Conferenza ESPAnet Università degli Studi di Salerno, 17 - 19 Settembre 2015 Welfare in Italia e welfare globale: esperienze e modelli di sviluppo a confronto La conciliazione dei tempi di donne occupate in differenti contesti di lavoro: un’indagine qualitativa sui bilanci del tempo Autori Mary Fraire*, Maria Rosaria Garofalo**, Mita Marra** *Università di Roma “La Sapienza” **Università di Salerno Versione preliminare. Non citare senza il consenso dell’autore
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La conciliazione dei tempi di donne occupate in · 2017. 2. 24. · La conciliazione dei tempi di donne occupate in differenti contesti di lavoro: un’indagine qualitativa sui bilanci
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Conferenza ESPAnet
ITALIA Università degli Studi di Salerno, 17 - 19 Settembre 2015
Welfare in Italia e welfare globale: esperienze e modelli di
sviluppo a confronto
La conciliazione dei tempi di donne occupate in
differenti contesti di lavoro: un’indagine qualitativa sui
bilanci del tempo
Autori Mary Fraire*, Maria Rosaria Garofalo**, Mita Marra**
*Università di Roma “La Sapienza”
**Università di Salerno
Versione preliminare. Non citare senza il consenso dell’autore
La conciliazione dei tempi di donne occupate in differenti contesti di lavoro:
un’indagine qualitativa sui bilanci del tempo
Introduzione
La conciliazione dei tempi vita-lavoro rappresenta un tema aperto sia nell’analisi dei modelli, virtuosi
o viziosi, di scelta che essa sottintende nei diversi domini – quali la famiglia, il contesto di lavoro, la
partecipazione volontaria all’azione collettiva e alle relazioni di prossimità, il tempo per sé – e nelle
relative tecniche di raccolta di dati, sia nel dibattito di policy e nella conseguente riflessione sulla
sperimentazione di misure d’intervento, sulla loro complementarietà e canali di diffusione. Com’è
noto, dalla seconda metà degli anni ‘90 e a livello globale, in risposta alla “Piattaforma di Azione”
condivisa dalla IV Conferenza Mondiale delle Donne (1995) per una rilevazione sistematica da parte
dei Paesi aderenti dell’uso del tempo quotidiano delle donne e degli uomini a supporto delle politiche,
si mettono a punto metodi di rilevazione che sostanziano la ormai quasi sterminata letteratura sui
nessi tra condizioni di vita delle donne e diseguaglianze di-intra genere, tra l’altro fertilizzata da
contaminazioni interdisciplinari (cfr. Garofalo e Marra, 2013 su casi relativi al Mezzogiorno d’Italia).
Le analisi economiche si riferiscono, nel complesso, all’evidenza empirica secondo cui, da un lato,
il divario del tempo di lavoro totale tra uomini e donne si riduce nei Paesi avanzati, anche se meno in
quelli cattolici come l’Italia (Burda et al., 2008) e, da un altro lato, il divario del tempo di lavoro
non pagato si riduce a tassi differenti, ma persiste persino in Paesi avanzati e caratterizzati da offerta
pubblica ed universalistica di servizi di cura, come nei Paesi Nordici, pur evidenziando sentieri più
virtuosi. In particolare, queste analisi possono essere classificate in base a differenti criteri, ad
esempio secondo il livello di analisi, se macro o micro. In particolare, le analisi sull’uso del tempo di
livello macro si focalizzano sulla misurazione del valore del lavoro non pagato (complessivo o
disaggregato in lavoro domestico e cura nella famiglia e/o nella comunità) e sulla identificazione dei
legami di in-sostenibilità tra produzione per il mercato e riproduzione sociale in senso esteso
(Antonoupulos et al, 2007; Zacharias et al, 2013). Fa la differenza tanto il riferimento tanto al grado
di sviluppo del Paese di riferimento allargando l’approccio unidimensionale del reddito medio pro
capite – e cioè specializzazione produttiva e competitività internazionale; struttura occupazionale e
forme di segregazione, discriminazione e lavoro irregolare e informale; assetto istituzionale e accesso
e controllo alle risorse (cfr. Berik et al., 2008 per una rassegna) –, quanto il riferimento al relativo
sistema di welfare e alle interconnessioni con le regole del mercato del lavoro, integrando la
tassonomia di Esping Andersen con l’ottica di genere – e cioè se familistico, statale o
“commodificato”. Le analisi sull’uso del tempo di livello micro appartengono al filone di economia
della famiglia e, a sua volta, si possono raggruppare in tre classi, anche sovrapponibili, e cioè a
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seconda o se si analizzano le scelte nel tempo con una prospettiva di utilità intergenerazionale, o se
si analizzano le scelte di allocazione del tempo come una risorsa scarsa ed esauribile per la
massimizzazione dell’utilità della famiglia (considerata alternativamente o come unità omogenea per
cui, date le preferenze, le dotazioni individuali diseguali si compensano o come un nucleo eterogeneo
in base a dotazione di risorse, accesso alle opportunità e preferenze) o se studiano modelli di
contrattazione intra-familiare secondo un approccio di teoria dei giochi e di economia sperimentale.
Nel complesso, le analisi macro utilizzano i dati sull’uso del tempo per stimare e valutare in termini
monetari, una volta sottratto il tempo di cura personale, il tempo di lavoro non pagato come un
aggregato scomposto solo in lavoro domestico e lavoro di cura: questi dati consentono la costruzione
di conti satelliti familiari, complementari alla contabilità nazionale, utili per spiegare cambiamenti
strutturali di lungo periodo di un’economia attraverso il cambiamento del peso relativo tra produzione
di mercato, familiare e di sussistenza, e per spiegare le relazioni di breve periodo tra lavoro non pagato
e composizione della spesa sociale. Diversamente, le analisi micro raccolgono informazioni di
dettaglio sulle attività svolte durante il tempo di lavoro non pagato, in quanto servono per rilevare,
innanzitutto, la simultaneità tra le attività che è una dimensione peculiare dell’offerta del lavoro di
cura e, quindi, le interconnessioni tra lavoro pagato e non pagato e per valutare le conseguenti
condizioni di vita delle donne e degli uomini: la novità è che l’unità delle analisi micro di uso del
tempo si sposta dalla famiglia all’individuo (Esquivel, 2013). Ne consegue che il lavoro non pagato
non è più solo una euristica vuota, ma è un processo di scelte interconnesse che veicola o trasforma
preferenze, regole di comportamento e di distribuzione delle opportunità con un’ottica di genere ed
in cui, di fatto, le diseguaglianze di genere si intersecano con altre possibili dimensioni di
disuguaglianza (Garofalo, 2015). Ne consegue che le diseguaglianze di genere nell’uso del tempo
totale sono qualcosa di più complesso rispetto ad una contabilità e misurazione del costo opportunità:
ad esempio, quanto le caratteristiche strutturali di un’economia condizionano la formazione e
trasformazione delle attitudini e delle preferenze delle donne e delle regole di genere della divisione
del lavoro? Quali sono i trade-off reali a cui rispondono le scelte nei contesti reali delle donne?
