati che la follia è pervenuta ad asservire. […] Il branco degli atterriti motivi si accresce, cioè sembra moltiplicarsi via via nel tempo della caccia, di cui Berto si fa “donno e maestro”. La consecuzione cronica del periodare pressoché ansi-mante ci dà l’ansimo delle immagini in corsa, il cinematismo felice dei caratteri e dei personaggi in continuo movimento, fisico e psichico.22

20 C. tosCani, La voce e il testo: colloqui con Bassani, Bernari, Berto, Brignetti, Chiusano, Dessì, Primo Levi, Moretti, Pomilio, Prisco, Silone, Strati, Tombari, Uli-vi, Milano, Istituto di propaganda libraria, 1985, p. 62.

21 Gadda, Prefazione a Il male oscuro, cit., p. v.22 Ibid., pp. v-vi.

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Nella congerie magmatica e franosa del dettato di questo romanzo, sono proprio le idee coatte che assediano implacabil-mente l’io narrante a dare all’opera un senso di unità: è l’osses-sivo, martellante ricorrere di immagini e sintagmi a permettere al lettore di seguire con il fiato sospeso il narratore lungo tutta la sua personale Via Crucis, stazione dopo stazione.

La scrittura dell’ossessione si traduce in un attento e serrato gioco di ripetizioni e ricorrenze, di più o meno ampie variazioni sul tema, che investono un nucleo di immagini – quelle del pa-dre sdraiato sul lettino operatorio o nella cassa da morto, quelle legate alle fobie (del cancro, delle «vertebre lombari», del suici-dio, l’agorafobia nelle più fantasiose declinazioni), quelle legate all’immaginario del peccato, della colpa e della punizione… – e si condensano in sintagmi e parole che incarnano la nevrosi del protagonista, snocciolandone gli elementi come grani di un ro-sario: basti pensare a «gloria» e «capolavoro», su cui si cataliz-zano le angosciose frustrazioni della scrittura letteraria, o a tutto il campo semantico della religione – il «cielo» e l’«inferno», il «peccato» e la «punizione», «Dio» e il «Padreterno» – per cui l’intero romanzo è leggibile come una lunga, disperata preghie-ra a un Dio assente.

Ciò che emerge con dolorosa evidenza è il senso di colpa, che si traduce nell’interrogativo che come un martellante refrain percorre tutto il romanzo, identico o variato:

cosa mai avrò fatto di male perché debba capitarmi una cosa simile (p. 99)

cos’avrò fatto di male mica l’ho ammazzato io mio padre (p. 111)

ma che male gli ho fatto in fin dei conti (p. 126)

mamma mia che male posso aver fatto io perché mi capitino addosso siffatte sventure (p. 128)

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Qui la voce del narratore si espone in tutta la sua fragilità, quasi in toni infantili. Altrove l’idea della punizione imminen-te generata dal rimorso si materializza nelle fattezze del «dio Huitzilopotli che il tuo sangue fiuta» (p. 120): una citazione colta (il verso è tratto dalle Odi barbare di Carducci) che tor-na più volte, ossessivamente, con la solennità tragica dello stile formulare. Lo stesso discorso valga per le allusioni e citazioni scritturali che, come si è visto, rinforzano il parallelismo tra il padre terreno e il Padreterno, tra il senso di colpa (esistenziale) e quello del peccato (cristiano).

L’incalzare implacabile delle ossessioni dà una connotazio-ne tragica al romanzo e al suo protagonista, sorta di moderno Oreste perseguitato dalle sue personali Erinni: e si ricordi, come segnala Michele Mari, che il termine ‘ossessione’ è da ‘assedio’, ma il suo nome scientifico, anancasma, è da ‘destino’, anánke.23

A controbilanciare questa dimensione tragica vi è però la pre-senza dell’umorismo, che in tutto il romanzo svolge la fondamen-tale funzione di compensare gli eccessi del pathos attraverso uno sguardo distaccato che sa cogliere anche il ridicolo delle situazio-ni narrate. Anche nelle situazioni più angosciose, il narratore del Male oscuro è in grado di ridere di sé e della drammatica realtà del mondo, in cui, per citare Gadda, «i cittadini e cittadine della Città folle […] vengono colti e ritratti nei loro giudizi sbaglia-ti, nei loro movimenti sbagliati, e beninteso nel loro patimento carnale e mentale, quasi come dei contravventori alla legge colti sul fatto».24 Non si tratta, precisa sempre Gadda, di satira, bensì di uno «humour non cercato, non pre-orchestrato, ma sempli-cemente accettato dalla semplice registrazione dei fatti e dalle cartelle cliniche dei caduti “in hac lacrimarum valle”».25

23 m. mari, I demoni e la pasta sfoglia, nuova edizione con testi inediti, Roma, Cavallo di Ferro, 2010 (prima ed. 2004).

24 Gadda, Prefazione a Il male oscuro, cit., p. vi.25 Ibid., p. vii.

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Anche per il suo uso dell’umorismo, strettamente intreccia-to all’elemento tragico, Berto indica i suoi maestri in Svevo e Gadda:

Nonostante racconti la più straordinaria sequela di disgrazie che pos-sano capitare a un uomo, Il male oscuro non è, spero, un romanzo deprimente e neppure noioso. Ha, spero, un continuo umorismo che si mescola agli avvenimenti più tragici e tristi. Non è certo un’inven-zione mia: Svevo e Gadda ci sono arrivati assai prima e meglio di me, e d’altronde un nevrotico non potrebbe scrivere se non fosse sostenuto dall’umorismo: una fortuna in mezzo a tanti malanni.26

E tuttavia, l’umorismo di Berto si differenzia radicalmente dall’ambigua e sfuggente ironia dello Zeno sveviano, così come dalla «programmata derisione»27 gaddiana, per il suo essere so-stanziato di un senso profondo di pietà e umanità.

Mi limiterò qui a un esempio in grado di illuminare la funzio-ne di rovesciamento e bilanciamento stilistico svolta nel roman-zo dall’umorismo. Si è già accennato alla scena in cui il prota-gonista, steso su un lettino d’ospedale in attesa di un intervento chirurgico, si abbandona a una preghiera al Padreterno/padre terreno. Il parallelismo così avviato prosegue con l’accostamen-to tra le due corrispondenti figure filiali: quella del Christus pa-tiens sulla croce e quella del figlio malato, o quantomeno credu-to tale, che sta per essere operato. L’intervento chirurgico viene infatti paragonato a un martirio rituale: il paziente è la vittima che deve essere immolata per placare le ire di una divinità offe-sa; il chirurgo si presenta ai suoi occhi come un demiurgo che, arrecandogli sofferenze, gli consentirà di espiare i suoi peccati;

26 berto, Appendice a Il male oscuro, cit., p. 419.27 L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’autore, nell’Appen-

dice a C.e. Gadda, La cognizione del dolore, Milano, Garzanti, 1994, pp. 197-203: 197.

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medici, infermiere e suore si muovono intorno a lui silenziosa-mente, con la solennità di una cerimonia religiosa:

dopo che gli infermieri mi hanno spinto dentro la camera operatoria per trasferirmi sul tavolo sotto le lampade, intorno a me fervidamente si muovono silenziose e vorrei sperare anche precise persone, suore e infermiere e medici con solennità come preparandosi ad una funzione religiosa, e questo mi viene da pensarlo un po’ per la presenza delle suore e un po’ perché la santa messa è pure un sacrificio, anzi è il sacri-ficio per eccellenza stando a ciò che mi hanno insegnato in collegio, e certo senza pretendere di paragonarmi neppure alla lontana col figlio di Dio un po’ vittima mi sento anch’io (p. 123)

Tuttavia il pathos è esorcizzato dall’ironia: «è proprio il ridi-colo a segnare il solco tra l’umano e il divino».28 Quando infatti il personaggio, suggestionato dalla bellezza del cerimoniale, è al culmine della commozione e abbandona la preghiera in italiano («padre mio nelle tue mani in fondo così poco pietose rimetto l’anima», p. 124) per recitarla in latino («in manus tuas com-mendo spiritum meum», ibid.), «ecco che quel fesso di aneste-sista rovina la solennità della funzione perché sul più bello gli scappa un tubicino» (ibid.): il sangue del paziente comincia a zampillare e l’anestesista si affanna per porvi rimedio, impaccia-to e tremante «sotto gli occhi ultraterreni del vegliardo», cioè del chirurgo-demiurgo.

Non a caso a questo passaggio del romanzo faceva riferimen-to Indro Montanelli scrivendo che, persino «disteso sul tavolo operatorio, Berto descrive se stesso e le proprie viscere scoper-chiate con un occhio che piange e un occhio che ride».29

28 CuliCelli, La coscienza di Berto, cit., p. 141.29 i. montanelli, Berto, in «Corriere della Sera», 8 aprile 1964.

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6. rondini sul filo: la Gelosia Come ossessione

Il romanzo Rondini sul filo di Michele Mari (1999)30 mette nuovamente in scena un io che parla, l’autobiografico «m.m.», dando vita a un imponente, travolgente e sconcertante mono-logo, il cui tema centrale è l’ossessione. L’autore, del resto, si inscrive nella categoria degli “scrittori-ossessi”, così delineata nel saggio intitolato I demoni e la pasta sfoglia:

Scrittori al servizio della propria nevrosi, pronti ad assecondarla e a celebrarla: scrittori che hanno nell’ossessione non solo il tema prin-cipale (e insieme il metodo con cui anche la più semplice esperienza è assottigliata in pasta sfoglia verbale), ma l’ispirazione stessa, sì che nessuna interpretazione mi pare fuorviante come quella che ne ricon-duce l’opera a un intento salvifico, quasi la scrittura sia solo un surro-gato della pratica psicoanalitica. Al contrario, è proprio scrivendo che essi finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signo-reggiano, finché, posseduti, essi diventano quegli stessi demoni.31

Lo scrittore ossesso è incalzato dai suoi demoni a trasfor-mare, attraverso il lavoro stilistico, gli ingredienti a volte banali della sua esperienza in sottile, pregiata pasta sfoglia: ma pro-prio perché di ispirazione demoniaca, la lucida sfoglia burrosa non uscirà fragrante d’innocenza dalle mani del suo fattore, ma recherà l’impronta del rovello che l’ha generata. L’ossessione, quindi, non tanto (o non solo) come tema esplicito dell’opera letteraria, ma come sostanza intrinseca, sorta di dna che ne im-pronterà forma e stile:

Questo significa che lo scrittore-ossesso parlerà della propria osses-

30 m. mari, Rondini sul filo, Milano, Mondadori, 1999. D’ora in poi mi limito a indicare il numero di pagina.

31 mari, I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 17.

