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Università degli Studi di Padova Facoltà di lettere e filosofia Dipartimento di Romanistica Anno Accademico 2004/2005 Italiano popolare e francese popolare Relatore: Prof. Lorenzo Renzi Corsista: Elisa Rosso Matricola n. 876232
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Italiano popolare e francese popolare - contrastiva en...popolare che all’italiano popolare, come, ad esempio, le concordanze ad sensum, il che polivalente, la rarefazione del congiuntivo.

Jun 17, 2020

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Page 1: Italiano popolare e francese popolare - contrastiva en...popolare che all’italiano popolare, come, ad esempio, le concordanze ad sensum, il che polivalente, la rarefazione del congiuntivo.

Università degli Studi di PadovaFacoltà di lettere e filosofia

Dipartimento di Romanistica

Anno Accademico 2004/2005

Italiano popolare e francese

popolare

Relatore: Prof. Lorenzo Renzi

Corsista: Elisa RossoMatricola n. 876232

Page 2: Italiano popolare e francese popolare - contrastiva en...popolare che all’italiano popolare, come, ad esempio, le concordanze ad sensum, il che polivalente, la rarefazione del congiuntivo.

ABSTRACT

Questo studio mette a confronto il francese popolare e l’italiano popolare allo scopo

di individuarne le analogie morfologico-sintattiche e fare alcune considerazioni sul

rapporto tra la varietà popolare e le altre varietà di lingua.

Si può distinguere una prima parte, in cui viene definita la nozione di popolare e la

nascita e lo sviluppo di queste varietà in Italia e in Francia; segue una breve panoramica

sugli studi dedicati in Italia e in Francia rispettivamente all’italiano popolare e al

francese popolare; successivamente si espongono i principali problemi che sorgono

quando si affronta lo studio di queste varietà di lingua e come si è cercato di risolverli.

Nella seconda parte si elencano sedici tratti morfologico-sintattici che accomunano il

francese e l’italiano popolare, arricchiti da esempi tratti da studi e documenti vari. Nella

terza parte si mostra come alcuni tratti tradizionalmente popolari siano in realtà comuni

ad altre varietà di lingua (colloquiale, neostandard). Nella quarta parte si dimostra che

certi tratti substandard o neostandard in italiano sono da tempo ammessi nello standard

francese.

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INDICE

Introduzione

1. La nozione di “popolare”

2. Gli studi

3. Problemi risolti, problemi aperti

3.1 La questione dell’unitarietà

3.2 Varietà popolare e varietà regionale

3.3 Popolare e colloquiale

3.4 L’italiano e il francese popolare in prospettiva diacronica

3.5 L’italiano popolare: un’interlingua?

4. Francese e italiano: tratti analoghi nelle varietà popolari

4.1 Analogie nel paradigma delle coniugazioni verbali

4.2 Generalizzazione delle desinenze

4.3 Concordanze ad sensum

4.4 Scambio o uso inverso degli ausiliari

4.5 Mancato accordo del participio passato

4.6 Comparazione analogica

4.7 Negazione semplice

4.8 Che polivalente

4.9 La rarefazione del congiuntivo

4.10 Periodo ipotetico

4.11 Scambi, sovraestensioni e accumuli di preposizioni

4.12 L’aggettivo con funzione avverbiale

4.13 Perifrasi aspettuali

4.14 Rafforzamento dei pronomi soggetto

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4.15 Anacoluti, ellissi, frasi nominali, énoncés binaires

4.16 Dativo etico

5. Popolare, sottostandard o standard?

5.1 Gli polivalente o sincretico

5.2 Ci + verbo avere

5.3 Il che polivalente

5.4 Ipotetiche dell’irrealtà con l’imperfetto

5.5 Concordanze ad sensum

5.6 Ridondanze pronominali

5.7 Accusativo preposizionale

5.8 C’è, ce n’è forme invariabili

5.9 La decadenza del congiuntivo

6. Popolare in italiano, standard in francese

6.1 Il congiuntivo

6.2 Il periodo ipotetico

6.3 Pronomi: gli-lui

6.4 C’è – il y a

6.5 Articoli partitivi

6.6 Concordanze logiche

6.7 Interrogative dirette

Conclusione

Bibliografia

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INTRODUZIONE

In questa tesina ci siamo proposti di fare un’analisi comparata sulla varietà popolare

in due lingue diverse ma genealogicamente parenti come il francese e l’italiano. Il

nostro studio si concentra sulle caratteristiche morfologiche e sintattiche e tralascia

invece quelle fonologiche e lessicali perché non si prestano ad un confronto

interlinguistico. Abbiamo rilevato sedici tratti morfo-sintattici comuni sia al francese

popolare che all’italiano popolare, come, ad esempio, le concordanze ad sensum, il che

polivalente, la rarefazione del congiuntivo.

Questo confronto ci ha condotti ad approfondire la conoscenza delle varietà popolari

e della loro storia. Nella prima parte del nostro studio abbiamo fatto una sorta di punto

della situazione sullo studio del popolare rilevando che in Francia a questa varietà si è

data meno attenzione che in Italia. All’italiano popolare sono stati dedicati studi accurati

e riflessioni attente, ma è spesso difficile trarre delle conclusioni risolutive. Infatti

questo è un argomento piuttosto problematico: nel corso del tempo si sono accumulate

opinioni diverse, a volte discordanti, e alcune questioni rimangono tuttora in attesa di

essere risolte. Ci riferiamo soprattutto al problema delle fonti: le fonti orali sono molto

scarse; le fonti scritte, invece, sono numerose ma spesso alterate. Infatti le testimonianze

popolari vengono pubblicate soprattutto per il loro contenuto e per il loro interesse

storico; l’assoluta fedeltà all’originale, indispensabile per l’analisi linguistica, può

venire a mancare. Inoltre mancano fonti a noi contemporanee: tutti gli studi da noi

consultati si basano su fonti ormai datate (lettere dei soldati della prima guerra

mondiale, testimonianze di guerra) e alcuni tratti o esempi che abbiamo raccolto

potranno anche lasciare perplesso il lettore perché gli sembreranno troppo devianti. È

evidente che c’è stato un cambiamento nel corso del Novecento; l’accessibilità

dell’istruzione, i mezzi di comunicazione, il benessere e la condivisione di stili di vita

comuni a tutti gli stati sociali hanno reso l’italiano sempre più familiare e la sua

conoscenza si è diffusa capillarmente presso tutti gli strati sociali, anche quelli che

prima ne erano esclusi.

Non sono solo gli strati sociali bassi ad aver migliorato la loro conoscenza

dell’italiano; l’avvicinamento è avvenuto da entrambi i lati. Infatti anche i ‘colti’

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attingono all’uso popolare quando parlano in situazioni informali. Questo

avvicinamento in Francia è molto evidente: il francese popolare, col passare degli anni,

si è sempre più avvicinato al francese familiare, tanto che negli ultimi tempi alcuni

studiosi hanno affermato che da varietà un tempo diastratica il francese popolare è ora

una varietà diafasica.

In Italiano abbiamo notato che alcuni tratti tradizionalmente classificati come

popolari sono entrati o stanno entrando non solo nell’uso colloquiale, ma anche nel

neostandard. Il nostro studio mette in rilievo anche quali tratti ancora substandard in

italiano siano ormai da tempo ammessi nello standard francese. Ciò sembrerebbe

confermare che l’italiano stia percorrendo, anche se con un po’ di ritardo, la strada già

segnata dal francese.

Il popolare gioca quindi un ruolo molto importante nel cambiamento linguistico

perché offre soluzioni più semplici o più espressive, destinate a fare presa e ad entrare,

anche se lentamente e inavvertitamente, nell’uso comune.

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1. LA NOZIONE DI “POPOLARE”

Le etichette, oramai tradizionali, di français populaire e “italiano popolare” sono

piuttosto equivoche, perché equivoco è il significato di “popolare”; infatti questa parola

al giorno d’oggi fa pensare sia al popolo inteso come “nazione” sia ad una classe

sociale; ma è proprio con questo secondo significato che bisogna intendere il termine.

Fu in Francia che l’aggettivo populaire venne per la prima volta associato ad una

lingua. Il français populaire era quel francese parlato dal popolo inteso come classe

sociale e quindi contrapposto alla borghesia e all’aristocrazia. Mentre le classi sociali

più elevate avrebbero parlato un francese corretto, il “popolo” parlava un “bas

langage”, “la langue de la crapule”; si trattava quindi di una lingua disprezzata,

osteggiata, derisa. Il francese popolare è strettamente correlato alla città di Parigi e alla

sua storia, scelta come osservatorio privilegiato. Già dal XVII secolo si poteva

distinguere una “lingua urbana”, lingua della città, dai patois (dialetti) delle campagne

circostanti. Questa distinzione si accentuò ancor più nel corso del XVIII secolo. Ma la

svolta decisiva avvenne dopo la Rivoluzione. Parigi subì dei profondi cambiamenti

economici e sociali: l’industrializzazione fece confluire in città grandi masse

provenienti da zone decentrate e marginali; le persone che venivano dalle province,

abituate a parlare i loro patois, poco a poco presero confidenza con il francese “urbano”.

Ma a sua volta il francese popolare si arricchì, oltre che di provincialismi, anche dei

termini tecnici propri del mondo del lavoro. Il divario con la lingua della borghesia

divenne così sempre maggiore e fu proprio nella seconda metà del XIX secolo che

l’espressione français populaire cominciò a definirsi e a diffondersi per designare una

varietà sociale di lingua. Alla fine del XIX secolo, la separazione sociale e linguistica

divenne ancor più marcata grazie a due fattori: la divisione in quartieri e

l’allontanamento delle classi più sfavorite verso i sobborghi (banlieues).

Il francese popolare si caratterizza quindi come un socioletto, una varietà linguistica

marcata in diastratia, tipicamente parlato da persone di bassa provenienza sociale, che

svolgono professioni modeste (operai, domestici) e che abitano in un contesto urbano:

Parigi, tipicamente, ma anche le altre città hanno il loro francese popolare, con poche

differenze rispetto a quello della capitale; le loro varietà sono state meno studiate.

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L’etichetta di “italiano popolare” sembra sia nata come calco dell’etichetta francese1;

comincia a diffondersi intorno agli anni Settanta per designare la varietà d’italiano

parlato da persone poco istruite e che hanno come madrelingua il dialetto. Ci si accorge

che c’è un italiano popolare assai tardi, anche se in verità esiste da moltissimo tempo, si

pensa addirittura fin dal XVI secolo, cioè da quando si è imposta la codificazione della

lingua letteraria. Ma sulla considerazione dell’italiano popolare in prospettiva

diacronica torneremo dopo.

Anche se è sempre esistita una lingua popolare, è però solo in tempi piuttosto recenti

che diventa un fenomeno numericamente consistente. Perché ci sia un italiano popolare,

bisogna aspettare che l’italiano diventi del popolo, e ciò avviene, come sappiamo, molto

tardi. Dopo l’Unità d’Italia ha inizio un lento e graduale processo di diffusione della

conoscenza dell’italiano, una lingua fino a quel momento ignorata dalla quasi totalità

della popolazione. Ma, come abbiamo detto, questo processo fu assai lento e per molto

tempo la gente continuò a parlare il dialetto, anche quando la scuola elementare

obbligatoria cominciò a diffondere i fondamenti della lingua. Fu la Storia a creare le

condizioni che obbligarono larghe fasce di popolazione ad esprimersi in italiano, spinte

dalla necessità di riuscire a farsi capire in una dimensione sovra-locale. E queste

condizioni furono l’industrializzazione e il conseguente inurbamento, che fece confluire

nelle grandi città persone di varia provenienza geografica; perché si capissero tra loro,

l’unica soluzione era parlare in italiano. Una situazione, come si vede, analoga a quella

francese, anche se l’industrializzazione italiana si sviluppò più tardi. Altri fattori che

favorirono il contatto di persone provenienti da diverse zone d’Italia furono le

migrazioni interne (dal Sud verso il Nord) ed esterne (ad esempio, dall’Italia verso

l’America). E infine, ci fu la prima guerra mondiale che agì come fattore unificante; al

fronte si ritrovarono molti uomini provenienti da ogni parte d’Italia che dovettero

mettere da parte il dialetto e sforzarsi di parlare italiano per riuscire a farsi capire dai

compagni. Questi uomini, però, cominciarono non solo a parlare, ma anche a scrivere in

italiano: le corrispondenze di soldati e prigionieri di guerra sono importanti fonti per lo

studio dell’italiano popolare. Dalla seconda metà del Novecento, poi, altri fattori hanno

contribuito alla diffusione sempre più massiccia dell’italiano: la televisione e la radio

sono mezzi di comunicazione che rendono familiare a tutti, anche a chi non sa né

1 Così ipotizza Cortelazzo (1972, p. 9). Si veda anche Berruto, 1983a, 484, nota 5.

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leggere né scrivere, una lingua prima riservata alla letteratura; si capisce l’importanza

della scolarizzazione e si cerca di dare a tutti la possibilità di ricevere i fondamenti

dell’istruzione.

L’italiano popolare è quindi una varietà diastratica, un socioletto parlato da chi lo

ha acquisito in maniera imperfetta a causa di un’istruzione insufficiente, e solitamente si

tratta di persone di ceto sociale basso; il loro italiano li distingue da chi, al contrario, fa

uso di un italiano “corretto”, molto vicino all’italiano letterario, perché ha avuto il

privilegio di proseguire gli studi e di ritardare l’ingresso nel mondo del lavoro.

Concludiamo osservando che la nozione di popolare individua, sia in francese sia in

italiano, una lingua socialmente “bassa”. Ma il francese popolare ha una genesi ed un

significato diverso dall’italiano popolare. Il francese popolare è infatti fin dalle origini

una lingua parlata da molte persone, mentre l’italiano popolare, pur essendo in fondo

sempre esistito, ha cominciato a diffondersi e a diventare veramente “popolare” solo a

partire dal Novecento, avendo sottratto gradualmente spazio ai dialetti.2 Il francese

popolare in origine era la lingua parlata nella città di Parigi: il nucleo di questa varietà

aveva quindi un luogo e dei parlanti; l’italiano popolare non ha un’identità così definita,

perché nasce dappertutto e in nessun luogo, ed è una lingua di nessuno, anche se usata

da tutti. È cioè una lingua più adoperata “per necessità” che veramente parlata. Essendo

il registro alto dei parlanti che hanno per lingua madre il dialetto, fino a non molto

tempo fa non veniva mai impiegato a livello familiare e non veniva trasmesso a nessuno

come lingua madre, al contrario del francese popolare. Ci sono certe caratteristiche del

francese popolare che lo avvicinano quindi più ai vari dialetti che all’italiano popolare,

perché qui in Italia la lingua autenticamente del popolo è il dialetto. Avremmo

un’equivalenza perfetta se Firenze fosse stata la Parigi italiana, se il vernacolo toscano

fosse diventato la lingua popolare degli italiani, se i particolarismi regionali si fossero

ridotti al minimo3.