Questo lavoro si colloca nel filone di analisi micro: esso consiste nella messa a punto di un
questionario di bilancio del tempo per le donne occupate e nella sua somministrazione sperimentale
a cento donne assumendo che i differenti contesti organizzativi di lavoro - profit, non profit e pubblico
– possano fare la differenza.1
1 L’indagine sul campo è stata condotta con il cofinanziamento dell’Unione Europea a valere sulle risorse del
P.O.R. Campania FSE 2007 – 2013, Asse II - Obiettivo Specifico f) “Migliorare l’accesso delle donne
all’occupazione e ridurre la disparità di genere” - Obiettivo Operativo f2) “Promuovere azioni di supporto,
studi, analisi nonché la predisposizione e sperimentazione di modelli che migliorino la condizione femminile
nel mercato del lavoro” nell’ambito delle attività previste dall’Accordo Territoriale di Genere
“ConciliAzioni”(CUP B59G13000330007)
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L’obbiettivo è, in primo luogo, quello di raccogliere informazioni di dettaglio sulle attività nel tempo
di lavoro pagato, non pagato e sul tempo libero e ciò sia per ricostruire i “ modi di vita” delle donne,
considerati come una ulteriore dimensione della qualità della vita, sia per supportare la policy sociale
di interventi e regole per la conciliazione dei tempi, tenuto conto dello status occupazionale delle
rispondenti e del partner. Il questionario è disegnato come uno strumento maneggevole in quanto le
attività da selezionare da parte delle rispondenti corrispondono ad una nomenclatura codificata, e
flessibile in quanto cattura informazioni anche sulla specificità dei contesti familiari, di lavoro e di
welfare territoriale in cui vivono le rispondenti. In secondo luogo, le interconnessioni rilevate tra le
attività effettive consentono di mettere in evidenza processi di multitasking peculiare dell’offerta di
lavoro domestico e di cura. Queste informazioni, associate alle risposte sia sulla percezione di
benessere relative alle singole attività di lavoro pagato e non pagato sia sulle aspettative di carriera e
di conciliazione, possono segnalare se il tempo effettivo erogato per le singole attività o per le macro
aree di attività e nei diversi domini di scelta (famiglia, lavoro, vita collettiva ecc.) rappresenta un
vincolo o una scelta. In terzo luogo, le informazioni relative ad attività di comunicazione e la loro
interconnessione e simultaneità consentono di misurare le nuove forme di lavoro pagato e non pagato,
il tempo di lavoro volontario nel lavoro pagato e il tempo per la costruzione e la manutenzione di
network sociali: la tradizionale minore partecipazione delle donne all’azione collettiva, rilevata
soprattutto nei contesti in ritardo, è modificata da queste nuove partecipazioni? Ciò potrebbe
prefigurare forme di “manutenzione” del capitale sociale e di prossimità o piuttosto costi di
transazione non monetari per la risoluzione di problemi di conciliazione? Inoltre, la somministrazione
del questionario, in via sperimentale, a cento donne occupate nel settore profit, non profit e pubblico
richiede di correlare i bilanci del tempo e le caratteristiche familiari ed occupazionali del contesto di
riferimento: cluster di donne derivati da queste correlazioni possono rintracciare segmenti di
popolazione in base alla variabilità tra e nelle caratteristiche dei contesti e dei comportamenti
individuali.
Infine, focus su contesti territoriali in ritardo segnalano la frammentazione frequente
dell’occupazione femminile in figure atipiche ed informali, l’intensificazione del part-time
involontario delle donne, del lavoro volontario nei luoghi di lavoro, la presenza di fenomeni di
“stagionalità” di alcuni lavori a fronte di finanziamenti di progetti rendono più costosa la sostituzione
del lavoro non pagato con servizi di mercato. Status occupazionali individuali, differenti nella
famiglia e nel contesto economico, possono attivare comportamenti di tempo di lavoro non pagato,
per la famiglia e al di fuori della famiglia, e di non lavoro e spiegano la formazione adattiva delle
preferenze? Sul piano teorico, la questione è i fenomeni congiunti di “povertà di reddito e povertà di
tempo” per soggetti e in contesti familiari ed economici differenti, con particolare riferimento a
soggetti e famiglie in condizioni di vulnerabilità (Antonoupulos et al, 2012). Sul piano di policy, la
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questione è l’allargamento delle opportunità di scelta, in particolare l’offerta di misure di
conciliazione e le regole di accesso per migliorare i bilanci del tempo quotidiano. Sebbene il tempo
sia una risorsa esauribile, il suo utilizzo nella produzione di beni e servizi di cura – classificati come
beni relazionali a là Nussbaum – può generare non solo “distruzione di tempo” e fenomeni di deficit
di tempo – del tipo effetto crowinding-out rispetto a usi alternativi –, ma anche “liberazione di tempo”
e miglioramenti nel benessere – del tipo effetto crowinding in rispetto a obbiettivi congiunti e a
relazioni attivate.
In breve, le questioni teoriche e politiche sono ampie per essere affrontate attraverso l’analisi su un
campione ristretto e, tuttavia, esse servono a mettere a fuoco la messa la punto del questionario sui
“modi di vivere” e della sua sperimentazione per il bilancio del tempo quotidiano.
Il lavoro è organizzato nel modo seguente: il paragrafo 1 seleziona dalla letteratura microeconomica
alcune lenti di lettura che consentono di spiegare e correggere i nessi tra usi del tempo e loro
interconnessioni virtuose o viziose, con particolare riferimento al filone della povertà tempo e di
reddito e alla contaminazione tra l’analisi economica e la filosofia applicata suggerita dall’approccio
delle capability sul tema delle preferenze adattive e delle relative aspirazioni. Il paragrafo 2, che
costituisce il core del lavoro, riguarda la struttura dello strumento elaborato di bilancio del tempo
quotidiano per donne occupate nei settori profit, non profit e pubblico ed alcuni esempi di bilanci del
tempo che si ricavano dalla somministrazione sperimentale del bilancio del tempo a cento donne
occupate nella provincia di Salerno: il dettaglio delle attività da rilevare, raccolte in sei macro-
allocazioni coerenti con la classificazione Hetus, e la conseguente costruzione di una nomenclatura
condivisa delle suddette attività – suggerito e corretto nei focus group nelle fasi ex ante ed in itinere
della somministrazione e nelle interviste strutturate con figure apicali delle differenti organizzazioni
di lavoro – è completato da un set di quesiti relativi sia alle caratteristiche di contesto familiare e
lavorativo, sia alle percezioni di benessere soggettivo sulle forme di conciliazione praticate a livello
aziendale e territoriale e sulle condizioni di lavoro, sia alle aspettative su servizi di conciliazione e
profili di carriera. Le analisi trasversali e sequenziali dei bilanci del tempo raccolti, incrociata con i
dati di contesto e percettivi, evidenzia casi come possibili segmenti di popolazione, differenziando
anche per contesto di lavoro, per una indagine successiva a questa sperimentazione. Il paragrafo 3
discute le risultanze dello studio mentre il paragrafo 4 conclude, suggerendo possibili proposte di
futura politica di conciliazione.
