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1 INDICE INTRODUZIONE……………………………………………………………p.2 CAPITOLO I UN ESISTENZIALISMO ATEO…………………………p.6 1. Una vocazione mancata…………………………………………………p.6 2. Le Mosche. Il passaggio dalla disperazione all’azione……………p.9 3. L’etica in un mondo senza Dio…………………………………………p.11 4. Porta Chiusa e il dramma dell’alterità……………………………….p.13 5. Marxismo, materialismo ateo e primi accenni di impegno civile…p.14 CAPITOLO II –LA LETTERATURA DELL’ESISTENZA………………. p.17 1. La vicenda editoriale…………………………………………………….p.17 2. Un intellettuale controverso…………………………………………... p.19 3. Parallelismi nel romanzo…..……………………………………………p.22 4. Tre personaggi in cerca di senso…………………………………….. p.26 5. «Vivere o raccontare.» Il tempo ne La Nausea…………………… p.31 CAPITOLO III L’ESSERE E IL NULLA. LA FILOSOFIA DE LA NAUSEA……………………………………………………………………..p.35 1. Corrosione e guarigione. Il tempo ne L’Essere e il Nulla……….p.35 2. “Io sono io, ma non sono ciò”: la malafede ne L’Essere e il Nulla…………………………………………………………………. p.39 3. “Je est un autre”: il ruolo dello sguardo nel pensiero sartriano…………………………………………………………………p.41 4. Verso un ateismo postulatorio sartriano………………………….p.46 CONCLUSIONI……………………………………………………………………p.49 BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………………..p.51
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Jean Paul Sartre: la letteratura dell'esistenza (1939-1948)

Mar 28, 2023

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Page 1: Jean Paul Sartre: la letteratura dell'esistenza (1939-1948)

1

INDICE

INTRODUZIONE……………………………………………………………p.2

CAPITOLO I – UN ESISTENZIALISMO ATEO…………………………p.6

1. Una vocazione mancata…………………………………………………p.6

2. Le Mosche. Il passaggio dalla disperazione all’azione……………p.9

3. L’etica in un mondo senza Dio…………………………………………p.11

4. Porta Chiusa e il dramma dell’alterità……………………………….p.13

5. Marxismo, materialismo ateo e primi accenni di impegno civile…p.14

CAPITOLO II –LA LETTERATURA DELL’ESISTENZA……………….p.17

1. La vicenda editoriale…………………………………………………….p.17

2. Un intellettuale controverso…………………………………………... p.19

3. Parallelismi nel romanzo…..……………………………………………p.22

4. Tre personaggi in cerca di senso…………………………………….. p.26

5. «Vivere o raccontare.» Il tempo ne La Nausea…………………… p.31

CAPITOLO III – L’ESSERE E IL NULLA. LA FILOSOFIA DE LA

NAUSEA……………………………………………………………………..p.35

1. Corrosione e guarigione. Il tempo ne L’Essere e il Nulla……….p.35

2. “Io sono io, ma non sono ciò”: la malafede ne L’Essere

e il Nulla………………………………………………………………….p.39

3. “Je est un autre”: il ruolo dello sguardo nel pensiero

sartriano…………………………………………………………………p.41

4. Verso un ateismo postulatorio sartriano………………………….p.46

CONCLUSIONI……………………………………………………………………p.49

BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………………..p.51

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INTRODUZIONE

Affidiamo l’inizio di questo lavoro a un excursus cinematografico che ci sembra possa

rappresentare la cornice di quanto affronteremo nelle pagine a seguire. Si tratta della

pellicola Waking Life1 diretta dal regista texano Richard Linklater. A parlare è Robert

Solomon2, docente universitario e filosofo americano spentosi nel 2007, autore di saggi

incentrati perlopiù sul pensiero post-idealista tedesco e sulla fenomenologia

esistenzialista. Nel film siamo proiettati assieme al protagonista nel mezzo di una

lecture accademica in cui il professor Solomon dice così:

«Se mi rifiuto di considerare l’esistenzialismo solo un’ennesima moda francese o una curiosità storica, è

perché credo che abbia qualcosa di molto importante da offrirci per il nuovo secolo. Io temo che stiamo

perdendo la capacità del vivere la vita con passione, di assumerci la responsabilità di quello che siamo, la

capacità di raggiungere dei risultati e di sentirci soddisfatti della vita. L’esistenzialismo viene spesso

trattato come una filosofia della disperazione, ma io credo che sia esattamente l’opposto. Sartre in un

intervista ha detto che non aveva mai vissuto un solo giorno di disperazione. Quello che viene fuori dalla

lettura di questi filosofi, non è tanto un senso di angoscia nei confronti della vita, ma al contrario una

certa esaltazione nel sentirsi padroni della vita stessa: siamo noi cioè a crearci la nostra vita. Ho letto i

post-moderni con interesse, perfino con ammirazione, ma quando li leggo ho sempre la sensazione molto

fastidiosa che qualcosa di assolutamente essenziale venga tralasciato. Ogni volta che parli di una persona

come di una costruzione sociale o come di una convergenza di forze diverse o come di un individuo

frammentato oppure compatto, non fai altro che aprire le porta ad una marea di giustificazioni. Quando

Sartre parla di responsabilità, non sta parlando di qualcosa di astratto, non sta parlando di quel genere di

Io o di anima di cui discuterebbero i teologi, ma di qualcosa di molto concreto, come io e te che parliamo,

prendiamo decisioni, facciamo cose e ne accettiamo le conseguenze. È vero che al mondo siamo sei

miliardi di persone e stiamo aumentando; ciononostante quello che fai fa la differenza. Fa la differenza

innanzitutto in termini materiali, fa la differenza per le altre persone e crea un precedente. Insomma io

1 Riteniamo necessaria anche una breve introduzione a tale pellicola. Filmato in rotoscope (una tecnica di

animazione utilizzata per creare un cartone animato in cui le figure umane risultino realistiche; il

disegnatore ricalca le scene a partire da una pellicola filmata in precedenza) essa narra, nonostante

proporre una sinossi è compito difficile e, crediamo, superfluo, la vita a cavallo tra realtà e sogno lucido

di un ragazzo sulla ventina di cui non ci vengono fornite ulteriori notizie. Come in altri suoi film,

Linklater si focalizza soprattutto sul dialogato, facendo passare in secondo piano ogni altro elemento, tea

cui la trama stessa. Il pezzo sull’esistenzialismo si trova all’inizio della pellicola, e farà da prologo a tutta

una serie di dialoghi con altri personaggi, alcuni di grande impatto emotivo, che mescoleranno scienza e

filosofia, amore e rabbia, teoria ed azione. 2 Robert C. Solomon, professore alla University of Texas at Austin, morto a sessantacinque anni nel

2007. Noto nel mondo accademico anglosassone, le sue opere sono state accolte con minor interesse in

Italia (non si hanno traduzioni in lingua presenti, ad oggi). Studioso sia di hegelismo e post-idealismo

(specialmente del pensiero nietzscheano) che di fenomenologia esistenzialista, ha collaborato anche alla

redazione di antologie filosofiche. Per quello che riguarda il suo contributo al contenuto dei prossimi

capitoli, si è fortemente apprezzato il peso fondamentale che ha sempre riconosciuto al concetto di

“libertà” nell’ambito esistenzialista, facendone una pietra angolare delle sue ricerche.

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credo che da questo bisogna capire che non dobbiamo mai chiamarci fuori e pensare di essere vittime di

una concomitanza di forze. Siamo sempre noi a decidere chi siamo.3»

Il passaggio ci è sembrato significativo perché muove innanzitutto dal bisogno di

affrancare la filosofia esistenzialista dal suo essere considerata una moda, un

atteggiamento caricaturale dell’intellettuale a-sociale, disperato e passivo di fronte alla

sciagura della vita.4 Scrive Giovanni Invitto: «Certamente Mounier aveva fondati motivi

quando configurava la moda degli esistenzialismi storici come l’assurdità del secolo:

“L’angoscia del mondo chiusa tra i muri di un caffè dove si chiacchera […]. Questa è la

prima sventura dell’esistenzialismo.5» Il pensiero sartriano invece si è sempre voluto

porre come «filosofia dell’uomo libero, ma in situazione – a contatto e in rapporto con

gli altri. Di un uomo consapevole della problematicità dell’esistenza, ma anche del fatto

d’essere arbitro delle proprie scelte e dei propri atti. Di un uomo nato per l’azione e per

la lotta, e deciso ad impegnarsi attivamente nel mondo.6» In questo senso

l’esistenzialismo segna il massimo punto di rottura con le filosofie idealistiche di fine

ottocento, ponendosi sulla linea già tracciata dal pensiero kierkegaardiano di riscoperta

dell’io e delle sue possibilità. Pietro Prini parla inoltre «degli anni immediatamente

successivi alla prima guerra mondiale come di un’epoca “metafisicamente privilegiata”

ai fini dello sviluppo delle filosofie dell’esistenza.7» Dopo lo scempio dei due conflitti

mondiali il soggetto rifiuta, cioè (e lo fa empaticamente prima ancora che

intellettualmente), di essere un ingranaggio necessario in un meccanismo teleologico e

la temporalità, «non più vissuta come necessaria continuità, durata, progresso, si rivela

perciò […] segnata dalla contingenza; l’individuo si sente spiazzato, gettato in contesti

non voluti.8» Anacronistici «dovevano ormai apparire gli anni della Belle époque e la

sua concezione del tempo a boule de neige (palla di neve) – per riprendere un’efficace

immagine bergsoniana.9» Grande importanza assume in questo contesto la rilettura del

pensiero nietzscheano, della sua oracolarità riguardo la decadenza dell’Occidente.

«Viene esaltata la “realtà della vita”, che non pare possa essere colta secondo modalità teoretiche

tradizionali: ogni sua oggettivazione, ogni reificazione, impediscono di accedere al luogo originario ed

3 Waking Life (Richard Linklater, 2001) 4 In un intervista per Il corriere della sera del 1994 sull’impatto dell’esistenzialismo nella Parigi di

cinquant’anni prima, la romanzista e regista Françoise Sagan si esprime così: « La dottrina di Sartre non

aveva niente a che vedere con tutto ciò , era volgarizzata stupidamente, soprattutto dai giornali.

Fotografando Sartre sulla terrazza di un caffè , per la prima volta si creava il filosofo come personaggio.»

(U. Munzi, Quando vestivamo all’esistenzialista, Il corriere della sera, 23 Aprile 1994, p.29) 5 G.Invitto, Sartre. Dio:una passione inutile, Messaggero, Padova 2001, p.15. 6 S.Moravia, Introduzione a Sartre, Laterza, 1983, p.86. 7 E. De Caro, Esistenzialismo, Editrice Bibliografica, 1997, p.8. 8 Ivi, p.9. 9 Ivi, p.8.

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energetico del vitale, in cui pulsano forze irrazionali che si fenomenizzano caoticamente e che non

possono per nulla essere incanalate nella sintesi della ragione.10»

Ma questo nichilismo è solo un punto di partenza, l’esperienza del nulla non è

paralizzante, ma è anzi un punto di partenza per una riscrittura tanto di sistemi di

pensiero quanto di linguaggi artistici. Scrive Ernst Jünger nel saggio Oltre la linea:

«Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la

tentazione conosce ben poco la nostra epoca.11

»

In Sartre il Nulla è addirittura l’altra faccia dell’Essere, è la verità del per-sé vivente che

si oppone all’in-sé inerte, privo di senso. È Nulla l’esistenza dell’uomo che si trova nel

mondo senza che possa volerlo12

e che quindi è alla costante ricerca di senso, di essere,

come fa Antoine Roquentin, il protagonista de La Nausea:

«Sapevo bene che era il Mondo, il Mondo nudo e crudo che si mostrava d’un tratto, e soffocavo di rabbia

contro questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto

questo, nè come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente

dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in

cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna

ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile:

per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla

era solo un’idea nella mia testa, un’idea esistente, fluttuante in quella immensità: quel nulla non era

venuto prima dell’esistenza, era un’esistenza come un’altra e apparsa dopo molte altre.13»

Altro elemento che denoterà fortemente il pensiero di Sartre è il suo rigoroso ateismo,

non tanto come polemica con la teologia «che si è trasformata da parola di Dio all’uomo

a parole di uomini intorno a Dio14

», ma piuttosto come coerente posizione originaria

non riducibile «a una discussione di tesi filosofiche sulla possibilità – impossibilità

dell’esistenza di Dio.15

» Elidere il problema religioso alla radice ha una valenza morale

fondamentale:«Con lo svanire di Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in

un cielo intelligibile; non può più esserci un bene a priori […]; non sta scritto da

nessuna parte che il bene esiste […]: siamo su di un piano su cui ci sono solamente

degli uomini.16

» O come leggiamo in Bariona: «Anche se l’eterno mi avesse mostrato il

10 Ivi, p. 11. 11 Ivi, p.13; cit. E.Junger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 1989, p.104. 12 «Ogni essere nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione» (J.-P.Sartre, La

Nausée, Gallimard, Paris 1938; trad. a cura di B.Fonzi, La Nausea, Einaudi, Torino 2011, p.180) 13 Ivi, p.181-182. 14 G.Invitto, Sartre. Dio:una passione inutile, cit., p.16. 15 Ivi, p.24. 16 J.-P.Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946; trad. it Maurizio Schoepflin,

L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma 2006, p.53.

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suo volto tra le nuvole io rifiuterei ancora di intenderlo perché io sono libero; e contro

un uomo libero Dio stesso non può niente.17

»

Nel corso della nostra trattazione abbiamo deciso di approfondire una parte della

produzione sartriana, a cavallo tra il 1939 e il 1947, con un particolare interesse verso le

opere a carattere letterario, in particolar modo La Nausea. Le tematiche cui si è

attribuita maggiore rilevanza sono invece quelle dell’ateismo e del tempo, cercando di

leggerle alla luce dell’impegno etico dell’individuo in mezzo al mondo, individuo che è

il solo ed unico responsabile delle proprie azioni.

17 J.-P. Sartre, Bariona, ou les Fils du tonnere, Gallimard, Paris 1970; trad.it. M.A. Aimo, introduzione di

A. Delgu, Bariona o il figlio del tuono – Racconto di natale per cristiani e non credenti, Christian

Marinotti Editore, Milano 2003, p.616.

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CAPITOLO I – UN ESISTENZIALISMO ATEO

1. Una vocazione mancata.

L’ateismo sartriano è strettamente legato alle vicende biografiche dell’autore e viene da un

evento occorso quando ancora il suo pensiero filosofico era in fieri, evento col quale poi non si

troverà più a dover fare i conti.

«Una sola volta ebbi la sensazione che Egli esistesse. Avevo giocato con dei fiammiferi e bruciato un

piccolo tappeto; stavo truccando il mio misfatto quando all’improvviso Dio mi vide, sentii il suo sguardo

all’interno della mia testa e sulle mani; cercai una scappatoia nel bagno, orribilmente visibile, un

bersaglio vivente. La rabbia mi salvò […]. Ho appena raccontato la storia di una vocazione mancata:

avevo bisogno di Dio, mi fu dato, lo ricevetti senza capire che lo cercavo. Non potendo attecchire nel mio

cuore, egli ha vegetato in me, poi è morto. Oggi, quando mi si parla di Lui, dico con quel tanto di

divertito senza una punta di rimpianto con cui un vecchio vagheggino si rivolge ad una vecchia fiamma

incontrata per caso: “Cinquant’anni fa, senza quel malinteso, senza quell’errore, senza quell’incidente che

ci separò, avrebbe potuto esserci qualcosa fra noi”.18»

Questo aneddoto biografico che il filosofo ricorda ne Le Parole riassume efficacemente

il senso dell’esistenzialismo ateo di Sartre. Non solo la vicenda porta alla luce un

rapporto con Dio per nulla vitale, ma un particolare accento, forse non casuale, viene

anche posto nel mettere in gioco tematiche kierkegaardiane come vocazione e

introspezione divine. Parlare di esistenzialismo significa, infatti, dover innanzitutto fare

i conti con alcune considerazioni chiave del filosofo danese, 19

prima tra tutte il concetto

di “singolo”. Kierkegaard infatti, e a questo affermerà di dedicare ogni sua energia,

«a Hegel, costruttore del “sistema” in cui ogni pensiero essenziale trova il giusto posto, rimprovera di

essersi dimenticato di riservare un posto a chi anzitutto avrebbe dovuto averlo in quello splendido palazzo

della ragione: a se stesso che, pur spinto dalla dialettica dello spirito a percorrere tutto il sistema fino al

suo compimento, avrebbe avuto tuttavia bisogno, in quanto pensante che anche effettivamente esiste, di

stare in un tempo ed un posto ben precisi.20 »

18 J.-P.Sartre, Les Mots, Gallimard, Paris 1964; trad.it. di Luigi de Nardis, Le Parole, Il Saggiatore,

Milano 1994, p.73. 19 Scrive Giovanni Invitto in Sartre. Dio: una passione inutile: «Quando si fa l’albero genealogico

dell’esistenzialismo, i pensatori religiosi sono alla radice. Mounier l’albero lo disegnò davvero e pose

nelle radici, oltre Socrate e gli stoici, Agostino e Bernardo, alla base del tronco Pascal e Maine de Biran…

. Tutto il tronco, poi, era costituito da Kierkegaard.»; cit., p.12. 20

U. Regina, Kierkegaard. L’arte dell’esistere, Morcelliana, Brescia 2005, p.15.

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Ma, se in Kierkegaard, la presa d’atto di un’ infinita contingenza sfocia nel peccato e in

una fede abramica,21

in Sartre la prospettiva è totalmente capovolta, e si viene a

tematizzare una indifferenza di fondo, sempre atea, di fronte a Dio: «L’esistenzialismo

non vuole essere ateo in modo tale da esaurirsi nel dimostrare che Dio non esiste; ma

preferisce affermare: anche se Dio esistesse, ciò non cambierebbe nulla, ecco il nostro

punto di vista.22

»

Entrambi i pensatori, partendo da premesse opposte, giungono ad evidenziare

l’insignificanza delle prove metafisiche e logiche dell’esistenza o non esistenza di Dio,

il primo rimarcando l’imprescindibile importanza fideistica del salto, il secondo

ribadendo che la religione sia piuttosto un fatto interiore, quasi psicologico, e che, ed

ancora una volta troviamo un accordo quasi paradossale, la sottomissione ad una

qualsiasi religione positiva è solo «credenza di credenza.23

»

Questo atteggiamento è ancora più forte nella società borghese di inizio novecento, per

cui «la fede era solo un nome di gala per la dolce libertà francese; m’avevano

battezzato, come tanti altri, per preservare la mia indipendenza […] “Più in là” dicevano

“farà quello che vorrà.” Si riteneva allora molto più difficile conquistare la fede che

perderla.24

» È questo uno dei numerosi attacchi che, a partire dal dopoguerra, Sartre

lancerà al pensiero borghese, quello dell’esprit d’analyse,25

che pratica la religione «più

per motivi estetico-culturali […] che per profonda convinzione. Inoltre le baruffe

dottrinali tra protestantesimo e cattolicesimo erano servite […] solo a irridere il

cattolicesimo e a sminuire, nella sostanza, il fatto religioso in sé.26

» E non è questa tanto

una critica di stampo marxista, quanto più che altro un osservazione critica a un mondo

che Sartre aveva la sorte di vivere dall’interno. «Durante il regno dell’uomo borghese,

Dio è morto. L’eterno è stato sostituito dall’infinito temporale27

» e la vera cristianità,

quella autentica del paradosso, è custodita nel mondo medievale, ma «se si potesse

credere veramente, come si è creduto nel medioevo, la vita sarebbe sconvolta. Il mondo

borghese non vuole dubbi e non vuole discutere sui fini.28

»

Lungi da Sartre l’idea di elaborare una teodicea della fede cristiana, tanto che anch’essa,

sebbene riveli alcune delle idiosincrasie di una classe arroccata su pregiudizi ideologici,

21 Fatto che mi pare di poter riassumere con le parole di Umberto Regina nell’introduzione a Briciole

Filosofiche: «l’uomo è posto davanti al dilemma: o esistere nell’incertezza oppure non esistere affatto

[…] Tertium datur: la fede.» Citato da S.Kierkegaard, Philosophiske smuler eller En smule philosophi,

Reitzel, Copenaghen 1844; trad.it. di U.Regina, Briciole Filosofiche. Ovvero un poco di filosofia,

Morcelliana, Brescia 2012, p.28. 22 J.-P.Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p.79. 23 G.Invitto, Sartre. Dio:una passione inutile, cit., p.19. 24 J.-P. Sartre, Le Parole, cit., p.71. 25 J.-P. Sartre, Présentation de Les Temps Modern, in Situations II, Gallimard, Paris 1948. 26 G.Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, cit., p.22. 27 Ivi, p.50. 28

Ivi, p.49.