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sione anche quando non ne fa un tema esplicito, anche in àmbiti inso-spettati: il Gadda delle norme radiofoniche, ad esempio. Come sa chi ci sta, l’ossessione è soprattutto una forma, come lo schema molecola-re di un cristallo o un retino ottico. A quella forma soggiacerà tutto, dalle cose di cui si vuole scrivere alle parole con cui scriverne alla sintassi alla punteggiatura (i tre pun-tini di Céline, “l’invention du siècle”, certo la più necessaria che io ricordi).32

Come Il male oscuro di Berto, anche Rondini sul filo è un romanzo in cui si sente ininterrottamente l’ansimo dell’io nar-rante braccato dalla torma implacabile delle idee coatte: ma la patologia è diversa. Ai tanti fantasmi di Berto si sostituisce qui un’unica, esclusiva ossessione, che tutto travolge e risucchia: l’amore per una donna bellissima e misteriosa, una «strega» dai «vasti occhi egiziani circondati di ombra» (p. 7), con la quale il protagonista ha una relazione appassionata e corrisposta. Ma la possibilità di un amore appagante viene compromessa dalla «malattia» del narratore, una forma di gelosia retrospettiva lace-rante e invincibile imposta come un doloroso destino dalla sua natura ossessiva, competitiva e maniacale:

e dunque, cresciuto così, ben convinto, fissato… intollerante, geloso, omicida per intima vocazione… decapitatore-castratore, avessi potu-to… pervaso da un antagonismo feroce, ogni donna una dea ogni uomo un nemico, gli elementi ci sono, si spiega da sé il mio dolore… (p. 124)

gli altri vivevano protetti dai proprî meccanismi mentali, ma io! con-sideriamo, geloso retrospettivo della i classe, con velleità retroattive… meritocrate estremo… ossesso iterativo-compulsivo… logomane pe-dante… sanguinario violento… ce ne sarebbe d’avanzo ma ancora!

32 Ibid.

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represso, compresso, adoratore delle dame avversatore degli uomi-ni… (p. 310)

Una malattia d’amore, dunque, che prende le forme dell’os-sessione per il passato della donna e per i suoi amanti. Un rovello autodistruttivo che avvia un’inesorabile requisitoria, avvelenan-do la relazione amorosa e distruggendo le certezze e l’equilibrio interiore dell’uomo. Ciò che impressiona è l’accanimento, l’ac-curatezza esasperata con cui il narratore ricompone le vicende passate dell’amata, come pezzi di un puzzle (e viene in mente il racconto intitolato Certi verdini pubblicato nella raccolta Tu, sanguinosa infanzia:33 un racconto maniacale-ossessivo, in cui l’arte del puzzle è presentata come una disciplina religiosa); in-sopprimibile coazione di una mente – si direbbe – educata fin dall’infanzia alla mania:

linee rigorose essenziali, pareti spoglie, serietà, ascetismo e pan sec-co, armonia in grigio et in silenzio, ordine e simmetria, progetto e sistema, assiologia per dovunque, così che son cresciuto, posso più dissentire, sono andato più in là anzi, se le matite non son temperate come spilli… se i fogli non sono perfettamente allineati… se non ho elencato ricapitolato le cose… non dormo! non vivo! se il mondo non è tolemaico impazzisco! (p. 124)

Ciò che segna il definitivo precipitare nel baratro, è la sco-perta di una lunga relazione, forse nemmeno passionale, della sua donna con un uomo indegno, un manager ricco e volgare appartenente a una categoria umana che il narratore ha sempre odiato e disprezzato, che non viene nominato se non per peri-frasi o per sigle («q.p.», ‘quella persona’, «n.n.»):

Quell’uomo… i primi tempi non volevo sapere il suo nome, poi l’ho

33 Milano, Mondadori, 1997.

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scoperto per caso su una busta, un rapido sillogismo, l’identificazione compiuta… mai riuscito a pronunciarlo però, solo perifrasi, insulti, pronomi, il più delle volte “quella persona”, alla lunga q.p., chia-mandolo cupì mi ci ferivo un po’ meno, oppure le iniziali n.n., cupì enne-enne, un designare per sigle… che l’ho ritrovato in un saggio di antropologia il fenomeno, di certi selvaggi, mai pronunciare il nome del nemico per non esporsi alla sua potenza, che si è vulnerabili nella pronunzia, come un implicito riconoscimento che gli rendi e allora quello ti frega, una testimonianza anche, sulla condanna a morte di un giovane Waùma che aveva detto “i Maori”, essi doveva dire, i nemici, dicendo i Maori li aveva introdotti nel campo, la pena dei traditori per lui, anche il mio sentimento così, tale quale, anche il modo di odiarlo, barbarico, folle, amigdale, lance, un’efferatezza un cruore, selci scheg-giate, bastoni… poter spiaccicargli la testa, escerpargli le membra… frugargli con una punta nel cuore… l’ho fatto morire migliaia di volte, in visione… mi visitava nei sogni ghignante e io mi vendicavo di gior-no nel massacro gaudioso… (p. 69)

Una scoperta che ha decretato la «morte» dello scrivente, come annunciano le prime righe del romanzo, con l’apparente paradosso della constatazione di una morte interiore la cui enti-tà si sarebbe rivelata solo molti anni più tardi:

… il 1981… successe allora… io non potevo saperlo… l’anno della mia morte, l’ho scoperto undici anni dopo… ora è un bel po’ che lo so, ne sto morendo di nuovo, ma è nell’81 che sono morto davvero… a poco a poco fino al gran giorno, il Giorno dei Morti… è così, non sarà mai diverso da così… (p. 7)

L’evento orribile e funesto accaduto il 2 novembre del 1981, che apre la narrazione (si tratta della «profanazione» della don-na per opera di n.n.), in realtà viene rivelato per gradi, con iterate operazioni di reticenza, dilazione e preterizione, in una angosciosa tensione tra coazione a dire e una strenua resistenza

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interna, che costringe l’autore a continui, affannosi appelli al lettore:

anche per questo non sopporto l’idea che nel 1981… ah! sono mica pronto… ci giro intorno ancora un po’… la prendo un po’ più da lontano… (p. 35)

nel 1981, siamo sempre lì… elemento importante il rifiuto del cibo, riesco mica a farci sopra un racconto, mi cade la penna… l’anno del-la mia fine, l’81… poteva tornarle prima l’anoressia… o dopo… no! l’81! quando si dice il destino… la convergenza di tutto… un male… un male vi dico! basta, nuovo argomento (p. 36)

poi mi visitava l’orrore, segmento ’81-’86, crollavo… me ne importava più niente, del novo, lo lasciavo andare… potevo mica ingannarmi così… sfogare sul malcapitato la disperazione per quello che… il vero male, il supremo… l’unico male… il mio nemico mortale… ah! tocca preterire un altro po’, vi chiedo perdono… capirete, più tardi… forse capirete… (p. 43)

adesso basta però, brutto menarla così, all’infinito… posso no girarci intorno a sta cosa… a sto cancaron d’un cancaro che m’ha segato la vita! mi ci devo buttare! per filo e per segno che dò inizio alla con-ta! la conta grave! basta con le preistorie, la storia! solo quella, alla cruda! se la volete la conto! è deciso, la conto! adesso! più tempo di pentirsene, dopo! una volta partito anderò! mi fermerò più! vi avver-to è penosa! avete saputo niente finora! bagatelle, al confronto! non dite che non vi avevo avvertito! oh basta un po’, sù, che incomincio! davvero! (p. 52)

ma perché mi perdo così, torno subito al dunque, è il momento, ci arrivo! quasi a sorpresa dopo tanto indugiare… mi si credeva più, naturale, e invece ci arrivo! ci siamo! (p. 122)

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7. desCensus ad inferos

Come si è visto, diversamente da Berto Mari non crede nella funzione terapeutica della scrittura, che anzi serve a incatena-re definitivamente l’ossesso al suo destino di dannazione. Per il protagonista di Rondini sul filo non c’è scampo: la lotta che ha ingaggiato è impari perché combattuta contro nemici che sono protetti dal tempo, resi eterni e invincibili dalla cortina della distanza. A lui che li combatte dal presente non resta che l’angoscioso e vano interrogarsi sul fato, su come tutto sarebbe diverso se un fatto anche infinitesimale si fosse inserito ad alte-rare la tragica catena degli eventi. Ed ecco che nel testo si affac-cia l’immagine gaddiana (leibniziana) della libellula che vola a Tokyo:34

Dopotutto è passato molto tempo… e allora? consuma mica gli spigoli delle cose il tempo, la prescrizione so neanche cos’è… anzi! che si dà un aggravio, nella distanza, un perfezionamento di pena, così lontano, così postumo come sono posso nemmeno puntargli una lama alla gola e sibilargli nella notte gelata Se ci riprovi sei morto, impunemente che ci ha provato! senza pur sospettare di me! la lontananza è dei classici, li critichi più… solo commentarli, se vuoi… un’aura arcana li fascia… vedi in un museo una rozza statuetta votiva, ti lascia indifferente, poi leggi sulla targhetta che ha cinquantamila anni, strabilii! ti inquieti, sì, da quella pietra promana inquietudine pura… la notte dei tem-pi, l’Erebo della Storia! l’Etrusco che ancora colpisce, la maledizione dell’Azteco! il passato è tremendo […] quando lei mi dice che son passati tredici, quindici anni mi incatena vieppiù… […] il furore mio,

34 La «libellula di Tokio», il cui volo «innesca una catena di reazioni che rag-giungono me» (C.E. Gadda, L’egoista, in I viaggi la morte, Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da D. Isella, Milano, Garzanti, 1988-94, p. 654), è uno dei più perspicui emblemi dell’idea gaddiana dell’inesauribilità del «diorama delle concause».

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che sarebbe bastato un leggerissimo clinamen per deviare tutta la se-rie, la libellula che vola a Tokyo… (pp. 207-208)

Non c’è possibilità di guarigione: il lettore viene risucchiato nel vortice che trascina il narratore sempre più a fondo, senza scampo: è la caduta libera di una mente sempre più sconvolta, fino al vero e proprio delirio.

Le catene delle ossessioni avvolgono come spire il protago-nista, che perde il proprio equilibrio, si fa sempre più greve e ostinato nei suoi labirinti mentali e arriva a manifestare i segni della pazzia.

Così, di fronte alla reazione disperata dell’amata, che ormai rinuncia a rispondere alle sue requisitorie, egli confessa di esse-re arrivato a rispondersi da solo, imitando la voce di lei:

che poi, anni e anni, tutte le sue risposte mi si son rivoltate, m’han fatto come un cemento dentro le viscere, un repertorio magato cui ho preso ad attinger da me, in autarchia… stremata, furente mi pone dei veti, parla più! risponde più! arrangiarsi! e io mi arrangio, mi rispon-do da me… con la voce sua, chiudo gli occhi e la evoco, la sua voce, le faccio pronunciare l’antica risposta che in quel momento mi preme, la stessa inflessione, i precisi vocaboli stessi… (p. 246)

O, interrogandosi sulla parola «amante» letta in una missiva, si lancia in un delirio grammaticale perdendosi in un labirinto di sigle sempre più indecifrabili:

mi visita assassina la parola amante, da quella famosa missiva? la li-tania è già partita, l’imbozzola e dentro la scioglie, l’annulla… aman-te! arriva, un impatto feroce, io vado: non participio presente sì sol sostantivo… e come sostantivo, senza alcuna pregnanza sensuale e vibrazion libertina… e in ogni caso, facendo parte di quella lettera, menzogna… non verbo-sostantivo senza pregnanza-menzogna, nonv.sostsenzpregn.menz, così cristallizzato l’oracolo è dato per sempre,

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classico e puro nella sua surrealtà, nnvsstsnzprgnmnz, da rivolversi in capo a libito (p. 247)