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1. Come decodificare i bilanci del tempo? Trappole di tempo e di reddito, preferenze adattive e
aspirazioni
La divisione di genere tra lavoro pagato e non pagato è un fatto stilizzato su scala globale
(Antonopoulos e Memis, 2008), seppure con differenti intensità ed implicazioni sulla diseguaglianza
nelle condizioni di vita, a seconda del grado di sviluppo, del modello di welfare e della cultura di un
Paese. I dati sull’uso del tempo e le indagini condotte a livello macro non solo distinguono il lavoro
pagato dal lavoro non pagato, ed il lavoro non pagato in volontariato e cura ma anche mettono in
evidenza come queste componenti dipendano dalla struttura occupazionale. Ad esempio, le indagini
condotte ad esempio a livello europeo (Hetus), confermano che, a fronte di una partecipazione
crescente delle donne al mercato del lavoro, si riscontra una resistenza a modificare la distribuzione
del lavoro non pagato, domestico e di cura nella famiglia. Tra Paesi, comune è che la durata della
giornata lavorativa delle donne è più lunga, minore è il tempo libero delle donne, persiste la
specializzazione delle donne nelle attività non di mercato. Inoltre, anche in Paesi caratterizzati da
policy tradizionalmente più orientate all’uguaglianza di genere aumenta il tempo di lavoro non pagato
degli uomini, ma rimane una diseguaglianza nelle attività tra lavoro domestico e lavoro di cura
(Esquivel et al, 2011). Le “esplorazioni” sull’uso del tempo nei Paesi del Sud mettono in evidenza le
priorità del lavoro di cura in base al livello di sviluppo umano, gli effetti di insufficienti dotazioni di
infrastrutture sociali e fisiche sul tempo dedicato al lavoro di cura non pagato (Esquivel, 2013). I dati
sull’uso del tempo consentono, a livello macro, di misurare il ruolo del lavoro non pagato nel
funzionamento dei regimi di welfare e di valutarne l’impatto con l’ottica della diseguaglianza di
genere: ad esempio, Galvez Munoz et al. (2011) individuano quattro cluster di welfare con uso del
tempo in Europa. Se la struttura occupazionale, la dotazione di capitale umano, il modello di welfare,
il livello del reddito medio pro capite ecc. spiegano le ragioni di un uso diseguale del tempo di genere
e tra segmenti di popolazione, allora le indagini a livello macro di uso del tempo presentano vantaggi
e limiti.
Un vantaggio fondamentale è di non trattare l’uso del tempo come una mera questione di effort e di
capacità di controllo esercitata dalle donne sulla loro vita, coerentemente con il modello standard di
scelta economica individuale. Un limite fondamentale è di essere analisi troppo aggregate:
sottostimando il lavoro non pagato se si considerano solo due attività congiunte nell’uso del tempo
quotidiano, o se parte del lavoro di cura è assimilato al tempo libero (ad esempio, la cura dei figli), o
se non si specificano le caratteristiche del beneficiario adulto di servizi di cura familiare, o se non si
differenzia tra cura familiare ed extra-familiare.
Diversamente, Fisher et al. (2004) enfatizzano l’importanza di informazioni “accurate” e “dettagliate”
sulle attività di lavoro non pagato e di non lavoro al fine di analizzare e correggere le diseguaglianze
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di genere ed intra genere: anche nel caso di parità o di quasi convergenza nel lavoro totale erogato da
uomini e donne (Burda et al., 2007: l’ipotesi di “iso-lavoro”) le differenti distribuzioni, sequenze e
qualità delle attività generano e spiegano sia le differenti capacità di fare scelte e di formare attitudini,
sia il differente controllo sulle risorse e sulle opportunità tra uomini e donne e tra gruppi di uomini e
donne. La costruzione di strumenti per il bilancio del tempo e le relative analisi condotte a livello
micro servono, innanzitutto, a catturare informazioni sulle attività simultanee: ciò consente sia di
integrare la classificazione standard, comune nelle economie avanzate, solo in attività primarie e
secondarie, sia di individuare i pregiudizi sociali sottostanti a tale classificazione, ad esempio norme
culturali, schemi di comportamento condivisi e reiterati. Inoltre, servono a differenziare le specifiche
attività di lavoro non pagato e di non lavoro in relazione allo status occupazionale per differenti
segmenti di popolazione, quali la variabilità stagionale di alcuni lavori e la complementarietà tra
mansioni diverse espletate da un singolo agente, come ad esempio si riscontra nel caso di lavori legati
a finanziamenti di progetti nelle organizzazioni non profit. Informazioni ulteriori rilevanti possono
riguardare la qualità delle singole attività e la percezione di benessere da esse derivate. Infine, le
informazioni “accurate” sulle attività di lavoro non pagato e di non lavoro ricostruiscono i modi del
vivere quotidiano non solo di chi le eroga ma anche dei beneficiari di queste attività, che consistono
nella produzione e distribuzione di beni relazionali. Indagini micro dell’uso del tempo quotidiano
specificano, pertanto, ipotesi sul capitale umano, sull’età, sulla condizione occupazionale, sulla
struttura familiare delle donne e degli uomini considerati i cui dati sull’uso del tempo sono raccolti
(Barcena e Moro-Egido, 2013).
Nella costruzione del bilancio del tempo da noi sperimentato, si raccolgono dati anche sulle forme
fruite e preferite di conciliazione vita-lavoro, sulla conseguente percezione di benessere e sulla
correlata soddisfazione del tempo di lavoro pagato e non pagato erogato. Sul piano
dell’interpretazione, le scelte individuali passate (istruzione, mobilità sul mercato del lavoro e
territoriale, radicamento nella famiglia estesa, fecondità ecc.) si riflettono sui “modi di vivere
quotidiano” rilevati e, a sua volta, le attività quotidiane, rilevate in dettaglio, possono essere
decodificate come attitudini comportamentali e capability; inoltre, la somministrazione regolare del
bilancio del tempo potrebbe catturare processi di inerzia o di cambiamento comportamentale e
decodificare fenomeni di trappola nell’uso del tempo o accumulazione di capability. Le lenti teoriche
sottostanti sono quelle della multidimensionalità delle condizioni di vita e, in particolare, nelle visioni
più recenti, la dimensione del “deficit o surplus” di tempo è interconnessa con quella del reddito (e
dello status e prospettiva occupazionale) (Memis et al., 2014). Una questione interpretativa ulteriore
riguarda le esternalità che le attività singole e congiunte di uso quotidiano del tempo producono e
distribuiscono nella famiglia, nel lavoro, nella partecipazione all’azione collettiva: perché sono state
realizzate e scelte determinate attività e con quale frequenza e distribuzione quotidiana? Se le attività
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relative a diversi usi del tempo quotidiano producono beni relazionali, quali sono i “veri trade-off”
dei rispondenti, donne e uomini? Sul piano del metodo, l’intersezionalità presenta alcuni vantaggi
epistemologici per spiegare la multidimensionalità della vita reale attraverso l’analisi dei bilanci del
tempo quotidiano tra cui quello della simultaneità e della irriducibilità delle azioni/condizioni ad una
sola categoria: bilanci del tempo in ottica di genere mettono in evidenza che le soluzioni di
conciliazione vita-lavoro riflettono, consolidano o modificano, la sovrapposizione di condizioni
diseguali nella famiglia, nell’appartenenza ad un gruppo sociale, etnico o religioso, nel lavoro ecc.
(cfr. Ozbilgin et al., 2011).
Nel complesso, le analisi sui bilanci del tempo spostano il focus micro dell’analisi dalla famiglia
all’individuo e, in particolare, possono spiegare come si determina la “prioritarizzazione” delle
attività nell’uso del tempo quotidiano individuale; quali le regole e i vincoli che determinano e
spiegano le interconnessioni di sostituibilità o di complementarietà tra tempo di lavoro (pagato e non)
e non lavoro; quale il costo ed il beneficio del tempo di lavoro non pagato extra familiare. Un’idea
sottostante all’analisi di queste informazioni è se la “distruzione” del tempo quotidiano individuale
(che è una risorsa scarsa) in attività differenti e congiunte genera e distribuisce anche valore, associato
proprio al consumo congiunto di tempo ovvero alle relazioni che questo consumo attiva.