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è analizzata e criticata nelle sue più profonde strutture, fino a «rovesciare il mito di

Cristo. In Cristo c’è un Dio che ci sacrifica perché l’uomo viva; ma in realtà la passione

dell’uomo è quella di sacrificarsi perpetuamente perché Dio esista. Sacrificio inutile e

dannoso.29

»

Il messaggio cristiano («la religione del nulla30

» ) infatti allontana l’uomo dal sentirsi

inesorabilmente libero e ancor di più lo rende parte di una comunità in cui si è tutti

uguali perché generati ex nihilo dallo stesso padre, che costantemente osserva e giudica,

e da cui «promana il diritto, la morale.31

»

La nostra è una «croyance à rien: “per essere legittima occorre che essa prenda in

prestito dal mondo sensibile delle intuizioni (buon vecchio, Cristo in croce), il che è

possibile solo per i fanciulli o per la fede del carbonaio”. Quando prega, il credente è

come lo psicoastenico: egli mima la fede, come l’altro mima il dolore.32

»

L’ateismo dovrebbe dunque «comportare la fine dell’atteggiamento di preghiera. La

disperazione conseguente […] deriva da questo sentirsi pascalianamente vaganti in un

infinito disordinato. […] Eliminato Dio, cade la mediazione infinita che egli rappresenta

tra uomo e uomo.33

»

Essere atei non vuol dire quindi eliminare alla radice la propria religiosità, ma al

contrario assumerla ogni giorno senza però essere alienati dalla fede.34

In altre parole,

svanendo con Dio «ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile35

», si

entra «in un piano in cui ci sono solamente degli uomini36

» che hanno l’immane

responsabilità, tramite l’azione, di inventare essi stessi i valori, il che equivale a dire che

«la vita non ha senso a priori.37

»

Ma inevitabilmente «l’uomo è condannato a pensarsi “secondo Dio”38

», il che non si

traduce assolutamente in una beatitudine eterna ed eterea, ma al contrario «è la

persuasione che l’uomo è un creatore, e che è abbandonato, solo, sul mondo. L’ateismo

non è quindi un allegro ottimismo, ma, nel suo senso più profondo, una disperazione.39

»

È questo lo stesso sentimento che Sartre mette in luce in un passaggio fondamentale

dell’opera teatrale Le Mosche:

29Ivi, p.41. 30 J.-P.Sartre, Bariona o il figlio del tuono – Racconto di natale per cristiani e non credenti, cit., p.581. 31 G.Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, cit., p.46. 32 Ivi, p.50. 33 Ivi, p.52. 34 Scrive Invitto, citando Sartre:«L’esistenzialismo non è niente di tutto, se non un certo modo di

esaminare le questioni umane rifiutando di dare all’uomo una natura fissata per sempre.» Ivi, p.38 35 J.-P.Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p.53. 36 Ibidem. 37 Ivi, p.77. 38 G.Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, cit., p.41. 39 Elio Vittorini, Alcune domande a Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, in «Il Politecnico», n.31-32,

luglio-agosto 1946, pp. 33-35.

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«Giove: Povera gente! Le farai il regalo della solitudine e della vergogna, le strapperai di stoffe di cui

l’avevo coperta, e le mostrerai d’improvviso la sua esistenza, la sua oscena e insipida esistenza, che le è

stata data per niente.

Oreste: Perché negarle la disperazione che è in me, poiché è la sua sorte?

Giove: Che ne faranno?

Oreste: Ciò che vorranno: sono liberi e la vita umana comincia al di là della disperazione. 40»

2. Le Mosche. Il passaggio dalla disperazione all’azione.

Le Mosche sono un’opera teatrale scritta da Jean-Paul Sartre subito dopo la liberazione

dalla prigionia in un campo di concentramento per soldati nemici a Treviri.

Ispirata dalla tragedia di Eschilo Le Coefore, la vicenda narra della liberazione della

città di Argo dal re Egisto, che siede al trono a seguito dell’omicidio di Agamennone.

Il protagonista, Oreste, figlio di Agamennone e Clitemnestra, regina di Argo, giunge in

città dopo lunga peregrinazione assieme al suo precettore e di fronte alla visione dei

suoi effettivi concittadini non si sente più uno straniero, ma avverte di essere «vincolato

a quello che potrebbero significare parole come patria e solidarietà.41

»

Sorte vuole che l’atride arrivi proprio alla vigilia della annuale celebrazione dei morti,

in cui il quotidiano rimorso per i propri errori trova il suo correlativo oggettivo nella

reale rinascita dei deceduti, con cui ognuno personalmente deve fare i conti. Le mosche,

da cui il titolo dell’opera, invece sono il monito perenne che Giove ha lanciato sui

cittadini, per non far dimenticar loro delle proprie colpe anche quando la celebrazione

funebre sia terminata. Oreste ancora non può rivelare la sua vera identità, in quanto la

sua presenza evocherebbe negli abitanti di Argo42

un desiderio immediato di liberazione

dall’oppressione illegittima di Egisto. Il giovane è, tra l’altro, ancora un’anima che non

sente su di sé questa sua immanente responsabilità: si sente libero «come quei fili che il

vento strappa dalle ragnatele e che ondeggiano a dieci piedi dal suolo. […] Ci sono

uomini che nascono impegnati: non hanno scelta, sono stati gettati su una via, in fondo

alla via c’è un atto che li aspetta, il loro atto.43

»

Questa situazione non è foriera né di felicità né di delusione, il protagonista sa di essere

predestinato al trono ma ancora vede Argo come uno straniero.

«Scacciare Egisto? Puoi rassicurarti, brav’uomo, è troppo tardi. Non è la voglia che mi manca, di

afferrarre per la barba quel furfante da sagrestia e di strapparlo dal trono di mio padre. Ma perché? Che ho

da fare io con questa gente? Non ho visto nascere uno solo dei loro bambini, non ho assistito alle nozze

dei loro figli, non condiviso i loro rimorsi e non conosco uno solo dei loro nomi. Il barbone ha ragione: un

re deve avere gli stessi ricordi dei suoi sudditi. […] Ah, se ci fosse un atto, vedi, un atto che mi desse

40 J.-P. Sartre, Les Mouches, Gallimard, Paris 1943, trad.it di Massimo Bontempelli, Le Mosche. Porta

Chiusa, Bompiani, Milano 1947. 41Leo Pollmann, Sartre y Camus, Literatura de la existencia, Gredos, Madrid 1967, p.74. 42 Argo «è una città che necessita di essere liberata» (L. Pollmann, Sartre y Camus, Literatura de la

existencia, cit., p.75.) 43

J.-P.Sartre, Le Mosche – Porta Chiusa, cit., p.21.

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diritto di cittadinanza fra loro; se io potessi impadronirmi, fosse pure con un delitto, dei loro ricordi, del

loro terrore e delle loro speranze per colmare il vuoto del mio cuore.44»

La scintilla che smuove i sentimenti di Oreste è la sorella Elettra, che in una sorta di

chiasmo ideologico sente la responsabilità di liberarsi del proprio dolore ma non ha i

mezzi per farlo.45

Elettra è per Oreste l’occasione di inzavorrarsi per non sentirsi più leggero e non essere

più sospinto dal vento della libertà inerme, ma l’acquisizione di un orizzonte teleologico

è un fatto doloroso, come sentirsi improvvisamente privati della propria infanzia:

«Oreste: Aspetta. Lasciami dire addio alla leggerezza senza macchia che fu mia. Lasciami dire addio alla

mia giovinezza. Ci sono sere, sere di Corinto o di Atene, piene di canti e di profumi, che non mi

apparterranno mai più. Certi mattini, pieni anche di speranza … Bè, addio, addio. (Va verso Elettra)

Vieni, Elettra, guarda la nostra città. È lì, rossa sotto il sole ronzante d’uomini e di mosche, nel torpore

ostinato di un pomeriggio estivo.46»

La trasformazione da individuo trasparente ad eroe può passare esclusivamente

attraverso gli omicidi del re illegittimo, Egisto, e in seguito della donna che non ha

avuto la forza di delegittimare chi ha vigliaccamente ucciso il suo consorte. Ma un

delitto compiuto nel pieno possesso della propria libertà non ha da sentire rimorsi: si è

compiuto un gesto giusto secondo una legge propria che scaturisce esclusivamente dal

mettersi completamente al servizio della libertà.

Giove, il Dio assoluto (ab-solutus), avulso dalle decisioni di Oreste, tenta, nel baratro

del proprio crepuscolo, di riaffermare la propria potenza, le proprie leggi, la propria

morale, ma non ci riesce, perché la forza che sgorga dalla libertà del giovane lo investe

di poteri a sua volta divini. Egli è l’eroe positivo, colui che sa che qualsiasi valore non

può derivare a-priori dalla volta celeste, ma solo riproporsi dolorosamente tramite

l’azione.

«Giove: E tu, lascia codesto tono fiero: non si conviene molto a un colpevole che espia il suo delitto.

Oreste: Io non sono un colpevole, e tu non potrai farmi espiare quello ch’io non riconosco un delitto.47»

E poco oltre:

«Giove: […] Se osi sostenere di essere libero, allora si dovrà vantare la libertà del prigioniero carico di

catene, in fondo a una segreta, e dello schiavo crocifisso. […] Oreste! Io ti ho creato e ho creato ogni

cosa: guarda. (I muri del tempio si aprono. Appare il cielo, costellato di stelle in moto. Giove è in fondo

44 Ivi, p.22. 45 Scrive L. Pollmann: «Oreste e Elettra non sono stati coincidenti nelle loro speranze e desideri, e,

quando questa possibilità sembra presentarsi, quando Oreste comincia a credere allo stesso modo di

Elettra, subito lei cambia atteggiamento.» (L.Pollmann, Sartre Y Camus.Literatura de la existencia, p.79-

80) 46 J.-P. Sartre, Le Mosche – Porta Chiusa,cit., p.59. 47

Ivi, p.88-89.

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alla scena. La sua voce è diventata immensa – microfono – ma lo si distingue appena) Vedi quei pianeti

che roteano in ordine, senza mai urtarsi: sono stato io a regolarne il corso, secondo la giustizia. Senti

l’armonia delle sfere, questo immenso canto minerale di grazie che si ripercuote ai quattro canti del cielo.

(Melodrammatico) Grazie a me le specie si perpetuano, io ho ordinato che un uomo generi sempre un

uomo e che il figlio di un cane sia un cane, grazie a me la dolce lingua delle maree viene a lambire la

sabbia, e il mio respiro guida intorno alla terra le nuvole gialle del polline. Tu non sei in casa tua, intruso,

tu sei nel mondo come la scheggia nella carne, come il cacciatore di frodo nel parco signoresco: perché il

mondo è buono; l’ho creato secondo la mia volontà e io sono il Bene. Ma tu, tu hai fatto il Male, e le cose

ti accusano con le loro voci pietrificate: il Bene […] è in te, fuori di te: ti penetra come una falce, ti

trascina e ti avvolge come un mare; è lui che permise il successo della tua cattiva impresa, perché fu la

luce delle fiaccole, la tempera della tua spada, la forza del tuo braccio. E il Male di cui sei fiero, di cui ti

chiami autore, che cos’è se non un riflesso dell’essere, un sotterfugio, un’immagine ingannevole la cui

stessa esistenza è sorretta dal Bene? Rientra in te stesso Oreste […] o aspettati che il mare si ritragga

davanti a te, che le sorgenti s’inaridiscano sul tuo cammino, che le pietre e le rocce ti sfuggano da sotto ai

piedi e che la terra si sbricioli sotto i tuoi passi.

Oreste: Si sbricioli pure! […]Tu sei il re degli Dei, Giove, il re delle pietre e delle stelle, il re delle onde

del mare. Ma non sei il re degli uomini.48»

Viene così ribadita un’altra volta la differenza sostanziale che passa tra gli oggetti e

l’uomo, e che non significa nient’altro che libertà: siamo, sì, condannati, ma la nostra

condanna è una liberazione dal mondo fisso dei valori eterni.

Il culmine del cammino dell’eroe positivo è la partenza da Argo, alla quale sarebbe stato

inesorabilmente legato dal rimorso, per diventare un «re senza terra e senza sudditi.49

»

Libero, dunque, sì, ma solo: non può esistere infatti nel panorama sartriano un «noi la

cui libertà si possa predicare in maniera congiunta, ma sempre bisogna confrontarsi da

soli con l’azione per mezzo della rispettiva scelta.50

»

3. L’etica in un mondo senza Dio.

«Non credo in Dio, ma ho bisogno di una morale.51

»

Questo passaggio attraverso la letteratura ci permette di entrare in connessione con

alcune tematiche di uno dei più noti passaggi del saggio L’esistenzialismo è un

umanismo:

«L’esistenzialista pensa […] che è molto scomodo che Dio non esista, poiché con Dio sparisce ogni

possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile; non può più esserci un bene a priori perché non

c’è nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo; non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste,

che bisogna essere onesti, che non si deve mentire, e per questa precisa ragione: siamo su di un piano in

48 Ivi, p.93-94. 49 Ivi, p.103. 50 L. Pollmann, Sartre y Camus. Literatura de la existencia, cit., p.81. 51 G.Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, cit., p.24; citazione da La Semence et le Scapphandre, in

J.-P. Sartre, Ecrits de Jeunesse, a cura di M.Contat e M.Ribalka, Gallimard, Paris 1990, p.143.

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cui ci sono solamente uomini. Dostoevskij ha scritto: «Se Dio non esiste, allora tutto è permesso». Ecco il

punto di partenza dell’esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito se Dio non esiste, e di conseguenza

l’uomo è “abbandonato” perché non trova, né in se né fuori di sé, possibilità d’ancorarsi. E anzitutto non

trova delle scuse. […] Situazione che mi pare di poter caratterizzare dicendo che l’uomo è condannato a

essere libero. Condannato perché non si è creato da solo, e ciò non di meno libero perché, una volta

gettato nel mondo, è responsabile di tutto quanto fa.52»

Giovanni Invitto, commentando questo passo, afferma che «persino della famosa

espressione: “Noi siamo condannati ad essere liberi”, Sartre dirà che ”ciò che significa

[…] non lo si è mai ben compreso.53

È non di meno la base della mia morale”.54

»

Il messaggio di fondo è, di fatto, che «l’uomo non è altro che ciò che si fa55

» e con

questa nota si apre alla via irrinunciabile ed inesorabile dell’azione, che nel Sartre post-

bellico si tradurrà in un impegno politico ispirato al marxismo e a fianco delle istanze

antiborghesi.

Ma, nelle sue prerogative teoretiche, l’etica esistenzialista sartriana non è altro che, da

un lato, l’elisione di ogni riferimento deontologico e dall’altro, sul versante

soggettivistico, il ripudio dell’eroismo del santo: «Se Dio non è, il santo diviene un

egoista o un eroe nel deserto o un eroe che produce danni.56

»

Il mondo è totalmente appannaggio dell’uomo, che, dal momento in cui apprende che

tutto dipende dalle sue azioni, non deve in nessuna maniera gettarsi nella disperazione e

smettere di agire nella paura di fare il male. Anche lo stesso quietismo sarebbe

d’altronde una forma particolare d’azione: non si può insomma sfuggire da se stessi.

Continua ancora Sartre:

«Appare chiaro che non lo si può [l’esistenzialismo] considerare come una filosofia del quietismo, perché

definisce l’uomo in base all’azione, né come una descrizione pessimista dell’uomo: non c’è anzi dottrina

più ottimista, perché il destino dell’uomo è nell’uomo stesso; né come un tentativo di scoraggiare l’uomo

dall’operare, perché l’Esistenzialismo gli dice che non può nutrire speranza se non nella sua azione e che

la sola cosa che consente all’uomo di vivere è l’azione.57»

C’è quindi una «connessione fra la trascendenza come costitutiva dell’uomo […] e la

soggettività58

» ed è qui che si chiude L’esistenzialismo è un umanismo: «Umanismo,

52 J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, p.53-54. 53 Scrive ancora Invitto: «Sartre non è dell’opinione che in un mondo senza Dio tutto sia permesso. Egli

ritiene che il “Dio non è” fondi una vera morale costruita dai soggetti, in cui i valori rampollino dalla

contingenza e debbano necessariamente essere dei valori “materiali”, cioè materializzati nella storia, nella

prassi, nelle concrete relazioni intersoggetive» (G.Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, cit., p.22.) 54 Ivi, p.23. 55 J.-P.Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit.; p.47. 56 G.Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, cit., p.51. 57 J.-P.Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p.65. 58

Ivi, p.78.

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perché noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro legislatore che lui e che proprio

nell’abbandono egli deciderà di se stesso.59

»

Ma decidere di se stessi, vedremo, è anche decidere per gli altri.

4. Porta Chiusa e il dramma dell’alterità.

Porta Chiusa, opera in un singolo atto, rivela il dramma del «vivere insieme in

solitudine, che, secondo Sartre, deve essere l’Inferno.60

»

La pièce narra la storia di tre morti61

costretti ad una eterna convivenza coatta in una

claustrofobica stanza chiusa dall’esterno (da qui il titolo Huis Clos62

).

Il vero supplizio, quasi ispirato ad una sorta di legge del contrappasso Dantesca, è

l’assenza di specchi nell’ambiente e l’unico modo per guardarsi è attraverso gli occhi

dell’altro, la cui «essenza è la negazione: infatti “l’altro è […] l’io che non è me”.63

»

«L’ ”essere-visto-dall’Altro” è la verità del “vedere-l’Altro”. […] Lo sguardo dell’altro […] mi scopre,

mi conosce più e meglio di quanto io non conosca me stesso da solo. […] Scoperto mentre guardavo dal

buco della serratura, sento il mio essere fermato e oggettivato come io non avrei mai potuto fare. E sento

che questo mio essere viene in tal modo svelato e conosciuto con spietata verità. […] “Io sono quel me

che un altro conosce” […] “Con lo sguardo altrui […] non sono più padrone della situazione”.64»

Il gioco delle parti si basa su tutta una lunga serie incalzante di accuse e giustificazioni

che acquistano vigore e velocità man mano che la vicenda si dipana.

I personaggi si trovano all’inferno per motivi diversi: Garcin, l’unico maschio del trio, è

un disertore fedifrago la cui moglie si suicida dopo la sua morte, Ines («interprete del

punto di vista sartriano65

»), omosessuale, ha sedotto una sua amante facendole uccidere

il marito nonché suo cugino ed Estelle, che ha contratto un matrimonio per proprio

interesse, è madre di un figlio avuto da una relazione clandestina che poi annegherà,

causando anche il suicidio dell’amante.

Muovendosi tra questi lati oscuri, la narrazione oscilla tra le polarità del bisogno

d’amore come palliativo del proprio senso di colpevolezza e l’inesorabile necessità di

fare i conti con se stessi, attraverso lo sguardo dell’Altro.

59 Ibidem. 60 L. Pollmann, Sartre y Camus. Literatura de la existencia, cit., p.86. 61 «Un gruppo di tre è garanzia di una tensione che può convertirsi in inesauribile fonte di novità. Però in

questo caso si tratta di una trinità diabolica.» Ibidem. 62 Alcune traduzioni italiane riportano anche la titolazione A porte chiuse. 63 S.Moravia, Introduzione a Sartre, cit., p.58. 64 Ivi, p.60-61. 65

L. Pollmann, Sartre y Camus. Literatura de la existencia, cit., p.88.

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È alla fine di questa opera che infatti troviamo un altro celeberrimo passaggio sartriano,

ossia la citazione per cui «l’inferno, sono gli Altri.66

»

Afferma Ines che «il boia, è ciascuno di noi per gli altri due67

», ma è proprio nel

momento di massima spannung che ci accorgiamo che nonostante la convivenza sia

insostenibile, essa non sarà mai più dolorosa della solitudine:

«Garcin: Meglio cento morsi, meglio la frusta, meglio il vetriolo, che questa tortura di cervello, questa

larva di sofferenza, che ti striscia, ti rasenta, e non ti fa mai male abbastanza. (Afferra la maniglia della

porta e la scuote) Vi decidete ad aprire? (La porta s’apre bruscamente e per poco non si scardina) Oh!...

