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A mio padre
81

Jacques Rancière: la politica dei senza parte

Apr 28, 2023

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Page 1: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

A mio padre

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Page 3: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

S O M M A R I O

INTRODUZIONE............................................................................................................... 5

Parte Prima

POLITICA E DEMOCRAZIA

Capitolo 1

L’UGUAGLIANZA. PRESUPPOSTO NON POLITICO................................................ 11

Capitolo 2

DEMOCRAZIA E CONSENSO....................................................................................... 35

Parte Seconda

IL SOGGETTO DEI DIRITTI DELL’UOMO

Capitolo 3

I DIRITTI UMANI COME I DIRITTI DELL’UOMO POLITICO .. ............................... 55

CONCLUSIONI................................................................................................................ 71

BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................. 77

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5

INTRODUZIONE

Jacques Rancière, allievo eretico di Louis Althusser, è un filosofo anomalo e

per questo singolare nella sua originalità. Partito dal tema dell’emancipazione

degli operai francesi per recuperare le forme della presa di parola di chi non aveva

nome, è passato attraverso la pedagogia del rivoluzionario Joseph Jacotot e la

realizzazione di due opere fondamentali del pensiero politico contemporaneo, Il

disaccordo e L’odio per la democrazia, fino ad approdare alla riflessione

sull’estetica e la cinematografia. Dalla politica all’estetica, dalla democrazia

all’immagine, dunque, il suo pensiero si muove lungo un percorso che però non è

né lineare né dalla consistenza unitaria. Tuttavia, esso fa costantemente

riferimento al presupposto di una potenza comune del pensiero, ad una

‘uguaglianza delle intelligenze’, che si esercita attraverso una pratica di

configurazione del sensibile. Concetto chiave, infatti, è ciò che egli chiama

portage du sensible, perché termine unificante della sua produzione filosofica,

politica ed estetica, ambiti questi concepiti come pratiche di creazione,

distribuzione, contestazioni e redistribuzioni del sensibile. A determinare quella

che sarà la ristrutturazione e partizione del campo del visibile e del dicibile, delle

parole e dei corpi, è la maniera di rispondere ad una logica o di conservazione

consensuale o di rottura dello stato delle cose. Si tratta, in termini rancièriani, di

operare una scelta tra dinamica di potere e di polizia e dinamica politica ed

emancipativa.

Questi gli assunti alla base della sua riconsiderazione della politica e del

significato originario della democrazia, che non può non fare un rimando alla

tradizione classica, con la conseguente critica degli attuali regimi democratici.

Proposito di quest’elaborato, che nasce dalla volontà di approfondire lo

studio delle categorie politiche da un’ottica filosofica, sarà allora non soltanto di

descrivere le tematiche salienti della riflessione rancièriana, ma di farlo alla luce

della realtà storica, dimostrando le problematicità che essa solleva e le questioni

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6

che lascia in sospeso, ponendo particolare attenzione alla questione della

democrazia e della sua effettiva esistenza.

Il testo si struttura in due parti, composte rispettivamente da due capitoli

dedicati agli aspetti sopra citati e da uno dedicato alla materia dei diritti umani, a

cui Rancière si è avvicinato solo di recente.

Nel primo capitolo, vediamo come alla domanda su quale sia il fondamento

della politica, Rancière, prendendo le distanze dalle tradizionali posizioni archi-

politiche, para-politiche e meta-politiche, trovi nell’uguaglianza di tutti l’unico

universale e presupposto non politico della politica. Superata la distinzione

aristotelica fra la phoné degli schiavi e il logos degli uomini liberi, gli esclusi, i

senza parte di ogni società, dal demos ateniese ai plebei romani, dagli operai alle

donne, agli immigrati di oggi, si appropriano illecitamente della parola,

manifestano il torto originario che hanno subito e si attestano come un ‘uno in più

- uno in meno’ fra le parti, rovesciando i rapporti di inclusione ed esclusione,

riconfigurando la partizione del sensibile e creando un conflitto attorno

all’esistenza di una scena comune. Si passa perciò a vedere come egli sviluppa la

sua analisi in termini di differenza fra l’ineguale mondo della police, l’ordinaria

amministrazione comunemente scambiata per politica, e il mondo

dell’uguaglianza, che contesta l’ordine prestabilito, e come la politica risulti

proprio dall’incontro fra queste due logiche. La dimostrazione dell’uguaglianza da

parte dei senza parte, dei soggetti politici rancièriani, è definita

‘soggettivizzazione’, altro concetto cruciale del pensiero del nostro filosofo, che

questo capitolo si propone di delineare come processo di produzione di un

molteplice, di un supplemento che manca nella costituzione poliziesca, aprendo

spazi soggettivi in cui chiunque può riconoscersi fra i senza parte. Ed è

nell’eccedenza della soggettivizzazione che sta la vera democrazia, cioè

l’esercizio della politica come divisione, discontinuità e conflitto. Nell’ultima

parte del capitolo, infatti, ci si occupa del significato che Rancière attribuisce alla

democrazia, considerata il governo di chi non ha titoli per governare, facendo

riferimento anche alla critica mossagli da Alan Badiou.

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7

Ad un ulteriore sviluppo del concetto di democrazia e alle conseguenze che

questo comporta per quanto riguarda la valutazione delle democrazie odierne è

dedicato il secondo capitolo. La riflessione rancièriana si colloca all’interno di un

filone critico che mette in luce la de-politicizzazione dei sistemi politici

occidentali, la formazione di nuove oligarchie e la rimozione del conflitto dalla

dinamica politica, frutto di un processo definito ‘consensualismo’. Sulla scia della

propria visione della politica, Rancière rifiuta l’equivalenza fra democrazia e

rappresentanza, osservando come le contemporanee democrazie rappresentative

non siano altro che una semplice evoluzione del sistema rappresentativo fondato

sul privilegio delle élites e una forma di funzionamento dello Stato. I nostri regimi

consensuali annullando qualsiasi parte supplementare, annullano la politica stessa.

La mancanza di un differenziale tra la parte di un conflitto e parte della società si

traduce poi nelle nuove forme di razzismo e xenofobia che vanno ad escludere lo

‘Altro’, sempre più identificato con l’immigrato irregolare, perché una società

consensuale è già una società satura, con un numero prefissato di corpi e di parole

per designarli.

La tematica del consenso e della democrazia è stata poi ulteriormente

approfondita confrontando l’opinione di Rancière con quella diametralmente

opposta di Jurgen Habermas e passando poi in rassegna i maggiori punti di

contatto e di lontananza fra il nostro filosofo e Badiou, per provare a capire se

possa davvero esistere oggi la politica rancièriana e quali strumenti usare per

attuarla.

Nel capitolo conclusivo, ci spostiamo, invece, nell’ambito dei diritti umani.

Dopo una breve ricapitolazione della loro storia e della critica marxiana, ci

focalizzeremo sulla questione del soggetto dei diritti dell’uomo e sulla risposta di

Rancière, in opposizione alla visione di Hanna Arendt e di Giorgio Agamben.

Vedremo, infatti, che il soggetto dei diritti umani è proprio colui che non ha il

titolo per invocarli, il demos, il generico soggetto politico e che i diritti sono

dispositivi per tenere aperta la forma politica, disordinare l’ordine vigente e

dunque opporsi al regime del consenso. Ma proprio su quest’ultimo punto si

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8

inserisce l’obiezione di Costas Douzinas sul fatto che oggi i diritti umani, anziché

sfidarlo, confermano il consensualismo, perché puntano non ad una nuova

riconfigurazione delle parti, quanto ad un inserimento nella ripartizione esistente.

Tuttavia di questo sembra esser cosciente anche Rancière, il quale ritiene che la

vivace promozione dei diritti umani e degli interventi umanitari, che pongono

l’ulteriore problema della legittimità dell’ingerenza, abbiano come obiettivo

ultimo la soppressione della politica.

Tentativo del nostro autore sarà di riformulare una nuova politica dei diritti

umani che possa conciliarsi con la sua prospettiva politica e che vedremo non può

non riagganciarsi alla critica dell’attuale democrazia occidentale.

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Parte Prima

POLITICA E DEMOCRAZIA

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CAPITOLO 1

L’UGUAGLIANZA. PRESUPPOSTO NON POLITICO

DELLA POLITICA

«L’uguaglianza non è un dato che la politica pone in essere,

un’essenza che la legge incarna,

né un proposito che si propone di raggiungere.

È soltanto un presupposto che deve essere riconosciuto

nell’ambito delle pratiche che lo mettono in atto»

Jacques Rancière, Il disaccordo

Conseguentemente agli avvenimenti dei primi anni Novanta, il crollo del

sistema comunista e la fine delle utopie, nonché il ritorno a gran voce e con

rinnovato vigore della filosofia politica, il filosofo francese Jacques Rancière,

elabora un rinnovato quadro teorico per una riflessione sulla politica. Suo punto di

partenza è l’analisi dei classici, in particolare dalla celebre affermazione di

Aristotele che, nel primo libro della Politica, sancisce il carattere eminentemente

politico dell’animale umano, facendone il fondamento della polis.

La sua posizione politica potrebbe definirsi ‘an-archica’, ma come egli

stesso tiene a precisare nel corso di un’intervista, è da intendersi nel senso stretto

del termine, di una politica cioè che esiste senza un arché1 (inizio/comando), che

nell’antica Grecia significava l’esercizio del potere da parte di una superiorità che

lo precedeva e al tempo stesso lo confermava.

Interrogandosi su cosa sia politico e quale sia il suo fondamento, egli giunge

alla scandalosa e paradossale conclusione che la politica non ne ha alcuno,

rompendo così con la precedente tradizione platonica dell’archi-politica, che

individuava i meriti per poter governare, con quella aristorelica della para-politica,

che affidava il governo solo ai migliori, e rinvenendo, invece, nell’uguaglianza

1J.,Rancière, Against an Ebbing Tide: An Interview with Jacques Rancière, Paul Bowman e Richard Stamp, London: Continuum, 2011

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l’unico universale politico.

A partire da Le philosophe et ses pauvre (1983), egli non smette mai di

indagare sul significato delle parole ‘politica’ , ‘democrazia’, ‘uguaglianza’, fino

alla compiuta teorizzazione del suo pensiero ne La Mésentente. Politique et

Philosophie (1995), il cui titolo rivela come la politica rancièriana si giochi tutta

attorno all’incomprensione che nasce di fronte all’affermazione di una radicale

uguaglianza, che mette in discussione qualsiasi altra organizzazione dei rapporti

che poggi su basi inugualitarie e su titoli che disciplinano le relazioni sociali. “La

politica” afferma “esiste solo nella traduzione dell’uguaglianza di ciascuno con

chiunque in libertà vuota di una parte della comunità, che destabilizza ogni

resoconto delle parti”2. La politica vive nello scarto tra l’uguglianza di tutti e la

mancanza di alcun fondamento che legittimi il dominio.

Il suo itinerario prende avvio dalla constatazione che l’ordine esistente in

ciascuna società, che si occupa del conteggio delle sue componenti, riproduce

continuamente disuguaglianze, facendo si che alcuni comandino ed altri

obbediscano, che alcuni amministrino la cosa pubblica e che altri siano confinati

nel privato delle loro case. Ma il filo conduttore di tutta la sua concezione politica

è che si è già alla pari, già uguali a chi ci formula un ordine, perché solo questa è

la condizione preliminare che permette prima di capirlo e poi di convincersi che

sia bene eseguirlo.

A tal propostito, riprende dal pensatore francese Pierre-Simon Ballanche la

riscrittura del monologo di Menenio Agrippa fatto ai plebei. Questi, sfruttati ed

esclusi dalla vita politica, si ribellano e si allontanano da Roma, finché, riunitisi

sull’Aventino, chiedono una trattattiva coi patrizi, che però, instransigenti,

rifiutano. Il fatto che essi credano che non c’è alcuna possibilità di uno scambio

linguistico non riflette solo la loro testardaggine e i loro pregiudizi ideologici

sull’inferiorità dei plebei, ma è espressione della partizione del sensibile che

organizza il loro dominio, da cui sono esclusi coloro che non sono contati, che

2J.,Rancière La Mésentente. Politique et Philosophie, Paris, Éditions Galilée, 1995 ; trad. it., Il

disaccordo, Roma, Meltemi editore, cit., pag. 79, 2007

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non hanno iscrizione simbolica nella città. Nel momento in cui però Menenio

Agrippa si rivolge ai ribelli per convincerli a ritornare sui propri passi, pur

continuando a considerarli degli ottusi, deve necessariamente presupporre la loro

uguaglianza coi patrizi. Unica possibilità di essere compreso ed ascoltato è infatti

di includerli nella comunità degli esseri parlanti, e così, probabilmente senza

neanche accorgersene, rovescia i rapporti di inclusione ed esclusione e riconfigura

le regole che hanno allontanato i plebei dalla sfera pubblica. Dunque non vale più

la distinzione artistotelica fra schiavi aventi la sola phoné, la voce che esprime

piacere e dolore, e uomini liberi titolari del logos, della parola che “serve ad

indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l’ingiusto”3, e che fa

dell'individuo uno zoon politikón. Agli occhi dei patrizi, i plebei, privi della

parola, semplicemente non esistono, non pongono in essere alcuna scena politica.

L'apologo dell'Aventino, invece, dimostra l'esatto contrario, perché i plebei

parlano e attestano l'esistenza di un ‘tra’, di ‘uno in più ed uno in meno’ tra le

parti, creano un conflitto attorno alla presenza di una scena comune. La crisi che

la politica provoca riguarda proprio l'esibizione di questo comune ed è

determinata dal fatto che i patrizi non riescono a vedere l'oggetto comune che i

plebei presentano, perché non si accorgono che essi emettono parole esattamente

uguali alle loro, e ciò non è dovuto ad un’ignoranza delle parti, né ad un semplice

scontro o a divergenze di vedute, ma ad una vera e propria mésentente, a

un’incomprensione, a una mancanza d’intesa. È la manifestazione

dell’uguaglianza delle intelligenze, presupposto non politico della politica e che si

palesa come dimostrazione di un torto, che dà vita alla politica, risultato

dell’incontro fra due logiche, quella che Rancière definisce ‘polizia’, ‘lo stato

della situazione’ di Alan Badiou, distribuzione gerarchica dei posti e delle

funzioni, e quella ugualitaria, emancipativa, che interviene, modificandola, sulla

partizione del sensibile, intesa come la “distribuzione dei posti e delle capacità ed

3Aristotele, Politica, I, 1253a 9-18

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incapacità annesse a tali posti”4. La prima è un processo che suddivide, organizza,

dispensa titoli e legittimità, tentando di ridurre il campo della politica entro uno

spazio predeterminato; tale ordinamento del sociale non si ottiene, per Rancière,

solo attraverso un intervento militare ed autoritario, ma più compiutamente

attraverso la convinzione di un giusto ordine. La seconda contesta proprio

quest’ordine, esponendo a possibile riarticolazione il rapporto tra inclusione ed

esclusione. Coloro che si sottraggono a questo dominio ordinario, arrogandosi

come propria una caratteristica comune, qual è l’uguaglianza, e coloro che, pur

non avendone il diritto, perché esclusi dalla logica poliziesca, vanno ad

appropriarsi del logos, provocano un torto fondamentale, che tuttavia è alla base

della comunità politica “come antagonismo tra parti della comunità che non sono

vere parti del corpo sociale”5.

La polizia così definita risulta profondamente incorporata nella filosofia

politica occidentale, tant’è che Rancière ne individua il primo esempio ne La

Repubblica di Platone. Per Socrate, l’armonia nella kallipolis si ha quando

ciascuno occupa il posto che gli spetta a seconda di quale parte della sua anima sia

predominante . Coloro che vedono prevalere la parte avida e degli appetiti saranno

commercianti o produttori; chi è dominato dallo spirito sarà il guardiano della

polis; chi è guidato dalla ragione sarà il governante. Il disordine, la disarmonia si

producono nel momento in cui qualcuno, contravvenendo a ciò a cui sarebbe

destinato per natura, prova a occupare un posto non suo. Come Socrate spiega a

Glaucone, quando chi fa l’artigiano o qualsiasi altra attività produttiva, attraverso

l’accumulazione di ricchezza, o ottenendo una maggioranza di voti, o con le

proprie forze, tenta di entrare nella classe dei soldati, questi tipi di ingerenza

portano alla rovina della città6. L’organizzazione della kallipolis socratica, seppur

formalmente considera tutti uguali, perché ciascuno, svolgendo il proprio ruolo,

4J.,Rancière, Le Spectateur émancipé, Paris, La Fabrique Éditions, 2008 ; trad. inglese 2009 , The Emancipated Spectator, Londra-New York, Verso, cit., pag 277 5J.,Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 41 6 Platone, Republic, trad. G. M. A. Grube, rev. C. D. C. Reeve. Indianapolis: Hackett, 1992, p. 109 (434a-b)

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contribuisce alla creazione e al mantenimento dell’armonia, nei fatti perpetrea

l’inuguaglianza: c’è chi governa e c’è chi è governato.

Rancière denomina archi-politica questo approccio di Platone alla politica:

essa “espone in tutta la sua radicalità il progetto di una comunità fondata sulla

realizzazione integrale e sull’integrale sensibilizzazione dell’arkhè della

comunità, che sostituisce interamente la configurazione democratica della

politica”7. Nella visione archi-politica regna l’armonia perché tutto sta dove deve

stare. Dunque non c’è alcuna forma di politica per Rancière, perché manca

qualsiasi asserzione di uguaglianza. La polizia, in una società così delineata, è

stata in grado di raggiungere il suo obiettivo ultimo, cioè l’eliminazione della

politica, perché ha impedito l’esercizio di libertà di quel demos che avrebbe

portato alla ribalta la parte dei senza-parte, per usare termini rancièriani.

Questi senza-parte si pongono come un problema che la filosofia politica ha

il compito di risolvere. L’archi-politica non è la sola risposta al paradosso di

questo incommensurabile specifico; Rancière ne ricorda altre due: la para-politica

e la meta-politica.

La prima si richiama ad Aristotele. Questi, diversamente da Platone,

riconosce il fatto che per quanto sarebbe meglio che solo i virtuosi regnassero,

questo non è materialmente possibile, dal momento che si vive in una città dove

“tutti sono uguali per natura”8. Nel filosofo greco dunque si nota una certa

tensione tra le qualità per governare da una parte e l’uguaglianza dall’altra. Il

rimedio è la costituzione di un buon regime che da un lato si occupi del

miglioramento delle persone e dall’altro mantenga una patina di uguaglianza,

facendo vedere l’oligarchia agli oligarchi e la democrazia al demos. Con questo

gioco di redistribuzione dei poteri e delle apparenze ogni forma di governo

degenerata si avvicina alla politeia, il governo della legge. Nella modernità,

passando dalla dimensione statuale a quella individuale, quella tensione

aristotelica, è ripresa, secondo Rancière, da Hobbes. Nel pensiero hobbesiano,

7 J.,Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 83

8 Aristotele, 2006, II, 1261 b1

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infatti, gli individui devono sopprimere la loro naturale inclinazione verso la

libertà per creare e mantenere l’ordine. Il contrattualismo liberale dunque, che

poggia le basi proprio sul riconoscimento di un’uguaglianza naturale fra gli

individui che viene però poi alienata e subordinata ad uno specifico assetto statale,

si può dire che abbia un’origine para-politica. La para-politica allora si riscontra

ogni qualvolta si attesta l’esistenza di ‘pari’ in una organizzazione che invece è di

tipo poliziesco. In sostanza, anche qui si ha a che fare con l’identificazione della

politica con la polizia e con un’uguaglianza, che, anche se c’è, è di tipo passivo,

perché essa viene distribuita anziché creata da coloro che ne sono il suo oggetto9.