La disaggregazione dettagliata delle attività nel tempo quotidiano può essere spiegata come
manutenzione e miglioramento del capitale della famiglia o di una comunità: un caso nuovo rilevato
è se le attività congiunte di comunicazione, di networking e di voice, sia nel lavoro volontario sia nel
non lavoro, concorrono a modificare il capitale sociale. Ad esempio, Berik e Kongar (2011), con
riferimento ai dati di uso del tempo dei padri e delle madri nella recessione Usa, individuano una
componente di investimento nel lavoro di cura a differenza del lavoro domestico, ma solo in quello
destinato ai minori e non agli adulti. Tuttavia, l’intensificazione del lavoro di cura, che comporta
l’intensificazione del multitasking, è spiegato in parte da caratteristiche della popolazione (età,
reddito, struttura familiare, etnia, capitale umano), in parte dalla dotazione di infrastrutture sociali: i
dati sull’uso del tempo quotidiano servono ad individuare segmenti di popolazione ed i relativi “modi
i vivere quotidiano”, utili ai fini di policy per la conciliazione vita-lavoro.
E’ solo dagli anni ’60 che la teoria microeconomica si interessa delle scelte relative all’uso del tempo
e della conseguente massimizzazione dell’utilità individuale a partire dai primi modelli standard di
economia della famiglia considerata come un soggetto “unitario”, che condivide le risorse individuali
date le preferenze ovvero in cui le asimmetrie individuali di risorse si compensano. Da allora la
prospettiva critica della teoria e della politica femminista ha sempre più considerato l’analisi dell’uso
del tempo ovvero la distribuzione del tempo del lavoro totale e la sua composizione come il core
della genesi, evoluzione e persistenza della disuguaglianza di genere, e ciò anche discutendo “i limiti”
di un’analisi solo economica. A seconda della tipologia dei Paesi e dei settori di attività considerati,
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le analisi mettono in evidenza bilanci del tempo delle donne, e forme di diseguaglianza differente.
Infine e seguendo una visione critica, si rimuovono le ipotesi tradizionali secondo l’offerta illimitata
di lavoro femminile non pagato (domestico e di cura, familiare ed extra-familiare) è “illimitata” e le
donne contribuiscono al capitale sociale e al benessere) di un’economia solo con il tempo di lavoro
non pagato e non anche con il lavoro pagato (Elson, 1993; Molyneux, 2003).
Numerosi sono gli approcci e gli obbiettivi perseguiti in framework teorici alternativi quali, ad
esempio, quelli delle capability, dell’economia di cura, del social provisioning (per una rassegna cfr.
Garofalo, 2013): più che una tassonomia si illustrano, quindi, solo alcuni punti selezionati dalla
letteratura sulla povertà di tempo e di reddito e, in particolare, su come le due dimensioni si
interconnettono a seconda dei casi in cui prevale il vincolo di reddito o il vincolo di tempo, le
opportunità di reddito e le opportunità di tempo. Un punto di riferimento critico è la messa in
discussione delle ipotesi tradizionali (implicite) dei modelli di uso del tempo a là Becker tra attività
di produzione, di riproduzione e di tempo libero – secondo cui la famiglia “unitaria” dispone di un
“full income” sufficiente per la massimizzazione della sua utilità, date le preferenze “unitarie” (iso-
utilità), e cioè dedica tutto il suo tempo disponibile all’obbiettivo del reddito scegliendo le migliori
allocazioni di tempo, dato il salario che i suoi membri adulti, asimmetrici ma tra loro compensati,
controllano. Una idea critica comune è che se le condizioni di vita dipendono dal tempo di lavoro non
pagato – e non solo dall’ammontare ma anche dalla qualità –, allora la misura delle condizioni di vita
è bidimensionale, ed essa varia a seconda sia delle interconnessioni tra quattro macro aree identificate
di allocazione del tempo a livello macro – tempo per la cura personale, per lavoro pagato, per lavoro
non pagato, per tempo libero –, sia della qualità delle singole attività nelle quattro macro aree, sia
della loro frequenza e distribuzione nell’unità di tempo, a livello micro. Una ulteriore idea critica,
comune alle visioni femministe, è che i suddetti modelli a là Becker non tengono conto del ruolo
delle istituzioni che governano le decisioni di allocazioni del tempo all’interno della famiglia,
generando o rafforzando, pertanto, diseguaglianze di genere (Folbre, 2004): le decisioni di allocazioni
di tempo tra aree ed attività sono complesse e mobilitano valori, e non solo risorse, differenti nella
famiglia.
Il filone di analisi, che si inizia alla fine degli anni ’70 e non in un’ottica di genere sulle implicazioni
del deficit di tempo, si può decodificare in base a differenze, essenzialmente, (i) tra le unità di tempo
considerate (giornaliera o settimanale), (ii) tra il livello di analisi (individuale o familiare o intra-
familiare), (iii) tra una metrica positiva o normativa (tempo effettivo rilevato o tempo necessario) e
tra le relative visioni di valore (della uguaglianza di genere, dello sviluppo umano o della sussistenza,
della esclusione e marginalità, della dignità, lavoro decente e auto-rispetto), (iv) tra il livello e la fase
di sviluppo economico e umano dei Paesi considerati e comparati. Questo filone si colloca, quindi,
nella più ampia letteratura su povertà e diseguaglianza per misurare soglie di povertà oltre la metrica
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monodimensionale e povertà nascoste e per spiegare meccanismi di trappola della povertà: se le
condizioni contano, a parità di opportunità, allora le interconnessioni effettive nell’uso del tempo
(specificate per attività e beneficiari) sono “condizioni iniziali”.
Vickery (1977) analizza per prima il tema del deficit di tempo con riferimento ad alcune tipologie di
famiglie; di recente, Zacharias et al. (2014) analizzano come la qualità della vita della famiglia e dei
suoi membri dipenda dal livello a cui le ore per il lavoro pagato interferiscono con la produzione
familiare in senso esteso, ad esempio se l’incremento della partecipazione delle donne al mercato del
lavoro aggrava il deficit di tempo per donne con lavori irregolari, informali e a basso salario,
capofamiglia e con figli, per cui il grado di sostituibilità tra attività di lavoro pagato e non pagato è
basso. Oltre a casi estremi di meccanismi di trappola della povertà di reddito e di povertà di tempo,
quali segmenti di popolazione si individuano in base all’interconnessione di queste due dimensioni?
Il punto di partenza delle differenti analisi è una definizione contabile del deficit di tempo: vi è deficit
una volta sottratto il tempo per la “cura personale” (che è considerato un dato costante tra individui,
gruppi e Paesi), se le ore rilevate per la cura e la produzione domestica più quelle offerte per produrre
reddito eccede quelle disponibili su scala giornaliera o settimanale ovvero se il tempo di lavoro è
maggiore della differenza tra tempo libero e tempo di riproduzione familiare (o anche sociale) dove
il tempo libero è vincolato dal tempo di lavoro non pagato. La questione viene affrontata considerando
o il tempo effettivo erogato per la somma delle attività pagate e non e di non lavoro o il tempo
necessario per le suddette attività: in altri termini la povertà di tempo può riflettere o la capacità di
rinunciare ad erogare lavoro non pagato acquistando sostituti di mercato o la capacità di scegliere le
ore di lavoro.