Ines: Su, Garcin, se ne vada.

Garcin: Mi sto domandando perché mai la porta s’è aperta.

Ines: Che cosa aspetta? Via, presto.

Garcin: Non me ne vado.

Ines: E tu, Estella? O dunque? Chi? Quale dei tre? La via è libera, chi ci trattiene? C’è da morir dal ridere.

Siamo inseparabili.68»

Nella totale insignificanza dell’essere ciò che è impossibile è fuggire dagli altri, il che

equivarrebbe a fuggire da se stessi.

La fragorosa risata di Ines di fronte alla comicità di questa situazione è la presa d’atto

che, come ha ricordato a Garcin, uno non può essere «quello che vuole essere69

» e che

«soltanto le azioni stabiliscono che cosa si è voluto.70

»

Affermazione, questa, che ci dà la possibilità di inoltrarci nella vicenda biografica

sartriana, che solamente tre anni dopo Huis Clos si troverà editore della rivista Les

Temps Modernes.

5. Marxismo, materialismo ateo e primi accenni di impegno civile.

Quello tra Sartre e Marx è un sodalizio che si svolge tra prossimità e differenze.

Sartre probabilmente, per un verso, di Marx condivide l’ateismo come l’annullamento

di ogni trascendenza e teologia divine, per altro verso, come scrive Giovanni Invitto:

«La differenza tra la posizione di Marx e quella di Sartre è proprio sull’origine dell’atto

di fede, cioè sulla domanda del perché l’uomo crede in Dio. Se infatti, per Marx, la

società omogenea, frutto della rivoluzione proletaria, eliminando la tirannia del bisogno,

eliminerà tutte le forme di alienazione, quindi anche quella religiosa, per Sartre la rareté

66 J.-P.Sartre, Le Mosche – Porta Chiusa, cit., p.165. 67 Ivi, p.131. 68 Ivi, p.161. 69 Ivi, p.163. 70

Ibidem.

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è ineliminabile. […] E poi, l’ateismo di Sartre è pregiudiziale, è una progettazione del

mondo senza Dio.71

»

Posizione questa affermata dallo stesso filosofo francese nell’ intervista alla rivista Il

Politecnico precedentemente citata: «Sono quindi d’accordo con il pensiero di Marx che

il sentimento religioso sia un alibi e una fuga; ma non da una condizione storico-sociale

particolare, bensì dalla generale condizione umana, dal fatto che sempre, per l’uomo

esiste una lotta da condurre contro questa illusione trascendentale che è il rapporto con

Dio.72

»

Attecchendo quindi su un territorio fertile, il pensiero marxiano (accentuato soprattutto

dalla concreta possibilità e volontà di annullare il potere di una società borghese di cui

Sartre, nonostante le proprie origini, non si è mai sentito parte) fa breccia con il suo

messaggio radicale di azione rivoluzionaria che in Sartre si traduce in impegno

letterario.73

L’uomo che in Huis Clos è ostaggio dell’Altro diventa «uomo libero, ma in situazione –

a contatto e in rapporto con altri. […] Un uomo consapevole della problematicità

dell’esistenza, ma anche del fatto d’essere arbitro delle proprie scelte e dei propri atti.

[…] Un uomo nato per l’azione e per la lotta, e deciso ad impegnarsi attivamente nel

mondo.74

» La rivista Les Temps Modernes è la risposta a questo appello.

«Non è correndo dietro all'immortalità che ci renderemo eterni: non saremo degli assoluti per aver riflesso

nelle nostre opere qualche principio scarnificato, abbstanza vuoto e abbastanza nullo per passare da un

secolo all'altro, ma perché avremo combattuto appassionatamente nella nostra epoca, peché l'avremo

amata appassionatamente e avremo accettato di seguirne fino in fondo la sorte. In conclusione, è nostra

intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella società che ci circonda. Con ciò non intendiamo

un mutamento nelle anime […] Noi ci schieriamo al fianco di coloro che vogliono mutare al tempo stesso

la concezione sociale dell’uomo e la concezione ch’egli ha di se stesso.75»

La dura requisitoria è soprattutto contro gli hommes des lettres,76

i vari Flaubert e

Goncourt, che non si sono fatti profeti del loro tempo, e che, con la vana scusa dell’arte

71 G.Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, cit., p.38. 72 Elio Vittorini, Alcune domande a Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, citato in G.Invitto, Sartre.

Dio: una passione inutile, cit., p.40-41. 73 «Per Sartre l’arte non è un fatto né secondario (in senso forte), né gratuito. Essa esprime invece una

delle funzioni fondamentali dell’uomo. […](L’arte) esprime il desiderio-progetto dell’uomo di vedere la

realtà qual è.» citato da S.Moravia, Introduzione a Sartre, cit., p.89 74 Ivi, p.86. 75 J.-P. Sartre, Présentation [Les Temps Modern], cit. 76

Ibidem

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per l’arte hanno ben pensato di tenersi lontani dalle pieghe della storia.77

Non si può più

scrivere «per non dire niente78

» e «ogni scritto possiede un suo preciso significato.79

»

C’è necessità di una «azione volontaria80

» per sentirsi padroni del proprio tempo, perché

in fin dei conti, «nous n'avons que cette vie à vivre.81

»

77 «Il a choisi de juger son siècle et s'est persuadé par ce moyen qu'il lui demeurait extérieur, comme

1'expérimentateur est extérieur au système expérimental» citato da J.-P. Sartre, Présentation [Les Temps

Modern].) 78 J.-P. Sartre, Présentation [Les Temps Modern]. «Nous ne voulons pas avoir honte d'écrire et nous

n'avons pas envie de parler pour ne rien dire.» 79 Ibidem. 80 Ibidem. 81 Ibidem.

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CAPITOLO II – LA LETTERATURA DELL’ESISTENZA

1. La vicenda editoriale

Pochi scrittori riuscirebbero a scrivere un intero romanzo e solo nelle sue ultime righe a

giustificarne la stesura.

Solamente all’ultima riproduzione della sonata jazz,82

quando ormai il protagonista è

sopraffatto dalla insensatezza delle sue proprie azioni, all’indomani della partenza dalla

città che con il suo grigiore gli ha fatto prendere finalmente coscienza di essere una cosa

in mezzo alle cose, solo in quel momento Roquentin riesce ad intravedere uno spiraglio

di essere, una fioca ma rassicurante luce che lo spingerà poi alla stesura, e qui sta la

grande perizia letteraria, di tutta l’opera che appunto poi sarà La Nausea stessa.

«Canta. Eccone due che si son salvati: l'ebreo e la negra. salvati. Magari si saran creduti perduti fino alla

fine, annegati nell'esistenza. E tuttavia nessuno potrà pensare a me come io penso a loro. Nessuno,

nemmeno Anny. Per me sono un po' come morti, un po' come eroi da romanzo; si son lavati del peccato

d'esistere. Non completamente beninteso — ma quel tanto che un uomo può fare. Quest'idea mi

sconvolge d'un tratto, perché non speravo nemmeno più questo. Sento qualcosa che mi sfiora timidamente

e non oso nemmeno muovermi per paura che scompaia. Qualcosa che non conoscevo più: una specie di

gioia. La negra canta. Allora, è possibile giustificare la propria esistenza? Un pochino? Mi sento

straordinariamente intimidito. Non che abbia molta speranza. Ma sono come uno completamente gelato

dopo un viaggio nella neve, che entri di colpo in una camera tiepida. Penso che resterebbe immobile

vicino alla porta, ancora freddo, e che lenti brividi percorrerebbero il suo corpo.

Some of these days

You'll miss me honey.

Non potrei forse provare... Naturalmente, non si tratterebbe d'un motivo musicale... ma non potrei forse,

in un altro genere?... Dovrebbe essere un libro: non so far altro. Ma non un libro di storia: la storia parla

di ciò che è esistito — un esistente non può mai giustificare un altro esistente. Il mio errore era di voler

resuscitare il signor di Rollebon. Un'altra specie di libro. Non so bene quale — ma bisognerebbe che

s'immaginasse, dietro le parole stampate, dietro le pagine, qualche cosa che non esistesse, che fosse al di

sopra dell'esistenza. Una storia, per esempio, come non possono capitarne, un'avventura. Dovrebbe essere

bella e dura come l'acciaio, e che facesse vergognare le persone della propria esistenza.

Me ne vado, mi sento incerto. Non oso prendere una decisione. Se fossi sicuro d'aver talento... Ma mai —

mai ho scritto niente di questo genere; articoli storici, sì — e ancora. Un libro. Un romanzo. E ci sarebbe

gente che leggerebbe questo romanzo e direbbe: è Antonio Roquentin che l'ha scritto, era un tipo rosso

che si trascinava per i caffè, e penserebbe alla mia vita come io penso a quella di questa negra: come a

qualcosa di prezioso e di semileggendario. Un libro. Ma naturalmente da principio ciò non sarebbe che un

82 Per completezza d’informazione, il brano in questione, di cui consiglio l’ascolto, intitolato Some of

these days , è stato composto da Shelton Brooks nel 1910 per la voce di Sophie Tucker. Piccola curiosità:

il pezzo farà poi parte della colonna sonora della prima pellicola “interamente parlata”: Lights of New

York (Bryan Foy, 1928, per Warner Bros). Numerose cover di voci illustri si sono susseguite nel corso

degli anni, tra le quali spicca quella di Ella Fitzgerald a Carnegie Hall. Non è ancora chiaro chi sia la

“negra” cui si riferisca Sartre nel testo.

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lavoro noioso e stanchevole, non m'impedirebbe d'esistere né di sentire che esisto. Ma verrebbe pure un

momento in cui il libro sarebbe scritto, sarebbe dietro di me e credo che un po' della sua luce cadrebbe sul

mio passato. Allora, forse, attraverso di esso, potrei ricordare la mia vita senza ripugnanza. Forse un

giorno, pensando precisamente a quest'ora, a quest'ora malinconica in cui attendo, con le spalle curve, che

sia ora di salire sul treno, sentirei il mio cuore battere più in fretta e mi direi: quel giorno a quell'ora è

cominciato tutto. E arriverei — al passato, soltanto al passato — ad accettare me stesso.

Scende la notte. Al primo piano dell'albergo Printania si sono illuminate due finestre. Il cantiere della

stazione nuova odora forte di legno umido: domani pioverà, a Bouville.83»

Letteratura e filosofia quindi si fondono in questo romanzo pubblicato per Gallimard nel

1938, editore che aveva rifiutato qualche anno prima il testo per problemi di stesura e

soprattutto per differenti posizioni sul titolo da attribuire. Sartre infatti voleva

pubblicare il suo testo sotto il nome di Melancholia, affascinato da una incisione di

Albrecht Dürer del 1514, ma alla fine di una lunga trattativa epistolare le due parti si

accorderanno sul titolo che ancora oggi rimane La nausea.

L’editore Einaudi, a questo proposito, antepone al romanzo un’introduzione dedicata a

questa vicenda, intitolata appunto Dalla Melancholia alla Nausea, in cui riporta una

cronistoria tramite lettere, appunti e dichiarazioni, da cui traspare l’intensa trattativa tra

le parti di cui riporto alcuni passaggi, partendo dalla gioia dell’autore nel vedere

accettato il manoscritto:

«Venerdì 30 (aprile) 1937. Mio bel Castoro. Vi dico subito che Melancholia è per così dire accettato. […]

Parain84 mi ha fatto attraversare una sala piena di poltrone di cuoio e di tipi in poltrona per portarmi su

una terrazza giardino, al sole. Ci siamo seduti su due poltrone di legno smaltate di bianco, davanti a un

tavolo di legno smaltato, e ha cominciato a parlarmi di Melancholia. È difficile raccontarvi

minuziosamente quello che ha detto, ma nell’insieme ecco qui: ha letto le prime pagine e ha pensato: ecco

un tipo presentato come quelli di Dostoevskij. Deve continuare così e debbono succedergli cose

straordinarie perché è al di fuori del sociale. […] Non gli piace affatto l’autodidatta, gli pare troppo grigio

e insieme troppo caricaturale. Invece, gli piace molto la Nausea…85»

Ad una prima revisione, specie nei termini più crudi dell’ atto osceno in biblioteca,

Gaston Gallimard già nel 1937 apre alla stipulazione di un contratto, a patto però di

cambiare il titolo. Sartre risponde così: «Poiché Melancholia non vi piace, cosa ne

pensate di Le Avventure straordinarie di Antoine Roquentin? Si potrebbe scrivere sulla

fascetta: “Non ci son più avventure” o qualcosa del genere. […] Certo, mi piacerebbe

che questo titolo fosse di vostro gradimento perché non me ne vengono in mente

altri.86

»

83 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.237-238. 84 Brice Parain, importante filosofo del linguaggio, particolarmente attivo nello ricerca sull’origine e

l’evoluzione delle parole. 85 J.-P. Sartre, Lettres au Castor et à quelques autrés, Gallimard, Parigi, 1983; trad.it. di O. Del Buono,

Lettere al Castoro e ad altre amiche, Garzanti, 1985; citato in La Nausea, p.2. 86

J.-P. Sartre, citato in La Nausea, cit., p.3-4.

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L’impostazione definitiva verrà comunicata da Gallimard tramite Parain il 12 Ottobre

1937: «Caro Sartre, Gaston Gallimard propone per il tuo libro un titolo che trovo

eccellente: La Nausée…87

»

2. Un intellettuale controverso.

A dire il vero l’introduzione dell’edizione Einaudi è feconda non solo per la ricerca

storiografica, quanto soprattutto perché fornisce anzitutto indicazioni sulla controversia

che a partire dai primi scritti vedrà Sartre recepito in maniera critica, per non dire

negativa, da una certa parte del mondo letterario e filosofico, che ci pare di poter

introdurre con queste parole di Aron:

«Avevo la convinzione che Sartre sarebbe diventato quello che diventò, filosofo, romanziere,

drammaturgo, profeta dell’esistenzialismo, premio Nobel della letteratura? Messa così la domanda, non

avrei esitazione a risponder no. Ma anche esposta in un altro modo come: sarà un grande filosofo, un

grande scrittore? la risposta non avrebbe potuto essere sempre la stessa né mai categorica. Da una parte

ammiravo (e ammiro ancora) la straordinaria fecondità del suo spirito e della sua penna. […] A volte,

sviluppava lungamente un’idea a voce o per scritto, invece di cercar di afferrarla compiutamente e di

trovare l’espressione pertinente. Costruiva teorie di cui era troppo facile percepire le falle. Gli invidiavo la

fiducia che aveva in se stesso …88»

Un testo che aiuta ad inquadrare la controversia è Il secolo di Sartre. L’uomo, il

pensiero, l’impegno di Bernard-Henri Levy, il quale si propone di disegnare un profilo

degli aspetti che collegano Sartre alla sua epoca,89

traendone una silhouette dai bordi

incerti, contrassegnata spesso e volentieri da una malafede letteraria e uno slancio

poietico che non sempre si traduce in opere di qualità sopraffina. Senza voler qui entrare

nel merito della questione, ci limitiamo a presentare le zone d’ombra di un pensatore

che ha comunque contribuito con forza alla formazione di un pensiero propriamente

“novecentesco”: «Sartre come un tempo dispiegato. Sartre o l’incontro di tutti i modi di

attraversare il secolo, di perdervisi, di evitarne le chine oscure, e d’impegnarsi, adesso,

nel successivo. È sempre a proprio vantaggio che si entra nell’ambiguità.90

» E ancora:

«Che cos’è, dunque, un “grande intellettuale”? Da dove deriva, a questo tipo di

intellettuale, l’intangibile ascendente? Perché, come, questo mistero d’iniquità, questa

87 B. Parain, ivi, p.4. 88 R. Aron, Mémoires. 50 ans de réflexion politique, Julliard, Paris 1983; trad.it. di O. Del Buono,

Memorie, Mondadori 1984; cit. in J.-P. Sartre, La Nausea, p.1. 89 Per “epoca” non si intenda qui un lasso di tempo compreso entro le date di nascita e morte. Lo spazio

storico che si tocca è molto più vasto, si propaga a ritroso verso le fonti implicite ed esplicite sartriane e

si sviluppa in un senso opposto in tutto quello spazio eterogeneo posteriore alla morte, a cavallo tra la

fortuna letteraria e politica e, appunto, la critica della figura di intellettuale che si è venuta a generare. 90 B.H. Levy, Le siècle de Sartre, Grasset, Paris 2000; trad.it di Roberto Salvatori, Il secolo di Sartre.

L’uomo, il pensiero, l’impegno, il Saggiatore, Milano 2004, p. 15.

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grazia, che si legano a una voce, a uno stile, un’avventura, l’orma di un soggetto, la scia

di una singolarità? Questo è l’enigma, il primo enigma, del lungo secolo di Sartre.91

»

Ambiguità, queste, che hanno le loro radici nella fragilità della fruizione di una filosofia

che quasi simbioticamente non può fare a meno della letteratura. Una letteratura però

non più settaria, elitaria, ma di consumo, e quindi aperta al grande pubblico, non più

appartenente al circuito chiuso delle aule universitarie e dei circoli di intellettuali.

Scrive Levy: «Grandezza di una filosofia che ha saputo produrre simili romanzi. Non

dico che la prova della filosofia di Sartre sia in questi romanzi. Ma, questo è certo, non

ci sono molti altri filosofi nella Storia che abbiano superato la prova del fuoco narrativa.

Non sono molte le filosofie di cui si possa anche immaginare che si presentino a una

simile messa in opera: cerchiamo di figurarci un romanzo ispirato all’Etica!92

»

L’originalità rispetto ai suoi contemporanei sta nell’«aver saputo fare della filosofia –

peraltro in conformità con una delle sue vocazioni più antiche, ma da tempo dimenticate

– un apparato ottico, un occhio interiore, uno strumento di sguardo e, sul filo di questo

sguardo, uno strumento di idee e verità.93

».

Già Paul Nizan, recensendo La Nausea per il quotidiano Ce Soir, scriveva:

«Sartre potrebbe essere un Kafka francese grazie al dono che ha di esprimere l’orrore di certe situazioni

intellettuali se il suo pensiero, contrariamente a quello dell’autore della Grande Muraglia Cinese, non

fosse totalmente estraneo ai problemi morali. Kafka si è sempre interrogato sul fatto della vita. Sartre non

s’interroga che sul fatto dell’esistenza … Si sa che dopo Voltaire il romanzo filosofico in Francia è un

genere leggero piuttosto vicino alla favola: la letteratura di Sartre non ha alcun rapporto con questo

genere frivolo, ma rende bene l’idea di cosa possa essere una letteratura associata a una filosofia

esistenziale. Sarebbe sbagliato affrettarsi, come non si mancherà di fare, di avvicinare Sartre a Martin

Heidegger. Oggetto dell’angoscia nel filosofo tedesco è il nulla: in Sartre l’esistenza. La legge dell’uomo

rigorosamente solo non è la paura del nulla, ma la paura dell’esistenza…94»

Levy si spinge ancora più in là, fino a quasi comporre uno studio eziologico della

produzione sartriana, partendo dai primissimi romanzi:«opere di fantasia piacevoli, ma

leziose95

», esempi di «letteratura di prima della filosofia96

», brani «tremendamente

91 Ivi, p.53-54. 92 Ivi, p.64. 93 Ibidem.

Mi pare di poter confermare questa affermazione con il seguente passo estratto da Le Parole: «scrivere è

arricchire di una perla la collana delle Muse, lasciare alla posterità il ricordo d’una vita esemplare,

difendere il popolo contro se stesso e contro i suoi nemici, attirare sugli uomini con una Messa solenne la

benedizione del cielo. Non mi venne in mente che si potesse scrivere per esser letti. Si scrive per i propri

vicini o per Dio. Decisi di scrivere per Dio con la mira di salvare i miei vicini.» (J.-P.Sartre, Le Parole,

cit., p.126.) 94 P.Nizan, dalla recensione su Ce Soir del 16 maggio 1938, citato in J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.7. 95 B.H.Levy, Il Secolo di Sartre. L’uomo, il pensiero, l’impegno, p.58. 96

Ibidem.