In altri termini, l’uguaglianza passiva è quella che viene creata e garantita dai

governi, che viene assegnata piuttosto che presa e fatta propria dai soggetti che ne

sono titolari, rendendoli più dei recipienti che degli attori.

L’ultimo rimando che Rancière fa è alla meta-politica, il cui maggior

esponente è Karl Marx. Secondo quest’ottica, la politica non fa che mistificare la

verità, così che la vera politica si può trovare solo altrove, al di là e al di fuori

della politica: “la verità della politica non si pone più, nella sua essenza e nella sua

logica ideale, al di sopra di sé. Si situa al di sotto o dietro di sé, in ciò che

nasconde e che non potrebbe far altro che nascondere”10.

La politica serve solo a nascondere il fatto che alcuni sfruttano ed altri sono

sfruttati, e lo fa attraverso l’affermazione dell’individualismo, dei diritti umani,

delle elezioni, tutti dispositivi per far apparire lo stato come il conservatore della

giustizia e per legittimare lo sfruttamento di classe attraverso contratti

‘liberamente’ stipulati.

Il Marxismo non è l’unica declinazione della meta-politica. Rancière

annovera in questo filone di filosofia politica anche il Neoliberalismo, in quanto

legato alla tesi della ‘fine della politica’, che ha l’effetto di cancellare il concetto

stesso di politica.

9 T.,May, The Political Thought of Jacques Rancière. Creating Equality., 22 George Square

Edinburgh, Edinburgh University Press, 2008, pag. 44 10

J.,Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 98

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17

In conclusione, quello che si evince da questa breve descrizione delle tre

filosofie politiche presentate ne Il disaccordo è che, nella loro diversità, sono

accumunate da alcuni elementi: prevenire l’espressione dell’uguaglianza da parte

di coloro che non hanno alcun ruolo di responsabilità nella sfera pubblica;

promuovere, anche militarmente, la creazione di un ordine poliziesco che si

assicuri che i senza-parte rimangano tali; legittimare questa regola di esclusione.

Costantemente però, a detta del filosofo, ci sono momenti nella storia delle

società umane in cui un determinato assetto rischia di essere rovesciato da chi ne è

escluso e ciò avviene sempre in nome del principio dell’uguaglianza.

L’uguaglianza allora non è il risultato di quell’organizzazione politica

perfettamente riuscita, dove ognuno occupa il suo posto in maniera legittima, ma è

l’unico strumento in grado di sovvertire la partizione del sensibile.

Alla secessione della plebe a cui si è accennato prima, Rancière aggiunge come

esempio di atto politico anche la libertà fattuale degli ateniesi. Quando ad Atene, nel V

secolo, vengono adottate le riforme di Clistene sull’abolizione della schiavitù per

debiti, schiavi, artigiani e commercianti, privi di qualsiasi diritto positivo, si vedono

riconoscere la stessa libertà di chi li possiede. Essi si affermano come soggetti politici,

prendendo parte al demos, si impossessano di una libertà ‘vuota’ che non è altro “che il

torto che istituisce la comunità come comunità del conflitto.”11, una libertà che pur

essendo solo la qualità di chi non possiede altro, viene ricondotta ad una virtù comune

che identifica la massa indistinta di individui con il tutto della comunità. La politica

esiste dunque solo attraverso l’inclusione dell’uguaglianza nella legge: l’isonomia

ateniese è la norma che rappresenta questo presupposto ugualitario.

L'unica modalità attraverso la quale allora risulta possibile dare un nome

all'anonimo, rendere visibile l'invisibile e dicibile l'indicibile, trasformare il

rumore in parole, creando così uno spazio polemico in cui si inneschino i processi

politici, consiste nel considerare l'uguaglianza non più un obiettivo da

raggiungere, bensì il punto di partenza, che include nella comunità chi fino a quel

11

J.,Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 54

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momento ne era stato escluso. Rancière la considera un presupposto appunto, e

non più un debito, una questione di distribuzione obbligatoria. C’è da chiedersi

ora quali siano i risvolti del porre l’uguaglianza all’inzio del processo politico e

non alla fine di uno poliziesco. Todd May in The Political Thought of Jacques

Rancière. Creating Equality. individua due strade di percorrenza, una in senso

negativo per vedere come la politica interviene sulla ed interferisce con la polizia,

e una in senso positivo su quello che la politica fa, crea ed esprime.

Proviamo a seguire il suo ragionamento, seguendo la prima direzione.

Rancière parla di politica come di dissenso da parte di chi agisce in nome

del presupposto dell’uguaglianza contro l’ordine di polizia che ha violato tale

uguaglianza. Quello che la polizia fa è di assegnare a ciascuno il proprio posto, di

creare un portage du sensibile che condiziona ogni aspetto dell’esistenza,

giustificandolo sulla base di una parità all’interno della comunità che però è

passiva, è una distribuzione, e ciò configura già la prima disuguaglianza tra chi

distribuisce e chi ottiene. L’effetto è di escludere questi ultimi dalla politica e di

farli scomparire, poiché nell’ordine poliziesco non c’è spazio per alcun vuoto, per

nessuno ‘più e in meno’. La società che si crea “non è altro che una serie di gruppi

destinati a modi di fare specifici, luoghi in cui si esercitano tali occupazioni, modi

di essere corrispondenti a tali occupazioni e tali luoghi”12. La politica, invece, si

ha perturbando questa disposizione, non attraverso dei compromessi, dei confronti

per valutare opinioni ed interessi, ma attraverso una manifestazione, un’azione, un

intervento sullo status quo. La politica manifesta le persone e all’origine c’è la

divisione che “la manifestazione della parte dei senza parte fa apparire ma che,

contemporaneamente, sembra predisporre anche a un piano di incontro con le altre

parti visibili, secondo le regole dello Stato”13.

Se la politica è espressione di un dissenso verso un ordinamento che esclude

e mette ai margini, allora è caratterizzata da un altro aspetto di negatività: la

12

J.,Rancière, Aux bords du politique, Paris, La Fabrique Éditions, 1998 ; trad. it., Ai bordi del politico, Napoli, Edizioni Cronopio, 2011, cit., pag. 190 13

S.,Visentin, Verità e visibilità della politica di Rancière e Badiou in Verità ideologia e poltica, autori vari, Napoli, Edizioni Cronopio, 2009, cit., pag. 215

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declassificazione. Chi dissente non lo fa con l’obiettivo di avere una nuova

ricollocazione nell’assetto comunitario, ma con l’unico scopo di affermare

l’uguaglianza. Sostituire un’identità con un’altra sarebbe in effetti ripristinare una

nuova e diversa polizia; declassificazione, invece, significa abbandono della

propria identità. Non c’è nulla di sbagliato nel discutere su cosa spetti a neri,

donne, omosessuali, a porsi domande sulla loro identità politica, ma queste

rimangono sempre questioni di distribuzioni poliziesche e non di politica. Non

bisogna pensare ai senza-parte come ad un gruppo specifico, che include certe

persone e altre no, in quanto ogni società riproduce diverse categorie di

classificazione che provocano a loro volta diverse forme di ineguaglianze. Non

vale come per Marx considerare il proletariato il solo soggetto politico per il fatto

che esso rappresenta la classe maggiormente sottoposta a sfruttamento. Per

Rancière, all’opposto, sono politici tutti coloro che, in una determinata

classificazione, sono ineguali ad altri, coloro che, nell’ottica poliziesca, non hanno

alcuna voce in capitolo e sono praticamente invisibili. L’unico modo, perciò, per

essere uguali a prescindere dalle categorie è di rendere le categorie irrilevanti, di

distruggere le classificazioni. La declassificazione appare così la conseguenza

naturale dell’avere posto l’uguaglianza come presupposto.

“Ciò che Rancière chiama ‘politica’ " -dice Badiou- “è un’occorrenza

storica dell'uguaglianza, la sua iscrizione o la sua dichiarazione. È l'assioma

dell'uguaglianza di chiunque rispetto a chiunque altro, che si esercita nell’ineguale

o nel torto”14. La politica si manifesta solo ad opera di un incommensurabile che

lega il titolo di un determinato gruppo sociale al titolo vuoto dell’uguaglianza che

accomuna tutti. Tuttavia quest’uguglianza non è da considerarsi come un

principio immanente alla natura umana o alla ragione; essa è “un universale che

deve essere presupposto, verificato e dimostrato volta per volta”15. Tale verifica

dell'uguaglianza delle intelligenze è definita ‘emancipazione’, ed essa assume la

14

A.,Badiou, Abrégé de métapolitique, Éditions du Seuil, 1998; trad. italiana 2001, Metapolitica, Napoli, Edizioni Cronopio, cit., pag. 132 15

J.,Rancière, Ai bordi del politico, cit., pagg. 91-92

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forma del trattamento di un torto, perché quello che polizia fa non è di negare

l’uguaglianza, bensì di farle torto.

Di fronte alla suddivisione della popolazione in due categorie opposte,

quella di chi ha la capacità di agire e quella di chi può solo osservare,

l'emancipazione ha inizio quando si comprende che anche osservando si agisce,

confermando o modificando la distribuzione del sensibile16. Restare a guardare

non significa necessariamente essere separati dalla capacità di conoscere e dalla

possibilità di agire; lo spettatore, al contrario, è attivo, seleziona, compara,

interpreta, connette, partecipa alla performance. L’emancipazione si attua sempre

in nome di una qualche categoria vittima di un torto e che invoca i suoi diritti,

continuando a rimanere, però, un’indistinta parte supplementare, un anonimo, un

chiunque; la manifestazione dell’uguaglianza, infatti, non vuole essere la

dimostrazione degli attributi e specificità della categoria in questione, ma “la

formazione di un uno che non è un sé, ma la relazione tra un sé e un altro”17, un

processo di soggettivizzazione quindi.

Opposta all'emancipazione è la ‘stoltezza’ (stultification), così definita dal

rivoluzionario professore di letteratura francese Jacotot, di cui Rancière condivide

il modello pedagogico, elaborato nel 1818, ma poi caduto nell'oblio. Jacotot,

costretto ad abbandonare la Francia, si traferisce nelle Fiandre e, pur non

conoscendo nulla di fiammingo, ottiene un lavoro come insegnante. Egli possiede

un solo libro edito sia in francese che in fiammingo, il Telemaco, del quale si

serve durante le sue lezioni per superare il divario fra la sua lingua e quella dei

suoi studenti. Un giorno, assegna loro un tema su quell’opera da scrivere però in

francese, e con grande stupore scopre, che nonostante non sia la loro lingua

madre, ne sono comunque capaci perché nel frattempo sono stati in grado di

apprenderla da soli servendosi proprio di quel libro. Da questo, Jacotot deduce che

le persone hanno uguale intelligenza e che ciò che le distingue è solo la diversa

16

J.,Rancière, Le Spectateur émancipé, Paris, La Fabrique Éditions, 2008; trad. inglese, The Emancipated Spectator, Londra-New York, Verso, 2009, pag.277 17

J.,Rancière, Ai bordi del politico, cit., pag. 93

Page 21: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

21

attenzione che esse pongono. Secondo lo schema classico, al contrario, il

fanciullo, che è stato capace di imparare da sé la lingua materna, dal momento in

cui si affaccia al mondo dell'istruzione propriamente detta, è come se non potesse

più fare affidamento sulla propria intelligenza e sia chiamato, invece, a

comprendere, cosa che non può fare senza la spiegazione del maestro18. Ma ciò

significa ammettere l'incapacità dello studente, verificare l'inuguaglianze delle

intelligenze, affermare “la parabola di un mondo diviso in spiriti saggi e spiriti

ignoranti, spiriti maturi ed immaturi, capaci ed incapaci, intelligenti e stupidi”19.

La stultification è quindi il risultato della convinzione dell’inferiorità delle

intelligenze. Diversamente per Jacotot, la spiegazione non è il rimedio ad

un'incapacità di comprensione, perché è proprio l'incomprensione a strutturare la

concezione esplicativa del mondo20. Il compito del maestro non è di insegnare ciò

che i suoi allievi non conoscono, perché essi sono in grado di scoprirlo da sé. È

piuttosto di motivarli, di spronarli in modo che la loro intelligenza abbia

possibilità di esprimersi. Così facendo, mette a tacere i miti sull’inuguaglianze

delle intelligenze, sovverte ogni gerarchia intellettuale, rivoluziona le tecniche

pedagogiche. La sua conclusione è che l’intelligenza è una sola e che ciascuno ha

uguali potenzialità e capacità di autoeducarsi.

Il filosofo francese trascina anacronicamente sul campo politico

quest’avventura intellettuale, paragonando l'uguaglianza delle intelligenze fra

maestro e studente a quella di chi ha e chi non ha parte all'interno della comunità e

facendo di essa il dispositivo che deve orientare qualsiasi atto politico, “che per

essere tale deve essere emancipativo e quindi sottrarre a ogni posizione

minoritaria o assoggettata”21. Ma fondando l’emancipazione su presupposti

radicalmente democratici, l’uguaglianza dei viventi e l’unicità dell’intelligenza,

18

J.,Rancière, Le Maître ignorant. Cinc leçons sur l’émancipation intellectuelle., Paris, Fayard, 1987; trad. spagnola , El maestro ignorante. Cinco lecciones sobre la emancipación intelectual, Barcellona, Laertes Ediciones, 2002, pag. 8 19

ivi, cit., pag. 8 (trad. mia) 20

ibidem 21

R.,De Gaetano, Introduzione a la Politica delle immagini. Su Jacques Rancière, in Roberto de Gaetano (a cura di), Cosenza, Pellegrini Editore, 2011, cit., pag. 10

Page 22: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

22

egli rigetta l’idea platonica e marxista che tale sottrazione allo stato di minorità di

incapaci ed ignoranti debba essere fatta da intellettuali o politici sapienti. Quello

che Rancière fa, è di postulare la stessa potenziale intelligenza anche per coloro di

cui si presume l’incapacità e l’ignoranza, privilegiando principalmente il carattere

linguistico dell’intelletto: “..l’attività politica è sempre un modo di manifestarsi

che decostruisce le pluralità sensibili dell’ordine poliziesco tramite la messa in

atto di un presupposto… l’uguaglianza di qualsiasi essere parlante con qualsiasi

altro essere parlante.”22. Dire che si è uguali in intelligenza non significa che si

possano raggiungere gli stessi risultati scolastici ad esempio, ma riconoscere che

ciascuno è in grado parlare ad un altro, di capire un altro, di discutere con un altro:

da Jacotot a Rancière quella che si attesta è dunque l’uguaglianza del linguaggio.

Questo può farci capire meglio quanto detto prima sul perché quando un

‘superiore’ dà un ordine a qualcuno che considera ‘inferiore’, per assicurarsi che

lo esegua debba presupporre che questi abbia la sua stessa capacità di

comprendere e parlare. La divisione superiori-inferiori risulta essere allora non

solo qualcosa di contingente, ma anche di contraddittorio, perché nega

l’uguaglianza che in realtà presuppone.

L’uguaglianza intellettiva è indubbiamente legata al linguaggio, anche

perché sarebbe difficile immaginare un’azione compiuta sulla base del

presupposto di uguaglianza da parte di un essere non parlante; tuttavia essa non si

riduce solo a questo, ma risiede nella capacità di ognuno di attuare da sé i propri

progetti di vita e di prendere parte alla costruzione della propria esistenza.

Rancière ci pone questo concetto come punto di partenza di ogni atto

politico, senza offrirci in realtà alcuna prova o ragione della sua effettività. Esso

serve solo a capire a quali esiti, dal punto di vista politico, potrebbe portare, cosa

si potrebbe fare agendo su questo presupposto, senza necessariamente provarlo.

All’interno di gerarchie economiche, politiche, sociali, coloro che ne sono

oppressi devono poter essere più partecipi a livello governativo. Condizione

22

J.,Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 49

Page 23: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

23

basilare per qualsiasi politica progressista affinché questa presenza sullo scenario

pubblico non comporti conseguenze negative è l’uguaglianza delle intelligenze fra

tutti. Ma per il filosofo conta esclusivamente guardare a cosa essa porta,

all’emergere, cioè, di una politica democratica.

Riprendendo quanto detto precedentemente, se il dissenso e la de-

classificazione costituiscono l’aspetto negativo della politica rancièriana,

l’uguaglianza degli intelletti non può che esserne il cuore positivo, contro il quale

però si sono sollevate diverse obiezioni. Todd May ne cita in particolar modo tre:

che le persone non sono uguali in intelligenza; che con questo presupposto

Rancière ci porta verso una concezione essenzialista, rigettata da molti suoi

contemporanei; che il suo approccio politico sia a-storico perché attribuisce, a

posteriori, una politica di uguaglianza a movimenti politici precedenti che in realtà

non si presentavano consapevolmente in nome dell’uguaglianza23. In realtà la

prima obiezione cade già di fronte al fatto che, come visto prima, Rancière non si

preoccupa di verificare questo presupposto, ma di considerarlo una possibilità per

la politica. Per quanto riguarda la seconda, considerando che l’essenzialismo è

una forma di esclusione che marginalizza chi non abbraccia un determinato

standard, dal momento che i soggetti politici rancièriani agiscono sempre per

decostruire le categorie e abbandonare le identità, questi non sembrano

assecondare alcun particolare modello distributivo. Come il filosofo tiene ad

insistere, l’uguaglianza non unifica, ma declassifica. Rifiutare le identità imposte

dalle gerarchie dell’ordine poliziesco non è una forma di essenzialismo, piuttosto

è il suo opposto. Infine, in relazione all’a-storicità del suo pensiero, si può dire

che Rancière fa molto di più di un’analisi politica ed è interessato più che alla

storia in sé alle battaglie portate avanti dai senza-parte, cercando fra le varie

pratiche del passato quelle che realizzano il presupposto di uguaglianza, e questo

non richiede necessariamente una continuità storica.

