UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELL’EDUCAZIONE ELABORATO FINALE DI LAUREA UNA MAPPA SULLE COMUNITÀ TERAPEUTICHE E I CENTRI DIURNI PER LA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA DELL’ULSS 5 OVEST VICENTINO TUTOR E RELATORE: Prof. Milan Giuseppe ESTENSORE: Pittaro Michele ANNO ACCADEMICO 2004 – 2005
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LA FIGURA DELL’EDUCATORE NELLE COMUNITÀ TERAPEUTICHE E NEI CENTRI DIURNI PER LA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE
DELL’EDUCAZIONE
ELABORATO FINALE DI LAUREA
UNA MAPPA SULLE COMUNITÀ TERAPEUTICHE E I CENTRI DIURNI PER LA
Introduzione Cap. I: La riabilitazione psichiatrica
1.1 Obiettivi della riabilitazione psichiatrica 1.2 Origini e sviluppo dell’assistenza psichiatrica 1.3 Interventi riabilitativi
Cap. II: I luoghi della riabilitazione psichiatrica nel Dipartimento di Salute
Mentale, ULSS N° 5 Ovest Vicentino - Regione Veneto
2.1: Organizzazione del Dipartimento di Salute Mentale dell’ULSS n.5 2.2 Le Comunità Terapeutiche
2.2.1 Comunità Alloggio "Casa di Giobbe" 2.2.2 Comunità Terapeutica Residenziale Protetta (CTRP)
“Il Girasole” 2.2.2.1 Attività
2.3 Il Centro Diurno 2.3.1 Il Centro Arcobaleno di Arzignano 2.3.2 L’approccio adottato dal Centro Arcobaleno con la malattia mentale 2.3.3 L’organizzazione delle risorse 2.3.4 Le principali attività
2.4 Altre risorse: Gruppi di Auto – Mutuo – Aiuto e Salute
Mentale Cap. III: L'esperienza di tirocinio Cap. IV: L'educatore nella riabilitazione psichiatrica Conclusioni
ma scarse sono state fin ora le esperienze in ambito psichiatrico. Il motore dei gruppi di auto
mutuo aiuto è l’attivazione di una serie di risorse personali e sociali volte ad ottenere il benessere
dei singoli, determinando una maggiore vicinanza tra gli individui allo scopo di promuovere stili di
vita sani.
L’auto mutuo aiuto nel campo della salute mentale si è dimostrato un efficace strumento nella
lotta allo stigma della malattia mentale. Questa modalità di intervento ha sostenuto, infatti,
l’integrazione degli utenti psichiatrici nella realtà territoriale. Ha creato delle utili connessioni con
la società civile e promosso la nascita di legami e prospettive di riconoscimento di sé. La persona,
per uscire dalla chiusura psicotica, ha così uno strumento in più oltre alla psicoterapia e alla terapia
farmacologica.
Le finalità dei gruppi sono di:
• Migliorare la qualità della vita delle persone e famiglie in situazione di disagio psichico.
• Favorire lo scambio di esperienze e il sostegno reciproco tra le persone.
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• Favorire l’inserimento e la partecipazione ad iniziative di tipo sociale (ricreativo, sportivo,
culturale).
• Fornire informazione, educazione e norme di prevenzione relativamente alla salute mentale
Attualmente i gruppi attivati sono i seguenti:
RIUNIONE GENERALE DELL'AUTO-AIUTO: è una riunione dedicata allo scambio di
informazioni tra i gruppi, alla formulazione di nuove proposte e di eventuali osservazioni relative
alle tematiche dell'auto-aiuto.
Gruppo TEMPO LIBERO: Il venerdì sera, il sabato sera e la domenica si realizzano le iniziative
previste dal programma di tempo libero festivo e serale che sono: gite, cinema, teatro, cene, attività
di tipo culturale (visite a mostre, concerti). A tale attività partecipano più operatori essendo la
presenza di utenti, familiari e volontari sempre numerosa.
Gruppo TIRAMISU': nasce dalla richiesta di alcuni utenti e familiari sofferenti di depressione;
e' un gruppo stabile, attivo e autonomo, costituito da 10-12 persone che si incontra settimanalmente.