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convenzionali, privi d’inventiva, scolastici97

», in cui colpisce «la leziosaggine, la

puerilità, a volte la pesantezza.98

»

Poi la stesura de La Nausea. «Com’è che il convenzionale è diventato capolavoro? […]

Sartre è invecchiato, d’accordo. È maturato. Ma affermare che è invecchiato, maturato,

non dice nulla se non si aggiunge soprattutto che è diventato filosofo o, più esattamente,

che ha cambiato filosofia. Aveva una filosofia fittizia, ora ha la sua. Aveva una filosofia

da Ècole Normale; […] ora è passato a una filosofia complessa (Husserl, forse

Heidegger, la sintesi dei due: pietre angolari di quello che comincia a diventare

l’esistenzialismo).99

»

Riflettendo ad anni di distanza (siamo nel 1975) sul romanzo, l’autore stesso dirà:

«Ero anarchico senza saperlo quando scrivevo La Nausea.[…] Prima della guerra mi

consideravo semplicemente come un individuo, non vedevo affatto il legame tra la mia

esistenza e la società in cui vivevo. […] Ritenevo che il mio destino fosse scrivere e non

vedevo affatto la scrittura come attività sociale.100

»

L’impianto del romanzo rimarrà sospeso a metà tra autobiografia e finzione. Ancora con

Levy, diremo che esso, di fatto, ricalcherà «il celebre “ciò che è accaduto così o in un

altro modo, poco importa” del diventar ladro di Jean Genet.101

» In pratica si mette in

moto, come testimonia la quasi (quasi, appunto) totale identità tra Roquentin e lo stesso

Sartre, un meccanismo per cui, citando la sua compagna di vita Simon de Beauvoir, si

pretende di essere simultaneamente «Spinoza e Stendahl102

», a dire che Sartre «sostiene

una concezione e ne esibisce un’altra. Teorizza un certo uso delle parole, strumentale e

non narrativo103

e, non appena prende la penna, fa esattamente l’opposto. Era scrittore

perché filosofo, eccolo filosofo perché scrittore.104

» Più tardi dirà che le sue idee sono

state «sghiribizzi […] dice proprio ghiribizzi; dice proprio: idee un po’ pazze,

infatuazioni, ipotesi facete o stravaganti, divagazioni organizzate, scarti del pensiero; e

con ciò intende, sottintende, necessariamente un linguaggio che, anch’esso, come in un

romanzo o in una poesia, dia spazio all’aberrazione, alla fantasia, all’insensatezza, al

delirio, o ad associazioni ossessive.105

»

97 Ibidem. 98

Ibidem. 99 Ibidem. 100 J.-P.Sartre, Simonee de Beauvoir interroge J.-P.Sartre, Autoportrait à 70 ans. , trad.it a cura di

M.Gallerani, Autoritratto a settant’anni e Simonee de Beauvoir interroga Sartre sul femminismo, Il

Saggiatore, Milano 1976; cit. in J.-P.Sartre, La Nausea, p.5-6. 101 B.H.Levy, Il Secolo di Sartre. L’uomo, il pensiero, l’impegno, cit., p.68. 102 Ivi, p.70. 103 Afferma Sartre in Che cos’è la letteratura?: «La funzione di uno scrittore consiste nel chiamare gatto

un gatto; se le parole sono malate sta a noi guarirle; invece di questo, molti vivono di questa malattia; la

letteratura moderna è, in molti casi, un cancro delle parole.» (J.-P. Sartre, Qu’est-ce que la litérature, in

Situatons II, Gallimard, Paris 1948; trad.it. a cura di Franco Brioschi, Che cos’è la letteratura?, Il

Saggiatore, Milano 1976, p.346. 104 B.H.Levy, Il Secolo di Sartre. L’uomo, il pensiero, l’impegno, cit., p.70. 105

Ivi, p.69.

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In fin dei conti, Sartre è stato, nel bene o nel male, «il primo, e l’unico, a sapersi

dividere, senza dissiparsi, fra un uomo di teoria e un affabulatore di genio.106

»

3. Parallelismi nel romanzo.

«A differenza di quanto potrebbe affermarsi su La Noia107

di Moravia108

» La Nausea si

avvale di un termine (omonimo a quello del titolo, come per Moravia) «che si ripete

spesso come leitmotiv, senza che però tramite questo si giunga ad una teorizzazione del

concetto stesso.109

»

Questa nausea costituisce infatti «il mezzo richiesto per arrivare a un riconoscimento

della esistenza110

», è essa ciò che «fornisce il requisito che l’uomo necessita per essere

pienamente cosciente della mancanza di senso dell’esistenza.111

» Se attraverso di essa

l’uomo vede come uno spettatore il senso concreto che egli ha dato alla sua vita, da

questo momento in poi l’esistenza appare per quello che è, rendendo evidente che

«manchi di significato, (che) c’è sempre qualcosa che è sul punto di incominciare.112

»

Roquentin è il protagonista inconsapevole della propria ἐποχή,113

sente una pulsione

verso l’autentico: questa attitudine lo converte in un vero «personaggio da romanzo.114

»

106 Ivi, p.70. 107 La Noia di Alberto Moravia e La Nausea di Jean-Paul Sartre forniscono una differente immagine della

presa sulla realtà. Nel primo romanzo la sospirata conquista di una oggettivazione della soggettività - di

una, in altre parole, agognata comunicazione costante con gli oggetti - si ribalta con Sartre nel terrore di

una rinuncia del soggetto a favore degli oggetti, di un totale consunzione del soggetto nell'insensato

dell'esistente. 108 Leo Pollman, Sartre Y Camus. Literatura de la existencia, cit., p.24. 109 Ibidem. 110 Ibidem. 111 Ibidem. 112 Ibidem. 113 Nel suo intervento sull’undicesimo numero della rivista Lo Sguardo, intitolato Vite da filosofi:

filosofia e autobiografia, Micaela Castiglioni scrive così: «Chi è Roquentin, perché soffre, sta male, è

nauseato? Perché si è nutrito troppo di un surplus dei soliti punti di vista, vissuti, vincoli e delle abituali

rappresentazioni e credenze […]. Di che cosa ha fame allora il protagonista della Nausea? Ha fame

dell’”assenza”, della “negazione”, che gli permetta di realizzare senza tregua un movimento alterno di

adattamento, conferma a ciò che c’è già, dentro e fuori di sé, e di dis-adattamento, rottura rispetto a ciò.

Con quale metodo? Con il metodo filosofico dell’esistenzialismo in cui risulta centrale l’operazione di

epoché che passa attraverso tre fondamentali momenti conoscitivi ed esistenziali la ripresa, la messa tra

parentesi, e il superamento, almeno in parte, di quanto è stato ripreso, collocato fuori e dentro di sé, per

cui, possiamo parlare di una postura di (auto)epoché, laddove la coscienza intenzionale è interessata a

indagare nell’interiorità.[…] E siccome il procedimento di epoché e di (auto)epoché necessita di uno

strumento tramite il quale realizzarsi, la pratica della scrittura è considerata tale da Roquentin, per cui il

metodo filosofico sartriano s’incarna nell’esercizio della scrittura cui si affida la questione autobiografica,

secondo la postulata connessione. “Di annotazione in annotazione”, e dunque con pazienza e metodo,

Roquentin-soggetto sartriano, sviluppa un “movimento autocritico” dal profondo significato

“liberatorio”.» (Micaela Castiglioni, La questione autobiografica e il metodo filosofico in Sartre. Quali

implicazioni per una proposta di scrittura che cura?, Lo Sguardo, n.11, 2013, p.388-389.)

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La sua storia è quella di un «fallimento anticipato115

» che lo porterà a scoprire ciò che

per Sartre è l’esistenza: un flusso continuo di azioni che sfuggono al loro significato. La

sua traiettoria consiste in un certo senso in una ricerca del negativo, termine che qui non

vuole avere nessuna accezione idealistica, ma che indica la «liquidazione dell’ideale per

una retrocessione sul piano della realtà.116

» Che Roquentin si sia proposto una meta

utopica lo dimostrano le pretese che lo spingono a scrivere il suo libro, ed è qui

troviamo il primo parallelismo.

Il problema nella stesura del saggio storico, come tratteremo meglio in seguito, non è

tanto nella reperibilità dei contenuti, quanto nell’impossibilità di fare un ritratto del vero

Marchese di Rollebon, una descrizione cioè che trascenda la semplice Storia, la

successione cruda dei fatti, per giungere alla reale essenza di quel personaggio. Tale

sforzo risulterà vano. Leggiamo infatti: «Scritto quattro pagine. Poi, un lungo momento

di felicità. Non bisogna riflettere troppo sul valore della Storia. Si corre il rischio di

prenderla in odio. Non devo dimenticare che il signor di Rollebon rappresenta, al punto

in cui sono, l’unica giustificazione della mia esistenza.117

»

Non solo è illusorio il proposito di Roquentin, ma anche la città che egli sceglie,

Bouville, «è testimonianza della sua predestinazione118

», e siamo al secondo

parallelismo.

Infatti, come già il nome indica,119

questa è una città priva di senso, opaca, che provoca

la nausea.120

Dovendo trovare un corrispettivo geografico reale, gli studiosi hanno

trovato molti tratti in comune con Le Havre, nella quale Sartre lavorò dal 1931 al 1933.

Si tratta poi «di una città che contribuisce a disfare in Roquentin ogni sua eventuale

connessione con una concreta finalità e i suoi conseguenti effetti di costruzione e

soddisfazione della personalità; gli da in cambio la libertà dell’assoluto e lo fa dedicare

all’esclusiva ricerca del senso ultimo e autentico.121

»

Quando il protagonista è nella caffetteria, sempre il suo pensiero è rivolto alle persone

che osserva. «Sottomette a giudizio l’autenticità di ciascuno di essi: degli innamorati,

114 Ivi, p.28. 115 Ibidem. 116

Ivi, p.28-29. 117 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.99. 118 Leo Pollman, Sartre Y Camus. Literatura de la existencia, cit., p.29. 119 Bouville infatti deriva da “boue, “fango”. 120 Scrive Sartre a proposito delle sue vie lontano dal centro:«Il viale Noir è inumano. Come un minerale,

come un triangolo. È una fortuna che a Bouville ci sia un viale come questo. Di solito se ne trova soltanto

nelle capitali, a Berlino, dalla parte di Neukölln o anche verso Friedrichshain, a Londra dietro Greenwich.

Corridoi dritti e sporchi, traversati da correnti d’aria, con larghi marciapiedi senz’alberi. Sono quasi

sempre fuori cinta, in quegli strani quartieri ove si fabbricano le città, vicino agli scali merci, ai depositi

del tram, ai mattatoi, ai gazometri. Due giorni dopo un acquazzone, quando tutta la città è umida sotto il

sole, e irradia un calore umidiccio, essi sono ancora completamente freddi, conservano tutto il loro fango

e le loro pozzanghere. Hanno persino pozzanghere che non s’asciugano mai, salvo un mese all’anno, in

agosto. La Nausea è rimasta laggiù, nella luce gialla.» (J.-P. Sartre, La Nausea, cit., p.42.) 121

Leo Pollman, Sartre Y Camus. Literatura de la existencia., cit., p.30.

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dei camerieri, della proprietaria e anche dei clienti solitari. Quasi tutti soccombono

pienamente alla cosificazione o alla malafede, rivelando il carattere fittizio della mimica

del cameriere o la falsità di un amore diviso122

», tanto che Roquentin giunge

sentenziare:«È proprio tanto necessario mentire a se stessi?123

»

Non ci sembri casuale la tipologia di soggetti che Sartre ci menziona: entrambi infatti

saranno ripresi nella trattazione della malafede in l’Essere e Nulla, tema che verrà

meglio approfondito nel prossimo capitolo. Partiamo dalla rappresentazione del

cameriere:

«Consideriamo questo cameriere. Ha il gesto vivace e pronunciato, un po’ troppo preciso, un po’ troppo

rapido, viene verso gli avventori con un passo un po’ troppo vivace, si china con troppa premura, la voce,

gli occhi esprimono un interesse un po’ troppo pieno di sollecitudine per il comando del cliente, poi ecco

che torna tentando di imitare nell’andatura il rigore inflessibile di una specie di automa, portando il

vassoio con una specie di temerarietà da funambolo, in un equilibrio perpetuamente instabile e

perpetuamente rotto, che perpetuamente ristabilisce con un movimento leggero del braccio e della mano.

Tutta la sua condotta sembra un gioco. Si sforza di concatenare i movimenti come se fossero degli

ingranaggi che si comandano l’un l’altro, la mimica e perfino la voce paiono meccanismi; egli assume la

prestezza e la rapidità spietata delle cose. Gioca, si diverte. Ma a che cosa gioca?... Gioca a essere

cameriere.124»

Scrive Gabriella Farina nel suo saggio Sartre: Fenomenologia e passioni della crisi che

quello del cameriere è innanzitutto un rifiuto: «Rifiuto della libertà, del rischio, sempre

in agguato, di vedere le proprie imprese fallire e la morte porre fine definitivamente al

suo progetto; rifiutando il rischio, gioca per assumere le sembianze di un oggetto.125

»

Egli osserva dal di fuori la sua vita come se fosse una commedia (o meglio, una

tragedia), di cui egli stesso è l’attore: «Facendo esistere questo ruolo, lo trascende da

ogni parte, si costituisce al di là della sua condizione.126

» Per esprimere questo con le

parole di Sartre: «Tuttavia, non c’è dubbio che in un certo senso sono cameriere. […]

Ma se lo sono, ciò non può avvenire nel modo dell’essere in sé; lo sono nel modo di

essere ciò che non sono. […] Da ogni parte sfuggo all’essere e tuttavia lo sono.127

»

Altro esempio è quello degli innamorati. Prima di esplorare anche questa malafede

preme soffermarsi anche su come il loro amore sia preso come modello per tutte quelle

relazioni sentimentali ancora incagliate alla superficie, che sfruttano lo scudo del

sentimento per sfuggire alla loro insensatezza di vivere. Dopo aver origliato le loro

conversazioni di circostanza, infastidito, Roquentin sbuffa così:

122 Ibidem 123 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.151. 124 J.-P.Sartre, L’Etre et le Neant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris, 1943; trad.it a

cura di Giuseppe Del Bo, revisione e cura di Franco Fergnani e Marina Lazzari, L’essere e il nulla, Il

Saggiatore, Milano 2014, p.96. 125 G.Farina, Sartre. Fenomenologia e passioni della crisi, Le Lettere, Firenze 2012, p.51. 126 Ibidem. 127

J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.97-98.

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«Finiranno per andare a letto insieme. Lo sanno già. Ciascuno dei due sa che l'altro lo sa. Ma poiché sono

giovani, casti e decenti, poiché ciascuno dei due vuol conservare la propria stima di sé e quella dell'altro,

poiché l'amore è una grande cosa poetica che non bisogna sgomentare, vanno diverse volte la settimana ai

balli e nelle trattorie ad offrire lo spettacolo delle loro piccole danze rituali e meccaniche...

Bisogna pur ammazzare il tempo, dopo tutto. Son giovani e ben costruiti, ne avranno ancora per una

trentina d'anni. Perciò non s'affrettano, indugiano e non hanno torto. Quando saranno andati a letto

insieme dovranno trovare qualche altra cosa per velare l'enorme assurdità della loro esistenza.128»

In fin dei conti, mettersi davvero ad amare qualcuno si rivela «un'impresa. Bisogna

avere un'energia, una generosità, un accecamento... C'è perfino un momento, al

principio, in cui bisogna saltare un precipizio: se si riflette non lo si fa129

», anche se il

frutto di questa scelta lacerante è un eterno presente (la relazione con Anny è durata «tre

anni in un solo presente130

»), un tempo sempre simultaneo131

che annulla così qualsiasi

possibilità di creare (e crearsi). Una sorta di malafede anch’esso, insomma.

Ne l’Essere e il Nulla l’esempio dei fidanzati è introdotto dal punto di vista della donna

che è al suo primo appuntamento.

«Sa benissimo le intenzioni che l’uomo che le parla nutre a suo riguardo. Sa anche che le occorrerà

prendere, presto o tardi, una decisione. Ma non vuol sentirne l’urgenza; si attacca solo a ciò che di

rispettoso e discreto offre l’atteggiamento del compagno. Non percepisce tale comportamento come un

tentativo per realizzare quelli che si chiamano “i primi approcci”, non vuol vedere le possibilità di

sviluppo nel tempo di tale condotta; circoscrive il comportamento a ciò che è al presente, non vuole

leggere nelle frasi indirizzatele altro che il loro senso esplicito […] L’uomo che parla le sembra sincero e

rispettoso come il tavolo è rotondo o quadrato, come l’intonaco è celeste o grigio. E le qualità, così

attribuite alla persona che ella ascolta, vengono in tal modo a cristallizzarsi in una permanenza di “cose”,

cristallizzazione che altro non è se non la proiezione nel flusso del tempo del loro presente. Gli è che ella

non è informata esattamente di ciò che brama; è profondamente sensibile al desiderio (fisico) che ispira,

ma il desiderio nudo e crudo l’umilierebbe e le farebbe orrore. D’altra parte non troverebbe alcuna

attrattiva in un rispetto che fosse soltanto del rispetto. Per soddisfarla, le occorre un sentimento che si

rivolga unicamente alla sua persona, cioè alla sua libertà totale, e che sia un riconoscimento di tale libertà.

Ma occorre in pari tempo che questo sentimento sia interamente desiderio, cioè si rivolga al corpo, come

oggetto […] Ma ecco che le si prende la mano. L’atto dell’interlocutore rischia di cambiare la situazione

imponendo una decisione immediata; abbandonare la mano alla stretta, è consentire da parte sua al flirt,

128 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.151. 129 J.-P. Sartre, Nausea, cit., p.195. 130 Ivi, p.90. 131 Rimembra Roquentin dopo aver riposto nel portafoglio la lettera di Anny:«Che non sia proprio

possibile pensare a qualcuno nel passato? Fintanto che ci siamo amati non abbiamo permesso il più

infimo dei nostri istanti, la nostra più piccola pena che si distaccasse da noi e restasse indietro. I suoni, gli

odori, le sfumature della luce, perfino i pensieri che non si dicevano, tutto, portavamo con noi e restava

vivo: non avevamo mai cessato di gioirne e di soffrirne al presente. Non un ricordo; un amore implacabile

e torrido, senza ombre, senza scampo, senza rifugio. Tre anni in un solo presente. È per questo che ci

siamo separati: non avevamo più abbastanza forza per sopportare questo fardello. E poi, quando Anny

m’ha lasciato, di colpo, in un solo blocco, i tre anni sono sprofondati nel passato. Non ho nemmeno

sofferto, mi son sentito vuoto. Poi il tempo ha ripreso a scorrere e il vuoto s’è fatto più grande.» (Ibidem.)