Messe a tacere queste critiche e riprendendo le fila del discorso, ritorniamo

23

T.,May, The Political Thought of Jacques Rancière. Creating Equality., pag. 62

Page 24: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

24

sulla dimostrazione dell’uguaglianza che i non contati mettono in atto e che il

filosofo definisce ‘soggettivizzazione’, il divenire un soggetto, l’imporsi sulla

scena pubblica. L'emancipazione che ne segue scaturisce dalla consapevolezza

della pura contingenza di ogni ordine costituito, che fa torto all'uguaglianza di una

certa categoria (schiavi, proletariato, donne, neri) e poiché nessun partito né alcun

governo, nessun esercito, nessuna scuola né alcuna istituzione, emanciperà

persona alcuna24, essa avverrà solo rovesciando quell'ordine e dimostrando

l'inconsistenza di qualunque disuguaglianza politica. Il torto istitutivo della

politica, che è il modo di palesarsi dell'uguaglianza, va trattato mediante atti di

soggettivizzazione in grado di produrre un molteplice che manca nella

costituzione poliziesca e di manifestare lo scarto tra ciò che rende i senza parte

individui dotati di sola phoné e l'effettiva uguaglianza del logos. Attestarsi come

soggetto è una faccia della medaglia; l’altra è data dal dissenso che nasce di fronte

ad un ordine che esclude. La politica non scopre nuovi soggetti, li crea;

l’uguaglianza non è ricevuta, ma attuata.

Se da una parte l'iscrizione, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo,

o qualsiasi atto normativo, sancisce l'uguaglianza per tutti ed è un modo d'apparire

del demos, dall'altra la dimostrazione deve far leva su di essa per riorganizzare lo

spazio del visibile e dell'enunciabile in nome dell'uguaglianza stessa.

Interpretando il pensiero di Rancière, si può dire che se non fossero esistite tali

iscrizioni storiche dell'uguaglianza, sarebbe stato necessario riporre altrove, in un

luogo trascendentale, quel potere dell'immaginazione politica, che è

l'uguaglianza.25

I preamboli dei vari Codici e Costituzioni affermano le formule

dell’uguaglianza e l’esistenza di un kratos del popolo, ma di contro ci sono anche

luoghi e le situazioni contingenti in cui questo potere è del tutto privo di effetti, in

24

J.,Rancière, Le Maître ignorant. Cinc leçons sur l’émancipation intellectuelle., Paris, Fayard, 1987; trad. spagnola, El maestro ignorante. Cinco lecciones sobre la emancipación intelectual, cit., pag.56 25

D.,Tarizzo, La dignità della politica. Rancière, l’uguaglianza e l’ospitalità (parte II, capitolo 3) in Politica delle immagini. Su Jacques Rancière, a cura di Roberto de Gaetano, Cosenza, Pellegrini Editore, 2011, pagg. 210, 211

Page 25: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

25

cui il demos di fatto non esiste. La politica, di conseguenza, è chiamata ad

interpretare questo rapporto e questa differenza tra l’uomo e il cittadino, per cui il

fatto che il popolo sia sempre diseguale a sé stesso e dichiari il proprio ‘noi’,

intervenendo nella sfera della polizia e contrapponendosi al ‘loro’ di chi rifiuta

ogni tipo di rapporto26 “non è per la politica uno scandalo (...). È piuttosto la

condizione prima del suo esercizio”27.

Rancière supera perciò la visione meta-politica per la quale lo scarto tra il

popolo e sé medesimo separa in due ogni scena politica, con “da un lato, il popolo

della rappresentanzione giuridico-politica, dall'altro, il popolo del movimento

sociale operaio, l'attore del movimento vero che sopprime le apparenze politiche

della democrazia”28. La distinzione tra la meta-politica, a cui Marx dà formula

canonica ne La questione ebraica, e la visione politica rancièriana si evince dal

significato attribuito alla parola ‘proletariato’, che ha reso palese il legame tra

demos esistente ed inestistente e che è sempre storicamente stato il nome di chi

non poteva vantare alcuna qualità ed alcuna inclusione nella comunità. Se per il

punto di vista meta-politico, il proletariato è la classe che deve smascherare la

falsità della democrazia, per Rancière è “un soggetto democratico, che opera una

dimostrazione del suo potere nella costituzione di mondi comunitari e

conflittuali”29. Rancière ricorda a riguardo il processo fatto al rivoluzionario

Auguste Blanqui nel 1832. Quando gli viene chiesta quale sia la sua professione,

egli risponde simbolicamente ‘proletario’ e il presidente della giuria è costretto a

considerare l'esistenza di questo soggetto, che proprio in quanto tale, non ha

professione alcuna. I proletari, seguendo la definizione marxiana, nella misura in

cui non fanno parte dell'ordine delle classi ne rappresentano al tempo stesso la

dissoluzione, ma il filosofo francese sgancia questa dichiarazione dal significato

attribuitole da Marx, per trasformarla in una definizione di soggetti politici in

26

S.,Visenti, Verità e visibilità della politica di Rancière e Badiou in Verità ideologia e poltica, pag. 217 27

J.,Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 103 28

J.,Rancière, Il disaccordo, pag. 103 29

ivi, cit., pag. 106

Page 26: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

26

generale. Secondo questa visione, i proletari, anche se portano lo stesso nome

come classe sociale, in realtà non sono identificabili con alcun gruppo, non sono

né i lavoratori, né le classi lavoratrici, né tantomeno hanno caratteristiche

possedute alla stessa maniera da una moltitudine di individui. Essi sono solo la

classe di chi non è stato contato, che esiste solo nella dichiarazione stessa tramite

cui si contano come non contati; sono collettivi soprannumerati che mettono in

discussione la regola di inclusione-esclusione, fanno parte di un un processo di

soggettivizzazione che rappresenta il torto subito e l'attestazione della loro

uguaglianza passa attraverso processi di dis-identificazione e de-classificazione.

La politica, infatti, è l'incontro fra l'identificazione, prodotto della logica

poliziesca, e la soggettivizzazione, che “non è mai la semplice affermazione di

un'identità, ma è sempre e contemporaneamente la negazione di un'identità

imposta da un altro”30. Quest’ultima, come abbiamo già osservato, si accompagna

ad un processo di ridefinizione del campo dell’esperienza, producendo un

molteplice che manca nella costituzione poliziesca, e lo fa non dal nulla, ma

modificando le identità esistenti, sottraendole alla loro evidenza, alla loro naturale

posizione, aprendo spazi soggettivi in cui ciascuno può considerarsi come facente

parte dei senza parte.

Essa risulta strettamente connessa al tempo. Il senso di uguaglianza che

spinge a ribellarsi all’ordine di esclusione lo si ritrova andando indietro nel tempo,

perché per agire politicamente bisogna essere sempre stati uguali. I soggetti

politici, dunque, creano loro stessi nel momento della ribellione, ma il

presupposto di quella battaglia è attribuito ad un passato che la giustifica a

posteriori.

Rancière associa il torto rivelato dai proletari degli anni Trenta

dell’Ottocento alla libertà del demos ateniese. Nel caso della democrazia ateniese,

il demos si dichiara soggetto dell’identità della parte con il tutto, mentre nel caso

dei proletari si rende esplicito lo scarto tra due popoli, quello facente parte della

30

J.,Rancière, Ai bordi del politico, cit., pag. 95

Page 27: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

27

comunità e quello che ne risulta escluso, si soggettiva la parte dei senza-parte che

rende il tutto diverso da sé.

Secondo questa logica allora, ad esempio, ‘donna’ è il soggetto politico che

evidenzia la distanza tra una parte riconosciuta, e che ha a che fare con la

complementarietà dei sessi, e un’assenza di parte; così come ‘proletario’ è il

soggetto che misura la differenza tra la parte del lavoro come funzione sociale e

l’assenza di parte per chi lo esegue nella defizinizione del comune della società31.

Tramite questi dispositivi di soggettivizzazione, si dà luce allo scarto tra la

condizione d’essere un mero animale capace solo di esprimere rumore, piacere e

sofferenza e la dirompente e sconvolgente scoperta dell’uguglianza della parola.

La comparsa dei senza parte sul luogo proprio del logos, da cui erano stati fino a

quel momento esclusi, provoca un disordine che si esprime innanzitutto proprio

come differenziazione tra questi due processi, della soggettivizzazione e

dell’identificazione. Essendo sempre necessario l’incontro fra le due logiche, si

deduce che la politica non è un dato permanente delle comunità umane, perché,

dato che la politica non è esercizio di potere, anche se esistono sempre forme di

potere, ciò non equivale a dire che esista politica. Così, dice Rancière, uno

sciopero non è politico se chiede riforme o se non accetta i rapporti di lavoro

autoritativi o i salari inadeguati; lo diventa solo quando “rappresenta i rapporti che

condizionano il luogo del lavoro in relazione alla comunità”32.

Sebbene si sia soliti confondere la politica con tutto ciò che riguarda

l'amministrazione, l'organizzazione dei poteri, l'assegnazione dei ruoli e la sua

legittimazione, in ultima istanza con la polizia, il vero atto politico ha vita proprio

rompendo tale configurazione, istituendo un luogo polemico in cui i senza parte,

pur sapendo di non averne diritto, si dichiarano uguali e si appropriano di una

libertà che però "è una proprietà impropria attraverso la quale coloro che non sono

niente pongono il loro essere collettivo come identico al tutto della comunità”33.

31

J.,Rancière, Il disaccordo, pag. 54 32

J.,Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 51 33

ivi, cit., pag. 133

Page 28: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

28

Allo stesso modo in cui il demos si impossessa di questa libertà 'vuota', la

democrazia si pone come quel modo di vita che usurpa i privilegi del logos capaci

di distinguere il giusto dall'ingiusto, ordinandone la realizzazione nella sfera

comunitaria34.

Poiché il demos è costituito da tutti coloro che parlano ed agiscono, pur non

potendo, la democrazia si configura come la rottura logica dell'arché e dunque

essa non è un regime politico o una forma parlamentare, ma "il regime stesso della

politica, come forma di relazione che definisce un soggetto specifico”35, che dà il

potere di governare a chi non ha merito alcuno, il principio della sua costante

apertura alla contingenza del suo sovvertiemnto. Già Platone aveva dimostrato

questo scandalo, quando nel terzo libro de Le leggi, fra i vari titoli per governare,

anzianità, nascita, ricchezza, virtù, sapere, include anche la ‘scelta del dio’, il

sorteggio. La democrazia quindi basandosi sul sorteggio dimostra di essere

fondata su nessun principio che non sia l'assenza di requisiti, di superiorità, di

qualunque arché. Essa è dunque il governo ‘an-archico’ per definizione36.

Se i ‘poveri’ sono i soggetti politici, mentre i ‘ricchi’ di conseguenza sono

quelli anti-politici, la democrazia si configura come il governo del partito dei

poveri, che non è costituito da veri poveri ma da chi è privo di meriti di origine

divina e/o naturale per esercitare il potere, che è politico proprio in ragione di

questa assenza; essa opera attraverso la proposta di un certo incommensurabile, di

questo demos che non è una parte determinata della società, ma un chiunque, un

supplemento che mette in scena un conflitto capace di disfare le regole di

esclusione e di riconfigurare la partizione del sensibile. Considerata l’importanza

del processo di de-classificazione, non si tratta di identificare il proletariato con la

povertà o di considerare questa forma politica il governo del popolo o la

rivendicazione di quella parte della società economicamente svantaggiata. La

democrazia qui teorizzata non è neppure alla maniera platonica l'arbitrio assoluto 34

ivi, pag. 41 35

J.,Rancière, Ai bordi del politico, cit., pag. 183 36

J.,Rancière, La Haine de la démocratie, Paris, La Fabrique Éditions, 2005 ; trad. it, L’odio per la democrazia, Napoli, Edizioni Cronopio, 2007, pagg. 47-48

Page 29: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

29

di persone che si comportano come credono, né la democrazia contadina

aristotelica, dove la dispersione dei contadini nei campi e il bisogno di lavorare

impedisce loro di esercitare effettivamente il proprio potere lasciandolo di fatto

nelle mani dei migliori. Rancière si discosta anche da Badiou, che fa coincidere la

democrazia direttamente col capitalismo, e dalla critica marxista ortodossa che

invece la considera una maschera che occulta l'emancipazione sociale. Per lui, al

contrario, democrazia’ è il nome provocatorio assunto dall'eccedenza del processo

di soggettivizzazione, è un processo che continuamente rimette in gioco i rapporti

tra visibile e invisibile37, contrastando la privatizzazione della vita pubblica.

Questa ha inizio nella modernità con la scomposizione del popolo in individui, col

confinamento di questi nella sfera privata e la teorizzazione di una sovranità

assoluta che non fa altro che porre fine al conflitto tra le parti e quindi alla politica

stessa. La democrazia è solo rottura della logica del comando, della legge, del

legame sociale, esercizio della politica come divisione, discontinuità e conflitto.

Per Rancière, il demos che agisce non sta a significare un fallimento della politica,

che non avendo raggiunto il suo obiettivo di assicurare ad ognuno le proprie

aspettative, costringe a prendere in mano l’azione. Al contrario, la politica vive

tutta nell’azione e la democrazia sta in ciò che qualcuno fa piuttosto che in ciò che

si riceve, essa dunque è una forma di uguaglianza attiva. Ed è l’uguaglianza come

presupposto, a sua volta, a suscitare l’azione. Si riprende, in riferimento a questo,

un esempio proposto in Ai bordi del politico. Subito dopo la rivoluzione francese

del 1830 e l’adozione della Carta che stabilisce che tutti i francesi sono uguali

davanti alla legge, si assiste ad una fioritura di pubblicazioni, accompagnati da

manifestazioni e scioperi, volti a capire se quest’uguaglianza è reale o no.

Rancière costruisce un sillogismo, la cui premessa maggiore è data dal preambolo

della Carta che attesta l’uguaglianza, mentre quella minore è tratta da ciò che

avviene nei fatti. Nel 1833, gli scalpellini parigini scioperano contro i loro

padroni: la loro coalizione pone le proprie ragioni al signor Schwartz, dirigente

37

S.,Visentin, Verità e visibilità della politica di Rancière e Badiou in Verità ideologia e poltica, pag. 218

Page 30: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

30

della coalizione dei padroni, ma questi si rifiuta di verificarle, contraddicendo

dunque l’uguaglianza prevista dalla Carta. Per la legge parigina, però, entrambe le

coalizioni sono illegali, ma solo gli operai sono perseguiti dalla giustizia, e ciò

viola ancora una volta l’iscrizione di uguaglianza. Per come si pone la questione,

se il signor Schwartz ha ragione nel dire ciò che dice e nel fare ciò che fa, “allora

bisogna cancellare il preambolo della Carta”38. Si potrebbe pensare che in realtà

ad animare l’azione degli scalpellini sia piuttosto la volontà di migliorare le

proprie condizioni lavorative che non l’aver presupposto la propria uguaglianza

coi padroni; ma in fondo a queste rivendicazioni non può che sottendere la

convinzione che chi lavora merita di essere trattato nel modo più eguale possibile

a chi lo ha assunto.

Rancière riconosce, tuttavia, che la democrazia che si autopresenta come

realizzazione dell'uguaglianza è menzogna, essendo “inadeguata all'ugaglianza

che proclama (...) perché, sotto sotto, è perfettamente adeguata all'ineguaglianza

che dissimula, e l'ineguaglianza è il suo principio fondamentale”39. All'origine

infatti c'è un torto, la diseguaglianza sostanziale fra chi ha parte e chi invece non è

compreso nel computo delle parti, tra chi detiene il potere e chi ne è sottomesso.

Ma il torto non dà una battuta d'arresto al discorso sulla democrazia,

constituendone invece l'essenza. La democrazia è per sua natura rivendicazione di

un torto e attivazione di un conflitto, perché di fronte alla mistificazione

dell'uguaglianza, unico universale politico, i sottomessi possono fare propria, in

forma polemica, l'iscrizione dell'esigenza di uguaglianza. Al contrario del

principio storicamente affermatosi di uguaglianza ‘geometrica’, che ripartisce gli

spazi dell’azione, dell’udibile, del visibile sulla base di differenze contigenti, ma

fatte passare per naturali, l’uguaglianza rancièriana è un principio ‘aritmetico,

orizzontale, propriamente democratico, di una democrazia che sgretola le forme di

governo, perché forme di ‘polizia’. Il conteggio dei voti dell’assemblea, anziché le

decisioni prese dai migliori sulla base della loro pretesa virtù naturale, esprime al

38

J.,Rancière, Ai bordi del politico, pag. 69 39

J.,Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 76

Page 31: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

31

meglio tale principio. La politica democratica può come non può avere effetti di

cambiamento, ma essa non sta nelle sue conseguenze, ma nel suo presupposto,

nell’azione in nome dell’uguaglianza. La democrazia inizia e finisce nel dissenso

ed è definita da ciò che i non contati fanno e non dagli esiti o dalle iniziative prese

da chi è sostenuto dall’ordine poliziesco.

Il soggetto politico della democrazia è un popolo sempre diverso da sé che

si riconosce uguale al resto della comunità e testa tale uguaglianza innescando un

conflitto di fronte alle disuguaglianze che lo hanno reso un senza parte. È da

questa duplice violenza, dell'originario torto subito e del luogo polemico creato,

che ha luogo la politica; democrazia è “appartenenza a uno stesso mondo che si

può affermare solo polemicamente, unione che può avvenire solo nella lotta”40. E

l'assunzione da parte di Rancière dell'inesistenza di alcun criterio per il quale

qualcuno deve governare e qualcun altro essere governato, porta a considerare la

democrazia “come lo sviluppo di forme di azione che attivano l'uguaglianza di

ciascuno con chiunque altro, e non come una forma di stato o un tipo di società”41.

Ciò di cui la democrazia non può fare a meno è il potere del demos dato

dall'assenza di titoli, tant'è che si può dire, come fa Badiou, che Rancière non fa

altro che “identificare la politica con l’elemento della sua assenza e degli effetti di

tale assenza”42.

