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APPUNTI PER UNA DEFINIZIONE DEL (NUOVO) CINEMA POLITICO CHRISTIAN UVA Universita ` degli Studi Roma Tre, Italia E ` possibile definire il cinema politico? 1 Poco piu ` di quindici anni fa, Maurizio Grande intitolava cosı` il capitolo di un suo volume dedicato alla ricostruzione di un certo cinema degli anni ’70, riletto alla luce ‘del desiderio e della frustrazione politica, dell’incubo e della rivoluzione impossibile’. 2 Oggi, a fronte di uno scenario filmico che, ormai da qualche anno, induce diversi osservatori a registrare la ricomparsa di una produzione definibile politica, 3 mi sembra fruttuoso riprendere in considerazione il quesito proposto da Grande per tornare a interrogarci sul significato di tale locuzione e sull’orizzonte che essa delinea. Nel corso degli anni in Italia si e ` infatti ripetutamente e ciclicamente evocato un cinema politico all’interno di un dibattito in cui il diritto di attribuire tale etichetta a questo o quell’autore, a questo o quel corpus di opere, e ` stato rivendicato, tuttavia, da una critica essa stessa profondamente politicizzata: si veda il caso di autorevoli riviste come Cinema Nuovo, Filmcritica, Ombre Rosse che negli anni ’70 pongono al centro dei propri interessi il tema del rapporto tra cinema e politica. 4 Il cinema politico dunque e ` un ‘oggetto’ estremamente delicato che, per restare alle parole di Grande, rischia di apparire ‘spesso come un miraggio, o come il ‘‘fantasma’’ di un oggetto ‘‘ideale’’’. 5 Pur non essendo percio ` codificabile quale vero e proprio genere esso puo ` pero ` ‘essere considerato un ‘‘filone’’ che taglia trasversalmente generi e sottogeneri diversi […] dei quali etichetta un determinato orientamento tematico o pratico nei confronti della politica’, 6 laddove quest’ultima va intesa sia nel senso di pratica che di categoria. Sulla base di tale premessa si puo ` allora cominciare a individuare l’oggetto piu ` specifico sul quale ci stiamo interrogando seguendo ancora l’ipotesi di Grande. Egli restringe il campo d’analisi, ad esempio, a quelle opere filmiche incentrate sul politico in quanto dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere (parola chiave, a sua volta, certamente non poco ‘scivolosa’), 7 ma anche alla politica intesa invece come processualita ` o come agire. Da qui discende, per restare a una sintetica quanto semplificatoria versione del pensiero di Grande, una serie di livelli di analisi i quali, nel tentativo di distinguere gli elementi di politicita ` del film, dovranno tenere conto dei seguenti fattori: il contenuto politico o il politico come senso; il tema politico o la politica come oggetto di rappresentazione; lo scopo politico del film; lo sfondo politico del film; i modelli del cinema politico 8 . Nel mare magnum del cinema politico le specifiche differenze tra i singoli film, o quanto meno quelle tra i vari filoni, devono essere colte sul piano della tematica trattata (il contenuto), ma anche su quello degli orientamenti stilistici e di senso che li contraddistinguono (la forma). Cio ` impone, anche e soprattutto in tale ambito The Italianist itaPresentations2.3d 29/7/13 17:04:08 The Charlesworth Group, Wakefield +44(0)1924 369598 - Rev 9.0.225/W Unicode (Oct 13 2006) The Italianist, 33. 2, 000–000, June 2013 # Italian Studies at the Universities of Cambridge, Leeds and Reading 2013 DOI: 10.1179/0261434013Z.00000000048
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Italian Film Studies/Italian Film Studies

Jan 28, 2023

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APPUNTI PER UNA DEFINIZIONE DEL(NUOVO) CINEMA POLITICO

CHRISTIAN UVA

Universita degli Studi Roma Tre, Italia

E possibile definire il cinema politico?1 Poco piu di quindici anni fa, MaurizioGrande intitolava cosı il capitolo di un suo volume dedicato alla ricostruzione diun certo cinema degli anni ’70, riletto alla luce ‘del desiderio e della frustrazionepolitica, dell’incubo e della rivoluzione impossibile’.2

Oggi, a fronte di uno scenario filmico che, ormai da qualche anno, induce diversiosservatori a registrare la ricomparsa di una produzione definibile politica,3 misembra fruttuoso riprendere in considerazione il quesito proposto da Grande pertornare a interrogarci sul significato di tale locuzione e sull’orizzonte che essa delinea.

Nel corso degli anni in Italia si e infatti ripetutamente e ciclicamente evocato uncinema politico all’interno di un dibattito in cui il diritto di attribuire tale etichetta aquesto o quell’autore, a questo o quel corpus di opere, e stato rivendicato, tuttavia,da una critica essa stessa profondamente politicizzata: si veda il caso di autorevoliriviste come Cinema Nuovo, Filmcritica, Ombre Rosse che negli anni ’70 pongonoal centro dei propri interessi il tema del rapporto tra cinema e politica.4

Il cinema politico dunque e un ‘oggetto’ estremamente delicato che, per restarealle parole di Grande, rischia di apparire ‘spesso come un miraggio, o come il‘‘fantasma’’ di un oggetto ‘‘ideale’’’.5

Pur non essendo percio codificabile quale vero e proprio genere esso puo pero ‘essereconsiderato un ‘‘filone’’ che taglia trasversalmente generi e sottogeneri diversi […] deiquali etichetta un determinato orientamento tematico o pratico nei confronti dellapolitica’,6 laddove quest’ultima va intesa sia nel senso di pratica che di categoria.

Sulla base di tale premessa si puo allora cominciare a individuare l’oggetto piuspecifico sul quale ci stiamo interrogando seguendo ancora l’ipotesi di Grande. Eglirestringe il campo d’analisi, ad esempio, a quelle opere filmiche incentrate sulpolitico in quanto dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere(parola chiave, a sua volta, certamente non poco ‘scivolosa’),7 ma anche alla politicaintesa invece come processualita o come agire. Da qui discende, per restare a unasintetica quanto semplificatoria versione del pensiero di Grande, una serie di livelli dianalisi i quali, nel tentativo di distinguere gli elementi di politicita del film, dovrannotenere conto dei seguenti fattori: il contenuto politico o il politico come senso; iltema politico o la politica come oggetto di rappresentazione; lo scopo politico delfilm; lo sfondo politico del film; i modelli del cinema politico8.

Nel mare magnum del cinema politico le specifiche differenze tra i singoli film, oquanto meno quelle tra i vari filoni, devono essere colte sul piano della tematicatrattata (il contenuto), ma anche su quello degli orientamenti stilistici e di senso che licontraddistinguono (la forma). Cio impone, anche e soprattutto in tale ambito

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The Italianist, 33. 2, 000–000, June 2013

# Italian Studies at the Universities of Cambridge,

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analitico, di non trascurare la specificita del cinema in quanto tecnica e linguaggio. Atale livello entra in gioco quella componente ‘materialista’ dell’analisi che nuovamenteevoca, nel bene e nel male, un’idea-ideologia del cinema quale macchina dallo statutoe dalla funzione sociali; la stessa che in passato ha portato critici d’oltralpe, come Jean-Louis Comolli, a scagliarsi contro la baziniana ‘vocazione realista’ del cinema,rivendicando piuttosto lo statuto di quest’ultimo come congegno sociale produttore,oltre che di una redditivita economica, di una funzione ideologica e simbolica.9

Se dunque anche la lezione di critici come Comolli risulta viziata da una matriceessa stessa ideologica, ha avuto pero il merito di porre l’accento sulla menzionataconcezione del cinema in quanto dispositivo che, oggi come ieri, soprattutto inrelazione al film politico, non deve essere dimenticata, se e vero che quest’ultimo,spesso, puo dimostrarsi, come scrive Paolo Bertetto, ‘un meccanismo sofisticato eideologico di menzogne […] un vettore estremamente difficile da manovrareproprio perche, come diceva il duce: ‘‘Il cinema e l’arma piu forte’’’.10

Altro elemento cruciale nel dibattito sul cinema politico e quello relativo all’annosoproblema riguardante la considerazione riservata al cinema ‘basso’ e popolare inrapporto a quello ‘alto’ e autoriale: una questione che nel nostro paese ha acquisito unavenatura squisitamente ideologica, figlia della crociana concezione della trasmissioneculturale ‘in termini top-down’11 e connessa all’endemica condizione di separatezza tra‘intellettuali’ e ‘popolo’ denunciata daGramsci (nome che anche in Italia sarebbe ora diprendere in seria considerazione nell’ambito degli studi di cinema).12

In ambito piu strettamente cinematografico cio si e tradotto soprattutto neilasciti, tutt’ora in parte percepibili, di quell’epoca in cui il ‘super-Io’ del cinemaitaliano espresso dal neorealismo, scrive Adriano Apra, sembrava volersi ‘liberaredelle proprie origini plebee’, facendo ‘dimenticare la fiera in nome del museo’ ecombattendo contro l’‘opera di rimozione nei confronti di elementi, propri delcinema in quanto mezzo di comunicazione di massa, che riguardavano l’ambitoindustriale, commerciale, spettacolare’.13

Se da un lato cio ha significato, come ha rilevato Pierpaolo Antonello, che ‘tuttoquanto e venuto dopo gli anni d’oro del neorealismo o della stagione dei grandimaestri degli anni ’60 (da Fellini a Antonioni), si iscrive necessariamente in unafase di declino, a dispetto anche dell’occasionale emergere di autori e di opere chesembrerebbero riscattare questi momenti di ‘‘crisi’’’,14 dall’altro, la conseguenzapiu evidente di un simile stato di cose e stata la miopia e la superficialita con cuimolta critica ha bollato in termini ideologici e spregiativi fenomeni rilevanti dellaproduzione di genere (si veda per tutti l’esempio del cosiddetto ‘poliziottesco’),finendo per legittimare e reiterare nel tempo l’equazione: popolare 5 reazionario.

A sottendere i discorsi critici menzionati – e dunque qualsiasi definizione di cinemapolitico da essi prodotta – e stata la parola ‘magica’ impegno, nozione oggetto dicostante discussione in Italia su cui il gia citato Antonello, insieme con FlorianMussgnug, ha sentito la necessita di tornare recentemente a riflettere15sulla scorta dellavoro di Jennifer Burns,16 prendendo come riferimento i parametri storico-teoricipropri dell’ambito critico anglosassone. E stata questa, in effetti, la parola-mannaia dicui in passato si e abusato, ritenendo di fare ordine nella ‘popolosa’ produzione filmicaitaliana mediante l’automatica associazione di tale termine a quello di autore.

Ci sono stati dei casi, in realta, in cui si sono cercati dei compromessi, giungendo aconiare efficaci espressioni con cui si indicava una produzione filmica capace diconiugare un certo impegno civile con le formule del cinema di consumo. Il

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riferimento va, in particolare, all’apparente ossimoro di ‘cinema di consumoimpegnato’ impiegato da Giorgio De Vincenti rispetto a quella ‘corrente’cinematografica che negli anni ’70 ha raccolto registi come Damiano Damiani,Giuliano Montaldo, Mauro Bolognini, Francesco Rosi, Elio Petri, Francesco Maselli,cineasti ritenuti capaci di fornire, attraverso il proprio lavoro, ‘un importante apportoal movimento di reazione democratica di fronte alle azioni destabilizzanti e al vero eproprio terrorismo proveniente da alcuni settori deviati dello Stato’.17

Sulla base di quanto si e fin qui stringatamente ricordato, non resta dunque chetornare all’attualita per interrogarsi sui connotati attribuibili a un possibile ‘nuovocinema politico’ italiano. Un territorio che sta attirando su di se sguardi provenientida piu parti, come testimonia ad esempio il progetto intitolato ‘A New ItalianPolitical Cinema?’ (da cui e appena scaturito il volume Un nuovo cinema politicoitaliano? edito da Troubador Publishing e curato da William Hope, LucianaD’Arcangeli e Silvana Serra), varato con ‘l’obbiettivo di aggregare il maggiornumero di risorse diverse: studiosi del cinema italiano cosı come di comunicazione oscienze politiche, registi cinematografici emergenti o meno, membri delle comunitadi immigrati in Italia, sindacalisti, rappresentanti politici, gruppi ambientalisti’.18

In tale orizzonte ci si permette di includere anche il progetto che vede coinvolto ilsottoscritto, insieme con Giancarlo Lombardi, nella curatela di una pubblicazionefinalizzata a indagare la produzione italiana degli ultimi due decenni quale ambitocomprendente, oltre a un certo novero di testi filmici, un insieme di pratiche e di modidi produzione da prendere in esame sia in rapporto alla volonta espressiva dei singolicineasti sia in relazione alle aspettative del pubblico di fronte a questa tipologia diopere.19 Tutto cio grazie al contributo di numerosi studiosi internazionali capaci dioffrire prospettive di lettura diverse e interdisciplinari (dalla rappresentazionecinematografica dei politici alla politica come impegno, dal rapporto con la storia econ l’identita nazionale alle questioni di gender, dalla politica come sistemaproduttivo alla politica come atteggiamento nei confronti della forma filmica). Delresto, proprio l’interdisciplinarita — parola divenuta forse un po’ ‘di moda’ negliultimi tempi — puo rivelarsi una delle chiavi di accesso privilegiate per valutare lapoliticita di una materia filmica oggi quanto mai magmatica.

Il dibattito, insomma, e senz’altro aperto: a fronte, infatti, di un FrancescoBonami che, in occasione delle polemiche suscitate dalla mancata premiazionedell’ultimo film di Marco Bellocchio (Bella addormentata) alla Mostra del Cinemadi Venezia 2012, parla dalle colonne de La Stampa di un’Italia ‘che non sa piuraccontare’,20 il gia menzionato Bertetto ritiene invece che oggi in Italia sia in atto

una ripresa di film politici che e senza dubbio interessante, anche se noncancella il lungo sonno del cinema nell’epoca di Berlusconi in cui nessuno(neanche Moretti) e riuscito a fare sul cavaliere un film come Citizen Kane oforse una commedia trash, magari con Alvaro Vitali, piu consona allo spirito(?) del personaggio.21

E proprio da qui, forse, che e necessario ripartire: da uno sguardo ‘obliquo’ capacedi tenere insieme prospettive diverse, l’interno e l’esterno ma anche l’alto e ilbasso, senza preconcetti, guardando all’ultimo film di Bellocchio ma anche, comeci ricorda Alan O’Leary,22 al cinepanettone di turno, se e vero che tanto l’unoquanto l’altro, pur ovviamente attraverso moduli narrativi ed estetici posizionati

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agli antipodi, possono farsi testi paradigmatici attraverso i quali leggere ecomprendere alcuni tratti peculiari della nostra ‘italianita’.

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NOTES

1 Maurizio Grande, Eros e politica (Siena:Protagon Editori Toscani, 1995), p. 15.

2 Grande, pp. 13–14.3 Relativamente a una disamina di car-

attere strettamente politico della pro-duzione italiana contemporanea sivedano, ad esempio, lo speciale dellarivista Close Up intitolato ‘Forme dellapolitica nel cinema contemporaneo: daTangentopoli al Partito Democratico ealle elezioni 2008’ (n. 23, 2008), curatoda Giovanni Spagnoletti e RoyMenarini e il recente intervento diPaolo Bertetto su Alfabeta 2 (n. 19,2012) intitolato ‘‘‘Il cinema e l’arma piuforte’’: e tornato il cinema politico?’.

4 Tra i tanti materiali critici prodottiall’epoca si ricordi ad esempio il dossierintitolato ‘Sul cinema ‘‘politico’’’ curato daBruno De Marchi sulla rivista Vita epensiero, 3/4 (1973). Tra le monografie, siconsideri Ciriaco Tiso, Il cinema poetico-politico (Roma: Partisan, 1972). In tempirecenti si segnala invece il rigored’impianto che sottende la ricerca diAnton Giulio Mancino in Il processodella verita: le radici del film politico-indiziario italiano (Torino: Kaplan, 2008).

5 Grande, p. 15.6 Grande, p. 16.7 Atale proposito, va segnalata la recente

uscita di un volume di Dario E. Viganointitolato La maschera del potere: car-isma e leadership nel cinema (Roma:Ente dello Spettacolo, 2012).

8 Si veda Grande, pp. 24–25.9 Si veda Jean-Louis Comolli, Tecnica e

ideologia (Parma: Pratiche, 1982).10 Bertetto, p. 44.11 Pierpaolo Antonello, ‘Di crisi in meglio.

Realismo, impegno postmoderno ecinema politico nell’Italia degli anni zero:da Nanni Moretti a Paolo Sorrentino’,Italian Studies, 67 (2012), 169–87 (p. 175).

12 Si veda Antonio Gramsci, Letteratura evita nazionale (Roma: Editori Riuniti,2000), p. 123.

13 Adriano Apra, ‘Capolavori di massa’, inNeorealismo d’appendice: per un dibat-tito sul cinema popolare: il caso Matar-azzo, a cura di Adriano Apra e ClaudioCarabba (Rimini-Firenze: Guaraldi, 1976),p. 10. Sul condizionamento di carattereetico e ideologico esercitato dal neorea-lismo e dallo stesso termine ‘realismo’ sullacritica italiana si veda in particolare: AlanO’Leary e Catherine O’Rawe, ‘AgainstRealism: On a ‘‘Certain Tendency’’ inItalian Film Criticism’, Journal of ModernItalian Studies, 16 (2011), 107–28.

14 Antonello, p. 171.15 Si veda Pierpaolo Antonello e Florian

Mussgnug (a cura di), PostmodernImpegno: Ethics and Commitment inContemporary Italian Culture (Bern:Peter Lang, 2009).

16 Si veda Jennifer Burns, Fragments of Im-pegno: Interpretations of Commitmentin Contemporary Italian Narrative,1980–2000 (Leeds: Northern Univer-sities Press, 2001).

17 Giorgio De Vincenti, ‘Politica e corru-zione nel cinema di consumo’, in Ilcinema del riflusso: film e cineastiitaliani degli anni ’70, a cura di LinoMicciche (Marsilio: Venezia, 1997), pp.265–82 (p. 268).

18 Luciana D’Arcangeli, ‘Un nuovo cinemapolitico italiano? Indagine su un con-tenuto al di la di ogni sospetto’, TheItalianist, 32 (2012), 300–08 (p. 301).

19 Nuovo Cinema Politico: Public Life,Imaginary and Identity in Contem-porary Italian Cinema (Oxford: PeterLang, di prossima pubblicazione).

20 Francesco Bonami, ‘L’Italia che non sapiu raccontare’, La Stampa, 11 settem-bre 2012, p. 29.

21 Bertetto, p. 45.22 Si veda Alan O’Leary, ‘The Phenome-

nology of the cinepanettone’, ItalianStudies, 66 (2011), 431–43, e Feno-menologia del cinepanettone (SoveriaMannelli: Rubbettino, 2013).

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IMPEGNO RELOADED/IMPEGNO 2.0

PIERPAOLO ANTONELLO

University of Cambridge, UK

Come abbiamo argomentato in Postmodern Impegno,1 la categoria dell’impegnonecessita di un ripensamento complessivo in epoca contemporanea e questo puoessere sentito in maniera forse piu urgente in relazione alla sua applicabilita e uso nelcontesto dei film studies. Nonostante esistano ampie disamine critiche sul cosiddetto‘cinema di impegno civile’, in particolare relativamente a singoli autori (Rosi,Pasolini, Bertolucci, Petri, ecc.), dal punto di vista metodologico e concettuale forsenon si e operata una necessaria traslazione di carattere definitorio rispetto a unacategoria che e nata ed e stata coltivata soprattutto in relazione al lavoro svolto dailetterati e la cui elaborazione e avvenuta in una fase molto particolare della storiaitaliana e europea (sostanzialmente durante i primi decenni della ‘guerra fredda’).2 Ilconcetto di ‘impegno’ muta di prospettiva se riferito a un singolo individuo cheattraverso la propria opera di scrittura pone dei problemi di carattere politico e civile,o se riferito a un genere espressivo come quello filmico che e opera collettiva ed efortementemediato da questioni di carattere economico-produttivo e dalle tecnologiedisponibili in un determinato contesto storico. La ritrovata vena documentaristicadella produzione italiana recente, che ha fornito diversi casi di intervento criticopolitico-sociale, sarebbe ad esempio impensabile senza le strettoie del sistemaproduttivo odierno e, in senso positivo, senza il passaggio alla tecnologia digitale.

Dal punto di vista storico, abbiamo gia detto come l’entrata del contesto globalein una fase post-ideologica ci costringa a pensare l’impegno non piu in termini diuna comprensione ‘organica’ della costruzione culturale e del campo intellettuale,ma attraverso l’individuazione di forme micro-politiche, incentrate su questioni diidentita o di urgenze di carattere etico e civile che sfuggono a qualsiasi progetto dicarattere ‘egemonico’.3 E necessario modificare anche i parametri di descrizioneattraverso cui pensare la categoria dell’impegno nel cinema, privilegiando adesempio interrogazioni che hanno valenza primariamente autocritica e non disemplice denuncia eterodiretta (e il caso di Nanni Moretti), o accentuando imomenti ‘riflessivi’ dell’opera stessa (si pensi a Il Divo), o ancora recuperando unadiscussione piu precisamente analitica sullo sviluppo dei generi o filoni e sulle lorovalenze di potenziale emancipazione culturale e/o politica.

Per tutto questo converrebbe innanzitutto individuare alcuni nodi di contesateorica e critica che possono servire da prima mappa di orientamento rispetto adalcune questioni ancora in sospeso, soprattutto all’interno del contesto critico eaccademico italiano, nonche possibili programmi di ricerca e nuove formulazionicritiche che possano avere una cogenza e una maggiore efficacia sia nel campodegli studi specifici, sia come forma definitoria di politiche culturali orientate intermini emancipativi. Sfugge a pochi infatti che la questione dell’impegno ritornaal centro del dibattito critico italiano non solo in termini diagnostici, rispetto allaproduzione artistica degli ultimi decenni, che ha visto un intensificarsi di prove chesi muovono in questa direzione,4 ma come esigenza del critico stesso che necessita

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di individuare nel proprio lavoro forme di salienza politica (anche come mezzo diauto-legittimazione). Il che impone una preliminare posizione ‘riflessiva’ da parte delcritico rispetto al rapporto fra ‘urgenze’ politiche — che spesso vengono declinatenei termini di analisi ‘militanti’, a volte impressionistiche — e l’adozione di unastrumentazione analitica piu rigorosamente e scientificamente tarata, che risponde adelle questioni di metodo che hanno comunque una valenza di intervento culturale epolitico. Cio senza preoccuparsi troppo che il bacino di ascolto sia numericamentelimitato, perche i meccanismi di propagazione culturale funzionano in maniera noncontrollabile, e perche in una fase come quella attuale, ‘post-accademica’, i processidi traduzione discorsiva si sono ampliati e diversificati.5

Il problema preliminare che si pone e sempre quello di individuare gli strumenti e igeneri discorsivi che meglio di altri possano strutturare questo tipo di lavoro,soprattutto tenendo presente la convergenza metodologica che spesso affligge lacritica italiana, molto restia ad aggiornarsi e strutturata in termini fortementeverticistici, dove i ‘padri’ tendono ancora oggi a monopolizzare il dibattito corrente,il linguaggio generale e le formule di intervento critico.6 Si pensi a quanto siasorprendente il fatto che una critica che e stata caratterizzata da intellettuali diorientamento marxista o generalmente di sinistra non sia stata in grado di produrre,salvo poche eccezioni, studi sui sistemi produttivi e sulle particolari strutturazionidel mercato cinematografico, che hanno avuto un impatto fondamentale sui destini esullo sviluppo del cinema italiano.7

Una delle prospettive individuate dalla ri-categorizzazione dell’impegno in chiavepostmoderna e quello di uno ‘strategico’ allargamento delle griglie interpretative,verso una considerazione aperta e plurale della costruzione culturale. Il pluralismointerno al sistema rimane infatti un fattore determinante per le prospettiveemancipative all’interno di un dato contesto culturale e intellettuale: come hascritto James Surowieski, i gruppi di persone che producono dei giudizi diagnosticicollettivi sono quelli ‘where there is a wide range of opinions and diverse sources ofinformation, where people’s biases can cancel themselves out, rather thanreinforcing each other’.8 In questo senso, operare delle esclusioni preconcettuali oalzare paletti estetici o ideologici rispetto, ad esempio, alle scelte del pubblico puoessere controproducente e andare in direzione opposta agli auspicabili processi diemancipazione. Questo non significa abbandonare una prospettiva critica e digiudizio rispetto ai prodotti culturali dell’epoca contemporanea, ma essere in gradoda una parte di elaborarla all’interno dei linguaggi e dei codici propri dei nuovimedia e dei nuovi generi, e dall’altra fare in modo che questa capacita critica siacondivisibile da tutti e non amministrata da pochi.

Possiamo dire che in senso generale il problema dell’impegno, nel cinema comein letteratura, propone innanzitutto una forbice analitica e di intervento critico cheda una parte pone, banalmente, l’enfasi sull’intenzionalita autoriale e dall’altra suimeccanismi e le forme della ricezione degli spettatori. Proprio per le ragioni di cuisopra, non credo sia produttivo alzare steccati o dissociazioni radicali fra questedue metodologie, ma e importante per il critico operare nella consapevolezza dellaparzialita della propria analisi. Se di primo acchito sembra che molto si sia scrittosul versante autoriale e poco su quello degli spettatori, in realta possiamo vederecome ci sia un difetto di investigazione anche per quanto riguarda uno deicapisaldi della critica italiana, dove l’autorialita e sempre stata vista come l’accessoprivilegiato per qualsiasi disamina sui prodotti artistici.

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Una questione ancora aperta relativamente ai film studies nel contesto dell’italianis-tica internazionale e ad esempio l’uso della cosiddetta ‘theory’ nell’analisi dei prodotticinematografici. Nonostante la tradizione critica italiana abbia una formazioneumanistica con forti addentellati con la cultura filosofica, l’uso di approcci teorici fortie stato sostanzialmente disertato all’interno sia della critica cinematografica che degliItalian studies in generale, probabilmente per il livello di ‘invasivita’ che questo usosembra comportare nell’esercizio critico. Da una parte si crede che la teoria ‘scavalchi’ leintenzioni dell’autore, ‘usando’ il prodotto cinematografico per fini non omogenei con ilprodotto stesso, dall’altra sembra imporsi in modo troppo costrittivo rispetto adisamine che si basino sul semplice ‘gusto’.

Lo stesso si puo dire per l’uso della metodologia e della strumentazionepsicanalitica, che pur essendo diventata una vulgata terminologica e concettualeall’interno delle humanities, non ha mai veramente trovato riscontri critici sistematici.Senza entrare nell’accesa polemica metodologica fra David Bodwell e la sua ‘post-theory’, e Slavoj Zizek e le sue interpretazioni ‘perverse’,9 un approccio lacanianocome quello proposto da Zizek, senza cercare di voler essere esaustivo rispetto allepossibili interpretazioni empiriche degli spettatori (la critica di Stephen Prince),10 ecomunque capace di rivelare l’‘inconscio politico’ del testo, ovverossia la misura in cuiun prodotto filmico che si presenta autorialmente come ‘corretto’ dal punto di vistapolitico e dell’impegno, possa nascondere in realta vizi ideologici o prospettiveconservatrici se guardato attraverso una lente psicanalitica.11 Questo e compatibilecon un approccio formalista e cognitivista della ricezione filmica in quanto individuaun insieme di problemi che si intersecano ma che dal punto di vista metodologicopossono rimanere distinti.

Rispetto a un approccio strettamente autorialistico all’analisi filmica si e spessodimenticato, soprattutto nel contesto della critica italiana, il fatto che la complessitadi tutti i sistemi di mediazione comunicativa e tecnologica e tale da comprometterequalsiasi possibilita di ‘controllo’, sia dal punto di vista della ricezione dei messaggiinformativi e della conoscenza, sia da quello della produzione (gli studi di StuartHall e Umberto Eco sono disponibili ormai da mezzo secolo). Dal punto di vista siadella critica letteraria che di quella cinematografica manca poi del tutto una storiaesaustiva dei lettori o degli spettatori rispetto alle dinamiche di ricezione e allecompetenze e/o aspettative ermeneutiche, in relazione a specifici prodotti artistici.12

A tal riguardo, vanno comunque rilevate le limitazioni del metodo empirico sullaricezione, cosı come proposte appunto dagli esponenti della ‘post-theory’. Ad esempioStephen Prince sconta consapevolmente la dimensione emotiva nello spettatore e imeccanismi di investimento identitario, nonche la complessa costruzione di comunitariflessive, tutti elementi fondamentali rispetto alla categoria dell’impegno. Non esufficiente infatti accertarsi empiricamente che la ricezione di un film sia caratterizzatada intermittenze o pause di attenzione o da visioni in vari formati (e un datointuitivamente scontato), ma registrare ad esempio quali siano i risultati epistemici e diconsapevolezza critica indotti da [1] visioni multiple del medesimo film (sullo stesso osu vari formati, in sala o a casa); [2] o dal fatto che il film diventi spesso parte di unipertesto diagnostico e critico (lettura pregressa di recensioni, aspettative indotte dapubblicita o trailers, previa conoscenza di altri film dello stesso autore o dello stessogenere); insieme alla circostanza [3] che il film venga poi introdotto in una comunita didiscussione, con vari livelli di sofisticazione analitica e critica (dal blog, ai commentisui social network, ovvero nei semplici termini di token di riconoscimento sociale).

