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In: Migrazione e identità culturali, a cura di Stefania Taviano, Messina: Mesogea, 2008, pp. 227-238.
LA BANALITÀ DELL’ALTRO:
DALLO STEREOTIPO ALL’INSULTO ETNICO
Elena Pistolesi
L’immigrazione in Italia: da autorappresentazione positiva a terreno
di conflitto
Secondo il Rapporto sull’Immigrazione Caritas/Migrantes 2007, alla fine
del 2006 l’incidenza dei cittadini stranieri sul totale della popolazione
italiana era del 6,2% (pari a circa 3.690.000 presenze), contro una media
europea del 5,6%. Il fenomeno, ormai strutturale, presenta una peculiarità
rispetto ai paesi di consolidata tradizione migratoria: i dati confermano che
«l’Italia si colloca, con la Spagna, subito dopo la Germania tra i più grandi
paesi di immigrazione dell’Unione Europea e, per quanto riguarda l’incremento
annuale, i due paesi mediterranei non hanno uguali in Europa, superando
in proporzione gli stessi Stati Uniti».1 Nel giro di pochi anni, da
terra di transito, l’Italia è diventata per i migranti una mèta stabile.
Il 2006 è stato anche l’anno in cui le politiche contro l’immigrazione
hanno cessato di essere una prerogativa dei gruppi di estrema destra, diventando
patrimonio dei grandi partiti europei, tanto di tradizione liberale
quanto socialista.2 Il Rapporto annuale della Commissione europea contro il razzismo
e le intolleranze, gli appelli di Amnesty International e della Caritas
dicono che l’Italia è considerata oggi un paese a rischio xenofobia.
1 Daniel K. Aladjem et al., Models matter: The final report of the National Longitudinal
Evaluation of Comprehensive School Reform, American Institutes for Research, 2006, http://
www.air.org/publications/documents/NLECSR_2006.pdf
2 È un’osservazione di Slavoj Žižek, La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007, p. 46,
di cui è facile trovare conferma nella cronaca successiva.
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Percorrerò in breve alcune fasi della rappresentazione dello straniero
nella stampa, dall’esotismo delle prime cronache fino alla Carta di Roma
(23 settembre 2007), il codice etico che i giornalisti si sono impegnati a
seguire nel trattare le notizie che riguardano gli immigrati, i richiedenti
asilo e i rifugiati politici, sottoscritta dal Consiglio nazionale dell’ordine
dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa italiana, d’intesa
con l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, dopo
alcuni preoccupanti episodi di razzismo creati o favoriti dai media.
Dagli anni Sessanta, per circa un ventennio, la stampa ha usato l’immagine
dello straniero per mettere in luce le caratteristiche positive
degli italiani (italiani brava gente),3 evidenziandone la capacità di accoglienza.
La svolta nella percezione degli immigrati si colloca alla fine
degli anni Ottanta, con una serie di episodi di intolleranza che culminano
nell’omicidio di Jerri Essan Mazlo, profugo politico proveniente
dal Sud Africa, ucciso a Villa Literno (Caserta) da una banda del luogo,
mentre dormiva in una baracca insieme ad altri immigrati che lavoravano
come stagionali alla raccolta dei pomodori. Il paese si scopre
razzista. Questa azione coincide con alcuni cambiamenti fondamentali
nel trattamento pubblico della figura dello straniero: la stampa comincia
a usare il termine, tutto nostrano, di «extracomunitario», e ricorre
costantemente all’indicazione della nazionalità (albanese, nigeriano,
marocchino ecc.) per indicare i protagonisti dei fatti di cronaca; il tema
dello straniero si salda con quello dell’immigrato, subendo una forte
politicizzazione.
L’immigrazione viene tematizzata come terreno di conflitto sociale
negli anni in cui si consuma la crisi albanese, che esplode tra il marzo e
il settembre del 1987 con la crisi del governo Berisha. La caduta dei regimi
dell’Est europeo è salutata dall’Occidente come una vittoria contro
l’oppressione comunista. Le autorità locali, direttamente interessate dal
flusso dei profughi, e quelle nazionali si cimentano in una gara di solidarietà
che avrà breve respiro.4 Fra l’8 e il 15 agosto 1991 scoppia la crisi
di Bari, con le immagini dello sbarco e poi dello stadio che fanno il giro
3 Seguo la periodizzazione di Giuseppe Sciortino-Asher Colombo, The Flows and the
Flood: the Public Discourse on Immigration in Italy, 1969-2001, «Journal of Modern Italian
Studies», 9.1 (2004), pp. 94-113.