Questo progressivo aggravarsi assume i caratteri di un de-scensus ad inferos: dal carattere streghesco che da sempre segna il fascino dell’amata si passa al viaggio nel mondo infernale della magia nera. Fatti strani accadono al narratore e alla sua donna: «uno stillicidio beffardo di epifanie inesplicate» (p. 264), in un ormai incontrollabile miscuglio di elementi di cultura bassa e popolare (la Macumba brasiliana, le superstizioni popolari, la paura della possessione demoniaca, le apparizioni di donne bel-lissime che tentano di rapirlo) e riferimenti colti: in particolare, i “messaggi” affidati ai libri – Salammbô di Flaubert, À rebours e Là-bas di Huysmans – fino alla convinzione, inizialmente attri-buita alla donna, di essere vittima di una sorta di persecuzione direttamente inflitta dallo spirito del “cattivo maestro” Céline:

questo medesimo libro è maligno, l’opera di un senza-luce… il ma-estro pure, a sentir lei mi è nocivo… vi porgo pari pari l’idea che l’affligge, che in tutto questo ci sia la zampa adunca di Bardamu,35 sti tre puntini m’avrebbero consegnato a lui e alla sua cattiveria, organo-zimbello che sono… ch’io lo scimmiotti lo compiace e insieme lo di-sgusta, così mi cucina a suo modo… conviene con me che un libro così potevo scriverlo solo così, ergo era meglio non scriverlo… ma se anche, azzardo, non dovrebbe essermi grato Destouches,36 l’esplicito omaggio io dico? almen l’intenzione mi va riconosciuta, e se c’è… se vede, da lassù o da laggiù… sa anche che nessuno lo ammira quanto me… qua le legnate dialettiche che prendo! céliniano da quattro sol-di! se non ho ancora capito che quell’uomo era fatto per fare male a se stesso e ai suoi cari… per rovinare tutto ciò in cui credeva, per non creder più a niente… (p. 327)

35 Il protagonista di Voyage au bout de la nuit.36 Louis Ferdinand Auguste Destouches, il vero nome di Céline.

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Da una parte l’inferno irrazionale e superstizioso della magia nera; dall’altra, quello laico della chimica e della fisiologia. A un certo punto, infatti, il protagonista si decide ad andare da uno psichiatra:

quella sera capii che ero diventato pazzo, la settimana dopo ho inco-minciato ad andare dallo psichiatra, più di quattro anni ormai che ci vado, la diagnosi presto detta, nevrosi ossessiva con spiccata tendenza iterativo-compulsiva e presenza di aspetti psicotici, un disturbato al confine tra nevrosi e psicosi sarei, un Border-line! (p. 243)

Le sedute non entrano se non di striscio nella narrazione («io comunque argomento sedute vorrei tediarvi più, dopo Svevo, dopo Berto poi!...», p. 245): la proposta del dottore di curare la sua malattia con gli psicofarmaci viene inizialmente respinta, poi disperatamente accolta:

negai… questo non significa che io non abbia preso pastiglie, tran-quillanti, calmanti, due o tre al giorno anche quattro, anni che vado avanti così, roba che blandisce le cellule cerebrali avvolgendole di una patina grassa, indebolendo i legami tra l’una e l’altra, ecco, una rete smagliata ne viene, più lassa, lo psicofarmaco invece modifica la strut-tura stessa della cellula, mi è stato spiegato così, o la struttura o la rete, per ora è la rete, cellule-monadi ma intatte è una bella soddisfazione, sono però forse più calmo? scompensi linguistici invece! una parola per l’altra, amnesie, strani suffissi, diventar deficienti è comunque solo questione di tempo… una vita vissuta nell’orgoglio del mio 188 q.i., adesso lo sto sperperando… (p. 244)

Il pensiero del protagonista inizia così a fissarsi sulle sedi fisi-che in cui risiederebbe il suo male. Non diversamente dal Berto ossessionato dalle «cinque vertebre lombari», le «vertebre del suicidio», anche qui la sede del male viene individuata in un luogo del corpo, una zona del cervello:

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son lombrosiano sapete, anatomopatologista, uno che crede nei lobi nei plichi, nel ganglio tenebricoso ma sodo-oggettivo, organato… c’è un punto nel nostro cervello, si chiama giro cingolato, la zona delle ossessioni, quando è in sofferenza si accende, emette scariche nefaste, si potrà, dico, sopirlo? (pp. 297-298)

Tra fantascientifiche immaginazioni chimico-fisiologiche, in un’ansia definitoria che spazia dalla medicina alla farmacologia alla psichiatria, ormai lo scrivente celebra il proprio collasso psi-chico come una catastrofe cosmica. Nelle ultime pagine, la sua confessione si trasforma in un urlato delirio sul proprio cervello impazzito:

ma ora… qualcuno mi ascolti che sia medico e mago… ora ne va dell’ultima larva di equilibrio, un passo e ci sei, la psicosi! l’assedio-ossessione si perfeziona s’instaura nel soma, aminoacidi nuovi mole-cole strane dendriti deformi, ci siamo! la risonanza trofica eccede, ci siamo! la degenerazione transneuronica! ascolta, cigola l’ippocampo, l’ipotalamo soffre… il sistema limbico è andato, il caos sinaptico è ora! è immenso! da mille a diecimila sinapsi a neurone, per trenta miliardi di neuroni fate il conto da voi, la gran sarabanda! la confa-bulazione mnestica posso dire di starci, delirî che si fanno esperien-za, giureresti! eri tu! che c’eri! ti riguarda! è nell’engramma ormai… l’engramma mnestico! quando li hai torti strizzati arroventati per anni i giunti sinaptici si tumefanno, assoni dendriti fasci spinali piramidi nuclei si salva più niente, gli engrammi modificati per sempre! come parli? dove vai? qui, lungo il circuito di Papez, sto giro ippocampo-mamillo-talamo-cingolare, nel limbo! è qui la mia memoria sconvolta, la mia vita usurpata… cellule vili infingarde, vi siete lasciate invadere senza resistenza, vi passo in rassegna ma vedo solo le avanguardie ne-miche… vi ho dato il Lorazepam, niente! la Cloripramina la Paroxe-tina e la Fluoxetina, peggio! i ritmi circadiani sballati, un bruxismo da molarmi i molari, nei ventricoli il liquor cefalo-rachidiano ribolle, le fibre del cingolo cotte… non dovevano diminuire la permeabili-

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tà delle membrane cellulari alle monoamine, sti triciclici? garantire la giusta concentrazione di serotonina? eccomi invece! aritmomane onomatomane, ideorroico ipermnestico-ecmnestico, il Border! più di là che di qua! (pp. 338-339)

Per arrivare, nell’ultimo paragrafo, al crollo anche del lin-guaggio e della possibilità di dar voce al delirio:

… sem enne-elle, Tredici Dodici Sei, ntvorqptnvmsf, di fronte al dolo-re si sviluppa endorfina, t’abbiocchi così, non pensar per un poco alle uova… chi cercò adrenalina, chi cerca endorfina nel pericilitare della serotonina… lontani dalla verità, alla deriva dalle parti di Plutone, soli con i nostri neuroni… e forse, da quei lampi sinaptici lungo il nostro giro cingolato si potrebbe dedurre un algoritmo, lo stesso che informa l’Arte della fuga, sarebbe questa l’altezza, sarebbe bello sì… e sarebbe mortale… perché poi, quei meravigliosi totanetti al mirtillo, quella coda vaccina con tutto quel sedano… so’ unto… Semo unti eh Mic? intanto siamo arrivati al Jack Daniel’s, ascolta, nel nero del suo labello e nel vento, senti anche tu? ascolta… fir… fir fir… oh border, è tutto giurato… oh line! (pp. 345-346)

8. lo stile: una forma neCessaria

Come Il male oscuro, anche Rondini sul filo si presenta come un monologo fluviale, febbrile, ininterrotto, attraversato in ma-niera martellante dalle idee coatte e dalle catene delle ossessio-ni. L’operazione di forzatura della misura e della sintassi tra-dizionale avviene però in modi diversi: in Berto, si è detto, il periodare è complesso e nasce da una sorta di amplificazione della sintassi boccacciano-ciceroniana. Qui il discorso procede a singhiozzi, per frasi brevi, ellittiche, ridotte all’osso: è un mo-nologo esagitato, quasi gridato, e intercalato da un flusso in-finito di esclamativi, interrogativi e puntini di sospensione. Si

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è visto che il romanzo si apre con i tre puntini di sospensione, e questa rottura affannosa del discorso ci accompagna poi per tutte le sue 350 pagine.

Il modello è dichiarato: Céline, i cui tre puntini rappresen-tano per Mari, si è visto, l’invention du siècle. L’adesione al mo-dello dell’autore francese, che nel romanzo entra anche come presenza reale, inquietante fantasma, è qualcosa di necessario: a più riprese il protagonista ammette che è questo l’unico modo di raccontare la sua ossessione, altrimenti indicibile. E questo a costo di estenuare o indispettire il lettore, a cui lo scrivente si rivolge con continui appelli:

Sti tre puntini qui, se ho rotto! se ci marcio meccanico monotono uguale! copiati paro paro da Céline perdipiù! la critica, se ci si at-taccherà! mi par già di vedere… insopportabile manierista… adesso spudorato plagiario… scimmia? pappagallo? scolastico, quanto! so-prattutto elude il problema dello stile, il furfante… presuntuoso poi, scegliersi un tale modello… mettere sullo stesso piano la Storia e le proprie paturnie una vera bestemmia! la Guerra Mondiale e i risto-ranti sulla Cassia, Pétain e Cicciotto! Siegmaringen e Villa Chigi! che devo dirvi, lo dovevo scrivere così sto racconto, così oppure niente… la sua forma necessaria era questa! […] e i tre puntini? ci penserà lui se non è contento, il caro Louis-Ferdinand: la mia bella pretesa! verrà nottetempo, mi tirerà i piedi scaraventandomi fuori dal letto, m’arti-glierà qui, alla gola, se dev’essere sia… (p. 122)

Tra le accuse che Mari immagina saranno rivolte al suo libro, quella di monotonia è immediatamente respinta dal suo lettore. È vero che ci troviamo di fronte a un’opera straordinariamente monotematica («monografico il libro mio, nessuna divagazione, via, solo inteso al suo tema!», p. 186), e tuttavia si tratta di un romanzo strabiliante per la sua varietà di registri stilistici e di forme linguistiche. La lingua alterna eleganti arcaismi, termi-ni colti, definizioni tecniche, espressioni quotidiane e dialettali,

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turpiloquio, neologismi: l’inventiva linguistica si concentra, na-turalmente, sul lessico della gelosia, con la coniazione di parole composte («i condivisi tramonti… i condigeriti supplì, i totanet-ti… le concontemplate marine…», p. 42), che a tratti sembrano configurare una neoscolastica dell’ossessione amorosa: «ingelo-sente»; «inamando»; «interire […] intersistendoci, intermanen-doci» (pp. 67 e 68). Compaiono inserti in latino, in greco e in altre lingue – la sua tendenza all’«analogismo sfrenato» viene definita over-inclusion, la categoria a cui dichiara di appartenere è quella di «noi club iteratio, noi club compulsatio», p. 299) – compresa una lingua inventata, la «favella da druidi» con cui l’amata comunica coi morti: «parla coi morti… suo padre, bello strego anche lui… il suo cane… […] li invoca, ci parla… lingua loro, s’intende, criptico-iniziatico-aliena, favella da druidi, orr-chlain whirr gorglowhir» (p. 8).