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Un altro elemento messo in luce dalla prospettiva postmoderna di engagementpolitico, riguarda la dimensione di autoriflessivita dei prodotti culturali. Da un puntodi vista generale, la prospettiva critica che vuole il mercato visto in termini egemonici,dove il liberalismo neocapitalista agisce come ombrello ideologico assolutamentepervasivo e onnipresente nel contesto globale e a cui deve essere contrapposto undiscorso contro-egemonico radicale (la comprensione ‘organica’ dell’impegnovecchio stampo), perde di vista che nel contesto di interdipendenza globale questaoperazione non puo essere piu pensata in termini strettemente dialettici, attraversol’individuazione di uno spazio alternativo (quale poi non e chiaro), ma in terminisistemici, come l’attivarsi di forme di resistenza civile e di creazione di network cheproliferano proprio attraverso i meccanismi attraverso cui il sistema si costituisce. Inuna economia e in una societa della conoscenza, e il sistema stesso che attiva emoltiplica i meccanismi e le strutture attraverso cui i cittadini diventano operatoriculturali consapevoli e critici. Sia Bruno Latour che Ulrick Beck rilevano come sianole stesse strutture cognitive e tecniche, nonche le dinamiche economiche e culturalidella societa globale a produrre la loro endo-critica.13 Il web e i social network stannopoi riconfigurando in questa direzione il modo di fare ‘critica’, sia sociale che‘estetica’, individuando degli spazi diversi da quelli tradizionali, con una convergenzatra riflessione accademica e critica militante.

Come ha argomentato ampiamente Scott Lash, una simile ‘endo-dialettica’ siapplica anche ai prodotti culturali del postmoderno che diventano sempre piu‘oggetti riflessivi’.14 A questo proposito, una nuova partita dal punto di vista criticosi puo giocare a livello dell’analisi e della discussione dei generi — molto piu che alivello dei prodotti d’autore che spesso intercettano un pubblico politicamenteomogeneo, correndo il rischio di operare in termini auto-referenziali.15 Le resistenzee le riserve critiche al riguardo sono ampie e ben note, soprattutto in ambito italiano.Nonostante il noir e il giallo si siano configurati nell’ultimo ventennio come unanuova forma di ‘romanzo sociale’16 —descrivendo (in autori come Lucarelli,Carlotto, Fois, De Cataldo, Macchiavelli), ‘i mali della societa italiana contempor-anea [e] affrontando temi quali l’immigrazione, la violenza crescente della societacontemporanea, l’esclusione sociale, le sottoculture giovanili’ —,17 questo non haimpedito alla critica militante di evidenziarne i limiti stilistici e ideologici, con unagenerale svalutazione del fenomeno a moda, probabilmente proprio per la notevole(e sempre sospetta) risposta positiva del pubblico.18 Allo stesso modo, econcordando con Alberto Casadei, per il quale ‘nessun giudizio di valore puo essereespresso per ‘‘razzismo di genere’’’,19 basta dare un’occhiata anche superficiale allastoria dei filoni cinematografici per constatare che il cinema politico e stato tutt’altroche veicolato unilateralmente da modalita rappresentative strettamente autorialis-tiche (con un rigido e prescrittivo privilegio del modo realistico), come la vulgatacritica spesso intende. Dal punto di vista della dimensione stilistica il cinema politicoha sempre giocato con i generi; anzi ha fatto del genere uno degli strumenti diveicolamento dell’impegno, piu o meno didascalicamente rappresentato;20 ne puoessere ancora criticamente sostenibile la necessaria dissociazione fra intrattenimento(intrinsicamente consolatorio e/o reazionario) e impegno politico o civile, come estato espresso per anni dalla critica piu ideologicamente schierata.21 Un passosuccessivo e comprendere analiticamente come il pubblico risponda ai sistemi diserializzazione, e come tali sistemi contribuiscano a costruire una consapevolezzaestetica, sia in termini formali che dei meccanismi narrativi e delle strutture

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interdialogiche. In questa direzione un ulteriore passo metodologico e quello chescavalca anche le delimitazioni dei singoli mezzi espressivi, affrontando i problemi dicarattere rappresentativo all’interno di uno spazio intermediatico dove letteratura,cinema, televisione, fumetto, musica o altro risultano afferenti a un cluster ipertestualedove le singole modalita espressive tendono a contaminarsi reciprocamente. In questosenso, una tendenza critica che verra a definirsi in maniera sempre piu evidente saraquella che cerchera di muoversi in maniera ‘transitiva’ o interdisciplinare attraversodiversi generi, registri e modalita espressive, in questo richiedendo al singolo critico uncostante aggiornamento metodologico e di vocabolario.

In generale, e a mo’ di conclusione provvisoria, si puo dire che la categoriadell’impegno ritorna ad avere una sua valenza espressiva e critica e una sua cogenza,proprio come effetto della pluralita discorsiva intrinseca alla cultura de-ideologiz-zata del contesto odierno, piu o meno definibile come ‘postmoderno’ (mentre permolto tempo i due termini sono stati considerati incompatibili). In realta, piu che alpostmoderno in senso stretto, l’impegno post-egemonico, come abbiamo tentato didefinirlo in Postmodern impegno, puo essere compitato all’interno della cosidetta‘svolta etica’, che ha cercato di sopperire alle aporie epistemologiche proprie delpostmodernismo filosofico, ricercando una diversa salienza di carattere etico e civile,che rimane un’urgenza di carattere critico e accademico ben definibile, ancor primache un’insorgenza espressiva unitaria e coesa. Anche in questo caso vale semprel’indicazione data da Italo Calvino gia nel 1964, per cui ‘l’impegno, puo saltar fuoria tutti i livelli’, anche dove uno meno se lo aspetta.22

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NOTES

1 Pierpaolo Antonello e FlorianMussgnug(a cura di), Postmodern Impegno:Ethics and Commitment in Contem-porary Italian Culture (Oxford: PeterLang, 2009).

2 Per una disamina generale si veda PeterBondanella, A History of Italian Cinema(LondonNew York: Continuun, 2009),pp. 241–58.

3 Antonello e Mussgnug, Postmodernimpegno, pp. 7–11.

4 Postmodern impegno e nato propriocome un primo tentativo di compitarequeste insorgenze.

5 Per tutto questo si rimanda a unapiu ampia discussione in PierpaoloAntonello, Dimenticare Pasolini. Intel-lettuali e impegno nell’Italia contem-poranea (Milano: Mimesis, 2012).

6 Cf. Catherine O’Rawe, ‘‘‘I padri e imaestri’’: Genres, Auteurs, and Absencesin Italian Film Studies’’, Italian Studies,63.2 (2008), 173–94.

7 Si vedano a proposito Barbara Corsi,‘Alle origini della crisi: industria e

mercato’, in Storia del cinema italiano,a cura di Vito Zagarrio, vol. 8(Marsilio: Venezia 2005), pp. 329–46;Id., Con qualche dollaro in meno.Storia economica del cinema italiano(Roma: Editori Riuniti, 2001).

8 James Surowiecki, The Wisdom ofCrowd: Why the Many Are Smarterthan the Few (New York: RandomHouse, 2004), p. 227. La caratteristicadelle ‘intelligent crowds’ e ‘diversity ofopinion (each person should have someprivate information, even if it’s justan eccentric interpretation of knownfacts), independence (people’s opinionsare not determined by the options ofthose around them), decentralization(people are able to specialize and drawon local knowledge), and aggregation(some mechanism exists for turningprivate judgments into a collectivedecision)’ (p. 10).

9 Cfr. David Bordwell e Noel Carroll (acura di), Post-Theory: ReconstructingFilm Studies (Madison: University of

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Wisconsin Press, 1996). La polemicanasce dall’introduzione del libro diSlavoj Zizek, The Fright of Real Tears:Krzysztof Kieslowski Between Theoryand Post-Theory (London: BFI, 2001).La risposta di Bordwell si trova in‘Slavoj Zizek: Say Anything’, ,http://www.davidbordwell.com/essays/zizek.php. [ultimo accesso 1 ottobre 2012].

10 Stephen Prince, ‘Psychoanalytic FilmTheory and the Problem of the MissingSpectator’, in Bordwell, Carroll, Post-Theory, pp. 71–86.

11 Per una lettura lacaniana del cinemaitaliano, anche se fortamente autoriale,si veda Fabio Vighi, Traumatic Encoun-ters in Italian Film: Locating theCinematic Unconscious (Bristol: Intel-lect, 2006).

12 Nel contesto britannico sono statiinvece prodotti studi fondamentali sullavita intellettuale della classe lavora-trice. Si vedano ad esempio RichardHoggart, The Uses of Literacy: Aspectsof Working Class Life (London: Chattoand Windus, 1957); Jonathan Rose,The Intellectual Life of the BritishWorking Classes (New Haven eLondon: Yale University Press, 2001).Lo studio dei pubblici italiani si stasviluppando con progetti come quellodelle Universita di Bristol, Exeter, eOxford Brookes: ‘In Search of ItalianCinema Audiences in the 1940s and1950s: Gender, Genre and NationalIdentity’.

13 Ulrick Beck, The Reinvention ofPolitics: Towards a Theory of ReflexiveModernization, in Ulrick Beck, AnthonyGiddens, e Scott Lash, Reflexive Moder-nization: Politics, Tradition and Aesthe-tics in the Modern Social Order(Stanford: Stanford University Press,1994), p. 8.

14 Scott Lash, Reflexivity and its Doubles:Structure, Aesthetics, Community, inBeck et al., Reflexive Modernization, p.138. Si vedano inoltre gli studi di JohnFiske, Understanding Popular Culture(London: Routledge, 1989); Id.,Reading the Popular (London: Unwin

Hyman, 1989); Fredric Jameson, LateMarxism: Adorno, or, the Persistence ofthe Dialectic (London: Verso, 1990),pp. 145–46.

15 Per questo si veda ad esempio AlanO’Leary, ‘Marco Tullio Giordana, or thepersistence of impegno’, in Antonello eMussgnug, Postmodern impegno, pp.213–32.

16 Sulla questione dell’impegno nella nar-rativa gialla italiana si veda MarcoSangiorgi e Luca Telo (a cura di), Ilgiallo italiano come nuovo romanzosociale (Ravenna: Longo, 2004).

17 Giuliana Pieri, Letteratura gialla e noirdegli anni Novanta e impegno, inAntonello e Mussgnug, Postmodern im-pegno, p. 289.

18 Cfr. Filippo La Porta, ‘Contro il NuovoGiallo Italiano’, in Alfonso Berardinelliet al., Sul banco dei cattivi. A propositodi Baricco e di altri scrittori alla moda(Roma: Donzelli, 2006); per una generalevalutazione di questo atteggiamento cri-tico si veda la discussione di GiulianaPieri, ‘Il nuovo giallo italiano — tratradizione e postmodernita’, The Edin-burgh Journal of Gadda Studies (2000),http://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources/archive/periphery/pierigiallo.php.[ultimo accesso 15 luglio 2012].

19 Alberto Casadei, Realismo e allegorianella narrativa italiana contemporanea,in Finzione, cronaca, realta. Scambi,intrecci e prospettive nella narrativaitaliana contemporanea, a cura diHanna Serwoska (Massa: Transeuropa,2011), pp. 3–21.

20 Ne ho gia discusso in ‘Di crisi in meglio.Realismo, impegno postmoderno ecinema politico nell’Italia degli anni zero:da Nanni Moretti a Paolo Sorrentino’,Italian Studies, 67.2 (2012), 169–87.

21 Cf. Claudio Bisoni, ‘Le masse, la lottadi classe, i testi gramsciani. Appuntisulla ricezione del cinema politicoitaliano tra anni Sessanta e Settanta’,Close up, 12.23 (2007–08), 18–29.

22 Italo Calvino, Saggi, a cura di MarioBarenghi, vol. I (Milano: Mondadori,1999), 192.

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‘DOES POLITICAL SCARE YOU?’ AND OTHERIDEOLOGICAL QUESTIONS

PAOLO RUSSO

Oxford Brookes University, UK

This article offers a short metacritical overview of the discourse on ideology andpolitical cinema as it has evolved and has been received by critics, with particularreference to Italian cinema. An update on the debate on ideology is pertinent interms of its currency. Firstly, because of the recent trend of films treating thepolitical as their subject matter: ACAB — All Cops Are Bastards (Stefano Sollima,2012), Diaz — Non pulire questo sangue (Daniele Vicari, 2012), Cosimo e Nicole(Fransceco Amato, 2012), Viva l’Italia (Massimiliano Bruno, 2012), L’ultimaruota del carro (Giovanni Veronesi, currently in production), to cite just a fewamong more recent titles. Secondly, because the debate itself faces the historicalcontingencies of a globalized world dominated by the pervasive ideology of neo-liberalism and inscribed in an intermedial technoscape that, while exhibitingsimilar drivers for change, is profoundly different from the context of the post-1968 season that functioned as the accelerator of theoretical and critical overhaul.

I will first outline what I consider a few blind spots concerning criticalapproaches, definitions, and ungrounded commonplaces that are still widespreadin commentaries on Italian cinema; I then suggest a few points for furtherdiscussion with particular regard to modes of reality and genres.

PROGRESSIVE IDEOLOGY AND POLITICAL FILMS

In tracing a consistent genealogy of the notion of impegno in the post-war decades,O’Leary points out the widespread prejudice according to which impegno is, bydefinition, an exclusive domain of left-wing intellectuals and filmmakers. Quotingthe Battaglia dictionary, O’Leary complains about the implied association of theterm ‘progressive’ with the attribute di sinistra.1 By extension, this associationresults in stereotypical categories as exemplified in a study of Italian cinema andpolitics by Uva and Picchi: progressive and impegno 5 di sinistra; reactionary andescapist 5 di destra.2 However, one must not overlook a fundamental proviso inthe critical theory of the Frankfurt School: in order to possess a progressive quality,any theoretical perspective or artistic practice should raise critical awareness andthus affect an entire group of people within a given society. The fact that such aprogressive attitude was mostly adopted (and, surely, even distorted at times) byleft-wing intellectuals and filmmakers does not prevent right-wing or non-alignedones from embracing it should they wish so. For the most part, progressive art andtheory have been left-wing territory not by definition, but by practice. A much-respected conservative critic like Andrew Sarris considered most left-wing cinemaas the ‘product of bourgeois self-hatred’ and befittingly refused the habit of left-oriented criticism of labelling Hollywood cinema as reactionary. However, even heacknowledges that the most articulated and valid theoretical and analytical tools

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were initially developed by scholars associated with Marxism, from Eisenstein,Kracauer, and Rotha to Arhneim, Wright, and Manvell.3

With more specific reference to Italian cinema, but generally in line withO’Leary’s position, Brook traces the ‘narrow and limited’ left-wing vision of theworld back to neorealism and its ‘optimistic view of the role of cinema in politicalchange’.4 Subsequent elaborations of traditional left-wing discourses produceddefinitions of impegno that, as argued by Antonello and Mussgnug, proveinadequate to the extent of their being ‘overly dependant on fixed ideologicaldefinitions’.5 The main inspiration for such fixed definitions is, of course,dialectical materialism via Althusser in France, and via Gramsci and, evenmoreso, Lukacs in Italy. Rodowick pinpoints an eloquent example of how thesedefinitions could be applied to film in Jean-Paul Fargier’s rigid distinction between‘materialist films’ (essentially modernist films that lay bare the cinematic device tobreak any illusion of reality) and ‘dialectical films’ that depict reality in‘problematic’ terms — where ‘materialist films’ are the best example of cinemawith progressive value in that it promotes scientific knowledge and awareness of itsown historical and social context.6

As for neorealism: as soon as one approaches it as a monolithic entity, I amafraid it becomes critical quicksand: even assuming a dominant Gramscian view ofneorealism as a vehicle for a pedagogical role of cinema aimed at political change,I find it hard to ascribe a genuine left-wing agenda to Roberto Rossellini, VittorioDe Sica, or Renato Castellani. Moreover, a left-leaning critical discourse does notnecessarily lead to fixed definitions and consistent interpretations, as shown by anexample regarding the cinema di impegno of the post-neorealist period. Analysingthe systematic critique of the left in many of his films, Barotsi and Antonello citeNanni Moretti’s remark on how the films of ‘engaged’ filmmakers such as Rosi,Petri, Damiani, and Maselli were not criticized for the their intrinsic quality butbecause they were accused of ignoring Marxist doctrine.7 Ironically, whendescribing the Hollywood films of the 1970s that ventured to foreground the issuesof the working classes, Quart and Auster note that they do not comparefavourably with coeval Italian films such as La classe operaia va in paradiso (ElioPetri, 1971) — a controversial film that received harsh criticism from the left —–the reason being that these Italian films ‘powerfully and dialectically evoke’alienation, resentment, and racism in a consumerist society precisely because theywere Marxist films.8

Moving on to contemporary cinema, critics still tend to attach the notions ofimpegno and politico mainly to the subject matter treated in films. In 2006, in avolume that both acknowledges and welcomes the advent of a whole newgeneration of filmmakers, Zagarrio and Zonta still lament an ‘anemia di ideali’, aninability to analyse Italian society that sprang from a much bigger historical shift,the origin of which could be traced back to at least the 1980s, when traditionallydominant left-wing discourses began to lose their momentum.9 What Zagarrio andZonta somehow fail to acknowledge is that Italian contemporary cinema has sinceshifted its focus (even more so in the past few years) from class to a plurality ofsocio-political issues.

If, therefore, this roundtable is also meant to take stock of the currentscholarship on the politics of cinema, political cinema and impegno, it is essentialthat an epistemic openness replaces outdated forms of discussion that, when they

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reiterate even in critical terms the dualism of value categories such as auteur(implying quality) vs. commercial, or realist practices vs. genre codes, may welllook a bit like the Cineforum-style debate in the opening sequences of Il caimano(Nanni Moretti, 2006).

THE CURSE OF NEOREALISM AND NOT SO EXQUISITE CORPSES

One strand of the debate ignited in the 1970s by Comolli and Narboni’s critique offilmic representation sought to define the ontological status of the ‘impression ofthe real’: despite theoretical claims that cinema reproduces reality, the socialdeterminations of the referent are imposed by the dominant ideology, thereforewhat the spectator receives passes itself off as real but is in fact illusory.10 InFrance, following the Etats Generaux du Cinema and debates in festivals anduniversities, the Cahiers and other journals (e.g. Tel Quel, Cinethique) argued infavour of a (modernist) cinema that aimed at breaking the illusion of reality. InItaly, political film was often valued or criticized as a link between modernistcinema and the legacy of neorealism. From Kracauer to Lukacs there is no shortageof theorization about the importance of the political message (i.e. content) and,despite the rejections by Eduardo Bruno’s Filmcritica above all, after 1968 the‘primato della Politica’ was widely acknowledged through the legitimization ofpre-textual contenutismo.11 Which brings me back to one of the main points ofinterest solicited by this roundtable: the conformity to or deviation from ‘realistpractices’.

I share Canova’s preoccupation with the obsession of critics (and, I would add,filmmakers) who still feel compelled to compare today’s films with neorealism, ledby a mistaken ‘vocazione al pedinamento della cosiddetta realta’.12 Canova’smention of Zavattini’s poetics signals an exasperation with a dominant criticalframework that still seems to find in Bazin’s credo of fidelity to the phenomenologyof the profilmic and in Badiou’s commitment to its unpredictability as a token oftruth its own theoretical termini ad quo and ad quem. Notably, Gomorra (MatteoGarrone, 2008) has been singled out as an example of a recent film that critics haveread erroneously through the lens of realism.13 The issue could be easily extendedto migration films, for instance, too often granted merit merely for their treatmentof a serious subject coupled with a supposedly realistic on-screen rendition.

The problem is not whether to get rid of the fetish for neorealism or decidewhether neorealism itself has indeed replaced the metaphorical corpses of theprevious generations that Visconti wanted to bury as early as 1941, writing in thepages of Cinema.14 The problem is to get rid of the stereotypes and commonplaces(or myths?) that are still widely circulated and perpetuated about neorealism: theuse of real locations, non-professional actors, improvised or impoverished scripts,low budgets, and so on. My impression is that, when conveniently applied tocontemporary films labelled as neo-neorealist, these categories only betray asometimes (creatively, productively and strategically) poor approach to filmmak-ing in the Italian film industry. If we approached neorealism from different angles,not only would it be possible to dispel the mostly incorrect vulgata regarding itssupposedly naturalistic limitations and stylistically narrow notion of impegno; itwould also be possible to draw more rigorous and useful comparisons. Evenconsidering just a few examples from the best known of the roughly fifty titles that

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can be ascribed to neorealism, Bazin’s mantra of the use of long takes as opposedto ‘manipulative’ montage is easily debunked. The famous scene of the killing ofPina in Roma citta aperta (Roberto Rossellini, 1945) relies heavily on dynamicfactors (eye-matches, match-on-action, and off-screen space), clearly analyticediting and more than emphatic extra-diegetic music. In Ladri di biciclette(Vittorio De Sica, 1948) Bazin may not recall ‘a single shot in which a dramaticeffect resulted from the decoupage, strictly speaking’.15 And yet, strictly speaking,the paradigmatic sequence of Ricci’s attempted theft of the bicycle is a perfectexample of rhythmic analytic montage already painstakingly decoupe shot aftershot in the script, which reserves more than twenty pages to this less than three-minute segment.16 The overall design of the mise-en-scene in Sciuscia (Vittorio DeSica, 1946) is reliant on the geometric distribution of space in the studio-built setand on plot devices influenced by the Hollywood juvenile delinquency and prisoncycles of the 1930s and early 1940s.17

Allegedly neo-neorealist films like Mery per sempre and Ragazzi fuori (MarcoRisi, 1989 and 1990), along with many recent migration films, could be moreinsightfully compared with Sciuscia by applying Foucault’s concepts of coercivepower and panopticon and/or Kristeva’s notion of abjection to borders andboundaries. Another interesting alternative, and one that so far has not beenadopted to investigate Italian contemporary cinema, is the notion of ‘newsincerity’ proposed by Jim Collins among other scholars.18 This could prove usefulin the first place in the light of the current convergence of cinema with televisionand other digital media. Secondly, for its renewed serious approach to genres asopposed to the often too generalized notions of hybridization and eclectic irony —although I reject the somewhat nostalgic notion of ‘lost purity’ set forth by Collins.

The scope and focus of this article does not allow me to write in depth about thefilm d’autore/film medio/film di genere categorization (i.e. highbrow/middlebrow/lowbrow); nor can I touch upon issues of mainstream, entertainment, andescapism. Nevertheless, it is worthwhile to mention a somewhat general agreementamong Italian scholars of different generations — such as Torri and Micciche inthe 1970s and 1980s and Buccheri and Gervasini in recent years — in placing mostof the cinema politico of the 1960s/1970s in the category of film medio, whileoften considering genres as debased.19 On the contrary, non-Italian or Italianscholars publishing abroad are generally more inclined to describe the politicalfilms of those decades according to their generic conventions.20

If we are to investigate the political in contemporary Italian films, it is no longervery useful to recycle or simply update traditional definitions such as ‘impegnocivile’, ‘di denuncia’, ‘alla maniera politica’, ‘politicizzato’, ‘controcinema’, or‘militante’. A film is not an essay; films cannot describe, analyse, reproduce, orsolve the problems of a class, a social group, or society as a whole. Believing someans not understanding the expressive techniques of film. In most cases a film is ahundred-minute piece (and before that, a hundred pages in a script). This meansthat film must, by necessity, be selective. Genres are particularly effective at thisbecause they systematically employ techniques of extreme condensation (of values,tensions, conflicts into highly charged signifiers) and displacement (to secondaryfocuses of interest, for instance from the social to the personal level) through whichthey direct our ‘emotional investment’. In this respect, I do not agree withBordwell’s derogatory notion of social, cultural and ideological issues in film (e.g.

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ethnicity, gender, migration) as ‘extractable ideas’;21 films can be productivelymotivated in origin by external ideas or issues but they are not a mere reflection ofthose. Films are both part of the event discursivity and discursive eventsthemselves.

In the last decade, Italian film production has shown a renovated attention togenres, as testified by the works of Cosimo Alema, Stefano Bessoni, GiuseppeCapotondi, Luigi Cecinelli, Massimo Coppola, Daniele Costantini, Edoardo DeAngelis, Gianluca and Massimiliano De Serio, Paolo Franchi, Daniele Gaglianone,Matteo Garrone, Francesco Gasperoni, Federico Greco and Roberto Leggio,Grieco, Alex Infascelli, Lorenzo Lombardi, Mohsen Melliti, Gian AlfonsoPacinotti, Federico Rizzo, Eros Puglielli, Paola Randi, Fabio Segatori, Carlo A.Sigon, Paolo Sorrentino, and Federico Zampaglione, as well as long-establishednames such as Dario Argento, Carlo Mazzacurati, Gabriele Salvatores, andGiuseppe Tornatore. We can still distinguish between basic types of genres thataddress either the social or the domestic order (or both). We can still identify whattraditional or hybrid genres actually touch upon political issues. However, whenwe consider that the techniques of genres work affectively we should not stop attheir discrete components: namely, space, conflicts and possible resolutions,motifs, themes, and, yes, even iconography. The current critical challenge lies inthe relations of these components to the new ‘technoscape’ mentioned above asany contemporary approach to the study of film — even more so to political films— cannot separate itself from film’s convergence across multimedial, ‘liquid’,virtual, hypertextual and networked systems.

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NOTES

1 Alan O’Leary, ‘Marco Tullio Giordana,or The Persistence of Impegno’, inPostmodern Impegno. Ethics andCommitment in Contemporary ItalianCulture, ed. by Pierpaolo Antonelloand Florian Mussgnug (Oxford: PeterLang, 2009), pp. 213–32 (p. 219).

2 Christian Uva and Michele Picchi,Destra e sinistra nel cinema italiano:film e immaginario politico dagli anni‘60 al nuovo millennio (Rome: EdizioniMulticulturali, 2006), p. 9.

3 Andrew Sarris, Politics and Cinema(New York: Columbia University Press,1978), pp. 2–5.

4 Clodagh J. Brook, Marco Bellocchio:The Cinematic I in the Political Sphere(Toronto and London: University ofToronto Press, 2010), p. 30.

5 Antonello and Mussgnug, ‘Introduction’,in Antonello and Mussgnug, pp. 1–27 (p.17).

6 D N. Rodowick, The Crisis of PoliticalModernism: Criticism and Ideology in

Contemporary Film Theory, 2nd edn(Berkeley, Los Angeles, and London:University of California Press, 1994),p. 98. I mention Rodowick’s studybecause it marked a watershed in theattitude towards these questions.Fargier, of course, derives his notionof ‘problematic’ from Althusser.

7 Rosa Barotsi and Pierpaolo Antonello,‘The Personal and the Political: TheCinema of Nanni Moretti’, in Antonelloand Mussgnug, pp. 189–212 (pp. 193–94).

8 Leonard Quart and Albert Auster,American Film and Society Since 1945,3rd edn (New York and London:Praeger, 2003), p. 174.

9 Cf. Vito Zagarrio, ‘Certi bambini … inuovi cineasti italiani’, in La megliogioventu. Nuovo Cinema Italiano 2000–2006, ed. by Vito Zagarrio (Venice:Marsilio, 2006), pp. 11–20; DarioZonta, ‘Quello che il cinema italianonon vede’, in ibid., pp. 171–75.

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10 Acomprehensive examination of thepost-1968 debate over cinema, politics,and ideology would require a scopemuch wider than this article’s and is notmy main concern here; for the purposesof this piece, I will therefore not referthe reader directly to the several,seminal writings of the leading voicesof the debate (i.e. Comolli andNarboni, Leblanc, Fargier, Pleynet,Baudry, Wollen, Ellis, among manyothers) but to the following antholo-gies: Cahiers du Cinema 1969–1972:The Politics of Representation, ed. byNick Browne (London: Routledge,1996): Screen Reader 1: Cinema/Ideology/Politics, ed. by John Ellis(London: The Society for Education inFilm and Television, 1977). The often-overlooked 1978 volume by SilviaHarvey, May ’68 and Film Culture(London: BFI, 1978), also offers a validoverview of subsequent developmentsof the debate.

11 Cf. Lino Micciche, Cinema italiano: glianni ’60 e oltre (Venice:Marsilio, 1995),pp. 158–59; Bruno Torri, Cinema ita-liano: dalla realta alle metafore(Palermo: Palumbo, 1973), p. 129.

12 Gianni Canova, Cinemania: 10 anni 100film. Il cinema italiano del nuovo millen-nio (Venice: Marsilio, 2010), p. 14.

13 Cf. Canova, p. 13; Antonello andMussgnug, ‘Introduction’, pp. 1–27(p. 21). Allow me to mention a paperI gave at a conference at the Universityof Kent in June 2011, in which Ianalysed the systematically non-realistmise-en-scene techniques employed inGomorra.

14 Luchino Visconti, ‘Cadaveri’, Cinema,119 (1941).

15 As quoted in Christopher Wagstaff,Italian Neorealist Cinema. An AestheticApproach (Toronto: University ofToronto Press, 2007), p. 331.