4 La vicenda è ricostruita da Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in
una società globale, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 179-204.
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del mondo, immortalate nel film di Gianni Amelio Lamerica del 1994.5
L’accoglienza paternalistica verso i reduci della dittatura lascia il posto
alla paura, al rifiuto, all’isteria. Immigrazione e criminalità formano da
allora un binomio inscindibile.6 Il carattere fondativo di quell’esperienza
è confermato dal fatto che, ancora oggi, nella stampa la parola «albanese»
è quella che presenta la prosodia semantica negativa più forte.7
In sintesi, dal 1989 al 1991 aumenta il divario fra realtà e discorso
pubblico, che da allora oscilla tra compassione e rigetto, è dominato
dall’emotività delle opposte retoriche della criminalizzazione e dell’eufemismo
dell’imbarazzo (poveri, disperati, disgraziati).
La situazione peggiora ovunque, anche in Italia, dopo l’11 settembre
2001, con la minaccia di attentati terroristici che portano alla ribalta altre
aree semantiche negative: arabo (parola con cui si indicano indistintamente
diverse nazionalità, etnie e credenze religiose), integralista, fondamentalista,
intolleranza, oppressione delle donne, scontro/guerra di civiltà. L’islam, prima
senza aggettivi, è scisso per sempre in «moderato» e «fondamentalista».
Due gruppi hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica italiana
nel 2007. Dopo la ‘rivolta’ dei cittadini cinesi di via Sarpi a Milano
del 12 aprile 2007, si è parlato di «Chinatown» nel corpo delle nostre
città, di omertà, di traffico di cadaveri, delle Triadi (organizzazioni criminali
nate a Canton e Taiwan), di rifiuto dell’integrazione, di comunità
chiusa, di lavoro nero e di schiavismo praticato verso i connazionali. Fino
alla protesta del mese di aprile l’operosità e la separatezza della comunità
cinese erano considerati valori positivi: silenziosi, appartati, solidali, non
5 Cfr. Paul Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato: 1980-1996,
Einaudi, Torino 1998, pp. 123-25. Sulla rappresentazione dello straniero nel cinema italiano
e sul film Lamerica, cfr. Paola Polselli, Offese e altre forme di discriminazione all’italiana.
Note a margine di alcuni film, in Paola Nobili (a cura di), Insulti e pregiudizi. Discriminazione
etnica e turpiloquio in film, canzoni e giornali, Aracne, Roma 2007, pp. 129-76.
6 Lo stesso era accaduto in Austria dopo la caduta del regime di Ceausescu: cfr. Martin
Reisigl-Ruth Wodak, L’analisi storico-discorsiva della retorica del razzismo e dell’antisemitismo,
in Stefania Giannini-Stefania Scaglione (a cura di), Introduzione alla sociolinguistica, Carocci,
Roma 2003, pp. 261-342 [ed. orig. The Discourse-historical Analysis of Racism and Antisemitism,
in Id., Discourse and Discrimination. Rhetorics of Racism and Antisemitism, Routledge,
London-New York 2001, cap. 2, pp. 31-90].
7 La ricerca di Elena Malavolti, Discriminazioni razziali nella carta stampata. Analisi del
corpus del quotidiano La Repubblica, in Nobili (a cura di), Insulti e pregiudizi…, cit., pp.
205-38, conferma i dati Censis 2002 sulla rappresentazione degli immigrati nei media, in
cui si privilegia il nesso con la criminalità.
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disturbavano come altri gruppi di immigrati. Nel momento in cui sono
diventati visibili, in cui hanno smesso di essere ‘tutti uguali’, è iniziata
l’ostilità dei media. Per settimane i titoli dei giornali hanno ospitato
«Dragoni», «Confucio», «Mao» e le temibili bandiere rosse (con una
strana confusione tra la bandiera rossa simbolo del comunismo e la bandiera
della Repubblica popolare cinese). Agli episodi di cronaca che li
riguardavano è stato dato un rilievo inusitato.