Nel gruppo vengono comunicate le proprie esperienze ed opinioni, nel rispetto reciproco delle
proprie posizioni. Nell'ambito del gruppo si manifesta una sorta di sostegno reciproco, che si
realizza attraverso forme di aiuto concreto anche al di fuori degli incontri settimanali.
Gruppo PROBLEMI LAVORATIVI: il gruppo problemi lavorativi nasce dall'urgenza delle
richieste più volte espresse dai nostri utenti con lo scopo:
- di uno scambio di informazioni e di esperienze;
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- costruire una mappa delle realtà lavorative utilizzando le informazioni fornite dagli utenti
stessi;
- analizzare i motivi dei successi e fallimenti lavorativi degli utenti;
- fornire supporto reciproco, stimolo alla ricerca e al mantenimento del lavoro.
Gruppo STRETCHING: é un gruppo in cui la dimensione corporea e l'attività fisica rivestono
notevole importanza. E' composto da sei-sette utenti, i quali attraverso questa tecnica ricercano il
benessere psico-fisico. Attualmente alcuni utenti hanno acquisito una certa abilita' e sono in grado
di proporre e insegnare gli esercizi ad altri. Gli esercizi vengono accompagnati dalla musica
utilizzando lo stereo in dotazione.
Gruppo COMPUTER: é un gruppo di giovani che, grazie all'utilizzo del computer e ad Internet,
acquisiscono delle conoscenze informatiche di base e fanno contemporaneamente amicizia.
Gruppo FAI DA TE: é nato poco prima del Natale 1999. Le abilità manuali ed il gusto di alcuni
utenti e familiari hanno prodotto la realizzazione di piccoli oggetti artigianali, esposti in alcuni
mercati della provincia, riscontrando un notevole successo.
Gruppo INGLESE: nasce dalla disponibilità di Clark, socio del gruppo self-help 'S. Giacomo' di
Verona, a seguire un gruppo di utenti che, attraverso l'apprendimento della lingua inglese, hanno
occasione per conoscersi, socializzare ed incrementare la loro cultura personale. Si tratta, in
prevalenza, di giovani dove tale aspetto appare particolarmente importante. Il gruppo si incontra
settimanalmente alternando la lezione con Clark ad un incontro maggiormente autogestito, in cui
ognuno aiuta l'altro a fare esercizio. Le lezioni si avvalgono dell'uso di materiale audiovisivo.
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Gruppo GIORNALINO: é un gruppo appena nato e battezzato il 'Giornalino dell'auto-aiuto' e si
propone come attività pratica e creativa per utenti e operatori impegnati nelle varie fasi di
realizzazione. Ogni gruppo e' invitato a scrivere un articolo; il gruppo giornalino funge da
redazione. Il gruppo computer cura la realizzazione grafica e la stampa del giornalino. Tale gruppo
ha scopo divulgativo, informativo e promozionale sul tema dell'auto-aiuto, si propone di diffondere
il progetto della realtà locale, di dare voce ai singoli gruppi, approfondire i temi di interesse
comune.
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Cap. III
L’esperienza di tirocinio
Ora tramite la mia esperienza, cercherò di esporre in maniera più concreta quale siano le reali
attività che si conducono all’interno del centro arcobaleno.
Per cominciare vorrei sottolineare un aspetto molto importante del lavoro di comunità che
sebbene sembri generico nel Centro Arcobaleno trova un ruolo strategico decisivo: quello della
quotidianità; tra le prime difficoltà che si incontrano nell’accostarsi ad un gruppo organizzato la più
consistente, a mio avviso, è quella di creare un nuovo spazio nella psiche del gruppo, ricreare quello
che Kurt Lewin chiamava sintalità, ossia il comune concetto di gruppo e di condivisione e
conoscenza reciproca; più in particolare Lewin parlava di spazio odologico, ossia di spazio che,
creato dal gruppo, ricreava il singolo in una nuova immagine di sé in rapporto agli altri ed in
rapporto alla funzionalità del gruppo come sistema in grado di essere efficace.La quotidianità è
l’attuazione pratica del lavoro di gruppo, di quello di equipe, e di quello più esteso formato dagli
utenti del centro. Ho notato infatti che all’accettazione della mia persona all’interno del gruppo
istituzionalizzato e quindi alla conseguente creazione di un nuovo elemento e risorsa per gli utenti,
gli ospiti automaticamente innestavano tutta una serie di processi finalizzati alla conoscenza della
novità, in maniera rintracciabile in più o meno tutti i soggetti anche se con manifestazioni, tempi e
reazioni completamente diverse da soggetto a soggetto.