Allo stesso modo, lo stile è quanto di più vario si possa im-maginare: la base è quella di una mimesi del parlato, con le sue locuzioni (sto, mica, ecco) a volte anche scorrette e dialettali (sù, anderò, averci delle allucinazioni compagne; la sistematica omis-sione del ‘non’ in presenza di altre negazioni: mi placo mai; più possibile correggere niente; sono mica pronto), con esclamazioni infantili (puff! Ohp! Toh!). Una scrittura in cui filtrano fram-menti del discorso diretto, come nei passi in cui sono riprodotte le raffiche di domande prima martellanti nella testa dell’uomo, poi implacabilmente inflitte alla donna:

mi chiedo quando l’avrà invitata per la prima volta a cena con i suoi amici, gennaio? febbraio? quali amici? quante cene? quando per la prima volta da soli, marzo? aprile? quando incominciò a corteggiarla? in che modo? che sguardi? fase dell’amicizia, fase del corteggiamento, le ipostatizzo come mondi difformi ma a sentir lei il suo atteggiamento fu uguale e continuo, nessuno si sarebbe potuto accorger di nulla… possibile? e la stessa frequenza con cui la proponeva agli amici, non era un segno? (p. 209)

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Questa base è mossa da continue impennate espressive, ver-so il basso (lo scurrile, il comico, l’invettiva più rozza e volgare) e verso l’alto: compaiono così citazioni, a volte dichiarate come quella dai Pharsalia di Lucano (il passo del libro vi in cui è de-scritta la strega Erychto, p. 162), o quella dal passo della Ginestra contro il «secol superbo e sciocco» (il «grande Giacomino», «il mio pane», pp. 300-301), ma più spesso semplicemente calate nel testo, senza segnalazioni esplicite.

Il ricorso alla citazione può rispondere alla necessità di ele-varsi stilisticamente, per controbilanciare la propria «bassezza»; come quando il monologo si interrompe per accogliere un epi-gramma della Corona di Meleagro, prima nell’originale greco e poi nella traduzione dell’autore:

Sono sempre più basso, lo so, per sperare in qualche altezza devo uscir dalla storia, chiedere aiuto ai miei libri… questo, Epigrammata graeca, edidit D.L. Page, un oxoniense azzurrino… tradurrò un epigramma della Corona di Meleagro, il sessantaquattresimo:

Ku`ma to; pikro;n [Erwto~ ajkoivmhtoiv te pnevonte~ zh`loi kai; kwvmwn ceimevrion pevlago~,poi` fevromai; panthÛ` de; frenw`n oi[ake~ ajfei`ntai

… mi innalzo, traduco:

Aspro flutto d’Amore, e gelosie che spiranoinsonnia, e mare invernale delle veglie,dove mi trascinate? va alla deriva la barra del cuore

… ecco, per pochi istanti sono tornato ad essere quello che ero, molto alto, molto basso, una bella alternanza… (pp. 205-206)

Le allusioni colte sono soprattutto alla letteratura (ma anche alla filosofia, all’arte, al cinema), e vanno dai brevi inserti citazio-

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nistici («Wolmer che il più bel fior ne colse», p. 18; «quanto io approvi significar non si potrìa per verba», p. 170) all’evocazio-ne degli autori, con la dichiarazione dei propri amori e odi lette-rari («esser più bassi e da quella bassezza anelare al più alto ch’è la beltà della donna come il Foscolo insegna», p. 53; «Foscolo amato, Giacomino mio dolce…», p. 129), fino alla critica, alla fi-lologia e alla teoria della letteratura: nel febbrile monologo dello scrivente, si affacciano così i nomi di Bachtin, di Contini, di Santorre Debenedetti o «l’asse Rajna-Novati-Renier» (p. 163).

Troviamo così categorie letterarie e critiche calate nella fe-nomenologia della sua ossessione amorosa: la tendenza ipocri-ta alla sublimazione dell’istinto carnale va imputata all’«asse Virgilio-Petrarca»:

una vaghezza petrarchesca, nella migliore-peggiore tradizione italia-na… l’asse Virgilio-Petrarca che ci ha rovinati, a noi… il “comple-tamento” del loro “rapporto” sul piano “caratteriale”, trionfano gli eufemismi, l’infingardaggine di quel nazista del Bembo… (p. 131)

le cure che l’amata prestò all’uomo indegno durante una sua convalescenza vengono ridimensionate ed esorcizzate come la «logica delle pezze calde… delle pezze fredde […] aura Dickens-De Marchi» (p. 181); il rapporto fondato sul sostegno reciproco viene bollato come frutto di «psicologismi d’accatto»,

la vicinanza un po’ di tepore, compagni di strada sul tortuoso sentiero della vita… psicologismi d’accatto, la categoria del bisogno, il giova-re… una “presenza”! una figura “su cui contare”! una voce amica nella notte della malattia… (pp. 187-188)

fino alla creazione parodica di possibili titoli di saggi filoso-fici sull’argomento: «L’evangelismo come forma dell’appalto bor-ghese, un saggio che avrebbe potuto scrivere Benjamin… Critica della bontà, questo Adorno…» (p. 188).

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Una vertiginosa oscillazione tra triviale e sublime, che travol-ge, turba e diverte il lettore, e al tempo stesso dà una consisten-za reale alla voce del protagonista e alla lacerante dicotomia – quella tra una visione primitiva e istintuale dell’amore-passione e la sua consapevolezza di intellettuale e letterato – che lo con-danna trascinandolo in un vortice infernale.

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1. samonà: lo stile della raGione

Nel romanzo Fratelli (1978)1 Carmelo Samonà conduce un’operazione opposta rispetto a quelle esaminate nel capitolo precedente. Nel Male oscuro di Berto e in Rondini sul filo di Mari si assiste a uno stravolgimento delle tradizionali strutture narra-tive e sintattiche, alla ricerca di una scrittura innovativa in grado di tradurre il disordine mentale di due personaggi affetti da pa-tologie ben definite (la nevrosi da angoscia nel primo caso, il di-sturbo Border-line da nevrosi ossessiva nel secondo). Viceversa, Fratelli si presenta come un romanzo tradizionale, scandito in 21 capitoli numerati e di lunghezza omogenea, caratterizzato da una scrittura sorvegliatissima: periodi complessi, ricerca conti-nua di simmetria sintattica, estrema precisione lessicale.

La “trama” del romanzo è scarna e caratterizzata da un forte senso di astrazione, potenziato dall’assenza di determinazioni spazio-temporali e onomastiche: i due protagonisti sono due fratelli – quello sano, la voce narrante, e quello malato – e non

1 Cito dall’edizione: C. samonà, Fratelli, seguito da L’esitazione, con un saggio di F. Orlando, Palermo, Sellerio, 2008.

Capitolo IIIUna lucida follia

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hanno nome, così come la città in cui si svolge la vicenda; so-prattutto, il narratore non dà un nome alla malattia mentale del fratello, che in questo modo assume le sembianze di un’entità misteriosa, potente e pervasiva.

Il fratello sano si assume il compito di fornire un meticoloso resoconto della sua lotta contro la malattia del fratello, descrit-ta in maniera estremamente minuziosa e ordinata: la delicata organizzazione della vita quotidiana nel grande appartamento silenzioso e nelle difficoltose uscite nel quartiere, le forme della comunicazione tra i due, i riti, i giochi, gli scontri, i tentativi di arginare e contrastare il disordine e la violenza destrutturante della malattia, con il loro esito (fallimentare).

Il carattere estremamente formale e razionale della sua scrit-tura risponde alla funzione che egli le attribuisce: quella di arginare e contrastare il disordine e la violenza destrutturante della malattia mentale del fratello. Un modo di razionalizzare l’irrazionale, e ciò che al razionale è irriducibile, come rivela l’andamento del romanzo, un progressivo avvitarsi nelle spirali sempre più strette di un gorgo senza uscita.2

Alla radice di questo atteggiamento del fratello sano c’è in-dubbiamente una natura maniacale. Il suo bisogno di ordine e compostezza nasce, certo, come reazione al disordine del fratel-lo che lo minaccia costantemente:

Voglio scacciare da me l’ipotesi che un disordine così pervicace e stri-dente possa coincidere con un senso compiuto, e persino adombra-re un cammino preciso, una traiettoria plausibile. Il rischio esiste. È dentro di me. E non ho che un mezzo per evitarlo: rompere la servi-tù dell’accoppiamento, rimanere, per quanto posso, separato da lui. Percorro a grandi passi la stanza in cui mi sono rinchiuso, ne saggio l’impenetrabilità, la geometria limitata. […] Preso, a momenti, da una

2 Rimando senz’altro al capitolo dedicato al romanzo da Silvia Longhi in que-sto volume, pp. 177-187.

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voluttà di equilibrio e compostezza mi do attorno a riordinare quanti oggetti personali trovo sul comodino, mi pettino con cura i capelli, mi spazzolo e rassetto i vestiti, correggo l’allineamento dei libri negli scaffali. Quando, finalmente, mi stendo sul letto e cerco di rilassarmi, percepisco intorno rumori ancora insistenti, benché già decrescenti, come in un lento risucchio. Non mi muovo, ma con l’orecchio appog-giato a un punto della parete cerco di prevedere quanto occorrerà a mio fratello, lontano da me, per calmarsi e avviare di nuovo i suoi passi imperfetti in direzione della mia stanza (pp. 62-63).

Ma è anche tratto dominante (e, si direbbe, patologico) del suo temperamento, come tradiscono le continue affermazioni del suo bisogno di ordine, di inquadramento razionale dei fatti, di previsione e controllo degli eventi. Anche quando si abban-dona a una fantasticheria, immaginando un’escursione ai giar-dini pubblici con il fratello consenziente e tranquillo, il proprio appagamento viene associato all’amore per la natura, ma anche all’irresistibile piacere della catalogazione:

Mi preparo, piuttosto, alle poche occasioni in cui i cancelli [dei giar-dini] saranno varcati. Arrivando fin lì dopo tanti giri viziosi, pregusto lunghe e libere scorribande nel verde, temerarie esplorazioni in cui, finalmente, sentirò sprofondare e annullarsi il respiro della città. Le mie rozze cognizioni di botanica, i miei pochi ricordi infantili di semi-ne e fioriture sono tutti mobilitati per scattare e funzionare sul vivo. Mi possiedono una gran volontà di espansione e, insieme, un’ordinata curiosità naturalistica, un forte spirito positivo. Fantastico di gettare solidi ponti fra la natura e quanto ne ho appreso dai libri. Voglio co-noscere la vita delle piante e dei fiori, imparare a leggere sui tronchi l’età degli alberi, osservare le minute battaglie degli insetti che abitano le corolle e le foglie, studiare il volo e il canto degli uccelli, la varietà delle loro specie, i tempi esatti dei loro arrivi, delle loro partenze di massa; e intendo annotarmi queste cose con cura, parlarne, catalogar-le (pp. 110-111).