Le paure per l’ingresso della Romania nell’Ue, presentato come avvio di
una barbarica invasione, si sono materializzate in due episodi di cronaca,
ambedue avvenuti a Roma: la morte di Vanessa Russo, aggredita nella
metropolitana da una ragazza rumena, e l’uccisione di Giovanna Reggiani,
massacrata da un rom mentre rientrava a casa. Rom e rumeni, senza distinzione
alcuna, sono diventati tutti uguali, tutti criminali, tanto che si è
sfiorato l’incidente diplomatico con la Romania per le sconsiderate dichiarazioni
rilasciate, sull’onda dell’emotività, da alcuni politici di spicco. Il
làscito di questi delitti sono le Misure urgenti approvate il 28 dicembre
2007 dal consiglio dei ministri, relative all’espulsione dei cittadini comunitari,
ma pensate ad hoc per quelli rumeni.8
Oggi l’immigrato è «ostaggio di un discorso pubblico»9 asfittico: la
realtà quotidiana della civile convivenza nel lavoro, nella scuola, nella
partecipazione politica esiste solo come sfondo d’eccezione all’ineludibile
crimine, e non viceversa, iscritto nella cultura, quando non nella genetica,
dell’Altro.
Mi soffermerò sui meccanismi più insidiosi, meno palesi, che dallo
stereotipo conducono all’insulto etnico,10 tralasciando le manifestazioni
evidenti di razzismo.11 Le strategie del discorso discriminatorio, e al con-
8 Sulla traduzione della «tautologia della paura» in norme di legge, cfr. Dal Lago, Nonpersone…,
cit., pp. 74-75.
9 Sono parole di Francesco Pompeo nell’intervista rilasciata al quotidiano «il Manifesto», 9 maggio 2007.
10 I punti di riferimento metodologici, ai quali rinvio per un approfondimento, sono:
Reisigl-Wodak, L’analisi storico-discorsiva…, cit.; Catherine Kerbrat-Orecchioni, L’Énonciation.
De la subjectivité dans le langage, 4e édit., Armand Colin, Paris 2006; Uta Quasthoff,
Linguistic Prejudice/Stereoypes, in Sociolinguistics/Sozio-linguistik. An International Handbook of
the Science of Language and Society/Ein internationales Handbuch zur Wissenschaft von Sprache und
Gesellschaft, vol. I, ed. by Ulrich Ammon-Norbert Dittmar-Klaus J. Matteheier, de Gruyter,
Berlin 1987, pp. 785-99.
11 Un esempio per tutti: il sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, che ha minacciato la
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tempo identitario,12 si possono classificare in base alla loro complessità
lessicale, semantica, sintattica e testuale in referenza, predicazione e argomentazione,
senza che quest’ordine implichi la derivazione di una
forma dall’altra lungo una scala che procede dalla parola al testo.
Le strategie del discorso discriminatorio
La referenza valutativa identifica un soggetto o un gruppo selezionando,
e con ciò enfatizzandone, una caratteristica nelle forme comuni
della sineddoche, della metonimia e della metafora. La referenza, così
come le altre strategie, esprime le categorie (i valori) che disegnano i confini
esterni e interni (noi/loro) di una comunità. I riferimenti più comuni
riguardano: lo spazio, dai toponimi (Balcani, Medio Oriente, paesi extraeuropei,
Nord/Sud; aree delle città: banlieues, coree)13 agli etnonimi (turco,
marocchino, polacco, africano, terrone, kossovaro);14 i glottonimi e i nomi
«pulizia etnica» contro le «orde di neri e musulmani» durante la campagna elettorale che
ha preceduto la sua elezione (fonte: «La Repubblica», 19 maggio 2007, p. 19).
12 Sul tema dell’identità, che vanta ormai una bibliografia sterminata, si vedano almeno:
Marco Fincardi, Storie di differenze e di luoghi comuni, «Memoria e ricerca», Terre immaginate.
La costruzione di stereotipi regionali, 2 (1998), pp. 7-27; Paul V. Kroskrity, Identity, in
Alessandro Duranti (ed.), Key Terms in Language and Culture, Blackwell, Malden, MA 2001,
pp. 106-109; Guido Caldiron, Lessico postfascista. Parole e politiche della destra al potere, Manifestolibri,
Roma 2002, pp. 37-45. Sulla costruzione discorsiva dell’identità si possono leggere:
Judith T. Irvine-Susan Gal, Language Idelogy and Linguistic Differentiation, in Paul V.