Da quanto affermato finora, si evince che, affinché ci sia politica, è sempre

necessaria la presenza di una parte dei senza parte che richieda visibilità,

intervenendo nello spazio poliziesco e manifestando lo scarto tra la sua posizione

inegualitaria e l'inclusione ugualitaria della legge. Ne Il disaccordo, Rancière

ripropone il modello esemplare di Jenne Deroin che nel 1894 si presenta alle

elezioni, nonostante non sia previsto ancora il diritto di voto per le donne,

dimostrando come queste, seppur incluse nel popolo francese sovrano che gode

40

J.,Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 72 41

J.,Rancière, intervista di Marie-Aude Baronian e Mireille Rossello in Jacques Ranciere, Het Esthetische Denken., Amsterdam, Valiz, 2007 ; trad. inglese in Art&Research. A journal of Ideas, Contexts and Methods, 2008, volume 2, numero 1. 42A.,Badiou, Metapolitica, cit., pag. 140

Page 32: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

32

del suffragio universale e dell'uguaglianza di tutti di fronte alla legge, ne siano

nei fatti radicalmente escluse. Il filosofo francese sa di correre il rischio che i

senza parte smettano di essere tali, perché semplicemente scompaiono o perché

la loro condizione viene normlizzata, e cioè che essi vengano inclusi nel conto

delle parti, nell'amministrazione poliziesca43. Questo si verifica nel momento in

cui smettono di essere considerati una parte supplementare, un uno in più rispetto

a sé stessi, e sono ricondotti alla semplice somma delle parti sociali, sono

reintegrati nella comunità o identificati con una qualche gruppo sociale o corpo

immaginario. Molteplici, per Rancière, sono i modi di pensare al tutto come alla

sola somma delle sue parti. Essa può essere il risultato di individui, l'esito dei

gruppi sociali, l'effetto di comunità44, il prodotto di un’uguaglianza che si insinua

nell’ambito dell’organizzazione statale e sociale, mentre il processo

emancipativo-egualitario e quello poliziesco dovrebbero essere sempre estranei

l’uno all’altro. Ad ogni modo, la liquidazione dei senza parte ha come

conseguenza la cancellazione dello spazio comune, l'identificazione dell'attività

politica con quella poliziesca, la sua riduzione ad una mera logica gestionale, il

passaggio dal demos all'ethos. È un ritorno alla repubblica platonica, ad un

sistema di istituzioni, di nomoi, di modi di vita che sopprimono l’eccedenza del

processo democratico, che fanno in modo che si sia partecipe della comunità solo

nella misura in cui si adempie al proprio ruolo e funzione. C’è omogeneità tra

stato e società, contribuzione da parte di chiunque al telos comunitario, ma non

c’è politica, e quindi non c’è democrazia. Se la sua mancata identificazione con

alcun tipo di costituzione è per Platone il più grande limite, nell’ottica

rancièriana ne è la condizione preliminare perché si possa ritornare a parlare di

esigenza democratica. La democrazia è tale proprio perché non è, perché eccede

tutte le altre forme politiche, perché è il fondamento ugualitario e

tendenzialmente anarchico su cui si fonda la vera politica. Solo rompendo la

logica dell’ ‘Uno’, dell’arché che riconduce tutti i rapporti ad un’autorità

43

S.,Visentin, Verità e visibilità della politica di Rancière e Badiou, pag. 216 44J.,Rancière, Il disaccordo, pag. 133

Page 33: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

33

unitaria, e ponendo una divisione nel senso comune, che è l’accettazione della

partizione delle parti da cui dipende l’inclusione nella distribuzione dei diritti e di

conseguenza l’esclusione di altri dal loro godimento, si possono creare le basi per

manifestare il torto originario, per aprire processi di soggettivizzazione che

rovesciano le relazioni e istituiscono un dialogo fra le parti nel loro percorso di

cambiamento. Il conflitto, la disputa che ne segue, non vanno neutralizzati, come

invece fa lo stato moderno di matrice hobbesiana. La gestione del conflitto non

ha nulla a che vedere con la politica rancièriana, ma è solo semplice

amministrazione, un problema di ordine pubblico o pura negoziazione con i

‘ribelli’.

La democrazia rancièriana è altro rispetto alla politica istituzionale dello

Stato, o meglio ancora rispetto alla ‘polizia’, perché, come fa notare criticamente

Badiou, nell’ottavo capitolo della Metapolitica, Rancière volutamente evita la

parola ‘Stato’, sostituendola con sinonimi come appunto ‘polizia’ o ‘società’45,

interrompendo la sua impresa proprio poco prima della qualificazione, rispetto al

supplemento politico, dello Stato parlamentare, per paura, secondo Badiou, di

esporsi all’accusa di essere in realtà un non democratico. Ma è anche altro

rispetto alla concezione di democrazia maggiormente diffusa e condivisa dai

pensatori politici. Caratteristica peculiare, come abbiamo visto, è il cambiamento

del suo raggio d’azione, passando da chi ha parte, da chi ha accesso a qualcosa

che viene distribuita, a chi non ha parte alcuna, ed interrogandosi non su cosa

spetti al demos, ma di cosa questo è capace.

Ma così delineata, risulta altro, se non l’opposto, soprattutto in relazione a

quella che è andata poi di fatto attestandosi come regime democratico. La politica

democratica di oggi ha ritrovato i suoi luoghi di deliberazione, le assemblee, le sfere

statali, le giurisdizioni supreme, ma questi appaiono ormai come aree in cui c’è bene

poco da deliberare, perché le decisioni si impongono da sé.

Quella odierna è solo un insieme istituzionale, un governo di

45A.,Badiou, Metapolitica, pag. 137

Page 34: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

34

identificazione tra gli apparati statali e la disposizione delle parti della società, un

adeguatamento tra le forme dello Stato e lo stato delle relazioni sociali, in termini

rancièriani una “democrazia consensuale”46.

Come si svilupperà nel prossimo capitolo, ‘consenso’ è sinonimo di

condizione in cui le parti sono già assunte e i soggetti già definiti; in sostanza

equivale all’eliminazione dello scarto tra parte di un conflitto e parte di società, e

dunque della politica.

In un contesto in cui il popolo è esattamente identico a sé stesso, in cui il

conto è sempre alla pari, in cui formalmente sembra essere raggiunta

l’uguaglianza di chiunque con ciascuno, in cui è stata abolita ogni sfera

d’apparenza,viene meno, per Rancière, qualsiasi possibilità che possa verificarsi

sotto il nome di quel popolo alcunché se non un semplice computo delle opinioni

e degli interessi delle sue parti, perfettamente computabili.

46

J., Rancière, Il disaccordo, cit., pag 115

Page 35: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

35

CAPITOLO 2

DEMOCRAZIA E CONSENSO

«La democrazia…non è fondata in nessuna natura delle cose

e non è garantita da nessuna forma istituzionale.

Non è portata da nessuna necessità storica e non ne porta nessuna.

E’ affidata solo alla costanza dei propri atti. La cosa non può non far paura

e quindi suscita odio in chi è abituato a esercitare il magistero del pensiero.

Ma in chi sa condividere con chiunque il potere uguale dell’intelligenza

può suscitare coraggio, e quindi gioia»

Jacques Rancière, L’odio per la democrazia

La democrazia, secondo una definizione strettamente politologica, è quel

regime che fa risiedere la legittimità politica nel popolo sovrano, inteso come una

comunità di cittadini aventi le stesse capacità politiche e legati tra loro da una regola

comune all'interno della sfera pubblica. Essa non si limita a proclamare il kratos di

questo popolo, ma aspira a metterlo al potere, a permettergli di esercitarlo in prima

persona. L'homo democraticus, sin dai tempi dell'antica Grecia, non è più un

individuo, un essere singolo, ma un cittadino, e quella maggioranza di persone, a cui

la democrazia permette di partecipare alla res publica, comprende soprattutto i

cittadini delle classi più modeste. Tuttavia, man mano che la democrazia si è

affermata o imposta, si è sempre più snaturata ed allontanata dal suo significato

originario, tant'è che ormai è proprio quel popolo sovrano a distanziarsene.

L'astensione o il voto di protesta, infatti, sono stati gli strumenti usati per manifestare

l'insoddisfazione verso questi regimi, e l'inesistenza civica e l'invisibilità elettorale ha

riguardato proprio quegli ambiti a cui la democrazia aveva conferito il diritto sovrano

di parlare. Allo stesso tempo, negli ultimi anni, si assiste ad uno snaturamento

provocato da una nuova classe politica che cerca di salvaguardare i propri privilegi,

restringendo per quanto possibile la portata della democrazia, una portata considerata

rivoluzionaria da Rancière. Ma se presupposto non politico della politica è

Page 36: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

36

l'uguaglianza e se la democrazia, rovesciando le regole di inclusione, è la

manifestazione della politica sotto la forma di un disaccordo, come divisione nel

‘senso comune’, come disputa su ciò che è assegnato, sulla cornice entro cui vediamo

qualcosa come già data1, Rancière conclude che quelli attuali, pur definendosi regimi

democratici, non lo sono, in quanto perpetrano disuguaglianze, continuando ad

escludere i senza parte dall'arena pubblica. È da qui che parte allora per interrogarsi

sul vero significato di "democrazia", per ritrovarne l’essenza, la radicalità, lo scandalo

in essa contenuto. Egli non solo denuncia il fatto che la democrazia abbia

costantemente mancato alle proprie premesse, ma cerca di separare dal principio della

visibilità rappresentativa democratica l’eccesso della parte dei senza parte sul conto

delle parti2.

Non si può, però, non rilevare, come fa Badiou, che la parola "democrazia"

abbia definito il mondo occidentale, rimanendo "sicuramente l'emblema

dominante della società politica contemporanea"3. In tal senso, la democrazia

avrebbe avuto un vero e proprio trionfo negli ultimi vent'anni nella nostra parte di

mondo, sia perché si è affermata come quel regime politico efficace, in grado di

garantire la giustizia e la produzione della ricchezza, sia perché, con la formula

della sovranità popolare, la si è potuta identificare con lo Stato di diritto4. Di tale

trionfo si è iniziato a parlare subito dopo il crollo del muro di Berlino, quando è

crollata anche l'idea utopistica di un autogoverno del popolo, di una democrazia

reale. In realtà, a partire dalla fine del "socialismo reale", di cui gli Stati sovietici

in qualche fattispecie erano eredi, si è avuta, al contrario, per usare le parole di

Wendy Brown, una "de-democratizzazione"5, cioè un processo di progressivo

1 J., Rancière, Who is the Subject of the Rights of Man?, South Atlantic Quarterly, vol. 103.2/3,

2004, pag. 304 2 S., Visentin, Verità e visibilità della politica di Rancière e Badiou, pag. 221, in AA.VV., Verità

ideologia e politica, Edizioni Cronopio, Napoli, 2009 3 A., Badiou, L’emblema democratico, in AA.VV., In che stato è la democrazia?, 2009, trad. it.

Nottetempo, Roma, 2010, cit., pag.15 4 J., Rancière, La Mésentente. Politique et Philosophie, Paris, Éditions Galiléè, 1995; trad. it, Il

disaccordo, Roma, Meltemi editore, 2007, pagg. 109-110 5 W., Brown, Oggi siamo tutti democratici…, in AA.VV., In che stato è la democrazia?, 2009,

trad. it. Nottetempo, Roma, 2010, cit., pag. 74

Page 37: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

37

annullamento delle pratiche conflittuali che mettono in discussione l'operato

politico della classe al potere, proprio di quelle pratiche che per Rancière fanno la

politica. Quindi, questa vittoria della democrazia sarebbe stata solo presunta

perché, anziché assistere ad un rafforzamento delle istituzioni democratiche e

delle forme di controllo parlamentare da parte del popolo sovrano, si è avuto un

sempre maggiore presidenzialismo e la trasformazione della forma politica in

‘Stato minimo’, che dà alla giustizia e all'economia quello che invece le è proprio.

“Lo Stato ‘minimo’ ”, dice Rancière, “è uno Stato che pone la politica in stato di

assenza, che si priva insomma di ciò che non gli appartiene –il conflitto del

popolo- allo scopo di aumentare la sua proprietà e sviluppare le procedure della

propria legittimizzazione”6, è uno Stato che per legittimarsi necessita di dichiarare

la politica impossibile e impotente. Polemicamente, il filosofo francese nota

come, nel periodo in cui "i militanti socialisti o comunisti combattevano per una

Costituzione, per i diritti e dispositivi istituzionali di cui, peraltro, criticavano il

fatto che esprimessero il potere della borghesia del capitale" vi fosse una vigilanza

di quelle istituzioni particolarmente attenta; oggi, al contrario, assistiamo “ad una

sensibile disaffezione nei riguardi delle forme democratiche”7. Il nostro ideale di

governance, che si esercita oramai a tutti i livelli, pur senza combattere

frontalmente la democrazia e senza formalmente sopprimerla, crea difatti un

sistema capace di governare senza il popolo, e se serve anche contro di esso,

presentandosi come un modo per il contenimento della sovranità popolare. Ciò

pone la politica alle dipendenze dell'economia, trasforma la società civile in una

società di mercato. La conseguenza è una democrazia svuotata del suo contenuto,

economizzata e al contempo spoliticizzata e neutralizzata, affidata ad esperti e

sottratta ai cittadini.

A distanza di dieci anni da Il disaccordo, ne L'odio per la democrazia, il

filosofo francese osserva come il trionfo democratico continui a presentarsi,

seppur in maniera diversa, con la caduta di Saddam Hussein e le elezioni del 2005

6 J., Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 123

7 ivi, cit., pag. 111

Page 38: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

38

in Iraq. A questa democrazia portata con le armi, il popolo iracheno rispose con

saccheggi, a dimostrazione del fatto che "portare la democrazia ad un altro popolo

non significa soltanto portargli i benefici dello Stato costituzionale, delle elezioni

libere e della libertà di stampa. Significa anche portargli il caos."8. Ed è proprio

questa democrazia caotica ed ingovernabile, e che deve essere dunque governata,

a legittimare un'ulteriore ingerenza dall'esterno. Quindi, tanto nel caso della

democrazia reale che denuncia le apparenze di quella formale, tanto in quello del

caos a seguito dell'istituzione della democrazia, si può rilevare come

l'acclamazione di questo trionfo è in altre parole la vittoria su un disordine, che

però è connaturale alla democrazia stessa. È attorno a tale disordine che si

costruisce un odio per la democrazia, dovuto allo scandalo proprio della

democrazia, e soggetti di questo odio sono coloro che vanno alla ricerca

dell'arché, di un ritorno alla logica autoritaria dell'Uno, che limiti l'essenza caotica

e radicale della democrazia. Così Rancière ne L'odio per la democrazia: "Viviamo

in Stati o società che si chiamano "democrazie" e si distinguono così dalla società

governate da Stati senza legge o dalla legge religiosa. Come mai all'interno di

queste "democrazie" un'intellighenzia dominante, la cui situazione non è affatto

disperata e che d'altronde non aspira a vivere sotto altre leggi, continua ad

imputare, giorno dopo giorno, tutte le sventure umane a un unico male, chiamato

democrazia?" 9. L’odio per la democrazia ha in effetti origini antiche. Platone è il

primo a scagliarsi contro ciò che la democrazia realmente è: non una forma di

stato o di governo, ma un fondamento ugualitario e anarchico su cui si fonda ogni

vera politica. Sulla scia del filosofo ateniese, quest’odio ha pervaso le oligarchie

economiche e statali che cercano di fondare la legittimità del proprio potere su

criteri naturali e/o presupposti nell’intento di privatizzare la sfera pubblica,

trasformando le questioni politiche in meri problemi amministrativi. Ma se è vero,

come precedentemente osservato, che, nella prospettiva rancièriana, la democrazia

8 J., Rancière, La Haine de la démocratie, Paris, La Fabrique Éditions, 2005 ; trad. it., L’odio per

la democrazia, Napoli, Edizioni Cronopio, 2007, cit., pag. 11 9 ivi, cit., pag. 87

Page 39: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

39

non è fondata su alcun principio che non sia l’assenza di superiorità e di titoli per

governare, essendo basata solo sul ‘sorteggio del dio’, allora tutta quest’opera di

contenimento della sua portata rivoluzionaria e scandalosa, ha provocato una

considerevole distorsione del suo significato e contenuto originali. Bisogna perciò

innanzitutto capire cos’è ciò che chiamiamo ‘democrazia’. In Europa essa è stata

identificata con il doppio sistema delle istituzioni rappresentative e con quelle del

libero mercato. Ma quest’idillio è confinato ormai nel passato: a detta di Rancière,

infatti, il libero mercato appare sempre più come una forza di costrizione che

assoggetta alla sua volontà le istituzioni rappresentative, riducendo

significativamente la possibilità di scelta dei cittadini. Da ciò segue la necessità di

ripensare completamente alla democrazia, nel senso forte del termine. Per il

filosofo francese, la democrazia in primo luogo non è, come già chiarito, una

forma di Stato o un regime o uno stile di vita sociale, tanto meno è “la forma di

governo che permette all’oligarchia di regnare in nome del popolo né la forma di

società regolata dal potere della merce”. Essa è piuttosto “l’azione che strappa

continuamente ai governi oligarchici il monopolio della vita pubblica e alla

ricchezza l’onnipotenza sulle vite.”10. La situazione che però oggi contrassegna i

sistemi occidentali, in questa fase di apparente trionfo della democrazia, è ciò che

egli definisce ‘post-democrazia’ o ‘democrazia consensuale’. Quest’ultima non è

da intendersi come quel sistema istituzionale che incoraggia l’accordo tra le

principali opzioni partigiane, con l’obiettivo di condividere il controllo del potere

di governo e di esercitarlo in modo reciprocamente includente. Non è neanche “lo

stato di democrazia tristemente disillusa nelle sue speranze, o felicemente

alleggerita delle sue illusioni”11. È piuttosto quella condizione in cui il popolo è

sempre identico alla somma delle sue parti, in cui ciascuno è esattamente al suo

posto, in cui la comunità è interamente realizzata come identità e pienamente

riflessa in ciascun elemento che la compone. Siamo di fronte ad una pura attività

di argomentazione e negoziazione tra le varie parti della società, con lo scopo di

10

J., Rancière, L’odio per la democrazia, cit., pag. 104 11

J., Rancière, Il disaccordo, cit., pag., 115

Page 40: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

40

(re)distribuire benefici, premi e posizioni, senza, però, sfidare il saldo

complessivo12.

Un altro filosofo contemporaneo, Jurgen Habermas, utilizza il termine

‘consenso’ come requisito del suo dibattito normativo, ma con declinazioni del

tutto diverse, nonché contrarie, a quelle rancièriane. La sua teoria, nota come

‘Etica del discorso’, elaborata nello scritto Teoria dell’agire comunicativo (1981),

prevede che, una volta stabilite le condizioni razionali per un dialogo, il risultato

dell’atto comunicativo non sia solo razionale, ma anche universalmente morale. In

questo nuovo capitolo della sua filosofia, Habermas instaura una proficua

collaborazione con Karl-Otto Apel e i due autori sono convinti che chi partecipi

ad un’argomentazione razionale e sensata presupponga alcune pretese universali

di validità: giustezza, verità, veridicità, comprensibilità. Queste preteste hanno

oltre ad un valore logico anche uno etico e se sono tutte soddisfatte si crea una

situazione discorsiva ideale, un giusto modello di società incentrata

sull’uguaglianza dei dialoganti. Esse, inoltre, implicano che la comunicazione

avvenga fra soggetti liberi: il consenso dunque è la condizione del dialogo, perché

chi vi partecipa lo fa volontariamente, lontano da vincoli e coercizione. La società

nascente sulla realizzazione di questi presupposti coincide con la comunità

democratica, composta da individui liberi ed uguali, che dialogano per risolvere

razionalmente i propri conflitti di interesse.

Porre il consenso alla base della democrazia significa allora professare

esattamente l’opposto di quanto sostenuto da Rancière. A essere diverso è anche il

punto di partenza per un dialogo, per Habermas il consenso appunto, per Rancière

l’uguaglianza; ma altre e maggiori sono le discordanze fra i due filosofi.