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Il fratello sano si illude di poter controllare ogni aspetto della sua vita simbiotica con l’altro, attaccandosi ostinatamente alla propria capacità di osservazione e pianificazione: «il mio com-portamento non ha nulla che non rientri in una strategia attenta e meticolosa», annuncia nelle prime pagine del libro (p. 16). E si comprende la sua amarezza di fronte al fallimento dell’ambi-zioso progetto di creare un antidoto al disordine attraverso la predisposizione della «Tabella del tempo»:

Vi fu un’epoca in cui ero convinto che alle rincorse, alle sparizioni improvvise, alle lingue frammentarie e confuse si potesse rispondere costruendo, accanto a quella di mio fratello, una logica alternativa: si potesse far valere il principio di causa ed effetto che guida ogni movimento, la successione consequenziale degli eventi dal sorgere al tramontare del sole, il linguaggio matematico che ne illustra limpida-mente i rapporti. […]La serie di calcoli che dovetti fare, all’inizio, per realizzarla, la rendeva simile a una perizia tecnica, e anche, in certo modo, a un ordigno com-plicato, a una macchina; l’uso cui era destinata in concreto ne faceva una sorta di baedeker morale, un lucido organigramma di disposizioni e divieti per la durata di un giorno.[…] Il suo principio fondamentale era il rapporto fra spazio e tempo nella casa deserta; il metodo, quello della semplice osservazione dei fatti: annotare gesti, schedare e definire abitudini, mettere in rapporto fra loro anche i più minuti dettagli. Per qualche mese scrutai tutti i nostri movimenti e comportamenti, registrai con cura i minuti che im-piegavamo per andare da un punto all’altro, tenni conto dei percorsi principali e dei secondari, delle zone di riposo e di sosta, dei tempi de-stinati al pranzo, alla cena, alla passeggiata in città. Quindi cominciai a prender nota degli imprevisti: concessi a mio fratello tempi cinque volte maggiori dei miei, introdussi varianti secondo l’importanza degli obiettivi, con percentuali programmate più elasticamente per inclu-dervi i Grandi Viaggi; studiai, infine, tutte le combinazioni possibi-li fra tutte le possibili traiettorie su una pianta della casa che avevo

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strappato all’oblio di un vecchio cassetto. Quando potei disporre di un prontuario minuzioso e completo, passai alle pratiche esecutive: allestii cartelli con scritte ammonitrici che si fondavano sui calcoli ap-pena fatti; le corredai di disegni a penna e a colori, che ci raffigura-vano durante l’igiene del corpo, durante i pranzi e le cene, mentre correvamo l’uno davanti all’altro per i corridoi della casa; e mi detti a tappezzarne le pareti, e soprattutto le porte, perché fossero bene in vista in ogni luogo e in qualsiasi ora del giorno (pp. 53-55).

Si tratta di una sorta di celebrazione positivistica del potere della ragione, che si avvale di un lessico che privilegia i campi semantici legati all’ordine, alla razionalità, all’osservazione, alla previsione, al calcolo.

Lo stesso autore, in una bella intervista del 1984, parla, rife-rendosi sia a Fratelli che a Il custode, di uno «stile della ragione»:

Quello dell’io narrante è lo stile della ragione, anche se la ragione è perdente: perciò la sua è una lingua che si mantiene potenzialmente “classica”, perché dipana con lucidità i pensieri anche sull’orlo del precipizio.3

E precisa che, in entrambi i romanzi, il protagonista «si osti-na a descrivere l’assurdo con gli strumenti della ragione», e lo fa «soprattutto linguisticamente»:

ho evitato ogni sperimentalismo linguistico nell’affrontare il tema dell’ossessione. Voglio dire: non sono mai stato preso dalla tentazione di descrivere la follia rompendo con la sintassi o lavorando liberamen-te sul lessico. Ho ammirato molto, in passato, i cataclismi retorici di un Joyce, di un Céline; ma non mi ha mai sfiorato l’idea di emularli.4

3 G.l. luCente, Incontro con Carmelo Samonà, «mln», 100, Gennaio 1985, pp. 155-170: cit. a p. 163.

4 Ibid.

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2. la raGione non vinCe

Ma questa ragione, che si accanisce a cercare un senso da dare ai messaggi del malato, nel tentativo disperato di governar-li, è irrimediabilmente votata al fallimento.

La grande sfida è rappresentata dalla ricerca di una forma di comunicazione. Questa assume i connotati di una lotta tra due modi di comunicare opposti: da una parte quello logico, ordinato e verbale del fratello sano, dall’altro quello del mala-to, che scaturisce dalla fantasia e dal corpo, e si articola in gio-chi, rituali ossessivi, spostamenti nel vuoto della casa silenziosa. L’appartamento semivuoto è lo spazio grande e afono che sem-bra amplificare le forme espressive del malato, che diventano i frammenti di un linguaggio misterioso e perduto.

Alla base del romanzo, come l’autore precisa nella già citata intervista, c’è infatti un forte interesse per il problema del lin-guaggio:

lo sguardo, i gesti, i sospiri, e infine, trattandosi di esseri umani, so-prattutto la parola, la possibilità di esprimersi con la parola. In questo caso, poi, c’è la forte tensione dovuta all’impedimento, alla malattia. La malattia, una cosiddetta malattia mentale, limita la ricchezza del patrimonio linguistico, e nello stesso tempo, paradossalmente, lo esal-ta, perché lo concentra su un sistema simbolico fatto di pochissime cose, ma molto potenti. Quando questo avviene, abbiamo un’ennesi-ma prova della tremenda forza della lingua come fatto di comunica-zione. Il fratello sano cerca di riempire i vuoti linguistici dell’altro, di prestargli la propria lingua; ma non ce la fa, e allora interpreta la lingua del fratello, compresa quella mimica, gestuale, compresi i silenzi: una lingua non soltanto di parole, dunque, ma una lingua di frammenti, una lingua obliqua, per accenni, per allusioni.5

5 Ibid., p. 160.

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Ecco allora l’accanimento del sano nel trovare una chiave per decifrare quel linguaggio inafferrabile. I gesti vengono studiati con la minuzia di un’osservazione scientifica; le parole, parago-nate a «schegge luminose», «lucidi frammenti di un discorso che ha perduto la sua compattezza in seguito a una lontana, ter-rificante esplosione» (p. 32) rappresentano una continua sfida a capire. È un linguaggio frantumato, atomizzato, fatto di frasi in sé compiute, ma prive di coordinamento logico, e interrotte da lunghi silenzi, anch’essi oggetto di esame meticoloso:

Non ho mai conosciuto linguaggio in cui abbiano tanta parte i silenzi: silenzi differenziati e attenti, catalogabili in forme, in indizi, garanti di sospensive crudeli; silenzi che trasformano in intervalli secondari, per quanto utili al senso, la pienezza dei suoni e conferiscono al non detto una spessa profondità, un timbro mobile e denso che provoca chi l’ascolta a intercettare e intuire (p. 32).

Un modo di comunicare che esercita, sul fratello sano – ma, si è visto, con un’inclinazione alla catalogazione e al controllo che assume tratti maniacali e compulsivi – un’attrazione insop-primibile:

Le difficoltà sembrano intrecciarsi, via via, alle attrattive. Lui pronun-cia una frase a poca distanza da me; io stento a indovinare il rapporto concreto che c’è fra le parole e i concetti, ma non posso sottrarmi, ascoltandolo, a un lento coinvolgimento. Dopo un po’, la fiducia di poterlo capire (o, forse, l’urgenza di controllarlo) mi spinge a inter-venti minuziosi, a scandagli ostinati e pazienti. Catalogo le parole, i modi di dire, i silenzi; cerco di entrare in possesso di una tastiera di corrispondenze precise che mi dia, di volta in volta, il senso delle figure più arcane, delle negazioni sospette; accetto, in breve, quell’universo di controsensi come se fosse un sistema leggibile, cui basti applicare la chiave esatta per decifrarlo (p. 33).

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Niente di più illusorio di questo assunto: come rivela quanto viene raccontato poco oltre. Tre brevi frasi pronunciate dal fra-tello malato, innescano il rovello ermeneutico del fratello sano, che inizia a formulare la sua interpretazione:

Se ad esempio, mentre sto per uscire da solo, si avvicina e mi sussurra tre frasi come queste, a brevi intervalli l’una dall’altra:«Tu non hai paura: bravo, fratello!»«Correvo in un prato»«Vattene via»subito sono tentato di approntarne una versione coerente nella mia lingua. Penso che le tre frasi siano legate fra loro malgrado ogni ap-parenza, secondo la teoria dei frammenti sopravvissuti; e interpreto la prima così: «Dimmi che non ho paura; lodami fratello!»; e la seconda: «Mi piacerebbe andare ai giardini con te, come ieri»; e infine la terza: «Non te ne andare da solo»; concludendo che l’intero discorso signifi-ca pressappoco: «In premio del mio coraggio, portami ai giardini con te» (pp. 33-34).

Una ricostruzione subito inquinata da dubbi, dal timore dei «continui tranelli» che si annidano nei discorsi del fratello (il quale, «se comincia a negare una cosa, può darsi che voglia af-fermarla, se mi interroga ansiosamente forse mi sta dando delle risposte», p. 31). Ecco che dunque alla prima interpretazione ne segue una seconda, e poi una terza:

Dubbi e incertezze, però, non tardano ad assalirmi. Forse il suo in-tento era opposto: rivelarmi, negandola a me, la sua propria paura, ricordarmi che il giorno avanti, correndo verso i giardini, s’era voltato a tratti a guardare indietro per timore che scomparissi. In questo caso le tre frasi vogliono dire semplicemente: «Ho paura che tu mi abban-doni».La deduzione è corretta, o meglio sembra rientrare nella logica che il suo sguardo, teso si direbbe a pregarmi, avalla per qualche istante.

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Ma non faccio in tempo a tradurre in un gesto l’impulso di stringerlo a me per rassicurarlo, che già mi respinge con un gesto di diffidenza, e mi sorride, ma senza dolcezza, con un ammicco che è piuttosto una smorfia ironica e dolorosa. In quell’attimo, leggo nelle tre frasi un’uni-ca idea puntitiva, spoglia di ogni desiderio di giardini o di lodi.«So che hai paura di me, fratello», mi pare finalmente che voglia dirmi «come ieri, quando speravi che io, correndo verso i giardini, mi per-dessi e sfuggissi per sempre al tuo sguardo» (p. 34).

Ogni sforzo si rivela vano: non esiste la chiave esatta per de-cifrare i messaggi del malato, e il fratello sano è costretto (ma solo temporaneamente) a rinunciare alla ricerca di un senso.

Ulteriore conferma del destino fallimentare a cui il fratello sano si vota è la temporanea frequentazione con una misteriosa «donna col cane zoppo» che avvicina prima il fratello malato, poi anche il sano, stravolgendo il loro rapporto, fino ad allora binario ed esclusivo. Si tratta di una figura evanescente, il cui ricordo è offuscato nella memoria dello scrivente, a causa di un evento traumatico (la morte violenta del cane) in buona parte rimosso, a cui sono dedicati tre capitoli del romanzo (xv-xvii). Ebbene, la donna riesce a stringere con il fratello malato un rapporto intenso, a conquistarlo. E questo in virtù di un modo di comunicare del tutto diverso da quello del fratello sano: at-traverso un linguaggio non razionale e misterioso, in grado di unire segni verbali e non:

Ho motivo di credere che la donna non avesse, come le avevo io, due lingue diverse destinate alternativamente a mio fratello e a me, ma una sola; una sola, che era tuttavia ricca di equilibri cangianti, riposata e violenta, ariosa e silenziosa, intensamente gestuale, allusiva, esplicita, amabilmente ironica, raccolta, comprensiva, limpida, frammentaria, compatta, coinvolgente, materna; insomma, così mobile e onnivalente che fungeva da molte lingue, o almeno spiegava una potenza pari a quella delle nostre due lingue sommate; tanto che forse (se non mi

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ingannano brandelli di ricordi inesistenti) riuscì a tessere strani fili, che mi erano ignoti prima, fra me e mio fratello: unendo lembi di frasi come pezzi combacianti di un vaso rotto; coprendo abissi di distanze con improvvise modulazioni di canto, spazi di silenzi con invenzioni mimiche al cui disegno ridevamo insieme; soffocando angosce in un vortice di grandi corse in avanti, dal cui scatto impetuoso io stesso, benché un poco ansimante, ero trascinato e ciecamente sedotto; e quando sembrava esaurita ogni scorta di segni figurati o vocali (ine-sauribili per lo più) ricorrendo infine all’abbraccio (pp. 97-98).