Kroskrity (ed.), Regimes of Language: Ideologies, Polities, and Identities, School of American
Research Press-James Currey, Santa Fe, NM 2000, pp. 35-83; Mary Bucholtz-Kira Hall,
Language and Identity, in Alessandro Duranti (ed.), A Companion to Linguistic Anthropology,
Blackwell, Malden, MA 2004, pp. 369-94; Adi Hastings-Paul Manning, Introduction: acts of
alterity, «Language & Communication», 24 (2004), pp. 291-311; gli studi raccolti in Discourse
and Identity, ed. by Anna De Fina-Deborah Schiffrin-Michael Bamberg, University
Press, Cambridge (UK)-New York 2006; Anna Ciliberti (a cura di), La costruzione internazionale
di identità. Repertori linguistici e pratiche discorsive degli italiani in Australia, Franco
Angeli, Milano 2007; Elena Pistolesi-Sabine Schwarze, Vicini/lontani. Identità e alterità nella/
della lingua, Lang, Frankfurt am Main 2007.
13 Nome dato negli anni Cinquanta ad alcuni quartieri, perlopiù degradati e sovrappopolati.
In ogni metropoli esistono zone il cui nome, per antonomasia, indica degrado e violenza.
14 La Carta di Roma chiede, in proposito, di «evitare di rivelare l’origine etnica o la
nazionalità di migranti, richiedenti asilo o rifugiati se arrestati o colpevoli di reati, qualora
tale informazione sia irrilevante ai fini della notizia».
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di religione: di lingua X, cristiani, musulmani, ebrei, integralisti; la condizione
rispetto a organismi internazionali e alla legge: migrante, apolide,
chiedente asilo, profugo, esiliato, rifugiato, clandestino, irregolare, fuorilegge,
espulso, abusivo, extracomunitario, cittadino Ue; i tratti fisici:
nero/negro, muso nero/muso giallo, occhi a mandorla; l’evoluzione culturale
(spesso etnonimi che denotano i ‘primitivi’): baluba, zulu, barbaro,
zingaro, rom, talebano.
Particolare attenzione merita la parola etnia (con l’aggettivo etnico),
eufemismo che ha sostituito «razza», usato spesso come sinonimo di «tribale».15
Nell’uso corrente – oltre che alla cucina, alla musica e a uno stile
di arredamento non italiani – l’aggettivo etnico si accompagna a violenze,
guerre, rivolte, genocidi e stupri; etnici sono anche i crimini, nel senso
che riflettono la naturale inclinazione di chi li pratica. Spaccio, prostituzione,
rapine sono spesso collegati a gruppi specifici: il rapinatore o il
magnaccia è albanese; lo spacciatore e lo stupratore sono maghrebini;16 la
prostituta, un tempo polacca, oggi è rumena, ucraina o nigeriana; la mafia
è russa, cinese o nigeriana. All’etnicizzazione del crimine, per cui nelle
attese a un gruppo è associato un reato, corrisponde nel discorso pubblico
l’eccezionalità del reato nostrano, per il quale vale invece il principio:
«non si può criminalizzare un’intera comunità per poche mele marce». È
il refrain degli scandali sistemici italiani, costantemente eluso quando i
protagonisti non appartengono alla comunità coinvolta.
La predicazione stereotipica e pregiudiziale insiste sullo schema «tutti
gli X sono Y»; essa include la referenza come primo termine («tutti gli
X» equivale a «gli immigrati», «i rom», «le donne» ecc.); ai soggetti già
costretti in una classe si attribuisce la medesima caratteristica. Il predicato
può diventare, se consolidato nella ripetizione, un sinonimo stesso
del soggetto, con esso intercambiabile.
Tipica del pensiero stereotipico è la logica dell’eccezione, che consente
di preservare inalterato il proprio giudizio dinanzi alle controevidenze.
15 Cfr. Bourdieu Pierre, L’identité et la représentation, in Id., Language et pouvoir symbolique,
Éditions du Seuil, Paris 2001, pp. 281-92 [ed. orig. in Ce que parler veut dire, Librairie Arthème
Fayard, Paris 1982, pp. 135-48]. Etnico indica «a number of properties of groups, peoples or
nations, such as their language, religion, norms, customs and social practices» per Teun A. van
Dijk et al., Discourse, Ethnicity, Culture and Racism, in Teun A. van Dijk (ed.), Discourse as Social
Interction, Sage Publication, London-Thousand Oaks-New Delhi 1997, pp. 144-80.