Innanzitutto, per l’uno, i dialoganti si riconoscono reciprocamente, per

l’altro, invece, a essere in gioco è il riconoscimento di una parte. Mentre

Habermas dà per scontata la possibilità del dialogo e della comprensione ad un

livello trascendentale, Rancière insiste sul fatto che vero oggetto del dialogo non è

12

C., Douzinas, Human Rights and Empire: The Political Philosophy of Cosmopolitanism, Routledge, 2007, pag. 103

Page 41: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

41

che la possibilità del dialogo, perché alcune parti non sono riconosciute come

validi parlanti dagli altri13. Inoltre, per il nostro filosofo, il soggetto politico non

dice necessariamente “io”, “tu”, come dovrebbe essere per Habermas, e si esprime

non solo in prima persona, ma anche in terza, per creare un nuovo soggetto

politico. Habermas ritiene, al contrario, che assumere, sulla scena del dialogo, il

punto di vista dell’osservatore, cioè della terza persona, significhi congelare la

razionalità comunicativa che si svolge nell’impegno della prima persona di aderire

al punto di vista della seconda14. Ma secondo Rancière, questa considerazione non

farebbe che limitare la discussione politica sulla logica del dialogo tra interessi e

“sottovalutando questa moltiplicazione delle persone legata alla moltiplicazione

del logos politico, essa dimentica anche che la terza persona è tanto una persona

di interlocuzione diretta e indiretta quanto una persona di osservazione e

oggettivizzazione15. E non c’è alcuna democrazia sulla base di una discussione

razionale per la ponderazione degli interessi di bilancio. L’unico dialogo ritenuto

compatibile con la democrazia è solo quello in cui gli interlocutori sentono l’un

l’altro, ma non sono d’accordo tra loro; “non vi è politica perché gli uomini grazie

al privilegio della parola, mettono in comune i loro interessi. Vi è politica perché

coloro che non hanno diritto di essere contati come esseri parlanti si fanno

comunque contare”16 .

Dunque, la democrazia rancièriana è ben lontana dalla formazione di una

volontà comune, piuttosto è l’espressione della volontà di una comunità divisa.

Non è che essa sia indifferente all’universale, semplicemente l’universale è

qualcosa che in politica è sempre oggetto di dibattito”17. È proprio nel protestare il

torto che soffrono, che gli esclusi si presentano come l’incarnazione di una società

13

J-P., Deranty, Jacques Rancière’s contribution to the Etichs of Recognition , in Political Theory, volume 31 (1), pag. 151, febbraio 2003 14

“sotto lo sguardo della terza persona, sia esso rivolto verso l’esterno o verso l’interno, tutto si fissa in oggetto”, J., Habermas, Die neue Unübersichtlichkeit. Kleine Politische Schriften V, Frankfurt a.M, 1985, cit., pag. 371, cit. in J., Rancière, il disaccordo, pag. 65 15

J., Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 65 16

J., Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 46 17

P., Critchley, Jurgen Habermas and the Rational Utopia, pag. 23, disponibile attraverso il sito: http://independent.academia. Edu/PeterCritchley/Papers

Page 42: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

42

universale, contro i particolari interessi di potere. Contro Habermas, Rancière

enfatizza come le lotte politiche, portatrici di democrazia, non siano dunque un

dibattito razionale tra interessi multipli, ma le battaglie di una voce che chiede

ascolto e riconoscimento poiché legittima ed uguale parte nel dialogo18.

Il consenso, infatti, presuppone la scomparsa di ogni scarto, essendo il

conteggio sempre in pari e mai in avanzo, e la mancanza di questo differenziale tra

la parte di un conflitto e parte della società, si traduce per Rancière in assenza di

politica. L’attuale società post-democratica è caratterizzata da “un ragionevole

accordo di individui e gruppi sociali, i quali avrebbero compreso che la conoscenza

del possibile e la discussione tra pari rappresentano, per ogni parte, un modo di

ottenere un risultato ottimale -e preferibile al conflitto- che l’oggettività contingente

dei dati permette di sperare.”19. L’abolizione dell’apparenza del demos e del suo

essere sempre diverso da sé corrisponde dunque all’abolizione di ogni conflitto,

tramite la tematizzazione di ogni questione conflittuale, che assume sempre il nome

di un problema. Ogni problema sarà poi ricondotto alla mancanza o al ritardo dei

mezzi per risolverlo, cosicché “alla manifestazione del torto si sostituiranno allora

l’identificazione e il trattamento della mancanza”20. Per il filosofo, l’assenza del

demos e delle forme di conflitto, connaturali alla politica, portano all’affermazione

di una coincidenza fra Stato meramente gestionale ed amministrativo e Stato di

diritto, con l’ulteriore conseguenza di ridurre la politica ad un concetto di diritto che

la identifica allo spirito della comunità, completamente identica a sé. A ciò segue

una sottomissione dell’attività legislativa ad un potere giuridico-tecnico esperto, che

prescrive ciò che è conforme all’essenza della società e della costituzione. O meglio

ancora, a detta di Rancière, “ una sottomissione del politico allo statale per il tramite

del giuridico, l’esercizio di una capacità di privare la politica della sua iniziativa,

attraverso la quale lo Stato si fa precedere e legittimare”21. Le pratiche del judicial

review e del costitutional review, appaiono, nell’ottica rancièriana, più che un 18

J., Rancière, The Politics of the Aesthetics, London: Coontinuum, 2004, pagg. 69-70 19

J., Rancière, Il disaccordo , cit., pag. 115 20

ivi, cit., pag. 119 21J, Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 121

Page 43: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

43

controllo del potere giudiziario su quello esecutivo e legislativo, come piuttosto la

dichiarazione dell’inesistenza del conflitto tra chi è e chi non è parte della società. Il

conflitto, infatti, viene trasformato in un problema giuridico, ricoperto da tutte

quelle motivazioni che portano ad individuare in qualsiasi articolo di una legge

poco desiderabile, una contraddizione col principio d’uguaglianza, centrale per tutte

le costituzioni moderne. Ma Rancière, a tal proposito, riprende gli articoli I e VI

della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che affermano rispettivamente

che “l’uguaglianza deve applicarsi in ogni circostanza” “ma nelle condizioni che la

differenza della circostanza autorizza”, dimostrando così come ogni legge sia

comunque conforme alla bilancia delle due uguaglianze, la previsione del diritto e

la sua limitazione, prescindendo dalla conformità dei suoi articoli.

Il consensualismo, che è alla base delle nostre democrazie, incarna poi

perfettamente la cosiddetta ‘esclusione’, cancellando ogni possibilità di attuare

forme di soggettivizzazione e di rapporto tra comunità e non-comunità. Quando

era netta la distinzione tra la logica poliziesca, che divideva ed assegnava ad

ognuno la sua parte e funzione, in ragione di criteri naturali o supposti tali, e la

logica ugualitaria, che invece rivelava la scandalosa uguaglianza del logos,

l’esclusione poteva ancora essere rappresentata e costruirsi politicamente. I senza

parte, infatti, appropriandosi illecitamente dell’uguaglianza, potevano farsi

contare ed includere nella società. Oggi, al contrario, invocare l’ ‘esclusione’ è già

di per sé espressione di qualcosa che non può trovare rappresentazione e che si

riduce ad identificarsi con la legge del consenso. L’invisibilizzazione giuridica e

mediatica condotta dalla lotta contro l’esclusione è una delle modalità tramite cui

si gioca la produzione di invisibilità, funzionale al funzionamento dell’apparato

statuale del governo del visibile. 22

Si verifica, perciò, che tutti siano inclusi a priori, divenendo una parte

perfettamente computabile, con pensieri ed interessi perfettamente computabili.

Un mondo ripulito dalle identità eccedenti della soggettivizzazione significa

22

S., Visentin, Verità e visibilità della politica di Rancière e Badiou, pag. 207, in AA.VV., Verità ideologia e politica, Edizioni Cronopio, Napoli, 2009

Page 44: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

44

un mondo in cui si è gradualmente raggiunta l’identità del tutto con il tutto. Tale

identità è chiamata umanità, ed è ciò che ha portato a passare dai diritti umani ai

diritti umanitari, tema che sarà sviluppato nel prossimo capitolo. Al di là del

demos, nella democrazia consensualista, ci sono solo individui e gruppi che

rappresentano esclusivamente l’umanità comune. Peccato che, invece, tra essa e

questi individui si ponga sempre una pluralità del sensibile. E due sono le

modalità per raffigurare tale pluralità: “quello che considera una parte dei senza

parte e quello che non la considera, il demos e l’ethos”23.

La soppressione del torto, richiesta dalla società consensuale si traduce, per

Rancière, nella sua assolutizzazione, nella guerra di tutti contro tutti, per usare le

parole di Hobbes. Ogni individuo è elevato a minaccia per l’integrità e per

l’identità della comunità, e ciò giustifica l’introduzione nei nostri regimi post-

democratici delle nuove forme del razzismo e della xenofobia. Quell’ ‘uno in più’,

oggetto di un torto e soggetto di un processo di soggettivizzazione che poneva in

essere un conflitto, è stato sostituito da un ‘uno di troppo’, che mina alla stabilità

dell’ordine costituito. La democrazia consensuale, allora, non ha come nemico il

solo governo senza limite dell’arbitrio, ma si ritrova ad essere vittima anche

dell’intensità della vita democratica stessa, di quell’individuo democratico ebbro

d’uguaglianza. Quest’ultimo, a seconda dei tempi e dei bisogni, può essere

identificato col il salariato rivendicativo, col disoccupato, o sempre più spesso con

l’immigrato clandestino. La legge deve determinare la natura dell’ ‘Altro’, il quale

non cessa di riprodursi, e per questo non va accolto, ma va escluso dal consenso,

se si vuole il consenso. La comunità del consenso, infatti, è già “una società

satura, in cui c’è il giusto numero dei corpi necessario e il numero di parole

sufficienti per designare quei corpi e le diverse maniere che hanno di convenire e

consentire insieme”24. Rancière sviluppa questo tema, agganciandosi alle vicende

della politica interna francese, culminate con la legge sul velo e con l’espulsione

23

J., Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 134 24

J., Rancière, Aux bords du politique, Paris, La Fabrique Éditions, 1998 ; trad. it. 2011, Ai bordi del politico, Napoli, Edizioni Cronopio, cit., pag. 148

Page 45: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

45

dei rom, ritenendo come sia la ragion di Stato stessa ad alimentare il razzismo.

Egli lo chiama ‘razzismo freddo’, una sorta di costruzione intellettuale. Abbiamo

già visto come il filosofo identifichi lo Stato con l’ordine poliziesco che stabilisce

e controlla le identità, i luoghi e gli spostamenti, lottando continuamente contro

tutto ciò che tenta di fuoriuscire da questa logica e di affermarsi come soggetto

politico. Oggi questo tipo di controllo è reso più pressante dall’ordine economico

mondiale, e oramai incapaci di contrapporsi agli effetti che la libera circolazione

dei capitali ha sulle comunità, gli stati ripiegano sempre di più su ciò che ancora

possono gestire: la circolazione delle persone. Affermando di agire per la

sicurezza delle loro popolazioni, minacciate dai migranti, essi fanno di questa

attività il fondamento della loro legittimizzazione. Legiferando sull’immigrazione,

da una parte si dà costantemente corpo al soggetto che mette in crisi questa

sicurezza, dall’altra si ridefinisce la frontiera tra il dentro e il fuori, creando delle

identità fluttuanti, in sospeso, suscettibili di far cadere ‘fuori’ chi fino a quel

momento era ‘dentro’25. Il razzismo attuale, ben lungi dal basarsi sulla

discriminazione fra razze superiori ed inferiori, risulta essere più una creazione

statuale del tutto funzionale alla sua logica di funzionamento e legittimizzazione,

che il frutto della passione popolare. Esso, paradossalmente, nasce in nome

dell’universalità della legge ed uguaglianza fra tutti i cittadini, principi in realtà

usati ad appannaggio del loro opposto, cioè per il rafforzamento del potere dello

stato di conferire ed annullare identità, di stabilire chi ha parte e chi no all’interno

della comunità. I discorsi sulla laicità ed universalità delle nostre democrazie si

riassumono sostanzialmente con la necessità di essere visibili nello spazio

pubblico ed identificabili in ogni istante. Di intesa con Badiou, anche il nostro

filosofo ritiene che la parola ‘immigrato’ sia servita ad obliterare, in campo

politico, la parola ‘operaio’, e che da questo punto di vista tutti i partiti

parlamentari ne sono stati complici26. L’immigrato di oggi è solo un operaio che,

25

J., Rancière, Il razzismo viene dall’alto, Il Manifesto, 23 settembre 2010 26

A., Badiou, Abrégé de Métapolitique, Éditions du Seuil, 1998 ; trad. italiana 2001, Metapolitica, Napoli, Edizioni Cronopio, pag 135

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46

perduto il suo secondo nome, la forma politica della sua identità ed alterità, del

suo essere un senza parte che mette in discussione la regola che lo ha reso tale,

non ha che un’identità sociologica “che oscilla fino a cadere nella nudità

antropologica di una razza e di una pelle differenti” 27. È questo il risultato a cui

perviene l’operazione consensualista, che cancella il nome ‘proletario’, quella

parte supplementare capace di far contare i non contati, e che, oggettivando il

‘problema immigrato’, fissa un’alterità radicale, esasperata nel rifiuto razzista e

svanita nella tematizzazione dell’immigrazione. Poiché la caduta di un nome

equivale alla cessazione della politica legata a quel nome, Rancière dirà che il

nostro tempo è senza nome e che la comunità come tutto si dichiara

effettivamente totale o senza resto28.

Egli non chiede che gli Stati accolgano tutta la miseria del mondo, ma che

perlomeno imparino a parlarne, a parlare con essa, “a nascere con essa nella

singolarità del dire che inventa nomi nuovi, nuove singolarità, nuove molteplicità.

Questo significa prendere la misura dell’uguaglianza.”29. Alle formule del

consenso che esclude, bisognerebbe quindi opporre quelle di una comunità che

conosce singoli che mantengono sempre la possibilità infinità dell’ ‘uno-in-più’.

Rifiutando, invece, la nozione di un conflitto reale e di una parte dei senza

parte, il peso del negativo cade completamente sulle spalle dell’estraneo,

dell’altro, del nemico che introduce un alieno disordine30.

Se allora la crisi del governo democratico è dovuta all’eccesso di vitalità

democratica, la soluzione, nota sin dai tempi di Pisistrato, come racconta

Aristotele ne La Costituzione degli Ateniesi al capitolo XVI, è di deviare queste

energie e questi entusiasmi dall’ arena pubblica a quella privata. Il dispositivo

adottato per reprimere questo eccesso democratico è stato la sovranità popolare, in

grado di trasformare in arché il principio anarchico della singolarità politica,

27

J., Rancière, Il disaccordo, cit., pag. 130 28

A., Badiou, Metapolitica, pag. 132 29

J., Rancière, Ai bordi del politico, cit., pag. 156 30 M., Pezzella, La democrazia dei senza parte, disponibile attraverso il sito: http://www.democraziakmzero.org

Page 47: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

47

l’essenza stessa della democrazia, come governo di chi è senza titoli per

governare. A sua volta, la sovranità popolare ha trovato la sua applicazione

attraverso il meccanismo della rappresentanza. In questo modo l’autorità dei

nostri governanti risulta legittimata sia in virtù della scelta popolare sia in virtù

della loro capacità di scegliere le soluzioni migliori ai problemi della società;

soluzioni in realtà dettate dalla conoscenza dello stato oggettivo delle cose e

dunque da saperi esperti31. Infatti, la realtà dimostra come, per quanto il voto sia

lo strumento tramite il quale, nelle nostre società democratiche, il popolo prenda

parte alla vita politica e, per estensione, partecipi alle scelte politiche effettuate,

poi di fatto non abbia su di esse una particolare influenza. I legislatori non sono in

dovere di dar seguito a quelle che sono le preferenze dei propri elettori, anche

perché essi stessi, oramai, hanno una rilevanza sempre minore nell’ambito del

processo decisionale, che è affidato, invece, in misura maggiore, ai tecnici di

settore.

Di fronte però ad un ordine apparentemente trasparente, è proprio

quell’incessante lavoro di saturazione e di repressione, caratteristico del

meccanismo della rappresentanza, a dimostrare la persistenza spettrale di un

molteplice, che non si vuol far emergere.

Eliminando il supplemento democratico e creando istituzioni sovra-statali,

che non essendo propriamente stati, non rispondono delle loro azioni di fronte ad

alcun popolo, i nostri governi realizzano il loro fine ultimo: depoliticizzare le

questioni politiche. Per cui, anche se negli ultimi due secoli, la politica ha

ritrovato i suoi luoghi di deliberazione, c’è, in verità, ben poco su cui deliberare; e

anche se il nome ‘democrazia’ ha accompagnato l’emergere sulla scena pubblica

di classi subalterne, si è di fatto avuta la neutralizzazione di qualsiasi luogo

polemico e di ogni istanza politica capace di andare oltre il conteggio delle parti.

In altri termini, non è stato più possibile nominare, attraverso la democrazia, un

evento che manifestasse una parte come tutti e chiunque.

31

J., Rancière, L’odio per la democrazia, pag. 87

Page 48: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

48

A ciò si è giunti attraverso un’attività di proliferazione e ridefinizione di

diritti, per adattarsi alle varie sfaccettature della società e a tutti i suoi movimenti.

Attraverso quest’incessante sottoposizione a verifiche, nell’ambito

dell’assegnazione agli individui e ai gruppi di diritti sempre nuovi, lo Stato

tecnico, sopprime ogni intervallo di apparenza, riguadagnandoci però in

legittimizzazione32.

Dimenticata la politica, la democrazia è ricondotta ad una semplice forma di

società che nasconde il dominio delle oligarchie economiche, mentre ciò che in

origine è, ‘il governo di chinuque’, diventa oggetto di odio da parte di tutti coloro

che presentano dei titoli per governare e che fanno di questo sentimento lo

strumento per trasformare le questioni politiche in questioni di società.

Quello che Rancière fa, allora, è disincorporare la democrazia dallo Stato,

dal momento che essa è realtà di un potere popolare che non potrà mai coincidere

con una forma di Stato, per dimostrare come essa, ricondotta al suo significato

originario, sia ciò che manifesta l’evento che rende visibile i senza parte.

Contrariamente alla visione rancièriana, Badiou sostiene che la democrazia

invece sia espressione dell’assoluta assenza di questo evento.

Per capire tale osservazione, analizziamo alcuni aspetti che avvicinano e al

tempo stesso allontanano i due filosofi francesi.

Entrambi sostengono il carattere discontinuo e rarefatto dell’emergenza

della vera politica, nonché la sua eterogeneità rispetto al perimetro delineato dalle

istituzioni statali. Tuttavia, il punto di maggior distacco fra il loro pensiero sta

nella determinazione ontologica dell’evento. Per Rancière, a determinare le

condizioni di possibilità per la manifestazione del dissidio originario, è la logica

del Due: politics e police sono autonome, sebbene sia la prima a determinare le

modalità e i tempi per l’emancipazione dei senza parte. Per Badiou, invece, solo il

molteplice ha una consistenza ontologica e questo si presenta attraverso la rottura

dell’Uno e di qualsiasi processo di unificazione.