Un linguaggio misterioso, che viene descritto con attribu-ti talvolta ossimorici (riposata e violenta, allusiva ed esplicita, frammentaria e compatta) e perciò incomprensibile per il fratel-lo sano, schiavo della razionalità logica e del principio di non contraddizione.

In questo senso il romanzo è leggibile anche come una lun-ga riflessione metalinguistica, un amaro racconto sul linguaggio della malattia mentale, e sulle possibilità di comunicazione che essa offre al linguaggio logico-verbale della normalità.

3. raCContare un fallimento

Fratelli è dunque il racconto di un fallimento, il fallimento della ragione di fronte alla potenza della malattia mentale. Il romanzo è interamente percorso da questo senso di fallimento, che si traduce sul piano strutturale nell’iterazione, con varianti, dello stesso schema narrativo: la pianificazione, da parte del fra-tello sano, di una strategia volta a controllare e dare un ordine alla vita del malato; lo stravolgimento del piano da parte del ma-lato, magari dopo una prima apparente accettazione; la graduale rinuncia del sano. In questo schema rientrano i capitoli dedicati alla strategia dei giochi e delle «storie» da interpretare (capito-li iii-iv), alla gestione della vita materiale (viii), alla Tabella del

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tempo (ix), alle uscite in città e ai giardini (xi-xii, xviii). Questa struttura iterativa, che di fallimento in fallimento si scontra con l’ostinazione del narratore, ha sul lettore un effetto impressio-nante, generando un senso di forte angoscia.

Il carattere illusorio e fallimentare della lotta intrapresa dal fratello sano si manifesta poi attraverso una fitta rete di spie linguistiche e stilistiche, che ne segnalano la natura contrad-ditoria.

Si pensi a quanto le dichiarazioni iniziali di differenziazione («Io posso, se lo desidero, imitare la malattia; lui è costretto a viverla. Lui, insomma, è malato; io sono sano», p. 17) siano smentite dal carattere di simbiosi che nel corso della narrazione diventa sempre più evidente: se inizialmente la voce narrante è l’«io» del sano, poi gradualmente diventa sempre più «noi»; e i continui giochi di rispecchiamento e scambio rendono sempre più labile la distinzione tra le due identità. Allo stesso modo, il corso degli eventi smentisce implacabilmente «la convinzione» ostentata dal sano «d’essere io, in tanta incertezza, il più costan-te e il più forte» (p. 17).

I sentimenti che il fratello sano prova per il malato sono segnati da una profonda ambivalenza, che emerge dalle sue parole: il rapporto tra i due viene definito attraverso il campo semantico della cura, dell’assistenza e dell’altruismo (a partire dalle prime pagine del romanzo: «Io devo assistere mio fratello, aiutarlo a lavarsi e a vestirsi, provvedere al suo nutrimento», p. 13), e, contemporaneamente, attraverso quello della lotta, del-la guerra, della caccia. Il combattimento è inizialmente quello ingaggiato contro la malattia, in cui il fratello è ora alleato ora nemico: si tratta di «piccole guerre di posizione durante le quali ci troviamo, in fasi alterne, a spiarci da campi opposti o, al con-trario, perfettamente allineati e, forse, illusoriamente complici» (p. 16); gradualmente, però, esso si definisce sempre più come «una guerra senza quartiere» tra i due, in cui il «nemico-fratel-lo» desidera annientare l’altro (p. 60); anche i giochi infantili ap-

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parentemente innocenti rivelano il loro volto di «travestimento di una partita mortale» (p. 61):

Con un guizzo, come se restassi fedele al meccanismo del gioco, mi porto lontano da lui. Mi nascondo ancora nelle nebbie della finzione. E di nuovo ci rincorriamo. Ma sento che ora la corsa di chi sta dietro ha l’ansimare corto e ritmato di una caccia implacabile. È vero, io sono quel nemico da eliminare per gioco, mio fratello insegue in me il rapitore della fanciulla; eppure ho la sensazione precisa che sta brac-cando, nei panni del personaggio, il mio corpo; sento che sta correndo ad annientare il nemico-fratello che l’ha accusato di disobbedire alle giuste leggi del tempo. Nel suo abbraccio, che subisco passivamente se mi raggiunge, avverto un’ambiguità di impulsi trafelati, tremanti: il palmo di una mano guadagna presto il contatto delle mie guance, ed è per accarezzarle, ma le dita dell’altra frugano tra i miei capelli co-me per cercare una presa, mirando, irte e ostili, a chiudersi a tenaglia sulla mia nuca. È il momento di guardarci di nuovo negli occhi. Non so se il suo sguardo animato da una sobria ferocia rientri nel copione che stiamo eseguendo o sia rivolto a me in carne e ossa. E decido, all’improvviso, di dare una svolta brusca ai nostri contatti. Comincio a prendermi cura del suo corpo ancora ansimante, come se invece di volermi aggredire avesse bisogno di me. È un rischio, ma calcolato. Raggiungo con le labbra la mano che mi accarezza e la ricopro di baci, comincio a rassicurarlo separandomi, con parole adeguate, dal personaggio-nemico che affermo di aver allontanato da me; divento un soccorritore plausibile. La sua morsa, lentamente, si scioglie, lo sguardo si distende, e ci sdraiamo per terra vicini, restando immersi a lungo in un grande silenzio (pp. 60-61).

L’ambivalenza dei sentimenti del fratello sano trova la sua espressione più forte nel racconto di un episodio avvenuto durante una delle uscite in città, che occupa il capitolo xiv: il fratello malato è temporaneamente sfuggito al suo controllo, come spesso accade, e il narratore lo trova circondato da una

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piccola folla, davanti al banco di un venditore di stoffe, intento a prendere degli indumenti, infilarseli e distribuirli ai passan-ti, nei quali suscita inizialmente curiosità e divertimento, poi un’ostilità pronta a degenerare in violenza fisica. Il fratello sano, anziché correre in suo soccorso, si ritrae e rimane a guardare. Seminascosto, si abbandona a due fantasie, la prima dichiarata-mente violenta:

Pensai che la piccola folla potesse anche percuotere mio fratello, schiaffeggiarlo, linciarlo […]. Immaginai il suo corpo colpito da raffi-che di calci e di pugni, le braccia rovesciate e immobilizzate sul ban-co, le mani, trattenute all’altezza dei polsi, ruotare come eliche a fior d’acqua annaspando e graffiando il legno con le unghie nello sforzo di liberarsi (p. 80).

La seconda, inizialmente buona, diventa anch’essa violen-ta: uno sconosciuto interviene a salvare il fratello in pericolo – prendendo dunque il posto del fratello sano –, salvo poi rivelare intenzioni malvage e perverse:

Non che stentassi a immaginare che un brav’uomo qualunque, saltato su dalla folla, prendesse a proteggere mio fratello e, magari, per tagliar corto, si allontanasse con lui. Il difficile era, per me, attribuire a una storia come quella uno sviluppo in linea con le premesse: dopo un po’ non resistevo all’idea che qualche tralignamento venisse a turbarla, smascherando in breve i buoni sentimenti mostrati dall’uomo e ri-velando in lui un malfattore, un sadico, un pervertito, un ricettatore, uno sfruttatore dell’innocenza di mio fratello. Immaginai in un primo momento quest’uomo rivolgersi alla folla con parole semplici e ferme (qualcosa come: «Lasciatelo a me, ne rispondo io») e subito dopo, fattosi largo, uscire dal capannello tirandone via il suo protetto. […] Si poneva il problema di dar loro la caccia. Mi sarei gettato nelle vie da cui mi pareva che fossero stati inghiottiti, chiedendo aiuto alla gente, scrutando tutti gli interni di negozi e di case. «L’uomo dal mantello

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verde e un ragazzo?» sentivo dire attorno. «Sono passati di qua, sem-bravano avere fretta» (pp. 81-82).

Che questo uomo apparentemente benevolo e in realtà de-sideroso di far del male al fratello malato sia l’inconfessabile proiezione del sano e dei suoi istinti aggressivi, è confermato dal fatto che l’indumento che lo contrassegna fisicamente, il man-tello verde, sia lo stesso che poco prima, davanti alla bancarella, il sano ha ricevuto direttamente dal fratello:

E mio fratello mi vide, e subito […] cominciò a distribuire fra quelli che gli stavano attorno, uno a uno, capi di vestiario, rotoli di stoffe, maglioni; […] e a me, che pure ero alla portata delle sue mani dall’al-tra parte del banco, un gran mantello verde guarnito di catenella e cappuccio (p. 79).

Della centralità del problema del linguaggio nel romanzo di Samonà si è detto. Per questo ha grande importanza il fatto che la graduale resa del sano di fronte alla malattia sia, anche e so-prattutto, una resa linguistica.

Si è visto che le parole pronunciate dal malato sono, oltre che frammentarie e plurisenso, anche antifrastiche. Ebbene, all’antifrasi il sano si adegua: chiama «Grandi Viaggi» gli spo-stamenti tutti mentali legati ai giochi e alle «storie» da interpre-tare, e «Piccoli Viaggi» gli spostamenti reali, all’interno e fuori della casa; quando propone di giocare al volo di Icaro intende richiamare per contrasto l’idea opposta: «“Giochiamo al volo di Icaro” insinuo, sperando di rammentargli, al momento della caduta, l’idea della terra» (p. 21).

Per il sano, il linguaggio logico-verbale rappresenta il più im-portante antidoto al senso dell’irrealtà e dell’assurdo. Lo precisa l’autore (riferendosi al Custode, ma la considerazione è applica-bile anche a Fratelli): «la parola è sentita in certo modo come l’antidoto dell’assurdo. La parola arresta il carisma schizofre-

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nico della pura allucinazione. La parola conforta, la parola è socialità».6

E lo dichiara la voce narrante del romanzo, che nel capitolo xx celebra una sorta di elogio della scrittura. Le carte su cui egli, quotidianamente, trascrive la storia della sua lotta contro la malattia del fratello, rappresentano l’ultima, vitale garanzia dell’ordine:

Quando il silenzio della notte si fa completo (e ho guardato da ogni parte e teso ancora l’udito fino allo spasimo in modo da percepire ogni residua sonorità proveniente da mio fratello) mi alzo cautamente dal letto e mi avvio verso lo scrittoio con l’intenzione precisa di annotare ciò che mi è accaduto durante il giorno. Apro i cassetti, ne tolgo risme di fogli che comincio a scorrere attentamente, e mi metto a scrivere: aggiungo riflessioni e dettagli, cancello, riscrivo, suddivido le carte con cura e le riordino in gruppi distinti, che annodo poi con elastici di colori diversi. C’è, nel mio sguardo, una grande concentrazione, e credo, anche, una specie di sottile rivalsa […]. Nella situazione in cui mi trovo, non conosco mezzo più idoneo a farmi prender le distanze dagli avvenimenti che incalzano, dalla persona e dagli oggetti che mi circondano, e perciò a consentirmi di misurarli e di contemplarli da fuori (pp. 119-120).