16 The script of Ladri di biciclette can beconsulted at the Biblioteca Chiarini atthe Centro Sperimentale di Cinema-tografia in Rome (Fondo Aristarco,Inventario 66421, Collocazione SCENEG00 10734).

17 See the interesting comparisons withfilms like Dead End (William Wyler,1937), Angels with Dirty Faces(Michael Curtiz, 1938), and Sullivan’sTravels (Preston Sturges, 1942) made inVito Zagarrio, Messi in scena. Analisifilmologiche di Autori eccellenti (Ragusa,Libroitaliano 1996), pp. 81–82.

18 Cf. Jim Collins, ‘Genericity in theNineties: Eclectic Irony and the NewSincerity’, in Film Theory Goes to theMovies, ed. by Jim Collins et al.(London: Routledge, 2003), pp. 242–63.

19 Cf. Lino Micciche, Cinema italianodegli anni ’70: cronache 1969–1979,2nd edn (Venice: Marsilio, 1989), p. 7;Torri, p. 181; Vincenzo Buccheri, ‘Dalcinema civile al ‘‘poliziottesco’’’, inStoria del cinema italiano, XII, 1970–76, ed. by Flavio De Bernardinis(Venice and Rome: Marsilio-Edizionidi Bianco e Nero, 2008), pp. 31–32;Mauro Gervasini, ‘Dal cinema politicoal ‘‘poliziottesco’’’, in De Bernardinis,pp. 195–203.

20 Such an inclination becomes evidentthrough a comparison of: GiorgioBertellini, The Cinema of Italy (London:Wallflower, 2004), p. 6; Robin Buss,Italian Films (London: Batsford, 1989),p. 42; Carlo Celli and Marga Cottino-Jones, A New Guide to Italian Cinema(Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2007),p. 118; Howard Hughes, CinemaItaliano: The Complete Guide fromClassics to Cult (London and New York:I. B. Tauris, 2011), pp. 178–89; MiraLiehm, Passion and Defiance: Film inItaly from 1942 to the Present (Berkeleyand London: University of CaliforniaPress, 1984), pp. 214ff.; Millicent JoyMarcus, Italian Film in the Light ofNeorealism (Princeton: Princeton Univer-sity Press, 1986), pp. 265–67; GinoMoliterno, Historical Dictionary ofItalian Cinema (Lanham, MD andPlymouth: Scarecrow, 2008), p. 163.

21 David Bordwell, Figures Traced inLight: On Cinematic Staging (Berkeley,Los Angeles and London: University ofCalifornia Press, 2005), p. 266.

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THE GEOPOLITICS OF SPECTATORSHIPAND SCREEN IDENTIFICATION:WHAT’S QUEER ABOUT ITALIAN

CINEMA?

DEREK DUNCAN

University of St Andrews, UK

Rey Chow begins Sentimental Fabulations, her seminal work on Chinesecinema, by problematizing the lamentation often associated with the type ofcultural criticism grounded in identity politics: ‘Where is the movie about me?’.1

The apparent simplicity of this question conceals any number of questions aboutspectatorship and representation. The desire to see sameness on screen can, ofcourse, be read as a political one as marginalized groups stake claims for thedegree and quality of visibility commonly afforded to their more sociallydominant peers. Yet Chow is clear that beyond the laudable desire for politicalfairness lie often more imperious claims which drive spectatorship into the lessobviously quantifiable realms of affective attachment. This turn is particularlysignificant in a medium which has a necessarily complex relationship with thenon-filmic world mediated through culturally specific conventions of spectator-ship and commercial structures of production and distribution. Self-recognitionwould appear to require verisimilitude in order to find an adequate level ofsatisfaction, yet the power of cinema to secure identification in spectators hasnever really depended on that kind of matching. Not many people really want towatch stars who look like them. Yet beyond this very banal level of projectionand identification lie much more involving questions of how selves areconstituted and how they operate in any representational mode. The questionsI want to start working through here relate to what has come to be called queerspectatorship.2 The focus throughout is on Italy and on how a particularnational context might force a realignment of debates in Queer Studies whichvery often forget the specificity of their own geopolitical location and thepartiality of their otherwise insightful and politically necessary work ofanalytical reflexivity.

What I want to suggest is that queer spectatorship complicates andcompromises confident assertions of what constitutes national cinema and theidea of the nation drawn from it. I want to place the emphasis of my discussionon spectatorship rather than production for a number of reasons. While it isrelatively straightforward to discuss production in national terms, spectators aremuch less respectful of national boundaries in their patterns of consumption.The hypothetical queer Italian spectator does not limit himself to nationalproducts and indeed will probably have a film culture that is self-consciouslyinternational in orientation. The hugely informative website, cinemagay.it, is astrong indicator that, from the Italian perspective at least, queer culture is not a

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domestic business. The site gives ample coverage to films of gay interestfrom across the globe. It also hosts lists of its users’ favourite gay films, very fewof which are Italian; not very many were produced by Hollywood either.Equally as significant, figures like Pasolini and Visconti who have a certain statuson the art-house circuit abroad are all but absent from these classifications, eventhough these homosexuals are two of the linchpins of conventional Italian filmhistories. The absence can be interpreted in various ways. It may be simply areflection of the cultural level of those who have voted in the website’s poll; thatbiography is not everything and that a director’s sexuality in itself has littleimprint on his work; or indeed that times have changed and the labour oftranslation required to make certain work from the past intelligible andimportant to a contemporary spectator is simply too much. However thisselective sample is interpreted, it does show a pattern of preference that goesbeyond the nation. It is perhaps intemperate, though, to see this as an innatepreference for the transnational. It is probably more accurate to see it asexpressing, amongst many other things, the perceived absence of a gay presencein Italian cinema with adequate spectator appeal. It needs to be said, too, thatnearly all of the films mentioned are about men. The most popular filmcategorized as ‘lesbian’ in the website’s listings is David Lynch’s MulhollandDrive (2001). The underrepresentation of women here (reiterated in my shortintervention) is a complex issue, explainable in part by the possible demographicof the site’s active users. It does however reflect that fact that, even in recentyears, mainstream cinema in Italy and elsewhere has given more screen space togay men rather than lesbians.3

It is possible to argue that queer cinema exists in its most robust form outsidecommercial circuits of distribution. When Ottavio Mai and Giovanni Minerbastarted what has become the immensely successful Turin LGBT Film Festival in1986, one of their main aims was to show films which challenged cinema’stendency to relegate homosexual characters to very minor or stereotypicallyoffensive roles. Such characters were familiar to Italian spectators from thehighly regarded comedies, and from the politically committed filmmakers of thepost-war period who systematically used non-normative sexuality as a metaphorfor both German and Italian Fascism. From its inception, the Festival wasresolutely international in terms of its programming, aiming to allow the Italianpublic the chance to see films very rarely distributed in the peninsula. Indeed,relatively few Italian films, especially in the feature-length category, are evershown at Turin, despite the fact that the Festival attracts a significant amount offunding and a truly impressive guest list from Italy and abroad. Yet the festivalprogramme is not limited to the exhibition of contemporary work. Audienceshave also had the chance to see films from the queer historical archive, andthemed strands dedicated to particular national cinemas, or to stars such asAudrey Hepburn, charged with particular gay appeal. The Festival’s full name is‘Da Sodoma a Hollywood: i film che cambiano la vita’. The idea of films whichare actually life-changing intimates the desire to distinguish between work whichmore or less reiterates hegemonic commonplaces about sexuality and thatwhich not only challenges the boundaries of the heteronormative, but offers waysof going beyond their limitations, both creatively and practically. This almostimpossibly open formulation has the advantage of not limiting the category of

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queer cinema to films which appear to be more or less directly about lesbians orgay men. It more especially refutes the superficial realism which bedevils muchcontemporary Italian film production andwhich as both an aesthetic and ideologicalpractice seeks to naturalize whatever it chooses to represent on screen. The lure ofthe natural is particularly damaging when prejudicial stereotypes are read astranscriptions of a pro-filmic reality.

Since 2007, the Venice Film Festival has awarded the Queer Lion to the bestfilm dealing with LGBT themes selected from all those presented at the Festivaldeemed to be of ‘queer interest’. The kind of films shortlisted for this prize give agood indication of the fluidity of a category that goes beyond what is commonlyand reassuring see as gay. The first trophy went to American director EdRadtke’s The Speed of Life (2007), and since then the Lion has been awarded toa further two films from the USA, and one from Italy, Argentina, and mostrecently South Korea. To date, the prize has attracted a great deal of positiveinterest and is currently sponsored by the Veneto region and the Ministero per ibeni e le attivita culturali. Yet the type of film recognized at Venice does notseem to facilitate a very easy mode of audience identification. The Speed of Lifeis about a boy who enters into the world of some film footage he finds. The 2012winner Jeon Kyu-hwan’s The Weight has as its main character a hunchbackslave involved in an intense relationship with the transsexual son of his captor.Verisimilitude, at least in the sense of the kind of typicality that might favouraudience identification, is probably absent here for most people. What is mostcompelling, however, is that the film queers normative versions of sexual identitythrough the prism of disability, suggesting that queer is less about therecognition of a putative version of sameness than an exploration of differenceand the variety of material and psychosocial forms through which it findsembodiment.

It is worth dwelling on the fact that while the festival circuit has beenpromoting films which in most cases will have little commercial life, gaycharacters and plot-lines have steadily been moving into the mainstream ofItalian film production. The films in this second broad category have in the mainnot been authored by gay/queer directors. The commercially successful FerzanOzpetek is an exception here. Although Ozpetek’s work was presented in a majorretrospective at MOMA in 2008, his well-financed products are often criticizedfor their relatively unchallenging narrative and aesthetic structures which,superficially at least, do little of the work that queer as a contestational categoryaspires to carry out. I do think that it is possible to read Ozpetek’s work in waysthat challenge the heteronormative bias of commercial cinema, but from anindustrial perspective an interesting element of his work is that it features some ofItaly’s major male stars such as Stefano Accorsi, Luca Argentero, PierfrancescoFavino, and even Riccardo Scamarcio in gay roles. The willingness of stars withan established straight persona to assume gay roles suggests a very differenteconomy of male stardom to that dominant in Hollywood. Indeed, Ozpetek’swork is not exceptional in this. Films such as Cristina Comencini’s well-wornfamily melodrama, Il piu bel giorno della mia vita (2002) casts Luigi Lo Cascio inthe role of the tormented gay brother, while Luca Argentero (again) starsalongside Filippo Nigro as a gay couple in the popular comedy Diverso da chi?(Umberto Riccioni Carteni, 2009). It would be hard to argue that the careers of

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any of these actors have been damaged by playing gay characters. On the otherhand, despite the apparent willingness of straight actors to appear in gay roles,very few Italian actors are openly gay. Filippo Timi is an interesting exceptionhere.

While it is relatively easy to trace the presence of gay plotlines and charactersin contemporary Italian cinema in the type of films just mentioned, it is morechallenging to know what actually to make of a level of visibility that has becomeso conventional in terms of production, and arguably consumption. There is littleevidence that these commercial products target the gay spectator, even if gayspectators may well derive quite a lot of pleasure from the well-crafted narrativesassociated with the high production values of these films. On the surface levelthere is a lot to say about the positive value of such films for Italy’s gaypopulation, as they indicate powerful changes in the nation’s attitude towardshomosexuality. The type of gay characters embodied by stars such as Argenteroare nevertheless resolutely normal in their degree of physical attractiveness andmaterial integration into the national economy. So if these movies are indeed tobe seen as ‘about me’, the ‘me’ in question tends to be buff and pretty well-heeled,testing for many, one might suspect, the contours of verisimilitude thatmiddlebrow realism usually aspires to. This kind of realism has characteristicallybeen centred round the Italian family and the new Italian gay cinema reiteratesthis trend. Diverso da chi? is a romantic comedy with a queer (lite) twist.Argentero plays an aspiring gay politician standing on an explicitly pro-gayplatform forced to run alongside a very conservative pro-family female rival,divorced as she had been unable to have children. The two have an affair as aresult of which Adele (Claudia Gerini) ends up pregnant. The film concludes withthe setting up of an unlikely menage a trois to look after the child, and the comicand wholly unverisimilar reinstatement of family values. In Ozpetek’s Minevaganti (2010), the family drama is played out in a slightly different key. Therevelation of the homosexuality of both sons (Scamarcio and AlessandroPrezioso) threatens the family pasta business in Puglia as neither wants to takeit on. The comic unpicking of the ties between production and reproduction areresolved through the realization that the business might successfully be entrustedto the previously marginalized daughter whose possible value to the enterprisehad never been considered. Ultimately, neither film has much to say about gaymen, but more interestingly offers an indirect commentary on the changed role ofwoman in Italian society. In both instances the homosexuality of the malecharacters is a prism through which to discuss the professional life of women. Assuch, these films are not at all without interest.

The emergence of what might be considered a new gay stereotype to replacethat of the effeminate Nazi is thought-provoking, but it does not really lie withinthe ambit of a queer cinema with radical pretensions. I would suggest that if wewant to talk about an Italian queer cinema at all we need to shift our focus awayfrom the straightforwardly gay to look at films in which sexuality and otherforms of relationality are articulated in more recondite ways. Italian films aboutmigration have very often queered their ostensibly straight subjects. Migrantsare rarely figured as reproductive heterosexuals and their relationships withItalians usually end catastrophically. Laura Muscardin’s Billo il GrandeDakhaar (2007) is a notable exception here, although like Comencini’s Bianco

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e nero (2008) the comic genre projects the happy ending into the realm of thenot-very-likely at all. As a result, migrants are never granted the typicalityrequired to make them national subjects. A more productive variant is CarmineAmoroso’s Cover Boy (2008), centred on the intense relationship between thejobless Italian, Michele, and the Romanian, Ioan, whose material success is anegative mirror of his friend’s abjection. The film ends with Michele’s suicide,followed, however, by a visual postscript in which they both drive back toRomania to set up a restaurant together on the Danube. The happy ending hereis resolutely fictional, yet owes much of its affective charge to the knowledge ofits impossibility. Subjective camera work from the perspective of Michele,notably in a scene in which his gaze lingers on the naked body of his friend in theshower, invites the assumption that he at least is gay. Yet Cover Boy asks morecomplex questions. To understand the relationship between Michele and Ioan asa homosexual one invokes a transparency that the film resists. The two men areentangled by material needs and by histories of migration and marginalizationwhich do indeed make them ‘diversi’; different to themselves as well as to eachother. Unlike the rainbow-tinted optimism of Diverso da chi? which playfullyintimates that sexuality can be subject to unexpected, albeit wholly predictablereversals, Cover Boy points to configurations of desire, but, more enduringly, ofallegiances which are not exhausted by sex, but which are not properly separablefrom it either. The film’s ending, which in different ways shows queers vanishing,intimates that queer subjects do not sit easily within Italy’s borders,cinematographic or geopolitical.

The most popular film on cinemagay.it by some clear margin is Ang Lee’sBrokeback Mountain (2005). Based on the short story by Annie Proulx, theTaiwanese director’s film was shown first at Venice in 2005 and went on toreceive significant critical acclaim and international box-office success wellbeyond any gay or queer niche market.4 To all effects a Hollywood blockbusteralbeit with a transnational twist, the film is the subject of Rey Chow’s postscriptto Sentimental Fabulations. While resisting the temptation to claim Ang Lee’smost successful film for Chinese cinema, she does make a strong case that itscompelling affective power has strong affinities with the sentimental narrativemode she identifies as characteristic of contemporary Chinese cinema. Her focusin the book is not on films which exhibit the kind of alienating aesthetic strategieswhich are appealing to the Western art house audience. Instead, she looks atrelatively mainstream films which draw on what she defines as the ‘sentimental’to work through narratives which visualize a changing nation.5 The films shediscusses are films about accommodation to social demands rather thanresistance to them. Chow resists the overt conservatism of these films and arguesthat their plots represent compromise or acquiescence as powerful affectiveevents. She refuses to see these films as having a purely conservative charge forwhat they narrativize is compromise or acquiescence as a significant affectiveevent. Chow understands the sentimental as a mode of articulation which is to dowith emotional endurance and resilience, always in situations of entanglement.The idea of entanglement, the fraught and over-wrought energies which bindpeople yet also keep them apart, is a constant trope in Chow’s work. Withoutwishing to appropriate it or traduce its theoretical specificities, I would like to useit to suggest it as one possible way of linking gay and queer as elements in a

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continuum of affect. Cover Boy can be seen as deeply conservative in that itsconclusion eliminates both Michele and Ioan from the national landscape. Itsending, however, is not redemptive, but dramatizes in sentimental mode howwronged the two men had been — just as in Brokeback Mountain. Theentanglements of both films queer the Italian spectator through an exploration ofmodes of affective relationality beyond those offered in the safer space of nationalcinema. To return to Chow’s critique of identity-based criticism, these are notfilms about a putative ‘me’, but affective texts which extend the spectator’shorizon of expectation and structure of feeling beyond borders.

NOTES

1 Rey Chow, Sentimental Fabulations,Contemporary Chinese Cinema: Attach-ment in the Age of Global Visibility(New York: Columbia University Press,2007), p. 1.

2 I have no space to work through thedefinitions of the term ‘queer’ here or toconsider the very significant issuesinvolved in its translation out of theAnglophone context. I do want to insistthat ‘queer’ is not synonymous with ‘gay’or ‘homosexual’, even though it is com-monly used in this way. I prefer to use‘queer’ to reference sexual identities andpractices which are not readily subsumedby familiar binary categories (gay/straight,male/female). Queer recognizes the trans-versal and intersectional energies of sex-ualities as they converge in and conflictwith other modes of social definition, notalways happily, but mostly productively.

3 Although now slightly dated, the essaysin Tamsin Wilton (ed.), Immortal,Invisible: Lesbians and the MovingImage (London: Routledge, 1995) givea good account of lesbian-centred filmproduction and representation in arange of screen media.

4 The Italian title is I segreti diBrokeback Mountain.

5 Chow’s concept of the sentimental istoo complex to do justice to here. Onethought-provoking aspect relevant tomy brief discussion is her association ofthe sentimental with anachronism, andthe persistence of traces of the (local)past in the passage towards what shecalls ‘global visibility’. This perceptioninvites reflection on how residual tracesof any national cinema inhabit theuniversalizing impulses of some ver-sions of queer theory.

POLITICA E MERCATO NEL CINEMAITALIANO

GIACOMO MANZOLI

Universita di Bologna, Italia

La polarizzazione dei discorsi nel dibattito pubblico italiano porta spesso a unaserie di contrapposizioni fittizie che sono il segno di una certa arretratezza. Peresempio, l’opposizione strutturale (ideologica) che esisterebbe tra cultura emercato.

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Lo schema discorsivo e abbastanza semplice ed e un problema con cui la culturaitaliana si confronta da tanto tempo, forse troppo, proiettando sul contestoculturale una serie di opposizioni di carattere politico che tendono a fare di unadisputa ideologica un fatto ontologico o perfino antropologico.1 Ecco allora unduplice effetto paradossale che contraddistingue il rapporto fra contesto italianogenericamente inteso e l’industria culturale, quella cinematografica in particolare.

Primo paradosso. La politica produce il politico: ovvero, fingere di non saperecio che sappiamo benissimo. Come osservato da Gianni Canova alcuni anni fa,2

l’Italia ha legalizzato la pratica del product placement solo nel 2004 e continua apercepirla come un attentato alla liberta creativa degli artisti e un’intromissioneindebita nella linearita del processo creativo e nel rapporto fiduciario fraproduttore e spettatore. Tuttavia, al contempo, sono avvertiti come del tuttonaturali la prassi del finanziamento pubblico, diretto e indiretto, elargito dallaDirezione per lo Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attivita culturali(MIBAC),3 e il fatto che la televisione di Stato, la RAI, i cui vertici sononotoriamente il risultato di nomine politiche che rispondono ai governi in carica,sia uno dei principali produttori cinematografici nazionali.

Si tratta di passaggi decisivi per accedere a risorse che hanno sostenuto lastragrande maggioranza dei cosiddetti film d’autore o di ‘interesse culturale’,realizzati in Italia negli ultimi decenni. Se molto spesso si sono levate critiche neiconfronti dell’operato delle commissioni ministeriali per l’attribuzione di questeforme di finanziamento, non sembra in generale costituire un problema la prassiper cui un cineasta, per riuscire a realizzare un film, deve necessariamentesottoporre la sua sceneggiatura all’approvazione – previa revisione – di unacommissione istituzionale, di nomina, anch’essa, politica.

Annualmente, a fronte della concessione dei finanziamenti, escono sulla stampaarticoli di durissima critica dei risultati.4 L’attuale sottocommissione per ilriconoscimento dell’interesse culturale, alla quale compete ‘la definizione dellaquota massima di contributo assegnabile e l’attribuzione di contributi per losviluppo di sceneggiature originali’5 e composta da figure come Antonia Postorivo,che si definisce ‘appassionata di cinema’ sul proprio blog6 e non pare avere altrimeriti particolari all’infuori dell’essere moglie di Antonio D’Alı Solina, presidentedella commissione Ambiente del Senato durante il governo Berlusconi (parliamoovviamente della penultima legislatura), oppure Valeria Licastro Scardino, che fusegretaria particolare di Fedele Confalonieri negli anni Novanta e oggi consortedell’ex deputato Antonio Martusciello nonche commissario AGCOM. Dall’altraparte politica, del resto, troviamo figure senz’altro piu competenti, ma di cui edifficile non vedere il palese conflitto di interessi per altre cariche ricoperte in senoa strutture a partecipazione pubblica e privata aventi analoga funzione: Steve dellaCasa, per esempio, e presidente della Film Commission Torino Piemonte, la cuimission e il ‘sostegno alle produzioni cinematografiche e televisive che scelgono diprodurre sul territorio piemontese’.7 Assieme a lui, in sottocommissione, EnricoMagrelli, co-conduttore di un popolare programma di informazione e criticacinematografica di Radio 3 della RAI, ente pubblico che figura anche quale co-produttore di parecchie delle pellicole finanziate. Peraltro, Della Casa e Magrellisono critici raffinati e illuminati, fra i pochi che hanno saputo andare oltre lecontrapposizioni fittizie fra cultura alta e cultura popolare nel campo cinemato-grafico, ma non e questo il punto. Dario Vigano, sacerdote, professore ordinario di

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Teologia della Comunicazione presso la Pontificia Universita Lateranense, fa partecon loro della sottocommissione che attribuisce i finanziamenti ad alcuni filmitaliani di interesse culturale ed e contemporaneamente presidente dellaFondazione Ente dello Spettacolo (FEdS), direttore della Rivista delCinematografo, presidente della Commissione nazionale Valutazione Film(CNVF) della Conferenza episcopale italiana (CEI). Non pago, egli e stato anchemembro del consiglio di amministrazione della Fondazione Centro Sperimentale diCinematografia, con delega alla Cineteca nazionale e perfino membro della giuriadi ‘Controcampo italiano’, sezione competitiva sulle tendenze del cinema italianoalla 67a edizione della Mostra internazionale del Cinema di Venezia.

Allora, il punto non e forse quello di stabilire quali film ‘immeritevoli’ siano statiapprovati in base alla composizione delle giurie, cio su cui si sofferma in generalela stampa italiana (anche le riviste di critica) e che pure varrebbe la pena sottoporreal vaglio di una network analysis.8 Cio che appare degno di rilievo, piuttosto, e ilmeccanismo che porta il presidente della Commissione di Valutazione Film dellaCEI a consentire il finanziamento di Diaz (400.000 euro), Romanzo di una strage(800.000), E stato il figlio (400.000), Il rosso e il blu (800.000), Il gioiellino(1.650.000), La prima linea (1.500.000), L’uomo che verra (1.500.000),Terraferma (1.200.000) e — cosa davvero difficile da comprendere — La bellaaddormentata, gratificato di 900.000 euro che costituiscono sicuramente unapercentuale assai rilevante e certamente decisiva del budget necessario allarealizzazione del film. Sarebbe allora utile partire da una considerazione relativa alcontesto, inteso come interazione fra il circuito delle istanze di natura politica equello degli interessi economici di questo piccolo sistema produttivo di natura piuo meno artigianale e semi-familiare.

Chiunque abbia un minimo di esperienza nella pratica negoziale sa bene che c’enormalmente un momento di scambio e contrattazione sulla ripartizione dellerisorse, nonche un principio di veto esercitabile sugli elementi piu estremidell’opera da parte di tutti i soggetti in gioco. Allora dovremmo forse porci alcunedomande: quali ricadute ha sulla modellizzazione del discorso ‘di destra’ il fattoche il film celebrativo sulla Lega Nord, Barbarossa di Renzo Martinelli, sia dovutopassare anche dal vaglio di due noti critici ‘‘di sinistra’’ per ottenere i quasi2.000.000 di euro che il Ministero gli ha attribuito?9 Analogamente, possiamochiederci se il dover passare al vaglio di commissari nominati direttamente dalcentro-destra abbia influito sul fatto che il film sul piu grande crack italiano di tuttii tempi (Parmalat) abbia scelto di dedicare piu di meta del tempo a suadisposizione per raccontare la storia d’amore fra un dirigente attempato e la suagiovane padrona, ricca e bellissima? E ancora: si deve forse sempre alla presenza diesponenti della destra il fatto che all’interno della scuola Diaz si sottolineasistematicamente che non mancano i ‘poliziotti buoni e onesti’? Sono solo piccoliesempi, ma si potrebbe andare molto piu in la intrecciando questo elemento dellecommissioni con la tendenza (peraltro forse fisiologica) a creare sistemi ristretti echiusi, privilegiando certe case di produzione e pratiche produttive, a cominciaredallo sfruttamento intensivo di certi attori-maschera per finire con le occorrenzestilistiche in quanto forme simboliche.10 Per fornire dei parametri, e con tutto ilrispetto per il lavoro egregio degli attori chiamati in causa, e importantesottolineare che nella sua carriera Margherita Buy ha interpretato circacinquantasei film, mentre (per dire) Meryl Streep ne ha interpretati settantuno,

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ma con tredici anni in piu e in un sistema produttivo infinitamente piu vitale (dove,cioe, si producono cinque o sei volte il numero dei titoli prodotti in Italia). Ancora,il giovane Riccardo Scamarcio (classe 1979) dal 2001 a oggi ha interpretato circatrenta lungometraggi (e sette tra fiction e cortometraggi), contro i ventidue chenello stesso periodo hanno visto impegnato George Clooney. E non possiamotacere il fatto che Toni Servillo ha interpretato, sempre dal 2001 a oggi,ventiquattro titoli, con un ritmo e una percentuale sul numero dei ‘film politici’italiani davvero eccezionale. Sono dati che conducono a una specie di coazione aripetere che investe tutto il cosiddetto cinema politico italiano che – sotto il profilodelle politiche cinematografiche – potrebbe persino essere definito nei termini di un‘cinema di regime’. Regime piuttosto sfuggente e trasversale, ma pur sempreregime, inteso come circolo chiuso di relazioni e interessi consolidati, in grado diesercitare un controllo articolato e sottile su cio che puo o non puo essere detto nelpanorama cinematografico italiano. Anche perche non e che il rapporto con ilfinanziamento pubblico e il condizionamento politico che ne deriva si fermi allecommissioni ministeriali. Citiamo un caso per tutti. Al principio del penultimo filmdi Giorgio Diritti, L’uomo che verra, premiato con il David di Donatello,istituzione nel cui direttivo figura Lionello Cerri, produttore del film successivodello stesso regista, troviamo i loghi dei finanziatori: RAI, MIBAC, RegioneToscana, Regione Emilia-Romagna, Cineteca di Bologna, Fondazione CARISBO.Vale a dire che prima di arrivare al rischio di capitale del produttore (Aranciafilm),il film si e avvalso del finanziamento di sei differenti soggetti, cinque dei qualipubblici. Di nuovo, chiunque abbia una minima esperienza della burocraziaitaliana puo capire cosa significhi trattare con cinque differenti istituzioni e cosaimplichi – in termini di moltiplicazione dei soggetti preposti alla medesimafunzione – il fatto che cinque diverse amministrazioni pubbliche abbiano fattoconvergere un’elargizione di fondi verso lo stesso identico oggetto. A rendere ilmeccanismo ancora piu impressionante, vi e il fatto che tutti questi soggetti sonolegati da meccanismi di reciproco finanziamento. Segnatamente: MIBAC finanziamolti dei progetti RAI e – su altre voci – la Cineteca di Bologna, che e sostenutaanche dalla Regione Emilia-Romagna e dalla Fondazione CARISBO. A loro volta,anche buona parte dei progetti regionali si avvalgono del finanziamento delMIBAC e le regioni stesse, per il tramite delle film commission, offrono appoggio anon pochi film e serie televisive prodotte dalla RAI. Niente di illegale o discorretto, ma un guazzabuglio di funzioni spurie e un intreccio di ‘partite di giro’fra enti che hanno lo stesso compito. Non si puo quindi pensare che tutto questonon abbia una ricaduta sul modo in cui certi progetti vengono fatti avanzare oscartati sul nascere e — soprattutto — sul modo in cui vengono sviluppati iprogetti destinati a raggiungere la sala dopo questa via crucis di matrice politica.