In particolare, Vickery (1977) analizza il deficit di tempo individuale dei membri della famiglia
occupati a tempo pieno a partire dall’ipotesi standard che essi possano scegliere liberamente le ore di
tempo offerte per il lavoro pagato, da cui consegue che tutti sono occupati a tempo pieno e il loro
reddito è reddito da salario e che vi sia un ammontare dato (e costante) di tempo di cura personale e
di lavoro riproduttivo familiare non sostituibile: nei casi in cui il salario è al di sotto di una soglia
critica le famiglie soffrono di deficit di tempo – che è una perdita non compensata per la riproduzione
familiare, valutato come il prezzo unitario dei beni sostituti per tale produzione. L’analisi consente di
individuare, quindi, fenomeni della povertà non di reddito e di povertà involontaria di tempo anche
tra gruppi di occupati a tempo pieno, se la soddisfazione di necessità e desideri della famiglia richiede
un’offerta di lavoro non pagato maggiore di quello disponibile: al di sopra di una soglia minima, il
lavoro pagato e non pagato sono considerati come input sostituibili. Un altro limite di Vickery, da
una prospettiva critica femminista, è nel considerare il valore del tempo di lavoro non pagato non
sostituibile, come il luogo di riproduzione familiare immateriale, e cioè di trasmissione di preferenze
intrinseche dei figli/e o di formazione di attitudini comportamentali di genere (ad esempio alla
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mobilità nelle fasi di formazione e sul mercato del lavoro) o di risposta in situazioni di “emergenza”.
Inoltre, da una prospettiva di economia sociale, un ulteriore limite implicito consiste nel non
considerare il tempo di lavoro non pagato offerto al di fuori della famiglia da membri della famiglia
a beneficio della comunità e viceversa: esso viene assimilato nel “leisure” e, pertanto, non considera
l’offerta volontaria di tempo per il funzionamento e cambiamento del contesto di appartenenza e,
quindi, gli eventuali benefici di esternalità positiva sul tempo di lavoro non pagato e sul non lavoro
della famiglia. Nel complesso, l’analisi sulla povertà di tempo è ancora restrittiva e, comune con altri
successivi contributi, non considera il livello di povertà di tempo diseguale intra-familiare e di genere.
Anche Harvey e Mukhopardyay (2007) considerano le misure di povertà aggiustate per il tempo e
con riferimento a famiglie in economie avanzate; essi sostituiscono, tuttavia, l’ipotesi generale di
occupazione a tempo pieno per tutti gli adulti, uomini e donne, con ipotesi più realistiche sulla
struttura del mercato del lavoro che include forme di lavoro irregolare, part time volontario e non,
informale: ciò serve a individuare casi di interconnessione tra povertà di tempo e povertà di reddito
in casi di orari di lavoro troppo prolungati per procurarsi un livello di reddito monetario necessario
per sussistenza che, allo stesso tempo, comporta un deficit di tempo per lavoro non pagato familiare,
i cui costi di replacement non favoriscono o ammettono sostituibilità tra lavoro pagato e non pagato.
Quindi possono individuarsi già due casi: non povertà di reddito e povertà di tempo, povertà di reddito
e povertà di tempo, in base alla diversa capacità di acquisire sostituti di mercato. Diversamente,
Bardasi e Wodon (2009) definiscono la povertà di tempo in termini di un orario di lavoro totale troppo
lungo da non ammettere possibilità di scelte alternative in economie in ritardo in cui, in particolare,
una grave sotto-dotazione di infrastrutture fisiche e sociali comporta una domanda di tempo di lavoro
non pagato troppo elevato, per la soddisfazione familiare, da indurre trappola della povertà di tempo
e di reddito, poiché non è possibile ridurre l’orario di lavoro pagato senza incrementare il livello di
povertà familiare. La povertà di tempo è ridefinita combinando il concetto di povertà di tempo, come
nel caso di un orario di lavoro troppo lungo, con quello della povertà in termini di consumo, ma
diversamente dal reddito speso in consumo, più tempo speso in attività produttive, pagate e non,
comporta un deficit di tempo per leisure (p.7). Utilizzando dati sull’uso del tempo, Bardasi e Wodon
identificano segmenti di popolazione per diverse combinazioni di povertà di reddito e tempo per
economie in ritardo: da un lato, comparazioni di genere che confermano il nesso tra diseguaglianze
di genere, povertà di reddito e di tempo delle donne, e strategie di social provisioning delle donne in
contesti arretrati; da un altro lato si individua un segmento di coloro che “lavorano troppo a lungo ma
consumano poco” e cioè non hanno scelta di lavorare di meno, da coloro che “lavorano molto ma
sono al di sopra della linea di povertà di consumo”. La differenza tra “scelta” e “necessità” nell’uso
del tempo – e nella conseguente misura di deficit/surplus – comporta, in primo luogo, il passaggio da
un approccio positivo – che considera il numero effettivo di ore lavorate – ad un normativo – che
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considera “condizioni di lavoro decente” (ILO); e comporta, in secondo luogo, una ridefinizione della
povertà di tempo non solo rispetto ai bisogni della famiglia, ma anche rispetto ad attività di leisure o
ad “altre attività”, quali ad esempio la partecipazione alla vita collettiva ed il lavoro volontario. In tal
senso, vengono evidenziati i limiti di dati su uso del tempo a livello micro, relativi alla specificazione
di attività di cura (natura, destinatari e qualità) ed alla loro sovrapposizione (p.22; cfr. Introduzione e
§2), anche secondo lenti femministe.
L’analisi sul deficit di tempo – diversamente da approcci standard – si basa sull’ipotesi che il grado
di sostituibilità tra lavoro pagato e non pagato è imperfetto: esso riflette le differenti regole e
motivazioni: il committment del primo è disciplinato dalla contrattazione auto-interessata e
dall’obbiettivo di acquisizione di risorse necessarie per il consumo, quello del secondo è disciplinato
dalla reciprocità e dall’obbiettivo di assolvere a obblighi di responsabilità. Inoltre quanto meno
sviluppato è un Paese in termini di sviluppo umano – catturato dalla dotazione di infrastrutture sociali
e dalle regole di funzionamento del mercato del lavoro –, tanto più il tempo di lavoro non pagato
genera casi di deficit di tempo (Antonoupolos et al, 2012). La combinazione di tempo di lavoro pagato
e non pagato e non lavoro diventa, allora, non solo una questione di contabilità dell’uso efficiente
delle risorse disponibili, ma anche di valori e norme, “credenze” e informazioni disponibili nella
scelta e della loro distribuzione: la povertà di tempo comporta pressioni sui reali trade-off soggettivi.