2 Si vedano in proposito T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1970, pp. 36-45 eA. Castellani, “Quanti erano gli italofoni nel 1861?”, Studi linguistici italiani, 1982, VIII, pp. 3-26.3

Cfr. Garmadi, 1981, p. 57: “C’est sans doute à la variété toscane la plus marquée de traitsspécifiquement locaux qu’il faudrait réserver la désignation de variété populaire, dans la situation

sociolinguistique italienne, par opposition aux variétés véhiculaire et normalisée qui fondent l’italien

contemporain.” Questa supposizione è rivelatrice di quanto sia diverso il nostro popolare da quellofrancese, proprio perché non è esatta: infatti il vernacolo toscano non è l’italiano popolare, anzi, pareproprio che non si possa distinguere, in Toscana, fra italiano popolare e vernacolo (cfr. Berruto, 1987, p.115).

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2. GLI STUDI

Vogliamo qui passare in rassegna gli autori e le opere che si sono occupati di

francese e italiano popolari. Non abbiamo la pretesa di essere esaustivi, ma solamente di

mettere in evidenza le tappe fondamentali dello sviluppo di questi studi. Nonostante il

francese popolare sia nato molto prima dell’italiano popolare, gli studi su questo

argomento sono stati abbastanza scarsi sia quantitativamente che qualitativamente,

specialmente nei primi tempi. Il primo a occuparsene fu Charles Nisard nel 1872 con la

sua Etude sur le langage populaire ou patois de Paris et de sa banlieue, mosso da

intenti più polemici che descrittivi (dopo la Comune di Parigi, il popolo era visto con

sospetto e insofferenza da più di qualcuno). Nei primi anni del Novecento, il francese

popolare era più che altro considerato come un “cattivo francese” che bisognava

correggere, e quindi lo si prendeva in considerazione solamente in un’ottica prescrittiva:

lo scopo era insegnare alla gente cosa dire e cosa non dire (secondo la consueta formula

dites… ne dites pas…).

Henri Bauche in Le langage populaire (1920) è il primo a interessarsi al francese

popolare con un intento puramente descrittivo. Lo svizzero Henry Frei nella sua

Grammaire des fautes (1929) introduce la nozione di français avancé; egli vede il

francese popolare come un francese “avanzato” rispetto al francese standard, perché,

non vincolato dalla norma e, per così dire, abbandonato a se stesso, ha seguito una sorta

di evoluzione naturale, mentre le regole hanno bloccato il francese standard a uno stadio

più antico. In seguito, fino agli anni Sessanta, ci sono stati pochi studi dedicati al

francese popolare; possiamo solo rintracciare qualche nota in studi dedicati all’argot o

al francese regionale. Questo ha anche contribuito a creare un po’ di confusione,

inducendo a pensare che il francese popolare sia un termine che può servire da

contenitore per tutte le varietà sub-standard; in realtà, si tratta di una varietà a sé stante

che deve rimanere distinta dalle altre, anche se ci possono essere degli elementi che le

accomunano.

Nel 1965 e nel 1992 compaiono due volumetti, entrambi col titolo Le français

populaire. Il primo è di Pierre Guiraud, il secondo di Françoise Gadet; gli autori si

soffermano ad analizzare piuttosto dettagliatamente i tratti fonetici, morfologici e

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sintattici che caratterizzano il francese popolare. Eccezion fatta per qualche altro

articolo di questi ultimi anni, non c’è più nessuno che si occupi questo argomento; è

vero che si parla ancora di francese popolare, ma ormai l’etichetta ha acquisito un

diverso significato: viene ora definito français populaire il francese parlato dai giovani,

specialmente se immigrati o comunque a contatto con realtà multiculturali e mistilingui,

oppure il francese delle colonie. Il francese popolare così come l’abbiamo definito è

stato poco studiato: le ragioni vanno ricercate nel fatto che le fonti sono scarse e

difficilmente reperibili; inoltre è un soggetto di cui si ha un certo imbarazzo a parlare,

perché si rischia di cadere nella stigmatizzazione e nel classismo; infine, è difficile

definire che cosa sia esattamente il francese popolare, e se sia giusto definire tale una

varietà che differisce per pochissimi tratti dal français familier che tutti i francesi di

tutte le classi sociali parlano abitualmente. Ma su questi problemi di definizione e di

rapporto tra varietà così simili torneremo dopo.

Per lo studio del francese popolare si sono utilizzate le poche fonti scritte a

disposizione; sono scarse, perché questa varietà di lingua è soprattutto orale e si è ricorsi

alla scrittura solo quando non se ne poteva fare a meno. Però le fonti scritte sono le

uniche di cui disponiamo. Si tratta di documenti giuridici (soprattutto testamenti),

corrispondenza (lettere, cartoline), diari, lettere di prigionieri di guerra (Frei usò quelle

dei prigionieri della Croix-Rouge).

Bauche, invece, per il suo studio, ha raccolto testimonianze orali; sostiene infatti di

aver inserito nella sua opera solamente espressioni che ha sentito moltissime volte e che

ha avuto cura di verificare ponendo al “popolo” delle domande da lui formulate

appositamente per vedere se l’interlocutore avrebbe risposto con la forma che lui si

aspettava (Bauche, 14).

Un’altra fonte è costituita dai giornali “del popolo” che tendono a riprodurre il

linguaggio degli strati sociali più bassi: Le Père Duchêne, La Petite Lune, La Lanterne,

Le Père Pèinard. Tuttavia si tratta di fonti non molto affidabili perché questi giornali

sono scritti da “intermediari culturali”, cioè da redattori istruiti che conoscono solo

superficialmente la lingua popolare, e nei loro scritti non fanno altro che inserire degli

stereotipi (Gadet, 1992, 11).

Lo stesso si potrebbe dire per un’altra fonte, costituita dalle opere letterarie che

hanno riprodotto qua e là la parlata popolare: i romanzi di Eugène Sue, Balzac, Zola,

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Henry Monnier, Hugo; e poi: Léon Frapié, Emile Guillaumin, Louis Pergaud, René

Benjamin, Henri Poullaille, Louis Guilloux, Jehan Rictus, Henri Barbusse, Maurice

Genevoix, Louis-Ferdinand Céline, Jean Giono, Francio Carco, Raymond Queneau

(Zazie dans le métro). La maggior parte di questi autori non sono di origini “popolari”, e

anche per loro c’è il rischio di cadere nello stereotipo (id., p. 13).

L’italiano popolare è stato studiato molto più del francese popolare, benché sia nato

più tardi. I primi ad occuparsene furono Tullio De Mauro e Manlio Cortelazzo. De

Mauro ne parla nella sua introduzione alle Lettere da una tarantata; si tratta di una

raccolta di lettere che Anna del Salento, una donna con solamente la prima elementare,

scrisse all’antropologa Annabella Rossi; alla “buona signorina”, con cui strinse un

rapporto di fiducia e confidenza, Anna racconta varie vicende della sua vita, e lo fa

sforzandosi di scrivere in italiano, lingua che padroneggia a stento; anche se è

consapevole di fare molti errori, non si perde d’animo, perché si rende conto che

l’importante non è scrivere bene, ma riuscire a farsi capire. Ben lungi dal criticare il

modo di esprimersi di Anna, De Mauro loda il suo stile autentico, vivace e originale,

sicuramente migliore di quell’italiano stantio imposto dalla scuola, paragonata ad un

“rullo compressore” che appiattisce e livella la lingua rendendola vuota, monotona e

prevedibile. Queste pagine sono importanti perché De Mauro non solo ha, per così dire,

fornito le coordinate storiche, sociali e culturali per capire la nascita e lo sviluppo

dell’italiano popolare, ma anche perché per primo ha visto questa varietà di lingua come

un prodotto sorprendentemente unitario, frutto della volontà delle classi subalterne di

superare le barriere costituite dai dialetti e dai regionalismi: per comunicare avevano

bisogno di una lingua che fosse al di sopra della dimensione locale e che tutti, dal Nord

al Sud Italia, potessero comprendere. L’etichetta di “italiano popolare unitario” divenne

così abituale.

Anche Manlio Cortelazzo (Lineamenti di italiano popolare, 1972) ne fa uso ma,

attribuisce l’unitarietà ad altri fattori (la scuola, il sostrato culturale comune dei parlanti)

più che all’intenzionalità comunicativa. Cortelazzo ha compiuto un attento studio dei

tratti tipici dell’italiano popolare a livello fonetico, morfologico, sintattico e stilistico; la

sua analisi è un punto di riferimento importantissimo per chi si avvicina allo studio di

questa varietà.

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Nel 1976 Laura Vanelli, nella sua “Nota linguistica” sulle lettere dei prigionieri di

guerra raccolte da Spitzer, compie delle osservazioni molto interessanti. Innanzitutto

nota che non tutti i tratti caratteristici dell’italiano popolare sono riconducibili

all’interferenza con il dialetto sottostante. Poi avanza l’ipotesi che, così come fu fatto

per il francese popolare, anche per l’italiano popolare si possa parlare di “lingua

avanzata”; l’italiano popolare non sarebbe quindi solo un cumulo di errori, ma una

lingua che, non essendo vincolata dalle regole dell’uso letterario, ha ripreso il suo corso

naturale. Infine, nota che molti degli “errori” dell’italiano popolare si possono già

trovare negli autori del Trecento e del Quattrocento.

Anche Alberto Sobrero, in I padroni della lingua (1979), riprende l’idea dell’italiano

“avanzato”, sostenendo che lo studio dell’italiano popolare deve assumere una

prospettiva storica e che si deve concentrare sulle tendenze che prefigurano “l’italiano

di domani”. Intanto, però affiorano dei problemi che è difficile risolvere: si tratta di

definire i confini dell’italiano popolare, cioè di capire cosa lo distingue dalle altre

varietà substandard. Giulio Lepschy, in Italiano popolare. Riflessioni su riflessioni

(1983), espone i problemi che si presentano a chi studia questo argomento, ponendosi

una serie di domande: quanto è unitario l’italiano popolare? Cosa lo distingue

dall’italiano regionale? E cosa dall’italiano familiare o colloquiale?

Questi interrogativi non possono essere ignorati e tutti gli studi a seguire tentano di

fornire delle risposte. Gaetano Berruto ha contribuito in maniera determinante alla

definizione dell’italiano popolare. Ha affrontato più volte l’argomento chiarendo alcuni

punti e a stimolando la riflessione e la ricerca su altri, ancora aperti.

Le fonti utilizzate per lo studio dell’italiano popolare sono, come per il francese, in

maggioranza scritte, specialmente per quel che riguarda gli studi tradizionali: lettere di

soldati al fronte e di prigionieri di guerra, autobiografie di emigrati e di esponenti della

piccola malavita (Autobiografie della leggera, raccolte da Danilo Montaldo), le lettere

di Anna del Salento, memorie autobiografiche, testimonianze di lavoratori, e anche

compiti scolastici. Manlio Cortelazzo manifesta alcune riserve sulle fonti di cui si è

servito: sospetta infatti che siano state tutte più o meno “ripulite” dai curatori e invita

quindi a guardare a questi documenti con molta cautela. Auspica infine che per le

rilevazioni future si trascrivano con assoluta fedeltà le registrazioni su nastro e che si

riportino integralmente i testi scritti (Cortelazzo, 1972, p. 23). Il problema delle fonti,

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come vedremo, è di fondamentale importanza quando si tratta di analizzare i tratti

linguistici che distinguono l’italiano popolare da quello colloquiale e dall’italiano

parlato; queste questioni non si possono affrontare mettendo a confronto testi orali da un

lato e testi scritti dall’altro. Inoltre la lingua popolare è per sua natura principalmente

parlata4; la scrittura è una forzatura, e sarebbe quindi un’operazione disonesta prendere

in esame solo testi scritti. Purtroppo si sono raccolte assai poche testimonianze orali in

italiano popolare5. E sarebbe invece indispensabile farlo, specialmente adesso, anche (e

forse soprattutto) per un altro motivo: l’italiano popolare dei soldati della Prima Guerra

mondiale non può certo essere come l’italiano popolare che si parla al giorno d’oggi.

Ora siamo nel 2005 e le cose sono sicuramente cambiate (vedi più avanti “L’italiano e il

francese popolare in prospettiva diacronica”).

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Berruto sostiene che la l’italiano popolare “sia in primo luogo lingua parlata , e solo secondariamente

scritta” (1987, p. 111). Bartoli Langeli, invece, è di opinione contraria: “l’italiano popolare è un modo di

scrivere, non di parlare”, perché gli illetterati parlano dialetto, non italiano, e “per il solo fatto di aver

imparato a scrivere, realizzano quella che essi ritengono la lingua scrivibile, non la lingua che parlano.

(2000, p. 168). Forse entrambi i punti di vista sono veri, purché si precisi a quale periodo si faccia

riferimento: se si parla dell’italiano popolare attuale, contemporaneo, sarà più vero quanto dice Berruto,

perché al giorno d’oggi l’italiano popolare si parla più di quanto non si scriva; se invece ci si riferisce

all’italiano popolare di fine Ottocento e inizio Novecento, sarà più giusta l’osservazione di Bartoli

Langeli, perché in quel momento storico la produzione scritta fu molto abbondante; inoltre era più netta

l’equivalenza italiano= lingua scritta, dialetto= lingua parlata.5

Le analisi che hanno fatto uso anche di materiale parlato sono molto poche: A. M. Arnuzzo (1976) ha

fatto dei rilievi di italiano popolare nel basso Monferrato; Rovere (1997) nella sua raccolta prende in

esame anche alcune interviste; Poggi Salani (1977) si basa su una sola mezz’ora di registrazione;

Sornicola (1981) analizza il parlato campano, ma non focalizza il problema dell’italiano popolare. C’è poi

la raccolta di Foresti (1983) che comprende testimonianze orali e scritte di soldati della prima guerra

mondiale.

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3. PROBLEMI RISOLTI, PROBLEMI APERTI

In quarant’anni di studi sull’italiano popolare sono emersi molti problemi, che spesso

sono anche i medesimi problemi che hanno incontrato gli studiosi del francese popolare.

Ad alcuni già abbiamo accennato. Ora vediamo in dettaglio quali sono stati i punti più

problematici e più dibattuti, riportando le opinioni (talvolta discordanti) degli studiosi,

le conclusioni a cui si è giunti e le domande che rimangono ancora senza risposta.