16 In italiano esiste il verbo, di uso non comune, marocchinare con il significato di «stuprare»; marocchino
viene usato oggi come sinonimo di «extracomunitario».
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Se c’è contraddizione fra il carattere universale dello stereotipo («tutti i
napoletani sono fannulloni») e la sua controevidenza empirica, essa viene
risolta riducendo la seconda al campo dell’eccezione («tutti i napoletani
sono truffatori, Mario è napoletano, ma onesto»).17 Quanto detto sull’etnicizzazione
del crimine dovrebbe essere sufficiente a illustrare questa
logica. Si può aggiungere che nel discorso pubblico sull’immigrazione,
con una scansione cronologica piuttosto precisa, i pregiudizi più diffusi
rientrano nella casistica seguente:18
– l’immigrato minaccia l’identità italiana e, nel peggiore dei casi, «la
purezza della razza»; si collega al topos dei grandi numeri e alle metafore
dell’inondazione, dei flussi insostenibili, dell’invasione ecc.;
– l’immigrato ruba il lavoro agli italiani: oggi in disuso, questo
pregiudizio è tipico del primo contatto con i flussi migratori consistenti
ed esprime il timore di dumping sociale; nel tempo si affievolisce,
contrastato dagli argomenti utilitaristi per cui l’immigrazione
è necessaria per i nostri bisogni di crescita (natalità), di assistenza (badanti) ecc.;
– lo straniero gode di garanzie sociali superiori a quelle degli
italiani (strategia della vittimizzazione): questo tema ha preso il posto del
precedente;
– l’immigrato rifiuta l’assimilazione, le leggi e le regole del paese
che lo ospita: è l’argomento principe del razzismo culturale o differenzialista
di cui, dopo l’11 settembre, l’appartenenza religiosa è diventata il perno;
– gli stranieri non vogliono lavorare, sono dei parassiti, perciò rubano;
convive con l’argomento contrario: accettano di lavorare in
qualsiasi condizione, anche come schiavi, minando i nostri diritti;
– gli immigrati sono sporchi, portano malattie:19 è nei luoghi di con-
17 Teun A. van Dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, ed. it. a cura di
Paola Villano, Carocci, Roma 2004, p. 83, riporta un caso analogo come esempio di coerenza
locale controllata ideologicamente: «Osserviamo il genere di coerenza che presuppone la
verità in esempi di dicorso come “È della Nigeria, ma è un ottimo lavoratore”; frase che
presuppone che i nigeriani non siano buoni lavoratori».
18 I pregiudizi nel discorso pubblico italiano trovano piena corrispondenza con quanto
osservato per l’Austria da Reisigl-Wodak, L’analisi storico-discorsiva…, cit., pp. 289-90.
Lo stesso repertorio di argomenti contro i migranti italiani si trova in Gian Antonio Stella,
L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, Milano 2002.
19 Per esempio, l’ex sindaco di Treviso Gentilini ha indicato nei musulmani l’origine
dei casi di meningite che si sono verificati in città nel dicembre del 2007.
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tatto, come l’autobus e la metropolitana, che esplodono di solito i
conflitti e l’insofferenza; sono vicini di casa rumorosi e intrattabili;
– i maschi sono inclini alle violenze sessuali; le donne sono sottomesse,
accettano l’oppressione;
– lo straniero è la causa dell’insostenibile tasso di criminalità del
paese.
Con l’argomentazione si supera la dimensione della frase per passare
alla costruzione discorsiva dell’alterità, rispetto alla quale il pregiudizio,
non necessarimente enunciato, può costituire la premessa, un dato o il
punto di arrivo.20 La logica dell’eccezione si ripropone a questo livello
nella discriminazione positiva. L’immagine dello straniero integrato e
vincente consolida uno sfondo negativo fatto di fallimenti, dovuti alla
mancanza di volontà e all’arretratezza di quanti restano indietro.21
L’accostamento, abituale nei media, delle notizie relative all’immigrazione,
che si tratti di sbarchi, di reati o di atti di eroismo, realizza questo
schema. Per esempio, su La Repubblica del 25 maggio 2007 a p. 31 si
leggono due articoli di tenore diverso, accomunati nei titoli solo dall’appartenenza
religiosa dei protagonisti. Il primo:
Milano, tornano in libertà l’ex imam di Varese
e due suoi collaboratori. Amato: un caso da studiare
Terrorismo, assolti tre islamici
rischiano l’espulsione, è polemica
Il testo parla dell’assoluzione dei tre per non aver commesso il fatto.