Secondo paradosso. A fronte di tutto cio e alta l’insofferenza maturata neiconfronti della cosiddetta ‘casta’ e altrettanto alta la sfiducia generata da decennidi mancate risposte ai grandi quesiti della cronaca politica11 degli ultimicinquant’anni. Questo fa sı che gli altissimi costi della politica italiana sianoalmeno in minima parte compensati dai consistenti ricavi12 che l’industriaculturale ottiene dai discorsi ‘anti-politici’ o comunque oppositivi. La logica del‘contro il sistema’ in Italia e un business di dimensioni rilevanti.

E questo e l’aspetto piu delicato di un tipo di analisi o ricerca che provi aprendere in considerazione le condizioni produttive di determinati oggetti che

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vengono predisposti per un uso ‘politico’ (qualunque cosa questo significhi), ilpubblico al quale sono destinati, la morfologia dei prodotti e l’organizzazione deldiscorso audiovisivo. Ed ecco allora il secondo paradosso. Affermare che undeterminato film ‘politico’ e anche un prodotto culturale di natura industriale e —in quanto tale — oggetto di marketing dalla concezione al consumo, vienepercepito fisiologicamente come un atto provocatorio, di diminuzione del valore odella credibilita dell’oggetto in questione oppure, nella migliore delle ipotesi,un’espressione di cattivo gusto.

Da tutto cio, in maniera piu o meno diretta, conseguono due effetti didistorsione della dinamica lineare che dovrebbe contraddistinguere il rapporto frapolitica e industria culturale. Una particolare forma di confusione fra campopolitico e campo dell’intrattenimento e una netta divaricazione fra ‘culturacinematografica’ e mercato per quanto attiene all’industria cinematograficapropriamente detta.

Rispetto al primo fenomeno, di cui trattano numerosi saggi recenti,13 si puo fareun esempio che esce (in parte) dai confini del cinema: non c’e nulla di male nelfatto che una trasmissione di natura politica abbia un produttore ingombrante.Tuttavia, puo essere interessante osservare che trasmissioni politiche pereccellenza, come quelle di Fabio Fazio e Roberto Saviano, affiancano il discorsosulla cronaca politica vera e propria con un discorso — implicito ed esplicito — dipiu ampio respiro e di natura, per cosı dire, socio-antropologica. Trasmissionicome Vieniviaconme (2010) o Quello che (non) ho (2012) prendono certamentespunto dalle denunce contro la criminalita organizzata e la corruzione proposte dalgiovane autore di Gomorra, minacciato dalla camorra e costretto a vivere sottoscorta, ma al contempo offrono un piu generale modello culturale. Sonoprogrammate da emittenti tradizionalmente ‘di sinistra’, ovvero seguite per lopiu da elettori di sinistra (Rai Tre e La7); inoltre, utilizzano come titolo spunti dicanzoni celebri di cantautori appartenenti al settore ‘colto’ dell’industriadiscografica, Paolo Conte e Fabrizio De Andre, laddove altri preferiscono pescarefra versi di cantanti piu popolari, dall’Antonello Venditti di Notte prima degliesami al pop-vintage di Nicola Di Bari per La prima cosa bella. Volti,abbigliamento, scelte lessicali, registro: tutto rimanda a una concezione della vitae a una scala di valori che sembrano opporsi (e spesso lo dichiarano esplicitamente)all’Italia spensierata descritta da Francesco Piccolo, ovvero a quella ‘cafonal’ deiBriatore, delle veline, del cinepanettone. In una parola, all’Italia del GrandeFratello, emblema di un esibizionismo superficiale che sarebbe il portatoideologico fondamentale del grande processo di manipolazione di massa operatodalla televisione commerciale negli ultimi trent’anni.14 Fazio e Saviano, insomma,in termini antropologici (nell’accezione pasoliniana del termine) si rivolgono alla‘meglio gioventu’, contrapponendosi alla ‘bella gente’ che si affolla ai casting delBig Brother.15

Ora, senza voler fare a nostra volta del moralismo e proporre schematismiinopportuni, e pero un fatto che andrebbe considerato che sia le trasmissioni diFazio e Saviano sia il Grande Fratello provengono dallo stesso produttore,Endemol Italia. Non si tratta di rilevare la solita questione pasoliniana: (‘ilproduttore del mio film e anche l’editore del suo giornale …’); l’analisi cheandrebbe fatta e di natura completamente diversa.

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La situazione italiana, infatti, e decisamente atipica. Nessuna delle filialinazionali del grande colosso olandese della comunicazione produce programmicosı politicamente orientati o addirittura ‘di denuncia’ nelle altre grandidemocrazie europee. Non lo fa certamente in Gran Bretagna, dove si dedicaesclusivamente all’intrattenimento. Non lo fa in Spagna e non lo fa in Francia,dove al massimo si azzarda a sviluppare una linea di format di docu-realite cosıdefinita: ‘formats qui racontent des histoires humanines et sociologiques’.Ragazzini difficili, persone che devono confrontarsi con salari bassi, gentecomune. Niente di piu.

L’Italia e quindi un laboratorio interessante per l’industria culturale europea,anche perche e il primo paese in cui si stanno svolgendo esperimenti di‘formattazione’ (peraltro piuttosto rigida) del discorso politico. Endemol Italianon produce Fazio e Saviano per ragioni di adesione politica al loro messaggio,evidentemente, altrimenti non produrrebbe in contemporanea anche Big Brother oThe Money Drop. Endemol Italia, come tutte le altre filiali, sviluppa format,ovvero prende dei contenuti e li organizza in forme definite e riconoscibili(standard) per poter rispondere alla domanda di pubblici segmentati e predefiniticon una certa precisione (target).

Non che questo non avvenga in altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti.Tuttavia, almeno nella tradizione europea, il discorso politico e comunquesottoposto a una sorveglianza istituzionale e passa attraverso il filtro di una certaconsapevolezza e sensibilita dei destinatari. Oppure, piu semplicemente, negli altripaesi europei, non c’e un pubblico sufficientemente ampio e un interesse cosımassiccio nei confronti di questo tipo di rappresentazioni, magari per il banalemotivo che ci si aspetta meno dalla politica o che questa e piu efficiente e dunquemeno spettacolare.

Comunque sia, resta il fatto che in Italia c’e la tendenza e dunque la capacita afiltrare anche la rappresentazione mediale della politica, a tutti i livelli, attraversole stesse identiche procedure cui e sottoposta tutta la ‘macchina dell’intratteni-mento’ e da parte dei medesimi soggetti.

Come e con quali esiti sulla natura dei prodotti, sulle aspettative del pubblico,sui processi di riflessivita, sono tutte cose da stabilire dopo che si sara riusciti atracciare un quadro delle condizioni produttive e di mercato attraverso le qualisono realizzati, circolano e vengono fruiti tutti quegli oggetti audiovisivi chepretendono di avere la qualifica di ‘politico’ e/o ‘culturale’, con tutto cio che questocomporta.

Nell’ambito del cinema, poi, il fenomeno ha contribuito in modo chiaro adallargare la forbice fra cinema di intrattenimento e cinema — per cosı dire — diimpegno.16 Il fenomeno e chiaramente riscontrabile da un’analisi dei dati del box-office delle ultime cinque-dieci stagioni cinematografiche e ha contribuitoevidentemente alla crisi del settore, un dato ormai acclarato e analizzatodettagliatamente anche nelle riviste specializzate.17 Sono da spiegare percio alcunifenomeni peculiari: come mai, regolarmente, la classifica dei primi dieci filmitaliani in termini di incassi comprende solo ed esclusivamente commedie dicostume, mentre i film discorsivizzati come ‘politici’ hanno riscontri sempre menosignificativi a fronte di campagne stampa e pubblicitarie massicce? Si puoaffermare che il loro appeal commerciale decrescente corrisponda alla percezionediffusa che il loro potenziale sociale e oramai praticamente nullo? Ci si puo

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spingere ad affermare che il vero cinema ‘politico’ — ovvero il cinema capace dirispondere in termini di riflessivita a esigenze di carattere simbolico e identitarie,cioe di trattare conflitti reali che investono la sfera pubblica e privata tracciando ivettori di cambiamento della societa italiana, con tutti i traumi e le ambivalenzedel caso — e in realta il cinema ‘commerciale’, fatto soprattutto di commedie‘leggere’ o ‘volgari’?18 Si puo vedere in questo fenomeno un fattore negativo, checompromette nell’insieme il rapporto fra industria cinematografica e pubblico?

E un lavoro complesso ma che appare sempre piu necessario. Si e cominciato asvolgerlo, per esempio presso il dottorato in Cinema, Musica, Teatrodell’Universita di Bologna, attraverso lo sviluppo di alcune ricerche che hannocondotto a dissertazioni di ottimo livello. Citiamo, a titolo di esempio, il lavoro diFrancesca Negri, dedicato proprio a ‘Produzione, distribuzione e mercato delcinema politico italiano tra il 1994 e il 2009’19 e quello di Francesca Masoero,dedicato al product placement italiano.20 Quest’ultimo testo, poi pubblicatopresso l’editore Kaplan,21 concentra la sua analisi su un genere antitetico, il teen-movie italiano, per arrivare a dimostrare quanto le pratiche tendano a confondersiallorche i medesimi soggetti si dedicano a una produzione di segno apparente-mente diverso come quella — appunto — del film politico. Strumenti analoghisono cioe utilizzati nel confezionamento del film ‘culturale/politico’ o di‘intrattenimento’ in funzione di uno sfruttamento commerciale che va inprofondita e non si limita certo al marketing del ‘prodotto finito’.

Altri studi sono in via di definizione. Non si tratta, e importante ribadirlo, distabilire che il cinema politico italiano contemporaneo e un genere ‘corrotto’ einattendibile perche piu preoccupato di vendere piuttosto che di dire cose vere oalmeno corrispondenti all’intima convinzione di chi le sta affermando. Ilproblema, semmai, e opposto, e riguarda proprio l’invendibilita di un cinemache appare destinato a un target sempre piu definito e dunque ristretto. Si tratta dicapire quanto articolato sia il processo che determina le forme specifiche di questotipo di film (e prodotti audiovisivi in genere) a partire da condizioni materialispecifiche e contingenti, da nominare e misurare, quali risultano dall’intreccio fral’assetto dell’industria culturale italiana (fortemente concentrata ma — per quantoriguarda il cinema — a vocazione artigianale) e il rapporto estremamenteproblematico che lega i cittadini, ovvero gli spettatori italiani, alla rappresenta-zione della politica. Problema che chiama in causa la specificita del contestonazionale anche in relazione ad un piu ampio dibattito europeo che riguardaappunto la funzione da attribuire alla ‘cultura impegnata’ tradizionalmente intesae alle politiche culturali nel loro insieme.22

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NOTES

1 Si pensi solamente alla lettura particolar-issima che in Italia e stata fatta diGramsci, dal quale e stata desunta unaserie di presupposti che portano indirezione diametralmente opposta (persemplificare: verso Adorno e la dialetticadell’illuminismo) rispetto alla lettura chee prevalsa in area anglosassone e che ha

condotto alla nascita dei CulturalStudies. E a partire da questo pregiudizioche la critica e la cultura italiana e glistudi di cinema in particolare fanno cosıfatica a rapportarsi con il cinema popo-lare, le culture di gusto e in generale autilizzare l’apparato degli stessi CulturalStudies, come dimostrato — fra gli altri

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— dai lavori di studiosi quali Fabio Dei(Beethoven e le mondine. Ripensare lacultura popolare (Roma: Meltemi,2007); ‘Pop-politica: le basi culturalidel berlusconismo’, Studi culturali, 8.3(2011), 471–90), Danielle Hipkins(‘Who Wants to Be a TV Showgirl?Auditions, Talent and Taste inContemporary Popular Italian Cinema’,The Italianist, 32.2 (2012), 154–90),Alan O’Leary e Catherine O’Rawe(‘Against Realism: On a ‘‘CertainTendency’’ in Italian Film Criticism’,Journal of Modern Italian Studies, 16.1(2011), 107–28).

2 Proprio Gianni Canova, recentemente,ha curato assieme a Luisella Farinottiun interessantissimo Atlante del cinemaitaliano. Corpi, paesaggi, figure delcontemporaneo (Milano: Garzanti,2011) nel quale si cerca di scavalcareun paradigma culturale percepito evi-dentemente come dominante e anacro-nistico, laddove si afferma che laricerca in questione ‘ha l’ambizione dilasciarsi decisamente alle spalle ogniapproccio autoriale allo studio delcinema e alla sua storia: tutte le opereassunte all’interno del campione nonsono state gerarchizzate in base al loropedigree autoriale o alla loro apparte-nenza a un genere ritenuto piu o menonobile’ (p. ix).

3 Suggeriamo, come particolarmenteistruttiva, la lettura degli obiettivi dellaDirezione generale per il Cinema delMIBAC, riportata in ,http://www.cinema.beniculturali.it/direzionegenerale/2/obiettivi/..;

4 Si veda, ad esempio, la brillante descri-zione offerta da Michele Anselmi,‘Galan: le nomine del buon ricordo’, IlSecolo XIX, 15 novembre 2011.

5 ,http://www.cinema.beniculturali.it/commissione2/8/commissione-per-la-cinematografia/.. Tutti i dati checiteremo provengono direttamentedal sito del Ministero che, in modotrasparente, pubblica la concessionedei finanziamenti in questione (manon i giudizi e i verbali che hannoportato allo stanziamento).

6 ,http://antoniapostorivo.wordpress.com/..

7 ,http://www.fctp.it/info_fctp.php..8 Solo raramente si e provato a compiere

analisi di questo tipo. Per esempio:Alessandro Usai, Fabrizio Montanari eGiuseppe Delmestri, Il cinema tra arte ebox office: reputazione e relazioni, inSeverino Salvemini e Giuseppe Soda (acura di), Artwork e network (Milano:Egea, 2001).

9 Il caso dei film di Martinelli e inter-essante. Il centro-destra, dopo averdenunciato duramente e in modo percerti aspetti convincente il sistema difinanziamento pubblico al cinema, ege-monico della sinistra, in un testo volutoda Renato Brunetta e Vittorio Feltri(Luisa Arezzo e Gabriella Mecucci,Cinema, profondo rosso: come la sinis-tra ha costruito l’egemonia sul cinemaitaliano, facendone una sprecopoli dicelluloide, capace di produrre soltantofilm-flop (Milano: Libero FreeFoundation, 2007)), una volta al gov-erno non ha trovato di meglio cheadottare le identiche pratiche per pro-durre analoghi risultati.

10 Quest’ultimo e il tema al quale abbiamodedicato due interventi ad altrettantirecenti convegni dedicati al cinema ita-liano: ‘Apparato e forme simboliche nelcinema italiano contemporaneo’, in ‘TheFourth Annual Film Symposium on NewTrends in Modern and ContemporaryItalian Cinema’, Indiana University,Bloomington, 17–20 April 2013 e‘Contemporary Italian Cinema: Styles,Topics and the Mode of Production’, in‘A Controversial Identity: Cinema inContemporary Italy’, Yale University,New Haven, 19–20 April 2013.

11 Ci riferiamo ovviamente ai grandi casidi cronaca nera, con evidenti implica-zioni politiche, che non hanno trovatouna risposta giudiziaria adeguata, daMattei a Ustica al delitto Pasolini. Suirapporti fra il cinema e questi casipolitico-giudiziari, si veda ChristianUva (a cura di), Strane storie. Il cinemae i misteri d’Italia (Roma: Rubbettino,2011).

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12 Sul cinema ‘‘politico’’ come business(fatto che non e una critica o un segnodi ‘‘impurita’’, ma semplicemente undato oggettivo di cui si deve tenereconto), si veda G. Manzoli e F. Negri,‘Il cinema politico italiano tra market-ing e web’, in Cinema italiano con-temporaneo. Annali d’Italianistica, 30,a cura di A. Vitti (2012).

13 Si veda, ad esempio, G. Mazzoleni e A.Sfardini, Politica Pop. Da ‘Porta aporta’ a ‘L’isola dei famosi’ (Bologna:Il Mulino, 2009).

14 Su cosa questo significhi, si vedaHipkins, ‘Who Wants to Be a TV ShowGirl?’: ‘Since most of the critics of‘‘velinismo’’ belong to the […] reflectiveclass, I would suggest that it is womenbelonging to the ‘‘self-made’’ section ofthe middle class that the professionalleftwing opinion makers aim to classify,as well as a more impoverished workingclass, associated with having sold out toconsumer capitalism since the days ofPasolini’ (p. 166).

15 Non e un caso che l’unico fenomenodavvero rivoluzionario emerso nel campodel cinema popolare degli ultimi anni,Checco Zalone, concluda il suo primofilm, Cado dalle nubi (di GennaroNunziante, 2009, prodotto da Valsecchiper Taodue), proprio con un trionfalecasting per X-Factor, di segno radical-mente opposto rispetto alla descrizionedel pop reality-show descritto, per esem-pio, in Reality (2012) di Matteo Garrone.

16 Una notazione di carattere linguistico. Ilfatto che la parola ‘impegno’ negli

Italian Studies non si traduca piu e siutilizzi appunto in italiano e forse ilsegno piu evidente che si tratta di untermine ormai destinato a designare unaformula standardizzata o sclerotizzata.

17 Si veda, ad esempio, F. D’Urso e F.Medolago (per Ufficio Studi Anica), ‘Dicosa si parla quando si parla di (in)successo al box office’, 8 e 1/2. Numeri,visioni e prospettive del cinema italiano,3 (2013).

18 In definitiva e la tesi, non troppo implicita,che guida uno dei pochissimi testi dedicatia una specifica modalita di questo tipo dicinema: A. O’Leary, Fenomenologia delcinepanettone (Roma: Rubbettino, 2013).

19 Discussa il 26 maggio 2011.20 Teoria e prassi del product placement.

Il caso dei film contemporanei peradolescenti (2006-2010), anch’essa dis-cussa il 26 maggio 2011.

21 F Masoero, Product placement, teenpic eadolescenti 2.0 (Kaplan: Torino, 2012).

22 Un dibattito mirabilmente sintetizzato nelrecente testo di quattro operatori culturalidi altissimo profilo di area svizzera etedesca. Per comprendere le coordinatedel dibattito si vedano il testo che ne escaturito: D. Haselbach, A. Klein,P. Knusel, e S. Opitz, Kulturinfarkt.Azzerare i fondi pubblici per far rinascerela cultura (Venezia: Marsilio, 2012) e lereazioni in ambito italiano, ad esempio S.Carrubba, ‘L’anno zero dei burocrati’, eA. Cancellato, ‘Finanziamenti alla cul-tura, fuori dalla politica del santuario’,entrambi in 8 e 1/2. Numeri, visioni eprospettive del cinema italiano, 3 (2013).

IL CINEMA POLITICO ITALIANO TRAGENERE E CLICHE

LUCIANA D’ARCANGELI

Flinders University, Australia

Il duca di Oxford, nel pseudo-historical political thriller intitolato Anonymous (RolandEmmerich, 2011), rivolgendosi al drammaturgo Benjamin ‘Ben’ Jonson dice:

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All art is political, Jonson, otherwise it would just be decoration. And allartists have something to say, otherwise they’d make shoes. And you are nota cobbler, are you Jonson?

Se la storia in se ci lascia un po’ perplessi, lo stesso non si puo dire dell’assunto chevede tutta l’arte politica, tesa, con diverse sfumature, a sostenere o rifiutare lo statusquo e ne consegue che tutto il cinema e politico e non puo essere altrimenti. Allostesso modo crediamo che il cinema debba confrontarsi con le istanze socio-politicheche interessano il momento in cui viene creato. La rappresentazione sugli schermidovrebbe fornire uno spunto da cui partire per rinforzare, mettere in discussione, edanche alterare i propri giudizi, le proprie convinzioni. Vorremmo tuttavia nonequivocare sui termini ‘politico’ o ‘impegnato’, che segnalano una spinta dialogicaorientativa senza subordinare la prassi artistica a quella politico-ideologica, e‘politicizzato’ o ‘militante’ che segnala un asservimento ad un partito o adun’ideologia. In Italia la fede nelle Categorie, kantianamente ‘condizione ontologicadel sapere e della conoscenza’, accoppiata ad una certa tendenza a semplificare egeneralizzare, ha portato l’intellettuale tricolore, il critico di cinema incluso, asentire la assoluta e irrefrenabile necessita di categorizzare, identificare, etichettarein maniera inequivocabile ed inalterabile i ‘generi’: il ‘poliziottesco’, lo ‘spaghettiwestern’, la ‘commedia sexy’ ed il ‘film politico’. Eppure in questo caso i termini‘politico’ e ‘politicizzato’ si sono fusi in una tassonomia che rimane difficile oggidistricare, e la politicizzazione e l’enfasi sull’ideologia e stata responsabiledell’ostracizzazione di registi, come per esempio Pietro Germi, cosı come del generecommedia, e questo proprio mentre criticavano aspramente la societa raggiungendoun pubblico vastissimo. Se si volesse utilizzare, quindi, un ipotetico metro ideologicocome criterio di valutazione qualitativa di un film questo non solo apparirebbeinsensato, avendo dimostrato la sua fallacita alle origini, ma risulterebbe addiritturagrottesco in quanto la politicizzazione di opere cinematografiche e stata responsabileper ‘some of the most boring and pretentious cinematic works of the period’.1

Ironia a parte, e evidente che parlare oggi di ‘cinema politico’ in Italia vuol dire farei conti con anni di critica militante, con decine di opere correlate, con capolavori,buoni film, imitatori, sprechi di celluloide e denaro pubblico … proprio perche si etrattato, per almeno un paio di decenni, di un altro ‘genere’, peculiarmente italiano.Pensiamo, per esempio, a quelli che sono considerati i capostipite del film politico,Salvatore Giuliano del 1962 e Le Mani sulla Citta del 1963, entrambi firmati daFrancesco Rosi, e poi facciamo un salto di una decina d’anni, ad un altro film dellostesso regista, Il casoMattei. Non possiamo non essere colpiti da come quella che eraricerca di autenticita, di taglio documentaristico, di film a meta strada tra l’inchiestaed il documentario sia sfociata in cliches, canoni, parte dei ‘luoghi comuni’ delgenere: il bianco e nero di taglio telegiornalistico come la Monument Valley ripresadal punto di vista dell’apache in agguato nei Western, la data in sovrimpressionecome la voce narrante del ‘noir’, Gian Maria Volonte come John Wayne. Dei film‘politici’ girati tra il 1962 e il 1977 – che ammontavano a circa il 3–4% dellaproduzione annuale dell’epoca2 – probabilmente non piu di una manciata meritanoun’attenzione particolare per quello che hanno rappresentato in termini di impattosul pubblico, sia a livello ideologico che di costume. I due citati, La battaglia di Algeri(Gillo Pontecorvo, 1966), Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (ElioPetri, 1970), La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971), molto piu di opere

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come La Cina e vicina (Marco Bellocchio, 1967) — che pure ha i suoi meriti — oSacco e Vanzetti (Giulio Montaldo, 1971).

Perche dire questo? Perche, ad esempio, dovrebbe essere possibile ed anzi quasinaturale poter analizzare il ‘politico’ italiano comparativamente ad altri movimentiesplicitamente portatori di critica all’establishment, come il quasi contemporaneo ‘FreeCinema’ britannico. Ma This Sporting Life (David Storey, 1963) non e La classeoperaia …, anche se entrambi ritraggono una figura di proletario ‘felicementeintegrato’, e If… (Lindsay Anderson, 1968) e Indagine su un cittadino…, per quantougualmente caustici e rivoluzionari, hanno agende e risoluzioni ben diverse, e diventaquasi impossibile poterli comparare. Quello che rende unico il fenomeno italiano e lasua ideologizzazione, il suo essere non tanto e non solo cinema che affronta problemireali e ne descrive lo spessore, ma fondamentalmente militanza, schierarsi scegliendouna fazione anche quando si ostenta distacco (in questo senso, forse l’unico regista cheavrebbe potuto essere indifferentemente nato aMilano invece che a pochi chilometri daWarwick e proprio Ken Loach, non a caso il piu ‘militante’ tra i firmatari del manifestodel Free Cinema). Quello che e accaduto all’interno del cinema italiano e stato uncortocircuito tra certa critica legata all’intelligencija vicina al Partito Comunista, ungruppo di giovani registi gramscianamente organici e un periodo storico coincidentecon un eccezionale sviluppo economico collegato ad una emancipazione culturale epolitica della classe lavoratrice. Il cinema ‘politico’ della seconda meta degli anni ’60era un cinema che non solo faceva critica e denuncia: era un cinema che ‘tirava’ albotteghino, che raccoglieva consensi internazionali, che rappresentava uno specificoculturale italiano. Il meglio di quello che viene chiamato ‘cinema politico’ checaratterizzo gli anni settanta adotto, quindi, poggiando su diverse posizioniideologiche, un atteggiamento di commento o critica ai problemi sociali di queglianni ed i registi impegnati

broadened the idea of the cinema as ‘entertainment’ and [created] for themovies an essentially positive, civic function as a public forum in whichhotly debated social issues and great art [joined] together in an oftenuncomfortable but ultimately healthy marriage of convenience.3

Un cinema tanto utile quanto ormai sorpassato, ‘mangiato’ e ormai digerito, inquanto ha ‘finito il suo mandato, concluso il suo compito’ come auspicavasuccedesse al suo corvo intellettuale in Uccellacci e uccellini (1966) Pier PaoloPasolini. Mangiato in salsa piccante perche doveva esserci ‘‘‘l’assimilazione’’ diquanto di buono — di quel minimo di utile — che egli poteva, durante il suomandato, aver dato all’umanita’.4

Se concordiamo su questo punto fondamentale, e cioe sul fatto che in Italia ilcinema politico si e fatto negli anni film di ‘genere’, diventa probabilmente piusemplice, o meglio meno artificiale, cercare di vedere cosa e presente nel cinemaitaliano del ventunesimo secolo di questo retaggio comune in un momento didilagante disillusione politica ed ideologica. Questo viene ulteriormente complicatodalle specifiche caratteristiche della produzione e distribuzione odierna in Italia,fortemente legate a concessioni governative5 o all’influenza politica e mediatica diSilvio Berlusconi, per cui si preferisce stare alla larga da etichette e preferire terminiquali cinema indipendente o autoriale se si vuole stare alla larga dal mainstream. Inun’Italia dove il servitore e piu realista del re l’influenza mediatica di Berlusconi ha

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creato ‘un sistema perfetto di repressione in cui ogni cineasta e diventato ‘‘poliziotto dise stesso’’, autocensurandosi e autoreprimendosi’.6 A parte i registi storicamenteschierati, quali i fratelli Taviani o Marco Bellocchio, le nuove leve del cinema italianotendono amantenere le distanze da termini classificatori che potrebbero precludere viedi accesso a fondi o ingabbiarli in un genere in quanto laddove queste distanze nonvengono mantenute spesso le pellicole non trovano produttori o canali distributivi —specie se le pellicole sono fortemente critiche dell’operato o della persona di SilvioBerlusconi. Un esempio di tale autocensura lo fornisce Matteo Garrone, uno dei piuacclamati registi di nuova generazione, che preferisce mantenere la sua liberta diespressione rifiutando l’etichetta di ‘autore’, che potrebbe legarlo agli stilemiprecedenti, preferendogli il termine di ‘artigiano’ del cinema che, ironicamente, eral’appellativo dato proprio all’escluso Pietro Germi dall’amico Federico Fellini.7

Nonostante questa situazione, comunque, il cinema italiano sta mostrando oggi inmaniera piu continuativa segni (discontinui e disomogenei) di ritorno ad un‘impegno politico’, nel senso di critica del presente e del passato, dello stato e dellesue istituzioni; un uso del medium cinematografico che vuole mostrare come sipossano affrontare le questioni aperte nel sociale, ad esempio, fornendo alternativealla struttura politico-economica dominante. Per farlo non si ricorre piu da tempo alsolo ‘genere’: il film ‘politico’, continuato tra gli altri daMarco Tullio Giordana, none piu il solo autorizzato a formulare giudizi e denunciare malcostumi. Anche lacommedia, si pensi nel nuovo millennio a Qualunquemente (Giulio Manfredonia,2011), il documentario, ad esempioDraquila— l’Italia che trema (Sabina Guzzanti,2010) e, in un anello che idealmente si chiude, il neo, se non neo-neorealismo diGomorra (Matteo Garrone, 2008) che continua ad avere un ruolo in questo sensononostante sia stato giudicato ‘pervasive and obstructive […] as a value category’.8

L’uso di diversi generi con intento esplicitamente politico e quindi un fattoassodato oggi.9 Il rischio, semmai, e che sia ‘il cinema di genere […] ad impadronirsidella cronaca politica quotidiana facendone pura fiction’ appiattendone il valorestorico-politico.10 Quando assistiamo ad esempio alla ricostruzione dell’esplosionealla stazione di Bologna inRomanzo Criminale (Michele Placido, 2005), il piu’ gravefatto di sangue perpetrato in Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale diventaun mero pretesto narrativo, un effetto speciale a fare da sfondo agli occhi azzurri del‘bello e maledetto’ di turno, in questo caso Kim Rossi Stuart. Ma non si tratta di unareductio ad absurdum tarantiniana, piuttosto di una morbosita da reality televisiva:non Inglourious Basterds (Quentin Tarantino, 2009) quindi, piuttosto il plasticoricostruito in studio della casa del Delitto di Cogne a Porta a Porta.11 Al di la dellescelte stilistiche autoriali, i film di genere per loro natura comportano dei canoni dacui e difficile staccarsi anche per registi affermati. Un esempio in tal senso locostituiscono le commedie di Paolo Virzı che affrontano temi sociali universali quali,tra gli altri, la generalizzata precarieta lavorativa, sentimentale ed esistenziale ma chei finali ottimisti edulcorano e riducono a livello personale affievolendo la caricapolitica dei film. Criticato per il ‘buonismo’ il regista ha replicato:

Ci piace la bonta? Ebbene sı, ci piace voler bene ai nostri personaggi, anchese non ci piace il melenso. E piu un personaggio e bastonato, piu gli si vuolebene. Una versione cattivista [di Baci e abbracci] non mi sarebbe venutabene: non sono capace di infliggere botte di pessimismo agli spettatori.12

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Proprio questa mancanza di ‘cattiveria’, questo fermarsi un attimo primadell’affondo che accomuna piu autori sembra, piu che una scelta personale o distile, un ‘inchino’ al gusto del pubblico o al volere della produzione, un volerevitare ad ogni costo conflitti o prese di posizione troppo decise. Quello che esicuro e che la questione cinema/politica e piu che mai aperta e attuale.