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impegnarsi. Ritirarla, è rompere l’armonia torbida e instabile che fa l’incanto dell’ora. Si tratta di

rimandare il più lontano possibile l’ora della decisione. Si sa allora quel che succede; la giovane donna

abbandona la mano, ma non s’accorge di abbandonarla. Non s’accorge perché, per caso, avviene che ella

è, in questo momento, tutta spirito. Trasporta l’interlocutore nelle regioni più elevate della speculazione

sentimentale, parla della vita, della sua vita, si mostra sotto l’aspetto essenziale: una persona, una

coscienza. E durante questo tempo il divorzio del corpo e dell’anima è completo; la mano riposa inerte tra

le calde mani del compagno: né consenziente, né riluttante – una cosa. Diremo che questa donna è in

malafede.132»

Appare, nella donna, «una certa arte di formare concetti contraddittori che riuniscono in

sé un’idea e la negazione di questa idea. Si utilizza la duplice proprietà dell’essere

umano, di essere una fattità o presenza a titolo di fatto, e una trascendenza, entrambi

suscettibili di valida coordinazione133

», ma la malafede non tende affatto ad analizzarli

o a sintetizzarli, «per essa si tratta di affermare la “fattità” come essente la trascendenza

e la trascendenza come essente la “fattità”, così da poter, nell’istante in cui se ne

percepisce una, trovarsi bruscamente di fronte all’altra.134

»

4. Tre personaggi in cerca di senso.

Il riferimento al meta-teatro Pirandelliano, che scegliamo per il titolo di questo

paragrafo, non è casuale. Come nella pièce teatrale del commediografo italiano, anche

ne La Nausea i protagonisti sono consapevoli di portare un peso essenziale,135

quello

che bramano è di trovare scampo nell’esistenza.136

Roquentin giunge a Bouville con un proposito concreto: vuole scrivere un testo sul

Marchese di Rollebon, vissuto nel secolo XVIII, «i materiali di cui dispone non gli

permettono di comporre una figura reale, non sembrano aderire al vero Rollebon che

vorrebbe descrivere, fin tanto che addirittura questi corrispondono a personalità sempre

diverse, sono come immagini distinte della libertà inerente all’esistenza umana.137

»

Roquentin fallisce poi per essere troppo esistenzialista. Siccome è ossessionato dal

definire l’esistenza dell’Esistenza, non si accontenta semplicemente di «una definizione

storica del personaggio come qualcosa di passato, cosificato; in un parola, non gli basta

informarsi sull’aspetto fattuale della figura in questione.138

» Non solo non conseguirà il

132 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.92-93. 133 G.Farina, Sartre. Fenomenologia e passioni della crisi, cit., p.53. 134 Ibidem. 135 I sei personaggi in cerca d’autore sono portatori di una storia, hanno dei ruoli fissi, ciò che manca loro

è la possibilità innanzitutto di scegliere, e quindi, di scegliersi. 136 A questa metafora principale possono essere aggiunti ulteriori elementi di consonanza: come nella

prima scena della commedia pirandelliana il palco è ancora in allestimento, così ogni volta i protagonisti

de La Nausea si trovano gettati in medias res nelle proprie vite; e ancora, in entrambe le opere la

spannung è causata da un episodio sessuale. 137 L. Pollmann, Sartre Y Camus, Literatura de la existencia , cit., p.26. 138

Ibidem.

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suo proposito, ma nella sua impotenza, porrà in questione anche se stesso; mettendo in

dubbio il suo lavoro di storico.139

Per questo, quando dice: «Il signor Di Rollebon mi

opprime140

» questa espressione assume «un senso esattamente letterale: l’impossibile

realtà esistenziale di questo personaggio distrugge la definizione di ciò che egli stesso

(Roquentin) è, disillude la sua essenza di storico, proiettandolo al di sopra della propria

esistenza.141

» Dal colpo brutale che questa scoperta gli assesta Roquentin si libera

cercando appoggio «nella trappola di convertirsi in cosa, che sempre colpisce Sartre

come un’attraente tentazione142

» e che è riflessa specularmente nel testo a livello

verbale:

«Sul muro v’è un buco bianco, lo specchio. È una trappola. So che sto per lasciarmici prendere. Ci siamo.

La cosa grigia è apparsa sullo specchio. Mi avvicino e la guardo, non posso più andarmene. È il riflesso

del mio volto. Spesso, in queste giornate perdute, rimango a contemplarlo. Non ci capisco nulla di questo

volto. Quelli degli altri hanno un senso. Ma non il mio. Non posso nemmeno decidere se sia bello o

brutto. Immagino sia brutto, poiché me l’hanno detto. Ma questo non mi tocca. In fondo son perfino

urtato che si possano attribuirgli qualità di questo genere, come se si dicesse bello o brutto un pezzo di

terra o un masso di roccia.143

»

In questa direzione si opera una spaccatura tra autore e personaggio, tra autobiografia e

finzione, non c’è insomma «una incorporazione ideale di quello che Sartre pensa circa

la libertà umana né della coscienza di responsabilità che da essa deriva.144

» O forse

siamo solo rinviati all’altra parte dello spettro, alla sensibilità che invece di agire decade

in passività, accuse da cui tra l’altro si difenderà poi in L’esistenzialismo è un

umanismo; obiezioni di inattivismo spesso mosse da intellettuali vicini al marxismo,

alle quali risponderà in questi termini: «È questa specie di angoscia che viene messa in

luce dall’esistenzialismo; vedremo che si manifesta inoltre come responsabilità diretta

di fronte agli altri uomini che coinvolge. Non è una cortina che ci divida dall’azione, ma

139 Tra i due intercorre infatti uno scambio di identità disorientante: quando Roquentin scrive di Rollebon

sente quelle gesta come compiute da lui, diventando così la sua essenza di scrittore vacua, senza

collocazione: «Il signor di Rollebon era mio socio: per esistere aveva bisogno di me, e io avevo bisogno

di lui per non sentire la mia esistenza. Io fornivo la materia bruta; di questa ne avevo da vendere e non

sapevo che farne: l'esistenza, la mia esistenza. Lui, invece, la sua parte era di rappresentare. Mi stava di

fronte e s'era impadronito della mia vita per rappresentarmi la sua. Non m'accorgevo più che esistevo; non

esistevo più in me, ma in lui: era per lui che mangiavo, per lui che respiravo, ognuno dei miei movimenti

trovava la sua giustificazione al di fuori, là, di fronte a me, in lui; non vedevo più la mia mano che

tracciava le parole sulla carta, e nemmeno la frase che avevo scritta - ma dietro, al di là della carta,

vedevo il marchese, che aveva reclamato questo gesto e del quale questo gesto prolungava e consolidava

l'esistenza. Io non ero che un mezzo di farlo vivere, lui era la mia ragion d'essere, mi aveva liberato da me

stesso. Cos'avrei fatto, ora?» (J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.134-135.) 140 Ivi, p,29. 141 L. Pollmann, Sartre Y Camus, Literatura de la existencia, cit., p.26-27. 142 Ibidem. 143 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.30. 144

L. Pollmann, Sartre Y Camus, Literatura de la existencia, cit., p.27.

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fa parte dell’azione stessa.145

» Roquentin, come personaggio fittizio di romanzo, ha «la

sua autonomia146

» e, nel modo in cui l’esistenza umana è presentata nell’opera d’arte,

«pensa che la libertà sia un tremendo difetto.147

»

Il protagonista de La Nausea è un personaggio che «dipende dall’essere (seinsbezogen)

nel senso esistenziale del termine: quando ritrova questa insipida carne con i suoi pori

inumana e priva di senso, come gli accade al crollo del suo proposito ambizioso di

storico, fuoriesce lì la sua profonda dipendenza dalla autenticità, di sapere cosa

effettivamente sia l’esistenza umana e l’esistenza delle cose.148

»

Per una gran parte della narrazione egli è solo e si muove in uno spazio isolato, distante

dalla folla domenicale «con il suo lento incedere, i saluti e le presentazioni regolati

come riti, la sua respirazione bovina: è già il Sartre delle grandi collettività idiote che

ben presto chiamerà collettività seriali.149

»

È difficile, come abbiamo accennato più volte, non trovare in Roquentin un alter ego

dello stesso Sartre, paragone che lo stesso autore spesso non rifiuta nemmeno

velatamente di negare: «In un certo senso, La Nausée è la conclusione letteraria della

teoria dell’uomo solo e non riuscivo a venirne fuori.150

» Lo sfasamento tra i due

piuttosto si crea perché, come osserva Levy,

«per raccontarsi ci vuole un “sé” da raccontare; per redigere delle Memorie ci vuole una memoria che

funzioni e che si metta in scena o a rischio: ma Sartre non ha memoria. […] È fatto così, si è fatto così, l’

“io” che è stato programmato in modo tale , dal romanzo familiare e dal resto, che la stessa idea di

raccontare la propria vita, di metterne insieme gli episodi, semplicemente non ha senso. La vita di chi? Di

me? Ma chi è dunque questo me? Da dove ricaverebbe la sua identità? E quale coerenza ci sarebbe, in

particolare, fra l’io narrante e quello narrato?151»

Ciò che è interessante è «solo ciò che va oltre l’io, lo eccede, implica il mondo152

», ciò

che dunque sorpassa il fatto mentale, sorvolando la topologia psicanalitica: «Un filosofo

che scommette sulla trascendenza dell’ego […] come potrebbe non essere disorientato

da una dottrina che, non contenta di immergerci negli abissi della personologia, […]

difende, per di più, l’immanenza del succitato ego, immerso in un oceano di pulsioni

che lo governano a sua insaputa.153

» Il Freud osteggiato da Sartre è «un poliziotto […]

un battaglione disciplinare.154

»

145 J.-P.Sartre, L’Esistenzialismo è un umanismo, cit., p.52. 146 Ibidem. 147 Ibidem. 148 Ivi, p.28. 149 B.H.Levy, Il Secolo di Sartre. L’uomo, il pensiero, l’impegno, cit., p.59. 150 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.5-6. 151 B.H.Levy, Il Secolo di Sartre. L’uomo, il pensiero, l’impegno, cit., p.217. 152 Ivi, p.218. 153 Ivi, p.219-220. 154

Ivi, p.220.

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La Bouville in cui ha vissuto Roquentin è un contesto in cui «gli altri […] non erano che

telai entro i quali si stava tessendo il suo fallimento,155

» fino a che non trova

nell’Autodidatta un primo interlocutore.

Ecco il secondo personaggio in cerca d’autore. L’Autodidatta è nel palinsesto sartriano

la caricatura del pensiero umanista,156

di quegli stessi umanisti che punteranno

prontamente il dito contro ciò che a loro vedere sono le zone d’ombra

dell’esistenzialismo: prima di tutto un ostinato solipsismo e con esso l’oblio

dell’inazione. Mutatis mutandis, il saggio col quale Sartre si difenderà da queste accuse,

in opposizione alle posizioni dell’umanismo dell’Autodidatta, ree di essersi confrontate

con un esistenzialismo di facciata, si intitolerà, forse non a caso, L’esistenzialismo è un

umanismo, che nelle sue battute finali recita così:

«Se la gente ci rimprovera i nostri romanzi, nei quali descriviamo degli uomini fiacchi, deboli, vili e,

talvolta, veramente malvagi, non è solo perché questi uomini siano fiacchi, deboli, vili o malvagi. […]

L’esistenzialista quando descrive un vile, dice che questo vile è responsabile della sua viltà. Questo vile

non è così per il fatto che ha un cuore, un polmone o un cervello vile; non è così in base ad una

particolare organizzazione fisiologica: è così perché coi suoi atti si è dato la forma di un vile. […] La

gente ha un’oscura sensazione e prova orrore per il fatto che il vile che presentiamo sia colpevole d’esser

vile. La gente vuole che si nasca o vili o eroi. […] Così abbiamo risposto, credo, ad alcun i rimproveri

riguardante l’esistenzialismo. Appare chiaro che non lo si può considerare come una filosofia del

quietismo, perché definisce l’uomo in base all’azione, né come una descrizione pessimista dell’uomo: non

c’è anzi dottrina più ottimista, perché il destino dell’uomo è nell’uomo stesso; né come un tentativo di

scoraggiare l’uomo dall’operare, perché l’Esistenzialismo gli dice che non si può riporre speranza se non

nell’agire e che la sola cosa che consente all’uomo di vivere è l’azione.157»

L’autodidatta ha scoperto un sistema che gli assicura «un’idea di ordine, di senso158

» :

segue un ordine alfabetico nella lettura dei libri e annota in un quaderno le espressioni

che gli sembrano degne di essere ricordate.

Quando finalmente ha la possibilità di conversare con Roquentin il loro discorso vira

verso uno scambio di vedute sull’idea di “natura umana”. L’autodidatta è nei toni e nei

contenuti una copia sbiadita di umanitari parigini con i quali il protagonista già si è

trovato a discutere innumerevoli volte ed ognuno di loro (e questo dialogo non fa

eccezione) si rifugiava nella ipocrita affermazione del « “ci sono gli uomini” […] dando

155 L. Pollmann, Sartre Y Camus, Literatura de la existencia, cit., p.31. 156 Questo pensiero è espresso dall’autodidatta quando siede al tavolo con Roquentin. Quello che Sartre

rimprovera a questa concezione è l’ipocrisia, il paradosso di voler ostinatamente voler bene “agli

uomini”, senza che però in fondo li si conosca realmente. Si creano delle etichette, dei contenitori, e vi si

getta degli esistenti, che, come abbiamo detto più volte, sfuggono per loro natura a qualsiasi tipo di

definizione, e tantomeno li si può giudicare. Dice Roquentin infatti: «a me pare […] che gli uomini non si

possa né odiarli né amarli.» (J.-P. Sartre, La Nausea, cit., p.161.) 157 J.-P.Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, p.64-65. 158

L. Pollmann, Sartre Y Camus, Literatura de la existencia, cit., p.32.

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al “ci sono” una sorta di potenza sinistra, come se il suo amore per gli uomini,

perpetuamente nuovo e sbalordito, s’inceppasse nelle proprie ali gigantesche.159

»

In fin dei conti all’autodidatta premeva inquadrare Roquentin, collocarlo in una mensola

numerata come i suoi libri,160

ma l’unica risposta che ottiene è che «gli uomini» non si

può «né odiarli, né amarli.161

»

A dire il vero nella testa dello scrittore balena anche un’evenienza tutt’altro che

pacifica:

«sento che potrei fare qualunque cosa. Per esempio affondare questo coltello da formaggio nell'occhio

dell'Autodidatta. Dopo di che tutta questa gente mi calpesterebbe, mi spezzerebbe i denti a colpi di

scarpa. Ma non è questo che mi trattiene: un sapore di sangue, in bocca, invece di questo sapore dì

formaggio, non farebbe differenza. Soltanto bisognerebbe fare un gesto, far nascere un avvenimento

superfluo.162»

Non c’è bisogno di agire, «ce ne sono già abbastanza di cose che esistono a questo

mondo.163

»

Il terzo personaggio in cerca di autore è Anny. La donna è la sola a donare

all’andamento orizzontale dell’opera uno slancio verticale tramite l’artificio dei

“momenti perfetti”, per struttura ontologica simili alle catarsi del sentimento estetico a

cavallo tra i secoli XIX e XX . «La Histoire de France di Michelet l’aveva indotta a

pensare che la scaturigine di tali momenti aveva una validità assoluta.164

» In quel libro

c’erano delle illustrazioni che occupavano da sole «tutta una pagina, una pagina il cui

retro era rimasto bianco.165

» C’erano poi, era solita dire, “situazioni privilegiate” nelle

quali ci si poteva slanciare verso «l’unità di un sentimento, con una coerenza

autentica.166

» Si trattava di momenti nei quali «uno era portato fuori di sé, potendo

scappare dall’inutile vivere. […] Tale situazione privilegiata poteva elevarsi alla

categoria di “momento perfetto” quando risultava possibile stabilire un ordine fuori dal

normale, una specie di magico accordo tra le circostanze.167

»

Anny si era però col tempo indurita, rassegnata alla possibilità dell’azione,168

cercava

scampo nei “momenti perfetti”, ma anche questi in ultima analisi si rivelavano delle

159 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.153. 160 «Sarebbe forse un misantropo? […] In fondo mi chiede così poco: semplicemente d’accettare

un’etichetta.» (Ivi, p.160.) 161 Ivi, p.161. 162 Ivi, p.166-167. 163 Ibidem. 164 L. Pollmann, Sartre Y Camus, Literatura de la existencia, cit., p.34. 165 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.197. 166 L. Pollmann, Sartre Y Camus, Literatura de la existencia, cit., p.35. 167 Ibidem. 168 «Tu ti lagni perché le cose non si dispongono intorno a te come un mazzo di fiori, senza che ti dia la

pena di far niente. Ma io non ho mai chiesto tanto: io volevo agire. Lo sai, quando giuocavamo

all’avventuriero e all’avventuriera, tu eri quello a cui capitavano avventure, ed io ero quella che le faceva

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illusioni.169

L’ultimo rifugio sono gli Esercizi Spirituali di Ignazio Di Loyola,

«autentico trattato di verticalità contemplativa.170

» Di fronte a questa forma disperata di

restauro di sé, Roquentin si sente sconcertato. I due si salutano, due sconosciuti con un

futuro divergente ed un passato custodito nella «borsa del diavolo: quando la si aprì non

vi si trovò che foglie morte.171

» Solo ora Roquentin può distinguere nettamente il volto

di Anny,172

la differenza tra i due è sempre stata troppo netta per non venire a galla: «Io

non sono disperato come lei perché non m’aspettavo gran che. Piuttosto, io sono …

stupito, dinanzi a questa vita che mi vien data, data per niente.173

»

5. «Vivere o raccontare.174

» Il tempo ne La Nausea.

«Martedì.

Niente. Esistito175

»

Diversamente dalla trattazione fenomenologica de L’Essere e il Nulla, il tempo della

Nausea è narrato e vissuto da Roquentin come una tensione continua tra determinismo e

storicismo. Se cioè ci immaginiamo come oggetti, come dati, e soprattutto se

immaginiamo gli altri in tal maniera, quasi alla stregua di automi privi di volontà, ecco

che ci troviamo dinnanzi alla scure di un mondo letto in chiave deterministica. Se

invece ci studiamo a ritroso, ogni momento acquista un suo senso, ogni attimo è

teleologico, contribuisce cioè alla formazione dell’io che sono ora, in questo istante.

Come scrive Sartre in L’ultimo Turista:176

«L’illusione storica è doppia: da un lato,

retrospettiva, dall’altro, prefigurante.177

»

capitare. Io dicevo: “Io sono un uomo d’azione”. Ti ricordi? Ebbene, adesso dico semplicemente: non si

può essere uomini d’azione.» (J.-P.Sartre, La nausea, cit., p.202-203.) 169 «Non ci sono avventure – non ci sono momenti perfetti.» (Ivi, p.205.) 170 L. Pollmann, Sartre Y Camus, Literatura de la existencia, cit., p.36. 171 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.50. 172 «Diventa d’un tratto pallido e tirato. Un volto di vecchia, assolutamente spaventoso; son sicuro che

questo, lei non l’ha chiamato: è lì a sua insaputa, o magari, a suo malgrado.» (Ivi, p.207.) 173 Ivi, p.203. 174 Ivi, p.59. 175 Ivi, p.141. 176 Scrive la Farina a proposito di questo testo: «Ne L’ultimo turista Sartre non descrive solo la nausea per

la fatticità della contingenza, ove le cose non hanno né storia, né tensione di avventura, ma anche e

soprattutto l’emozione nauseante prodotta dalla staticità del passato, inerte e immobile con i suoi ruderi

che rendono falso il nostro rapporto con la storia. […] Lo sguardo coglie la storia nel suo interminabile

essere raccontata ed osservata dagli uomini, nello stesso istante in cui essa osserva e narra gli uomini.

Esso rende visibile il libero manifestarsi della creatività conduttrice-distruttrice della storia. I mille volti

dell’esistenza si trasformano ne L’ultimo turista, nei mille volti dell’Italia conservati con compiacimento

ed inquietudine per catturarne il segreto racchiuso nel flusso del divenire, in quel continuo trasformarsi

come la pietra di Capri che deve passare dal minerale al vegetale e dal vegetale alla pietra. […] È la

velocità che scorre il segreto delle cose e degli uomini; ritagliarne qualche attimo e fissarne i contorni è

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Riprendendo il parallelismo con La Noia di Moravia, si può dire che rispetto a La

Nausea essa fornisca una differente immagine della presa sulla realtà. Nel primo

romanzo la sospirata conquista di una oggettivazione della soggettività – di una, in altre

parole, agognata comunicazione costante con gli oggetti – si ribalta con Sartre nel

terrore di una rinuncia del soggetto a favore degli oggetti, di un totale consunzione del

soggetto nell'insensato dell'esistente. In questo senso vale la pena citare il seguente

passo:

«Io vedo l'avvenire. È là, posato sulla strada, appena un po' più pallido del presente. Che bisogno ha di

realizzarsi? Che cosa ci guadagna? La vecchia s'allontana zoppicando, si ferma, si tira su una ciocca

grigia che le sfugge dal fazzoletto. Cammina, era là, ora è qui... non so più come sia: li vedo, i suoi gesti,

o li prevedo? Non distinguo più il presente dal futuro, e tuttavia la cosa continua, si realizza a poco a

poco; la vecchia avanza per la via deserta, sposta le sue grosse scarpe da uomo. Questo è il tempo, né più

né meno che il tempo, giunge lentamente all'esistenza, si fa attendere, e quando viene si è stomacati

perché ci si accorge che era già lì da un pezzo.[…] Ebbene sì, mi pare che questo è nuovo, lei non era

laggiù un momento fa. Ma è un nuovo appannato, deflorato, che non può mai sorprendere.178

»

A nostro avviso Roquentin non diventa tutto d’un tratto diventato una sorta di ente

atemporale dalla visione panottica. Più semplicemente egli ci vuole mettere in guardia

da quell’atteggiamento in malafede per il quale lo spazio d’azione dell’uomo non è mai

frutto di scelta libera, ma c’è sempre una costruzione a noi esterna che ci pilota e della

quale cadiamo irrimediabilmente prigionieri, di modo che ogni nostro atto è prevedibile.