Pur essendo la notizia positiva per gli imputati e di sollievo per il nostro
paese, le parole «terrorismo», «islamici», «espulsione», accanto a «caso
da studiare» ed «è polemica», oltre a creare allarme, fanno pensare al
solito errore giudiziario.
Il secondo articolo tratta dell’assunzione a Padova di alcuni facilitatori
culturali di varia provenienza che hanno il compito di affiancare gli
agenti della polizia municipale nei quartieri difficili della città. I loro
20 Cfr. van Dijk, Ideologie…, cit., pp. 47, 80-81; Reisigl- Wodak, L’analisi storico-discorsiva…,
cit., p. 290.
21 Mathieu Rigouste, Immigrati, l’inclusione dei vincenti, «Le Monde diplomatique (il manifesto)»,
8 (2005), p. 2 [ed. orig. Variantes du discours sur l’intégration: “L’immigré, mais
qui a réussi…”, «Le Monde diplomatique», juillet 2005, p. 23]; sulle funzioni del ma si veda
anche Kerbrat-Orecchioni, L’Énonciation…, cit., pp. 103-105.
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profili sono molto positivi poiché hanno requisiti che sarebbe difficile
trovare in un italiano (due studenti universitari, un violinista professionista).
L’occhiello e il titolo del pezzo sono:
Padova, sposata, 27 anni, iscritta alla facoltà di Chimica,
fa parte della squadra multietnica
«Io, vigilessa marocchina, in pattuglia col velo»
A parte il tono sensazionalistico, il pezzo colpisce per un altro motivo:
integrati nell’articolo si trovano tre brevi testi apparentemente privi di
un legame con il suo contenuto:
gennaio 2007 – Una immigrata marocchina difende una militante
della Lega aggredita dai no-global
marzo 2007 – Due nigeriani segnalano alla polizia un professionista
del borseggio e lo fanno arrestare
aprile 2007 – Un senegalese soccorre un ragazzo in overdose in via
Anelli e lo porta al pronto soccorso
Non si comprende se i protagonisti siano ancora i facilitatori culturali,
pagati per svolgere una forma di vigilanza, o semplici passanti. Solo
l’indicazione «via Anelli» nel terzo episodio ci riconduce a Padova. La
notizia non consiste qui nella manifestazione di senso civico, ma nel fatto
che gli attori sono immigrati: è sufficiente sostituire «immigrata marocchina»
o «senegalese» con «italiano» per averne una conferma.22
Le strategie presentate possono combinarsi variamente: da un’argomentazione
viziata può consolidarsi una denominazione che, con il suo
corredo semantico negativo, si fissa come insulto: è il caso di ebreo e negro
(allo stadio: «Squadra di negri, curva di ebrei»; «livornesi ebrei»). Proprio
al processo che conduce dallo stereotipo all’insulto dobbiamo prestare
attenzione poiché, oltre a condividere alcune caratteristiche strutturali,
la loro coesistenza o il passaggio dall’uno all’altro sono la prova
che il cliché è diventato pregiudizio. Per Yiannis Gabriel lo stereotipo è
già una forma di insulto, insieme a una serie di atti, come l’esclusione,
l’omissione di particolari rilevanti del destinatario (ciò che abbiamo già
22 Sulla violazione delle attese gioca il titolo di un quotidiano locale: Italiano deruba un
rumeno, in cui la notizia non è il furto, ma l’inversione dei ruoli.