Questi processi sono riassumibili nelle seguenti fasi:
iniziale conoscenza del mio ruolo con una superficiale accettazione della mia persona;
conseguente fase di osservazione o di distacco
fase conclusiva di stabilizzazione delle relazioni
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fase produttiva di utilizzo vero e proprio delle relazioni instauratesi per il procedere della
terapia.
Per la verità in un periodo tutto sommato breve, quale è stato quello del mio tirocinio, non è
facile instaurare delle relazioni in maniera continua, tanto più perché il tipo di disagio spesso non
permette alle persone di avere un rapporto con gli altri che rimanga stabile e fondato su una buona
conoscenza del prossimo; risulta invece più forte il legame dal punto di vista affettivo: l’essere
punto di riferimento per una o più persone che non sanno essere obiettive con se stesse né con gli
altri, è un risultato conseguente unicamente dalla quantità di empatia che parte dall’operatore e che
è indirizzata verso l’utente, il quale consciamente o meno riconosce lo sforzo e individua in esso
una risorsa utile alla propria cura.
Altra osservazione da me fatta riguarda il tipo di relazioni affettive che si creano tra gli utenti e
gli operatori: siccome a monte della quasi totalità delle patologie presenti è rintracciabile un distorto
rapporto affettivo con i familiari, nei nuovi legami con l’equipe il paziente spesso ricerca una figura
sostitutiva con la quale ricreare un rapporto che produca sicurezza. Sta all’operatore riuscire a
captare ogni forma di adeguamento del soggetto a distorsioni morbose del rapporto.
Un’ultima osservazione prima di passare alla descrizione delle attività alle quale ho partecipato
riguarda il rapporto con gli altri operatori. Ho notato che il grado di efficienza rimane piuttosto alto
nella misura in cui tra colleghi non nascono dicerie o voci di corridoio; in parole semplici, se ci si
dice tutto in faccia non nascono tensioni che possano inficiare le modalità di lavoro di uno od un
altro.
Inoltre, come ho scritto più sopra, l’essere espliciti e il non avere malizie verso gli altri è una
delle premesse per la salute mentale (e a mio avviso di chiunque).
Passiamo ora alla gestione delle attività.
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Il centro è frequentato da persone dai 20 ai 50 anni di età affette da problemi mentali quali la
schizofrenia e scompensi di vario genere (disabilità mentali o depressione cronica) ed ognuno è
seguito dallo psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale di Montecchio col quale ha incontri
regolari a seconda del bisogno e della patologia.
Nel Centro Arcobaleno la prima regola da far applicare ai ragazzi è quella della cura della
propria persona e della gestione delle risorse materiali, quali il denaro, i vestiti o gli oggetti di vario
genere. Alcuni utenti godono di una pensione di invalidità mensile, altri lavorano ed altri hanno
aiuti dalla famiglia. A seconda della gravità dello scompenso i soldi vengono dati direttamente agli
utenti oppure gestiti dagli operatori ed elargiti a seconda delle richieste o in una somma giornaliera.
Da notare che quasi tutti fumano moltissimo e questo rappresenta una considerevole fonte di spesa.
A proposito delle fonti di reddito alcuni sono soggetti alla possibilità di inserimento lavorativo;
dopo una prima diagnosi e un primo approccio con le attività del centro viene stabilito quali soggetti
sono in grado di lavorare in ambienti non protetti (alcuni lavorano in fabbrica o comunque in
aziende private) e quali invece non lo sono; quali hanno bisogno di periodi di stage o di prova e
quali non saranno mai in grado di esercitare attività in maniera relativamente autonoma.
Naturalmente quelli che non lavorano partecipano a tutte le attività del Centro Diurno che sono
organizzate a rotazione in maniera che tutti prima o poi partecipino alle attività previste. In questa
maniera è possibile vedere quale tipo di attitudini sia più facile sviluppare in taluni soggetti rispetto
che in altri: chi è bravo in cucina, chi a fare le pulizie, chi nelle attività manuali del cartonaggio,
ecc.