Il tempo semplicemente scorre in un flusso continuo e l’unica caratteristica che gli si

può attribuire è la sua irreversibilità: «Ho avuto delle donne, mi son battuto con dei tipi,

e mai sono potuto ritornare indietro, così come un disco non può girare a rovescio. E

dove mi ha portato tutto questo? A questo minuto, a questo sedile, a questa bolla di luce

tutta ronzante di musica.179

»

Che si sia padroni della propria storia non vuol dire però sentirsi eroi di un romanzo,

sempre al centro di una scena di cui non si può recitare che il ruolo del protagonista,

come sembra velatamente auspicare in realtà l’autodidatta: «Signore, io ho creduto di

poter definire l’avventura: un avvenimento che esce dall’ordinario senza essere

necessariamente straordinario.180

» Disilluso è invece Roquentin:

sottrarsi al flusso del divenire; è offrire un’immagine statica ed arida delle cose e delle persone. Il passato

è per Sartre l’altra immagine dell’Alterità, anche se qui, ne L’ultimo turista egli sembra ritornare ad una

alterità del tutto impersonale, come ne La Nausea, ma che, a differenza de La Nausea, non riguarda più il

singolo esistente nella sua individualità, ma il senso stesso della storia umana.» (G.Farina. L’alterità. Lo

sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.108-109.) 177 J.-P. Sartre, La Reine Albemarle ou Le dernier touriste. Fragments, Gallimard, Paris, 1991; trad. it. di

S.Atzeni, La Regina Albemarle o l’ultimo turista, Il Saggiatore, 1997, p.168. 178 J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.48-49. 179 Ivi, p.39. 180

Ivi, p.54.

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« Io non ho avuto avventure. Mi son capitate delle cose, dei fatti, degli incidenti, tutto quel che si vuole.

Ma non avventure. Non è una questione di parole; comincio a comprendere. V’è qualche cosa a cui

tenevo più che a tutto il resto - senza rendermene ben conto. Non era l’amore, Dio, no, né la gloria, né la

ricchezza. Era … Insomma, m’ero immaginato che in certi momenti la mia vita avrebbe potuto assumere

un’essenza rara e preziosa. Non c’era bisogno di circostanze straordinarie: chiedevo solo un po’di rigore.

[…] Le avventure sono nei libri. Naturalmente tutto ciò che si racconta nei libri può accadere davvero, ma

non nello stesso modo. Ed è a questo modo ch’io tenevo tanto.

Innanzitutto sarebbe stato necessario che gli inizi fossero stati veri inizi. Ahimè! Come vedo bene, adesso,

quello che avrei voluto! Veri inizi, che sorgessero d’improvviso come uno squillo di tromba.181»

Chi immagina la propria vita come un’epopea è in malafede, perché crede che «affinché

l'avvenimento più comune divenga un'avventura è necessario e sufficiente che ci si

metta a raccontarlo182

» e chi affabula lo fa «per occupare il tempo, semplicemente. Ma

il tempo è troppo vasto, non si lascia riempire. Tutto ciò che uno vi getta s'ammollisce e

si stira.183

»

Nel romanzo «il racconto prosegue a ritroso: gli istanti hanno cessato di ammucchiarsi a

casaccio gli uni sopra gli altri, sono ghermiti della fine della storia che li attira, e

ciascuno di essi attira a sua volta l’istante che lo precede […] Dimentichiamo che

l’avvenire non c’era ancora. […] Avrei voluto che i momenti della mia vita si

susseguissero e s'ordinassero come quelli d'una vita che si rievoca. Sarebbe come tentar

d'acchiappare il tempo per la coda.184

»

Nella storia quindi l’io perde di egocentricità, quasi mettendosi paradossalmente tra

parentesi, ci sono solo situazioni, nessun evento:

«Quando si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto. Non vi è

mai un inizio. I giorni si aggiungono ai giorni, senza capo né coda, è un'addizione interminabile e

monotona. Di tanto in tanto si fa un totale parziale: si dice: ecco, sono tre anni che viaggio, tre anni che

sono a Bouville. E nemmeno vi è una fine, non si lascia mai una donna, un amico, una città tutto in una

volta. E poi tutto si assomiglia.185»

L’unica via di fuga da questo labirinto nauseabondo è ancora una volta suggerita dal

pezzo suonato dal grammofono: « C'è un'altra felicità: esternamente, v'è questa striscia

d'acciaio, l'esigua durata della musica che traversa il nostro tempo da parte a parte, e lo

respinge, e lo lacera con le sue secche, piccole punte; c'è un altro tempo. […] Io sono

dentro la musica. […] Quello che è accaduto è che la nausea è scomparsa.186

» Questo è

ciò che vorrebbe Roquentin, ossia: «spogliarsi dell’aspetto esistenziale della sua

esistenza, sfuggire la contingenza, vorrebbe farsi puro e assoluto, come i suoni energici

181 Ivi, p.56. 182 Ivi, p.59. 183 Ivi, p.35. 184 Ivi, p.60. 185 Ivi, p.59. 186

Ivi, p.37.

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del sassofono.187

» Ancora, egli vorrebbe salvarsi e risulta sorprendente il tono usato da

Sartre per dare espressione a questa ansia di salvezza.188

Difatti, tramite il brano suonato

«La vera natura del presente si svelava: era ciò che esiste, e tutto quel che non avevo presente, non

esisteva. Il passato non esisteva. Affatto. Né nelle cose e nemmeno nel mio pensiero. Certo, avevo capito

da un pezzo che il mio presente mi era sfuggito. Ma fino a quel momento credevo che si fosse soltanto

ritirato fuori della mia portata. Per me il passato non era che un collocamento in pensione: un’altra

maniera di esistere, uno stato di vacanza, d’inazione; ogni avvenimento, finita la sua parte, si collocava da

sè, molto opportunamente, in una scatola, e diventava avvenimento onorario: tanto si fatica a immaginarci

il nulla! Adesso lo sapevo: le cose sono soltanto ciò che paiono – e dietro di esse … non c’è nulla.189»

187 L.Pollmann, Sartre Y Camus. Literatura de la existencia, cit., p.40. 188 Sempre in Sartre Y Camus. Literatura de la existencia: «peccato di esistere», «vergognarsi

dell’esistenza», «catarsi». Ibidem. 189

J.-P.Sartre, La Nausea, cit., p.132.

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CAPITOLO III – L’ESSERE E IL NULLA. LA FILOSOFIA DE LA

NAUSEA.

1. Corrosione e guarigione. Il tempo ne L’Essere e il Nulla.

“Il tempo corrode e scava, separa, fugge.190

Con L’Essere e il Nulla osserviamo un completo mutamento nella produzione letteraria

sartriana. Abbandonate le atmosfere romanzesche e sospese de La Nausea si approda

alla vera e propria rigorosa trattazione filosofica, già introdotta nei primi saggi come

L’Immaginazione, L’Immaginario e La Trascendenza dell’Ego.

La questione temporale non potrà più quindi essere affidata alle note del pezzo blues,

alla vecchia passante, ma la semantica cui si farà affidamento risulterà in un lessico

asciutto, prettamente tecnico, filosofico (da filosofo ortodosso, si potrà affermare).191

Muovendo però dalle vicende di Roquentin, possiamo legare i due testi in questi

termini: il protagonista scopre nella stagnante Bouville che vivere è vivere in mezzo alla

gente, in relazione con altri e questa dialettica non può non dipanarsi entro una

dimensione temporale.192

Come osserva sempre Moravia: «è in questa fase che la coscienza, da preriflessiva che

era, si fa riflessiva, dapprima nella forma della “personalità” e poi in quella (più

accentuatamente determinata, più negatrice di sé e dell’esistente) dell’ “ipseità”.193

»

L’assunto di base è che «il tempo, che nasce coll’uomo, non può essere compreso da

un’analisi meramente oggettivo - quantitativa194

» e in questo senso le prime pagine del

paragrafo Ontologia della temporalità (nel capitolo La temporalità) sono finalizzate ad

un’analisi critica delle posizioni di chi già in precedenza si era imbattuto nel problema

cardine della sintesi tra la monadicità dell’attimo e la torrenzialità della durata.

Il primo autore di riferimento, e non potrebbe essere altrimenti,195

è Cartesio, nel quale:

190 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p. 172. 191

Annota L. Pollmann che ne L’Essere e il Nulla prevale un andamento ipotattico, mentre ne La Nausea

c’è una predominanza di paratassi:«le frasi si succedono brevi e veloci; sono espressione formale della

sconnessione e dell’isolamento, dell’orizzontalità che regna nel contenuto.» (L. Pollmann, Sartre Y

Camus. Literatura de la existencia, cit., p.40) 192 «Il tempo mi separa da me stesso, da ciò che voglio essere, da ciò che voglio fare, dalle cose e dagli

altri. Proprio il tempo è scelto come misura pratica della distanza» (J.-P.Sartre, L’essere e il Nulla, cit.,

p.173) 193 S.Moravia, Introduzione a Sartre, cit., p.49. 194 Ivi, p.50. 195 Scrive Gabriella Farina:«Anche per Sartre, come già per Cartesio, la coscienza costituisce il nodo

centrale di ogni riflessione sull’esistenza umana, ma Sartre, a differenza di Cartesio, non identifica tale

coscienza con la res cogitans, o sostanza pensante. La coscienza sartrianamente intese non è un polo

egologico, né un’unità sostanziale. […] Il sé si costituisce nel suo fondamento originario sulla non

certezza di sé, sul fatto che afferma la sua identità e nello stesso tempo riconosce la sua dissoluzione; si

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«L’unità di questo pulviscolo, l’atomo atemporale, sarà l’istante, che ha il suo posto prima di certi istanti

determinati e dopo altri istanti, senza racchiudere nel suo seno né un prima né un dopo. L’istante è

indivisibile e in temporale, perché la temporalità è successione; ma il mondo si frantuma in una polvere

infinita di istanti; ed è un problema per Cartesio, per esempio, il sapere come può esservi un passaggio da

un istante all’altro: perché gli istanti sono giustapposti, cioè separati da un niente, ma senza

intercomunicazione.196»

Il problema da sciogliere sta quindi in ciò che Kant «chiama l’ordine del tempo197

»,

nelle sue caratteristiche di irreversibilità e di prima-dopo. «Senza il succedersi del

“dopo”, sarei subito ciò che voglio essere; non vi sarebbe più distanza fra me e me

stesso, né separazione tra l’azione e il sogno.198

» In questo percorso giungiamo

all’obiezione di Hume, cioè, in breve, «l’anteriorità di A su B presuppone nella natura

stessa di A (istante o stato) un’incompletezza che punta verso B. Se A è anteriore a B è

in B che A può ricevere questa determinazione. […] In una parola, se A deve essere

anteriore a B, bisogna che sia nel suo stesso essere in B come futuro a se stesso. E

reciprocamente B, se deve essere posteriore ad A, deve tirarsi indietro in A.199

» A e B

devono quindi non esistere a priori come se stanti se si vuole presupporre la loro

successione.200

La soluzione adottata da Cartesio, e ripresa da Kant nella sua logica, è

l’adozione di un essere atemporale come garante della temporalità stessa, un Dio che

sfugge alle pieghe della durata e dell’attimo, che semplicemente è, come scrive ancora

Sartre:

«È la soluzione alla quale Cartesio e Kant si sono egualmente fermati: per loro l’unità temporale in seno

alla quale il rapporto sintetico prima-dopo si manifesta è attribuita alla molteplicità degli istanti da un

essere che sfugge alla temporalità. […] Poiché l’unità del tempo non può essere prodotta dal tempo

stesso, introducono un essere extratemporale: Dio e la sua creazione continua in Cartesio, l’io penso e le

tratta di una realtà molto complessa nel senso che indica il continuo ritorno verso sé, a partire dalla

negazione e quindi dal superamento di ogni costituzione operata da altri.» (G.Farina, L’Alterità. Lo

sguardo nel pensiero di Sartre,cit., p.58-59.). Pare di poter completare il superamento Cartesiano operato

da Sartre con un estratto da un altro autore, Nathan Oaklander: «(per) Descartes la coscienza è il punto di

partenza di qualsiasi conoscenza, […] una proprietà senza la quale non esisterebbe un Io. […] Secondo

Descartes, (1) la struttura della coscienza richiede un sostanziale sé o io come soggetto o proprietario di

coscienza, (2) la coscienza di un oggetto comporta qualche relazione tra l’Io sostanziale e un oggetto; e

(3) la coscienza contiene idee, concetti, o più generalmente rappresentazioni, di ciò che questo è. Sartre

rifiuta ognuno di questi tre aspetti dell’esposizione Cartesiana. La coscienza non è né una sostanza né una

proprietà; non è né posseduta da né abitata da una sostanza mentale; e non è né una relazione tra una

sostanza mentale e un oggetto né un contenitore con qualcosa dentro. La personale critica sartriana della

coscienza rende la visione Cartesiana oziosa.» (N.Oaklander, Existentialist Philosophy. An Introduction,

Prentice Hall, Upper Saddle river (NJ) 1996, p.206) 196 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.173. 197 Ivi, p.172. 198 Ibidem. 199 Ivi, p.174. 200 Continua Sartre: «Se dunque concediamo a priori l’essere in-sé ad A e B, è impossibile stabilire fra di

essi il minimo legame di successione.» (Ibidem.)

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37

sue forme di unità sintetica in Kant. Solo che, nel primo il tempo è unificato dal suo contenuto materiale

che è mantenuto nell’esistenza da una continua creazione ex nihilo, nel secondo, invece, i concetti

dell’intelletto puro si applicano alla forma del tempo. In ogni caso è sempre un in-temporale (Dio o io

penso) che è incaricato di fornire a degli in-temporali (gli istanti) la loro temporalità. La temporalità

diventa una semplice relazione esterna e astratta tra sostanze in-temporali; si vuole ricostruirla

interamente con materiali atemporali. È evidente che una simile ricostruzione operata proprio contro il

tempo non può condurre poi al temporale. […] Ma allora l’ordine cronologico non è che la percezione

confusa di un ordine logico ed eterno.201»

Un autore che conduce poi verso posizioni sartriane è Leibniz, il quale rintraccia a

monte l’aporia del problema cartesiano, già nel momento in cui si ragiona intorno al

paradosso attimo-durata. Cartesio, a suo dire, «avrebbe dimenticato la continuità del

tempo. Appoggiandoci alla continuità del tempo, non veniamo più a concepirlo come

formato da istanti e, se non vi sono più istanti, non vi è più rapporto prima-dopo fra gli

istanti.202

» Con Kant si potrebbe dire: «È proprio perché io traccio la linea retta […] che

questa, realizzata nell’unità di un solo atto, è una cosa diversa da un’infinita sequenza di

punti.203

»

Questo rapido excursus ci fa entrare nel pensiero sartriano e al continuo rimando tra

essere ed esistere.

«Se la durata è l’essere, allora bisogna dire quale è la struttura ontologica della durata; e se, invece, è

l’essere che dura, bisogna dimostrare che cosa, nell’essere, gli permette di durare. […] Non si può

considerare a parte l’uno o l’altro dei due aspetti: ponendo in primo piano l’unità temporale si rischia di

non comprendere più la successione irreversibile come senso di questa unità; considerando la successione

disgregatrice come carattere originale del tempo, si rischia di non capire più come vi sia un tempo.204»

Come si è scritto all’inizio del capitolo, la temporalità è campo d’azione, territorio in cui

si muove il per-sé, come ciò in cui «il per-sé si temporalizza in esistente.205

» È dunque

studiando il per-sé che può essere intuita. La vera analogia che permette questo cambio

di prospettiva è che, come il per-sé, «la temporalità non è206

», entrambi non sono mai,

ma si proiettano: il per-sé «non può essere se non sotto la forma temporale.207

» Fa

seguito a tali premesse l’analisi delle tre dimensioni per le quali il per-sé immagina il

tempo: passato, presente e futuro.

Cominciamo dal passato: esso è «parte di me. […] Ma al tempo stesso io non sono il

mio passato, in quanto lo ero. Ciò significa non già che il tempo passato non c’è più

(non è più in me), bensì che io mi dispongo nei suoi confronti nel modo della

201 Ibidem. 202 Ivi, p.176. 203 Ivi, p.177. 204 Ivi, p.178. 205 Ivi, p.179. 206 Ivi, p.178. 207

Ivi, p.179.

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negazione, della trascendenza.208

». Esso si presenta «come il perpetuamente

sorpassato.209

», come l’in-sé,210

cui il per-sé è necessariamente legato.

Il passato rimane cioè inerte, «non entra nell’unità “riflesso-riflettente” dell’Erlebnis: ne

è al di fuori.211

» Quando era ancora presente lo si viveva senza conoscerlo, quando ha

perso la sua attualità lo si può conoscere non essendolo più. Questo è ciò che gli

psicologi chiamano «sapere.212

Ma, oltre al fatto che, con questo termine, lo

“psicologizzano”, si privano anche del mezzo di rendersene conto. Perché il sapere è

ovunque e condiziona tutto, anche la memoria, la memoria intellettuale presuppone il

sapere, e che cosa è il loro sapere […] se non una memoria intellettuale?213

»

Se il passato si coglie come negazione, il futuro si configura come mancanza. In questo

caso «il per-sé […] è dietro di sé.214

» Tra ciò che sono e ciò che sarò intercorre un

baratro di libertà che non mi permette mai di identificarmi con il mio io futuro: io posso

solo essere ciò che voglio essere e cogliermi come in-sè solo nella maniera del passato.

«Davanti, dietro di sé: mai sé. Ecco il senso delle due ek-stasi, passato e futuro. […]

L’eternità che l’uomo cerca non è l’infinità della durata: […] è il riposo di sé,

l’atemporalità della coincidenza assoluta con sé.215

» Riprendendo Cartesio, l’uomo

aspira in questo ad essere Dio. Ed ecco che, teso tra due forme di nulla, assume vera

rilevanza (e soprattutto importanza morale) la terza dimensione, quella presente. Ma

essa, sottraendosi continuamente a qualsiasi oggettivazione perché perpetuamente

esistenza in divenire, è nient’altro che fuga, nullificazione continua: «qui l’essere è

dovunque e da nessuna parte; appena si cerca di coglierlo, eccolo, eccolo … ed è subito

scomparso.216

»

Terminata la descrizione della statica temporale217

la domanda che si pone Sartre

interessa la dinamica: «Perché il presente diventa passato? […] Come si può spiegare

questo carattere dinamico della temporalità218

?» e la risposta che ne segue si stacca dal

208 S.Moravia, Introduzione a Sartre, cit., p.50. 209 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.181. 210 «L’in-sé è ciò che il per-sé era prima.» (Ibidem.) 211 Ivi, p.183. 212

Volendo ritornare al paragone tra i due stili letterari de La Nausea e de L’Essere e il Nulla, riportiamo

qui due passi tratti dal primo sul passato: «Il passato è un lusso da proprietari. Ed io dove posso

conservare il mio? Non ci si può mettere il passato in tasca: bisogna avere una casa per sistemarvelo. Io

non possiedo che il mio corpo; un uomo completamente solo, col suo corpo soltanto, non può fermare i

ricordi, gli passano attraverso. Non dovrei lagnarmi: il mio desiderio è stato d’esser libero.» e ancora

«non ha esitato un istante circa il modo di trattenere ed utilizzare il suo passato: l’ha impagliato,

semplicemente; l’ha trasformato in esperienza, come fanno le donne e i giovani.» (La Nausea, cit., p.92,

95) 213 Ivi, p.184. 214 Ibidem. 215 Ibidem. 216 Ivi, p.185. 217 “Statica” in quanto se ne descrivono gli elementi portanti come se fossero fotografati, fermi. 218

J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.187, 190.