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visto nella referenza valutativa), appartenente a una categoria generale
che ha come denominatore l’emarginazione.23
Che cosa accomuna stereotipi e insulti
L’insulto esprime in forma sintetica e aggressiva ciò che il pregiudizio
trasmette mantenendo una parvenza discorsiva. Se la formula dello
stereo tipo è «tutti gli X sono Y», basterà dire X perché si attivi la predicazione
consueta e perché la singola parola, in particolari condizioni
pragmatiche, si trasformi in ingiuria. Anche se nella sua espressione linguistica
più comune appare privo di retroterra e di contesto, l’insulto ha
la forza sintetica di un’intera argomentazione e, come questa, attinge allo
stesso repertorio tematico. Se consideriamo gli argumenta a homine della
retorica classica, vediamo che dall’argumentum del genus derivano le
espressioni «tale padre tale figlio», quanto gli insulti del tipo «bastardo»,
«figlio di…»; dalla natio, che riguarda i modi di dire relativi
agli altri popoli, proviene la nutrita serie degli etnotipi;24 dall’habitus
corporis, oltre alla ben nota associazione tra caratteristiche fisiche, psicologiche
e morali degli individui (la frase «è nel loro Dna» ne rappresenta
la versione scientificamente aggiornata), derivano gli insulti che fanno
riferimento alle malattie e agli handicap.
Lo stereotipo e l’insulto (sporco negro! zingaro di merda! kossovaro!)
si basano sulla referenza selettiva che abbiamo già illustrato come primo
passo del discorso discriminatorio. In ambedue, chi parla tende a oggettivare
il proprio biasimo, riversandone l’intera responsabilità sulla natura
dell’altro, sulla sua stessa essenza. Il soggetto infatti non si esprime
come fonte del giudizio, ma occulta il proprio punto di vista sia nella
23 Yiannis Gabriel, An Introduction to the Social Psychology of Insults in Organizations,
«Human Relations», 51.11 (1998), pp. 1329-54.
24 Philippe Ernotte-Laurence Rosier, L’ontotype: une sous-catégorie pertinente pour classer les
insultes?, «Langue Française», Les insultes: approches sémantiques et pragmatiques, 144 (2004),
pp. 35-48, distinguono tre categorie di insulti: gli etnotipi (negro, ebreo, scozzese, genovese,
napoletano ecc.), i sociotipi (piccolo-borghese, comunista, burocrate ecc.) e gli ontotipi,
che fanno riferimento alle supposte caratteristiche intrinseche dell’individuo (imbecille,
scemo, stupido ecc.). Sui loci o argumenta, cfr. Bice Mortara Garavelli, Manuale di
retorica, 6a ediz., Bompiani, Milano 2002, pp. 82-83; e Reisigl-Wodak, L’analisi storico-discorsiva…,
cit., p. 278.
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forma secca dell’insulto (terrone!) sia in quella impersonale dello stereotipo. 25
L’effetto perlocutivo dell’enunciato si rafforza, costringendo il
destinatario alla rabbia e all’impotenza, poiché ogni negazione o reazione
può essere usata a conferma («dite tutti così», «siete tutti uguali»);26 non
si può controbattere perché la sua carica ideologica non lo consente in
quanto espressione di un pregiudizio.
Fra le strategie simboliche che mirano a imporre il punto di vista e
i valori dominanti, Pierre Bourdieu vede i due estremi nell’insulto (idios
logos) e nella nomination officielle, definita come «acte d’imposition symbolique
qui a pour elle toute la force du collectif, du consensus, du sens
commun, parce qu’elle est opérée par un mandataire de l’État détenteur
du monopole de la violence symbolique légitime».27 Gli insulti etnici sono
tanto più devastanti per chi li riceve perché sommano le forme di violenza,
individuale e legittima, e contano spesso su un consenso diffuso,
sulla solidarietà dell’audience. La riconoscibilità sociale è infatti costitutiva
dello stereotipo come dell’insulto, tanto che con riferimento a essa
Philippe Ernotte e Laurence Rosier definiscono il secondo «una stereotipia
discorsiva a forte substrato ideologico».28
Gli stereotipi e gli insulti esprimono, con diversa forza, una dissociazione,
poiché chi parla attribuisce al destinatario delle caratteristiche
che ritiene estranee a sé e al proprio sistema di valori;29 sono strumenti
di costruzione identitaria, pratiche sociali che servono a ribadire uno
status, a confermare una gerarchia, talvolta a saggiarne l’elasticità; mirano
a mantenere l’ordine simbolico e sociale costituito poiché diretti in
genere contro un gruppo subordinato; giocano un ruolo fondamentale
25 Cfr. Kerbrat-Orecchioni, L’Énonciation…, cit., p. 92. L’occultamento del punto di
vista è evidente nel trasferimento di responsabilità («Tutti sanno che…») e nella negazione
apparente («Non ho niente di personale contro di loro/Non sono razzista ma…»). Su questa
strategia, cfr. van Dijk, Ideologie…, cit., p. 85.