32

J., Rancière, Il disaccordo, pagg. 124-125

Page 49: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

49

Ecco dunque spiegato perché Badiou identifichi la democrazia con la

mancanza dell’evento, perché essa non è che “il dominio dell’Uno nella forma

adeguata alla circolazione capitalistica, ovvero come presenza di corpi e di

opinioni su un piano di indifferenza, governati dal linguaggio del diritto statuale e

del cosmopolitismo dei diritti umani, ovvero dell’uomo come animale mortale –

mentre secondo Badiou ogni processo di verità è un’esperienza dell’inumano”33.

Ritornando a Rancière, egli prova ad individuare, all’interno dell’intervallo

che fonda la police, lo spazio per un intervento politico. Il pericolo che sa di

correre, però, è che la manifestazione dei non contati venga normalizzata,

attraverso l’inclusione nel conto delle parti.

La conclusione a cui possiamo pervenire, dunque, seguendo il filo delle sue

argomentazioni, è che, condizione necessaria affinché ci sia democrazia, come

realizzazione della politica vera, perché unico dispositivo capace di rimettere in

gioco i rapporti politici e di riattivare le procedure del dissenso, è la presenza

costante della forza del demos. Sarà sempre necessaria quella parte dei senza-

parte che chieda di emergere e di essere visibile all’interno di uno stato,

apparentemente fondato sull’uguale uguaglianza di tutti.

Questo farebbe pensare che allora le disuguaglianze, di fatto esistenti nelle

società odierne, debbano obbligatoriamente esserci se si vuole avere una lotta per

la ridefinizione della legge di esclusione e l’affermazione, in ultima istanza, della

politica. Il rischio, sempre maggiore, a cui però la democrazia va incontro è di

cadere vittima dello Stato consensuale, ridotto ad un complesso di ruoli che

seguono, fino ad esserne subordinati, le funzioni del mercato, e in cui lo stato

trova la sua gloria e legittimizzazione nello svolgerli nel modo più efficiente

possibile.

Il problema della visione rancièriana, quindi, può riassumersi con la critica

che gli muove Badiou nel settimo capitolo della Metapolitica34. Rancière ci dice

chiaramente cosa la politica non deve essere, cioè mera amministrazione,

33

S., Visentin, Verità e visibilità della politica di Rancière e Badiou, cit., pagg. 222-223 34

A., Badiou, Metapolitica, pag. 127

Page 50: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

50

assegnazione di posti e funzioni predeterminati, regolazione e controllo della cosa

pubblica; ci dice anche cosa deve essere, cioè manifestazione di un un torto

originario attraverso la costituzione di un luogo polemico che fa convivere

l’uguaglianza e la sua assenza. Ma non in maniera altrettanto palese, sa dirci come

essa si presenti nella realtà e ancor meno cosa sia nostro dovere fare per metterla in

pratica.

L’unica certezza è che la politica è sempre possibile, perché non esistono

condizioni perché sia impossibile; il fatto è, però, che non si tratta di qualcosa di

imminente.

Rancière, abbiamo visto, in sostanza, ritiene che si possa parlare di politica,

e dunque di democrazia, quando gli esclusi sono in grado di affermare sé stessi in

termini universali. Ma bisogna capire cosa gli faccia credere che persista ancora

questo principio, oggi o nei futuri conflitti politici. Come gli viene fatto notare,

nell’ambito di un’intervista35, è difficile poter immaginare una genuina

concezione di universalità, ad esempio nella società americana, dove le persone

sono coinvolte nei conflitti tra l’astratto potere del mercato e i vari movimenti

comunitari ed identitari. A ciò risponde, che proprio per questo la società

americana si possa a malapena definire una comunità politica, perché essa ruota

attorno ad un sistema totalmente strutturato attorno all’appartenenza e alla

proprietà e ai diritti legati a quell’appartenenza. E questo, per Rancière, definisce

una concezione di comunità più etica che politica. Ma tale visione, egli precisa,

non deve necessariamente comportare disastrose conseguenze. È solo una

questione di definizione: è politica quella società che autorizza forme di

soggettivizzazione da parte di chi è stato escluso dal conteggio delle parti. Questo,

però, non deve implicare una categoria visibile che si identifichi come la classe

‘degli esclusi’ e che pretenda di identificare la comunità con sé stessa, perché in

questo caso si tornerebbe all’etica. Non si dimentichi, infatti, che è proprio la

visibilità rappresentativa dello Stato a saturare ogni spazio politico e a decidere

35

J., Rancière, Politics and Aesthetics, intervista di Peter Hallward, Angelaki 8:2, 2003

Page 51: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

51

cosa far apparire o scomparire dalla scena pubblica36. Semplicemente, la politica

giace laddove c’è una simbolizzazione propriamente politica della comunità. Allo

stesso modo, la democrazia, che non è né una forma di potere né una forma di

vuoto di potere, si configura piuttosto come una forma simbolica di potere

politico, come la vera esistenza della politica, perché espressione di un potere

paradossale, cioè quello di chi non ha legittimità per governare. Se la democrazia

è innanzitutto “una pratica, un agire, e non un ordine a parte e sostanziale di

fenomeni distinti dal sociale”37, agli occhi di Rancière, questo significa che le

istituzioni di potere possono o non possono essere corredate dalla vita

democratica. Le stesse forme parlamentari, che per noi oggi sono espressioni

democratiche, possono effettivamente dar luogo alla democrazia, attraverso la

soggettivizzazione della differenza tra comunità e non comunità, oppure, al

contrario, possono essere strumenti per la riproduzione del potere oligarchico38. È

importante precisare, tuttavia, che Rancière non predica la spontaneità contro

l’organizzazione della società, contrariamente a quello di cui l’accusa Badiou. Per

quest’ultimo, infatti, Rancière omette di dire che ogni processo politico si mostra

come processo organizzato e si limita a confrontare delle masse fantasma con uno

Stato innominato. Mentre, per Badiou, la situazione reale sta nel confronto tra rari

militanti politici -figure totalmente assenti nel pensiero rancièriano-, e l’egemonia

democratica dello Stato parlamentare39. Abbiamo già chiarito, però, il fatto che

l’anarchia rancièriana si riferisca strettamente alla concezione di una politica

senza un arché, nel senso greco del termine. Rancière, infatti, ritiene che le forme

di organizzazione e le relazioni d’autorità siano comunque da istituire e ammette

anche la possibilità che la politica possa avere a che fare con il potere e la sua

implementazione; semplicemente, però, potere e politica non sono né coincidenti

36

S., Visentin, Verità e visibilità della politica di Rancière e Badiou, pagg. 206-207, in AA.VV., Verità ideologia e politica, Edizioni Cronopio, Napoli, 2009 37

B., Magni, Tra accordi legittimi e disaccordi insuperabili, cit., pag. 238, in Roberto de Gaetano (a cura di), Politica delle immagini. Su Jacques Rancière, Cosenza, Pellegrini Editore 38

J., Rancière, intervista di Peter Hallward, Politics and Aesthetics, Angelaki 8:2, 2003 39

A.,Badiou, Metapolitica, pag. 140

Page 52: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

52

né le due facce di una stessa medaglia.

Concludendo, si può dire che, diversamente da quanto sostenuto da Badiou,

in qualche modo Rancière sa dirci come attuare la politica. Se i partiti politici di

oggi sembrano finalizzati alla sola acquisizione del potere, allora, per il filosofo

francese, una rinascita politica passa solo attraverso l’esistenza di organizzazioni

collettive che si sottraggono a questa logica, definendo i propri mezzi ed obiettivi

in maniera autonoma rispetto alle agende statali. Questo non significa che se ne

debbano disinteressare, ma che si debbano creare una propria dinamica che abbia

finalità diverse da quelle della presa del potere40. A questo punto, però, dal

momento che la politica non è esercizio di potere, Badiou gli muove un’altra

critica: “stabilire una distanza dallo stato tale che alcune prescrizioni che lo

riguardano siano possibili da un luogo diverso da esso esige che ci si dichiari

estranei allo Stato parlamentare, al rito elettorale e ai partiti”41. Ma non giungendo

ad una simile dichiarazione, Rancière trasforma le considerazioni sul supplemento

e sull’interruzione del conto, in motivi ideologici perfettamente compatibili con la

logica degli stati parlamentari42.

40

J, Rancière, intervista di Gebriel Pecot, Hablar de crisis de la sociedad es culpar a sus víctimas, quotidiano online “Público.es”, dicembre 2010 41

A.,Badiou, Metapolitica, cit.,pag. 137 42

ivi, pag., 137

Page 53: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

Parte Seconda

IL SOGGETTO DEI DIRITTI DELL’UOMO

Page 54: Jacques Rancière: la politica dei senza parte
Page 55: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

55

CAPITOLO 3 I DIRITTI UMANI COME I DIRITTI DELL’UOMO POLITICO

« I tempi della democrazia militante hanno attribuito ai diritti umani

tutto il potere di cui possono disporre: il potere dell’inclusione ugualitaria,

cui va ad aggiungersi quello della sua argomentazione

e della sua manifestazione nella costruzione di casi di conflitto. »

(J., Rancière, Il disaccordo)

Nell’ottica rancièriana, i diritti dell’uomo configurano dispositivi in grado di

tenere aperta la forma politica e capaci di creare quelle situazioni di conflitto, che

la modernità invece, con il suo presupposto basilare dell’individualismo, ha

cercato di neutralizzare.

Infatti, se spostiamo il nostro punto di partenza verso una concezione

dell’uomo non atomistica, ma relazionale, il conflitto appare una modalità

dell’umano. La questione, dunque, sta nel riconoscerne l’esistenza e nel capire in

che modo rapportarsi ad esso politicamente. Gli uomini sono chiamati ad

interrogarsi sulla giustezza della struttura della forma politica, sul giusto del loro

stare insieme. Ed è proprio nel porsi simili interrogativi che potrebbe sfociare un

conflitto, che tuttavia non va disinnescato, se non si vuol perdere ciò che è

peculiare dell’uomo. Al contrario, Hobbes, e la modernità con lui, riuscì a

disattivare questa domanda sulla giustizia, affermando che la legge è giusta per

natura e chiedendosi piuttosto come amministrare al meglio una società che non

può essere ingiusta, semplicemente perché il dibattito su ciò che è giusto od

ingiusto è confinato nell’ambito della sfera privata, che è depoliticizzato ed

indifferente agli occhi dello Stato. Ma tralasciare la questione della giustizia, a

vantaggio di quella sulla buona amministrazione, far prevalere la police sulla

politics, in termini rancièriani, significa limitarsi a riprodurre la struttura della

forma politica fino ad assolutizzarla, esattamente come fanno gli animali. Dunque,

primo diritto tra tutti è quello dell’essere umano di essere umano, e questo

Page 56: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

56

significa diritto a confliggere di fronte ad una relazione asimmetrica che può

essere costantemente ingiusta.

Una simile argomentazione comporta una riconsiderazione di chi sia il

soggetto dei diritti dell’uomo, dal momento che non esistono individui che vivono

ed agiscono astrattamente dal rapporto in cui sono inseriti. Ciò significa elaborare

una nuova politica dei diritti umani, che si discosti da quella dell’ originaria

matrice moderna, che aveva prodotto i presupposti per poter parlare di tali diritti,

e cioè il dualismo fra sfera pubblica e privata, la depoliticizzazione di

quest’ultima e l’esistenza di un individuo libero ed uguale, ma anche passivo e

potenziale vittima di uno Stato che, così come ha posto quei diritti come limiti nei

confronti della propria gewalt, può anche deporli ed agire fino a deprivare

l’individuo della sua soggettività giuridica.

Ripercorrendo brevemente la storia dei diritti umani1, emerge il divario fra

la celebrazione che ne fa il pensiero liberale e il loro rigetto da parte del marxismo

e la loro insita contraddizione tra strumenti che da un lato possono proteggere ed

emancipare e dall’altro dominare e controllare.

Fu durante il feudalesimo, quando ancora potere politico, benessere

economico e status sociale coincidevano, che la nascente classe borghese, per

assicurarsi la propria ascesa ed il trionfo dei principi capitalistici, rinunciò

all’esercizio diretto del potere politico, ponendo fine a quest’identificazione del

dominio economico col comando politico. La politica risultò allora confinata nel

dominio dello Stato, mentre la proprietà e la religione venivano spostate in

istituzioni private della società civile e protette dall’intervento statale tramite

l’operazione dei ‘diritti naturali’. Dopo tale separazione, lo Stato appariva

politicamente dominante, mentre il reale potere, di natura economica, giaceva

nelle società capitalistiche. In questo contesto, i diritti naturali furono

appannaggio dell’egoismo e del profitto privato, mentre le divisioni sociali

vennero temporaneamente dimenticate dalla limitata partecipazione cittadina alla

democrazia formale. Da quel momento, l’individuo ha iniziato a condurre

un’esistenza schizofrenica, sdoppiata, una in cui è alla ricerca del proprio

1 C., Douzinas, Human rights and empire: the political philosophy of cosmopolitanism, Abingon:

Routledge Cavendish, 2007, pag. 102 e a seguire

Page 57: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

57

interesse economico ed una in cui è devoto all’attività politica e alla ricerca del

bene comune. Ma risulta ben evidente la subordinazione dei diritti del cittadino

politico (droits du citoyen) agli interessi del capitalista, presentati nella forma dei

diritti naturali, gli attuali droits de l’homme.

Sarà Marx ad accorgersi di questa doppia vita, una celeste nella comunità

politica, in cui ci sente come collettivo, ed una terrena, nella società civile, in cui

si agisce come uomo privato2. Egli attacca i diritti naturali e i loro presupposti,

primi fra tutti la libertà e l’eguaglianza, considerati come finzioni ideologiche

emanate dallo Stato e sostenute da una società che poggia sulle disuguaglianze,

l’oppressione, lo sfruttamento. Argomenta come, nonostante i diritti naturali siano

presentati come simbolo di umanità universale, sono, in realtà, strumenti nelle

mani del particolare, del borghese capitalista. L’uomo astratto delle dichiarazioni

ha perso tutti quelli elementi che lo rendono una persona reale, perché genere,

sesso, colore, etnia, storia sono stati sacrificati all’altare dell’astratta umanità; ma

questo universalismo nasconde il vero soggetto dei diritti, cioè un umano troppo

umano, un membro della borghesia, cioè un uomo egoistico, separato dagli altri

uomini e dal resto della comunità, un monade isolato che vede l’altro come una

minaccia3.

Il crollo dell’impero sovietico, tuttavia, segnò una sorta di rivincita dei

diritti umani, nonostante il loro formalismo, denunciato da Marx. Essi apparvero

come portatori di un pacifico mondo poststorico, dove la democrazia globale

sarebbe corrisposta al mercato globale dell’economia liberale. La realtà fu ben

diversa, in quanto il panorama dell’umanità, liberato dal totalitarismo, divenne la

scena dello sfogo di nuovi conflitti etnici, fondamentalismi religiosi, movimenti

razziali e xenofobi4.

Sebbene abbiano mancato alle proprie premesse, i diritti si sono estesi fino a

toccare ogni parte dell’esistenza umana e la democrazia si è presentata come

2 K., Marx, Sulla questione ebraica, in M., Tomba, (a cura di), Bruno Bauer, Karl Marx. La

questione ebraica, Roma, Manifestolibri, pag. 183, 2004 3 C., Douzinas, Adikia: On Communism and Rights, in Critical Legal Thinking, 30 novembre

2010, disponibile attraverso il sito: http://criticallegalthinking.com/2010/11/30/adikia-on-communism-and-rights/ 4 J., Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?, in South Atlantic Quarterly, 103: 2/3,

Duke University Press, pag. 297, 2004

Page 58: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

58

l’unico regime in grado di garantire l’esercizio di tali diritti, i quali rimangono

protezioni negative contro il potere statale di tutti i tipi e proiezioni positive dei

desideri individuali. Si potrebbe reclamare che i diritti tentino di legalizzare le

battaglie sociali, in quanto, una volta individualizzati i reclami politici, li

trascinano dentro una disputa tecnica che rimuove ogni possibilità di

cambiamento radicale e che perciò depoliticizza la politica. Facendo ciò, da una

parte andrebbero a riaffermare la struttura dominante, ma dall’altra

sottolineerebbero le ineguaglianze. Questa loro duplice azione richiama la

distizione police-politics di Rancière. Infatti, per il nostro filosofo, i diritti umani

costituiscono un buon esempio di politica radicale, e contrariamente ad Hannah

Arendt e a Giorgio Agamben, argomenta che essi appartengono non solo a

soggetti cittadini, ma anche a chi non avrebbe titolo per invocarli. Ma vediamo

nello specifico.

Nel ventunesimo secolo assistiamo alla nascita di una comunità mondiale

che reagisce alle atrocità perpetrate nel corso del secolo precedente, definito il

"secolo del genocidio", condannandole come paradigmi di un male che trascende

qualsiasi differenza culturale, religiosa ed ideologica e ponendo i fautori di tale

tragedie nella nuova categoria dell' 'inumano'5. I diritti umani, a loro volta,

divengono i diritti della vittima, di chi è incapace di fare qualsiasi rivendicazione

in loro nome, al punto da richiedere l'intervento altrui per una loro affermazione.

Essi assumono un valore prioritario rispetto al diritto alla pace e al principio del

tradizionale diritto internazionale alla non-interferenza, dando vita al suo esatto

contrario, al nuovo diritto all'interferenza umanitaria, divenuto sempre più diritto

all'invasione6. La comunità mondiale è chiamata ad intervenire laddove può

prevenire il ripetersi nel XXI secolo di quelle inumanità che non è stata capace di

evitare nel secolo precedente. Ma questa maniera di presentare il discorso sui

diritti umani appare piuttosto come il tentativo, da parte delle grandi potenze, di

legittimare la loro visione del mondo, che abbraccia tanto il capitalismo quanto

l'umanitarismo, e che rende i diritti dell'uomo il pilastro fondante di un nuovo

5 R., Meister, After Evil. A Politics of Human Rights, New York, Columbia University Press, 2011,

pag. 1 6 J., Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?, pag. 297

Page 59: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

59

ordine globale costruito sull'imperialismo e il nazionalismo7. Proprio lo

slittamento da Uomo ad Umanità, da Umanità ad Umanitario, spinge Rancière a

chiedersi chi sia l'attuale soggetto dei diritti umani. Il collasso del sistema

sovietico e quello che ne era seguito, non permetteva di far rivivere la critica di

Marx. Però, egli rivisita quella secondo cui l' 'uomo' delle dichiarazioni è una

mera astrazione, in quanto unici titolari dei diritti sono i cittadini, legati ad una

comunità nazionale. Tale sospetto viene sollevato la prima volta dall'inglese

Edmunde Burke contro la rivoluzione francese, affermando la necessità di

considerare l'individuo all'interno di una comunità e di un insieme di relazioni

concrete. Tale considerazione è ripresa dalla Arendt ne Le Origini del

Totalitarismo, in cui l'astrazione dei diritti umani è chiamata a fare i conti con la

concreta situazione degli apolidi e dei rifugiati, affluiti su tutta l'Europa dopo la

Prima guerra mondiale e deprivati dei loro diritti, semplicemente perché senza una

comunità nazionale che li garantisca loro. Ella afferma: "Il paradosso implicito

nella dichiarazione degli inalienabili diritti umani consisteva nel prendere in

considerazione un uomo "astratto", che non esisteva in nessun luogo..La questione

dei diritti umani si intrecciò ben presto con quella dell'emancipazione nazionale;

solo la sovranità del popolo, del proprio popolo, sembrò capace di garantirli. ...il

popolo, e non l'individuo, era l'immagine dell'uomo."8 E continuando: "i diritti

dell'uomo erano stati definiti inalienabili perché si presumeva che fossero

indipendenti dai governi; ma ora si scoprì che, appena gli individui perdevano la

protezione del proprio governo non trovavano nessuna autorità disposta a

garantirl(i)."9. Primordiale diritto umano, ancora più fondamentale del diritto alla

libertà e alla giustizia, è perciò il diritto all’appartenenza ad una comunità politica

e in definitiva il diritto alla politica stessa.