Si delineano nella letteratura, quindi, importanti distinzioni teoriche su uso e povertà di tempo: un
approccio è quello sul tempo effettivo, erogato in “tempo indispensabile per la cura personale”,
“tempo contrattualizzato per il lavoro pagato regolare”, “tempo obbligato per responsabilità
familiari”, “tempo libero per attività residuali”, un approccio è quello sul tempo necessario per le
suddette allocazione. Quest’ultimo richiede la selezione di criteri normativi che guidano e legittimano
le scelte soggettive di allocazione del tempo e la qualità delle condizioni di vita. Burchardt (2008)
pone la questione della povertà di tempo in termini di “necessità” o in termini di “scelta”; Goodin et
al. (2005) introducono la nozione di tempo “discrezionale” per misurare la differenza tra il tempo
“minimo necessario” ed il tempo effettivo speso (p. 44), ed inoltre associano al tempo discrezionale
un potere di “controllo autonomo” degli individui rispetto alle necessità della vita da contrapporre
alla “illusione della povertà di tempo”: rileva per segmenti di popolazione, a tal fine, la condizione di
povertà di reddito familiare e lo status occupazionale dei membri adulti della famiglia oltre che il
capitale umano individuale. In particolare, Burchardt – adottando la classificazione in “tempo
indispensabile per le necessità familiare”, “tempo di lavoro pagato contrattualizzato”, “tempo di
lavoro non pagato obbligato” e “tempo libero residuale” ed evidenziandone confini permeabili –
propone un modello micro di uso/povertà del tempo su scala individuale e non familiare. L’ipotesi è
che il range delle scelte di uso del tempo è vincolato dalle risorse e dalle responsabilità e, a seconda
delle specifiche attività e dei beneficiari, queste scelte si connotano come decisioni di investimento e
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di manutenzione del capitale, privato o sociale, fisico o immateriale. La novità rispetto alle analisi
iniziali citate è, come detto, l’analisi in termini non di allocazioni effettive ma possibili, dato un
“minimo richiesto per soddisfare singole responsabilità” (p.19). Goodin et al. utilizzano le categorie
di “tempo discrezionale” versus “tempo libero” per analisi valutative su differenti regimi di genere e
di welfare a seconda di differenti contesti e circostanze, a partire dall’idea che le persone possono
spendere di più del tempo necessario o ottenere in alcuni domini e non in altro di più di quanto
“strettamente necessario” (2005, p.44): a partire dalla misura del tempo discrezionale – che è un
indicatore dell’ammontare di tempo su cui le persone esercitano un pieno controllo relativamente alle
possibili scelte allocative – la soggettiva percezione di “pressione di tempo” è distinta tra “casi di
necessità” e “casi di scelta”, demistificando valori e norme sociali sottostanti a casi di “illusione di
pressione del tempo” (p. 60). La potenzialità del concetto di “tempo discrezionale”, sul piano teorico
e di policy, può essere colta, ad esempio, attraverso le domande poste nel bilancio del tempo delle
donne qui sperimentato sulla percezione soggettiva di benessere del tempo di lavoro pagato e non
pagato, sulla soddisfazione delle prestazioni di conciliazione vita-lavoro fruite, sulla descrizione delle
“altre attività” nel tempo di non lavoro (cfr. §2).
Da ultimo, ricerche condotte da Levy Institute si contrappongono alla visione standard secondo cui le
famiglie dispongono di un ammontare di tempo sufficiente per la soddisfazione dei bisogni e desideri
e costruiscono indicatori di povertà bidimensionali in cui il deficit di tempo e di reddito sono
interconnessi: quando la povertà di tempo genera povertà di reddito ovvero processi di trappola della
povertà? I casi sono differenti per segmenti di popolazione, ma l’analisi si sposta dal livello familiare
a quello individuale poiché, a differenza del modello unitario standard, i dati di uso del tempo non
mostrano una sostituzione compensativa automatica all’interno della famiglia tra individui con risorse
e responsabilità diseguali: donne in famiglie povere di reddito hanno un maggiore deficit di tempo
per il sovraccarico di lavoro non pagato come strategia di sussistenza, e genera un maggiore deficit
di reddito per la scarsa mobilità del lavoro di cura che è un vincolo all’occupazione femminile
(Zacharias et a., 2014).
Antonoupolos et al. (2012) individuano, quali determinanti del deficit di tempo: un “vincolo di
occupazione” se è dedicato troppo tempo al lavoro pagato (per necessità versus per scelta); un
“vincolo di lavoro non pagato familiare” se persistono norme sociali di genere, tenuto conto della
composizione e dimensione della famiglia; un vincolo che combina i due precedenti. Poiché il tempo
indispensabile per la cura personale è sempre supposto dato e costante, consegue che le differenze
individuali per deficit di tempo dipendono congiuntamente dalle ore lavorate remunerate e dalle ore
per la riproduzione sociale. Infine, anche Antonopoulos et al. (2012) utilizzano dati di uso del tempo
per imputare le diseguaglianze, sia tra segmento di popolazione sia di ed intra-genere, alle differenti
domande di tempo degli individui e differenti capacità di soddisfarle: con riferimento a Paesi
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caratterizzati da occupazione stagionale e irregolare, da bassa dotazione di infrastrutture fisiche per
accesso alle risorse e da insufficiente social provisioning per distribuzione delle opportunità, si
evidenzia che il tempo di lavoro non pagato, non catturato da un singolo valore, determina deficit di
tempo. La categoria qui suggerita di “deprivazione di tempo” serve a distinguere casi in cui gli
individui sostituiscono il tempo non pagato da casi in cui hanno necessità di spendere il tempo per la
riproduzione personale e familiare (p.11): essa connota, infatti, le differenti capacità soggettiva di
“aggiustare” l’allocazione del tempo in attività e per finalità differenti, in contesti di deficit di tempo.
Ancora una volta, indagini sull’uso del tempo, in cui le attività sono rilevate in modo dettagliato e
congiunto, servono a catturare queste dimensioni interconnesse di diseguaglianza; quesiti addizionali
inseriti nei bilanci del tempo (cfr. lo strumento qui proposto, §2) sul grado di soddisfazione percepito
sia rispetto al tempo di lavoro pagato, non pagato e di non lavoro, sia rispetto alle prospettive e vincoli
di cambiamento a breve nell’uso del tempo consentono, inoltre, di catturare informazioni ulteriori
sulla percezione soggettiva, date le condizioni iniziali asimmetriche relative al controllo delle risorse
ed all’ autonomia nella selezione delle opportunità. Le visioni teoriche suggerite per decodificare in
profondità e correggere queste forme di diseguaglianze interconnesse – che confermano, tra l’altro,
diseguaglianze di genere in altre domini – sono molteplici, soprattutto se si adottano approcci
transdisciplinari. In tal senso e senza pretesa di esaustività, almeno due riferimenti recenti di
letteratura sembrano fecondi, sebbene non siano esplicitamente costruiti per analisi sull’uso del tempo
quotidiano e sulle sue implicazioni per la qualità delle condizioni di vita a livello micro. Il primo
riferimento è sul nesso tra opportunità economiche e percezione soggettiva di controllo delle scelte
(Nikolaev e Bennett, 2015). Il secondo rifermento è all’approccio delle capabilities (Walker, 2014)
per spiegare sia la natura delle preferenze adattive (Khader, 2005), sia il cambiamento delle
aspirazioni soggettive (Conradie e Robeyns, 2013).