26 Gabriel, An Introduction…, cit., p. 1339.
27 Cfr. Pierre Bourdieu, Espace social et genèse de «classes», in Language et pouvoir symbolique,
Éditions du Seuil, Paris 2001, pp. 293-323 [ed. orig. in «Actes de la recherche en sciences
sociales», 52-53 (juin 1984), pp. 3-12].
28 Ernotte-Rosier, L’ontotype…, cit., p. 35.
29 Se questa dissociazione non è chiara, l’insulto o non funziona o non è tale, come accade
in affermazioni del tipo «siamo due idioti!», in cui l’inclusione del soggetto ha una
funzione attenuativa. Su questo aspetto si vedano: Elena Pistolesi, Identità e stereotipi nel discorso
conflittuale, in Pistolesi-Schwarze (a cura di), Vicini/lontani…, cit., pp. 115-30;
Kerbrat-Orecchioni, L’Énonciation…, cit., pp. 100-102.
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ELENA PISTOLESI
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nello stabilire l’egemonia, perché agiscono non sulla forza ma sulla persuasione,
scopo che condividono con l’argomentazione; sono poi forme
di prescrizione comportamentale: gli individui sono costretti a corrispondere
alle attese, in quanto, come osserva Salvoj Žižek,
l’“essere” dei neri (così come quello dei bianchi o di chiunque
altro) è un essere socio-simbolico. Quando sono trattati da inferiori
dai bianchi, ciò li rende di fatto inferiori al livello della loro
identità socio-simbolica. In altre parole, l’ideologia razzista dei
bianchi ha un’efficacia determinativa. Non è semplicemente
un’interpretazione di ciò che i neri sono, ma un’interpretazione
che determina il loro stesso essere e la stessa esistenza sociali dei
soggetti interpretati.30
Per questo stereotipi e insulti sono espressione di un processo politico/
ideologico che fissa inclusione ed esclusione, status e potere, alleanze
e differenze; riflettono le dinamiche sociali, e con esse cambiano nel
tempo o si trasferiscono da un soggetto a un altro.31 Il corredo pregiudiziale
attribuito oggi agli immigrati è lo stesso applicato un tempo ai
meridionali-terroni, apparentemente sopito ma sempre in agguato. Fatta
l’Italia, pare che gli immigrati abbiano fatto gli italiani.
30 Žižek, La violenza invisibile, cit., p. 76. Sul carattere prescrittivo degli stereotipi, si veda
anche Mary Talbot, Gender Stereotypes: Reproduction and Challege, in The Handbook of
Language and Gender, ed. by Janet Holmes-Miriam Meyerhoff, Blackwell Publishing, Oxford
2003, pp. 469-86.
31 Alcuni esempi: sono desueti ottentotto, chietino, cerretano, raguseo, levantino, ascaro, moretto,
komeinista ecc.; resistono ebreo, negro, baluba, beduino, rabbino, terrone, napoli; sono entrati
nell’uso in base all’impatto dei recenti flussi migratori: africa, albanese, albano, arabo, filippino,
marocchino-marocco, kossovaro, zingaro, rom, nomade, barambara (extracomunitario di colore),
talebano. Per i contesti d’uso, cfr. Giovanni Casalegno-Guido Goffi , Brutti fessi e cattivi.
Lessico della maldicenza italiana, Utet, Torino 2005. Per un documentato quadro storico, cfr.
Federico Faloppa, Parole contro. La rappresentazione del ‘diverso’ nella lingua italiana e nei dialetti,
prefazione di Gian Luigi Beccarla, Garzanti, Milano 2004; Stefano Telve, Etnonimi e
xenofobia, «La Crusca per voi», 32 (2006), pp. 3-6. Fra le parole che lo Zingarelli 2006 contrassegna
come stereotipi (nota d’uso scritta da Tullio De Mauro) sono etnonimi: baluba,
bulgaro chietino, ebreo, giudeo, luterano, marocchinare, napoli, ottentotto, polentone, scozzese, terrone,
teutonico, zingaro, zulu.