3.1 La questione dell’unitarietà

Come abbiamo visto, è stato De Mauro a definire “unitario” l’italiano popolare,

perché vi vedeva una lingua sostanzialmente omogenea, che tutto sommato non

risentiva dei particolarismi dovuti al sostrato dialettale dei singoli. Questa caratteristica,

secondo De Mauro, era frutto dell’intenzionalità comunicativa dei parlanti, che avevano

la necessità di superare le barriere del dialetto per poter essere compresi da interlocutori

provenienti da ogni parte d’Italia. Anche Cortelazzo non può non notare questa

sostanziale omogeneità, ma la spiega come conseguenza della scuola e del sostrato

culturale. A questa idea di “unitarietà” sono state mosse varie obiezioni. Infatti, non

appena si passa dall’oralità alla scrittura, appare in tutta evidenza l’eterogeneità

fonologica; ma non è solo a questo livello che si manifesta il sostrato dialettale dei

parlanti: la provenienza geografica si può indovinare anche da testi scritti, perché il

dialetto interferisce anche a livello morfologico e sintattico, seppur in minor misura

rispetto al livello fonologico. I tratti caratteristici dell’italiano popolare sono dovuti,

oltre che alla generica tendenza alla semplificazione linguistica, anche a fattori di

interferenza dialettale e di ipercorrettismo. L’italiano popolare è quindi sempre un

italiano popolare regionale. Forse si può salvare l’aggettivo “unitario” se lo si intende,

come propone Lepschy, più come un’intenzione che come una realtà:

Aggiungendo alla denominazione ‘italiano popolare’ la qualifica ‘unitario’, si

sottolinea che si tratta di una lingua destinata a superare le differenze dialettali, e

dotata di molti tratti caratterizzanti comuni che la distinguono dall’italiano letterario

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e che non provengono dai singoli dialetti; non si nega però, usando l’aggettivo

‘unitario’, che l’italiano popolare riveli chiaramente nella sua veste fonologica, e in

parte minore anche in quella lessicale e grammaticale, le caratteristiche locali che

consentono di distinguere tra loro le varietà regionali di italiano (p. 274).

Per il francese popolare, non ci si è mai curati di rintracciare le diversità regionali; si

è sempre guardato al francese popolare come a una lingua sostanzialmente unitaria. Per

tradizione il francese popolare è quello della città di Parigi, anche se nelle altre città

francesi esistono varietà popolari che non presentano grosse differenze da quella della

capitale. Alcuni studiosi tendono a sottolineare l’uniformità del francese popolare, ma

ciò non toglie che vi siano delle differenze, seppur minime. Lepschy nota che forse

questa omogeneità potrebbe essere dovuta ad una “limitazione di prospettiva, a quella

specie di cataratta o scotoma della tradizione francese post-rivoluzionaria che ha

impedito di veder le tenaci diversità che di fatto sopravvivono e sulle quali

recentemente si è richiamata l’attenzione” (Lepschy, 1983, p. 274).

3.2 Varietà popolare e varietà regionale.

Una volta appurata la regionalità dell’italiano popolare, viene spontaneo chiedersi:

l’italiano popolare è equivalente all’italiano regionale? Che cosa li distingue?

Cortelazzo aveva pensato a una distinzione che si basasse sul mezzo: ovvero, faceva

coincidere l’italiano regionale con l’italiano parlato e l’italiano popolare con l’italiano

scritto. Ma Berruto ritiene che questa sia una “peripezia” (1883a, p. 485) per evitare la

sovrapposizione tra le due categorie e provvede a risolvere la questione in maniera

molto più semplice: l’italiano regionale è una varietà diatopica che ha a che fare con la

provenienza geografica dei parlanti; l’italiano popolare, invece, è una varietà diastratica

e ha a che vedere con la loro collocazione socio-economica e culturale. È chiaro, quindi,

che non si tratta di etichette equivalenti. Naturalmente “un italiano regionale

socialmente basso sarà un italiano popolare, al di là della sua manifestazione nel mezzo

fonico o grafico” (1987, p. 111). Sintetizzando in poche parole il rapporto tra italiano

popolare e italiano regionale, si può dire che l’italiano popolare è un sottoinsieme più

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marcato dell’italiano regionale; rispetto all’italiano standard, gli italiani regionali (è

meglio usare il plurale) sono varianti geografiche, mentre gli italiani popolari sono

varianti sia geografiche che sociali (Mengaldo, 1994, p. 108-110).

In tempi passati (a cavallo fra Otto e Novecento) c’è stata una certa confusione anche

tra francese popolare e francese regionale, proprio perché, con l’industrializzazione, a

Parigi arrivarono persone provenienti da altre zone del territorio e vennero a ingrossare

il ceto del proletariato urbano. Nisard, ad esempio, vedeva il francese popolare come

varietà parlata dal proletariato urbano parigino, ma originatasi dalla commistione dei

vari patois che si parlavano nelle campagne e che erano entrati in città proprio con i

lavoratori provenienti dall’esterno. Comunque oggi è assodato che il francese popolare

non ha a che vedere con le varietà regionali, per motivi analoghi a quelli che sono stati

addotti per italiano popolare e italiano regionale: l’una è una varietà diastratica, l’altra

una varietà diatopica. I regionalismi possono riguardare tutte le classi sociali, non solo

quella popolare (cfr. François, 1985, p. 295).

3.3 Popolare e colloquiale.

Distinzione, questa, assai più problematica della precedente. Molti tratti che

caratterizzano l’italiano popolare si ritrovano anche nel parlato colloquiale di ogni strato

sociale, e talvolta persino nel parlato formale. Già Laura Vanelli aveva notato questa

coincidenza:

… quello che si definisce italiano popolare è in certi casi il nostro italiano di ogni

giorno, che usiamo nei rapporti informali. Se è nato come lingua del popolo in

opposizione alla lingua colta, è forse più giusto oggi reinterpretarlo come la lingua

colloquiale d’uso comune opposta alla lingua formale parlata e soprattutto scritta

(1976, p. 306).

Berruto, però, sostiene che sia impossibile assimilare l’italiano popolare all’italiano

colloquiale. Infatti l’italiano popolare è una varietà diastratica, mentre l’italiano

colloquiale è una varietà diafasica, un registro. L’italiano popolare non è un registro

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adottabile da tutti i parlanti, qualora si trovino in situazioni particolarmente informali:

infatti chi parla italiano popolare non ha accesso ad altri registri dell’italiano, non ha la

possibilità di alternarlo ad altre varietà di lingua; d’altra parte, i parlanti cosiddetti

“colti” possono tutt’al più imitare l’italiano popolare, ma non hanno occasione di usarlo.

È normale che l’italiano popolare condivida alcuni tratti con l’italiano parlato, proprio

perché anch’esso è lingua prima di tutto parlata; ci sono poi molti tratti in comune con

altre varietà sub-standard, ma questo deve spingere, come suggerisce Berruto, a

“analizzare meglio i tratti in questione, per vedere quali siano eventualmente esclusivi

dell’it. pop. o dell’it. colloquiale e in che modo e misura siano comuni i tratti condivisi

dall’uno e dall’altro” (1987, p. 111). Qualche pagina dopo, Berruto delinea il metodo

che si dovrebbe seguire per fare queste rilevazioni e fa lui stesso una prova mettendo in

evidenza, con l’aiuto di una tabella, la diversa frequenza con cui si realizzano certi tratti

morfosintattici nell’italiano popolare e nell’italiano colloquiale; a volte certi tratti

compaiono solo ed esclusivamente nell’italiano popolare.6 Tuttavia questa

dimostrazione ha solo scopo esemplificativo e si basa su impressioni personali, ma “gli

autori che hanno sostenuto o suggerito che it. pop. e it. parlato colloquiale siano

all’incirca la stessa cosa, lo hanno fatto per lo più anch’essi sulla base di petizioni di

principio, senza addurre dati descrittivi significativi in proposito” (id., p. 122).

Insomma, sarà impossibile trovare una risposta definitiva finché non si costruirà “una

Varietätengrammatik per ogni tratto presunto non-standard e sub-standard dell’italiano

basandosi su corpora ampi e rappresentativi. Certamente si dovrà allora distinguere fra:

“tratti obbligatori (categorici) che si realizzano sempre per es. nell’it. pop.; tratti

facoltativi, che possono emergere nell’it. pop.; tratti variabili, che emergono nell’it. pop.

con una frequenza collegabile a diversi fattori linguistici ed extra-linguistici” (id., p.

116). Ma, appunto, non disponiamo ancora di corpora su cui lavorare. L’analisi che

propone Berruto potrebbe condurre a risultati inaspettati, soprattutto perché noi siamo

ormai abituati a pensare al popolare di quasi un secolo fa, ma quello di oggi è

probabilmente diverso.

6

Tutto ciò, nota sempre Berruto, potrebbe indurre a credere che l’italiano colloquiale sia una specie disottoinsieme dell’italiano popolare: infatti dalla sua esemplificazione si vede che l’italiano colloquialedifferisce dall’italiano popolare solamente per la minor frequenza o assenza di certi tratti. In realtà, anchel’italiano colloquiale hai dei tratti tipici esclusivi, evidenti soprattutto quando si vanno a esaminare illessico e i connettivi testuali, ma anche la morfologia (Berruto, 1987, p. 122).

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Anche il francese popolare presenta molti tratti comuni con il francese familiare. Gli

studiosi hanno sottolineato questa vicinanza; ad esempio, Guiraud osserva:

Il est notable, par ailleurs, que l’écart entre le français populaire et le français

familier (d’usage cultivé) se réduit chaque jour. Cela tient, d’une part, à l’accès à

la culture des classes populaires (scolarisation, information) : au fait, d’autre part,

que beaucoup de locuteurs bourgeois adoptent ou acceptent de plus en plus de

formes vulgaires (voire argotiques). (Guiraud, 1965, p. 18).

Françoise Gadet ha osservato che tutto ciò che è familiare può essere classificato

come popolare se il parlante vi si presta, e che solo certi tratti sono estranei all’uso

familiare non popolare (Gadet, 1992, p. 27). Quindi, anche se per pochi tratti, il francese

popolare nel 1992 sembrava ancora costituire una varietà a sé stante; ma ultimamente

alcuni studiosi (tra cui la stessa Gadet, che sembra aver cambiato idea) vedono una

sostanziale identità fra il francese popolare e il francese familiare parlato da tutti i

francesi (cfr. qui di seguito “l’italiano e il francese popolare in prospettiva diacronica).

3.4 L’italiano e il francese popolare in prospettiva diacronica

È certo che l’italiano popolare sia emerso nella sua piena evidenza nel corso della

prima metà del Novecento, grazie all’abbondanza di documenti scritti che lo hanno

posto sotto gli occhi di tutti. Ma disponiamo di alcuni documenti7, risalenti ai secoli

passati, che manifestano gli stessi tratti che compaiono nelle lettere dei soldati al fronte

del Novecento. È ragionevole pensare, quindi, che l’italiano popolare fosse scritto e

parlato già da secoli, anche se in passato le occasioni di scrivere erano poche e l’italiano

7

Si vedano, tra l’altro: G. Petrolini, “Un esempio d’italiano non letterario del pieno Cinquecento”, L’italiadialettale, 1981, XLIV, 21-117 e 1984, XLVII, pp. 25-109 (diario di un sacerdote emiliano); I. Di Passio,“Tra oralità dialettale e tradizioni scritte regionali: un manoscritto cremonese Sei-Settecentesco dimemorie familiari”, in AA.VV., Il dialetto dall’oralità alla scrittura, Pacini, Pisa, 1984, pp. 169-182; S.Bianconi , “Lingua parlata uguale dialetto? Qualche ipotesi sulla situazione della Svizzera italiana nelCinquecento e nel Seicento”, Archivio storico ticinese, 1984, 97, pp. 21-32; “Italiano regionale, colto epopolare. Permanenze e cambiamenti in testi della Svizzera italiana dal Cinquecento al Novecento”, in L.Agostiniani, Linguistica storica e cambiamento linguistico, Bulzoni, Roma, 1985; B. Mortara Garavelli,“Scrittura popolare in un quaderno di memorie del XVII secolo”, Rivista italiana di dialettologia,1979-1980, 4, pp. 149-180 (memorie di un fabbro piemontese); G. Rovere, “Un testo di italiano popolaredel primo Ottocento”, Vox Romanica, 1979, 38, pp. 74-84 (memorie di un calzolaio piemontese).

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ancora meno diffuso rispetto all’inizio del Novecento. Bisogna però precisare che, se

l’italiano popolare ai nostri tempi è appannaggio degli “incolti”, quello del passato

individua una diversa classe sociale e sarà da ricercare tra i meno colti dei colti

(Berruto, 1987, 113). In effetti, nella storia della scrittura dell’italiano, il Cinquecento

rappresenta uno spartiacque: mentre prima potevano scrivere tutti coloro che sapevano

l’alfabeto, e potevano scrivere quello che volevano e come volevano, dopo l’instaurarsi

della norma fu ammesso solo lo “scrivere bene”; questo fatto, insieme al controllo sulla

cultura e sull’educazione delle masse popolari che esercitò successivamente la Chiesa,

ebbe la conseguenza di inibire la scrittura; il popolo scriveva solo quando era necessario

e per farlo ricorreva agli scrivani. Il non sapere scrivere bene in italiano era ormai un

segno di sudditanza sociale.

Ma non è tutto. Se ci si spinge ancor più indietro nel tempo e si vanno a vedere i testi

prodotti anche da grandi autori dal Trecento al Cinquecento, si possono ritrovare molti

dei tratti caratteristici dell’italiano popolare. Evidentemente a quei tempi l’italiano

aveva già sviluppato certe linee di tendenza che però la rigida codificazione

cinquecentesca di Bembo aveva poi condannato alla marginalità e che quindi, da un

certo punto in poi, non si ritrovano più nell’italiano letterario.8

Alcune caratteristiche dell’italiano “libero” che si scriveva prima che intervenisse la

norma a separare con decisione lo scrivere bene dallo scrivere male, il lecito e l’illecito,

i letterati dagli ignoranti, si ritrovano anche nei testi di italiano popolare del nostro

secolo. Sembra siano rimaste, per cosi dire, latenti, aspettando il momento giusto per

riemergere; e ciò si è verificato proprio nel Novecento, quando le masse popolari si

sono impossessate di una lingua fino ad allora solo letteraria, usandola anche per

esprimere la quotidianità e rendendola così la lingua di tutti. Alcuni studiosi hanno

quindi proposto di considerare l’italiano popolare una “lingua avanzata”, perché

“rappresenta l’evoluzione naturale di forze insite nella lingua, bloccate dalla normatività

letteraria” (Vanelli, 1976, p. 300).

Già Guiraud, e prima di lui Frei, avevano parlato, a proposito del francese popolare,

di français avancé, per analoghi motivi. La precoce standardizzazione fissò forme già

allora arcaiche e desuete e inoltre intervenne bloccando un processo di evoluzione

8

Si veda in proposito A. Bartoli Langeli (2000), La scrittura dell’italiano, il Mulino, Bologna, spec. icapitoli (rivelatori già dal titolo): “Liberi di scrivere”, “L’italiano normalizzato”, “La scrittura difficile”,pp. 41-109.