Le attività iniziano la mattina alle dieci con una riunione in cui tutti i partecipanti decidono
assieme agli operatori come spartirsi i compiti nell’arco della giornata; questo serve come stimolo a
sapersi organizzare, ad avanzare richieste (ognuno può decidere se preferisce fare un’attività
piuttosto che un’altra), a mettersi in rapporto con gli altri sviluppando forme di responsabilizzazione
nei confronti del gruppo. Penso che il gruppo sia una delle componenti più significative per la cura
del disagio: nel gruppo il singolo da una parte ha minor possibilità di perdersi in pensieri
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autolesionisti e dall’altra ha modo di esprimere le proprie preoccupazioni; in generale impara a
misurarsi con una realtà complessa, fatta di diversità (risorsa molto considerata). Durante la
riunione delle dieci vengono distribuite le terapie della mattina.
Le attività sono:
Il gruppo bellezza: in questo gruppo tutte le ragazze e operatrici passano la mattinata a
sperimentare trucchi e acconciature; questa attività ben si applica per contrastare forme di
trascuratezza spesso concausa di una declino della propria integrità psicologica sul fronte
relazionale.
Il gruppo stiro: durante la giornata alcuni operatori seguono le ragazze nello stiro degli
indumenti degli ospiti e delle tute per l’attività sportiva. Questa attività dà la possibilità di
guadagnare qualche soldino, cosa che si è rivelata essere un ottimo rinforzo per la propria
autostima: è una forma di autonomia, anche se molto elementare.
Le pulizie negli appartamenti occupati dai pazienti: operatori ed utenti di recano col pulmino
negli appartamenti dei pazienti per fare le pulizie e questi ripagano in denaro questa attività, la
cui funzione è simile a quella del gruppo stiro anche se si sono notati maggiori risultati
sull’autostima, forse perché, benché sia protetta, è condotta al di fuori delle mura del centro e
richiede un’organizzazione dei ruoli più decisa ed efficiente.
La pallavolo: questa attività è molto sentita dai ragazzi per una serie di motivi; per prima cosa i
centri diurni della regione sono organizzati in un torneo annuale e questo crea un forte spirito di
squadra; l’attività fisica, poi, favorisce oltre che un rinvigorimento del corpo, lo sviluppo di
coordinazione, cosa che le malattie mentali croniche inficiano fortemente.
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Il gruppo del cartonaggio: Da qualche mese a questa parte una delle operatrici ha istituito questo
nuovo gruppo nel quale si eseguono attività artistiche e produzione di piccoli oggetti
ornamentali quali cornici e quadretti, biglietti di auguri e simili.
Il gruppo “test”: è un gruppo un po’ particolare di discussione. In questi gruppi viene utilizzata
la scusa del test per affrontare tematiche di vario genere, solitamente decise dagli utenti stessi
cercando di creare un'atmosfera simile a quella dei gruppi di mutuo aiuto in maniera che le
tematiche emergenti vengano considerate sia come vissuto personale che come esperienza
comune da condividere e condivisa.
A mio parere l'utilità di questi gruppi si può riscontrare in tre differenti modalità:
La prima riguarda la capacità di affrontare i propri problemi affettivi e cercare di capirli dando la
possibilità di sondare i limiti delle proprie capacità intellettive in maniera pratica e inconscia; il
confronto con gli altri si trasforma in spunto di riflessione ma non crea imbarazzi di fronte alla
propria incapacità di comprendere.
La seconda riguarda la rielaborazione della propria esperienza di centro diurno all'interno dei
servizi nel senso della comprensione e accettazione della propria situazione esistenziale e del
significato del percorso nel quale gli utenti si trovano.
La terza riguarda, in maniera limitata alla disponibilità e capacità degli utenti, la concreta
comunione di esperienze traumatiche. Sebbene la loro soluzione definitiva in tali circostanze non
sia obiettivamente possibile, è possibile una significativa rielaborazione e re inquadratura con
l'aiuto del gruppo.
Il pranzo: nella riunione della mattina vengono divisi i compiti per il servizio in tavola
(preparare, servire, spreparare). Oltre a quest’aspetto operativo il momento del pranzo dà la
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possibilità di stare assieme, parlare e aprirsi verso gli altri grazie anche all’aiuto degli operatori
che scherzando o proponendo argomenti facilitano il dialogo.
Per finire ci sono le riunioni dell’équipe.