Utilizzando dati della World Values Surveys e della Economic Freedom of the World, Nikolaev e
Bennett (2015) testano l’ipotesi che il livello a cui gli individui percepiscono il controllo delle loro
vite dipende dal grado di libertà economica del Paese in cui vivono. In una visione che riconosce alle
regole istituzionali il ruolo di legittimazione e di enforcement delle libertà economica (scelta
personale, scambio volontario, partecipazione ai mercati e competitività), da un lato discutono
criticamente il “paradosso della scelta” secondo cui un maggior range di scelte in tutti i domini della
vita, disponibile in contesti economici sviluppati, non necessariamente migliorano le condizioni
soggettive di vita; da un altro lato individuano due canali sottostanti ad una relazione diretta e non
decrescente tra libertà economica del contesto e percezione del controllo dei soggetti, e cioè la
percezione della fairness procedurale e la mobilità sociale. L’idea è, infatti, che contino le
determinanti istituzionali della percezione del controllo, vale a dire non solo il livello economico di
crescita e sviluppo, ma anche i processi che conducono a questi risultati e che veicolano informazioni
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che influenzano sia la percezione soggettiva, sia le decisioni di investimento. La percezione
soggettiva del controllo non solo è considerato come un predittore forte della soddisfazione della vita
(p.4), ma è anche essenziale ad adeguati funzionamenti umani (p.4): il livello di controllo “interno”
ed “esterno” delle scelte è una dimensione dell’“agency” individuale secondo cui, a là Sen, il
controllo è la libertà di fare ed essere ciò a cui si dà valore, ma sempre dato il contesto istituzionale
di appartenenza. Le decisioni congiunte di allocazione del tempo possono essere decodificate come
espressione del controllo delle scelte? Le informazioni dettagliate sulle attività di uso del tempo
quotidiano possono essere valutate, secondo la percezione soggettiva del controllo, con le due
suddette lenti istituzionali? Se la percezione soggettiva del controllo può “misurare” l’esercizio delle
capabilities soggettive (agency), qual è il ruolo dei valori individuali e condivisi e delle condizioni
iniziali del contesto di riferimento sottostanti all’uso del tempo quotidiano? I dati sull’uso del tempo
non possono, allora, essere trattati come neutrali, né le policy possono non essere integrate come ad
esempio quelle per la creazione di opportunità di lavoro e quelle per la conciliazione vita-lavoro
(Antonopoulos e Memis, 2012; cfr §3).
In tal senso, Walker et al. (2014) utilizzano dati dell’uso del tempo quotidiano disaggregati per
valutare le disparità di genere nello spazio teorico e politico delle capabilities e per indirizzare la
pianificazione di progetti di sviluppo: l’agency delle donne – tenuto conto delle loro asimmetrie
posizionali – è ricostruita come povertà di tempo ed essa non è neutrale né rispetto ai “valori”
sottostanti alle scelte di allocazione in differenti aree ed attività, né rispetto ai vincoli ed alle
opportunità di uso del tempo. E qui si colloca il secondo riferimento teorico per l’analisi dell’uso del
tempo quotidiano: le scelte soggettive di uso del tempo riflettono preferenze adattive? La
deprivazione di tempo può essere trattata come una espressione di preferenze adattive. Le questioni
sono complesse e richiedono approcci transdisciplinari, qui solo accennati, relativi ad esempio alla
filosofia applicata con un riferimento critico all’approccio delle capability di Sen e di Nussbaum. Con
riferimento alla letteratura femminista che individua due posizioni contrastanti di preferenze adattive
– la prima liberale a là Nussbaum (2000) per cui le preferenze adattive minano l’abilità di fare
decisioni autonome (e andrebbero “gettate a mare”), e la seconda per cui le donne preferiscono lo
status subordinato di relazioni patriarcali –, Khader (2009 e 2011) discute l’idea che le preferenze
adattive sono preferenze povere, formate in contesti socialmente ingiusti. Considerando criticamente
non solo la visione di Elster (1983) – che tratta preferenze adattive come esito di un “downgrading”
inconsapevole se alcune opportunità non sono raggiungibili –, ma anche le visioni di Sen e Nussbaum
– che forniscono una raccolta di esempi (micro credito per le donne, discriminazione salariale,
distribuzione delle risorse nella famiglia ecc.) di individui che “possono trarre piccoli benefici” in
condizioni di deprivazione o che accettano la condizione di deprivazione se credono di essere
condannati a soffrire –, Khader (2009 e 2012), da un lato, mette in discussione la spiegazione di
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preferenze adattive dovute ad un “deficit di autonomia procedurale”, imputabile ad un difetto o di
razionalità e di informazione, o di pianificazione e comprensione della propria vita, o di agency e
rispetto di sé. La critica è che non solo le preferenze adattive non sono considerate come liberamente
scelte, ma anche esse riguarderebbero come sono formate piuttosto in cosa consistono. Da un altro
lato, Khader suggerisce che la definizione di preferenze adattive richiede una “teoria del bene” e di
un concetto di “basic florishing”, che non sia imposta dall’esterno ma sia derivata da un confronto
deliberativo tra culture. Le lenti dell’economia femminista possono adottare questa concezione
“agentica” – sostantiva e non meramente procedurale – delle preferenze adattive per spiegare perché
le donne perpetuano le loro condizioni di “oppressione” (o di deprivazione), e il loro collegamento
con “condizioni ingiuste” sottende anche una valutazione normativa. L’idea di contaminare l’analisi
sull’uso del tempo quotidiano – come dimensione della qualità dei modi di vivere – con questa visione
di preferenze adattive è che esse non negano capacita di agency degli agenti in condizioni di
deprivazione, uomini e donne, e riaffermano uno spazio valutativo sulla qualità delle preferenze.
Inoltre, e tenendo insieme la prospettiva micro della qualità delle condizioni di vita – diseguali a
seconda delle dettagliate allocazioni del tempo quotidiano – con la prospettiva meso della qualità
delle relazioni attivate – virtuose o viziose a seconda delle esternalità positive o negative prodotte e
distribuite nel contesto ovvero nell’intersezione di domini che compongono quel contesto –, Conradie
e Robeyns (2013) suggeriscono l’euristica delle “aspirazioni soggettive” e della loro modificabilità,
utilizzabile anche per spiegare l’“adattamento a circostanze avverse” (p. 559): nel nostro caso il “caso
avverso” è il deficit di tempo e di reddito. Questa euristica serve a guidare, inoltre, il commitment
pubblico al miglioramento dei modi di vivere quotidiano. Le aspirazioni – che catturano i desideri di
una persona per il futuro e che possono riguardare fini morali e commitment e non solo il benessere
– sono spiegate come il risultato di un processo di adattamento (Burchardt, 2009) al contesto e alle
interazione su piccola scala, come può verificarsi nel caso della deprivazione di tempo (Antonopoulos
e Memis, 2012; Goodin et al. 2005). La sfida per l’analisi delle aspirazioni e del loro cambiamento è
duplice: la prima è quella di selezionare e dar voce alle capabilities soggettive in linea con l’insieme
di credenze e di valori “veri” delle persone e della loro socialità, quali, ad esempio, l’individuazione
e la legittimazione dei “veri” trade-off delle scelte. La seconda sfida è quella di sostenere l’agency
individuale e di contrastare possibili effetti avversi dell’adattamento individuale a condizioni di
contesto, familiare e macro (p. 564), quali ad esempio la trasformazione e legittimazione dei vincoli
strutturali ed istituzionali in dimensioni psicologiche. In quest’ottica, ritorna, in termini più o meno
espliciti, la questione dei valori sottostanti alle scelte reali (“functionings”) ovvero della irriducibilità
delle scelte ai vincoli economici: il che sembra poter essere rilevante anche per l’uso del tempo
quotidiano, e per la sua analisi, secondo un’ottica di intersezione tra le azioni dettagliate
effettivamente realizzate nei diversi domini.