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ancora in corso, evidente, ad esempio, nelle alternanze vocaliche di certi verbi, dovute

al fatto che le vocali accentate si devono dittongare, mentre le atone rimangono così

come sono: il sistema stava naturalmente provvedendo ad eliminare queste inutili

complicazioni, ma la norma ha impedito che ciò avvenisse completamente e per questo

ancora oggi nel francese standard queste alternanze si ritrovano in certi verbi: “je meurs

- nous mourons” (Guiraud, 1965, p. 11 e 14). È per questo che il francese e l’italiano

sarebbero lingue particolarmente “complicate”: la standardizzazione precoce ha fissato

molte irregolarità che si sarebbero naturalmente risolte con il tempo. La varietà popolare

non fa altro che portare a compimento un processo che la norma ha interrotto secoli

addietro.

Considerando l’italiano popolare del Novecento, recentemente (Berruto, 1986, p. 177

e Berruto, 1987, p. 115) ci si è resi conto che ci sono notevoli differenze tra la lingua di

inizio secolo e quella degli anni Settanta: ad esempio, le lettere dei prigionieri raccolte

da Spitzer sono molto più devianti e sconnesse rispetto alle biografie degli operai

corsisti delle centocinquanta ore raccolte da Banfi. L’italiano standard, grazie ai rapidi

cambiamenti socio-economici avvenuti specialmente nella seconda metà del secolo

(diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, diffuso benessere economico,

scolarizzazione sempre più estesa e sempre a più alti livelli, maggiore mobilità sociale,

condivisione di stili di vita, ecc.), è diventato sempre più noto e familiare alla

popolazione. Se prima si poteva imparare solo studiando sui libri, ora certe forme si

acquisiscono spontaneamente, e a nessuno, al giorno d’oggi, viene più in mente di

scrivere, ad esempio, “mia moglia” o “nessuni soldati”. Sembra quindi che l’italiano

popolare, nel corso del Novecento, si sia via via standardizzato. Verrebbe da chiedersi

se questo processo non condurrà un giorno alla scomparsa dell’italiano popolare.

Per quanto riguarda il francese popolare, sembra che sia già sparito, cioè che non

costituisca più una demarcazione sociale; infatti già nel 1985 François Caradec

sosteneva che la lingua popolare è la lingua parlata da tutti i francesi (Caradec, 1985, p.

5). E in tempi ancor più recenti Françoise Gadet osserva:

Une première approche, ayant simplement reconduit la partition sociolinguistique

traditionnelle entre la linguistique (intérêt centré sur le système) et le social (intérêt

centré sur l’acteur social qui est le locuteur), amène donc à douter de la possibilité

d’existence d’un objet « français populaire ». Car, populaires ou pas, les locuteurs du

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français comme de toute langue sont susceptibles d’entrer en interaction, s’ils le

souhaitent. Il est de nos jours, a moins depuis la scolarisation de masse, peu

vraisemblable, à cause entre autres des différents facteurs d’homogénéisation que

constituent l’école, la mobilité des individus, ou les médias, d’imaginer un locuteur

demeuré à ce point à l’écart des effets de la standardisation et de l’uniformisation

qu’il aurait une façon de parler étanche, en isolation des autres. Ou pourrait être ce

Martien ? Où habiterait-il ? Qu’aurait-il comme activités ? (Gadet, 2003, p. 109)

Michaël Abecassis, dal canto suo, dimostra che il francese popolare, da varietà

diastratica, nel corso del XX secolo ha subito un cambiamento di percezione ed è

divenuto una varietà diafasica (Abecassis, 2003). Ma la dimostrazione lascia un po’

perplessi, visto che si basa sul lessico e sulle classificazioni dei dizionari: mentre un

tempo a certe parole veniva attribuita l’etichetta di populaire, oggi agli stessi termini si

attribuisce quella di familier.

In conclusione, sembra che l’interazione tra le classi sociali abbia contribuito a

rendere meno nette certe distinzioni e forse, oggi, a cancellarle del tutto. L’italiano e il

francese popolari non solo hanno subito la pressione dello standard e hanno provveduto

ad eliminare le devianze troppo marcate, ma anche lo standard ha attinto molto alla

lingua popolare. In italiano, alcuni tratti popolari sembrano aver subito una sorta di

“promozione”: da lingua popolare a lingua familiare, da lingua familiare a lingua

formale parlata, da lingua formale parlata a lingua (anche formale) scritta. La lingua

popolare, per quel che riguarda l’italiano, ha forse contribuito in maniera determinante

alla nascita dell’italiano dell’uso medio e dell’italiano colloquiale; tutto sommato fino a

non molti anni fa, l’italiano era una lingua letteraria che mal si adattava agli argomenti e

alle situazioni informali, di tutti i giorni; per questi ultimi, si preferiva usare il dialetto.

Forse anche l’italiano popolare, a nostro parere ancora reperibile al giorno d’oggi, in un

prossimo futuro sarà destinato a sparire, come sembra sia già avvenuto al francese

popolare. Ma per poter dire qualcosa di sicuro sullo stato attuale della varietà popolare

(e in particolare sul rapporto tra essa e le altre varietà sub-standard), servirebbero, come

già si è detto, degli ampi corpora su cui compiere delle analisi.

3.5 L’italiano popolare: un’interlingua?

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La definizione di italiano popolare che fornisce Cortelazzo, cioè “il tipo di italiano

imperfettamente acquisito da chi ha per lingua madre il dialetto” (Cortelazzo, 1972, p.

11) ha suggerito di vedere questa varietà come un’interlingua che si colloca tra il

dialetto, L1 dei parlanti ‘incolti’, e l’italiano, L2 verso cui si sono avvicinati ma che non

hanno mai acquisito pienamente perché il processo di apprendimento si è arrestato

prima. Questo arresto potrebbe anche dipendere dal fatto che l’apprendente si ferma nel

momento in cui raggiunge un grado di conoscenza della lingua sufficiente per bisogni

comunicativi non sofisticati; l’italiano popolare sarebbe allora una varietà di

apprendimento fossilizzata. Questa riflessione suggerisce perciò di applicare all’italiano

popolare i metodi e le categorie della linguistica acquisizionale (cfr. Mioni, 1983, pp.

496 e 513; Berruto, 1987, p. 106).

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4. FRANCESE E ITALIANO: TRATTI ANALOGHI NELLE VARIETÀ

POPOLARI

Il francese popolare e l’italiano popolare presentato alcuni tratti molto simili. Qui

presentiamo solamente analogie morfo-sintattiche; non abbiamo considerato il lessico e

la fonologia perché non si prestano ad un confronto interlinguistico. Abbiamo incluso e

segnalato come tali anche alcuni tratti che, se all’inizio furono considerati tipici

dell’italiano popolare, non ne sono esclusivi, e tuttavia si riscontrano con una maggiore

frequenza rispetto alle altre varietà. Gli esempi che forniamo di volta in volta sono tratti

nella maggior parte dei casi da Françoise Gadet e Pierre Guiraud per il francese, e da

Berruto e Cortelazzo per l’italiano.

4.1 Analogie nel paradigma delle coniugazioni verbali

In italiano popolare si tende a generalizzare il modello costituito dalla prima

coniugazione ad altre coniugazioni verbali, specialmente per certi tempi e modi, oppure

a estendere il modello di certe persone su altre. Ad esempio (da B1, 49):

a) dasse, stasse, per analogia con la I coniug.: amasse, giocasse, ecc.

b) vadi, venghi, venghino, per analogia con la I coniug.: ami, giochi.

c) misimo, dissimo, per estensione del modello della I e III pers. pl.: misi-misero,

dissi-dissero.

d) potiamo, costruito sul morfema lessicale pot-(ere), presente all’infinito.

e) scrivaci per analogia con i v. di I coniug: parlaci.

f) mandono per analogia con la III coniug.: credono.

g) discutavamo per analogia con la I coniug.: parlavamo.

h) ballevamo per analogia col verbo avere: avevamo.

In francese popolare, i verbi del terzo gruppo (quello numericamente meno

consistente, formato da verbi irregolari) si costruiscono prendendo a modello quelli del

secondo e del primo gruppo (es. da F. G., 52):

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a) ils s’enquérissent, il mourira, je me rassis, su modello del II gruppo: ils

finissent, il finira, je finis.

b) vous boivez, il acquiéra, vous faisez, su modello del I gruppo : vous mangez, il

mangera.

c) que je save, qu’ils croivent, qu’il peuve, su modello della maggior parte degli

altri verbi, che forma il cong. a partire dalla III pers. plur. dell’indicativo : que je

parle, qu’ils mangent, qu’il boive.

Il francese popolare tende a creare un paradigma unico in –er. Molti verbi subiscono

un cambiamento di flessione e si trasformano in verbi della I coniugazione: moudre �

mouler, agonir� agoniser, coudre� cuiser, mouvoir� mouver (F. G., 55), rompre �

romper, conclure � concluer, pleuvoir� pleuver (P. G., 21), ecc.

4.2 Generalizzazione delle desinenze

L’italiano popolare tende a adattare tutte le desinenze nominali sui casi più frequenti,

cioè: -o per il masch. sing., -a per il femm. sing., -i per il masch. plur., -e per il femm.

plur. Per questo abbiamo: caporalo, moglia, saluta (“salute”), mane (“mani”),

geometro, guarigiona, cambiala, le orazione, le valle (B1, 57), i ginocchi, l’uniforma

(B2, 64) , ecc.

Il francese popolare estende il plurale in –s ai sostantivi che richiederebbero quello in

–aux, più rari. Perciò si formano, ad esempio: guindals, admirals, caporals. Per quanto

riguarda il genere, i sostantivi tendono a prendere quello femminile qualora terminino

con una consonante oppure inizino con una vocale. Se entrambe le condizioni si

verificano, la tendenza si rinforza; perciò sono considerati femminili: air, alcool, appel,

arôme, cloppe, éther, éventail, héritage, hippodrome, hôtel, légume, obstacle, obus,

omnibus, ouvrage, ulcère, usage, utensile (F.G., 58 e P.G., 32). Anche gli aggettivi

tendono ad eliminare le eccezioni e ad applicare sempre il modello più comune, cioè:

maschile/femminile = suffisso zero/-e (es: noir/noire). Gli aggettivi che fanno eccezione

sono ricondotti a questo schema. Vert, publique, pécuniaire, invariabili in francese

standard, in francese popolare sono avvertiti come provvisti di genere, e quindi si

creano i corrispettivi: verte, public, pécunier. Fraintendimenti simili sono evidenti

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quando, a partire da un aggettivo invariabile, interpretato come maschile o femminile, si

ricostruisce il corrispondente di genere opposto: avare-avarde, bizarre-bizzarde, tied-

tiède, bleu-bleuse. (F.G., 59).

4.3 Concordanze ad sensum

Si verificano quando si mette al plurale il verbo di un soggetto grammaticalmente

singolare ma semanticamente plurale. In italiano popolare, ad esempio (da B1, 45 e C.,

82), troviamo:

a) La gente l’applaudivano.

b) Sono arivati una pattuglia dei russi.

c) Quella gente li conosco uno per uno.

d) Una scarica di mitra lo stendono al suolo.

e) Proprio in questi giorni la commissione hanno aumentato il salario.

In francese popolare, analogamente (da P.G., 36):

a) Tout le monde s’en vont.

b) Malheureusement, elle était toute seule de ma famille, le reste sont en Belgique

et en Hollande.

c) Aucun de ses camarades ne l’ont vu.

d) La foule qui remplit les rues observent un silence absolu.

e) Plus d’un ministre n’ont pas caché l’impression produite.

4.4 Scambio o uso inverso degli ausiliari

Questo è un tratto altamente caratterizzante. Infatti, anche se non è frequente, quando

compare individua immediatamente un testo come popolare.9 La scelta dell’ausiliare

giusto è spesso difficile e si nota una certa oscillazione. Sembra che in italiano sia

altrettanto frequente avere per essere che essere per avere:9

Cfr. Berruto: “Va poi ricordato che possono risultare caratterizzanti anche tratti assai sporadici,

che compaiono rare volte (ma, quando compaiono, compaiono solo in italiano popolare” (Berruto, 1987,

p. 116). Berruto stesso classifica come tratto altamente caratterizzante lo scambio di ausiliari (v. Berruto,

1983b, p. 49-50).

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a) aveva fuggito scampando la morte; mi avevo accumulato qualche soldarello;

abbiamo venuto qua (C. 117); mi ho sposato; ho scappato; mi ha piaciuto; le done

si hano butato; se mi ho preso; mi avevo fatto già capace; (B1., 49); hanno

cresciuto qua. (B2, 64).

b) con un cane che sarà pesato un chilo; i Russi sono passato il Don (C., 117);

sono ricercato; siamo incominciate; la gente che son viaggiato (B1, 49).

Nel caso di verbi riflessivo-mediali (mi avevo accumulato; mi ho sposato) la

sostituzione può dipendere dall’estensione analogica della corrispondente forma non

riflessiva, che richiede il verbo avere (ho accumulato, ho sposato). Invece in italiano

standard le forme riflessivo-mediali, a differenza di quelle non riflessive, richiedono il

verbo essere: per questo diciamo, ad esempio: ho lavato la macchina; ma mi sono

lavato, non *mi ho lavato.

In altri casi si avrà un’estensione del meno marcato ausiliare dei verbi intransitivi:

avere. In altri casi ancora, la sostituzione sarà da interpretare come interferenza

dialettale o come oscillazione dovuta ad incertezza..

In francese si sostituisce spesso l’ausiliare être con avoir, soprattutto con i verbi

pronominali (da F.G., 55 e P.G., 38):

a) J’ai resté toute la semaine au lit.

b) Je m’ai trompé.

c) Elle s’a donné un coup.

d) Je m’ai fait mal.

e) Il s’a cassé la gueule.

Nel caso dei verbi pronominali, è possibile che la sostituzione dipenda da

un’estensione analogica delle forme non pronominali degli stessi verbi, che vogliono

l’ausiliare avoir: j’ai trompé, j’ai donné.

In altri casi, invece si può dedurre che ci sia una generalizzazione della regola (di

solito applicata ai verbi che indicano una trasformazione) che vuole l’ausiliare avoir

quando si esprime il processo nella sua evoluzione, être quando si mette in risalto il

risultato del processo, lo stato compiuto. Ad esempio, in francese standard: elle a

embelli (processo); elle est embellie (risultato). In francese popolare, si generalizza

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questa contrapposizione anche a verbi che normalmente non l’ammettono. Così

abbiamo, ad esempio (da F.G., 55 e P.G., 38):

a) il a mouru (processo); il est mort (risultato).

b) il a bu (processo); il est bu (risultato: vuol dire “è ubriaco”).

c) il a sorti; il est sorti.

d) il a revenu; il est revenu

4.5 Mancato accordo del participio passato

In italiano popolare a volte non si accorda il participio passato retto dal verbo essere

(es. da B1, 57):

a) Mi è giunto la tua lettera.

b) È stato una raffica.