La riunione giornaliera, tra gli operatori, con o senza la presenza dello psichiatra, serve a parlare
di alcuni casi in particolare e scambiarsi idee, osservazioni e informazioni sull’andamento della
comunità e degli utenti per prendere eventuali decisioni sulla modifica di percorsi o terapie.
Comunque sia tutte le eventuali decisioni vengono riportate nella riunione del venerdì pomeriggio,
riunione nella quale si riunisce l’équipe al completo e nella quale si parla di ogni persona e degli
eventi pù significativi della settimana. Grosso modo si prendono decisione su: terapie, disposizione
logistica, assegnazione dei compiti e modalità d’approccio.
Disposizione logistica: può succedere che alcuni pazienti adottino, a casa, dei comportamenti
poco proficui per la cura della malattia e si può quindi decidere di accogliere nella comunità,
previa disponibilità, qualche persona per monitorarla e per aiutarla a non degenerare. In
questo modo inoltre si crea una mediazione molto proficua con la famiglia che non si sente
sottratta del figlio ma si sente tutelata.
L’assegnazione dei compiti: conseguente all’osservazione e alla sperimentazione, il compito
dà la possibilità al paziente di mettersi in gioco con se stesso. Molto importante è
l’osservazione: solo tramite essa è possibile capire dove possa esserci un maggior interesse, e
solo dall’interesse nasce la passione (si sa).
Le modalità d’approccio: in questo ambito vi è la parte più speculativa e delicata di tutto il
percorso riabilitativo; nell’equipe vi sono diverse presonalità ed ognuno può essere più o
meno ricettivo ed empatico con certi ospiti piuttosto che con altri. Ciò da la possibilità agli
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utenti di individuare una persona in particolare con la quale aprirsi e creare un legame che le
dia modo di confidare i propri segreti, legame che tramite la fiducia aiuta a contenere l’ansia
e gestire la paura.
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Cap. IV
L'educatore nella riabilitazione psichiatrica
A questo punto la domanda sorge spontanea: quale sarà mai il ruolo dell’educatore in un Centro
di Salute Mentale? La risposta non è per niente scontata in quanto le figure professionali presenti
nelle strutture del distretto fanno tutte riferimento alla direzione medica. Tra le figure che lavorano
a diretto contatto con gli utenti troviamo infatti psichiatri, psicologi e operatori socio sanitari, tutte
persone che, chi più chi meno, devono seguire le direttive date dai medici psichiatri e, soprattutto
per quanto riguarda gli psicologi, devono adeguare le proprie prestazioni professionali ad una prassi
di tipo medico.
Solo i medici possono utilizzare gli psicofarmaci essendo la farmacologia parte integrante e per
certi versi fondante delle terapie utilizzate. la prassi educativa invece opera per lo più in situazioni
in cui il dialogo, per quanto ostacolato da problemi comportamentali o ambientali, è possibile e
fondamentale per creare un rapporto educativo orizzontale fondato sullo scambio reciproco.
Nell’educazione è infatti il dialogo il fattore fondamentale per una buona riuscita dei rapporti tra le
parti e proprio questo con i malati mentali è spesso difficoltoso e mediato dalla terapia stessa.
Tutto ciò per dire che benché la figura dell’educatore in un Dipartimento di Salute Mentale sia
prevista e possibile, il suo ruolo è impegnativo in quanto è chiamato ad operare in collaborazione e
non in competizione, fondando le sue prestazioni su basi sceintifiche se non si vuol avere un ruolo
di secondo o terz’ordine.
Tuttavia anche tutti gli altri operatori, medici compresi, dovrebbero porre alla base del loro
intervento professionale i principi cardine della pedagogia.
I nodi fondamentali dell’agire pedagogico, a mio avviso, presuppongono una determinata
concezione dell’uomo e, dunque, la necessità di definire l’utente. L’utente, l’ospite o paziente in
senso pedagogico chi è? E’ una persona, e la persona può essere considerata dualità di essere e
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sembrare. Di primo acchito un malato mentale grave può sembrare un disabile mentale e chi ha
esperienza con i disabili mentali sa che con quel tipo di utenza il lavoro pedagogico ruota attorno
alla vicinanza emotiva e all’assistenza sanitaria e sa che per la maggior parte dei casi il limite
mentale non viene percepito o non genera sofferenza all’utente, essendo tale limite reale e non
immaginario o auto imposto. Il malato mentale, invece, è portatore di un disagio che nasce in sé e
che aliena la propria autenticità relegandola ad un setting di manifestazioni non coerenti con un
comportamento adeguato ad un buon vivere dal punto di vista affettivo, sociale, lavorativo, ecc. Vi
è quindi una discrepanza tra il sembrare e l’essere della persona che comunque mantiene in sé la
propria originalità.