La scrittura è per lui l’unico spazio di libertà rimasto:

Non so immaginare territorio più mio, zona di cui vantare con più diritto il possesso esclusivo, spazio nel quale entrare e uscire più facil-mente all’insaputa di mio fratello. […] mi organizzo nell’ombra il mio piccolo recinto di annotazioni e commenti, su cui confido, di volta in volta, che nessun vortice o moto esterno potrà interferire (p. 120).

6 Ibid., p. 164.

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È il momento in cui rivendica la propria individualità, co-stantemente minata dallo specchio del fratello: «Il vantaggio rispetto ai discorsi orali è che qui mio fratello non è presente e non può, di conseguenza, introdurre varianti. Solo a me spetta documentare o inventare, saggiare ipotesi o limitarmi ai dati si-curi» (p. 121).

Questo gli dà un senso di onnipotenza: «Sono libero e onni-potente all’interno della scrittura» (p. 120); «Quando il foglio è immobile e bianco sullo scrittoio, posso tutto» (p. 121).

Ebbene, anche questo ultimo baluardo che rimane a difesa della ragione e dell’identità del fratello sano cade, inesorabil-mente travolto da un senso crescente di confusione, incertezza, stanchezza. La catena dei disordini intacca le carte, che egli tro-va confuse, lacunose, mancanti di parti, alterate nell’ordine: allo sgomento iniziale segue la convinzione che il responsabile ma-teriale di tale confusione sia il fratello malato. Convinzione con tratti paranoici, che quando egli trova nella tasca della giacca del fratello uno dei suoi fogli sfocia in un episodio drammatico di collera e violenza, a cui segue l’amara rivelazione finale: «La giacca che mio fratello indossava al momento dello scontro, era mia; la tasca da cui avevo tolto il foglio del rendiconto, dunque, mi apparteneva. Forse, frugando su di lui, avevo perquisito, sen-za rendermene conto, me stesso» (p. 132).

L’episodio segna la fine della scrittura, registrata nel capito-lo conclusivo del romanzo: «ho dovuto ridurre sensibilmente i tempi della scrittura e rassegnarmi alla sua inevitabile fine» (p. 133). È la resa definitiva: ora il silenzio prende sempre più il sopravvento,

Mi chiedo se tutto questo vuol dire unicamente un viaggio verso il mu-tismo, un progressivo spogliarsi dell’ingombro delle parole per un ritiro netto e definitivo nel dominio imperscrutabile del silenzio (p. 134)

e sancisce il definitivo fallimento della ragione.

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4. aGli dèi ulteriori: sei variazioni sul tema del delirio di onnipotenza

Già nel 1985 Italo Calvino notava come «la psicologia sia la materia prima»7 delle invenzioni narrative di Giorgio Manganelli, che del resto a più riprese ha esposto la sua idea della natura intimamente nevrotica della letteratura.8

Pur nella pervasività dei temi della nevrosi, dell’ossessione, del paradosso nell’opera manganelliana, è possibile individuare due opere in cui il motivo della follia e del disturbo mentale è centrale, e diventa oggetto di agguerrite invenzioni mentali e formali.

La prima è Agli dèi ulteriori (1972):9 un libro che raccoglie sei racconti, tutti dotati di titolo (Un re; Simulazioni; Alcune ipo-tesi sulle mie precedenti reincarnazioni; Dal disonore; Un amore impossibile; Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti), ef-ficacemente presentati da Calvino come «un crescendo di varia-zioni sul tema d’una lucida esaltazione megalomane».10

Le voci che parlano in questi racconti – tutti in prima persona fatta eccezione per il quinto, che è il carteggio “impossibile” tra Amleto e la Principessa di Clèves – descrivono con meticolosità e dovizia scenari che si rivelano come il frutto di articolate allu-cinazioni, rappresentazioni di impressionanti teatri mentali.11

7 i. Calvino, Introduzione all’edizione francese di Centuria (Centuria – Cent petits romans-fleuves, Mâcon, Éditions «W», 1985). Il testo è stato pubblicato nella stesura originale in italiano nell’edizione Adelphi di Centuria del 1995, pp. 9-13; da questa edizione ricavo le mie citazioni.

8 Per cui si veda il saggio di G. di fonzo, Follia, nevrosi, linguaggi in Manga-nelli e Samonà, in Nevrosi e follia nella letteratura moderna, cit., pp. 577-594.

9 Cito dall’edizione: G. manGanelli, Agli dèi ulteriori, Milano, Adelphi, 1989.

10 i. Calvino, Presentazione a Agli dèi ulteriori, ed. cit. (il testo è riprodotto nei risvolti di copertina). La presentazione di Calvino compariva già nella prima edizione del libro (Torino, Einaudi, 1972).

11 Si leggano di nuovo le parole di Calvino: «Il teatro di cui Manganelli ancora

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La voce narrante di Simulazioni esordisce disquisendo sul carattere illusorio, e contemporaneamente assai ben costruito, della “realtà” in cui abita, in un elucubrare sospeso tra delirio di onnipotenza e paranoia:

Abito una allucinazione elaboratamente arredata. Ammiro la compe-tenza con cui sono stati simulati i muri, la loro garanzia contro la notte. Io so che i muri sono complici della notte e della pioggia e del vento, e che nella simulazione, cui tutti sono tenuti, vi sono limiti non valicabi-li. […] Sto seduto nel centro della stanza, e tra me e il muro ho collo-cato una elaborata finzione culturale: un dipinto. Lo ammiro, sebbene mi sia impossibile intendere che mai esso raffiguri. […] Mi chiedo se le simulazioni siano così compatte e coerenti da coprire lo spazio di una città, se esse continuino fuori di me, penetrino nel nulla, lo ingentili-scano con una presenza ben calcolata di forme geometriche e colori. Perché si è deciso di simulare i colori? Quale mirabile menzogna. […] Io debbo supporre di far parte di una macchinazione invisibile; mi interrogo, se non si esiga da me una collaborazione radicale alla inven-zione del mondo. Sono certo di mentire, ma ignoro a quale punto del mio discorso. Quando decido di creare, quando fruisco della creazio-ne, quando dichiaro che la creazione è simulazione? (pp. 39-40)

Anche il primo racconto, Un re, mette in scena il delirio di onnipotenza di un personaggio, l’io narrante, avvolto nel buio di una notte solitaria. Dal grande letto deserto in cui di tanto in tanto si rigira tra le lenzuola, egli evoca un mondo regale, fatto di fantasie araldiche di aquile, leoni e serpenti:

Che io sia Re, mi pare sia cosa da non dubitare. V’è in me un mo-

una volta apre il sipario per il suo spettacolo verbale è lo spazio della mente: lo popolano fantasmi che convergono tutti sull’allegoria sovrana, la morte, il più car-nevalesco e il più sontuoso oggetto della nostra scenografia interiore». Calvino, Presentazione a Agli dèi ulteriori, cit.

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do regale di pensare, di opinare, di fantasticare, che non finisce di stupirmi e di allietarmi. Non riesco a pensare a cose umili e povere; ogni cosa deve avere un nome, collocarsi in una gerarchia, incedere o strisciare, ma in modo emblematico. Penso alle aquile; specie al primo dilùculo, nel silenzio tra notte e giorno, nel freddo che anneghittisce, in mezzo al distratto sgomento dei fiori, penso ad enormi aquile, ali metalliche e sapiente malvagità di occhi. Un becco omicida, tirannico, ma non passionale. Intorno alla mia sorella aquila lo spazio è enorme, anch’esso feroce, ma se esso presume di essere geometria e null’altro, allora, io sono la sua volatile ferita, la piaga a forma di becco, la firma di un becco sulla volta del cielo. Forse taluno considererà questa una immagine faticosamente barocca; ebbene, egli non è re; e pertanto di ciò non darò altra spiegazione (p. 13).

Un delirio solipsistico e megalomaniaco che tutto compren-de e assimila: egli pensa e plasma, con la forza del suo pensiero, ogni cosa; ogni cosa partecipa alla sottomissione al suo potere regale, divino:

Il mio riso […] percorre la mia vastissima reggia, la ispeziona. […] Ogni cosa toccata e sfiorata dal riso della regalità restituisce il suo antico, consuetudinario segno d’assenso, o anche meno, il riconosci-mento di sé come legittimo obietto del riso, forse suo possesso, anzi suo schiavo. Il mio riso avverte l’intera reggia che io sono nella mia stanza, ed esercito il mio potere. E quando ritorna a me lo tocco e tento come un uccello messaggero, lo riconosco intero e intatto, fioco e compatto (p. 22).

Non c’è nulla che accada al di fuori della mente dell’io nar-rante: una mente visionaria e ragionatrice al tempo stesso, che costruisce e anima la sua irrealtà, rivendicandone la realtà con logica ostinazione, quasi per via di sillogismo.

Anche nel racconto intitolato Alcune ipotesi sulle mie pre-cedenti reincarnazioni troviamo un io monolitico e totalmente

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estraneo a qualsiasi forma di contatto con la realtà, che in un monologo ossessivo e morboso racconta il proprio procedere, «per giorni variamente colorati di suicidio, talora colmi fin quasi a traboccarne, sì che una schiuma di morte ne tracima e gron-da» (p. 65), alla ricerca di memorie di un passato suicida, e del senso di suicidi precedenti.

È proprio la morte il grande assillo che continua a riemerge-re in questi testi, in forme morbose e paradossali, intrecciando inquietudini oscure e viscerali e sottili architetture retoriche e ragionative. Così, in Simulazioni, il paradosso è implicito nella voce del narrante, un essere in potenza custodito in un corpo materno che, anziché luogo della vita, diventa inquietante im-magine di morte:

Stamane mia madre ha tentato di uccidermi: stavo chiuso nel suo ven-tre, e leggevo i classici. Una ustione mi ha cancellato una pagina, ha turbato i miei sogni. E poiché ciò mi era lecito, ho consentito che l’ustione uccidesse mia madre. Essa è ora la mia tomba. Sto chiuso nei limiti di carne di questo animale fatiscente, e solo la mia estrema esiguità mi consente di sentirmi a mio agio (p. 43).

Simmetricamente, la voce di un morto è quella che parla dal nulla, nel racconto intitolato Dal disonore: il disonore di essere stati vivi ed essere morti, senza sapere perché; una catena an-gosciosa e vana di pensieri, supposizioni ed elucubrazioni che sfociano nell’amara, paradossale conclusione: «Forse eccitarsi fa male ai morti: vuota il loro vuoto» (p. 94).

La morte, il vuoto, l’assenza: in Agli dèi ulteriori Manganelli accoglie la sfida di dare voce a personaggi che vivono chiusi nella simbiosi esclusiva e totalizzante con i propri fantasmi, e lo fa costruendo articolate e complesse architetture mentali. Un’operazione in qualche modo accostabile a quella condotta da Samonà.