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NOTES

Si ringrazia Alessandro Vecchiarelli perle discussioni preliminari ed i sugger-imenti avuti nella stesura di questoscritto.

1 P Bondanella, ‘Italian Cinema’, inModern Italian Culture, a cura di Z.G. Baranski and R. J. West (Cambridge:Cambridge University Press, 2001), p.234. Bondanella si riferisce agli anniche seguono al sessantotto.

2 J J. Michalczyk, The Italian PoliticalFilmmakers (Cranbury, NJ: AssociateUniversity Press, 1986), p. 15.

3 P Bondanella, Italian Cinema fromNeorealism to the Present, 3rd ed.(New York: Continuum, 2004), p. 346.

4 P P. Pasolini, Uccellacci e uccellini: unfilm di Pier Paolo Pasolini (Milano:Garzanti, Collana Film e discussioni,1966), p. 58.

5 Si veda il contributo di GiacomoManzoli a questa tavola rotonda.

6 V Zagarrio (a cura di), La megliogioventu: Nuovo cinema italiano 2000–2006 (Venezia: Marsilio, 2006), p. 18.

7 M Garrone, ‘‘‘Il paesaggio e protago-nista dei miei film’’: Conversazione conMatteo Garrone’, in Una distanza estra-nea: il cinema di Emanuele Crialese,

Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, acura di L. Ceretto e R. Chiesi (TorreBoldone – BG: Edizioni di Cineforum,2006), p. 32.

8 A O’Leary e C. O’Rawe, ‘AgainstRealism: On a ‘‘Certain Tendency’’ inItalian Film Criticism’, Journal of ModernItalian Studies, 16.1 (2011), 109.

9 M Fantoni Minnella, Non riconciliati:politica e societa nel cinema italiano dalneorealismo ad oggi (Torino: UTET,2004), p. 165.

10 Ibid., pp. 155–56.11 Vedi anche A. O’Leary, Tragedia all’i-

taliana. Cinema e terrorismo tra Moroe memoria (Tissi: Angelica Editore,2007), p. 211.

12 M Paoli, ‘Modernita liquida, lavoro eidentita in Baci e abbracci di PaoloVirzı’, in Un nuovo cinema politicoitaliano? Volume I: Lavoro, migrazione,relazioni di genere, a cura diW. Hope, L.d’Arcangeli, e S. Serra (Leicester:Troubador Publishing, aprile 2013),74. Riguardo al ricorrente ‘lieto fine’ sivedano i capitoli dedicati a Virzı e lacritica in A. Accardo e G. Acerbo, Myname is Virzı (Genova: Le Mani, 2010),pp. 276–302.

A VIEW FROM THE WEST: ITALIANFILM STUDIES OR ITALIAN FILM

STUDIES?

JOHN CHAMPAGNE

Penn State Erie, The Behrend College, USA

As someone in the US who teaches and writes about Italian film, I was initiallysurprised by the call for this roundtable, as it seems to be responding to concerns

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unfamiliar to me. Having received, in 1988, a Master’s degree in film studies fromone well-established program in the US and, in 1993, a PhD in English with aconcentration in film from a second, from my vantage point, by the late 1980s,film studies was already committed to problematizing a simplistic disdain forpopular film — a disdain that Alan O’Leary and Catherine O’Rawe have recentlysuggested is, some thirty-plus years later, surprisingly alive and well in somequarters of contemporary Italian film criticism.1 O’Leary and O’Rawe arespecifically concerned, in their polemic, with the way that Italian neorealism hasbecome the standard of value against which all ‘serious’ Italian film is measured, tothe critical neglect in particular of popular, commercially successful and lessovertly political genres and aesthetics. To encourage a greater critical engagementwith these allegedly ‘unpolitical’ Italian films, as well as to interrupt the knee-jerktendency among some critics to propose, in an effort to demonstrate the value of agiven film, exceedingly tenuous historical links between it and a neorealisttradition, they propose a temporary moratorium on the use of the term‘neorealism’.

In what follows, I sketch out my provisional sense of how and why film studiesin the US has always been ‘political’, why Italian neorealism enters cinemahistory in the US as always-already politicized, and why it becomes the de-factostandard of value against which other kinds of Italian films are often judged.From my disciplinary location, I can only read as quaint the idea that somecinemas are political and some are not, or that ‘high’ culture is stillunproblematically valued over the popular. Preparing to write this response, Icame to realize that one of the reasons the concerns expressed in the call forsubmissions were unfamiliar to me is that I understand the term neorealism —and its relationship to realism — somewhat differently from my Italianistcolleagues. To make this difference clear, I will need at times to return to O’Learyand O’Rawe’s argument.

Until recently, in the US, undergraduate students were most often introducedto Italian cinema in the film history/theory/criticism survey course in the guise ofeither neorealism, post-neorealist auteurist European art cinema, or both, as analternative, national (or transnational) cinema to Hollywood. While a variety ofearly national cinemas attempted to compete with Hollywood — locally,globally — via an ‘art’ alternative — German Expressionism, Post-Revolutionary Soviet Cinema, French Impressionist cinema — it is only withthe divestment of the studio system, the rise of television, and the post-wareconomic rebuilding of Europe that other national cinemas are able to develop‘serious’ alternatives to the Hollywood model. Or so the dominant narrativeclaimed. Douglas Gomery’s 1991 undergraduate textbook, Movie History: ASurvey, specifically contains a chapter entitled ‘The Art-Cinema Alternative’ thatproffers a version of this argument.2 Not insignificantly, Gomery includes in thischapter references to Italian neorealism, contrasting it to ‘the regular Hollywoodgenre products’.3

Such a narrative is of course rigorously US- and Eurocentric, ignoring inparticular the cinemas of Mexico and India. It does not sufficiently discuss the wayin which post-studio cinemas like the Nouvelle Vague (and journals like Cahiersdu Cinema) paid homage to Hollywood in a manner that problematized thedistinction between art and commercial cinema, as did auteur theory generally.4

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(That is, by the late 1950s, some critics were perceiving select Hollywood genrefilms through a Romantic aesthetic that treated certain individual directors asartists, who used film to express their unique personal style or vision.) And it failsto consider periods in which, even in Europe, a variety of national studio systemscompeted successfully, at least on their home turfs, with Hollywood (fascist-periodItalian cinema, for example). But according to the terms of this narrative, thevarious ‘art’ alternatives to Hollywood are ‘political’ — in the sense of bothattempting to dislodge a US model from its international pride of place, andproviding an alternative to ‘pure’ entertainment as defined by Hollywood. Giventhe reality of post-war US hegemony, any alternative to Hollywood would later —when histories of world cinema began to be written and taught — be construed aspolitical.

The narrative also assumes a general politicization of popular culture — or apoliticization of its study — in the wake of the post-war debates around thepolitics of realism and modernism, perhaps best emblematized in the anthologyentitled Aesthetics and Politics and the debates between Lukacs and Adorno inparticular.5 (Unfortunately, the dominance of the Lukacs/Adorno exchange pittingrealism against modernism long contributed in the Anglophone context to ageneral neglect of an analysis of Italian fascist aesthetics and politics.) In light ofthese debates, Hollywood cinema, identified with a reactionary realism, issometimes construed as the bete noire against which a heroic modernist cinemadefines itself — Italian neorealism being the ‘first’ of a variety of criticallysuccessful post-war art alternatives to Hollywood. Thus, art is associated withpolitics, and entertainment with the apolitical at best and a reactionary politics atworst.

Cinema Studies is born, then, when the theorizing of the relationship betweenart and politics is in a state of flux. While there is a certain attempt to legitimizecinema studies as an academic discipline through recourse to art discourse, this ishardly the field’s only disciplinary move. The debate is from its inceptionattenuated by cinema’s uneasy relationship ‘between’ a series of oppositions: artand commodity, art and science, art and entertainment. At least by 1970, with thepublication of Hans Magnus Enzensberger’s Constituents of a Theory of theMedia in English, the discipline’s collective understanding of the way in whichallegedly debased cultural forms like popular cinema might be political — in thesense of speaking of authentic human needs — is significantly different from theposition today associated with the Frankfurt School.6

One of the many productive responses I had to O’Leary and O’Rawe’s polemicwas a recognition of some of the unexpected consequences of my own havingbeen produced, via a Hollywood-centric model, as a scholar and teacher of film.It never occurred to me that, in the context of Italian Studies, neorealism isposited as ‘a democratic and humanist cinema implacably opposed to the lies(and cinema) of fascism’.7 In terms of my own graduate education in cinemastudies, fascist cinema did not even register a blip on the radar. And, havingcome of age reading Marxist, deconstructive, and Foucauldian literary criticismthat sought not ‘organic wholeness’ but instead contradictions, aporias, andruptures, I was discouraged from dividing the world into ‘good film/badfilm’.

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One of the perhaps unanticipated disciplinary consequences of O’Leary andO’Rawe’s wry suggestion of a moratorium on the use of the term neorealism isthat it is now impossible to write on this period in Italian cinema without citingtheir essay. It is one of the ironies of how academic disciplines work that whatstarts out as critique of certain orthodox disciplinary moves ends up re-inscribing another set of perhaps equally orthodox ones. All of this goes toprove that the question of value cannot be escaped, and particularly not bycalling for a moratorium on the discussion of one kind of film and encouragingthe study of another. The choice to write on one film versus another is always‘political’ in that it is motivated by a belief that some things are of value andothers are not. If by politics we mean the attempt to influence life in the polis,there is no writing that is not ‘interested’, and none of us write simply ‘because’or in response to whatever happens to cross our screens. While I understand andsympathize with O’Leary and O’Rawe’s impatience with canonicity and theway neorealism threatens to be the yardstick whereby the canon is expanded —‘popular’ films whose connections, however tenuous, to the neorealist canonbeing ‘allowed’ past the gatekeepers of value — some standard of value willalways operate.

As a mode of filmmaking defined in tension with Hollywood, Italianneorealism is understood in the US as on some level ‘anti’-realist, the ‘neo’signalling its difference from US cinema’s dependence upon nineteenth centurymodels of realism at the level of both narrative and address. Location shootingand the adjustments to continuity editing that such location shooting requires;abrupt changes in film stock; the use of both professional and non-actors; abruptshifts in tone; open-ended narratives; violations of the Hays code; references tothe specific economic and political conditions of post-war Italy, including thestruggle to determine how the admittedly uneasy Resistance coalition ofCatholics and Communists would (or would not) lead a post-war Italiangovernment — all of these characteristics of neorealism, taken together, signalledin the US an ‘alternative’ to the Hollywood cinema of the immediate post-waryears.

How is it, then, that in Italianist Film Criticism neorealism gets construed asrealism? Three preliminary hypotheses: 1) a reading of Andre Bazin that isinsufficiently attentive to the phenomenological underpinnings of his theory; 2) acritical insistence that neorealism finds one of its conditions of possibilityin a fascist era ‘return to order’; 3) the influence of the work of MillicentMarcus.

Working backwards through these hypotheses, we might note that, in theirmanifesto, O’Leary and O’Rawe specifically take Marcus to task for privilegingneorealism as an analytical category. Yet in doing so, they symptomatically repeatrather than interrupt her assumption that neorealism is an instance of a largertendency in the West towards verisimilitude. For example, they write, ‘thediscourse of neorealism is part of a broader privileging of realism in Westernculture, but also one of its prime exhibits’8 and ‘the investment in neorealism andthe realist tradition in the Italian context is an inflection or instance of theprivileging of realism in Western culture more broadly’.9 These pronouncementsare in keeping with Marcus’s view. Specifically, Marcus writes, ‘In the history ofstyle, realism is always defined in opposition to something else’.10 According to

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Marcus, in the twentieth century, that something else is modernism. Theintroduction of her book continues in this vein, specifically tracing neorealismback to nineteenth-century Verismo and Giovanni Verga in particular.11 All threewriters thus ‘under-read’ the neo in neorealism in such a way as to ‘de-politicize’ itin the specific sense of downplaying its difference from so-called classicalHollywood cinema, itself indebted to nineteenth-century realism. That Marcus’sreading of neorealism might on some level be fundamentally flawed is notentertained. Here is another instance wherein the manifesto inadvertentlyreplicates the very disciplinary logic it sought to displace.

Concerning my second hypothesis: Ruth Ben-Ghiat reminds us that ‘realism hadlong been identified by fascist intellectuals as the basis for a uniquely ‘‘Italian’’ filmproduct, and military filmmakers had been experimenting with an ‘‘Italian’’documentarist aesthetic since the start of World War II’.12 But Ben-Ghiat’s effortsto prove modernism on some level culpable vis-a-vis Fascism risks down-playingwhat Jeffrey Schnapp reminds us was both the ‘eclecticism in the regime’spatronage practices’ and the variety of art produced during the ventennio, much ofit characterized by ‘a tendency towards overt or covert stylistic hybridities’.13 InItaly, there was no general ‘return to order’ that justifies positing a historicallink between Fascist era realism and neorealism — at least, not in the visualarts.14

For example, contrary to what some critics have argued, most Futurist paintersdid not, following the Great War, repudiate Futurism. And to construe, forexample, Italian Metaphysical Painting as a ‘return to order’ is to misread it.15

Figurative painting was not automatically equated with realism. And Schnapp hasargued that none of the four Fascist party mostre held between June of 1937 andMay of 1939 ‘can plausibly be described as a ‘return to order’.16 The positing of alink between a (fictive) ‘return to order’ in the visual arts and neorealist film is thusunconvincing. Once more, such a critical move requires one to ‘under-read’ the‘neo’ in neorealism.

As for Bazin: like Vertov, like many modernists, he countered nineteenth-century notions of realism with an anti-positivist critique of reality. For Bazin,cinematic realism was a means of probing the real for what was not immediatelyvisible. His interest in a director like Vittorio De Sica arises from the wayphotography renders reality in all its ambiguity. Thus, in an essay on De Sica, hewrites, ‘neorealism knows only immanence’.17 To connect unproblematicallyBazin’s reading of neorealism to realism is thus to misread both Bazin and filmhistory.

By way of conclusion, we might ask, polemically, who gets to stand in for‘Italian film criticism’, and according to what cultural politics. Apparently,according to the implications of O’Leary and O’Rawe’s analysis, Italian filmcriticism is conducting exclusively by Italianists (Italian and British) who turned tofilm (and not film scholars who turned to Italian). ‘An instrumentalized Gramscihas always informed the dismissal of the popular as not appropriately (national-)popular in the critical discourse of Italian cinema’, O’Leary and O’Rawe tell us.18

Suspiciously absent from this version of Italian cinema is the work of MarciaLandy. Landy’s Folklore of Consensus was written in 1998; her Italian Film in2000.19 Her readers might be surprised to learn, then, that it is Mary P. Wood who‘exceptionally and persuasively […] has written of the need to address critically the

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‘‘affective charge’’ of melodrama in this [post-war] period’.20 Besides Landy, onemight name, for example, James Hay, whose work does not fit the description ofItalian film criticism presented by the manifesto’s authors.21 Once again, O’Learyand Rawe’s effort to escape disciplinarity ends up in fact consolidating one versionof Italian film criticism at the expense of another, casting some books as ‘central’and others as ‘marginal’. This is not simply to fault the authors, however; it is toacknowledge the complexity of the problem of speaking critically about one’s owndisciplinary home.

Perhaps Italian film criticism as conducted by Italianists is as reactionary asO’Leary and O’Rawe’s polemic suggests. Perhaps their sample of critics mortifiedby the notion of the popular, for example, is truly representative. I am literally notin a position to make such a call. But if we put the stress on Italian Film Studiesrather than something called Italian Film Studies, what gets said, and by whom,may start to sound very different.

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NOTES

1 Alan O’Leary and Catherine O’Rawe,‘Against Realism: On A ‘‘CertainTendency’’ in Italian Film Criticism’,Journal of Modern Italian Studies, 16.1(2010), 107–28. My degrees are fromNYU and the University of Pittsburgh,respectively. Because it is very difficultin the US to change the name of a PhD,while my degree reads ‘English’, theprogram was one in Critical andCultural Studies.

2 Douglas Gomery, Movie History: ASurvey (Belmont, CA: Wadsworth,1991), p. 347.

3 Gomery, p. 350.4 See, for example, Andrew Sarris, ‘Notes

on the Auteur Theory in 1962’, inAuteurs and Authorship, a Film Reader,ed. by Barry Keith Grant (Malden, MA:Blackwell, 2008), pp. 35–45.

5 Theodore Adorno et al., Aesthetics andPolitics, with an introduction by FredricJameson (London: Verso, 2007).

6 Hans Magnus Enzensberger, ‘Constituentsof a Theory of the Media’, New LeftReview, 64 (November/December 1970),13–36. However, even the Frankfurtschool was not understood as speakingin a single voice, the wide reading given toWalter Benjamin standing as evidence ofthe discipline’s concerted attempt tounderstand the relationship between mass

culture and politics in as rigorouslydialectical a manner as possible. SeeWalter Benjamin, Art in the Age ofMechanical Reproduction (London:Penguin, 2008).

7 O’Leary and O’Rawe, p. 111.8 O’Leary and O’Rawe, p. 108.9 O’Leary and O’Rawe, p. 116.10 Millicent Marcus, Italian Film in the

Light of Neorealism (New Jersey:Princeton University Press, 1986), p. 4.

11 Marcus, p. 11.12 Ruth Ben-Ghiat, Fascist Modernities,

Italy, 1922–1945 (Berkeley: Universityof California Press, 2004), p. 195.

13 Jeffrey T. Schnapp, ‘Mostre’, Moder-nitalia (Bern: Peter Lang, 2012), p. 148.

14 Admittedly, Ben-Ghiat is attemptingalso to draw a historical link betweena post-Great war ‘return’ to realism, thefascist era fiction of Alberto Moravia,and Italian neorealism.

15 On metaphysical painting, see, forexample, Keala Jewell, The Art ofEnigma, The De Chirico Brothers &the Politics of Modernism (UniversityPark: Pennsylvania State UniversityPress, 2004); John Champagne, Aesth-etic Modernism and Masculinity inFascist Italy (New York: Routledge,2013). On p. 26, Jewell specificallydisputes a reading of De Chirico’s work

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as being characterized by this alleged‘return to order’. While such phrases asa ‘return to order’ (a la Cocteau) mighthave been employed by the Italianjournal Valori Plastici, what consti-tuted a return to classicism has to beunderstood in its historical context; inthe fascist years, classicism could signalvirtually any attempt to forge a dis-tinctly Italian idiom and not necessarilya return to nineteenth-century notionsof realism. But the struggle to deter-mine a distinctly Italian aesthetic pre-dates fascism, and so calling oneself aclassicist during the ventennio did notautomatically signal either support forthe regime or a commitment to realism.

16 Schnapp, p. 164.

17 Andre Bazin, ‘De Sica:Metteur en Scene’,in Vittorio De Sica, ContemporaryPerspectives, ed. by Howard Curle andStephen Snyder (Toronto: University ofToronto Press, 2000), p. 65.

18 O’Leary and O’Rawe, p. 111; italics inthe original.

19 Marcia Landy, The Folklore ofConsensus: Theatricality in ItalianCinema, 1930–1943 (State Universityof New York Press, 1998); Italian Film(Cambridge: Cambridge UniversityPress, 2000).

20 O’Leary and O’Rawe, p. 112.21 James Hay, Popular Film Culture in

Fascist Italy, The Passing of the Rex(Bloomington: Indiana University Press,1987).

THE PLEASURE OF POLITICAL READINGS:PARTICIPATION AND THE ANTI-MAFIA FILM

DOM HOLDAWAY

University of Warwick, UK

The prevalence of the political as a critical category in Italian film studies can bevery fruitfully thought out in relation to Italian mafia film, whose domestic criticalappreciation has come to be profoundly affected by the question of its politicalengagement. Specifically, the release of any cinematic representation of organizedcrime today is met with a critique that immediately assesses (and often rejects) theproduction according to a one-dimensional framework of political value. A clearinstance is the powerful contrast between the politically ‘valid’ Gomorra (MatteoGarrone, 2008), which triggered widespread celebration and praise in the Italianpress, and the polemic that followed the TV series Il capo dei capi the precedingyear. While Garrone’s film, alongside Sorrentino’s Il Divo (2008), was hailed as areturn to the glory of Francesco Rosi and Elio Petri’s political cinema of the 1970s,and led certain critics to claim ‘Dopo Gomorra sono orgoglioso di essereitaliano’,1 the Canale 5 series was so inappropriate, in the view of public critics,that it should have been interrupted midway through (then Minister of Justice,Clemente Mastella, attempted to have it pulled). As an example of the extremity ofreactions, Antonio Marziale, Presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori,stated that ‘il messaggio offerto agli adolescenti dalla fiction e pedagogicamentedistruttivo e non puo essere affatto definito d’impegno sociale. La messa in onda diun film porno in prima serata avrebbe prodotto sicuramente effetti meno nocivi’.2

A further significant example here is the criticism aimed at Michele Placido’sVallanzasca: gli angeli del male (2010) from the political right — for whom the

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use of ‘giovani e affascinanti attori’ is ‘un insulto alla memoria delle vittime [diVallanzasca] e una crudelta verso i loro parenti’ — and the left — for whom it wasan ‘ottimo poliziesco’, but in being thus it is ultimately too rooted within ‘le leggidella spettacolarita’ to produce an effectual socio-political analysis.3 One result ofthis critical code is the international assumption that Italian mafia cinema stands inopposition to the ‘sympathetic mobsters that many of us would like to invite overto dinner’ of its American counterpart, combining its implicit politics with apresumed absence of entertainment.4

In the Italian case, most histories of mafia cinema in fact follow this pattern,positing (incorrectly)5 as the earliest case Pietro Germi’s In nome della legge(1949), which moreover symbolically stands as a genealogical root that links themafia to an important precursor of Italian political cinema par excellence. AsO’Leary has noted, the film thus ‘signall[ed] the place of the Mafia film asmediation on the conditions of the First Republic (and beyond)’.6 The politics-based genealogies of the mafia — what O’Leary calls the ‘conjunctive histories’ —tend then to skip to important political texts such as Salvatore Giuliano(Francesco Rosi, 1962), Un uomo da bruciare (Paolo and Vittorio Taviani,1962), A ciascuno il suo (Elio Petri, 1967), and Il giorno della civetta (DamianoDamiani, 1968). Still today it is those texts which are or can be semanticized as‘political’ which gain most recognition and critical attention; these might includeUn eroe borghese (Michele Placido, 1995), I cento passi (Marco Tullio Giordana,2000), or the aforementioned Gomorra.

Both historically and today it is clear that such a critical coding restricts acomprehensive and fair understanding of what the mafia film in Italy is, inparticular in relation to the broad and complex network of genre influences thatare at play and the possibility that the mafia text might be predominantly, or only,entertaining. As Danielle Hipkins has demonstrated, even the important early caseof In nome della legge relies not only on the iconography of the Western genre, butmoreover on that of the gothic film (and the realization of this no doubt changesour understanding of the film’s politics).7 The same could be said of many of thecases included in dominant histories of mafia films, leading us to call for analternative account of these films that encompasses a more comprehensiveunderstanding of the mafia. It would be necessary to include the large number ofcomic representations of the mafia, such as L’onorata societa (Riccardo Pazzaglia,1961), Mafioso (Alberto Lattuada, 1962), I due mafiosi (Giorgio Simonelli, 1964)and its spinoffs, Mi manda Picone (Nanni Loy, 1984), Johnny Stecchino (RobertoBenigni, 1991), Lo zio di Brooklyn (Daniele Ciprı & Franco Maresco, 1995), orTano da morire (Roberta Torre, 1997); the even greater number of polizieschiand sceneggiate released since the 1960s that give us further images of organizedcrime; or the television series that gain a large popular success, and yet which arevery little taken into consideration in discussion of questions of the political.

Rather than spelling out the potential contribution that this broader body ofwork undoubtedly contributes to the politics of the mafia film, what I would liketo do here is to dwell a little further on the critical habit of constructing a narrowbody of ‘politically acceptable’ films, and offer tentative insight on the motives forthis repeated critical stance. I would like to suggest that the urgency for thepolitical text emerges repeatedly as a result of a certain pleasure to be taken inparticipating in the broad political discourse. More specifically, what I refer to here

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is a kind of pleasure that accompanies the assumption of an ethical stance (be it infavour of or against the specific text).

This reading is perhaps not an obvious one, where films which emerge today inthe vein of the ‘politically acceptable’ do not obviously fit a model of participatorypleasure. Indeed, the narratives of these texts tend to offer little that is obviouslypleasing: typically, these are fairly depressing accounts of the damaging effects ofthe mafia, centralized on the martyrdom of an anti-mafia activist. As I will show,however, this pleasure emerges at the point of combination of a series of emotionalreactions within the film. We might, as Dana Renga has convincingly done, placethe representation of the mafia and the necessity for the films to adhere to certainmodels — such as the repeated imagery of the anti-mafia martyr — into a model ofnational trauma.8 This social reading would thus better explain the urgency toread these films hierarchically according to their socio-political contribution(only).

Relatedly, it is worth noting that by highlighting and questioning the pleasure ofthe participation in the morals offered by the film, as I do here, there is a risk ofimplying that I am attempting to problematize their ethical stance itself. Given thatthis position is unanimously anti-mafia, this is certainly not the case: I aim tohighlight the process of automatic political readings based on the assumption of anethical stance, not to raise alternative, ‘not-necessarily-anti-mafia’ positions.

In her recent comment on impegno in contemporary literature, Jennifer Burnshas called for a re-interrogation of the position and function of the reader, and forthe continued re-emphasis of the complexity of the act of reading. Burns raises thequestion, ‘How do we differentiate between the reader who browses the internetand selects certain volumes, and perhaps goes on to report his/her reactions andinterpretations on a website or blog, the reader as evoked by literary criticism andreview, and myself, the individual reader engaged privately in the act of reading?’.9

While admitting this question to be unanswerable, its very foregrounding allowsBurns to prioritize the personal emotional responses to texts that are oftenoverlooked in the consideration of the political; responses such as pleasure. Inreference to the work of Antonio Tabucchi, she argues that the engagement withthe reader is built increasingly upon an invocation of the reader’s pleasure,specifically ‘a sense of enjoyment generated by active participation, and a sense ofsatisfaction at the completion of it’.10 She then extends this in relation to theinteraction of ethics and pleasure that sit within recent immigrant writings, such asYounis Tawfik’s La straniera, and crime fiction, such as Carlo Lucarelli’s AlmostBlue, where the very pleasure of the spectator is challenged by exoticism/familiarity combinations, or more strikingly in the participation in violence andhorror.

There are some interesting parallels to be made here to the construction ofpleasure in the mafia film, and this can be illustrated in reference to I cento passi.Giordana’s film narrates the life of anti-mafia activist Peppino Impastato, leadingup to his assassination by the Sicilian Cosa Nostra in 1978. Upon its release in2000, the film had a reasonable success — in particular following its presence atthe Venice film festival and its selection as the Italian representative for the Oscarfor best film in a foreign language — and has since become a well-known, even‘cult’ anti-mafia film. As Millicent Marcus and Emanuele D’Onofrio have noted,the film makes use of cultural citations in order to establish a referential system of

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impegno, and we might already note that there is a certain degree of viewerpleasure that emerges in the recognition of popular songs (e.g. DomenicoModugno, Janis Joplin, or The Animals) and literary texts (e.g. Leopardi, Pasolini,or Dante).11

The film is further a pleasing experience for the spectator who enters into theprocess of empathy established throughout the narrative. We can identify whatMurray Smith calls a ‘structure of sympathy’12 within the film that draw us intoallegiance with Peppino, his friends, and his mother: this includes formal aspectssuch as the soundtrack (e.g. the dramatic score that accompanies key tragic-emotive scenes such as in Peppino’s confrontation with his father, his implicitcasting out from the family home, and the visit of Felicia to his new home) and theuse of costume or setting (the bright colours of the young people or the decor atRadio AUT or the open spaces of the town and the beach contrast the dark suits ofthe mafiosi or shady familial locations). It also includes several narrative devices,such as the establishment of the passionate and friendly protagonist, his open andemotional discussions with his friend (Salvo Vitale), and the contrasting good/evilfather figures of Cesare Manzella/Stefano Venuti and Tano Badalamenti.