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malinteso per cui ci troviamo di fronte ad un problema insolubile solo «se partiamo

dall’in-sé. Ma se si parte invece da una comprensione adeguata del per-sé, non è più il

cambiamento che bisogna spiegare; bisognerebbe piuttosto spiegare la permanenza.219

»

Il mutamento è quindi intrinseco al per-sé, è la sua naturale progressione, «appartiene

naturalmente al per-sé in quanto il per-sé è spontaneità.220

» Se invece, come nel caso di

Cartesio e Kant, continuassimo ad impantanarci nella sintesi di attimo e durata, ci

ritroveremmo ad analizzare un «dato221

»: quando il tempo cioè «è, ridiventa un sogno.

[…] Non vi è mai un istante in cui si possa affermare che il per-sé è, proprio perché il

per sé non è mai. Al contrario la temporalità si temporalizza tutta intera come rifiuto

dell’istante.222

» Per concludere, tornando al nostro punto di inizio, è vero che «il tempo

corrode e scava, separa, fugge223

», ma è «ancora come separatore – separando l’uomo

dalla sua pena o dall’oggetto della sua pena – che guarisce.224

»

2. “Io sono io, ma non sono ciò225

”: la malafede ne L’Essere e il Nulla

Avevamo già anticipato nel secondo capitolo ad una trattazione più ampia del concetto

di malafede. Nelle prime pagine del capitolo a essa dedicato si tenta innanzitutto di

affrancarla dalla menzogna. Difatti possiamo trovare numerosi punti in comune tra i due

concetti: «la menzogna è un fenomeno normale di ciò che Heidegger chiama il Mit-Sein.

Suppone l’esistenza mia, l’esistenza dell’altro, la mia esistenza per l’altro e l’esistenza

dell’altro per me.226

» Ma già da questi presupposti capiamo facilmente da quale punto

tragga origine la differenza: «la malafede, […] come dicemmo, […] è propriamente

menzogna a sé.227

» Altri cioè sono io e, se la menzogna «implica che il mentitore sia

completamente cosciente della verità che maschera228

» non si può mentire e nello stesso

tempo essere mentiti: «non si subisce la propria malafede, non si è “affetti” da malafede,

non è uno stato. La coscienza si contamina da se stessa di malafede.229

» Non si è in

malafede se non secondo un preciso «progetto.230

» La psicanalisi in un certo senso

prova a dare una visione d’insieme su questo fenomeno che si pone a metà strada tra

psicologia e scienza. La topologia dell’inconscio, con le sue precise mappature, tuttavia,

ha sempre poco convinto Sartre. Dice Simone De Beauvoir in L’Età Forte: «Non

219 Ibidem. 220 Ivi, p.191. 221 Ivi, p.192. 222 Ivi, p.191, 193. 223 Ivi, p.172. 224 Ibidem. 225 Ivi, p. 87. 226 Ivi, p.85. 227 Ibidem. 228 Ivi, p.84. 229 Ivi, p.85. 230

Ibidem.

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ammettevamo che la vita fosse una malattia e quando una scelta si imponeva, invece di

decidere da sé, si chiedesse la ricetta al medico.231

» La frattura con la psicoanalisi si

consuma perché secondo quest’ultima può esistere una «menzogna senza mentitore232

»

il cui nucleo si fonda nella censura. Ma

«come la censura discernerebbe gli impulsi da respingere, senza aver coscienza di discernerli? Si può

concepire un sapere che sia ignoranza di sé? Sapere è sapere che si sa, diceva Alain. O piuttosto: ogni

sapere è coscienza di sapere. Ma di che tipo può essere la coscienza (di) sé della censura? Deve essere

coscienza (di) essere coscienza della tendenza a inibire, ma precisamente per non esserne coscienza. Che

cosa vuol dire questo, se non che la censura deve essere in malafede?233»

Cogliamo in queste osservazioni l’ammirazione di Sartre per lo psichiatra viennese

Steckel, il quale, nelle sue contestazioni all’inconscio freudiano, nel suo lavoro La

Femme Frigide, affermava: «Ogni volta che ho potuto spingere le investigazioni

abbastanza avanti, ho constatato che il nodo della psicoanalisi era cosciente.234

» Fanno

seguito alla critica alla psicanalisi i due esempi del cameriere e della donna al primo

appuntamento di cui si è già scritto nel secondo capitolo. In entrambi i casi si trattava

«di costituire la realtà umana come un essere che è ciò che non è e che non è ciò che

è.235

» Se infatti l’uomo è già «ciò che è, la malafede sarebbe assolutamente impossibile,

e la franchezza cessa d’essere il suo ideale per diventare il suo essere. [….] Se la

franchezza o sincerità è un valore universale, va da sé che che la massima “bisogna

essere ciò che si è” non serve unicamente da principio regolatore […]. Essa pone non

soltanto un ideale del conoscere, ma un ideale d’essere 236

» L’ideale si pone quindi

come orizzonte volitivo:

« Esso è una ‘rappresentazione’ per gli altri e per me, il che significa che io non posso esserlo se non in

rappresentazione. Ma precisamente se me lo rappresento, non lo sono affatto, ne sono separato, come

l’oggetto dal soggetto, separato da niente, ma questo niente mi isola da esso, non posso esserlo, non posso

che giocare ad esserlo, cioè immaginarmi di esserlo. […] Perpetuamente assente al mio corpo, ai miei atti,

sono a dispetto di me stesso la 'divina essenza' di cui parla Valéry. Non posso dire né che sono qui, né che

non ci sono, nel senso in cui si dice 'questa scatola di fiammiferi è sulla tavola'; sarebbe confondere il mio

"essere-nel-mondo' con un 'essere-in mezzo-al mondo'. Né posso dire che sono in piedi o seduto; sarebbe

confondere il mio corpo con la totalità idiosincrasica di cui esso non è che una delle strutture. Da ogni

parte sfuggo all' essere e tuttavia sono.237"

231 S. De Beauvoir, La force de l’âge, Gallimard, Paris 1960; trad.it. Bruno Fonzi, L’età forte, Einaudi,

1995, p. 110. 232 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.88. 233 Ivi, p.89. 234 G.Farina, Sartre. Fenomenologia e passioni della crisi, Le Lettere, 2012, p.58; citando J.-P.Sartre,

L’Essere e il Nulla, cit., p.91. 235 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.95. 236 Ivi, p.96. 237

Ivi, p.97-98.

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L’unica via d’uscita dalla malafede è la sincerità, votata all’insuccesso dalle sue

premesse: «Essere sincero […] è essere ciò che si è. Ciò presuppone che io non sia

all’origine ciò che sono. Qui naturalmente, è sottinteso il “tu devi, dunque puoi” di

Kant. Posso divenire sincero.238

» Ma nel divenire cadiamo preda del nulla che si

interpone tra l’attualità e il futuro,239

«superiamo noi stessi […] verso il vuoto, verso il

niente240

», cosi che malafede e sincerità vengono in fondo a coincidere: «la struttura

essenziale della sincerità non differisce da quella della malafede, perché l’uomo sincero

si costituisce come ciò che è per non esserlo.241

»

In definitiva: «Se la malafede è possibile è perché essa è la minaccia immediata e

permanente di ogni progetto dell’essere umano, è perché la coscienza nasconde nel suo

essere un rischio permanente di malafede. E l’origine del rischio è che la coscienza, nel

suo essere e contemporaneamente, è ciò che non è, e non è ciò che è.242

»

3. “Je est un autre243

”: il ruolo dello sguardo nel pensiero sartriano.

“Non mi ero mai così ben reso conto che penso con gli occhi.244

Nel capitolo sulla malafede leggiamo: « Quando Pietro mi guarda, so senza dubbio che

mi guarda, i suoi occhi – cose del mondo – sono fissati sul mio corpo – cosa del mondo;

ecco il fatto oggettivo di cui posso dire: è. Ma è pur sempre un fatto del mondo. Il

significato di questo sguardo non c’è, e questo mi disturba.245

»

Il gioco246

degli sguardi entra trasversalmente in tutto l’operato sartriano; è presente

tanto nei romanzi quanto nei saggi di filosofia247

e il suo movimento non parte dall’io,

238 Ivi, p.100. 239 «E questa impossibilità non è nascosta alla coscienza» (Ibidem) 240 Ibidem. 241 Ivi, p.103. 242 Ivi, p.109. 243 Sartre riprende la famosa citazione di Rimbaud nella Trascendenza dell’ego. (A.Rimbaud, Lettre à

Georges Izambard – 13 mai 1871) 244 J.-P.Sartre, Carnets de la drôle de guerre, Gallimard, Paris 1983; trad.it. P.A. Claudel, Taccuini della

strana guerra, Acquaviva, 2002, p.197. 245 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.99. 246 Sartre attribuirà nelle pagine finali de L’Essere e il Nulla grande importanza al concetto stesso di

gioco, sottoscrivendo «quanto affermato da Schiller: “l’uomo non è pienamente uomo che quando

gioca”» (G. Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.58). Più precisamente:« “Il gioco

effettivamente, come l’ironia Kierkegaardiana, libera la soggettività. Cos’è in effetti un gioco, se non una

attività di cui l’uomo è l’origine prima, di cui l’uomo pone da sé i principi e che non può avere

conseguenze che secondo i principi posti? Non appena un uomo si coglie libero e vuole valersi della sua

libertà, qualunque possa essere d’altra parte la sua angoscia, la sua attività è di gioco. […] C’è serietà

quando si parte dal mondo e si attribuisce più realtà al mondo che a se stessi, almeno quando ci si

conferisce una realtà nella misura in cui appartiene al mondo. […] L’uomo serio è “del mondo” e non ha

più alcun ricorso in sé; non considera neppur più la possibilità di uscire dal mondo, perché si è dato a se

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ma dall’altro, «è innanzitutto “accorgersi di essere guardati”.248

» Esso è «quell’elemento

che rende visibile all’uomo come il sembrare sia la misura dell’essere.249

» 250

Tramite il

fenomeno visivo acquista validità ontologica il nulla, rientrando «a pieno titolo

nell’ambito del pensiero filosofico contemporaneo che ha riscoperto il nulla,

considerato il grande rimosso dal pensiero occidentale, esorcizzato sia dalla logica (che

vieta di pensarlo), sia dalla metafisica (che l’ha pensato, ma che nel contempo l’ha

negato).251

» Il nulla entra in gioco non appena «l’altro alza gli occhi e mi guarda. […]

Tutto a un tratto mi sento trasformato da soggetto in oggetto.252

» Altri entra nel mio

campo percettivo per modificarlo irrimediabilmente,253

«io non posso essere oggetto per

un oggetto254

», faccio così esperienza di non essere un unico soggetto in un mondo che

è dato.

Ora, il rapporto innescato dallo sguardo annulla innanzitutto irrimediabilmente il

paradigma gnoseologico di stampo idealista, in quanto esso è «prima di tutto e

fondamentalmente una relazione di essere a essere, non di conoscenza a conoscenza.255

»

Gabriella Farina riassume felicemente questo rovesciamento in tal maniera:

«Lo sguardo segna il primo passo di un processo che potrebbe condurre ad una razionalità empatica, ad

un pensare con le emozioni e ad un emozionarsi con i pensieri, o quanto meno esso segna […] il primo

passo dell’Homo sentiens che si appresta ad abbandonare il socratico Homo sapiens.256»

stesso il tipo di esistenza della roccia, la consistenza, l’inerzia, l’opacità dell’essere-in-mezzo-al-mondo.»

(J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.696-697) 247 Scrive la Farina in L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre :«Il tentativo di presentare il

fenomeno – sguardo che, per la sua complessità, non trova espressione adeguata entro i confini di un

linguaggio costruito sui parametri del pensiero logico – razionale, ci ha indotto a privilegiare le immagini

e i brani tratti dai romanzi piuttosto che dalle opere filosofiche, in quanto più pertinenti a quel piano pre-

riflessivo di cui lo sguardo è funzione e strumento. […] La verità a cui il gioco degli sguardi conduce, non

è la verità della certezza, né dell’immutabilità o dell’eternità, bensì piuttosto quella dell’incerto, del

mutevole, del provvisorio, dell’ambiguo e del contraddittorio.» (G.Farina, L’alterità. Lo sguardo nel

pensiero di Sartre, cit., p.117) 248 Ivi, p.68. 249

Ivi, p.13. 250 Lungi però dal pensare che questa affermazione abbia qualche eco di matrice estetica (nella sua

accezione letteraria), non si vuole cioè affermare, per dirla con Oscar Wilde, che «solo i mediocri non

giudicano dalle apparenze: il vero mistero del mondo è ciò che è visibile, non l'invisibile.» (Oscar Wilde,

The Picture of Dorian Gray, Lippincott’s Monthly Magazine, Londra 1890; trad.it di Ugo Dettore, BUR,

Milano, 1980, p.35) 251 G. Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.17. 252 S.Moravia, Introduzione a Sartre, cit., p.60. 253 «L’apparizione, tra gli oggetti del mio universo, di un elemento di disintegrazione di questo universo, è

ciò che io chiamo l’apparizione di un uomo nel mio universo.» (J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla,cit.,

p.308.) 254 Ivi, p.309. 255 Ivi, p.296. 256

G. Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.125.

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Punto centrale di questo passaggio, senza il quale la relazione perderebbe di senso, è la

certezza della presenza ab-soluta di altri: la sua esistenza cioè «non deve essere una

probabilità257

», non posso essere io a porla (altrimenti ricadremmo di nuovo in un

solipsismo cartesiano), ma deve esistere per-sé, «perché c’è qualcosa come un cogito

che la concerne.258

» Ancora di più, e da questo innesco comincerà poi la trattazione

fenomenologica dello sguardo, altri non può essere scoperto come oggetto, in-sé,259

ma

esclusivamente come soggetto,260

distruggendo «ogni obiettività per me. […] Io sono

guardato in un mondo guardato.261

» Ecco quindi che si apre a me la verità che non avrei

mai potuto scoprire da solo:262

quella dell’essere guardato, che non avrei mai potuto

scoprire da solo e a proposito della quale Sartre scrive: «non posso farmi essere per me

come oggetto perché in nessun caso posso alienarmi a me stesso.263

» In questo senso

l’occhio è funzionale allo sguardo, è il medium tramite il quale si sviluppa la coscienza,

«non può cogliere di un uomo se non ciò che è visibile e meccanicamente uniforme264

»,

esso «appartiene alla fisicità, al mondo della necessità; lo sguardo invece appartiene al

divenire della coscienza, e quindi al mondo della possibilità e della libertà265

», tanto che

nello sguardo ogni ego-riferimento viene annullato:266

altri, ancora, «mi guarda non in

quanto sta “in mezzo” al mio mondo, ma in quanto viene verso il mondo e verso di me

con tutta la sua trascendenza, in quanto non è separato da me da nessuna distanza.267

»

Emblematico il passaggio da Il Funambolo di Genet: «Attraverso gli occhi, defluivo dal

mio corpo in quello del viaggiatore nello stesso momento in cui il viaggiatore defluiva

257 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.303. 258 Ibidem. 259 In questo caso ci troveremmo di fronte pura datità, al pari della muffa de La Nausea. 260 «Nel fenomeno dello sguardo altri è, per principio, ciò che non può essere oggetto.» (J.-P. Sartre,

L’Essere e il Nulla,cit., p.322.) 261 Ivi, p.323. 262 Questa affermazione può a prima vista sembrar peccare di ingenuità, in quanto sarebbe ipocrita

affermare che non ci si può vedere da sé come oggetti, basti pensare a quante volte siamo davanti allo

specchio. In realtà, dice Sartre, anche da solo, di fronte alla mia stessa figura, non sfuggo alla gravitazione

dell’altro: «Immagina di avvicinarti a uno specchio: un’immagine si forma, ecco il naso, gli occhi, la

bocca, l’abito. Sei tu, dovresti essere tu. E tuttavia c’è qualcosa nel riflesso – qualcosa che non è il verde

degli occhi né il disegno delle labbra né il taglio dell’abito – che ti fa dire all’improvviso: al posto del mio

riflesso, nello specchio, hanno messo un altro.» (J.-P.Sartre, L’ultimo turista, cit., p.177) 263 J.-P. Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.329. 264 G. Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.40. 265 Ivi, p.31. 266 «Lo sguardo d’altri nasconde i suoi occhi, sembra mettersi davanti ad essi. Questa illusione proviene

dal fatto che gli occhi, come oggetti della mia percezione, rimangono ad una distanza precisa che si

estende da me ad essi – cioè, io sono presente agli occhi senza distanza, ma essi sono distanti dal luogo in

cui io “mi trovo” – mentre invece lo sguardo è su di me senza distanza e insieme mi tiene a distanza, cioè

la sua presenza immediata a me stabilisce una distanza che mi separa da lui.» (J.-P.Sartre, L’Essere e il

Nulla, cit., p.311.) 267

Ivi, p.324.

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nel mio.268

» Se quindi mi scopro come essere-visto, altri si oppone come chi mi vede, e

la sua è una realtà talmente evidente269

che è ininfluente che ci sia davvero qualcuno in

carne ed ossa ad osservarmi, «non è l’apparizione di un uomo come oggetto nel campo

della mia esperienza che mi insegna che ci sono degli uomini. […] L’apparizione, su cui

posso ingannarmi, non è l’Altro né il legame reale e concreto dell’Altro con me, ma è

un questo che può indifferentemente rappresentare un uomo-oggetto oppure non

rappresentarlo.270

» Si può ora, partendo da queste premesse, analizzare il movimento

dialettico di doppia negazione, esemplificato perfettamente dalla figura dell’uomo che

origlia a una porta.

« Immaginiamo che, per gelosia, per interesse, per vizio, mi sia messo ad origliare ad una porta, a

guardare dal buco di una serratura. Sono solo e sul piano della coscienza non-tetica (di) me. Il che si-

gnifica che non c'è un me stesso che abiti la mia coscienza. Niente, dunque, a cui possa riportare i miei

atti, per qualificarli. Essi non sono affatto conosciuti, ma io sono essi, e per questo essi portano in sé la

loro totale giustificazione. Io sono pura coscienza delle cose. […] Il che significa che, dietro la porta, c'è

uno spettacolo che si propone come «da vedere», una conversazione che si propone come «da ascoltare».

La porta, la serratura sono insieme strumenti e ostacoli: si presentano come «da guardare davvicino e un

po' da lato», ecc. E quindi «faccio quel che ho da fare»; nessuna visione trascendente viene a conferire ai

miei atti un carattere di dato sul quale possa esercitare un giudizio: la mia coscienza aderisce ai miei atti,

è i miei atti; questi sono comandati solamente dai fini da raggiungere e dagli strumenti da adoperare. Il

mio atteggiamento, per esempio, è puro rapporto dello strumento (buco della serratura) con il fine da

raggiungere (spettacolo da vedere). […] L’ordine è qui inverso di quello causale: è il fine da raggiungere

che organizza tutti i momenti precedenti; il fine giustifica i mezzi, i mezzi non esistono per se stessi e al

di fuori del fine. L'insieme, d'altra parte, non esiste se non in rapporto ad una libera proiezione delle mie

possibilità: è appunto la gelosia, come possibilità che io sono, che organizza il complesso di utensilità tra-

scendendolo verso se stessa. Ma questa gelosia io la sono, non la conosco. Solo il complesso mondano di

utensilità potrebbe farmela conoscere, se lo contemplassi, invece di «farlo». […] Questa situazione mi

riflette insieme la mia fattità e la mia libertà; in presenza di una certa struttura oggettiva del mondo, che

mi circonda, mi rimanda la mia libertà sotto forma di compiti da adempiere liberamente. Così, non posso

neppure definirmi come colui che è in situazione: perché non sono coscienza posizionale di me stesso. In

questo senso non posso neanche definirmi come colui che sta veramente ascoltando alla porta, sfuggo a

questa definizione provvisoria di me stesso, con tutta la mia trascendenza; così, non solamente non posso

conoscermi, ma perfino il mio essere mi sfugge, non sono proprio niente. […] Ecco, ho sentito dei passi

nel corridoio: mi si sta guardando. Che cosa significa ciò? Che sono improvvisamente ferito nel mio

essere e che delle modificazioni essenziali appaiono nelle mie strutture, modificazioni che posso cogliere

e fissare concettualmente con il cogito riflessivo. 271»

Cosa si vuol dire? Che in una ipotetica situazione di puro isolamento, fin tanto che sono

immerso nel flusso delle azioni, sono me stesso senza saperlo, esistenza priva di

essenza. È altri che altera le mie percezioni, e lo fa in un modo affettivo, non

268 J.Genet, Le Funambule, Gallimard, Paris; trad.it di Giorgio Pinotti, Il Funambolo, Adelphi, 1997, p.37. 269 Si staglia nello sfondo come «presenza originale» (J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.334.) 270 Ivi, p.335. 271

Ivi, p.312.