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5. Centuria: una Galleria di Caratteri perturbati

Se tutta l’opera di Manganelli può essere interpretata nel sen-so della tensione dialettica tra tradizione e avanguardia, Centuria (1979)12 incarna questa tensione in maniera esemplare.

Innovativa appare infatti l’idea di un libro contenente «cento piccoli romanzi fiume», tutti della stessa lunghezza, una pagina ciascuno, numerati da uno a cento.13 Non racconti ma veri e propri romanzi “condensati”, come annunciato dall’autore stes-so presentandoli al pubblico:

Il presente volumetto racchiude in breve spazio una vasta ed amena biblioteca; esso infatti raccoglie cento romanzi fiume, ma così lavorati in modi anamorfici, da apparire al lettore frettoloso testi di poche e scarne righe.14

Una forma narrativa che richiede ai lettori la capacità e l’astuzia di «leggere tra le righe, sotto le righe, tra le due facce di un foglio»15 per trovare tutto ciò che è stato apparentemente eliminato dal suo lavoro di condensazione:

Ho l’impressione che i raccontini di Centuria siano un po’ come ro-manzi cui sia stata tolta tutta l’aria. Ecco: vuole una mia definizione

12 Cito dalla già menzionata edizione Adelphi, 1995, a cura di Paola Italia.13 L’ordine dei racconti non risponde a un criterio razionale, ma è quello cro-

nologico. Lo precisa l’autore stesso in un’intervista a Stefano Giovanardi: «I rac-conti li ho scritti tutti fra il settembre e il novembre dello scorso anno, e sono stati pubblicati nell’esatto ordine di composizione; questo soprattutto perché credo che nel loro insieme essi disegnino, se non una trama, certamente un ritmo: il ritmo degli stati d’animo che si succedevano assolutamente incompatibili fra loro come le ipotesi di universo di volta in volta narrate…» (S. Giovanardi, Cento brevi romanzi fiume. Intervista a Giorgio Manganelli, «Avanti», 8 aprile 1979).

14 Il testo, che accompagnava la prima edizione Rizzoli del 1979, è riprodotto anche nei risvolti dell’edizione Adelphi qui utilizzata.

15 Ibid.

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del romanzo? Quaranta righe più due metri cubi di aria. Io ho lasciato solo le quaranta righe: oltretutto occupano meno spazio, e lei sa bene che con i libri lo spazio è sempre un problema enorme.16

Dunque un libro dalla struttura rigida, che imponendo all’au-tore la gabbia di una misura fissa per i singoli testi lo costringe all’essenzialità e all’autocontrollo:

Avevo per caso molti fogli di macchina leggermente più grandi del normale, e mi è venuta la tentazione di scrivere sequenze narrative che in ogni caso non superassero la misura di un foglio: è un po’ il mito del sonetto, cioè di una struttura rigida e vessatoria con la quale lo scrittore deve necessariamente misurarsi. Ma il fascino è tutto qui: in un tipo di scrittura che ti obbliga all’essenziale, che ti costringe a combattere contro l’espansione incontrollata.17

Nasce così lo stile limpido e asciutto di Centuria, che per la razionalità della struttura, la regolarità della sintassi, la precisio-ne del lessico, si distanzia decisamente dagli sperimentalismi lin-guistici e retorici di opere come Hilarotragoedia o Sconclusione.

Ma l’ordine costrittivo della struttura funziona anche come una sfida all’inventiva dell’autore, che si manifesta nella straor-dinaria galleria di “caratteri” formata dai protagonisti dei cen-to romanzi fiume. Sono figure di malinconici, solitari, maniaci, ossessivi, ipocondriaci, avvitati in propri tortuosi e incongrui percorsi mentali o oppressi da paradossali problemi metafisici. In queste fulminee narrazioni dallo stile cristallino, l’anomalia è implicita: risiede nelle fisionomie e nelle vicende dei personaggi, che spesso assumono tratti spiccatamente paradossali.

Troviamo così il «signore di buoni studi e umori moderata-mente malinconici» che dopo aver «scoperto la prova irrefu-

16 Giovanardi, Cento brevi romanzi fiume. Intervista a Giorgio Manganelli, cit.17 Ibid.

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tabile dell’esistenza di Dio» assiste al suo dileguarsi in seguito a un’inspiegabile fenomeno di amnesia (Quattro, pp. 23-24); il paranoico «signore vestito di scuro, dalla camminata attenta e pensosa», che «sa di essere inseguito» (Sette, pp. 29-30); l’ipo-condriaco che dopo essersi svegliato «con un profondo, ab-bandonato senso di salute» lo sente venir meno non appena la moglie gli dice «Stai proprio meglio, sai» (Ventisei, pp. 67-68); o il protagonista della centuria Trenta, ideale discendente dei personaggi di Agli dèi ulteriori e dei loro deliri di onnipotenza:

Alle dieci e trenta del mattino, un signore grasso, con barba, dal vesti-to un po’ sgualcito, si accorse di avere la facoltà di compiere miracoli. Bastava un gesto molto semplice: far scorrere il pollice della mano destra sulle punte di indice, medio, anulare della stessa mano. Natu-ralmente, la prima volta era capitato per caso, e aveva guarito un gatto intristito, istantaneamente. Si trattava di miracoli, non di ‘realizzazioni di desideri’. Quando fece quel gesto e chiese del denaro – precisò la cifra, assai ragionevole – non accadde nulla. Doveva giovare a qual-cuno. Guarì un bambino, calmò un cavallo, placò le furie di un pazzo omicida, trattenne in bilico un muro che rischiava di cadere su nonni e nipotini. […] Il signore grasso era seccato. Quando arrivò al quaran-tesimo miracolo, e si accorse che qualcosa cominciava a trapelare, de-cise di muoversi. Fu così che entrò con viva riluttanza nella chiesa di un quartiere in cui non aveva compiuto alcun miracolo, e affrontò un prete. Fu chiaro: precisò non solo di non essere credente, ma che quei miracoli potevano venire da un Dio del tutto diverso da quello che si adorava in quella chiesa. Il prete non mostrò stupore. «Non è il primo caso,» disse «sebbene da noi non ne fossero mai capitati. Sposato?». «No». «Perché non si fa prete?». «Ma non sono credente» replicò. «E chi lo è, ormai? Vede, lei fa miracoli: fosse matematico, le direi di fare l’ingegnere». Il penultimo miracolo del signore grasso fu quello di convertire il prete e spingerlo a penitenza; l’ultimo, di abolire se stes-so, perché il prete si persuadesse di essere stato miracolato. Questo ultimo miracolo fu molto apprezzato dagli esperti (pp. 75-76).

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La categoria a cui l’autore sembra accordare la sua predile-zione è però quella dei temperamenti maniacali: maniaci dell’or-dine, del controllo e della catalogazione, ossessivi condannati a ripetere coattivamente i loro rituali fisici e mentali.

C’è il maniaco dell’attesa:

Col tempo, è diventato un appassionato dell’attesa. Egli ama aspet-tare. Puntualissimo, detesta i puntuali, che lo privano, con la loro maniacale esattezza, del piacere incredibile di quello spazio vuoto, in cui non accade nulla di umano, di prevedibile, di attuale, in cui tutto ha l’odore esilarante e indefinibile del futuro. Se l’appuntamento è a un angolo di strada, gli piace fingere una favola di possibili equivoci; e passa da un angolo al prossimo, ritorna, si guarda attorno, scruta, attraversa la strada; l’attesa diventa avventurosa, irrequieta, infantile. Vi fu un tempo in cui un ritardo di dieci minuti gli dava un’ira sorda, come se fosse stato insultato. Ora vorrebbe ritardi di quindici, venti minuti. Ma deve essere un vero ritardo; pertanto, non serve arrivare in anticipo (Trentatré, p. 81).

C’è quello che si dedica alla minuziosa classificazione dei tipi umani e delle frequentazioni da scandire nei giorni della setti-mana, valutando con cura tutte le variabili, nonché i giochi di equilibrio e di compensazione:

Tra la fine di domenica e il primo lunedì, egli comincia a disporre la settimana, tramando un sottile, arduo calcolo di incontri. In ge-nere, egli dedica il lunedì, giorno ottuso, che regge il peso instabile d’una settimana, ad una delle sue cinque amiche lisce: chiama lisce le amiche che non propongono problemi affettivi, sessuali, intellettuali […]. Poniamo che scelga l’angosciata e la trovi disponibile. Egli non può escludere una tardiva crisi d’angoscia, e per il giorno successivo fisserà due appuntamenti – con un amico estroso e generoso, e con una donna pacata e un poco banale, ignara di crisi. Deciderà poi. Al mercoledì vorrebbe vedere una donna che desidera, ma che non ama,

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ma non osa parlarle prima di aver sistemato il giovedì con una donna estremamente consolatrice, forse innamorata, alla quale potrà affidare le inevitabili angustie del precedente appuntamento, qualunque ne sia stato l’esito (Quaranta, pp. 95-96).

Si legga, infine, il «romanzo» dedicato all’«impiegato di con-cetto» la cui mania dell’ordine si trasforma in delirio di onnipo-tenza:

Costui è veramente un abitudinario. Veste sempre, da sempre, quale ora lo vedete, un completo grigio: ha tre vestiti identici, che indossa a turno. Ha tre paia di guanti scuri, tre paia di cappelli. Si sveglia alle sette meno cinque, si alza alle sette. Custodiscono l’esattezza del suo risveglio tre sveglie sincronizzate, e ricondotte all’ora di Greenwich; altre tre sveglie sono costantemente affidate alle cure di un unico oro-logiaio, del tutto consapevole della gravità del suo compito. Alle otto è pronto per uscire. Un cammino di trenta minuti lo separa dal suo posto di lavoro: ha rinunciato a servirsi di mezzi pubblici, a causa della loro imprevedibile inesattezza. Alle cinque e quarantacinque è nuovamente a casa. Riposa trenta minuti. Non legge né libri né gior-nali, che egli considera depositi di inesattezze. Mangia sobriamente; è astemio. Cammina per un’ora, in casa o attorno a casa, a seconda del tempo. Detesta il tempo, e lo considera un segno della fondamentale inesattezza dell’universo. Rifiuta vento o pioggia. […]Nel suo quotidiano tragitto egli esegue quello che chiama un «eser-cizio spirituale»; esso consiste nella limitazione del mondo ad un iti-nerario angusto, nel cui ambito sempre meno possa accadere. Que-sto «esercizio» in realtà nasconde un disegno più sottile, pervicace e sapiente. Egli vuole fare del suo itinerario, della sua casa un luogo unico, centrale all’ordine del mondo. Vuole che il suo passo sia il pen-dolo esatto del mondo. Egli è convinto che il mondo non sia in gra-do di tener testa alla sua esattezza. Pertanto, egli è giunto a coltivare una ambizione anche più temeraria. Un giorno egli eseguirà un gesto inesatto, incompatibile col mondo; e questo, egli sa, verrà lacerato e

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disperso come un vecchio giornale in un giorno di vento. Sul Trono di Dio governerà sul Nulla epurato di sogni l’impiegato di concetto vestito di grigio (Trentaquattro, pp. 83-84).

La biografia di un maniaco e del suo scivolare fino al deli-rio, condensata in un foglio A4; la parabola discendente di una mente intrappolata nella sua stessa rete; la brillante epifania di una lucida follia e della sua apoteosi.