The facilitation of empathy through normal human emotions here draws usdeliberately and nostalgically into the narrative about Impastato through pleasurein the way that Burns identifies in Tawfik’s novel.13 Yet, at the end of the film, thispleasure is arguably interrupted by the physical destruction of Impastato by themafia: though we are given some alternative resolution in the process of politicalactivism which is visually promoted and encouraged, the mafia is shown to havedealt a very final and victorious blow in assassinating Impastato. Herecomparisons with the examples given by Burns break down: for instance, herreadings of the problematic, mental reconstruction of grisly crime scenes inLucarelli’s text are incompatible. Here we are not asked to take adverse pleasure inImpastato’s death, or in the cognitive work in the ‘whodunnit’; rather themelodramatic cues in the film’s closing sequence (Impastato’s funeral) show us thatwe are asked to mourn his death, and to be angry with the mafia.

As we reach the film’s conclusion, then, the movement from the pleasure withinthe narrative to that which exists outside it, through the mourning followingImpastato’s death, is certainly not transparent. Yet as Burns’s example ultimatelyattests, and as Greg Smith has made explicit, to separate out or read as mutuallyexclusive any duo or group of feelings is too simplistic, where ‘[a]ssociations canlink emotions to seemingly unconnected objects […] and the emotion system canconnect emotions that appear to be opposites’ (Smith offers the case of thetransition from fear to pleasure for the horror film fan).14 To understand thus howthe mourning of the anti-mafia martyr shifts into not only the grief/anger thattriggers a political response, but moreover the pleasure of political participation,we must first consider briefly how the film addresses its own ‘constituency’.

Applying Jean-Paul Sartre’s approach to engage writing in Qu’est-ce que lalitterature? to Marco Tullio Giordana’s television film La meglio gioventu (2003),O’Leary delineates a ‘circle’ of impegno that is produced by filmmakers andindustry and consumed by a specific constituency-audience. What is crucial to thispolitical engagement and its consumption is the overlap of producer and receiver:‘[a]n implication in what Sartre is saying is that it is necessary to address theconverted, to appeal to their sense of themselves as community and constituency,

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and to articulate the positions of that constituency on its own behalf’.15 In Lameglio gioventu, the selected mode for that form of address is sentimentality,‘motifs from mediatic memory and conventions from soap opera and othertelevision formats’;16 in other words the conventional, popular means of its time.For O’Leary, this formal decision is a manner employed by the filmmakers todefine, engage with, and also represent a specific ideological constituency, and onewhich is characterized by its political impegno. What is most striking about thisparticular example is not simply the use of a popular mode, but rather that thispopular mode relies quite heavily on invoking the pleasure of recognition andnostalgia. As such, the act of participation within the engaged constituencybecomes enacted through participatory pleasure.

The same observations could undoubtedly be made of the ‘sentimentalizedpolitics’17 of Giordana’s previous film. As mentioned, the register of the film opensitself up to the pleasure of various nostalgic recognitions of the spectator, as well asthe empathetic alignment and allegiance of the spectator. Despite the consequentalienation of the viewer that accompanies the assassination of Impastato, though,as I hinted above, the move from pleasure to grief accompanies the relocation ofthe viewer’s allegiance to the grassroots activism of his friends (the funeral-manifestazione). This new allegiance proves to be not only a political statementbased on sad/angry emotion, then, but in fact one which comes to be pleasurable inits own right, in the pleasing recognition of a broader engaged constituency,beyond the single protagonist.

The case of I cento passi allows us to visualize explicitly how the pleasure of thebroad participation in the politically engaged constituency is concretized inrelation to a structure of sympathy and a set of emotional markers. Of course,when we map this out to a greater body of mafia films, the individual modes ofpleasing-engagement will differ from film to film. For a very brief instance of thisvariation, in the more recent case of Garrone’s Gomorra, the audience’s pleasureno doubt emerges in recognizing the body of inter-textual citations that PierpaoloAntonello has noted elsewhere;18 and the participatory engagement is encouragedthrough the film’s very international post-script that gives international referencepoints for the shocking statistics of the Camorra’s activity (e.g. the height ofEverest, the mass of the World Trade Centre). Nevertheless, what unites all of the‘critically acceptable’ mafia films, I would like to suggest, is that they engenderengaged constituencies in which the spectator can take pleasure in situating her/himself. We might otherwise label this a kind of ‘buonismo’.

What is undoubtedly worth extracting here, though, in the effort to interrogatethe continued weight placed on the politics not only of the mafia film but on Italiancinema more widely is the following question: if the ‘buonista’ participation ofthese films creates a certain form of pleasure for the spectator, then can we notcome to a similar conclusions about us critics, too? And perhaps even morestrongly, since the ability to pick out a political strain within a film, and to presentthis proudly to that same constituency to which we belong is only going to furtherenlarge our cultural capital within it. Examining the role of pleasure in theunderstanding and promoting of political cinema (or the politics of cinema)remains, in my view, an important influence which should be further considered.Doing so might prove to be a useful stepping stone into some more honeddiscussions about what makes us so eager to qualify and discuss political cinema,

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and moreover an important prise de conscience about the terms under which wewill continue to do so in the future.

ACKNOWLEDGEMENT

I would like to thank Alan O’Leary and the readers of this piece for their invaluablecomments on earlier drafts.

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NOTES

1 Paolo D’Agostini, ‘‘‘Matteo e Paolo miricordano l’abbraccio fra me e Petri’’’,La Repubblica, 27 May 2008, p. 39;Anton Giulio Mancino also constructslengthy comparisons between Rosi-Garrone and Petri-Sorrentino in‘Politico/Politico-Indiziario’, Cinema egeneri (2009), pp. 42–57; cf. alsoRoberta Scorranese, ‘Dopo Gomorrasono orgoglioso di essere italiano’,Corriere della Sera, 9 June 2008, p. 13.

2 Cited in ‘Il capo dei capi? ‘‘Era meglioun porno’’’, anonymous article,Corriere della Sera, 29 November2007 [online] ,http://www.corriere.it/cronache/07_novembre_29/fiction_riina_osservatorio_ee70554a-9e6b-11dc-9968-0003ba99c53b.shtml. [accessed 1December 2012].

3 The first citation is of Lega Norddeputato Davide Cavallotto, cited in‘Lega, ‘‘Placido, boicottiamo il suoVallanzasca’’’, anonymous article, L’Unita,16 January 2012 [online] ,http://www.unita.it/italia/lega-placido-boicottiamo-il-suo-vallanzasca-1.266366., the sec-ond from Alberto Crespi’s review,‘‘‘Vallanzasca’’, ottimo poliziesco’, L’Unita,7 September 2010 [online] ,http://www.unita.it/culture/laquo-vallanzasca-raquo-ottimo-poliziesco-1.160548. [bothaccessed 27 December 2012].

4 Dana Renga, ‘The Corleones at Homeand Abroad’, in Mafia Movies: aReader, ed. by Dana Renga (Toronto:Toronto University Press, 2011), pp. 3–32 (p. 4).

5 As Sebastiano Gesu has noted, in factthe mafia appeared almost fifty yearsearlier in a number of silent fictionfilms (the earliest he notes is Lacamorra napoletana, from 1906). Cf.

Sebastiano Gesu, ‘La mafia sulloschermo: appunti per una prima ricog-nizione’, in La Sicilia tra schermo estoria, ed. by Sebastiano Gesu (Catania:Maimone, 2008), pp. 119–40 (p. 121).

6 Alan O’Leary, ‘After Brunetta: ItalianCinema Studies in Italy, 2000 to 2007’,Italian Studies, 63.2 (2008), 279–307(p. 296).

7 Danielle Hipkins, ‘Which Law is theFather’s? Gender and GenericOscillation in Pietro Germi’s In theName of the Law’, in Mafia Movies: AReader, pp. 203–10 (p. 203).

8 Dana Renga, Unfinished Business:Screening the Italian Mafia in theNew Millenium (Toronto: TorontoUniversity Press, forthcoming).

9 Jennifer Burns, ‘Re-thinking Impegno(Again): Reading, Ethics and Pleasure’,in Postmodern Impegno: Ethics andCommitment in Contemporary ItalianCulture, ed. by Pierpaolo Antonelloand Florian Mussgnug (Bern: PeterLang, 2009), pp. 61–80 (p. 63).

10 Burns, p. 70.11 Millicent Marcus, ‘In Memoriam: The

Neorealist Legacy in ContemporarySicilian Anti-Mafia Film’, in ItalianNeorealism and Global Cinema, ed. byLaura E. Ruberto and Kristi M. Wilson(Detroit: Wayne State University Press,2007), pp. 290–306; EmanueleD’Onofrio,‘Percorsi di identita narrativa nella mem-oria difficile: la musica in I cento passi eBuongiorno, notte’, The Italianist, 30.2(2010), 219–44.

12 Murray Smith, Engaging Characters:Fiction, Emotion and the Cinema(Oxford: Clarendon Press, 1995), p.3.

13 Burns, p. 72.

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14 Greg M. Smith, ‘Local Emotions,Global Moods, and Film Structure’, inPassionate Views: Film, Cognition,and Emotion, ed. by Carl Plantingaand Greg M. Smith (Chicago: JohnsHopkins University Press, 1999), pp.103–26 (p. 111).

15 Alan O’Leary, ‘Marco Tullio Giordana,or the Persistence of Impegno’, in

Postmodern Impegno, pp. 213–32 (p.222).

16 O’Leary, ‘Marco TullioGiordana’, p. 224.17 O’Leary, ‘Marco Tullio Giordana’, p.

216.18 Pierpaolo Antonello, ‘Dispatches from

Hell: Matteo Garrone’s Gomorra’, inMafia Movies: A Reader, pp. 377–85(p. 382).

‘UNO SCENEGGIATO NON E UNPROGRAMMA DI STORIA’: APPUNTI SU

POLITICA, IMPEGNO, E MINISERIEALL’ITALIANA

PAOLO NOTO

Universita di Bologna, Italia

Il dramma televisivo italiano e al centro di un curioso paradosso. Tra i generitelevisivi e quello che piu si avvicina (per filiere industriali, formati spettacolari esoggetti affrontati) al cinema nazionale e proprio per questo gli viene accordato lo‘statuto di veicolo privilegiato di contenuti ‘‘seri’’’,1 politici e storici in primoluogo, in una logica di distinzione rispetto ad altre pratiche ritenute piu leggere.Allo stesso tempo, tuttavia, i film per la TV e perfino le miniserie di alto livelloproduttivo, formato principe della produzione nazionale, sono solitamente esclusidalle ricorrenti e approfondite discussioni su televisione e politica, che toccanoinvece come e prevedibile l’informazione, ma anche i programmi di soft news e ireality show.2

Ci sono delle eccezioni, naturalmente: soprattutto sulla stampa quotidiana, sisono discusse l’attendibilita storica e la pregnanza politica di miniserie dedicate atematiche sensibili, come il massacro di civili italiani nelle foibe alla fine dellaSeconda guerra mondiale in Il cuore nel pozzo (Alberto Negrin, 2005); oppure apersonaggi fortemente connotati in senso ideologico, come gli anarchici italo-americani Sacco e Vanzetti (Fabrizio Costa, 2005) o il sindacalista Giuseppe DiVittorio in Pane e liberta (Alberto Negrin, 2005). In questo breve intervento,allora, proveremo a capire non tanto se esista una fiction TV politica o impegnata(la risposta tutto sommato e: sı, a determinate condizioni),3 quanto se il dibattitoin merito sia stato indirizzato, e in qualche misura paralizzato, dalla persistenza dicategorie descrittive (e prescrittive)4 elaborate in ambito cinematografico, qualiquelle di impegno e realismo.

Per rispondere e necessario tuttavia capire, innanzitutto, perche la fictionnazionale a molti osservatori sia apparsa inefficace nel compito che pure si e datanegli ultimi anni: instaurare un rapporto di fedelta con il pubblico mettendo inscena contenuti legati all’heritage e all’identita. Il caso gia citato di Il cuore nelpozzo puo servire da spunto per iniziare questo ragionamento.

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Il lavoro diretto da Negrin e stato trasmesso il 6 e il 7 febbraio 2005 su Rai Uno,ottenendo eccellenti risultati di ascolto (quasi sette milioni di spettatori la primapuntata e oltre dieci la seconda, rispettivamente 27,50% e 36,66%). Racconta lavicenda di alcuni bambini che, dopo l’armistizio del settembre 1943, guidati da unprete (Leo Gullotta) e da un militare italiano (Giuseppe Fiorello), tentano disfuggire alla furia vendicatrice di un partigiano jugoslavo. La trasmissione e statapreceduta e seguita da polemiche che hanno coinvolto in modo particolare l’alloraministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri e quotidiani di centro-sinistracome la Repubblica e l’Unita. Gasparri, esponente della destra post-fascista che hatradizionalmente fatto della questione delle foibe un proprio vessillo, ha seguitomolto da vicino la produzione della miniserie, occupandosi personalmente — esecondo alcuni in modo piuttosto irrituale — persino degli inviti per l’anteprimastampa. Per la Repubblica proprio le reazioni alla premiere dimostrano la naturapropagandistica di tutta l’operazione, da cui i componenti del cast artisticoprendono le distanze per primi:

‘Non si fa cosı’ mormora Leo Gullotta uscendo dalla sala a meta proiezione[…]. Beppe Fiorello se ne sta un po’ in disparte, sorride e ringrazia per icomplimenti ma gli si legge negli occhi che non vede l’ora di andar via.Quanto al regista Negrin […] gia alla vigilia si era dissociato da questastrumentalizzazione del suo lavoro da parte della destra.5

Per Aldo Grasso del Corriere della Sera, Il cuore nel pozzo e sostanzialmenteun’occasione mancata, a causa dell’incapacita di regista e sceneggiatori di elevarsioltre un punto di vista melodrammatico sugli eventi: ‘e come se tutto l’odio etnicofosse mosso da un risentimento personale, l’eccidio si scatenasse per colpa di unparanoico, un dramma politico si identificasse in un’ossessione di coppia’.6 AncheRoberto Levi, sul berlusconiano il Giornale, riconosce che ‘la componente storicae ideologica finisce per avere meno sostanza di quella sentimentale’, ma rimarcaanche la validita dell’operazione, sottolineando che ‘sono le fiction, con la capacitadi coinvolgere grande pubblico e forti emozioni, il principale veicolo ditrasmissione e identificazione del comune sentire’.7 Come e prevedibile, iquotidiani vicini alla sinistra criticano la miniserie non tanto per i suoi esitiartistici, ma per la sua incapacita di contribuire a un dibattito delicato come quellosulle foibe. Secondo Roberto Roscani de l’Unita, ‘Il cuore nel pozzo non costruiscealcuna memoria e non fa capire nulla o quasi di quello che e successo sessant’annifa’.8 E piu in generale, commentando la possibilita che i film creino ‘una loromemoria, un’altra piu grande memoria rispetto a quella costruita sui libri distoria’, si domanda: ‘E troppo applicare un simile schema anche agli sceneggiatitelevisivi?’; la risposta scoraggiata e: ‘Probabilmente sı, specialmente se parliamodella televisione pubblica di questi anni tristi’. Anche Sebastiano Messina, su laRepubblica, lamenta la riduzione della Storia a vicenda individuale e conclude chein fondo e giusto cosı, perche una fiction ‘puo rivelare, ma non spiegare:semplicemente perche questo compito non le spetta’,9 posizione ribadita anchedalla piu neutrale Alessandra Comazzi su La Stampa: ‘Uno sceneggiato non e unprogramma di storia. Anche se tocca forse piu profondamente la sensibilita dellospettatore’.10

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Alcuni punti di questa discussione ricorrono anche in occasione dellapreparazione e messa in onda di altre miniserie. E quindi necessario isolarli perrispondere alla domanda che ci siamo posti inizialmente: perche la fiction italianapare inadatta a rappresentare la storia e la politica nazionale?

In primo luogo va notato che la politicizzazione dei contenuti e fermamenterespinta da produttori e quadri artistici, che cercano di limitare tale letturaenfatizzando invece il valore universale delle vicende mostrate. Come il registaNegrin e il dirigente Rai Sacca negano di aver concepito Il cuore nel pozzo qualeveicolo della propaganda di destra,11 cosı il regista Alberto Sironi sostiene cheSalvo D’Acquisto, protagonista dell’omonima miniserie trasmessa da Rai Uno nel2003, ‘non e ne di destra ne di sinistra, e un servitore dello Stato’.12 Mentre nelcaso dello sfortunato Sacco e Vanzetti, andato in onda su Canale 5 e Rete 4, vienenotato che fin dalla ‘presentazione a Venezia, Mostra del Cinema, il produttoreGuido Lombardo si era affannato a dichiarare che la politica non c’entrava […] eche si trattava del racconto di un’ingiustizia, tutto qui’.13

‘Politico’, in questi casi, funziona percio come un’etichetta di genere, secondo imodelli ben noti di Altman e Neale,14 e la politicizzazione e, esattamente come lagenrification, l’esito di un processo che vede contrapposti i produttori, impegnati arilevare i tratti di unicita dei loro film, ai politici, curiosamente impegnati in quelloche Rick Altman chiama il critic’s game, vale a dire l’esercizio di interpretazione edi incasellamento dei testi sulla base delle loro caratteristiche interne e dellesomiglianze con testi analoghi.15 Va notato anche che tale processo non eininfluente ai fini della ‘autenticazione culturale’16 del dramma televisivo e che,anzi, il rilievo culturale che gli viene (o non viene) accordato e in qualche modoconseguenza della riconosciuta capacita di affrontare determinati temi. In altreparole, la sanzione di ‘politico’, quantomeno per cio che riguarda i film televisiviqui presi in rassegna, definisce positivamente i testi che ne sono investiti: il dramma‘politico’ e un prodotto potenzialmente migliore, o comunque piu meritevole diattenzione rispetto al resto della fiction televisiva.

Dal canto loro, i critici dei quotidiani vedono nella semplificazione dramma-turgica e visiva (che pure giudicano funzionale al raggiungimento del grandepubblico)17 il limite principale di questi prodotti. Il piu autorevole esponente dellacategoria, Aldo Grasso, parla esplicitamente di ‘agiografia’ quale ‘unico modellocui sa appellarsi la serialita italiana secondo frusti stilemi: il ‘‘santo’’ da vecchio, ilflashback, l’infanzia infelice […], la lotta, le donne e gli amori, la beatificazione’.18

Grasso va oltre e afferma che ‘l’agiografia della fiction Rai e figlia dellalottizzazione’, quindi della necessita di non scontentare alcuna delle formazionipolitiche che intervengono sulle scelte editoriali dell’azienda.

Il formato agiografico e riconosciuto come dominante anche da studiosi menopessimisti. Per Giovanni Bechelloni, ad esempio, il frequentissimo ricorso alle vitedi santi veri e propri, di religiosi o di personalita a vario titolo ‘profetiche’ non e unvizio, ma al contrario il sintomo di un legame profondo con una cultura intrisa dicattolicesimo pragmatico, nella quale il ‘pazzo’, protagonista usuale di questetrame, e un agente anticipatore della storia, capace di stabilire immediatamenteuna relazione con il pubblico.19 Elisa Giomi valuta in modo molto diverso lo stessotratto e ritiene che l’indubbia capacita di intercettare quello che un tempo sisarebbe definito pubblico di profondita non si risolve necessariamente nell’in-staurazione di un dialogo efficace. Da un lato, infatti, il grande successo della

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fiction televisiva, oltre a farne ‘l’ultima frontiera dello scontro tra oppostefazioni’,20 che caricano prodotti a loro graditi (o sgraditi) di significati politici, larende il genere ideale per raccontare le storie di ‘figure strettamente collegate allamemoria collettiva’. Dall’altro, secondo Giomi, gli eroi di questi film per la TV, i‘buoni per davvero’ (santi, martiri, eroi, uomini di Stato e di scienza) rimangonofigure astratte e non ‘contribuiscono davvero a determinare nello spettatore il‘‘momento dell’impegno’’’, inteso come capacita di ‘intervenire nel quotidiano enel presente’.21 Per Giorgio Simonelli il ‘santino’ e l’esito, non la premessa, di unaprassi artistica e produttiva nella quale di norma

gli ambienti, i luoghi, le situazioni, le relazioni […] sono la riproduzioneacritica e banale dei topoi piu consolidati e radicati nell’immaginario […]. Ilmondo antico e, nei colori, negli edifici, negli abbigliamenti, il baracconeconsegnato dai ‘pepla’ e dai kolossal hollywoodiani, gli anni Cinquantahanno sempre il sapore del neorealismo italiano, gli anni Sessanta sono ladolce vita romana.22

Il paradosso, in sintesi, e allora questo: piu vuole essere impegnata, competere conil cinema o la letteratura, mettere in scena vicende legate al passato storico epolitico, piu la serialita breve italiana si appiattisce sull’agiografia, vincolata dallapropria mission di prodotto generalista e cattolico (anche in senso etimologico),con poca possibilita di sperimentare innovazioni visive e narrative, come spessoaccade quando e in gioco l’identita nazionale.23 Le miniserie italiane, secondocritici e studiosi, non suscitano ‘impegno’ e non sono in grado di dialogare con isettori alti della cultura nazionale; valicano di rado i confini italiani, non dannouna rappresentazione ricca e dinamica di ambienti e caratteri, poggiano sumodalita di genere (il melodramma) e su tonalita narrative (il sentimentalismo)percepite come deteriori. Stupisce solo fino a un certo punto che i termini inquestione siano quelli dibattuti nella cultura italiana dello spettacolo da parecchidecenni sotto la specie teorica e critica del realismo: la relazione costruttiva trapaesaggio e personaggi, la rappresentazione della nazione, il rapporto con le forme‘alte’ della cultura, la distinzione rispetto ai generi ‘bassi’, l’impegno.

In questa sede non ci interessa capire se critici e studiosi abbiano colto nel segnoe se la fiction televisiva italiana sia effettivamente cosı inadatta a rappresentare lanazione. Su questo argomento si e espressa di recente, in modo equilibrato epersuasivo, Milly Buonanno, analizzando ampiamente — tra gli altri — proprio ilcaso di Il cuore nel pozzo.24 Quello che vogliamo notare e che, finche il drammatelevisivo viene indagato e valutato attraverso strumenti di rilevazione tarati per ilcinema (per un certo tipo di cinema), la ricerca su questi temi non potra che essereinefficace, e di conseguenza restituire dati incerti.

Cio che risulta confuso e quindi, ad esempio, il carattere politico di questiprodotti. Ben lontano dall’essere un semplice dato di fatto, esso e al contrariooggetto di una negoziazione tra produttori e interpreti, secondo una logica, comeabbiamo visto, assimilabile a quella della ‘generificazione’. La politicizzazione deldramma televisivo non e soltanto una questione di contenuti (gia dati comepoliticamente rilevanti e sensibili), ma e, estendendo una definizione formulata daMassimo Scaglioni a proposito della televisione non-fiction,25 la manifestazione di

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una relazione che lega istituzioni e audience attraverso il prodotto televisivo, cioe ilrisultato di una discussione che investe attori sociali differenti.

Potrebbe forse essere utile partire da qui per trovare il ‘politico’, non solo dove cisono i grandi temi e i personaggi esemplari, con la loro statura monumentale, maanche dove alligna un ‘nazionalismo banale’ e ordinario, propedeutico acomportamenti e stili di vita quotidiani, fatto non di esplicite celebrazionidell’identita, ma di una pratica in cui il ‘reminding is so familiar, so continual thatis not consciously registered as reminding’.26

Gli esempi non mancherebbero e ci limitiamo a riportarne un paio a titolopropositivo, prescindendo da qualsiasi giudizio di valore. Lo ‘scarto decisivo franoi e loro’27, su cui si basa la definizione dell’identita nazionale, puo esserestabilito non solo attraverso vicende drammatiche e uomini illustri, ma anche apartire da eventi in apparenza insignificanti, portatori di valori piu sottili. Cosı inAtelier Fontana: le sorelle della moda (Riccardo Milani, 2011), biopic su tre figurecentrali nella nascita di un settore strategico per il riconoscimento e l’auto-riconoscimento nazionale qual e la moda, l’incontro fra Micol Fontana e ilminaccioso emissario francese di Christian Dior non e meno denso, dal punto divista identitario, di quello che avviene tra militari italiani e tedeschi in Cefalonia(Riccardo Milani, 2005) e ha sicuramente una funzione analoga nel rimarcare, percontrapposizione, quei valori che definiscono positivamente la comunita d’appa-rtenenza (creativita, orgoglio, indipendenza, perseveranza …).

Le rappresentazioni consuete dell’identita possono fare posto ad altre menomonumentalizzanti, ma non per questo meno efficaci. Non ci sembra un caso chene Il generale Della Rovere (Carlo Carlei, 2011), miniserie che si confrontadoppiamente con un passato ingombrante (la storia della Seconda guerramondiale, ma anche il film di Rossellini che e esso stesso storia), a fianco alracconto del truffatore che suo malgrado diventa eroe, venga introdotta unasottotrama, assente nell’originale, che ha come protagonisti una bambina e uncavallo, incarnazioni, ma forse dovremmo dire naturalizzazioni, del corpoincorrotto della nazione.

La proposta, insomma, e che la politica la si cerchi anche e soprattutto dove lapoliticizzazione non e preponderante, dove i temi legati alla storia, all’identita ealla memoria non sono enunciati a livello di contenuti e ribaditi a livello diintenzionalita produttive: nei film televisivi che non parlano di politica, e di cuipossibilmente i politici non parlano. L’ipotesi — certo, tutta da verificare — e chelı stiano le indicazioni piu interessanti per capire in che modo la serialita breveitaliana racconti storie, temi e valori la cui relazione con l’identita nazionale non efunzionale allo svolgimento della dialettica memoria/oblio, ma, parafrasandonuovamente Billig,28 alla preservazione di quelle storie e di quei valori per l’uso ditutti i giorni.

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NOTES

1 Milly Buonanno, ‘Un decennio di suc-cessi. La Golden age della fictionitaliana’, in La bella stagione. La fictionitaliana, l’Italia nella fiction. Anno

diciottesimo, a cura di Milly Buonanno(Roma: Rai Eri, 2005), p. 76.

2 Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini,Politica Pop. Da ‘Porta a Porta’ a

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‘L’isola dei famosi’ (Bologna: Il Mulino,2009).

3 Vedi ad esempio la definizione di ‘fictionimpegnate’, in Marusca Renzini, ‘Lafiction nella critica giornalistica’, inStorie e memorie. La fiction italiana,l’Italia nella fiction, a cura di MillyBuonanno (Roma: Rai Eri, 2003), pp.185-98 (p. 197), o la valutazione di unprecedente di rilievo, La piovra, come‘una sorta di feuilleton a puntate, pero diimpegno civile e sociale’ in AlessandraComazzi, Schermi (Torino: UTET, 1999),p. 78.

4 Alan O’Leary e Catherine O’Rawe,‘Against Realism: On A ‘‘CertainTendency’’ in Italian Film Criticism’,Journal of Modern Italian Studies, 16(2011), 107–28.

5 Sebastiano Messina, ‘Passerella di Anper le foibe e la fiction diventa untrofeo’, la Repubblica, 29 gennaio2005, p. 13.

6 Aldo Grasso, ‘La tragedia delle foibe intv diventa piccola’, Corriere della Sera,6 febbraio 2005, p. 33.

7 Roberto Levi, ‘Un cuore nel pozzoriscattato dagli attori’, il Giornale, 9febbraio 2005, p. 36.

8 Roberto Roscani, ‘‘‘Il cuore nel pozzo’’assieme alla storia’, l’Unita, 6 febbraio2005, p. 21.

9 Sebastiano Messina, ‘La storia divisa trafiction e documentario’, la Repubblica,7 febbraio 2005, p. 53.

10 Alessandra Comazzi, ‘La tragedia negliocchi bambini’, La Stampa, 8 febbraio2005.

11 Anonimo, ‘Fiction su foibe, Gasparriinsiste’, la Repubblica, 28 gennaio2005 ,http://www.repubblica.it/2005/a/sezioni/spettacoli_e_cultura/fictiontv2/foibeproiez/foibeproiez.html. [ultimoaccesso 28 ottobre 2012].

12 Silvia Fumarola, ‘L’eroe SalvoD’Acquistosfida i campioni di Distretto’, la Re-pubblica, 11 settembre 2003, p. 47.

13 Antonio Dipollina, ‘Sacco e Vanzettipersi nel flop di Mediaset’, la Re-pubblica, 15 novembre 2005, p. 65.

14 Il riferimento e a Rick Altman, Film/Genre (London: BFI, 1999) e a Steve

Neale, Genre and Hollywood (London:Routledge, 2000).

15 Si tratta di quello che fa ad esempioGuglielmo Epifani. Intervistato daRepubblica a proposito di Pane eliberta, l’allora segretario generale dellaCGIL non si limita a commentarel’aderenza del racconto alla vicendabiografica di Di Vittorio, ma esprimegiudizi di valore sul film (‘emozio-nante’), sulla prova del protagonistaFavino (‘e bravissimo e ha una facciavera’) e suggerisce riferimenti intertes-tuali (‘c’e la politica e il privato,Dickens e De Amicis’). Vedi SilviaFumarola, ‘Di Vittorio, la fiction’, laRepubblica, 9 marzo 2009, p. 34.