Se per Burke, i diritti umani erano ideali fantasiosi di sognatori

rivoluzionari, per la Arendt, dunque, sono solo i diritti dell'individuo privato,

povero, depoliticizzato, di chi non ha altro se non l'essere un umano. Mentre

7 R., Meister, After Evil. A Politics of Human Rights, pagg. 2-3

8 H., Arendt, The Origins of Totalitarianism, 1951; trad. it. Amerigo Guadagnin, Le Origini del

Totalitarismo, introduzione di Alberto Martinelli, Edizioni di Comunità, Milano, 1967, cit., pag. 404 9 ibidem

Page 60: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

60

Marx, ne La questione ebraica, guarda all’ideale di un cittadino libero ed uguale

membro della comunità politica come all’illusoria ed ideologica espressione di

una politica dell’uguaglianza che in realtà maschera la società delle ineguaglianze,

la visione arendtiana concepisce l’ ‘umano’ e non il cittadino come il simbolo di

un’illusione e di una mera astrazione.

Ad unificare le due critiche dei diritti dell’uomo è l’assunzione che la

politica deve avere uno ed un solo principio10. Per questo, essi cercano di risolvere

il carattere schizofrenico della vita dell’uomo e del cittadino opponendo

l’illusione alla realtà, l’astrazione dell’uomo alla realtà del cittadino e viceversa.

Per l’uno, il soggetto dei diritti è il borghese e i diritti di cittadinanza servono solo

ad occultare l’ordine dominante; per l’altra, è il cittadino, mentre il discorso sui

diritti umani offusca il fatto che solo l’appartenenza alla comunità politica

permette di avere diritto su tutto. Rancière, al contrario, non individua alcun

determinato soggetto, ritenendo il vero titolare colui che emerge nell’intervallo fra

umano e cittadino.

Inoltre, per Rancière, l’aporia dei diritti umani diagnosticata dalla Arendt è

più un prodotto del presupposto ontologico su cui ella basa la sua analisi, piuttosto

che un aspetto caratterizzante della situazione degli apolidi11. Contrariamente ad

Aristotele e alla Arendt che vi fa riferimento, il filosofo francese insiste nel

ribadire che sia un errore politico dedurre cosa significhi condurre una vita

pienamente umana dalla comprensione dell’umano come animale parlante.

Quando gli esclusi vanno ad usurpare i privilegi del logos, si scoprono, nella

trasgressione, come esseri parlanti con una voce, una parola che non esprime solo

il bisogno, il piacere e il dolore, come gli animali, ma che manifesta anche

l’intelligenza e la capacità di riconoscere il giusto e l’ingiusto. Proprio il

presupposto dell’uguaglianza fra gli esseri parlanti, come visto nel primo capitolo,

porta Rancière a concepire la politica come la creazione di un dissenso in cui chi

non ha parola si fa ascoltare come animale politico. Ne segue che l’umano dei

‘diritti umani’ non corrisponde necessariamente ad una forma di vita nuda, ma è 10

J., Rancière, Democracy, Republic, Representation, in Constellations, volume 13 (3), settembre 2006, pag. 306 11

A., Schaap, Enacting the Right to Have Rights: Jacques Ranciere’s critique pf Hannah Arendt, in the European Journal pf Political Theory, volume 10 (1), 2011, pag. 2

Page 61: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

61

un nome polemico da invocare per asserire l’uguaglianza. La Arendt considera i

diritti una precondizione della politica, dal momento che istituzionalizzano

un’uguaglianza formale, costitutiva della sfera pubblica; all’opposto per Rancière

la politica si ha contestando l’esclusione dei senza-parte proprio mettendo in atto

il dispositivo dell’uguaglianza. Perciò, l’ ‘umano’ non è espressione di una vita

senza politica, ma un carattere polemico che revoca ogni differenza tra chi ha i

titoli per partecipare al governo della cosa pubblica e chi non ce li ha.

Vediamo come, anche se entrambi studiano le condizioni di possibilità per

la divulgazione di nuovi ordini sociali, di fatto le loro affinità si interrompano qui,

mentre le differenze emergono chiaramente proprio nel significato politico, che

ciascuno, secondo la propria prospettiva, attribuisce al movimento dei sans

papiers. Nella prospettiva arendtiana, la lotta dei sans papiers per il diritto ad

avere diritti va interpretata come una battaglia per la liberazione che stabilirebbe

le condizioni di possibilità per la realizzazione della libertà; essa ha a che fare con

la vittoria dei diritti civili necessari per la partecipazione politica. Rancière,

all’opposto, identifica tale battaglia come un’esemplare azione politica proprio

perché i sans papiers attuano il diritto di avere diritti e, in ultima istanza, la loro

uguaglianza politica12.

La concezione arendtiana appare totalmente in accordo con la sua posizione

archipolitica e con la rigida opposizione che ella pone fra sfera politica e privata.

Il nostro filosofo teme che tale opposizione crei un regno esclusivo da cui le

persone debbano essere tenute lontane e che con l’esclusione del regno delle

questioni private, economiche e sociali dal regno della politica, la Arendt

depoliticizzi la politica, le questioni di potere e di repressione, inserendole in una

sfera di eccezionalità, che non è più politica, ma di antropologica sacralità. Il

ribaltamento dall'approccio archipolitico ad uno depoliticizzante è ancora più

chiaramente illustrato dalle teoria di biopolitica di Agamben nell' Homo Sacer.

Nelle sue teorizzazioni, egli combina il controllo sulla vita di Foucault, che

oppone il moderno biopotere all'antica sovranità, con lo stato di eccezione di

Schmitt, che reputa sovrano solo quel potere che decide in una condizione di

12

A., Schaap, Enacting the Right to Have Rights: Jacques Ranciere’s critique pf Hannah Arendt, pag. 22

Page 62: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

62

eccezionalità, in cui la normale legalità è sospesa. Così facendo, lo stato

d'eccezione viene identificato col potere di decidere sulla vita. I diritti dell'uomo

allora rendono la nascita come il principio di sovranità. Quest'equazione sarebbe

stata nascosta dall'identificazione fra la nascita e la nazionalità, cioè dalla figura

del cittadino. Ma il flusso di rifugiati del XX secolo avrebbe strappato il velo della

nazionalità e fatto apparire la nudità della vita, che non è più la vita del soggetto

che si vorrebbe reprimere o del nemico che si vorrebbe uccidere, ma è una vita

sacra, all'interno di uno stato d'eccezione, al di là dell'oppressione, una vita tra la

vita e la morte.

La polarità della nuda vita e dello stato d'eccezione appare una sorta di

destino ontologico, in quanto ciascun individuo potrebbe ritrovarsi nella

condizione di rifugiato in un campo. Per questo, Rancière ritiene che se si vuol

uscire da questa trappola ontologica, bisogna reimpostare la questione del

soggetto dei diritti dell'uomo.

Alle alternative della Arendt, secondo cui, o i diritti del cittadino sono i

diritti dell'uomo, che a loro volta sono i diritti della persona depoliticizzata, di chi

non ha diritti, oppure i diritti dell'uomo sono i diritti del cittadino e dunque di chi

ha uno Stato e dei diritti, Rancière avanza una terza ipotesi: "the Rights of Man

are the rights of those who have not the rights that they have and have the rights

that they have not."13. La relazione che si instaura tra il titolare e i suoi diritti è

piuttosto complessa, in quanto passa, ci dice il filoso francese, tramite una doppia

negazione ed il vero soggetto è il processo di soggettivizzazione, che colma

l'intervallo tra due diverse forme di esistenza di tali diritti. Abbiamo già visto,

infatti, come all'iscrizione, che afferma la libertà e l'uguaglianza, e che non va

considerata come l'enunciazione di ideali astratti, perché essa è comunque una

forma di visibilità di tali principi, si accompagni la dimostrazione, fatta da chi,

non solo decide di usare i propri diritti, ma sottopone quell'affermazione scritta ad

un test di verifica. Quello che si va a testare non è solo la corrispondenza o meno

della realtà di fatto ai diritti dichiarati, ma il significato a cui si perviene. I diritti

sono dei predicati politici che il surplus, i senza parte usano per aprire una disputa

sulle regole di inclusione. 13

J., Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?, cit., pag., 302

Page 63: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

63

Le dichiarazioni rivoluzionarie sono politiche perché forgiate dalla domanda

politica degli esclusi (senza voto, donne, schiavi). Per cui, leggendo le

dichiarazioni del 1789 o del 1793 come pratiche in atto di emancipazione, i diritti

enunciati appaiono non solo garanzie giuridiche, ma vettori naturali di dinamiche

che disordinano l'ordine costituito.

Rancière, a riguardo, presenta alcune vicende emblematiche, partendo dal

presupposto, contrario a quello arendtiano, che sia poco facile tracciare una linea

di perfetta demarcazione tra sfera privata, nuda vita e sfera pubblica. Lo dimostra,

durante la rivoluzione francese, la rivoluzionaria Olympe de Gouges. Nonostante

la Dichiarazione dei diritti affermasse l'uguaglianza e la libertà di tutti gli uomini

dalla nascita, nei fatti, le donne non potevano votare né essere elette, perché

destinate fatalmente alla vita privata e domestica. Eppure c'era almeno una

circostanza in cui la loro nuda vita si dimostrava politica: se un potere

rivoluzionario poteva condannarle a morte, allora anche la loro nuda vita era

politica. Per questo, Olympe dichiara polemicamente che se le donne avevano il

diritto di andare al patibolo, lo avevano anche per partecipare alla vita politica. Ed

è proprio sulla constatazione dell’ inesistente uguaglianza, che ella redige nel

1791 una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, prendendo sul

serio l'eccedenza politica della dichiarazione francese del 1789 rispetto a quanto

enunciato. La partecipazione politica delle donne francesi è già data nel momento

in cui contestano l'ordine vigente, praticando, secondo Rancière, la vera

democrazia, attuata "lavorando sull'intervallo fra le identità, riconfigurando le

distribuzioni del pubblico e del privato, dell'universale e del particolare"14. Per

agire come soggetti politici, capaci di inscenare casi di verifica, le donne potevano

appellarsi alla dichiarazione che prevedeva i diritti di cui non godevano, e al

tempo stesso dimostrare, attraverso la loro pubblica azione, di avere quei diritti

che la costituzione negava loro. Una politica dei diritti umani non si verifica

quando una collettività determinata di individui pretende di essere inclusa tra in

cittadini di un particolare stato democratico. Piuttosto, si ha nel momento in cui

una nazione di cittadini comporta l’esistenza dei sans papiers come un’entità.

Perciò, alla stessa maniera delle donne, l’entità dei sans papiers è la parte che non 14

J., Rancière, L’odio per la democrazia, cit., pag., 69

Page 64: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

64

ha parte nella comunità politica, sia perché, essendo privi di documenti, non

hanno diritto di soggiornare in quel territorio, sia perché la loro designazione di

immigrati irregolari stabilisce i termini secondo cui essi sono soggetti alla

regolazione come popolazione dentro uno stato15

I diritti dell'uomo sono perciò i diritti del demos, del generico soggetto

politico che agisce mettendo alla prova il potere dei nomi politici, la loro

estensione e comprensione. Ma questo processo scompare quando i diritti si

assegnano ad un unico e stesso soggetto. Infatti, se si presuppone che i diritti

appartengono a soggetti definiti e permanenti, si deve necessariamente pervenire

alla stessa conclusione della Arendt, cioè che i diritti reali sono quelli dati ai

cittadini e garantiti dalla protezione statale. E questo identificare il soggetto dei

diritti dell'uomo con il soggetto privato, e quindi depoliticizzato, è il frutto di un

altro processo di depoliticizzazione che, come già visto, Rancière chiama

'consenso'. I regimi consensuali dei nostri giorni non fanno altro che estromettere

l'eccesso politico, trasformare i conflitti in meri problemi da gestire con

competenze tecniche e mettere dei cerotti per coprire l'intervallo esistente tra

realtà di legge e di fatto. Il consenso ha ridotto la democrazia al modo di vivere

della società, al suo ethos. Ed è essenzialmente contro l'operazione consensualista

che il nostro filosofo ribadisce e vuol far rivivere la grande portata rivoluzionaria

dei diritti dell'uomo, i cui enunciati non sono qualità che le persone hanno in sé

dalla nascita, ma predicati politici da far valere polemicamente di fronte alla

constatazione della discrepanza tra dichiarazione del principio e negazione

fattuale. Tuttavia, il teorico di diritto Coustas Douzinas nota come in questo

tentativo rancièriano di salvare i diritti umani per una politica radicale ci sia

qualcosa di problematico. I diritti umani sono lo strumento quotidianamente e

maggiormente utilizzato proprio da quella politica consensuale, che Rancière

denuncia. In un contesto di iper-regolamentazione capace di tenere sotto controllo

qualsiasi causa di conflitto reale e di produzione incessante ed espansiva di diritti,

che vanno ad annullare ogni dissimmetria tra gli individui, i diritti umani, anziché

15

A., Schaap, Enacting the Right to Have Rights: Jacques Ranciere’s critique pf Hannah Arendt, pag. 17

Page 65: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

65

sfidarlo, non fanno che riconfermare il prestabilito ordine giuridico-politico. Essi,

dice Douzinas, stabiliscono relazioni intersoggettive garantendo un

riconoscimento minimo ad identità multiple; codificano i presupposti

dell'ideologia liberale, la libertà limitata e l'eguaglianza formale; sono

l'espressione di qualsivoglia desiderio individuale16. La maggior parte delle

rivendicazioni fatte oggi, in nome dei diritti umani, rinforzano, più che

sconvolgere, l'assetto esistente. Esse, infatti, non contestano la distribuzione delle

parti, ma hanno come scopo quello di includere nuovi soggetti in quella

determinata partizione. L'ammissione, anche solo periferica, operata tramite il

diritto, trasforma il conflitto sociale e politico in questione tecnica e dunque, di

totale dominio della police. Visti in tal senso, i richiedenti diritti sono esattamente

l'opposto degli attori politici rancièriani, che invece agiscono proprio per

trasformare l'intera bilancia, l'arrangiamento politico e le distribuzioni socio-

economiche. Anche se le battaglie per i diritti umani fanno emergere le

disuguaglianze, la dominazione e l'oppressione, alla fine portano però solo a

miglioramenti e riarrangiamenti modesti, perché lo scopo di queste lotte è di

ottenere riconoscimento e limitata redistribuzione. I diritti sono il premio per

l'accettazione dell'ordine dominante e a poco servono, invece, per chi voglia

scompaginarlo. Ma in fondo anche Rancière sa che sono finiti ormai i tempi della

democrazia militante, capaci di attivare una serie di forme polemiche, attribuendo

ai diritti umani tutto il potere di cui possono disporre. In un contesto in cui ormai

lo spazio politico diminuisce giorno dopo giorno, i diritti umani sembrano non

servire a nulla e si fa di essi ciò che le persone caritatevoli fanno dei loro vestiti

vecchi: si danno ai poveri17. Diventano i diritti degli uomini nudi, sottoposti a

repressione e a condizioni di esistenza inumana; diventano diritti umanitari di chi

non è in grado di attuarli, finché non lo fa qualcun altro in suo nome. D'accordo

con il nostro filosofo, anche Badiou ritiene che la vivace promozione dei diritti

dell'uomo e degli interventi umanitari in realtà abbiano come unico vero scopo

16

C., Douzinas, Human Rights and Empire: The Political Philosophy of Cosmopolitanism, Abingon: Routledge Cavendish, 2007, pag. 107 17

J., Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?, pag. 307

Page 66: Jacques Rancière: la politica dei senza parte

66

quello di farla finita con l'idea stessa di politica di emancipazione18. Dice

Rancière, "il regno dell'umanitario prende il suo avvio quando i diritti umani sono

privati di ogni capacità polemica di rendere singolare il loro essere universale"19.

L'avente diritto non è che la figura patetica della vittima di un boia che gli nega

l'umanità. Nell'età dell'umanitarismo, la riflessione sulla vittima assoluta

compromette il processo polemico e, a tal proposito, Rancière porta l'esempio

dell'espressione 'ebreo-tedesco', che non è più un nome a disposizione della

soggettivizzazione politica, ma un'identità che, rinviando direttamente alla vittima

del crimine contro l'umanità, nessuno potrebbe rivendicare senza compiere un

sacrilegio20. Le nuove ondate di razzismo e xenofobia presenti in Francia, come

nel resto d’Europa, sono interpretate dal nostro filosofo non come conseguenze di

problematiche sociali, ma come l’effetto del collasso della politica come politica

dell’altro. Vent’anni fa era ancora possibile definirsi ‘ebreo tedesco’ perché si era

nella logica del nome del ‘torto’, nella cultura politica del conflitto. Ora, invece,

abbiamo solo nomi del ‘giusto’ e siamo, dice Rancière, europei e xenofobi21.