In francese popolare, un errore analogo consiste nel non accordare il participio

passato con i verbi pronominali o con il complemento oggetto anteposto rispetto al

verbo con ausiliare avoir, ma questo tratto è comune nel parlato in genere (es. da P.G.,

34-35):

a) Elle s’est mépris.

b) Elle s’est plaint.

c) Les conséquences qu’il a craint.

d) La lettre que j’ai écrit.

4.6 Comparazione analogica

In italiano popolare sono abbastanza frequenti le analogie nella formazione di gradi

aggettivali e avverbiali. Da un lato, si tende a regolarizzare le eccezioni: più bene, più

poco; dall’altro, si accumulano le regole, laddove, invece, si dovrebbe scegliere tra due

alternative: più meglio, più migliore, più peggio, più superiore, assai fortissimo, molto

bellissimo. Questi ultimi esempi si potrebbero anche interpretare come rinforzi

enfatizzanti.

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In francese popolare troviamo i corrispondenti: plus pire, plus mieux, plus meilleur,

davantage que (es : j’ai mangé davantage que toi). (F. G., 61).

4.7 Negazione semplice

In italiano popolare si tende a eliminare il primo membro (non) nelle costruzioni con

doppia negazione. Il non è avvertito come ridondante, perché il valore negativo è già

trasmesso dal secondo membro (mica, niente, mai nessuno, ecc.). Ecco qualche esempio

da C., 107:

a) Ho mica quattrini.

b) Mi faceva fare niente..

c) Ero mai salito in apparecchio.

d) Adesso sei più una bambina.

e) Ci si accorge neanche che è lunedì.

f) Abbiamo nemmeno il tempo di stare un po’ assieme.

Anche in francese popolare, il primo membro della doppia negazione (ne) viene

eliminato. Questo tratto è molto frequente nel parlato in genere (es. da P.G. 66):

a) Je pense pas.

b) Je bois pas d’eau.

c) Il y avait personne.

4.8 Che polivalente

In italiano popolare il che polivalente è usato in tutta la sua possibile gamma di

impieghi. Anche in francese popolare abbiamo un que polivalente con analoghe

funzioni:

1) come introduttore generico di una proposizione dipendente (es. italiani da B1, 53 e

B2, 61; es francesi da P.G., 72):

a) Arrostiamole che ce le mangiamo

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b) O vuto una disgrazia che mia morto un vitello.

c) Ieri ho ricevuto la vostra lettera che non crederete mai la gioia che provai che ancora

prima di leggerla mi missi a piangere.

d) Piove e non esco che fa freddo.

e) Ero vestita alla marinara che mi donava.

f) Se mi dà una licenza che vado a Bologna.

a) Reprends vite le petit que (parce que) je me suis trompé.

b) Il est venu que (pendant que) j’étais malade.

c) Approchez que (pour que) je vous cause.

d) Voilà bien longtemps qu’ (depuis qu’) il est venu.

e) Elle est bête que (au point que) c’est à pas y croire.

f) Qu’est qu’il y a donc qu’(puisque) il ne dit plus rien.

2) come introduttore della frase relativa. Il che e il que assumono il ruolo di pronomi

relativi indeclinabili. La loro funzione può essere indicata da un elemento di ripresa ( un

pronome personale o possessivo, una preposizione, ça). Esempi italiani da B1, 53 e C.

95; esempi francesi da F.G., 94 e 97:

a) La scatola che ci mettevo il tabacco.

b) Quella missione che te ne ho parlato.

c) Un capo partigiano che ero stato in prigionia insieme.

d) O visto io moltissimi che ci danno carne e brodo.

e) Ho visto dei prigionieri che gli facevano fare il bagno.

f) Tante cose che io ignoravo la pratica.

g) Fui comandato di portare una busta che non so il contenuto.

h) Un paese che passa la strada cantonale.

a) J’en vois qu’ils arrivent à dix heures du matin.

b) Un copain que j’ai passé mon enfance avec lui.

c) Il m’a offert une somme d’argent que ça suffit pas pour m’en sortir.

d) Une mère qu’on a exécute son fils devant ses yeux.

e) Prend le pot que c’est écrit dessus.

f) Elle me coûte chère ma salle de bain que je me sers pas d’ailleurs.

g) J’ai vendu ma petite maison que je tenais tant.

3) rafforzativo di una congiunzione subordinante (es. italiani da C., 97; es. francesi da

P.G., 73) :

a) Stai attento quando che spiega.

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b) Mentre che stavo fermo nel cancello.

a) Fais toujours comme si que tu n’en savais rien.

b) Je le ferais quand que j’aurais le temps.

c) Juste comme qu’il passait devant sa porte.

d) Quand même qu’il se serait égaré.

Sia in francese sia in italiano popolare si può arrivare anche alla soppressione del

che/que congiunzione o pronome relativo (es. italiani da C., 98; es. francesi da F.G., 93

e 98):

a) Mi parli sei andata a leggere due delle mie lettere da Fernando.

b) Dite a tutti quelli che si lamentano in Italia sono farabutti.

c) Per paura ancora il vecchio non le pagasse il canone.

d) Vi sono solo più donne lavorano in campi e sulle ferrovie e officine.

a) Ça fait la semaine on l’a pas vu.

b) Elle parle tellement vite on comprend rien.

c) Il y a des gens on on ne peut pas lui faire confiance.

4.9 La rarefazione del congiuntivo

In italiano popolare il congiuntivo viene spesso sostituito dall’indicativo. Già

abbiamo visto l’uso dell’imperfetto ind. nelle ipotetiche di terzo tipo. Anche nelle frasi

rette da verba putandi l’indicativo spesso si sostituisce al congiuntivo (da C., 102):

a) Per questo loro credono che non ho problemi.

b) Credemmo che era ferito.

c) Speriamo che il signore ci aiuta.

d) Spero che il signore non mi riserva una brutta sorpresa.

Il congiuntivo subisce un conguaglio con le forme dell’indicativo, più comuni. La

sostituzione è facilitata anche dal fatto che spesso alcune forme dell’ indicativo sono

uguali a quelle del congiuntivo: tu ami, noi amiamo, voi amaste (I coniug.); noi

temiamo, voi temeste (II coniug.); noi sentiamo, voi sentiste (III coniug.).

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Anche se il francese standard già ammette l’indicativo in frasi in cui l’italiano esige

il congiuntivo, la tendenza alla sparizione del subjonctif si riscontra anche nel francese

popolare (es. da F.G., 88 e P.G., 37):

a) Au cas où on a du retard.

b) Je veux pas qu’il part.

c) C’est rare que je suis séparée de lui.

d) Ça se peut qu’il est là.

e) Malgré qu’il est là.

f) Quoique il est pas là.

g) Sans qu’on sait pourquoi.

h) Je vous remets son adresse afin que vous pourrez continuer vos recherches.

i) Je vous demande son adresse pour que je peux lui écrire.

4.10 Periodo ipotetico

L’italiano standard prevede che si usi il congiuntivo nella protasi e il condizionale

nell’apodosi. In italiano popolare è frequente trovare, oltre a questo tipo standard, anche

i tipi:

1) condizionale-condizionale (B1, 59; C., 104):

a) Se io potrei avere tanti soldi aiuterei tanta gente.

b) Se sarebbe stato oggi, sarebbe nato un processo.

c) Se io starei a Milano, cambierei modo di vivere.

2) congiuntivo-congiuntivo, diffuso soprattutto tra parlanti di origine meridionale, e

specialmente siciliana (il siciliano è un dialetto senza condizionale; laddove in italiano

si usa il condizionale, in siciliano si usa sempre il congiuntivo); es. da C., 104:

a) Se non piovesse, uscissi.

b) Se io fossi uomo ci andassi ogni sera.

c) Se i signori i soldi li mettessero tutti in commercio, allora noi non venissimo tutti

qui.

3) condizionale-congiuntivo (C., 105):

a) Se sarebbe certo di farmi piacere, andasse pure al polo.

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b) Se potrei venire, non ci pensassi due volte.

4) imperfetto indicativo-imperfetto indicativo (costruzione frequente anche nel neo-

standard):

a) Se era più vicino, andavo a trovarla.

b) Se lo sapevo, non facevo così.

Il francese standard prevede l’imperfetto indicativo nella protasi e il condizionale

nell’apodosi, ma il francese popolare usa il doppio condizionale (es. da F.G., 89 e P.G.,

37):

a) Si j’aurais su, j’aurais pas venu.

b) Je l’aurais fait si tu me l’aurais demandé.

c) Si tu serais gentil, tu viendrais me voir.

In genere, il condizionale si sostituisce al congiuntivo quando dipende da verbi che

esprimono un’eventualità (es. da F.G., 89):

a) Supposons que je voudrais me marier.

b) Quand même il saurait le faire, il veut pas l’aider.

4.11 Scambi, sovraestensioni e accumuli di preposizioni

In italiano popolare, relativamente all’uso delle preposizioni, possiamo distinguere

quattro casi:

1) Preposizioni (di solito a o da) che introducono un infinito retto da un verbo (da C.,

114 e B1, 50):

a) Come quel pescatore che vidi a pescare.

b) Io ne ho sentito a parlare.

c) Spero da andare.

d) Ho pensato da scrivere.

2) accusativo preposizionale (diffuso specialmente nel meridione; es. da B1, 50 e C.,

113):

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a) Il padrone picchia al contadino.

b) Bisogna che sposi a me.

c) Per far studiare a voi, a te e a tuo fratello.

3) Sostituzioni preposizionali (da B2, 65; C., 115; B1, 50):

a) Io ho detto col dottore.

b) È lei l’interessata sulle scuole.

c) Avete fede a Dio.

d) Guardate a che maniera scrive.

4) Sovrabbondanza e accumulo di preposizioni (da C., 116):

a) Vi scriverò poi da in Francia

b) Bisogna essere in dei miei panni.

c) Non pensate male su di noi.

d) Scrivo da sul campo di battaglia.

In francese popolare si verificano casi analoghi a 1) e 3). L’infinito retto da verbo è

introdotto dalla preposizione de (es. da P.G., 70):

a) Je crois que vous aimez d’etre seul.

b) Je me préfère de rester.

c) Je te laisse de faire tout.

d) Penses-tu de sortir dimanche ?

Per quanto riguarda la sostituzione preposizionale, il francese popolare la applica

seguendo delle regole ben precise, mentre l’italiano popolare è più arbitrario, soggetto

ad oscillazioni e a interferenze dialettali.

In francese popolare:

- à esprime l’idea di avvicinamento, oppure regge l’agente nelle frasi passive (da

P.G., 69):

a) Partir à Paris, à la guerre.

b) Aller au coiffeur.

c) Il a été dirigé à une ambulance.

d) Mettre son mouchoir à sa poche.

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e) Nous avons fait visiter le chien au vétérinaire.

- de si usa per esprimere privazione (da P.G., 69) :

a) Se rappeler de quelqu’un (qui est absent).

b) S’ennuyer de sa famille (dont on est séparer).

c) Avoir fini du cuteau (dont on n’a plus besoin).

d) Pourquoi que vous avez quitté d’ici.

- après indica avvicinamento e contatto fisico, oppure forte interesse (da P.G., 70):

a) J’ai grimpé après un arbre.

b) Je cherche après Titine.

- en indica la materia di cui è fatto un oggetto (P.G., 69) :

a) Une assiette en étain.

b) Une fille en or.

4.12 L’aggettivo con funzione avverbiale

In italiano popolare è abbastanza frequente l’uso avverbiale degli aggettivi; questa

possibilità era presente nell’italiano delle origini ed è ammessa anche nel neostandard,

forse grazie all’uso ammiccante che ne fa la pubblicità. Ecco qualche esempio da C.,

111:

a) C’è tanta gente che parla difficile.

b) Avrei bisogno di parlare breve con l’avvocato.

c) Qua parlano brutto.

d) E’ impotente, parlando chiaro.

e) Quel signore, Piero, ragiona giusto.

f) Dava ordini nascosto.

g) Nella casa si viveva molto povero.

d) In giugno vengo a trovarvi sicuro.

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Il francese popolare sfrutta molto lo stesso espediente; ecco qualche esempio :

déconner sec, il l’a fait facile, acheter utile, rouler français. (F.G., 108). Si parla, in

questi casi, di transposition des catégories grammaticales; il francese si spinge più in là

dell’italiano, perché usa avverbialmente anche nomi: y aller pépère (ibid.).

4.13 Perifrasi aspettuali

In italiano popolare se ne distinguono tre sottotipi (es. tratti tutti da B1, 61):

1) progressivo-durativo, corrisponde allo standard stare + gerundio:

a) Sono dietro a partire.

b) Sono in cammino a farti una sigaretta (modulo dialettale piemontese).

2) incoativo:

a) Sono a darti mie notizie (= ora ti do mie notizie).

b) Vengo a dirvi (= ora ti dico).

c) Faccio che venire (vengo subito).

3) rafforzativo-durativo dell’imperativo:

a) Non stare a leggere (= non vale la pena che tu ti metta a leggere)

b) Non state a pensare (= non mettetevi a pensare).

In francese popolare le perifrasi aspettuali variano a seconda della provenienza

regionale dei parlanti (es. tratti tutti da F.G., 57). Possono essere di tipo:

1) conclusivo :

a) Je sors d’ être malade.

2) durativo :

a) Il est à travailler.

3) incoativo:

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a) Je m’en vais te dire ce que je pense.

b) Il veut pas pleuvoir toute de suite.

c) J’ai pensé de tomber.

d) J’étais pour partir.

e) J’étais partant quand il est arrivé.

4.14 Rafforzamento dei pronomi soggetto

In italiano popolare è frequente trovare noialtri e voialtri, forma rafforzate dei

pronomi soggetto di prima e seconda persona plurale. Anche in francese popolare ci

sono le forme nous autres, vous autres, e anche eux autres, pronomi tonici che si

oppongono ai pronomi atoni nous, vous, ils, così come avviene per moi-je, toi-tu, lui-il.

Forse questi pronomi rafforzati derivano non solo dalla necessità di contrapporre

implicitamente due categorie, ma anche dal fatto di dover distinguere, per la seconda

persona plurale, la formula di cortesia (un tempo ci si dava del voi anche in italiano) dal

pronome indicante una pluralità di persone.

4.15 Anacoluti, ellissi, frasi nominali, énoncés binaires

Sono frequenti in italiano e in francese popolare gli spostamenti dell’ordine dei

costituenti frasali a sinistra o a destra della frase. Non consideriamo qui le dislocazioni a

sinistra e a destra e le focalizzazioni, che compaiono anche dello standard. Più popolari

sono gli anacoluti, le strutture in cui l’elemento dislocato non viene ripreso in alcun

modo nella frase nucleare, oppure le frasi con ellissi del verbo essere o altri verbi; come

si vede, l’interpretazione di queste frasi si appoggia più sulla logica che sulla sintassi e

un ruolo importante spetta anche all’intonazione (es. italiani da B1, 60; B2, 62; C., 138

e 156; es. francesi da F.G., 77):

a) Da parte nostra nessun morto, ma il suo battaglione tutti accoppati.

b) Una bella mattina lì: - Svegli, svegli in svelto… - Dove si va? – Mah! – Con tutta

la roba in cortile.

c) Noi da qualche giorno è aumentata la famiglia.

d) Io il morale è alto e sono sempre allegro.