La relazione educativa, dal canto suo, richiede due elementi fondamentali: la sincerità e la
fiducia; ma come fare se la sincerità è inficiata dalla malattia mentale? Di fronte ad una frase del
tipo: “Ieri mi hanno portato in cima al monte dentro una bara e poi mi hanno fatta scivolare giù”,
cosa c’è di vero? Dove sta la verità di tale affermazione?
In casi più soft di assistenza si possono incontrare persone che tendono a nascondere se stesse
dietro a muri di falsità, dietro a tormentati tentativi di sembrare qualcosa o qualcuno per nascondere
se stessi, le proprie verità dolorose; ma in un malato mentale questi meccanismi sono cronicizzati e
l’approccio utilizzato dalla scienza medica considera molto le manifestazioni esterne per
organizzare il proprio lavoro e mantiene un certo distacco. Tuttavia nelle relazioni simmetriche v’è
scambio: uno dei pilastri della pedagogia è proprio quello dell’empatia, la quale richiede che l’una
parte riceva e ceda parte di sè. Ma con una mente malata questo tipo di agire diviene pericoloso
perché nello scambio qualcosa viene irrimediabilmente distorto.
L’empatia è la profonda e rara capacità di mettersi al posto dell’altro, di lasciarsi coinvolgere da
lui, di immergersi nel suo mondo emozionale vedendolo come lui lo vede, e di conservare allo
stesso tempo la propria autonomia e chiarezza di comprensione e di giudizio.
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Credo sia possibile e doveroso instaurare un rapporto di fiducia tra l’operatore e il paziente
psichiatrico ma mi guardo bene dall’affermare che dalla fiducia dell’operatore se ne debba ricavare
sincerità da parte del paziente.
In pedagigia l’autenticità è quel fattore chiave che ricerca la parte più umana e vera della
persona al di là del proprio ruolo professionale, è quella richiesta di verità soggettiva che deve
trasparire dalla persona, perché il contatto con l’altro non lasci spazio a quelle falsità che con il
passare del tempo corrodono il sè autentico innestando comportamenti dannosi. Tutto ciò con una
mente malata è possibile, ma richiede alcune mediazioni: va bene essere autentici, va bene che
l’autenticità prescinda dal ruolo professionale, ma non bisogna dimenticare che si esplica attraverso
di esso. Allora un educatore deve agire, di primo acchito, da persona autentica accettando l’altro per
quel che è, ma prima di entrare in empatia con lui, cosa difficile ma possibile, deve riuscire a capire
cosa accettare e cosa scartare dell’altro perché sono proprio le sue manifestazioni sociali e
interrelazionali ad essere distorte dal disagio psichico. Una volta fatta questa doverosa cernita dovrà
tuttavia capire come la terapia farmacologica agisce sulla persona, ancora un a volta per
comprenderne meglio le manifestazioni.
Una volta che si saranno delimitati i confini relazionali del paziente e si sarà compreso a cosa si
deve arrivare con la relazione educativa, si potrà sempre agire di propria iniziativa in maniera
creativa. Infatti, benché le conoscenze scientifiche di un educatore possano essere magre, un
educatore porterà sempre con sè le premesse teoriche necessarie perché una persona sappia aiutare
chi è in difficoltà.