L'assolutizzazione della vittima e il nuovo paradigma dell'attivismo per i diritti

umani, consistente nel 'salvare' chi soffre, anche se questa sofferenza è inflitta nel

nome di una rivoluzione, ha come effetto quello di considerare chi resiste o chi

attacca i 'salvatori' non più come combattenti per la libertà, ma come nemici e

violatori dei diritti umani22. La legittimazione dei diritti umani e soprattutto di un

potere che li garantisca passa necessariamente, dunque, attraverso

l'ontologizzazione di un 'Male' che vi si opponga. Nell'epoca dell'umanitarismo,

per ripensare al nuovo significato dei diritti, bisogna riconsiderare in primo luogo

il 'Male'. La questione di questo ripensamento si pone dopo il crollo dell'impero

sovietico, perché la comparsa delle nuove forme razziali e di odi religiosi ha reso

difficile assegnare i crimini contro l'umanità ad ideologie specifiche. Essi

18

A., Badiou, Abrégé de Métapolitique, Éditions du Seuil, 1998 ; trad. italiana 2001, Metapolitica, Napoli, Edizioni Cronopio, pag. 137 19

J., Rancière, La Mésentente. Politique et Philosophie, Paris, Éditions Galiléè, 1995; trad. it, Il disaccordo, Roma, Meltemi editore, 2007, pag. 135 20

ivi, pagg. 136-137 21J., Rancière, Politics, Identification, and Subjectivization, in October, volume 61, 1992, pag. 63 22

R., Meister, After Evil. A politics of Human Rights, pag. 20

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67

sembrano sfociare da un male che non può più concettualizzarsi nell'opposizione

democrazia-antidemocrazia, stati legittimi-stati illegittimi, perché appare invece,

sempre più, come un male assoluto. Espressione di questo male impensabile e

irrimediabile è la nuova categoria dello 'inumano'. È Carl Schmitt, senza

immaginare le ripercussioni che la sua argomentazione avrebbe avuto sul discorso

dei diritti umani, a dirci che invocare l'umanità significa negare al nemico la

qualità di essere umano ed estrometterlo quindi dall'umanità stessa. E contro

l'estrema inumanità ogni guerra può essere condotta, anche quelle di aggressione

portate avanti dagli Stati Uniti, purché non si descrivano in questa maniera e si

presentino, invece, come tentativi di riscatto delle vittime dei crimini contro

l'umanità23. L' 'inumano' è la diversità, la parte in noi che ci sfugge al controllo; è

l'alterità indomabile di un essere umano che è un ostaggio, uno schiavo, come dice

Lyotard24; è ciò che la teodicea di un male assoluto tenta di domare. Combattere

per sconfiggerlo legittima il diritto all'interferenza umanitaria, assunto a presunto

beneficio delle vittime, diritto che in realtà maschera la deroga che le grandi

potenze fanno alla sovranità statale e al principio di non ingerenza con la scusante

di agire per la tutela internazionale dei diritti dell'uomo. Rancière descrive tale

diritto come una specie di " restituzione al mittente": chi soffre una repressione

inumana non è in grado di porre in essere i diritti che li sono stati inviati, perciò li

restituisce al suo mittente. Ma in questo movimento avanti e indietro, i diritti

umani diventano i diritti della vittima assoluta, che subisce un male assoluto.

Pertanto, “the rights that come back to the sender – who is now the avenger - are

akin to a power of infinite justice against the Axis of Evil”25. Una giustizia infinita

non è solo l'emblema di una giustizia che respinge i principi cardini del Diritto

Internazionale ma è anche espressione dell'esistenza di un regime di giustizia

dualistico, per cui accanto all'impunità assoluta per le autorità militari e politiche

della superpotenze occidentali, macchiate di crimini internazionali, c'è una

giustizia dei vincitori che si applica agli sconfitti, ai deboli e agli oppressi, che

23

R., Meister, After Evil. A politics of Human Rights, pagg. 32-33 24

J-F., Lyotard. concettualizza la categoria dell’ ‘inumano’ nel saggio The Other’s Rights, in On Human Rights, ed. S. Shute e S. Hurley, New York, Basic Books, 1994 25

J., Rancière, Who Is the Subject of The Rights of Man, cit., pag. 309

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68

rappresentano però l' 'inumano', proprio nel bel mezzo dell'umanità, secondo

quanto argomenta Danilo Zolo26. Venute meno le distinzioni che definivano il

campo della giustizia in generale, tutto si è ridotto ad un puro conflitto etico tra

Bene e Male. La convergenza di due sfere, che dovrebbero rimanere distinte, cioè

quella giuridica e quella morale, comporta la conseguente polarizzazione del bene

da una parte, l'umanità da proteggere, e del male dall'altra, il criminale da

annientare. Sappiamo bene come per Rancière, l'intromissione dell'etica significhi

chiusura di tutti gli intervalli politici di dissenso, che vengono cancellati nella

lotta infinita tra Bene e Male. La tendenza etica, dice, è lo 'stato d'accezione', ma

non da intendersi alla maniera di Schmitt e di Agamben come piena realizzazione

della politica, piuttosto come l'eliminazione della politica attraverso i dispositivi

della polizia consensuale e della polizia umanitaria dei nostri giorni27. Noi oggi

viviamo in un contesto in cui il consenso nazionale ed internazionale è alimentato

dall’idea che il ruolo dell’invisibile e dei conflitti ad esso legati possono essere

riassorbiti da un’oggettivizzazione dei gruppi e dei loro interessi, dei popoli e di

chi li compone, degli equilibri della giustizia tracciati sulla mappa geopolitica del

mondo. Il problema è che questa felice identificazione tra la giustizia e

l’equilibrio riproduce incessantemente condizioni di disuguaglianza. Quel

dittatore, espressione del ‘Male’, contro cui si mobilitano gli eserciti per ristabilire

sia i diritti delle persone sia l’equilibrio di una regione del mondo, era fino al

giorno prima il buon, laico, progressista dittatore, necessario per la stabilità di

quella stessa porzione del globo che andava difesa contro altri ‘cattivi’ dittatori28.

Gli interventi formalmente messi in atto per ripristinare la ‘pace’ e riparare alle

violazioni dei diritti umani si sono rivelati, nella sostanza dei fatti, in tutto il loro

cinismo: essi non hanno fatto che marcare un’incommensurabile distanza che

separa il valore di una vita dal valore di un’altra vita, le vite dei contati dalle vite

degli esclusi, le vite dei soldati americani da quelle dei civili iracheni. Il loro

unico scopo è stato essenzialmente quello di ristabilire un’egemonia globale, in

26

D., Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad., Roma-Bari, Editori Laterza, premessa X, 2006 27

J., Rancière, Who Is the Subject of The Rights of Man, pag. 309 28

J., Rancière, K., Ross, Overlegitimation, in Social Text, numero 31/32, 1992, pag. 255

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69

crisi da diversi anni29, in poche parole, quella del più potente stato democratico.

Tutto ciò naturalmente non può non riportarci alla critica alle democrazie attuali e

alla necessità di ridefinirne il significato più genuino e vero. Proprio ciò che è al

cuore della democrazia, cioè la separazione tra istanze di legittimità, fa si che ci si

perda nel delirio della legittimizzazione, che identifica la legge assoluta con

l’esercizio di un super potere e che stabilisce forti legami di necessità tra legge,

potere e sapere30. Questo non fa che rendere sempre più labili i confini fra

democrazia e dispotismo. Concludendo questo discorso sui diritti dell’uomo, in

nessun luogo, secondo il nostro filosofo, il solo rapporto tra l’umanità e la sua

negazione può realizzare una comunità del conflitto politico. Il sentimento

dell’ingiustizia non basta da solo a creare un legame politico, per la semplice

identificazione che farebbe propria la disappropriazione dell’oggetto, perché serve

anche una disappropriazione delle identità, che rende un soggetto capace di

avviare il conflitto politico. La costruzione di casi universali è possibile fino a

quando la singolarità del torto, dice Rancière, sarà distinta dal particolarismo dei

diritti assegnati alla collettività, secondo la loro identità. E lo è ancor più quando il

suo essere universale è separato dalla globalizzazione della vittima. Se si vuol

capire, perciò, chi sia oggi il vero soggetto dei diritti dell'uomo e ripensare alla

politica, proprio di fronte alla constatazione della sua mancanza, il nostro autore

conclude dicendo che è necessario superare la concezione di una politica

identificata con un potere sempre più considerato uno storico e ontologico destino

da cui solo dio può salvarci. Riformulare una nuova politica dei diritti umani

significa, per Rancière, capire che non ci sono valori universali che trascendono le

identificazioni particolari, perché l’unico universale, in politica, è l’uguaglianza e

che l’universalità, a sua volta, non è racchiusa nella categoria del ‘cittadino’ o

dell’ ‘essere umano’; essa piuttosto si sviluppa nella sua attuazione pratica e

discorsiva31.

29

ivi, pag. 256 30

J., Rancière, K., Ross, Overlegitimation, in Social Text, numero 31/32, 1992, pag. 257 31

J., Rancière, Politics, Identification and Subjectivization, pag. 60

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71

CONCLUSIONI

Ripercorrere gli aspetti peculiari del pensiero politico di Jacques Rancière è

stato l’obiettivo che ha animato la stesura di questo testo.

Siamo partiti individuando i presupposti e gli assunti su cui poggia la

concezione politica rancièriana, trovando nell’uguaglianza, intesa soprattutto

come uguaglianza delle intelligenze, il fondamento su cui si costruisce tutta la sua

riflessione, anche quella legata all’estetica e all’arte. Tale concetto è stato

approfondito da esempi che Rancière riporta nelle sue opere, in particolare

l’apologo dell’Aventino e la libertà fattuale del demos ateniese, che dimostrano la

fine della distinzione aristotelica fra phoné e logos e l’appropriazione illecita della

libertà e dell’ uguaglianza. Ciò porta i senza parte, esclusi dalla sfera pubblica, ad

attestare la propria presenza come parte supplementare rispetto a quelle già

esistenti e già contate all’interno di un ordine prestabilito, che Rancière chiama

police. L’opposizione fra police e politics è l’elemento saliente della sua filosofia

politica. Si è visto che la police, diversamente da quanto solitamente creduto, non

ha niente a che vedere con la politica, perché è semplicemente un processo di

argomentazione e negoziazione, che punta ad una distribuzione dei benefici, delle

posizioni e dei ruoli senza in alcun modo sfidare lo assetto costituito. Contro

quest’ordinaria amministrazione, invece, la politics è il rovesciamento dell’ordine

sociale stabilito, ed essa si sviluppa dall’incontro fra la logica poliziesca e quella

ugualitaria ed emancipativa. La politica si verifica solo quando un gruppo o una

parte esclusa dal conteggio delle parti, i senza parte, non solo chiede di essere

inclusa, ma lo fa cambiando le regole di inclusione e dell’equilibrio presente. È

questo il senso del disaccordo, non un semplice conflitto di interessi, ma una vera

e propria divisione posta nel senso comune su ciò che è già stato assegnato.

La questione dei senza parte, ci dice Rancière, è un problema che la

filosofia politica ha il compito di risolvere e a tal proposito egli recupera,

criticando, la visione archi-politica che fa capo a Platone, dove, essendo tutto

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esattamente dove deve stare, viene meno qualsiasi possibilità di ribalta per gli

esclusi; la visione aristotelica della para-politica, in cui l’uguaglianza esiste, ma è

di tipo passivo, cioè viene creata e garantita dai governi, piuttosto che presa e fatta

propria da chi ne è titolare; la visione meta-politica di Marx, per cui la politica

non è che la mistificazione dello sfruttamento.

La situazione degli esclusi, perciò, si inserisce all’interno di una

riformulazione della politica dove l’uguaglianza costituisce l’unico strumento per

sovvertire la partizione del sensibile, perché è il presupposto che permette di

nominare l’indicibile e di creare spazi polemici in cui innescare processi politici.

Chi dissente lo fa non per affermare una nuova identità, perché questo

significherebbe ripristinare un ordine poliziesco, ma per affermare il principio

dell’uguaglianza. Ciò significa declassificare, rendere irrilevanti le categorie,

perché non c’è un unico soggetto politico, com’era il lavoratore per Marx, in

quanto soggetti politici sono tutti coloro che, in una determinata classificazione, si

sentono invisibili ed esclusi. Il divenire un soggetto, imponendosi sulla scena

pubblica, è ciò che Rancière chiama ‘soggettivizzazione’, altro aspetto chiave del

suo pensiero. I torti all’uguaglianza, fatti dagli ordini costituiti, vanno trattati

mediante atti di soggettivizzazione che vanno a creare nuovi soggetti, come ad

esempio i proletari. Questi non sono identificabili in alcun gruppo già presente,

ma sono solo i non contati, dei collettivi soprannumerari che metteno in

discussione le regole di inclusione e rendono esplicito lo scarto fra un popolo

parte della comunità ed uno che ne resta escluso. Poiché la comparsa dei senza

parte sul luogo del logos si inscena solo attraverso la differenziazione fra la

soggettivizzazione e l’identificazione, ne segue che la politica non è un dato

permanente. La politica non è neppure esercizio di potere, ci dice Rancière. Per

cui è spontaneo chiedersi quali strumenti adottare per fare in modo che essa esista.

Secondo Badiou, Rancière non riesce a darci una risposta. Egli sa solo dirci che è

costantemente necessaria la presenza degli esclusi, che richiedano visibilità e

palesino il divario fra la loro posizione inuguale nella società e la dichiarazione

dell’uguaglianza di tutti, propria di ogni costituzione moderna. Il rischio che

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73

Rancière corre, però, è che questa parte supplementare venga inclusa a priori

nell’ambito di una dinamica che oramai caratterizza le contemporanee democrazie

occidentali e che egli chiama ‘consenso’. Sulla scorta della sua visione politica,

anche la democrazia è il governo di chi non ha i titoli per governare, fondato su

nessun principio che non sia l’assenza di qualunque arché e quindi, per

eccellenza, an-archico. La democrazia rancièriana è il nome assunto

dall’eccedenza della soggettivizzazione, il processo che rimette costantemente in

gioco i rapporti prestabiliti. Essa perciò non coincide con alcuna forma di stato o

tipo di società.

Tale formulazione è senza dubbia originale, ma presenta delle criticità se

confrontata con i regimi democratici che si sono attestati.

Rancière, infatti, non può non constatare che la democrazia da lui delineata

non trova alcuna corrispondenza con quella attuale, che chiama post-democrazia o

democrazia consensualista, in cui la mancanza di ogni scarto e supplemento

cancella qualsiasi possibilità di esistenza per la politica. In un contesto in cui la

politica è sempre più alle dipendenze del mercato, la democrazia appare

economizzata, spoliticizzata e neutralizzata, nonché vittima di un odio da parte di

tutti coloro che ricercano un arché, che vada a limitarne l’essenza caotica e

radicale.

Diversamente da Habermas, che pone il consenso alla base della

democrazia, perché esso è la condizione che permette ad individui liberi ed uguali

di dialogare per risolvere razionalmente i propri conflitti, per il nostro autore,

l’unico dialogo compatibile con la democrazia è quello in cui non si forma alcuna

volontà comune, ma si esprime la volontà di una comunità divisa. Il consenso,

invece, con l’eliminazione delle identità eccedenti e la soppressione del torto, ha

elevato ogni individuo a minaccia per l’integrità della comunità e ha giustificato

l’introduzione delle nuove forme di razzismo e xenofobia. La situazione è

aggravata dal fatto che gli stati, vedendosi ridurre sempre più le loro prerogative

di governo, perché fortemente pressati dall’ordine economico mondiale,

intervengono su ciò che ancora possono controllare, la circolazione delle persone,

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e legiferando sull’immigrazione rafforzano il loro potere di conferire ed annullare

identità e di stabilire chi possa o meno far parte della società.

Per Rancière, allora, solo la presenza costante del demos, che manifesti il

torto delle disuguaglianze subite, garantisce l’esistenza della democrazia. Ancora

una volta, non sembra fornirci altri strumenti o risposte, se non dirci che l’unica

certezza è che la politica è sempre possibile, anche se non imminente. La sua

rinascita può avvenire solo attraverso dei partiti che si sottraggano alla logica

della sola acquisizione del potere, definendo obiettivi e mezzi autonomi dalle

agende statali.

Oggi, certamente, l’ordine-disordine capitalista genera forme di lotte. A

livello nazionale e internazionale, ci sono movimenti, di disoccupati, di sans

papiers, contro le istituzioni economiche, che contestano la logica consensualista,

mettendone in luce le forme di esclusione. Ma la loro battaglia è contro la marché

mondial, che è ovunque e in nessun luogo, per cui non c’è alcuna incarnazione

dell’avversario su una scena specifica.

Tuttavia, il nostro filosofo pensa che, seppur difficile, la politica è ancora

ripensabile ed un’altra volta possibile, separandola dalla gestione dei flussi di

popolazione e merci1.

Ultimo tassello di questo percorso è stato analizzare come si ponga, alla luce

di questa visione politica, la tematica dei diritti umani ed in particolare dei loro

titolari. L’identità del tutto con il tutto, frutto del consensualismo, ha trasformato i

diritti umani in diritti umanitari e ciò ha spinto Rancière a riflettere sulla questione

e a formulare una nuova politica dei diritti umani, che individua in colui che non

ha il titolo per invocarli il vero possessore. Il titolare dei diritti umani è il

soggetto politico per definizione, che sottopone a verifica quanto enunciato nelle

carte e nelle costituzioni. Non sono i soli diritti dei cittadini, come sostengono

Hanna Arendt e Giorgio Agamben, ma si tratta di veri e propri dispositivi di

politica radicale che attaccano l’ordine costituito.

1J., Rancière, D., Panagia, Dissenting Words: A Conversation With Jacques Rancière, in

Diacritics, volume 3, issue 2, 2000, pag. 126

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Eppure Rancière sa bene che oggi però questi stessi diritti hanno perso la

loro rivoluzionaria potenzialità, perché, come fatto notare da Costas Douzinas, più

che sfidarlo, confermano sempre più l’assetto esistente. L’umanitarismo ha

compromesso il processo politico, mentre l’assolutizzazione della vittima ha

portato all’ontologizzazione di un male assoluto da cui difenderla. Quest’ultimo

legittima gli interventi a favore dei diritti umani, che non solo violano principi

basilari del diritto internazionale, ma creano la cosiddetta categoria dell’

‘inumano’, perché chi prova a resistere o ad attaccare i ‘protettori’ non è più

considerato un libero combattente, ma un nemico a cui si nega l’umanità stessa.

I diritti umani appaiono alla stregua dei vestiti usati, da esportare verso

persone che non potendoli attuare necessitano che qualcun altro lo faccia in loro

nome. Essi risultano unicamente finalizzati al ristabilimento di un’egemonia

globale corrispondente a quello che viene considerato il più grande Paese

democratico, gli Stati Uniti d’America. Ma Rancière fatica a considerare la

società americana una comunità politica, e dunque democratica, essendo

essenzialmente strutturata attorno all’appartenenza e ai diritti legati a quella

appartenenza.

Anche il tema dei diritti umani, allora, non può prescindere da un

ripensamento della democrazia, nel senso forte del termine, come governo basato

sul sorteggio e sull’assenza di ogni requisito naturale o presupposto. Continuare

ad identificarla col sistema delle istituzioni rappresentative e del libero mercato,

significa trascurare l’evidenza di un mercato dall’aspetto sempre più coercitivo,

che riduce in maniera significativa le possibilità di scelta degli individui.

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Ringraziamenti

Ringrazio la mia famiglia, che quotidianamente mi spinge a dare il meglio di me stessa; il mio nipotino Vincenzo, che con le sue facce buffe e i suoi sorrisi sa rallegrare le mie giornate; la mia persona, semplicemente perché è la mia persona; chi è rimasto….e chi è arrivate. E chi, semplicemente, c’è sempre stato.