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In conclusione, le lenti teoriche appena illustrate – sebbene in taluni casi non esplicitamente riferite
a casi di uso del tempo quotidiano per segmenti di popolazione ed in ottica di genere – suggeriscono
di tenere insieme approcci differenti sia in relazione alle determinanti del deficit di tempo e della sua
“profondità” – vale a dire, le caratteristiche del contesto economico-istituzionale, le caratteristiche
socio-demografiche per segmenti di popolazione nonché i comportamenti individuali –, sia nella
prospettiva di possibili fertilizzazioni interdisciplinari per dar conto della complessità delle scelte
individuali e con una prospettiva relazionale – sia essa negoziale conflittuale ovvero cooperativa.
2. I bilanci del tempo e le indagini sull’’uso del tempo: alcuni aspetti metodologici e risultati
dell’indagine
La denominazione ‘bilancio del tempo’ (b.t.) è sorta in analogia a quella dei bilanci di famiglia (b.f.):
al di là della denominazione i due bilanci presentano fondamentali diversità. I b.f. rilevano gli aspetti
monetari, l’how much della vita delle persone, i b.t. anche gli aspetti non monetari e/o non
monetizzabili, l’how good. I b.t. consentono di conoscere l’uso del tempo umano giornaliero, ossia il
“modo di vivere” di date collettività che può essere considerata una componente essenziale della
qualità della vita oggi denominata Benessere Equo e Sostenibile. Le nuove ICT hanno inoltre
accelerato la convergenza dei differenti modi di vivere nei diversi Paesi rendendo sempre più
rilevante il carattere ‘multipurpose’ dei dati provenienti dai b.t. per i più diversi scopi.
Il bilancio del tempo è uno strumento di osservazione statistica, continua ed analitica entro periodi
limitati di tempo, del modo di impiegare il tempo da parte di una data collettività: esso consente di
osservare statisticamente (per date collettività) e per tutto l’intervallo di tempo prefissato
(osservazione continua) le attività svolte dalla collettività in esame con le seguenti modalità di
svolgimento per ciascuna (osservazione analitica): la durata di ciascuna attività, la sequenza in cui
essa è stata svolta effettivamente nel giorno di rilevazione, la frequenza con la quale si è svolta,
l’eventuale contemporaneità con altre attività, il luogo in cui la si è svolta, le persone presenti e/o
partecipanti, nonché altre eventuali caratteristiche previste dallo studio (caratteristiche socio-
demografiche dell’intervistato, caratteristiche del giorno di rilevazione, gradimento, soddisfazione-
insoddisfazione per le attività svolte e così via). (Fraire, 1986)2
2 Le prime indagini di b.t. di cui si ha notizia sono state svolte negli USA (1913, 1939) in URSS (1923) e
U.K.(1936). Ma l’anno di svolta è il 1966 con la Ricerca Comparativa Internazionale sui Bilanci del Tempo
(RCI) sotto la direzione del Centro Europeo di Coordinamento della Ricerca e Documentazione in Scienze
Sociali e gli auspici dell’UNESCO. A tale progetto parteciparono 12 nazioni: Belgio, RFT, Francia, USA,
URSS, Perù, Bulgaria, Cecoslovacchia, RDT, Ungheria, Polonia, Iugoslavia. Dopo il 1966 i b.t. si diffondono
in tutti i paesi industrializzati. In Italia la prima indagine di b.t. è del 1973 seguita da altre poche indagini di
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Il presente lavoro si colloca nel quadro di queste analisi sui bilanci del tempo, con l’obiettivo di
mettere a punto un questionari, modificato rispetto a quello di rilevazione dell’ISTAT, e
somministrato in via sperimentale a 100 donne occupate nei settori della pubblica amministrazione,
del profit e del non profit nella provincia di Salerno. Come detto, il questionario è mirato a rilevare i
“modi di vivere” attraverso l’allocazione del tempo quotidiano, tenendo conto dei differenti contesti
lavorativi e familiari, delle differenti caratteristiche personali e delle differenti percezioni di benessere
relative agli usi del tempo quotidiano.
Il questionario delle indagini sull’uso del tempo, rispetto ai tradizionali questionari delle indagini
socio-economiche, è caratterizzato da due parti: alla sezione di domande di sfondo che verte sulle
caratteristiche degli intervistati, della giornata di rilevazione e domande mirate allo scopo
dell’indagine (Parte I) se ne aggiunge una seconda (Parte II) sul ‘diario giornaliero’ o ‘griglia’ dei
tempi che può essere formulato in diversi modi. Il Grafico 1 rappresenta il questionario costruito e
somministrato in via sperimentale a 100 donne occupate nei settori pubblica amministrazione,
privato, non profit della provincia di Salerno. Diversamente il più recente questionario impiegato
dall’Istat (Grafico 2) nell’ultima indagine Time Use prevede solo una possibile attività
contemporanea o ‘congiunta’ ed, inoltre, la nomenclatura delle attività è ‘own words’ creando quindi
non pochi problemi di codifica a posteriori sia perché spesso gli intervistati denominano la stessa
attività in modi diversi, sia perché possono non ricordare e quindi ‘accorpare’ in una sola più attività
svolte nel giorno di rilevazione.
In particolare, si sottolineano le seguenti differenze rispetto al questionario time-use impiegato
dall’Istat: (i) il diario è particolarmente adatto alla rilevazione di più di una attività contemporanea
(quindi adatto alla rilevazione del cosiddetto multi-tasking, una delle strategie di conciliazione
famiglia-lavoro messe in atto particolarmente dalle donne nonché un crescente modo di vivere delle
carattere locale. L’ISTAT effettua la prima indagine nazionale sull’uso del tempo nel 1988-1989
nell’ambito dell’Indagine Multiscopo sulle Famiglie su un campione probabilistico della popolazione italiana
di N= 38.110 diari giornalieri (13.729 famiglie) includenti i bambini dai 3 ai 14 anni. Le indagini sono state
ripetute successivamente nel 2002-2003 (N=51.906 diari e N=21.075 famiglie) e nel 2008-2009 (N=18.250
diari e N=40.945 famiglie) è in corso l’indagine TUS 2013-14. Un punto di svolta è la Legge 53/2000 secondo
cui: “L’ISTAT assicura il flusso informativo quinquennale sull’organizzazione dei tempi di vita della
popolazione attraverso la rilevazione sull’uso del tempo, disaggregando le informazioni per sesso e per età”.
Rilevante nel quadro attuale è, inoltre, il ruolo dell’Eurostat e dell’Harmonised European Time Use Study
(HETUS): l’Eurostat coordina l’armonizzazione delle indagini sull’uso del tempo condotte da 20 nazioni
europee inclusa l’Italia e tramite le riunioni periodiche della Task Force europea aggiorna le linee guida delle
indagini assicurandone quindi la comparabilità dei dati a livello internazionale. Altri enti internazionali che si
occupano di uso del tempo sono: IATUR (International Association for Time Use Research) che nasce nel
1988 per il diffondersi dell’interesse e dello spirito di cooperazione internazionale per la produzione di studi
di bilancio del tempo. Ha attualmente un sito web molto attivo: http://www.stmarys.ca/partners/iatur; e MTUS
(Multinational Time-Use Studies), nato alla fine del 1980, raccoglie i data sets provenienti dalle indagini
sull’uso del tempo svolte da 20 nazioni. Sono disponibili diverse versioni dei Multinational Time Use (MTUS)
Data File (downloading dei dati nel sito web: http://www.timeuse.org/mtus)