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e) Vengono i venditori ambulanti e io, qualcosa, ma compero sempre da tutti.

a) Un débutant, la peur elle est totale.

b) La cantine, y a rien à redire, le boulot, on se plaint pas.

c) Ça, pas question

d) Jean, son vélo, le guidon, c’est le chrome qui est parti.

e) Tu sais, la gare, la barrière, je cours pas, je passe par-dessus.

4.16 Dativo etico

Spesso si preferisce trasformare un verbo alla forma pronominale per indicare una

più forte partecipazione emotiva all’evento. Il pronome clitico che si accompagna al

verbo viene allora detto “dativo etico”: ci siamo mangiati una pizza; stasera mi guardo

la televisione; ti devi studiare la poesia a memoria; mi prenda una di queste compresse

due volte al dì (detto dal medico al paziente). Questo uso è diffusissimo nel parlato di

qualsiasi livello, ma i parlanti popolari tendono a lasciare sempre l’ausiliare avere nei

tempi composti (analogamente a quanto avviene per i verbi pronominali in genere): mi

ho comprato una macchina nuova; mi ho fatto tutta la strada a piedi.

Anche il francese popolare conosce l’impiego del dativo etico (P.G., 85; F.G., 66):

a) Faites-moi ça.

b) Arrive-moi donc voir.

c) Regarde-moi ça !

d) Alors quand c’est qu’on se le bouffe, ce canard ?

e) Je te lui ai flanqué une de ces baffes !

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5. POPOLARE, SOTTOSTANDARD O STANDARD?

Leggendo gli studi sull’italiano popolare (da Cortelazzo a Berruto), non si può fare a

meno di notare che molti tratti costitutivi di questa varietà diastratica sono al giorno

d’oggi condivisi da parlanti di ogni classe sociale e rientrano in quello che Francesco

Sabatini chiama “l’italiano dell’uso medio”, ovvero una varietà usata soprattutto nel

parlato, ma anche nello scritto, in situazioni di informalità o di media formalità

(Sabatini, 1985, p. 156). Sembra quasi, come abbiamo precedentemente osservato, che i

tratti popolari abbiano subito in questi ultimi anni una sorta di ‘promozione’: dal

popolare al colloquiale, dal colloquiale allo standard.

Sarebbe interessante capire per quali motivi questo sia avvenuto. Non crediamo che

sia solo perché le masse popolari, impadronendosi dell’italiano, l’avrebbero per forza di

cose modificato e ristandardizzato. È vero che una buona parte di persone che

appartenevano a strati sociali inferiori ha avuto, negli ultimi decenni, la possibilità di

accedere all’istruzione anche di alto livello, e di impossessarsi così del buon uso della

lingua italiana; ma probabilmente ci sono anche ragioni di natura psico-sociologica:

oggi parlare spontaneamente, anche se con più di qualche sgrammaticatura, sembra

essere socialmente vantaggioso. Quindi anche le persone ‘colte’ a volte adottano dei

tratti sub-standard per adattarsi alla situazione e all’interlocutore. Oggi l’aggettivo

“popolare” (riferito all’italiano o ad altri aspetti della realtà sociale) ha perso ogni

accezione spregiativa che poteva avere in passato e può essere in alcuni casi un modello

positivo da imitare. Quindi certi tratti non sono visti necessariamente come errori che

rivelano la scarsa cultura del parlante, ma come una forma, come dicevamo, di

spontaneità e di schiettezza di comportamento. Inoltre, come insegnato da Labov, questi

tratti possono comparire e sparire nello stesso individuo a seconda della situazione,

come un abito che si indossa e che si toglie.

Aggiungiamo infine che molti tratti popolari dell’italiano hanno dietro di loro una

lunga tradizione, e il neostandard, recuperandoli, non produce nulla che sia

autenticamente nuovo; ripropone degli usi e dei costrutti già attestati nell’italiano delle

origini, spesso anche presso grandi autori: “la novità dell’italiano dell’uso medio

riguarda sostanzialmente la validità della norma, non le caratteristiche profonde del

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sistema” (Sabatini, 1985, p. 178). L’italiano neostandard ripropone modalità più

semplici, più regolari, più lineari della lingua già lungamente sperimentate nel corso dei

secoli non solo dagli umili parlanti popolari ma anche dai grandi scrittori.

Vediamo quali sono i tratti popolari che Sabatini e Berruto hanno individuato come

facenti parte, ora come ora, di quella stessa varietà che chiamano rispettivamente

italiano dell’uso medio e italiano neostandard.

5.1 Gli polivalente o sincretico

In italiano popolare si tende a ridurre ad un’unica forma il paradigma dei pronomi

dativi di terza persona. Per questo è molto comune usare sempre gli/li o ci, oppure, più

raramente, le, che, a seconda dei casi, svolgono la funzione che nello standard spetta a

gli, le, loro. Esempi tratti da C., 88; B2, 63; C., 88:

a) Gli [a una donna] feci una dichiarazione d’amore.

b) Zoppicavano perché gli erano gelati un po’ i piedi.

c) C’era la sentinella, io ci detti uno spintone.

d) Ci [ai nipoti] dico che è brutto emigrare.

e) Neanche un po’ d’aiuto possiamo darle [al padre].

f) Come faccio a darle da mangiare alle mie sorelle?

Questa tendenza ad un’unica forma si appoggia anche all’uso dialettale: raramente i

dialetti distinguono i pronomi dativi di terza persona a seconda del genere e del numero.

Ad esempio, in dialetto veneto, ghe può voler dire a lui, a lei, e anche a loro; inoltre si

usa come avverbio di luogo (ghe vago = ci vado). In siciliano le stesse funzioni spettano

a ci: ci vaiu = ci vado; ci dicu = dico a lui/ a lei/ a loro.

Nell’italiano dell’uso medio ritroviamo un gli polivalente che può indicare un

complemento di termine sia maschile sia femminile, sia singolare sia plurale. Gli al

posto di loro è ormai comunissima nel parlato e anche nello scritto di media formalità.

Normale è anche usare gli per un oggetto inanimato (laddove, invece, sarebbe più giusto

usare ci): Mi può passare quella pagina? Vorrei dargli un’occhiata (Berruto, 1987, p.

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74). Abbastanza frequente nel parlato informale anche gli per le, ma nello scritto questa

sostituzione è ancora un errore.10

5.2 Ci + verbo avere

Il verbo avere, quando è verbo pieno, lessicale, è preceduto spesso da ci: c’ho,

c’abbiamo, c’hanno, c’ho avuto, ecc. Ci si può definire come una proforma generica

che non ha valore locativo. Probabilmente nell’uso popolare aveva originariamente

valore rafforzativo ma oggi non è più così: l’uso di averci come sinonimo di avere è

sempre più frequente senza distinzioni geografiche (ed è diffuso anche grazie alla

televisione). Queste forme, usate universalmente nell’orale, sono poco ricorrenti nello

scritto; quando questo avviene,sorge un problema grafico. La grafia di c’ho è da molti

criticata perché si presta ad essere letta come [ko], e anche perché in italiano antico

c’ho era una forma elisa per che ho: E 'l colpo suo, c'ho portato nascoso (Dante, Rime,

XXI). Altre grafie proposte sono ciò (ma ha l’inconveniente di confondersi con il

pronome dimostrativo), oppure ci ho (che però non rende la pronuncia esatta, perché

invita a leggere la i di ci).

5.3 Il che polivalente

Il che polivalente è un tratto che abbiamo già esemplificato come tipico dell’italiano

popolare. Si stanno gradualmente integrando nello standard i tipi:

- esplicativo-consecutivo: tu vai avanti che sai la strada; vieni che ti pettino;

aspetta che te lo spiego.

- temporale: la sera che ti ho incontrato; quell’estate che andammo in Sardegna;

è un’ora che ti aspetto; mi alzai che era ancora notte.

10

Anna Cardinaletti ha illustrato la differenza dei due processi di sostituzione gli per le e gli per loro nelsuo studio “L’italiano contemporaneo: cambiamento in atto e competenza dei parlanti” in A. Cardinalettie F. Frasnedi (a cura di), Intorno all’italiano contemporaneo. Tra linguistica e didattica, Milano, FrancoAngeli, 2004.

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- pronome relativo indeclinabile (questo tipo compare nel parlato, ma non è

ammissibile nello scritto): la valigia che ci ho messo i libri; quel mio amico che

gli hanno rubato la macchina; quel film che ne hanno detto meraviglie.

- enfatizzante-esclamativo (in origine di uso settentrionale): che sogno che ho

fatto!

5.4 Ipotetiche dell’irrealtà con l’imperfetto

Il tipo se lo sapevo, non partivo guadagna terreno rispetto a se lo avessi saputo, non

sarei partito, soprattutto nel parlato. È più breve e soprattutto evita di usare il

congiuntivo-condizionale, modi di per sé un po’ ostici: il passaggio dall’uno all’altro

nella stessa frase, poi, può indurre in errore. La formula imperfetto-imperfetto, invece, è

assai più facile. L’imperfetto è poi un tempo che tende a coprire, quasi fosse un modo,

tutti i valori controfattuali: si pensi all’imperfetto ludico in frasi come facciamo che io

ero il bandito e tu lo sceriffo, tipiche dei giochi infantili, e all’imperfetto di cortesia:

volevo un chilo di pere. Si nota inoltre che l’imperfetto tende a sostituire il condizionale

non solo nel periodo ipotetico dell’irrealtà, ma anche nel discorso indiretto per indicare

il futuro nel passato: mi ha detto che sarebbe venuto è frequentemente sostituito da mi

ha detto che veniva.

A questo proposito è interessante notare che nelle frasi ipotetiche l’uso

dell’indicativo assume proprio il valore della controfattualità perché esprimono la sicura

falsità del contenuto che trasmettono; possono sostituire la forma standard congiuntivo-

condizionale ogni volta che si vuole esprimere la controfattualità, ma non quando si

vuole esprimere la possibile falsità o la possibile verità del contenuto:11

a) Se gli piacesse leggere, gli regalerei un libro, ma non gli piace � Se gli piaceva

leggere, gli regalavo un libro, ma non gli piace.

b) Se [qualora] gli piacesse leggere, gli regalerei un libro � *Se gli piaceva

leggere, gli regalavo un libro.

c) Se vincessi la lotteria, mi comprerei una villa, e spero proprio di vincere � *Se

vincevo la lotteria mi compravo una villa, e spero proprio di vincere.

11

Si veda M. Mazzoleni, “Frasi ipotetiche”, in L. Renzi, G. Salvi, A. Cardinaletti, Grande grammaticaitaliana di consultazione (vol. II), Bologna, il Mulino, 1995.

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5.5 Concordanze ad sensum

In italiano popolare le concordanze ad sensum ricorrono molto spesso quando il

soggetto è un nome collettivo: gente, uomini, pattuglia, scarica, guadagno,

commissone, artiglieria, popolo, ecc. Si concordano al plurale anche le percentuali: il

cinquanta per cento non sanno leggere (C., 82). Non solo il verbo, ma anche l’aggettivo

può essere concordato ad sensum: ò ancora visto tanta gente scalzi (C., 82).

L’italiano dell’uso medio ricorre spesso alle concordanze logiche con i nomi

collettivi (un milione, una decina, un’infinità, un insieme, un gruppo, la maggioranza)

specialmente se seguiti dal partitivo al plurale; es: un milione di persone hanno assistito

allo spettacolo. Nello scritto le concordanze logiche sono più rare che nel parlato, ma

sono normali con i nomi che indicano una quantità numerica: un milione/ una decina/

un centinaio di persone sono partite ieri è molto più comune di un milione/ una decina/

un centinaio di persone è partito/a ieri.

Riportiamo gli esempi tratti da testi formali individuati da Berruto (1987, p. 81):

a) Negli Stati Uniti la grande pluralità delle fonti di finanziamento garantiscono…

(L’Espresso 1986, p. 175).

b) Quel pubblico di professori […] volevano innanzitutto sentire… (Sigma 1985, 6).

Aggiungiamo anche qualche altro esempio tratto dalle tesine dei corsiti del master in

didattica dell’italiano come L2:

c) Tutta la classe si è adeguata alle tecniche proposte dall’insegnante e, una volta

compresi gli obiettivi delle esercitazioni, si sono destreggiati alla meglio.

d) Dai 3-4 anni il bambino comincia ad assumere l’imperfetto […] e solo dopo

questo periodo cominciano a formare passato prossimo e passato remoto.

5.6 Ridondanze pronominali

In italiano popolare sono comuni i costrutti pronominali ridondanti. Se ne possono

individuare tre tipi (gli esempi e la suddivisione tipologica sono quelli proposti da

Berruto, 1983, 46):

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- reduplicazione del pronome obliquo: a me mi sembra, ci vorrei scriverci,

poi mi chiamano a me, ti spedisco a te i soldi, ti vorrei spiegarti, gli voglio

scrivere anche a lui.

- catafora pronominale: falli coraggio a papà.

- catafora aggettivale: il suo amico del tranviere.

In italiano neostandard si possono incontrare spesso reduplicazioni del pronome

obliquo, specialmente nel parlato: a me mi piace, a me mi sembra... ma non ci voglio

scriverci, ti vorrei spiegarti; infatti nel primo caso abbiamo dislocazioni a sinistra

favorite dalla natura dei verbi. Piacere, dispiacere, dolere, sembrare, ecc. sono verbi

psicologici o d’opinione con due argomenti: l’esperiente e l’oggetto. Ma sintatticamente

l’oggetto diventa soggetto, mentre l’esperiente diventa compl. di termine; l’esperiente

non diventa soggetto e l’oggetto non diventa complemento oggetto come accade in altre

lingue (j’aime cela; I like it). Poiché noi siamo abituati ad avere come soggetto un

essere animato, tendiamo a dislocare a sinistra il compl. di termine (che naturalmente è

sempre animato, visto che gli oggetti non possono provare sentimenti o avere opinioni)

e a metterlo in posizione di rilievo. Il clitico di ripresa (mi), come in tutte le dislocazioni

a sinistra, può essere presente. In spagnolo questa reduplicazione è anzi obbligatoria (a

mi me gusta).

Immotivate sono invece le duplicazioni del tipo ti vorrei spiegarti. In italiano

popolare erano forse dovute all’incontro tra due forme entrambe ammesse dallo

standard ma tra cui non ci si sapeva decidere (ti vorrei spiegare e vorrei spiegarti); in

italiano neostandard sono assenti, perché non hanno alcuna funzione; al massimo ci

possono essere duplicazioni dovute a dislocazioni (a te ti vorrei spiegare…).