16 Riprendo qui una categoria formulata inun ambito assai distante, quale quellodella club culture: Sarah Thornton,Club Cultures: Music, Media and Sub-cultural Capital (Middletown: WesleyanUniversity Press, 1995).

17 In questo i recensori dei quotidianipartono da un assunto del tutto similea quello proposto da storici e studiosiche si sono occupati dell’argomento: uncerto livello di superficialita storica econsiderato inevitabile nei prodottidestinati alla televisione e, anzi, el’elemento che permette di avvicinareil grande pubblico a questi temi; vedi adesempio Giovanni De Luna, L’occhio el’orecchio dello storico (Scandicci: LaNuova Italia, 1993), pp. 97–98.

18 Aldo Grasso, ‘E anche Di Vittorio ha ilsuo ‘‘santino’’’, Corriere della Sera, 17marzo 2009, p. 47.

19 Giovanni Bechelloni, Il programma del-l’anno. Papa Giovanni e Perlasca: dueeroi dell’Italia profonda, in Buonanno,Storie e memorie, pp. 89–120.

20 Elisa Giomi, ‘Centralita della fiction’,in Televisione ieri e oggi. Studi e analisisul caso italiano, a cura di FrancoMonteleone (Venezia: Marsilio, 2006),p. 254.

21 Giomi, in Monteleone, pp. 264–66.22 Giorgio Simonelli, I peggiori anni della

sua vita. La televisione italiana nelnuovo millennio (Cantalupa: Effata,2004), p. 143.

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23 Jerome Bourdon, ‘Searching for anIdentity for Television’, in A EuropeanTelevision History, a cura di JonathanBignell e Andreas Fickers (Oxford:Wiley-Blackwell, 2008), pp. 111–12.Bourdon tratta del TV drama fiam-mingo, ma specifica che le conclusionisi adattano a realta come quella itali-ana, in cui la formazione della culturanazionale e un fatto piuttosto recente.

24 Milly Buonanno, La fiction italiana(Roma-Bari: Laterza, 2012), pp. 166–76.

25 Massimo Scaglioni, La tv dopo la tv(Milano: Vita e Pensiero, 2011), pp.29–38.

26 Michael Billig, Banal Nationalism(London: Sage, 1995), p. 8.

27 Buonanno, La fiction italiana, CTRL,p. 176.

28 Vedi Billig, pp. 39–43.

POSTI IN PIEDI IN PARADISO: ITALIANCOMEDY AND THE CRISIS OF MASCULINITY

CATHERINE O’RAWE

University of Bristol, UK

In this piece I want to propose a reading of Carlo Verdone’s recent comedy hit,Posti in piedi in paradiso (2012), as symptomatic of a wave of Italian comediesin the last few years that depict men as victims of economic or social crisis. I alsowant to read the film itself symptomatically, in the sense that I am interested in the‘unsaid’ of this text, its blind spots, which relate particularly to the configurationof gender and victimhood.

The film was released in March 2012, and attracted wide critical praise in Italy,particularly for its perceived response to the current economic crisis in Italy andelsewhere. The plot involves three Roman men: Ulisse (Carlo Verdone), who runsan unsuccessful record shop, Fulvio (Pierfrancesco Favino), a film critic reduced towriting gossip columns, and Domenico (Marco Giallini), who works for an estateagency, but supplements his income by working as a gigolo for middle-aged femaleclients. All three are reduced to near-bankruptcy by the financial demands of theirex-wives, and the comic core of the film is their reluctant decision to cohabit inorder to save money. The film combines moments of broad farce (Domenico takesan overdose of Viagra, Fulvio and Ulisse break into the apartment of one ofDomenico’s clients to rob her while Domenico is forced to make the clientundertake a series of absurd S/M practices to distract her). Verdone himselfdescribes the film as a response to an ‘emergenza sociale’, that is, not just thecurrent economic crisis, but the particular situation of divorced or separated menwho find it difficult to maintain payments for the upkeep of their children as wellas paying for their own accommodation.1 Alberto Crespi agreed, calling the film‘la vera commedia sulla crisi’, and ‘un film tristissimo, disperato’.2

The film also needs to be read in a context in which many popular films aredepicting the thirty- or forty-something male professional who is suffering fromanxiety related to paternity, maturity, ageing, or monogamy; for example, in thecomic mode, Baciami ancora (Gabriele Muccino, 2010) and Scusa ma ti vogliosposare (Federico Moccia, 2010) in which straitened economic and personal

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situations lead to male co-habitation and the creation of a temporary ‘homosocialparadise’. In a more tragic key, there has also been a wave of films in which themale protagonist is forced, by the death or absence of his wife, to become a singleparent.3

Comedy, of course, is a locus for the rehearsal of repressed social tensions and itbecomes, in recent Italian cinema, an arena for the playing out of anxieties aroundgender roles as well as around the loss of professional identities: notably, inAmore, bugie e calcetto (Luca Lucini, 2008) Filippo Nigro offers to become ahousehusband in response to his wife’s ambition to return to work, and in boththat film and Femmine contro maschi (Fausto Brizzi, 2011) the male bondinggroup provides the only respite from domestic and workplace troubles, whilst alsoindicating a failure of maturity. In several comedies — particularly Solo un padre(Luca Lucini, 2008), Amore, bugie e calcetto, and Ex (Fausto Brizzi, 2009) —single paternity appears as both an opportunity for male self-definition and ananxiety about what it means to appropriate a typically female caring role.

In Posti in piedi in paradiso, though, the dynamic is not about parenting, butabout the homosocial bond. The indignities of sharing a (not-very-luxurious) flatare preferable to enduring the nagging of ex-wives (those of Ulisse and Domenicoappear only to ask them for money or complain) or their depression — Fulvio’s ex-wife’s post-natal depression pushed him into the affair that destroyed his marriageand he describes her as ‘una donna distrutta dalla depressione post-partum’.Parenting, in the film, is something that happens off-screen, done by women,although Ulisse is redeemed by the love of his daughter, and even Domenicomanages to establish some sort of bond with his children by the end.

The film can be read symptomatically, though, in relation to what it is unable tosay: the repressed of Verdone’s text is, firstly, homosexuality, always lurking as amenace in Italian films that revolve around the cementing of the homosocial bond.Sergio Rigoletto has argued in relation to the 1960s commedia all’italiana, whichoften focus on male pairs or groups, that ‘in order to continue to appear asinclusive and universal the trope of the italiano medio must reassert itsheterosexuality as normal, time after time’.4 In order to do this, as Rigolettopoints out, ‘clear-cut abjections of homosexuality’ are needed (p. 44), and to thisend functions the character of the rather camp friend of Verdone’s love interest,whose only role at the party the three men attend is to roll his eyes and constantlycross his legs in outrage at their behaviour and to announce that he will only marry‘quando ci daranno il semaforo verde’.

The threat of feminization is everywhere for the men: Fulvio complains that hehas been downgraded from ‘critico stimato’ (author of the book Misticadell’immagine nel nuovo cinema asiatico) to ‘cronaca rosa’. At the beginning ofthe film he is living in a convent, given a strict curfew by the mother superior, andhe is reduced to dating an aspiring soap-opera actress who is of course superficialand uncultured. Domenico’s work as a gigolo embarrasses him, particularly as thewomen are middle-aged and he has to resort to Viagra to satisfy them all. Ulisse isthe only one who avoids this, partly through his music geekery and his JimMorrison fandom (the plot device through which he saves his shop, selling off thebelt of Jim Morrison he has been keeping for years, positions him neatly both asbaby boomer ex-groover and as Everyman). The spectre of physical decay also

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hangs over all three: when we meet Ulisse he is suffering from arthritis in hisshoulder, and Domenico has a heart attack after taking too much Viagra.

Alberto Crespi, writing in L’Unita, anticipates some feminist objections to thefilm:

Sentiamo gia l’obiezione tardo-femminista: e le madri? Non fanno una granfigura, e Verdone deve purtroppo aspettarsi qualche accusa di maschilismo.Si consoli: verra da gente che non vede i film o li vede e non li capisce, perchei maschi di Posti in piedi in paradiso sono tre poveracci, vittime deisentimenti e della globalizzazione. E di ‘macho’ non hanno nulla, acominciare dal Viagra.5

The argument that the exclusion of women, or their status as the butt of jokes(literally, in the case of Domenico’s daughter, who features in a running gag abouther thong) is negated or compensated for by the men’s patheticness, is interesting.Verdone clearly agrees, referring to the trio as ‘poveri cristi’. Italian comedy isdeeply homosocial, and I would argue that, along with the other films I havementioned, these comedic narratives of crisis serve to remind that crisis itself is theprivilege of the white middle-class male. Further, the rhetoric of masculinity incrisis is itself deployed as a response to changing social reality, and needs to beinterrogated and identified as part of a strategy for re-centring white Italianmasculinity in the face of a perceived threat to its hegemony.

Verdone’s status, made clear in nearly all the Italian reviews, is now that ofnational treasure and elder statesman of comedy: it is notable that in an earlyscene, discussing rare bootleg vinyl with a male friend in the record shop, the twoare interrupted by a middle-aged woman asking for a cheesy compilation CD ofFestivalbar.6 Ulisse’s sardonic response to her, that she should try a motorwayservice station shop, is greeted with giggles by his friend and with annoyance bythe woman. The shoring up of male friendship that happens here explicitly at theexpense of the middle-aged woman (the most abject category of Italian comedy —though that is another discussion) tells us that this is comedy whose popularappeal is located in its deployment of notions of cult fandom, perceived asmasculine territory, even as Verdone’s film is being watched and (presumably)enjoyed by a broad audience.

If comedy is, as Andy Medhurst says, an ‘invitation to belong’, to whom is theinvitation being extended, and to what are they being asked to belong?7

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NOTES

1 See Carlotta Zavattiero, Poveri padri.Allontanati dai figli, discriminati dallalegge, ridotti in poverta: la primainchiesta a tutto campo sul drammadei padri separate (Milan: Ponte alleGrazie, 2012).

2 Alberto Crespi, ‘Tre uomini senzabarca’, in L’Unita, 2 March 2012, p. 42.

3 See La nostra vita (Daniele Luchetti,2010), Le chiavi di casa (GianniAmelio, 2004), Anche libero va bene(Kim Rossi Stuart, 2004), Caos calmo(Aurelio Grimaldi, 2008).

4 Sergio Rigoletto, ‘The Italian Comedy ofthe Economic Miracle: l’italiano medioand Strategies of Gender Exclusion’, in

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Italy on Screen: National Identity andthe Italian Imaginary, ed. L. Bolton andC. Siggers Manson (Bern: Peter Lang,2010), pp. 35–47 (p. 41).

5 Crespi, p. 42.

6 Along-running annual song contestwith associated compilation album.

7 Medhurst, A National Joke: PopularComedy and English Identities (London:Routledge, 2007), p. 19.

ECO-ZOMBIES: THE ITALIAN HORROR FILMAND POLITICAL ECOLOGY

RUSS HUNTER

Northumbria University, UK

Italian horror cinema presents a seemingly unpromising nexus of films for criticalanalysis and makes an apparently unlikely vehicle for social commentary. Banned atvarious points in many countries (in some cases for long periods of time) and playing acentral role in the ‘video nasties’ moral panic in the UK, from the late 1970s onwardsthe Italian horror film has attracted a great deal of controversy.1 The involvement in —and association with — the ‘video nasties’ has shaped Italian horror’s critical andpopular reputation in Anglo-American scholarship, leading to a characterization ofItalian horror that stresses both its highly visceral nature and problematic representa-tions of gender.2 Such a focus has tended to obscure textual elements within these worksthat offer critical commentaries upon a variety of socio-political issues. Simply put,Italian horror films have long been viewed as politically problematic rather thanpolitically critical texts. Given the tendency for much of Italian horror cinema in the1970s to also be exploitation films, Andy Willis has noted the ways in which the filmsare often viewed as ‘cheap, low cultural artefacts, produced by an industry simplydriven by commercial ends and thus notworthy of sustained critical examination’.3 Thisshort article will, instead, highlight the ways in which Italian horror films act as socialcommentaries, critically engaging with important and often difficult social issues.Specifically, I want to examine theways inwhich a number of films that were part of thezombie filone offer texts that have a concern for political ecology at their heart.4

The zombie filone, which briefly flourished in the period between 1979–1981, wastypical of the ways in which Italian horror cinema in the late 1970s tended towardsexploitation film practice. Following the commercial success of Dawn of the Dead(George Romero, 1978) after its release in Italy as Zombi, Lucio Fulci rapidly putZombie Flesh Eaters (1979) into production in order to capitalize on the apparentpopularity of the undead for Italian (and worldwide) audiences, releasing it under thetitle Zombi 2 in order to suggest that it might be a ‘sequel’ to Romero’s film. Fulci’sproduction was highly commercially successful in its own right and as such a numberof zombie-themed films were put into rapid production as enterprising producersattempted to exploit, in turn, the popularity of Zombi 2. Regardless of their formalqualities, these films demonstrate the ability for not just Italian horror cinema moregenerally but also Italian exploitation film to engage with the political.

As Dana Renga has outlined, film studies scholars have tended to see Italian genrefilms as lacking the necessary artistic qualities to be viewed as sources of rich textual

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meaning, seeing their ‘disposable’ nature as making them unsuitable for detailedanalysis. The assumption is that for film to be able to contribute to social debates orform part of a social commentary it needs to be constructed as art cinema.5 But thereis, in reality, no compelling reason why this should be so. To put it simply: a messageneed not be delivered artfully for it to be a message. In fact, the growing body ofwork around various aspects of Italian genre cinema has pointed to the ways inwhich texts such as exploitation films transcend their status as ephemeral rip-offsunworthy of detailed analysis. Austin Fisher’s recent work on the spaghetti westernhas explored the often-dynamic nature of more popular forms of cinema, turningaway from the notion that Italian film is characterized by ‘a politically-engagednative cinema set against an anodyne, imitative genre cinema’.6

Conventional accounts of Italian cinema to date have tended to canonize alimited number of film movements and directors, with neorealism and Italy’smodernist art cinema in particular being seen as key sites of ‘the political’. In thisway although explorations of genre cinema more generally and horror cinemaspecifically are increasingly being published, they are still rarely included inhistorical overviews of Italian cinema in any depth or with any regularity. Thus,those books that attempt to provide a summary of Italian film history have tendedto either ignore or marginalize such cinemas.7 And whilst the most recentoverviews of Italian cinema have tended to include small references to horrorcinema, mostly these are mentions or brief references to a small handful of higherprofile and more formally ambitious directors such as Mario Bava and DarioArgento. The steadily growing body of work on Italian horror cinema has, in anycase, often tended to follow a similar pattern. Writing on Italian horror cinema hasclustered around an equally small handful of directors and tended to be limited todiscussions that lay stress upon its problematic representation of gender and sexualpolitics, in particular.8 So, although the number of studies addressing genre cinemagenerally and horror cinema specially is growing, horror cinema has yet to be fullyintegrated into the broader narrative flow of Italian cinematic history.

Given space constraints here, a very brief example will serve to demonstrate the waysin which the zombie filone can be said to have engagedwith very specific environmentalconcerns. On the face of it Umberto Lenzi’s Nightmare City (Incubo sulla cittacontaminata, 1981) seems an unlikely example of politically-inclined Italian cinema.9

An Italian-Mexican-Spanish co-production, it was shot on location in Madrid andRome’s De Paolis studios in amatter of weeks and designed to be shown in terza visionecinemas in Italy, while being aimed predominantly at the very strong export market forItalian exploitation films at this time. Directed by genre journeyman Umberto Lenzi ona low budget, featuring an international cast led by Mexican Hugo Stiglitz (chosen forhis box office power in co-production partners Mexico), a fanciful plot and apreponderance of gore, it was marketed following established exploitation practices,and so was typical of the way in which products of the zombie filone were producedduring this period.10 Indeed, as one reviewer of the film has noted: ‘Nightmare City’smain reason for being are its gruesome visuals, zany set-pieces and oddflashes of breast.’11

The plot concerns the after-effects of a spillage at a power plant, where thecarelessness and malpractice of scientist Dr Otto Hagenbach has meant that all ofits workers now have their blood infused with radioactive material and horriblydisfigured faces. In order to cleanse themselves they storm the surrounding town,seeking to ‘purify’ their bodies by devouring the blood of those unaffected by the

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toxic spill. Meanwhile, TV reporter Dean Miller and his wife Anna attempt toescape the steadily growing hordes by heading into the countryside until – finally –it becomes obvious that the contagion has spread everywhere and they aresurrounded at a rural fairground. Their fate seems inevitable until Miller suddenlywakes up and realizes it has all been a horrible nightmare. That is, until the eventsof the day begin to play out exactly as before and we end with a freeze-frame onthe words ‘The Nightmare Becomes Reality’.

The film’s plot structure is typical of the majority of zombie cinema produced inItaly at this time: following the zombie outbreak (usually due to an ill-advisedscientist’s attempts to alter nature), the ending is ambiguous, suggesting thatultimately the outbreak may not necessarily be contained. Equally the often-comicaldialogue, violently gory nature of the action sequences and numerous formal errorstend to suggest that Nightmare City is an example of trash cinema with fewredeeming qualities. Objectively how ‘good’ or nuanced the film happens to be,however, is not the issue here. Because what is striking is the way in which it doesactually allude to and even offer a critique – a very direct and explicit one – of Italy’sheavy industry sector. Given the narrative stress upon the unknowable after-effectsof industrial accidents upon the environment, the film is in line with ‘deep’ ecology’sstress upon caution in relation to introducing new chemical agents into thebiosphere.12 In this way the film chimed with developments within ecological theorythat emphasized the ‘precautionary principle’, an ecological concept that argues:

Risk-aversion [is] the path of prudence when new technologies, or newsocial practices, have consequences that are large and unpredictable.Especially when they [sic] are unquantifiable but potentially catastrophicrisks associated with intervention.13

Nightmare City plays upon a domestic knowledge of - perhaps even exploits thememory of - very real events with unanticipated consequences. The 1976 explosion atthe chemical plant in the small northern Italian town of Seveso and its aftermath wereand are significant and traumatic events in Italy’s recent history.14 The results of thedisaster were catastrophic as hundreds were evacuated from their homes and over 2000people suffered the effects of dioxin poisoning and required medical attention. Awidelycirculated (and now iconic) photo of four-year-old Stefania Senno’s horribly scarredface showed the horrific effects of chloroacne poisoning and outraged Italian publicopinion. Visually, a very strong link to Seveso was created by Franco di Girolamo andGiuseppe Ferranti, the make-up artists for the film, who gave the infected deeply ridged,pustule-ridden faces that very precisely evoke the effects of chloroacne poising.15

The explosion at Seveso was an event that would be considered, alongside laterdisasters such as Bhopal and Chernobyl, a national trauma. In 1982 the politicalfallout from it eventually led to a change in European law in an attempt to preventsuch a tragedy reoccurring.16 Nightmare City thus contributes, in its own way, todebates around the potential dangers of completely unchecked scientific andcommercial activity in general and very clearly uses Seveso as a reference point inthis regard. Ultimately the film presents us with a simple message: without intendingto, humanity can change its environment in ways that may prove disastrous for us all.

The apparent concern with scientific hubris could be viewed as a highlyconventionalized element of the ‘exploitation’ element in the filone as a whole,

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given the frequency with which scientists and the unanticipated results of theirwork are often the main causes of whatever undead outbreak occurs. Althoughhorror films often reflect the concerns of particular socio-historical moments,concern over the impact of scientific endeavour has, of course, been a recurrenttheme. In this way early adaptations of Mary Wollstonecraft Shelley’s gothichorror tale Frankenstein: Or, the Modern Prometheus (1818), such as J.SearleDawley’s 1910 Frankenstein and Eugenio Testa’s 1920 Il Mostro di Frankenstein,were examples of fantastic films that translated the novel’s concern over thepotentially ill consequences of scientific enquiry into filmic form. As the horror filmdeveloped - itself a genre that took shape in the wake of Universal’s Frankenstein(James Whale, 1931) - it became a convention that science and scientificdevelopments were treated with caution and often scepticism. It is possible totherefore see Seveso as just another example of this that was exploited by Lenzi inorder to structure Nightmare City with a conventional genre schema. But to seethe film this way would be to ignore the specific cultural resonance of Seveso as anincident of national significance. Adam Lowenstein has explored the ways inwhich horror films can engage with social conflicts that ‘haunt’ particular nationsor groups of people. Horror film here is seen as offering, at various points, what heidentifies as ‘allegorical moments’ that not only complexly interrogate events ofnational significance but also challenge their historical representation.17

Indeed, the film is not alone in providing a critique of humanity’s relationship withthe biosphere. If it were, we might be able to pass Lenzi’s film off as a curio, an oddexample of exploitation cinema that ‘just happens’ to engage with a salient politicalissue. However, a number of other zombie films of this period exhibit a similarambivalence in their representation of the progressive, transformative potential ofscience. Thus, Zombie Flesh Eaters features a scientist whose hubris, no matter hownoble his initial intention, ends up helping to spread a zombie outbreak toNewYork; inZombie Holocaust (Marino Girolami, 1980) Doctor Obrero performs experiments onhuman corpses in order that ‘generations to come will reap great benefits’, and the filmends with it being unclear whether or not the zombies he ends up creating are destroyed;in Zombie Creeping Flesh (Virus, Bruno Mattei, 1981) a plan by government scientiststo end world hunger goes horribly wrong and an ultimately unchecked zombie-outbreak ensues; and most notably in the much earlier The Living Dead at theManchester Morgue (Non si deve profanare il sonno dei morti, Jorge Grau, 1974)scientists at the Ministry of Agriculture introduce equipment into the countryside inorder to boost productivity but unbeknownst to them the machinery reanimates therecently dead. In each case these films, like Nightmare City, present texts that stresscaution in relation to humanity’s interaction with the biosphere. These are textsaddressing a political point about the environment and the role of ‘the scientist’ atprecisely a time when there was a heightened awareness in relation to such issues.18

These films function therefore not just as exploitation films that attempt to‘cash-in’ on the apparent commercial potential of zombie cinema in this period,but also serve as cautionary ecological tales. It is precisely the popular, commercialnature of Italian horror cinema and the very fact these films were part of rapidproduction cycles that means Italian genre cinema in general (and horror cinemaspecifically) could and did often reflect issues of cultural concern.

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NOTES

1 The term ‘video nasties’ was applied tofilms with violent content during amoral panic that gained momentum inthe early 1980s with the video releaseof a number of American and Europeanhorror films in the UK. The paniccentred on the supposedly harmfuleffects of these videos (particularlyupon children) and ultimately culmi-nated in the Video Recordings ACT of1984, which imposed stringent regula-tions upon what it was permissible todistribute on video.

2 For an exploration of the impact of the‘video nasties’ phenomenon see KateEgan, Trash or Treasure? Censorshipand the Changing Meanings of theVideo Nasties (Manchester: ManchesterUniversity Press, 2007).

3 Andy Willis, ‘Italian Horror Cinema’,in Italian Cinema: New Directions, ed.by William Hope (Bern: Peter Lang,2005), pp. 109-30 (p. 110).

4 Films cited here are given first with theirmost common English title and with theItalian title in parenthesis. Given thetransnational nature of these films it isdifficult to say which is the original titleand so I employ the English languagenames that recur most often in theassociated academic literature.

5 Dana Renga, ‘Pastapocalypse! Endtimes in Italian trash cinema’, TheItalianist, 31: 2 (2011), 243-57.

6 Austin Fisher, Radical Frontiers in theSpaghetti Western: Politics, Violenceand Popular Italian Cinema (London:I.B.Taurus, 2011), p.3.

7 See for example Peter Bondanella, ItalianCinema: From Neorealism to the present(New York: Frederick Ungar, 2001);Carlo Celli and Marga Cottino-Jones, ANew Guide to Italian Cinema (NewYork: Palgrave, 2007); Mary P. Wood,Italian Cinema, (Oxford, Berg, 2005).Bondanella’s more recent A History ofItalian Cinema (London: Continuum,2009) was thus a valuable to correctiveto this tendency, examining not just the

spaghetti western but also encompassingthe giallo, Italian horror film and thepolizieschi of the 1970s in its moreinclusive overview of Italian film history.

8 The majority of works on Italian horrorto date have tended to focus on the workof a limited number of (higher profile)directors, most notably Mario Bava andDario Argento. These accounts, whilstnot monolithically uniform in approach,have usually examined issues to do withgender and sexuality and have rarelyengaged with the politically criticalpotential of such horror texts. See forexample: Andrea Bini, ‘Horror Cinema:The Emancipation ofWomen and UrbanAnxiety’, in Popular Italian Cinema:Culture and Politics in a PostwarSociety, ed. by Flavia Brizio-Skov (NewYork: I.B.Tauris, 2011), pp. 53-82;Adam Knee, ‘Gender, Genre, Argento’,in The Dread of Difference: Gender andthe Horror Film, 5th edn, ed. by BarryKeith Grant (Texas: University of TexasPress, 2005), pp. 213-30; PatriciaMacCormack, ‘Masochistic Cinesexua-lity: The Many Deaths of GiovanniLombardo Radice’, in AlternativeEurope: Eurotrash and ExploitationCinema Since 1945, ed. by ErnestMathijs and Xavier Mendik (London:Wallflower Press, 2004), pp. 106-16;Jacqueline Reich, ‘The Mother of AllHorror: Witches, Gender, and the Filmsof Dario Argento’, in Monsters in theItalian Literary Imagination, ed. byKeala Jewell (Detroit: Wayne State UP,2001), pp. 89-107; Leon Hunt, ‘ASadistic Night at the Opera: Notes onthe Italian Horror Film’, in The HorrorReader, ed. by Ken Gelder (London:Routledge, 2000), pp. 324-35; RaifordGuins, ‘Tortured Looks: Dario Argentoand Visual Displeasure’, in Necro-monicon, ed. by Andy Black (London:Creation, 1996), pp. 141-53; CarolJenks, ‘The Other Face of Death:Barbara Steele and La maschera deldemonio’, in Popular European Cinema,

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ed. by Richard Dyer & Ginette Vincen-deau (London: Routledge , 1992), pp.163-180; Maitland McDonagh, BrokenMirrors/Broken Minds: The DarkDreams of Dario Argento (London:Sun Tavern Fields, 1991). Not all writ-ing on Italian horror cinema has fol-lowed this path but it has certainly beenthe most dominant focus. For an alter-native, ‘folklorist’, approach see MikelKoven, La Dolce Morte: VernacularCinema and the Italian Giallo Film(Oxford: Scarecrow Press, 2006).

9 The film, much like Danny Boyle’s 28Days Later (2002), is not technically a‘zombie film’ – the film’s antagonistshave infected blood plasma rather thanactually being ‘undead’ – but is oftenconsidered as such.

10 The marketing of Italian exploitationcinema tended to lay stress upon thevisceral nature of film, usually suggestingit contained high levels of violence and/ornudity in order to attract as large anaudience as possible. These films werepredominantly aimed at foreign grind-house cinemas and domestic terza visioneexhibition spaces and the marketingreflects this. Posters for Nightmare Cityvaried in this respect dependent upon theterritory of distribution. The US cinemaposter is typical here, avoiding stills fromthe film itself and instead showing anartist’s representation of what the filmmight contain. A large zombie withclawed-hand, simultaneously appearingto reach out towards the viewer and alsoattacking a group of citizens fleeing whatappears to be a North American city, fillsthe frame under the headline ‘Now TheyAre Everywhere! There Is No Escape!’ Inthe foreground a group of citizens areattempting to escape from a variety ofzombie-like figures as well as a fire that israging in the cityscape behind them. Theonly figure in full colour is a scantily-clad, curvaceous young woman who isbeing mauled by a rampaging zombie.The poster thus not only suggests scenesthat do not directly appear in the filmitself but suggests that both violence and(to a lesser extent) nudity are likely to besignificant components of the plot.

11 J Slater, ‘Review’, in Eaten Alive! ItalianCannibal and Zombie Movies, ed. by JaySlater, London: Plexus, 2002), p.158.

12 Ecological thought is often very generallydivided between ‘shallow’ and ‘deep’ecology. The former, often associated withmore mainstream ecological thought,tends to treat the environment as aresource to be carefully managed forhuman benefit. It usually attempts tobalance the desire to conserve alongsidethe needs of capitalist economic growth(and in so doing places human needs asparamount). In contrast to this deepecology has tended to take a more radicalstandpoint and is concerned with the wayin which human activity might impactupon the diversity and complexity ofnature as a whole. In this sense theenvironment is viewed as a linked systemand human action is seen to have effectsthat are often hard to measure. For ad-herents of deep ecological thought, tech-nological solutions to, for example,resource depletion, are seen as flawed inthat they do not call into questionhumanity’s relationship with nature asguided by capitalist modes of economicactivity.

13 A Dobson,Green Political Thought, 2ndedn (London: Routledge, 1995), p. 32.

14 The plant specialized in manufacturingherbicides and pesticides and due to aproblem with the site’s reactor releaseda cloud of toxic chemicals into theatmosphere.