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45

conoscitivo. Egli entra nella mia vita ed io mi vergogno272

di essergli davanti, «la

presenza dello sguardo […] è la dimensione del mio disagio273

di esistere come oggetto

del mondo.274

» Altri cioè testimonia la mia essenza come in-sé,275

«non mi costituisce

come oggetto per me ma per lui276

», vede un io che parte da me ma che non sono io, in

breve: Je est un autre. Ecco il senso della prima negazione, in essa «io assumo la mia

oggettività per distinguermi dall’altro, anche se non sono esistenzialmente quell’oggetto

che l’altro vede; ma essendo tuttavia oggetto per lui, nego di essere lui e mi costituisco

come Ego individuale.277

» Percepisco l’Altro sotto un aspetto: «lo sento con evidenza,

non riesco a conoscerlo.278

» Si innesta qui la seconda negazione: scoprendo che altri mi

giudica io a mia volta comprendo di poter fare lo stesso, mi riapproprio cioè della mia

libertà per essere quello che era l’Altro, per oggettivare, garantendo una infinità

circolarità affettiva. Ora non sento più altri, ma lo conosco, raggiungo «solo il suo

essere oggetto.279

» Quanto finora esposto, tutta la circolarità dello sguardo, può essere

espresso con questa formula: «Io contro me stesso di fronte ad altri.280

»

Il potere centrifugo dell’Altro, abbiamo dettto, mi preclude della mia libertà,

rendendomi inerte. Paradossalmente: «Io che, in quanto sono i miei possibili, sono ciò

che non sono e non sono ciò che sono, ecco che sono qualcuno. E ciò che io sono – e

che per principio mi sfugge – lo sono in mezzo al mondo, in quanto il mondo mi

sfugge.281

» Ne L’Essere e il Nulla, citando Gide, Sartre dirà che altri svolge «la “parte

del diavolo”.282

» Ecco il vero senso delle parole di Garcin in Porta Chiusa: «Il solfo, il

rogo, la graticola … buffonate! Nessun bisogno di graticole; l’inferno,283

sono gli

Altri.284

»

272 «La vergogna […] è il sentimento […] di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere

degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per altri. La vergogna è il sentimento della caduta

originale. […] Vestirsi, significa dissimulare la propria oggettità, […] per questo il simbolo biblico della

caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo ed Eva “capiscono di essere nudi”. La reazione alla

vergogna consisterà quindi nel cogliere come oggetto colui che ha sorpreso la mia oggettità.» (Ivi, p.344.) 273 «Il fatto dell’altro è incontestabile e mi colpisce in pieno. Lo realizzo con il disagio.» (Ivi, p.330.) 274 G. Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.26. 275

«Si tratta del mio essere quale si determina in e per mezzo della libertà d’altri.» (J.-P.Sartre, L’Essere e

il Nulla, cit., p.315.) 276 Ivi, p.329. 277 G. Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.26. 278 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.358. 279 Ibidem. 280 G. Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.55. 281 Ivi, p.317. 282 J.-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.319. 283 L’Inferno è totale trasparenza, come afferma Daniele in L’età della ragione: «È terribile veder chiaro

[…] così egli immaginava l’inferno: uno sguardo che avrebbe penetrato tutto, si sarebbe visto fino in capo

al mondo, fino al fondo di se stessi.» (J.-P.Sartre, L'Âge de raison, Gallimard, Paris 1945; trad.it L’età

della ragione, Mondadori, Milano 1990, p.120.) 284

J.-P.Sartre, Porta Chiusa, cit., p.165.

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E citando la conclusione de Le Parole, «cosa resta? Tutto un uomo, fatto di tutti gli

uomini: li vale tutti, chiunque lo vale.285

» E di tale uomo, per concludere con le parole

della Farina, «io sono sempre responsabile.286

»

4. Verso un ateismo postulatorio sartriano.

Si è scritto nel paragrafo sulla temporalità come Sartre abbia intrapreso un processo

risolutivo della questione temporale totalmente diverso da Cartesio, il quale, di fronte al

paradosso, affida a un Dio in-temporale il compito di garantire dall’esterno la durata

degli attimi. Quello che qui può sembrare un diverso approccio nel campo meramente

fenomenologico ha in realtà radici più profonde che trovano terreno fertile in un

sentimento rigorosamente ateo a priori del filosofo francese del novecento. Citando

Invitto: «Il suo ateismo, insomma, era stata l’intuizione dei dodici anni e non era

riducibile a una discussione di tesi filosofiche sulla possibilità-impossibilità

dell’esistenza di Dio.287

»

Questo atteggiamento va inoltre letto all’interno di tutto un più ampio pensiero di

stampo tardo moderno che assume le tonalità di un ateismo postulatorio, ateismo che

cioè si pone come presupposto per lo sviluppo di una metafisica e una morale umaniste

in senso pieno: «la filosofia moderna si è contentata di continuare e perfezionare l’opera

della scolastica: l’intellectus separatus (il Bewusstsein Überhaupt dell’idealismo

tedesco) ha preso il posto del Deus onnipotens ex nihilo omnia creans della Bibbia.

Quando Nietzsche proclamò che noi avevamo ucciso Dio, egli espresse insomma la

conclusione alla quale giungeva lo sviluppo millenario del pensiero europeo.288

»

Scrive De Lubac nel saggio Il dramma dell’umanismo ateo:

« Non parliamo di un ateismo volgare, che è proprio, più o meno, di tutti i tempi, e che non presenta nulla

di significativo; neppure di un ateismo puramente critico, i cui effetti continuano oggi a svolgersi sotto i

nostri sguardi, ma che non costituisce una forza viva, per il fatto che si mostra incapace di sostituire con

qualche cosa di positivo quello che distrugge: buono solo a costituire il fondo di quell’ateismo di cui

vogliamo parlare. L’ateismo contemporaneo vuole sempre più essere positivo, organico, costruttivo .289»

Va detto che però tale posizione si configura comunque come atto di fede: essendo

postulatorio non si pone come razionalmente fondato, assume strutture logiche nelle sue

implicazioni ma non ne ha nelle sue motivazioni di fondo: è tale e quale alla scommessa

cui si sottopone qualsiasi credente, ed in questo caso il premio promesso è il tornare

285 J.-P.Sartre, Le Parole, cit., p.175. 286 G. Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.75. 287 G. Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, cit., p.23-24 288 Ivi, p.17 289 H. De Lubac, Le drame de l’humanisme athée, édition Spes, Paris 1945; tr. it. a cura di L. Ferino, Il

dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1979, p. 7.

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pienamente in possesso della propria libertà. Scrive ancora Invitto: «Sartre affermerà

più volte che anche l’ateismo è un’opzione fideistica e che, in quanto tale, non è

dimostrabile con asettici ragionamenti né può vantare garanzie filosofiche

incontrovertibili. L’apice della fede in Dio non è mai esente dal tremore del dubbio; la

sommità della certezza atea non può dimenticare di essere, comunque, una pascaliana

scommessa.290

» Viene qui a sgretolarsi completamente anche la dimensione

ascensionale, verticale, di incontro tra Dio e l’uomo. L’orizzonte relazionale perde di

trascendenza, si vive inter pares, si è cioè uomini in mezzo agli uomini, il rapporto è

«tra le coscienze umane.291

» E non solo: la scomparsa di Dio fa perdere quel movimento

centripeto di riconoscimento dell’alterità. Se la coscienza sartriana è una continua

circolarità di negazione ed oggettivazione, in questa struttura dinamica non può trovare

posto ciò che per sua natura non è mai oggettivabile.292

Ritroviamo nell’Essere e il

Nulla, appunto nel capitolo L’esistenza d’altri:

«Altri potrebbe essere per me solo un’immagine, […] e solo un testimone, esteriore insieme a me e ad

altri, potrebbe paragonare l’immagine al modello e decidere se è vera. D’altra parte questo testimone, per

essere autorizzato, non dovrebbe essere a sua volta, di fronte a me e ad altri, in un rapporto di esteriorità,

altrimenti ci conoscerebbe solo attraverso immagini. Bisognerebbe che, nell’unità ek-statica del suo

essere, fosse insieme qui, addosso a me, come mia negazione interna, e laggiù, addosso ad altri, come

negazione interna d’altri. Il ricorso a Dio, che si ritrova in Leibniz, è puramente e semplicemente ricorso

alla negazione di interiorità; ed è ciò appunto quanto si cela dietro al concetto teologico di creazione: Dio

non è insieme me e altri, perché ci crea.293»

Non essere creato da un intelletto a lui superiore fa sì che l’uomo perda la sua essenza,

che cioè non possa essere definito ab initio o arbitrariamente, perché in fin dei conti,

egli può essere solo ciò che si fa, senza nessun fine prestabilito, ma mosso da cieca

libertà. È questo il senso del paragone del tagliacarte operato in L’Esistenzialismo è un

umanismo:

« Quando si considera un oggetto fabbricato, come, ad esempio, un libro o un tagliacarte, si sa che tale

oggetto è opera di un artigiano che si è ispirato ad un concetto. L'artigiano si è ispirato al concetto di

tagliacarte e, allo stesso tempo, ad una preliminare tecnica di produzione, che fa parte del concetto stesso

e che è in fondo una “ricetta”. Quindi il tagliacarte è da un lato un oggetto che si fabbrica in una

determinata maniera e dall'altro qualcosa che ha un'utilità ben definita, tanto che non si può immaginare

un uomo che faccia un tagliacarte senza sapere a che cosa debba servire. Diremo dunque, per quanto

riguarda il tagliacarte, che l'essenza - cioè l'insieme delle conoscenze tecniche e delle qualità che ne

290 G.Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, cit., p.73. 291 G.Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.74. 292 Scrive Sartre ne L’Essere e il Nulla: «Se tuttavia concepisco il “si” impersonale, soggetto di fronte al

quale ho vergogna, come qualcosa che non può diventare oggetto senza scindersi in una molteplicità di

altri, […] pongo con ciò l’eternità del mio essere-oggetto e perpetuo la mia vergogna. È la vergogna

davanti a Dio, cioè il mio riconoscimento della mia oggettità di fronte a un soggetto che non può mai

diventare oggetto.» (J..-P.Sartre, L’Essere e il Nulla, cit., p.345) 293

Ivi, p.282-283.

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permettono la fabbricazione e la definizione - precede l'esistenza; e così la presenza davanti a me di un

certo tagliacarte o di un certo libro è determinata. Ci troviamo dunque in presenza di una visione tecnica

del mondo, per cui si può dire che la produzione precede l'esistenza. Allorché noi pensiamo un Dio

creatore, questo Dio è concepito in sostanza alla stregua di un artigiano supremo; e qualsiasi dottrina noi

consideriamo — si tratti di dottrina simile a quella di Descartes o a quella di Leibniz — ammettiamo

sempre la volontà come in qualche modo posteriore all'intelletto o almeno come ciò che si accompagna ad

esso, e che Dio, quando crea, sa con precisione che cosa crea.294»

La mancanza di una qualsiasi teleologia è foriera di angoscia, ma «l’esistenzialista

dichiara volentieri che l’uomo è angoscia. […] Ed ogni uomo deve dirsi: sono io

davvero colui che ha il diritto di operare in modo tale che l’umanità si regoli sui miei

atti?295

» Ognuno di noi è perciò responsabile di quello che fa, sotto ogni punto di vista:

«quando diciamo che l’uomo si sceglie, intendiamo che ciascuno di noi si sceglie, ma

con questo, vogliamo anche dire che ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli

uomini.296

»

294 J.-P.Sartre, L’Esistenzialismo è un umanismo, cit., p.44-45. 295 Ivi, p.50. 296

Ivi, p.48.

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CONCLUSIONI

Si è tentato in queste pagine di sciogliere e presentare alcune delle questioni di un

filosofo che, come pochi altri, ha influenzato con le sue idee e i suoi atteggiamenti un

secolo profondamente scosso da una miriade di eventi differenti. Nel dover scegliere

una parte della vastissima opera sartriana ci siamo limitati alla prima produzione, quella

che risente della tragedia del secondo conflitto mondiale, e che sfocia nell’appello a un

umanismo inteso nel suo senso pieno, consapevole: quello di un individuo che fa tesoro

della scoperta della sua irrimediabile contingenza e gratuita libertà e prova un senso di

gioia nel sentirsi completamente padrone delle sue scelte. Non a caso i primi ad

assorbire tale impostazione filosofica furono i giovani,

«più che mai ansiosi di una letteratura moralmente impegnata. Fondata sui temi della negativià e del

riscatto, dell’inesistenza di valori in sé e dell’uomo come valore, della libertà e dell’impegno, la dottrina

di Sartre si presenta come il pensiero più aderente alle inquietudini di una classe uscita dal conflitto

mondiale senza più fede nei vecchi principi, incapace o non disposta a credere in quelli nuovi (troppo

antitetici ai propri interessi), desiderosa di ripensare con più o meno illusoria autonomia i propri problemi

e (nella sua ala più aperta) di ripartire volontaristicamente dal nulla per costruire un nuovo essere.297»

Si è voluto inoltre presentare anche alcune delle critiche mosse sia alla sua filosofia che

alla sua vita. Ma non sarebbe potuto essere altrimenti per un pensatore che fa del

paradosso la norma delle sue argomentazioni e che parte da un sentiero nichilistico già

aperto da pensatori come Nietzsche, utilizzando il vuoto, il nulla ontologico che si viene

a creare come terreno fertile su cui edificare un’etica dell’azione. Si prenda ad esempio

il concetto di ateismo, che a più riprese è ritornato in queste pagine: nonostante Dio non

si presenti mai come un problema da risolvere metafisicamente, questo ogni volta

ritorna come elemento di paragone, come presenza da cui trarre spunti prima di tutto

morali. Ma da tale concetto di Dio che si presenta anche in altri ambiti ci si deve

liberare, come quando da Cartesio viene posto come garante. Scrive Invitto: «Quando

Dio è diventato non problema, Dio è veramente estinto?298

» Se ci si adagia sul piano

orizzontale dell’uomo tra gli uomini, privandosi di qualsiasi trascendenza, non si esce

dalle fiamme dell’Inferno, come accade in Porta Chiusa. Ma questo fuoco scaturisce dai

nostri giudizi, ci infiamma quando avvertiamo il peso dello sguardo altrui che ci

oggettiva, come è per Ines quando si rivolge a Garcin: «Io sì, sono cattiva: voglio dire,

che per viver io mi occore che gli altri soffrano. Essere una torcia. Una torcia dentro al

cuore degli altri.299

»

Per questo richiamo all’altro che è inferno, utile è la trattazione dello sguardo, sia nelle

sue pieghe empatiche che nel suo significato fenomenologico. Scrive Gabriella

297 S.Moravia, Introduzione a Sartre, cit., p.84. 298 G.Invitto, Sartre. Dio:una passione inutile, cit., p.65. 299

J.-P.Sartre, Porta Chiusa, cit., p.142.

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Farina:«L’uomo è un vuoto, che continuamente vince il vuoto in un gioco di sguardi, e

proprio questo vuoto, a cui conduce lo sguardo, costituisce l’immagine più autentica

dell’alterità infernale.300

» Da un lato vi è «l’essere con i suoi “attributi” […]; dall’altro

vi è il vuoto.301

» Ma solo in questa solitudine l’uomo può raggiungere «la coscienza di

sé302

» e «non vi può essere, all’inizio, altra verità che questa: io penso, dunque sono.303

»

Ma questo cogito è funzionale alla scoperta del cogito degli altri, non mi permette di

ricadere in un solipsismo monadico: «l’uomo che coglie se stesso direttamente col

cogito, scopre anche tutti gli altri, e li scopre come condizione della propria esistenza.

Egli si rende contro che non può essere niente […] se gli altri non lo riconoscono come

tale. […] La scoperta della mia intimità mi rivela, nello stesso tempo, l’altro come una

libertà posta di fronte a me.304

»

È questa libertà che ci legittima come uomini, e che, ancora una volta ci permette di

ripetere, con una maggior coscienza dell’operato sartriano maturata in queste pagine,

quello che diceva Robert Solomon nella sua apparizione nella pellicola Waking Life:

«È vero che nel mondo siamo 6 miliardi di persone e stiamo aumentando. Ciò nonostante, quello che fai,

fa la differenza. Fa la differenza in termini materiali, fa la differenza per le altre persone e crea un

precedente. [...] Insomma, io credo che non dobbiamo mai chiamarci fuori, e credere di essere vittime di

una concomitanza di eventi. Siamo sempre noi a decidere chi siamo.305»

300 G. Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, cit., p.122. 301 Ivi, p.124. 302 J.-P.Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p.39. 303 Ivi, p.66. 304 Ivi, p.67. 305

Waking Life (Richard Linklater, 2001)

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51

BIBLIOGRAFIA

Si indicano di seguito i testi risultati utili alla stesura del lavoro presentato, di modo da

poter avere una visione d’insieme sull’argomento da analizzare prima di affidarsi alla

scrittura. L’elenco comprende sia tomi studiati nella loro interezza che altri da cui se ne

sono estratte solamente delle parti.

A. Opere di Jean-Paul Sartre.

a. Testi utilizzati

J.-P.Sartre, La Nausée, Gallimard, Paris 1938; trad. a cura di B.Fonzi, La Nausea,

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J.-P.Sartre, L’Etre et le Neant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris,

1943; trad.it a cura di Giuseppe Del Bo, revisione e cura di Franco Fergnani e Marina

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J.-P.Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946; trad. it Maurizio

Schoepflin, L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma 2006.

J.-P.Sartre, Les Mots, Gallimard, Paris 1964; trad.it. di Luigi de Nardis, Le Parole, Il

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J.-P. Sartre, Les Mouches, Gallimard, Paris 1943, trad.it di Massimo Bontempelli, Le

Mosche. Porta Chiusa, Bompiani, Milano 1947.

b. testi letterari

J.-P. Sartre, Bariona, ou les Fils du tonnere, Gallimard, Paris 1970; trad.it. M.A. Aimo,

introduzione di A. Delgu, Bariona o il figlio del tuono – Racconto di natale per cristiani

e non credenti, Christian Marinotti Editore, Milano 2003.

La Semence et le Scapphandre, 1923 in J.-P. Sartre, Ecrits de Jeunesse, a cura di

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J.-P. Sartre, La Reine Albemarle ou Le dernier touriste. Fragments, Gallimard, Paris,

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in "Recherches philosophiques" n.6, pp.85-123, Paris, 1936-1937; trad. it. a cura di

R.Ronchi, introduzione di Rocco Ronchi, La Trascendenza dell’ego – Una descrizione

fenomenologica, C. Marinotti Edizioni, Azzate (Varese), 2011.

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d. testi critici, politici e autobiografici

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cura di M.Gallerani, Autoritratto a settant’anni e Simone de Beauvoir interroga Sartre

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J.-P. Sartre, Qu’est-ce que la litérature, in Situatons II, Gallimard, Paris 1948; trad.it. a

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R. Aron, Mémoires. 50 ans de réflexion politique, Julliard, Paris 1983; trad.it. di O. Del

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