Quanto ai tipi mi chiamano a me (notare che in realtà qui abbiamo anche l’accusativo

preposizionale), ti spedisco a te i soldi, gli voglio scrivere anche a lui, sono esclusive

del parlato colloquiale, quindi non standard e nemmeno neostandard, per il momento.

Invece Berruto nota la reduplicazione del complemento di argomento: di questo

argomento ne parlerò domani. Nel neostandard frasi del genere non sono marcate come

le altre dislocazioni a sinistra; il ne, più che un clitico di ripresa, è ormai un morfema

desemantizzato legato al verbo (Berruto, 1987, p. 77). Qualche esempio riportato da

Berruto (ibid.):

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a) Ma di questo e di altro ne parleremo nella seconda puntata (L’espresso, 27 ott.

1985)

b) L’episodio di Adamo ed Eva, di cui ne parlerò più avanti… (parlato radiofonico)

c) Quindi ne avete avuto un’idea di che cosa propone questa simpaticissima

cantante (parlato radiofonico).

d) Di questo fenomeno se ne sta parlando moltissimo (Radio Tre, 7 apr. 1987).

e) Questo è un problema di cui ne sappiamo molto poco (parlato radiofonico

formale).

Il tipo di ridondanza fagli coraggio a papà è accettabile nel neostandard solo se lo si

intende come una dislocazione a destra: - E papà? – Fagli coraggio, a papà, altrimenti

il suo uso rimane popolare: - Cosa devo fare? – Fagli coraggio a papà.

Il tipo il suo amico del tranviere è frequente nel parlato colloquiale. Infatti il

pronome o l’aggettivo possessivo suo/sua possono risultare ambigui, in quanto si

accordano con la cosa posseduta, ma non con il possessore. Suo può voler dire di lei, o

di lui, o, in italiano popolare, anche di loro. Ecco un esempio di frase ambigua: Mario

ha visto Gianni che baciava la sua ragazza. Sua di chi? Di Mario o di Gianni? La

preoccupazione di non essere stati chiari spinge a specificare ulteriormente,

aggiungendo subito dopo il nome del possessore. Nel parlato di media formalità, però si

preferisce risolvere l’ambiguità in modo leggermente diverso: non si dirà Mario ha

visto Gianni che baciava la sua ragazza di Mario, ma Mario ha visto Gianni che

baciava la sua ragazza, sua di Mario, oppure la sua ragazza, la ragazza di Mario.

5.7 Accusativo preposizionale

L’accusativo preposizionale è un tratto che ricorre spesso nell’italiano popolare di

parlanti centro-meridionali: il padrone picchia al contadino (B1, 50). Ma l’italiano

dell’uso medio ne fa abbondante uso, specialmente con pronomi personali di prima e

seconda persona topicalizzati, e con i verbi psicologici o d’opinione:

a) A me non mi vuole nessuno.

b) A me non (mi) convince il suo improvviso cambiamento.

c) A me (mi) fa arrabbiare la sua arroganza.

d) Io, a te, non ti sopporto più!

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e) A me mi escludono sempre.

f) Mi ha fatto incavolare pure a me.

g) Sei bella come il sole, a me mi fai impazzire (da una canzone di Jovanotti).

L’accusativo preposizionale coinvolge sempre un complemento oggetto animato;

non si può dire: *a questa situazione non la sopporto; *ho visto a un castello; invece si

può dire: a te non ti sopporto; ho visto a mia zia.

L’accusativo preposizionale è standard in altre lingue romanze, cioè in spagnolo,

portoghese e romeno (Berruto, 1983, 51).

5.8 C’è, ce n’è forme invariabili

In italiano popolare si incontrano spesso frasi in cui c’è viene trattato come una

formula fissa e invariabile del verbo esserci nel suo senso locativo o esistenziale, perciò

non si accorda con i soggetti al plurale: ce donne e bambini austriaci, c’è pochissimi

contatti, c’è molti sarti, c’è qui tanti… (B1, 57).

In italiano neostandard si può notare a volte lo stesso fenomeno, specialmente con ce

n’è, diventato, a quanto pare, un sintagma fisso invariabile. Ecco un paio di esempi

raccolti da Berruto (1987, p. 81):

a) Giornalisti che professionalmente […] in Italia ce n’è pochi; in Germania ce n’è

molti, e hanno un certo peso (Tuttolibri, 27 sett. 1986, p. 7).

b) Rapinatori e prostitute ce n’è in ogni sistema sociale (Radio Tre, 30 apr. 1987).

5.9 La decadenza del congiuntivo

“Non vi sono dubbi che il congiuntivo nelle frasi subordinate sia in recessione”, nota

Berruto (1987, p. 70). Ma è ancora ben presente nell’italiano attuale, e parlare di “morte

del congiuntivo” è senz’altro prematuro. Inoltre bisogna aggiungere che l’indicativo

dopo i verba putandi è una possibilità da sempre ammessa nell’italiano (specialmente il

futuro, ma anche gli altri tempi), e documentata ampiamente in letteratura. Tuttavia è

indiscutibile che il neostandard tenda ad estendere l’indicativo:

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- dopo i verba putandi: qualcuno crede ancora che si possono fare miracoli. In

dipendenza da questi verbi, si sceglie l’indicativo soprattutto se l’evento si

configura come reale, o se l’opinione espressa, benché introdotta da penso che,

credo che, ecc. è sentita come incontestabile; perciò è molto più frequente

l’indicativo quando l’opinione manifesta un giudizio perentorio: penso che è

giustissimo/verissimo/scandaloso…

- nel periodo ipotetico dell’irrealtà: se me lo dicevi prima, ti aiutavo io.

- dopo le dichiarative negative: non dico che hai torto; non so se è partito.

- nelle interrogative indirette: gli chiesi se poteva aiutarmi.

- nelle relative restrittive: sei l’unico che mi sta a sentire; non c’è nessuno che lo

sa.

Invece il congiuntivo resiste ancora bene:

- nelle frasi indipendenti: Si accomodi! Che lo faccia lui! Magari fosse già qui!

- dopo alcuni verbi di volontà: Voglio che venga subito; voglio che viene subito è

molto più raro. Vorrei che fosse qui, non *vorrei che è qui. Pretendo/esigo che

il lavoro sia finito entro domani, non *pretendo/esigo che il lavoro è finito

entro domani.

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6. POPOLARE IN ITALIANO, STANDARD IN FRANCESE

Alcuni tratti dell’italiano popolare o, più in generale, dell’italiano sub-standard,

hanno delle forme corrispondenti che sono standard in francese. Forse ciò è dovuto al

fatto che l’italiano e il francese stanno percorrendo uno sviluppo parallelo, ma a velocità

diversa.12 Come abbiamo visto, in italiano molti tratti preminentemente popolari sono

entrati nel neostandard. È possibile che l’uso detto “popolare” di una lingua sia davvero

una risorsa per capire quale potrebbe essere la lingua di domani, soprattutto quando

vediamo che forme che noi ancora stentiamo ad accettare sono da tempo ammesse nello

standard in altre lingue europee vicine genealogicamente all’italiano, come il francese.

6.1 Il congiuntivo

In francese, diversamente dall’italiano, le completive rette da verbi d’opinione

vogliono l’indicativo o il condizionale, non il congiuntivo. Solamente se il verbo

d’opinione è in forma negativa la dipendente avrà il verbo al congiuntivo:

a) Je crois qu’il est nécessaire d’intervenir. Ma : Je ne crois pas qu’il soit

nécessaire d’intervenir.

b) Nous pensons qu’il est trop tôt pour partir. Ma : Nous ne pensons pas qu’il soit

trop tôt.

c) Je suppose que vous avez compris. Ma : Je ne suis pas sûr que vous ayez

compris.

Se il verbo della principale è in forma interrogativa, può esserci il congiuntivo o

l’indicativo; quando non si usa l’inversione, il verbo resta all’indicativo:

a) Crois-tu qu’il soit parti?

b) Tu crois qu’il est parti ?

c) Est-ce que tu crois qu’il est parti ?

12

Cfr. Lorenzo Renzi, “Le tendenze dell’italiano contemporaneo. Note sul cambiamento linguistico nelbreve periodo”, Studi di lessicografia italiana, XVII, 2000, p. 303.

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Nelle comparative, il francese usa l’indicativo:

a) Il est plus vieux que je ne croyais.

In italiano possiamo avere il congiuntivo, quando il registro è più elevato, o

l’indicativo: era più vecchio di quel che credessi/credevo. Forse un giorno anche

l’italiano, come il francese, abbandonerà del tutto il congiuntivo in casi come questo.

Nelle interrogative indirette il francese ammette solamente l’indicativo :

a) Je ne sais pas ce qu’il a pu penser.

b) Nous nous sommes demandé comment il était venu.

In italiano possiamo avere il congiuntivo quando il registro è elevato, o l’indicativo

nel registro di media e bassa formalità :

a) Non so che cosa abbia pensato/ ha pensato/ avrà pensato.

b) Ci siamo chiesti come fosse venuto/era venuto.

Anche in questo caso è possibile che l’italiano, a lungo andare, elimini

definitivamente il congiuntivo come ha fatto il francese

In generale, in francese il congiuntivo viene usato quasi esclusivamente nei tempi

présent e passé. L’imparfait e il plus-que parfait sono confinati all’uso scritto sostenuto

e letterario, di solito limitatamente alla III persona, per rispettare la consecutio

temporum.

6.2 Il periodo ipotetico

In italiano lo standard prevede che nel periodo ipotetico del III tipo si usi il

congiuntivo trapassato nella protasi e il condizionale passato nell’apodosi: se lo avessi

saputo, te lo avrei detto. Nel neostandard è molto più frequente la costruzione con il

doppio imperfetto: se lo sapevo, te lo dicevo (cfr. § 5.4). Ma ci sono anche i tipi “misti”:

se lo sapevo, te lo avrei detto e, più raro, se lo avessi saputo, te lo dicevo.

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In francese si usa l’imperfetto indicativo nella protasi e il condizionale presente

nell’apodosi nell’ipotetica di II tipo, mentre nell’ipotetica di III tipo si usa l’indicatif

plus-que-parfait nella protasi e il condizionale passato nell’apodosi:

a) Si je le savais, je te le dirais (= se lo sapessi, te lo direi).

b) Si je l’avais su, je te l’aurais dit (= se lo avessi saputo, te lo avrei detto).

Abbiamo anche un caso in cui una costruzione ammessa come standard in italiano è

popolare in francese. Il periodo ipotetico con doppio futuro, comunissimo in italiano, è

considerato popolare da Gadet (p. 88). In effetti, le grammatiche francesi per italofoni

raccomandano di usare sempre il presente nella protasi, il futuro nell’apodosi:

a) Se tu vorrai, verrò a trovarti �*Si tu voudras, je viendrai te voir (popolare). Si

tu veux, je viendrai te voir (forma standard).

b) Se farai quel che ti dico, non ti punirò � *Si tu feras ce que je te dis, je ne te

punirai pas (popolare). Si tu fais ce que je te dis, je ne te punirai pas (forma

standard).

6.3 Pronomi: gli-lui

In francese esiste un solo pronome personale dativale per la terza persona singolare

maschile e femminile: lui. La frase Je lui ai parlé può significare sia gli ho parlato sia

le ho parlato.

L’italiano popolare tende ad estendere la forma maschile gli a tutti i generi e numeri

della terza persona, maschile e femmine, singolare e plurale, animata e inanimata. Il

neostandard sta gradualmente accogliendo quest’uso di gli come pronome sincretico: gli

per loro è molto frequente nello scritto, gli per le ricorre nell’orale ma si evita nello

scritto (cfr. § 5.1). È molto probabile che in futuro gli si sostituisca completamente a le

e a loro. In francese l’opposizione lui-leur resiste benissimo perché il leur francese è

privo di accento tonico e può occupare le medesime posizioni di lui nella frase. Invece

in italiano loro è dotato di accento tonico e, in quanto pronome debole13, non può

13

Cfr. A. Cardinaletti, “L’italiano contemporaneo: cambiamento in atto e competenza dei parlanti”, in A.Cardinaletti, F, Frasnedi (a cura di), Intorno all’italiano contemporaneo. Tra linguistica e didattica, op.cit.

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occupare le stesse posizioni di gli all’interno delle frase, e queste complicazioni

favoriscono l’estinzione di loro:

a) Je lui ai dit de venir tout de suite.

b) Je leur ai dit de venir tout de suite.

c) Gli ho detto di venire subito

d) *Loro ho detto di venire subito.

e) Ho detto loro di venire subito/ Ho loro detto di venire subito (sostenuto)

6.4 C’è – il y a

L’italiano popolare usa c’è e ce n’è come formule fisse invariabili (es: c’è molti pini).

Anche nel neostandard si sta diffondendo quest’uso. In francese il y a è invariabile e si

usa anche con soggetti al plurale (*il y ont non esiste):

a) Il y a des enfants. Il n’y a pas d’enfants.

b) - Est-ce qu’il y a des enfants ? - Il y en a pas.

6.5 Articoli partitivi

In italiano è sconsigliabile usare una preposizione seguita da un partitivo (con dei, a

delle, ecc.) in contesti formali perché queste combinazioni sono considerate regionali14.

L’italiano popolare ne fa invece molto uso (es. da C., 116):

a) È in mezzo a dei boschi

b) Arrivano dei pacchi con del tabacco.

c) Sua madre che era con dei fratelli sposati.

Anche nell’italiano dell’uso medio è una combinazione ricorrente:

d) Sono uscito con dei miei amici del liceo.

e) Si è rivolto a delle persone fidate.

f) Prova ad aggiustarlo con della colla.

14

Cfr. L. Rizzi, “Il sintagma preposizionale” e L. Renzi, “L’articolo”, in L. renzi, G. Salvi, A. Cardinaletti,Grande grammatica italiana di consultazione (vol. 1), op. cit.

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g) Passerà la notte da dei parenti.

h) Sono passato per delle strade che non avevo mai fatto.

In francese è obbligatorio usare il partitivo anche in casi in cui in italiano si usa solo

l’articolo determinativo o indeterminativo oppure non si usa nulla:

a) Hai avuto fortuna � tu as eu de la chance.

b) Il pomeriggio prendo il tè � l’après midi, je prends du thé.

c) Ha la febbre � il a de la fièvre.

d) Mi piace ascoltare musica � j’aime écouter de la musique.

e) Prendi un’aspirina � prends de l’aspirine.

Anche con le preposizioni, il partitivo rimane:

a) Je suis sorti avec des amis.

b) Il y a des paquets avec du tabac.

c) Il passera la nuit chez des parents.