Queste premesse sono ben rintracciabili nell’opera di Martin Buber, e con la sua distinzione tra i
due tipi di relazione: Io-Tu e Io-Esso. Nella relazione Io-Tu, quella autentica, l’Io mette in gioco la
sua essenza più autentica nella direzione dell’apertura e dell’incontro con l’altro inteso non come
Esso, come soggetto portatore di una serie di manifestazioni inautentiche e automatiche, ma come
Tu, ossia come unità originaria. E’ solo tramite questo tipo di relazione che il Tu può, se lo vuole,
essere libero, liberare se stesso dalle catene auto imposte. Questo discorso ben si attua in un
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contesto psichiatrico nel quale il malato ha perso la capacità di esprimere l’io. Da quanto visto, la
cura delle malattie mentali non giunge quasi mai ad un recupero totale delle capacità cognitive ed il
più delle volte si limita ad un sostegno. In questo caso un supporto affettivo e di animazione come
può essere quello dell’educatore, il quale, oltre che stimolare le persone, ricerca la loro autenticità
può essere un ottimo stimolo per raggiungere maggiori stati di benessere anche se tutto ciò non può
essere dimostrato: la psicoterapia è una scienza relativamente nuova e la figura dell’educatore
professionale appartiene all’ultimo decennio; bastano questi due elementi per comprendere come
sia difficile affrontare il problema delle malattie mentali in maniera seria tramite una riflessione non
fine a se stessa o che non si rifaccia ad un qualcosa di già detto e ripetuto. Inoltre nel concreto la
figura dell’educatore è più vicina a quella dell’operatore socio sanitario che a quella dello psicologo
e di fatto non ha applicazione, ma non per questo non si devono sperimentare metodi diversi.
Quel che non deve mancare è la responsabilità, cosa che in senso umano implica un impegno
estremo, pari a quello che un genitore deve avere con i propri figli. Essere responsabili nei confronti
dei propri educandi significa immergersi in un ruolo fatto di grandi gioie e di grandi rischi, un ruolo
che non termina mai. Se l’educatore professionale opera in maniera responsabile può sperimantare,
altrimenti è meglio che si attenga a protocolli o setting di attività già collaudati.
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Conclusioni
La medicina e la pedagogia sono due discipline estremamente distanti per metodi e mezzi ed
allo stesso tempo estremamente simili per le loro finalità. La struttura nella quale ho svolto il mio
tirocinio era una via di mezzo tra una struttura sanitaria ed una più tradizionale struttura socio-
assistenziale e si innestava in quella terra di mezzo rappresentata dalle Strutture Intermedie.
Le strutture Intermedie si collocano in una area detta area terza: quella nella quale avviene
l’incontro tra l’area del soggetto con le sue caratteristiche e i suoi desideri, e l’area dell’oggetto-
ambiente, con le sue risorse e richieste. L’area terza è quella dei fenomeni transizionali, del gioco e
della cultura. E’ quella nella quale avviene e si struttura in modo autentico e piacevole l’incontro
con l’oggetto-non me. Quest’oggetto, costituito da cose, attività, persone, eventi, viene considerato
e ricreato in maniera autentica e questo basta perché chi ne usufruisce non cada in un circolo di
dipendenza psicologica logorante, ma consideri questo artefatto mentale ed emotivo come una
propria creazione ed in quanto tale fonte di soddisfazione. Le Strutture intermedie quindi forniscono
un contesto spaziale e temporale nel quale i pazienti possono vivere questa area terza, essenziale per
la sopravvivenza psichica; è un’area che spesso nella sua esistenza è stata invasa e annullata
dall’oggetto che ha fatto propaganda per le buone cose che ha sempre dato alla persona sofferente (i
genitori che hanno sempre agito per il bene dei figli), o un’area che è stata disertata dal soggetto
attraverso il suo ritiro in rifugi interiori inaccessibili, quale deliri, autismi, ossessioni. Le strutture
intermedie propongono non tanto una realtà migliore di quella in cui i pazienti vivono, ma la
possibilità di abitare per un certo tempo nell’area terza, nella quale sviluppare un apparato psichico
fornito di una maggiore possibilità di incontro tra sé e la realtà esterna, senza annientamento-
adeguamento e senza fuga e diniego.
Questa è, in ultima analisi, la realtà dei centri diurni. E l’educatore proprio qui può creare uno
spazio nuovo, un nuovo laboratorio umano nel quale sperimentare assieme ai pazienti, utilizzando
le proprie conoscenze, percorsi di vita e di esperienze in una situazione privilegiata dal fatto che tra
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il paziente e l’educatore finalmente non vi sono più elementi disturbatori quali potevano essere i
genitori o dipendenze distorcenti. E per quanto il dialogo possa essere ostacolato non bisognerà mai
perdere la speranza di riuscire nel proprio intento.
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Bibliografia
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