6.6 Concordanze logiche

L’italiano popolare interpreta come plurali gli indefiniti qualche, qualcuno, nessuno

che a volte diventano qualchi, qualcuni, nessuni, oppure sono seguiti da un sostantivo o

un verbo al plurale (es. da C., 80 e 82):

a) Dacché incominciò lavanzata non se ne videro più nissuni.

b) Che non richiamassero più nissuni.

c) Qualchi piatti.

d) Qualche fumate.

e) Qui ancora vivono qualche donna russa.

Sono casi che rientrano nella tipologia delle concordanze logiche (cfr. § 4.3). Ci

soffermiamo specialmente su qualcuno e qualche perché in francese i corrispondenti

quelque e quelqu’un possono, anzi devono, avere il plurale quando hanno un significato

di pluralità. In francese il nostro qualcuno può essere tradotto con quelques-uns

(plurale) quando l’indeterminazione riguarda il numero:

a) Ne ho visto qualcuno � j’en ai vu quelques-uns.

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b) Qualcuno dei miei amici ha mentito (non si sa quanti) � Quelques-uns de mes

amis ont menti.

Quando l’indeterminazione riguarda non il numero, ma l’identità, qualcuno è

tradotto con quelqu’un, al singolare:

a) Qualcuno è venuto a cercarti � quelqu’un est venu te chercher.

b) Qualcuno dei miei amici ha mentito (uno, non si sa chi) � quelqu’un de mes

amis a menti.

In francese il nostro qualche può essere tradotto in due modi: quando è aggettivo

indefinito di quantità e significa “alcuni, un po’ ”, si traduce con quelques, al plurale:

a) Il ne nous reste plus que quelques petits problèmes à résoudre.

b) Vous recevrez votre commande dans quelques jours.

Se invece significa “un qualche, un certo”, si usa quelque al singolare:

a) Si vous avez quelque problème, n’hésitez pas à venir nous trouver.

b) Je ne trouve plus mes gants ; je les aurais oubliés quelque part.

6.7 Interrogative dirette

In italiano neostandard è molto frequente l’abitudine di formulare le domande in

forma di frase scissa:

a) Chi è che sta parlando?

b) Cos'è che vuole?

c) Dov'è che vai?

d) A chi è che l'hai detto?

e) Quand'è che parti?

In francese il modo più comune di volgere una frase alla forma interrogativa prevede

l’inserimento della formula est-ce que, che vuol dire proprio è che; in origine costituiva

una forma marcata di interrogazione, ma poi divenne sempre più diffusa perché

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permetteva di formulare la domanda senza dover fare l’inversione. Si può usare nelle

interrogative parziali:

a) Qui est-ce qui est en train de parler?

b) Qu’est-ce qu’il veut ?

c) Où est-ce que tu vas ?

d) A qui est-ce que tu l’as dit ?

e) Quand est-ce que tu pars ?

A differenza dell’italiano, in francese si usa comunemente anche nelle interrogative

totali :

a) Est-ce que tu es en colère avec moi? (trad. lett.: ‘È che sei arrabbiata con me ?’ In italiano è

una domanda possibile: significa ‘sei arrabbiata con me? È per questo che ti comporti così?’)

b) Est-ce que tu as une cigarette? (trad. lett.: ‘È che hai una sigaretta ?’)

Si può notare che in Italia centrale (per es. a Firenze e a Roma) è molto diffuso un

modulo colloquiale che introduce l’interrogativa totale con un che, che può essere

avvicinato al francese est-ce que…:

a) Che sei arrabbiata con me? / Che, ti sei arrabbiata?

b) Che ce l’hai una sigaretta?

Per tradurre in francese la sfumatura rafforzativa data dall’interrogativa scissa

italiana, si può introdurre la frase con un c’est; queste forme sono colloquiali:

a) C'est qui qui est en train de parler?

b) C'est quoi qu'il veut?

c) C'est où que tu vas?

d) C'est à qui que tu l'as dit?

e) C'est quand que tu pars?

È possibile che l’italiano, col passare del tempo, non avverta più come marcate le

interrogative scisse e che il tipo chi è che hai visto si sostituisca completamente a chi

hai visto. In effetti, anche oggi non sempre l’interrogativa scissa porta con sé una

sfumatura rafforzativa e ricorre in contesti in cui si potrebbe benissimo usare

l’interrogativa semplice.

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CONCLUSIONE

Il nostro studio comparato sulla varietà popolare in due lingue diverse ma

genealogicamente parenti come il francese e l’italiano ha messo in luce alcune analogie

e ci ha permesso di comprendere il ruolo importante della varietà popolare in rapporto

alle altre varietà e al cambiamento linguistico.

Abbiamo visto quali siano state le condizioni che hanno favorito l’emergere della

lingua popolare come fenomeno di massa: l’industrializzazione, lo sviluppo economico,

il conseguente inurbamento che ha favorito il contatto tra persone di varia provenienza

geografica; e poi, ancora, la scolarizzazione via via più diffusa, il livello di istruzione

sempre più alto, i conflitti che hanno visto combattere fianco a fianco soldati

provenienti da diverse regioni; infine, importantissimo è stato il ruolo dei mezzi di

comunicazione di massa (cinema, radio e televisione).

Abbiamo visto che la varietà popolare si sviluppa sia in Italia che in Francia grazie a

situazioni di contatto tra persone di varia provenienza geografica che si sforzano di

superare la barriera del dialetto per comunicare tra loro: in Francia questa condizione si

è creata a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quando lo sviluppo economico e

industriale ha attratto a Parigi grandi masse di lavoratori provenienti dalle campagne

circostanti. In Italia, invece, l’evento che ha incrementato grandemente il ricorso

all’italiano popolare è stato la Prima Guerra Mondiale. Tra la nascita del francese

popolare e quella dell’italiano popolare c’è quindi uno scarto di più di cinquant’anni.

Bisogna anche ricordare che la Francia aveva già, a Parigi, una varietà di francese

‘urbano’ che esisteva fin dal XVII secolo; ed è proprio questa varietà urbana che

costituisce il nucleo del francese popolare. L’italiano popolare, invece, non subisce

l’attrazione di nessuna città particolare. Mentre il francese popolare era una lingua

parlata quotidianamente e trasmessa anche come lingua madre, l’italiano popolare era, e

lo è stato fino a non molto tempo fa, una lingua ‘di necessità’, a cui il popolo ricorreva

solamente quando non poteva farne a meno. Si vede bene, quindi, che non c’è una

perfetta equivalenza tra il concetto di italiano popolare e quello di francese popolare.

Un’altra differenza è data dall’approccio con cui sono state studiate queste varietà

nei due Paesi. In Francia i primi studi erano volti più che altro a correggere quella

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‘cattiva lingua’, secondo fini prescrittivi piuttosto che descrittivi. In Italia, invece, la

lingua popolare è stata scoperta con entusiasmo ed è stata oggetto di accurate analisi e

di numerose riflessioni, al contrario della Francia, che non ha poi prestato molta

attenzione a questa varietà. In Italia si parlò di “italiano popolare unitario” (De Mauro),

perché dalla lettura delle lettere dei prigionieri di guerra e dei soldati al fronte era

emersa una sostanziale uniformità, nonostante la diversa provenienza geografica degli

autori; ma ben presto ci è resi conto che l’italiano popolare è soggetto a interferenze

dialettali e a particolarità fonologiche, morfologiche e sintattiche che rendono palese la

provenienza geografica del parlante e oggi si è d’accordo nel considerarlo una varietà

diastratica dell’italiano regionale. In Francia, invece, per tradizione di studi, si è sempre

guardato al francese di Parigi e non ci si è mai curati di studiare la varietà popolare nelle

altre città.

Il vero problema, per chi affronta lo studio della varietà popolare, sono le fonti.

Purtroppo si hanno a disposizione pochissime registrazioni dal parlato. Le fonti scritte

sono molto datate e, per il francese, difficilmente reperibili. Perciò il nostro confronto si

basa su materiali vecchi, e nulla abbiamo potuto trovare sul popolare attuale. Gli studi

sull’italiano popolare citano sempre le fonti da cui hanno tratto gli esempi, mentre quelli

francesi (Gadet e Guiraut) non lo fanno.

La necessità di reperire del materiale sul popolare attuale (testi scritti e registrazioni

orali) sarebbe molto utile perché ci consentirebbe di vedere quale sia lo scarto con il

popolare dei documenti più antichi. Ma sarebbe importante costituire, inoltre, un corpus

di testi molto ampio che riguardi tutte le varietà sub-standard e che permetta di

distinguere meglio i tratti propri a ciascuna varietà, o almeno la frequenza diversa con

cui i vari tratti ricorrono al loro interno. Infatti i tratti popolari di un tempo non sono più

esclusivamente tali al giorno d’oggi. Quello che vogliamo dire è che molti tratti

tradizionalmente classificati come popolari sono entrati ormai a far parte del linguaggio

colloquiale di tutti, indipendentemente dallo strato sociale. Questa ‘integrazione’ del

popolare, in Francia è ad uno stadio ancor più avanzato che in Italia; alcuni studiosi,

come abbiamo visto, hanno affermato che il français populaire è ormai diventato

français familier: cioè, da varietà diastratica è divenuto ormai una varietà diafasica. In

italiano sono pochissimi i tratti solo popolari, mentre molti sono anche colloquiali e

addirittura, come abbiamo dimostrato, alcuni sono persino entrati nel neostandard. La

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distinzione popolare-familiare/colloquiale è molto sottile e si basa, in molti casi, sulla

frequenza con cui certi tratti ricorrono, piuttosto che sulla loro presenza o assenza. Nel

corso del Novecento c’è stato un avvicinamento reciproco tra il popolare e il

colloquiale/familiare che possiamo visualizzare così:

colloquiale/familiare↓↑

popolare

Da un lato, il “popolo” ha incrementato (grazie alla scolarizzazione, ai mezzi di

comunicazione, ecc.) la conoscenza dell’italiano e del francese e quindi ha abbandonato

i caratteri più vistosamente devianti (ad esempio, oggi nessuno scriverebbe più “le

mane” oppure “qualchi piatti”); l’evoluzione è evidente se si mettono a confronto le

lettere dei soldati della prima guerra mondiale con le autobiografie degli allievi delle

150 ore raccolte da Banfi. Dall’altro lato, anche le persone colte hanno accolto e

accolgono tuttora alcuni tratti di origine popolare nelle situazioni informali. Forse

questo è dovuto al fatto che oggi l’idea di ‘popolare’ ha perso le connotazioni negative

che aveva in passato; anzi, ora viene connessa a valori positivi come la schiettezza, la

spontaneità, ecc. Ricorrere al popolare può essere opportuno, in certi casi. Ecco che da

varietà diastratica, quella popolare è divenuta, per i parlanti colti, una varietà diafasica.

Per chi, invece, non è colto, il popolare non è una varietà diafasica, ma l’unica varietà di

italiano a cui può accedere. Tuttavia bisogna riconoscere che al giorno d’oggi, grazie

all’innalzamento dell’obbligo scolastico (fino a diciott’anni, secondo l’ultima riforma)

tutti possono aspirare ad avere una buona conoscenza della lingua italiana.

In Italia, la varietà popolare è stata determinante nella formazione di quell’italiano

dell’uso medio o neostandard (italiano di media formalità) di cui si parla da una ventina

d’anni; i tratti sub-standard si sono fatti strada anche in contesti in cui prima erano

accuratamente evitati. Ecco che l’italiano popolare può essere utile a capire quale

direzione prenderà l’italiano di domani.

Ma abbiamo anche visto che i tratti dell’italiano popolare hanno alle spalle degli

antecedenti talvolta illustri. C’è un filo ideale che collega l’italiano popolare del

Novecento all’italiano dei primi secoli (Trecento e Quattrocento), quando ancora non

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era intervenuta la norma bembiana a regolarizzare la nostra lingua stabilendo cosa fosse

lecito scrivere e cosa no; è a partire dal Cinquecento, infatti, che si venne a creare una

netta separazione tra i colti, che scrivevano bene, e gli incolti, che scrivevano male.

Questa distinzione ha inibito per moltissimo tempo la scrittura popolare; solo nel

Novecento il ‘popolo’ ha ripreso possesso dell’italiano e ha ricominciato a scriverlo, pur

ignorando le regole della grammatica.

Allo stesso modo, il francese popolare è stato visto come una varietà ‘avanzata’

rispetto al francese normativo, proprio perché, secondo le parole di Guiraud, è stato

governato dalle leggi di natura e non dalle regole artificiali della grammatica che hanno

impedito alla lingua di evolversi naturalmente e anzi l’hanno complicata ripristinando,

in maniera alquanto arbitraria, usi che si stavano estinguendo spontaneamente.

Ecco perché l’italiano e il francese sembrano lingue così complicate, mentre le

soluzioni delle varietà popolari sono spesso più semplici. Ed ecco che le varietà

popolari, se da un lato si ricollegano al passato, dall’altro annunciano come sarà la

lingua del futuro.

Dal nostro studio si può vedere che i tratti analoghi tra francese popolare e italiano

popolare sono piuttosto numerosi. Noi ne abbiamo individuati sedici. Queste analogie si

possono spiegare non solo con il fatto che italiano e francese sono lingue

genealogicamente parenti, ma anche tenendo conto del principio di semplificazione che

determina molti dei tratti popolari. Infatti le lingue popolari presentano fenomeni di

evoluzione interna che mirano a migliorare la funzionalità strutturale di certi settori

della lingua che nello standard sono complicati, dispersivi, antieconomici. Laddove non

agisce un principio di semplificazione (ad es. negli scambi, sovraestensioni e accumuli

di preposizioni, nelle perifrasi aspettuali, nel rafforzamento dei pronomi soggetto, nei

cambiamenti dell’ordine normale dei costituenti della frase, nel dativo etico) si vede che

lo scarto tra standard e popolare è determinato dall’esigenza di conferire maggiore

espressività al contenuto che si vuole trasmettere.

Nell’ultimo capitolo abbiamo mostrato che alcuni tratti popolari in italiano (o

originariamente popolari e ora neostandard come l’indicativo al posto del congiuntivo in

dipendenza da determinati verbi) sono ammessi nello standard francese ormai da molto

tempo. Alcuni sono entrati nel neostandard italiano, cioè sono ammessi nelle situazioni

di media formalità; altri, per il momento, sono ammissibili solo a livello colloquiale.

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Resta da vedere se nel futuro l’italiano seguirà le orme lasciate dal francese. L’italiano

sembra infatti seguire il francese, anche se a una certa distanza, come se le due lingue

stessero percorrendo lo stesso tragitto ma a velocità diverse. L’italiano appare, dunque,

leggermente più conservativo del francese. Forse questo può anche dipendere dal fatto

che l’italiano popolare (visto anche il ritardo del suo consolidarsi come fenomeno di

massa), rispetto al francese popolare, ha avuto minor incisività nella lingua standard.

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B1 = Berruto (1983b)

B2 = Berruto (1993)

C. = Cortelazzo (1972)

F.G. = Gadet (1992)

P.G. = Guiraud (1965)

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