15 There is not space to develop this analysisfurther but the film formed one part of amuch broader condemnation and criti-cism of the nature of the events surround-ing Seveso. Lenzi himself has noted onseveral occasions that the film wasconceived with Seveso in mind, althoughwe need to be cautious, as ever, withtaking director statements at face value.

16 Lenzi’s film was released five years afterthese events but at a time when theSeveso Law was being formulated.

17 Adam Lowenstein, Shocking Represen-tation: Historical Trauma, NationalTrauma and the Modern Horror Film(Columbia University Press: New York,2005).

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18 The 1970s were a decade that saw thegrowth of environmental concern andactivism in response to what was per-ceived to be humanity’s damagingimpact upon the planet. Not only wasthe influential Limits to Growth Report(1972) by The Club of Rome published,

but events like Seveso and the partialnuclear meltdown at Three Mile Islandpower plant in Pennsylvania in 1979and the much earlier 1973 US oil crisis,all contributed to a growing interroga-tion of the way in which humanitysustained its existence.

IMPEGNO, CULTURAL CAPITAL, AND THEPOLITICS OF CONFUSION

AUSTIN FISHER

University of Bedfordshire, UK

When asked to define his influentialMexican Revolution parableQuien sabe? (1966),Damiano Damiani was insistent: ‘non e un western […] e un film sulla rivoluzionemessicana, ambientato nella rivoluzione messicana, e quindi e chiaramente un filmpolitico e non poteva non esserlo’.1 This statement contains a dual assumption thatremains common in discourses surrounding Italian filmmaking: that ‘political cinema’constitutes a purposeful and informed intervention; and that this exists in adichotomous relationship with ‘popular’ or ‘genre’ film making. Damiani’s refusalto countenance his film’s status as a ‘Western’ betrays a hankering after the intellectualkudos attached to the ‘film politico’, yet one of the most telling aspects ofQuien sabe?is not so much the extent or depth of its professed political commitment, as the factthat it turns to the reference points of American popular culture for its conduit. The‘Mexican Revolution’ depicted in Quien sabe? is lifted not from history, but fromHollywood, since the film’s narrative trope of a gringo adventurer interfering inMexico’s affairs had been used as an overt symbol for Cold War politics long before1966: notably in Rio Grande (John Ford, 1950), Vera Cruz (Robert Aldrich, 1954),and The Magnificent Seven (John Sturges, 1960). Whether by design or not, Damianiand his screenwriter Franco Solinas register a cultural moment in Italian identity: oneat which instantly recognizable paradigms from US cinema provided ready-madefilters for the era’s political oppositions.

My intention is not to cast doubt upon Damiani’s political commitment. Rather it isto suggest that the category ‘political cinema’ tends to be applied to bolster the culturalcapital of a film, instead of serving a consistent descriptive purpose. Scholarship on thepolitics of Italian cinema has traditionally privileged the model of impegno to whichDamiani aspires; yet an alternative ‘symptomatic’ approach allows for a recognitionthat the politics of an era are as likely to surface inadvertently through confusions andcontradictions within films as they are through finely wrought artistry. The broadercareer of Franco Solinas, and the scholarly discourses that have surrounded hisscreenplays, offer an instructive case study for appraising these issues, thanks to thediversity of directors for whom he wrote. Four screenplays attributed to him would bemarketed as Westerns between 1966 and 1969, but Solinas himself vehementlydisowned all but one on the grounds that other, less politically committed film makers

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had taken his ideas and diluted their substance. Of La resa dei conti (Sergio Sollima,1967), he protested: ‘Il soggetto era molto piu bello, Sollima lo ha molto cambiato,romanzato […] L’idea era una delle piu precise e piu pulite che io abbia mai avuto’.2 Ilmercenario (Sergio Corbucci, 1968) and Tepepa (Giulio Petroni, 1969) receivedsimilarly short shrift. Of his dalliances with Cinecitta and Elios studios, indeed, hewould admit only Quien sabe? (Damiano Damiani, 1966) into his oeuvre, for itsthematic resemblance to his internationally lauded collaborations with GilloPontecorvo: La battaglia di Algeri (1966) and Queimada (1969).3

What is telling, and indicative of dominant assumptions, is how scholarship hastended to coalesce around these same parameters when discussing Solinas’s work,locating his ‘popular stuff’ as either debased or aspiring versions of his famed,politically-engaged masterworks. Michalczyk embarks on lengthy analyses ofSolinas’s screenplays for Rosi and Pontecorvo, yet of his Western treatments onlyQuien sabe? is afforded a mention, and this just once and in passing, suggestingthat such films do not fit within the book’s titular remit: The Italian PoliticalFilmmakers.4 More recently, as the study of filone cinema has become de rigueur inthe academy, it is common practice for scholars to defend such films by insisting on ahidden sophistication that likens them tomore reveredworks of Italy’s canonical post-war auteurs. Accordingly, Bondanella situates Quien sabe? firmly within Solinas’sOscar-nominated oeuvre, due to its ‘clear ideological motivations’, which allow it toqualify as ‘a serious dramatic film’.5 I, too, have in the past partaken of a similarlydefensive approach toQuien sabe?, by insisting on the importance of its parallels withQueimada.6 We are not incorrect to identify these concordances, but the implicitvalue judgement we make by so doing is that such films should be read andunderstood in the context of Solinas’s more ‘committed’ output, perhaps as a step inthe right direction. The ‘seriousness’ of theseWesterns, and therefore their worthinessfor study, is claimed through comparison with the masterpieces whose politicalmessage was not sullied through contact with the whims of the filone system.

The assumption invited by such criticism is that if a film has been altered by itsindustrial conditions beyond a certain point, and is therefore not so coherent arendition of an ideological vision, it has become less ‘political’. Yet one can surelyargue the exact opposite to be the case: that blemishes left by the commercial andcommunal processes of film making may tell us far more about how politicaldiscourse was being disseminated, filtered, and received at the time of production.The period between the late 1950s and the early 1980s is seen with good reason to bea high point of political significance in Italian cinema. The economic miracle, theferments of the student movement and related extra-parliamentary protest move-ments, and the traumas of the anni di piombo provided a fertile seedbed forcinematic engagement with the conditions of the era. This period was one of rapidsocial change, significant shifts in Italy’s cultural outlook and attendant confusion inthe negotiation of its political worldviews. Why, then, does the assumption persistthat the politics of such an era are best represented by works of lucid artistry?

One of the films so acerbically dismissed by Solinas above— La resa dei conti (1967)— is in fact a most revealing document of the era’s political discourse. Solinas’s distastefor the film partly arose from the fact that his story of a Sardinian peasant beingpersecuted by amalevolent systemwas relocated to theWildWest by scriptwriter SergioDonati and director Sergio Sollima. The southern Italian subaltern became a Mexicanpeon, the policeman on his tail a sheriff. Still, the director insisted on the film’s political

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credentials, claiming that the knife-wielding peasant’s final showdown with a gun-toting gringo was a stand-in for ‘un beretto verde americano contro un vietcong’.7

Doubtless, Sollima — a Resistance veteran and communist, like Solinas — sought tocommunicate a politically ‘committed’ polemic, but his interpretation is simplistic andbinary, of little use to a scholar seeking sophisticated political critique. Of considerablymore interest than this authorial intent is the inadvertent snapshot of the era’s cultural-political idiosyncrasies provided by the film and its oversimplifications. Rather thanseeking erudition from La resa dei conti, we should acknowledge and contextualize theaffinities between its somewhat adolescent worldview and that of the emergent protestmovements to which it sought to pay lip-service: movements themselves characterizedby a propensity to seek easily recognizable symbols (sometimes lifted from the movies),and to reduce the bewildering complexities of late 1960s Italian politics into a set ofclearly defined binary oppositions.

The western all’italiana provides one of the clearest examples of Italian politicaloutlooks being refracted through the lens of American cinema, but by no means theonly one. Stephen Gundle’s analysis of the PCI’s cultural policies in the ColdWar erahas demonstrated the extent to which the importation of transatlantic referencepoints was charged with ideological significance across numerous strata of Italianpolitical life from the 1950s onwards.8 Such processes of appropriation, adaptation,and localization, indeed, were also manifesting themselves beneath the surface ofmainstream political discourse into the 1970s, when the milieu of filone cinemacontinued to offer a conduit for these modes of expression. The poliziesco cycle wassimultaneously an exploitative response to contemporary Hollywood trends and apopulist mediation of local traumas. Its transpositions of American ‘tough cop’ andvigilante schemas into the anni di piombo can be seen to enact a collective need inItalian society: one of attaching familiar narrative structures to an era of extremecultural-political uncertainty. For example, Milano trema: la polizia vuole giustizia(Sergio Martino, 1973) lifts its narrative and ideological tropes directly from DirtyHarry (Don Siegel, 1971), with a maverick cop defying an impotent legal system tofight back against a tide of criminal violence. Far from displaying a linear process ofreliance on US cultural formats, however, the film localizes the generic schema toarticulate burgeoning conspiracy modes more commonly associated with Italy’spolitical auteurs, as the chief of police reveals himself to be the hidden crime bossmanipulating the violence as part of a strategia della tensione.

Again, this is far from sophisticated political critique. Milano trema should beplaced alongside other polizieschi that betray a predilection towards conspiracytheory and dietrologia such as Il boss (Fernando di Leo, 1973) and Il grande racket(Enzo G. Castellari, 1976). Yet these films’ recourse to Hollywood’s ‘tough cop’formats to offer over-simplified explanations for complex local oppositions stillproduces illuminating political documents: not of philosophical insight or intellectualnuance, but of how those oppositions were being represented to constituenciesunreached by more respected political discourses. In this context, it is notable thatsimilar exercises in cinematic interpretation were simultaneously being negotiated bymembers of the protest movements and clandestine groups whose actions were at thecentre of the anni di piombo’s traumas. The memoirs of sessantotto, Potere Operaio,and Brigate Rosse activist Valerio Morucci, for example, continually frame his deedsby reference to the bandits and sheriffs, the hitmen, and the cops and robbers from themany Westerns and films noirs that so fascinated him.9 It is through the comparison

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of these modes of representation, rather than the attempt to identify neglected worksof political sophistication, that we see here how ‘popular’ cinematic formats can offerglimpses into contemporaneous political discourse, precisely through their divergencefrom conventional schemas of authorship and intent.

If, as I suggest, ‘political Italian cinema’ is such an amorphous notion, it is aneccentric decision to seek an understanding of it either by proselytizing an ideal ofcogently expressed impegno, or by seeking a cinema that faithfully and purposefullycaptures a national-political experience. Broader trends in academic film studieshave for many years now taken account of the unstable, inadvertent, and negotiatedsignificance of cinematic output variously labelled ‘exploitation’, ‘cult’ or ‘trash’,which is frequently enmeshed within the socio-political confusions of its epoch.10 Inthe words of Mathijs and Mendik, such films are fascinating precisely because they‘do not allow for a clear-cut distinction between text and context; they are messydispersible texts, existing beyond and below the usual confinements of filmculture’.11 Recent developments within Italian film studies, too, have shifted toembrace such approaches. Notably, O’Leary and O’Rawe have polemically arguedthat conceptions of Italian cinema purposefully ‘reflecting’ the national character arerendered problematic by conventionally overlooked or denigrated popular milieus.They argue that such cinemas do indeed display ‘versions of ‘‘Italian-ness’’’, but notnecessarily those of a kind conventionally sought by scholars.12

A similar point can be made about ‘versions of Italian politics’ discernible in parts ofthe country’s popular cinematic output of the 1960s and 1970s. Political inscriptions inthis milieu were likely to arise, not only from a film’s purposeful or explicit engagementwith contemporary events, but from the fact that it registers Italy’s disorderly negotia-tion with a rapidly changing cultural-political landscape, commonly by localizingtransatlantic reference points as a way of making sense of the world around it. Further-more, by recalibrating our analytical approach to accept that films can be documents ofconfusion as well as artistry, we open up possible insights into the lived experiences oflarge sections of the population beyond the reach of more highly respected politicaldiscourses. ‘Political cinema’ should in part be considered for its ability to chronicle thecultural options open to its intended audiences: in this case audiences for whom USpopular culture was becoming an ever more familiar cognitive filter.

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NOTES

1 Franca Faldini and Goffredo Fofi,L’avventurosa storia del cinema ita-liano raccontata dai suoi protagonisti1935–1959 (Milan: Mondadori, 1981),p. 300.

2 Faldini and Fofi, p. 302.3 Faldini and Fofi, pp. 300, 305.4 John J. Michalczyk, The Italian Political

Filmmakers (London: Associated Uni-versity Press, 1986), p. 184.

5 Peter Bondanella, A History of ItalianCinema (London: Continuum, 2009),p. 361.

6 Austin Fisher, Radical Frontiers in theSpaghetti Western: Politics, Violenceand Popular Italian Cinema (London:I. B. Tauris, 2011), p. 132.

7 Faldini and Fofi, p. 302.8 Stephen Gundle, Between Hollywood

and Moscow: The Italian Communistsand the Challenge of Mass Culture,1943–1991 (London: Duke UniversityPress, 2000).

9 Antonio Tricomi, ‘Killing the Father:Politics and Intellectuals, Utopia andDelusion’, in Imagining Terrorism:

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The Rhetoric and Representation ofPolitical Violence in Italy, 1969–2009,ed. by Pier Paolo Antonello and AlanO’Leary (London: Maney, 2009), pp.16–29 (p. 21). For an in-depth accountof such tendencies, see also ChristianUva, ‘Le ‘‘relazioni pericolose’’ tra ilpiombo e il celluloide: il cinema vistodai terroristi’, in Schermi di piombo: ilterrorismo nel cinema italiano, ed. byC. Uva (Soveria Mannelli: Rubettino,2007), pp. 173–83.

10 Since at least the mid-1990s, the milieuof ‘cult cinema’ has been situated withinalternative scholarly trajectories such asthat dubbed ‘paracinema’ (by JeffreySconce in ‘‘‘Trashing’’ the Academy:Taste, Excess, and an Emerging Politics

of Cinematic Style’, Screen, 36.4 (1995),371–93 (p. 372)), by which films areconsumed and selected by audiences indefiance of canonical notions of ‘goodtaste’ or ‘quality’.

11 Ernest Mathijs and Xavier Mendik,‘Introduction: Making Sense of ExtremeConfusion. European Exploitation andUnderground Cinema’, in AlternativeEurope: Eurotrash and ExploitationCinema Since 1945, ed. by ErnestMathijs and Xavier Mendik (London:Wallflower, 2004), pp. 1–18 (p. 4).

12 Alan O’Leary and Catherine O’Rawe,‘Against Realism: on a ‘‘CertainTendency’’ in Italian Film Criticism’,Journal of Modern Italian Studies, 16.1(2011), 107–28 (p. 115).

SOCIAL INQUIRY, OPPOSITION, ANDINTERVENTION IN THE CINEMA OF GIANNI

AMELIO

ANTONIO C. VITTI

Indiana University, USA

Recent Italian cinema, with the release of many films that show again a stronginterest in political and socio-economic national realities, has received worldattention and many critics have marked this revival as the rebirth of a new politicalcinema. The films of the new millennium depict the phenomenon of workplacefatalities,1 the marginalization of trade unions and exploitation of workers,2

Italian state brutality during the G8 protests in Genoa,3 political corruption,organized crime, and environmental disasters.4 Indeed, immigration to Italy ishighlighted in more than fifty new films and documentaries.5 This new cinema hasalso revisited Italy’s troubled political past,6 as well as the corrupt nature of SilvioBerlusconi’s political administrations. However, many directors are also culpableof side-lining the sources of macro-level social conflict, initially highlighted infilms, with storylines that narrow towards individualized solutions for individualcharacters and towards structured, genre-specific denouements. This leaves themsusceptible to the accusation that they continue to use symbolic, personalizedsolutions to smooth over profound social antagonisms.7

Gianni Amelio’s cinema is for the most part left out of the account of the newpolitical cinema despite the fact that he has always produced films that touch uponthe major dramatic themes of our time: the death penalty, prostitution, the abuseof children, corruption, immigration, historical amnesia, internal migration,racism, generational conflict, globalization, and post-industrialization, always seen

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from the perspectives of the people who are directly affected. In my view, aninjustice is done to his films if they are not included in the debate on the newpolitical cinema or if they are included for the mere fact that ‘all cinema ispolitical’. This argument often overlooks a cinema that exists to penetrate thehidden areas of society; that exists to focus on the relationship between individualsand power. From my perspective, in the current political and economic climate, itis easier for the spectator to engage with Amelio’s films that show how fascism,communist utopia, consumerism and capitalism have all failed, than with otherfilms that personalize solutions or mythologize history, and which lack the epos,the psychological acuity and the political acumen that underline Amelio’s stories.Amelio’s intention is to create a narrative form in which social inquiry creates anopposition to the hegemonic discourse in order to force the audience to getinvolved. Amelio’s method can be more effective today than anesthetization andmythologization, traits found in Paolo Sorrentino’s Il Divo (2008), and to acertain extent in Matteo Garrone’s Gomorra (2008), where killing is presented asin video games.

Amelio’s cinema of social inquiry seems to me even more necessary now than inthe past because political positions are less clear and less obvious, and so as to revealwhat is hidden by marketing strategies and compliant mass media. Today it is notenough to choose a theme to confront. It is necessary to equip oneself with a gazethat is neither Manichean nor primarily aesthetic. The film maker’s gaze should bethe equivalent of his or her consciousness. Fictional films, for Amelio, must deepenthe audience’s understanding through reflection and fantasy, since they are theprimary sources of emotions for the audience. To expose what is hidden, Ameliouses a structure in which issues are at first suspended, as the characters meet, andgradually the problems start to clear up or explain themselves but are not resolved.Piero Spila suggests that Amelio is more aware than any other Italian director of thedisparity between the plan to create a cinema of social and moral commitment andthe medium’s limits.8 Amelio’s approach is based on a subtraction that forces thespectator to participate in the search for nuance and deeper meanings. We mustsearch the shots of faces, looks, and spare settings that either limit or dehumanize thecharacters. The constant tension in Amelio’s films lies in making the public look andthink introspectively. The camera movements and the empty and desolate spaces laybare the dehumanization of personal relationships.

In commercial films, one expects that film should entertain and be a medium forescape; escape from reality, from the flaws in society. Gianni Amelio, however, has adifferent mission that he tries to achieve through film, and that is to instruct andcritique society so as to create discussion. These films distinguish themselves fromeach other in the sense that they break from the conventional story in which there isclear plot development and resolution. The audience begins to think about societyand a debate is generated, thus progressing toward a solution to the issues presented.

While the films of Gianni Amelio discuss the various socially engaged subjectsmentioned above, they all pose the same over-arching question: what does it meanto be a human being? Another formulation of the question is: what gives lifedirection? Amelio’s films strive to make the audience question what really mattersin life. What is it that truly holds meaning, and what are just socially constructedconcepts of importance? He comments on how society has lost sight of the truemeaning of humanity, and does this by placing a scene in each of his films that

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seems to be detached from reality, scenes that remind the viewer of what life issupposed to be about. For example, in Il ladro di bambini (1992), Antonio takesthe two children on a small vacation to the seaside ‘where Antonio and Lucianoseem to merge into some primeval, composite life-form and Rosetta joins in theircelebration of oneness’.9 This scene breaks with the style of the film until then forit is the first time in which the audience is presented with an almost ‘utopian’environment and alternative to the story itself. In this scene, Antonio tries to giveback to Luciano and Rosetta their childhood. In this way, Amelio presents thebeauty of life, the innocence of childhood, but then he takes it away from theaudience, thus reminding the spectators of the reality in which Antonio, Luciano,and Rosetta live. When Antonio has to confront an authority figure and explain hisactions, his position is terminated and the film ends on a sombre note. Thisconclusion cannot offer a personalized solution to a socio-political issue. From mycritical point of view, Il ladro di bambini reaches a perfect balance between gaze,language, and content. In this film Amelio gives the country a story withconcurrences in a moment in which it was most needed, during the startling eventsof the early 1990s that revealed the corruption of the national political system.

While some critics would say that Amelio ends his films without any answers tothe problems he exposes, he seeks to open productive dialogues with his spectatorsinstead of providing them with fictional solutions. Each film ends with a definitiveanswer that is different from a personalized solution. In Lamerica (1994), thecharacter Spiro, seemingly an Albanian immigrant, serves as a counterpart to thephony Italian businessman, but later it is revealed that ‘Spiro’ was originallyMichele, an Italian soldier who abandoned his platoon in Albania only to becaptured and jailed by the Albanian communist regime, and who is now mistreatedby his own Italian countrymen. While the film does not point to any directsolutions to the problems presented therein, it simply asks that we, as a society,face the issues plaguing the world in a manner that does not confine people to theirsocial rank or nationality.

All of Amelio’s films show his strong love for the cinema, a search forreinvention of styles, genres and language, with passion, with political acumendevoid of Manichaeism and didacticism, and possess a strong psychologicalinsight. His social inquiry has created an opposition to the media distortions anduntruths that have influenced public perceptions of Italy’s socio-economic realities.

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NOTES

1 Mimmo Calopresti’s La fabbrica deitedeschi (2008)

2 Il posto dell’anima (2003), directed byRiccardo Milani and Paolo Virzı’sTutta la vita davanti (2008).

3 Francesca Comencini’s documentaryCarlo Giuliani, ragazzo (2002) andDaniele Vicari’s Diaz (2012).

4 Matteo Garrone’s Gomorra (2008).5 From Marco Tullio Giordana’s Quando

sei nato non puoi piu nasconderti (2005)

and Giuseppe Tornatore’s La sconos-ciuta (2006).

6 Marco Bellocchio’s Buongiorno notte(2003) and Vincere (2009), GuidoChiesa’s Lavorare con lentezza (2004),just to mention a few.

7 Italian cinema today is an orphan of thepolitical ideologies that animated theprotest movements of over fifty yearsago. While a political cinema predicatedon socio-political themes certainly exists,

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it functions primarily at an intimate,personal micro level and often fails toconnect the individual realities of peopleto broader macro-level political, socialand economic phenomena. Documen-taries often are more effective thanfiction films; as Giovanna Taviani direc-tor of the Salinadocfest has stated tome in conversation: ‘I think that thedocumentary, compared to a fictionnarrative feature, has the privilege tooffer a slice of reality, at the sametime telling stories. That’s why we

chose the narrative documentary forSalinadocfest’.

8 Gianni Amelio, ‘L’esperienza del nondetto’, in Franco Montini, ed., Unagenerazione in cinema: esordi ed esor-denti italiani 1975–1988 (Venice:Marsillio, 1988), pp. 45–51.

9 Millicent Marcus, ‘The Gaze of Inno-cence Lost and Found in Gianni Amelio’sStolen Children’, in After Fellini: Na-tional Cinema in the Postmodern Age(Baltimore: Johns Hopkins UniversityPress, 2002), pp. 154–77 (p. 175).

MARE NOSTRUM: BIOPOLITICA E ALTERITAIN TERRAFERMA DI EMANUELE CRIALESE

DIEGO FERRANTE AND MARCO PIASENTIER

Istituto Italiano delle Scienze Umane, Italia e University of Kent, UK

Nell’articolo analizzeremo l’ultima produzione del regista Emanuele Crialese,Terraferma (2011). Il film rappresenta con Once We Were Strangers (1997) eNuovomondo (2006) il capitolo finale di una trilogia dedicata alla questionedell’immigrazione e sposta il focus in maniera piu diretta sull’attualita dellapolitica italiana. Il film e stato presentato nel 2011 al Festival del Cinema diVenezia, in un momento in cui le problematiche e le discussioni legate agli sbarchisulle coste siciliane avevano raggiunto drammaticamente il loro climax.Terraferma esplora il tema dell’alterita e solleva la questione di quali debbanoessere le strategie da adottare nel confrontarsi con lo straniero. Cosa succedequando incontriamo l’altro? Si tratta di comprendere, in primo luogo, se Crialesesi limiti a registrare il fenomeno, oppure fornisca delle soluzioni a riguardo; in talcaso, sara necessario definirne la dimensione politica.

La nostra tesi e che Crialese non offra solo un’analisi critica della questionedell’alterita, ma opponga alle vigenti misure d’accoglienza una sua personaleforma di resistenza. Diventa quindi legittimo interrogarsi sulla proposta politicaavanzata nella pellicola; in tale prospettiva proveremo a problematizzarla da duediverse angolazioni.1. Legge del Mare come Legge della Vita: attraverso un’interpretazione biopolitica

verificheremo come la natura umana diventi per Crialese il presupposto su cuifondare la legge della comunita, destinata a farsi carico dell’oneroso dono dellavita.

2. Ospitalita/Rifiuto: mostreremo come l’opposizione tra accoglienza e negazione,definita da Crialese nel film, risponda alla stessa logica di assimilazionedell’alterita a un canone normativo, rischiando di ridurre l’emancipazione dellostraniero alla propria testimonianza autobiografica.

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L’analisi delle due prospettive investiga l’asse che contrappone Legge del Mare eleggi dello Stato e decostruisce l’ipostatizzazione di questo rapporto di contrarieta.Riteniamo necessario ricondurre l’opposizione all’ambito del politico — comespazio contingente — senza tuttavia mettere in discussione la nozione di impegnoma ‘its essentialist, rationalistic and humanistic underpinnings’.1

LEGGE DEL MARE COME LEGGE DELLA VITA

Consideriamo la biopolitica un riferimento imprescindibile per accedere al nucleopolitico del film e farne emergere il carattere essenzialistico. La legittimita dellascelta non nasce solo dall’attualita dei lavori di Giorgio Agamben sul campo e sullostato di eccezione,2 studi ormai classici, che permettono di interpretare il fenomenodell’immigrazione attraverso la cornice teoretica della biopolitica. Fermarsi a unasimile lettura, ci tratterrebbe in una posizione ancora esterna rispetto all’opera diCrialese, con il rischio di operare una forzatura interpretativa. L’immigrazione puoessere spiegata con riferimento a diversi impianti teorici e Crialese non suggeriscealcun rimando specifico alla biopolitica. L’elemento che legittima la nostra scelta,piu profondo rispetto alla lettura dell’immigrazione attraverso le teorie di Agamben,e il rilievo assegnato alla natura umana e alla nascita.3

I personaggi del film attraverso cui sviluppare l’indagine biopolitica sono Sara edErnesto. Sara e una donna incinta che, assieme al figlio, ha intrapreso un viaggiomassacrante, iniziato in Etiopia, durato oltre due anni e contrassegnato da violenzefisiche e umiliazioni. Ernesto e un pescatore deciso a non abbandonare il propriolavoro e i propri valori, entrambi messi a rischio dalle leggi del nuovo sistemaeconomico, le quali sembrano imporre non solo un nuovo modo di produzione e discambio, ma anche una nuova morale.

E dall’incontro tra i due, avvenuto quando Ernesto si tuffa in acqua per salvareSara e il figlio, che Crialese definisce la sua proposta di impegno. Le dichiarazionirilasciate in una recente intervista ne chiariscono la posizione:

E un dato di fatto, la legge dello Stato va contro i doveri morali del mondocivile, lasciar morire le persone in mezzo al mare e un segno di grandissimaincivilta. […] E un problema di direzione morale, il mio pescatore la rottanon l’ha mai persa, ma la maggior parte delle persone oggi in Italia sı.4

Il pescatore di Crialese, custode della Legge del Mare, indica la via per correggerela direzione morale del nostro presente, direzione che, secondo Crialese, ‘va amodificare l’istinto umano di fratellanza e accoglienza’.5

Le parole del regista isolano l’ipoteca biopolitica del film: solo la comunitaoriginaria, la comunita del Mare, espressione della natura umana stessa, puoassumersi l’oneroso dono della vita. S’instaura dunque un legame tra naturaumana (humanitas) e vita, secondo cui solo chi agisce in accordo con la sua essenzanaturale ha il diritto/dovere di farsi carico della vita stessa. L’importanza attribuitaal ruolo di Sara nella trama del film trova corrispettivo rilievo nella letturabiopolitica di Terraferma: se tutti gli altri immigrati sono consegnati alle forzedell’ordine, la donna incinta non puo essere affidata alle leggi dello Stato. Solo lacomunita regolata dalla Legge del Mare e in grado di far compiere alla vita il suocorso. La comunita del Mare deve quindi disobbedire alle leggi dello Stato in nome

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della vita in se, come se la natura umana prescrivesse l’esistenza di questacomunita ai fini della vita stessa.

A tale legge rimane fedele Ernesto, quando salva e nasconde Sara, e lo diverraFilippo quando, prendendo la barca sequestrata, cerchera di portare Sara sullaterraferma. Se Filippo incarna il conflitto tra Legge del Mare e nuova normativita,alla fine, egli si risolve ad abbracciare la prima, una scelta che, per il regista, e quiemerge la deriva essenzialista del film, e prescritta dalla natura umana.

E interessante notare che il mare, pur associato al movimento e al divenire —termini solitamente connessi a pratiche decostruttive — diventi indice di unpensiero essenzialistico. Il mare di Crialese e un mare che accoglie, offre lavoro ecibo, e, al contempo, un mare terrificante, che nasconde tra le onde e i fondali iresti di un’imbarcazione o i corpi di chi e partito dalle coste africane, come pure diPietro Pucillo, padre di Filippo.

Il flusso del mare rinvia ad una concezione immanente della vita, in cui transitorietaed incertezza non sono ridotte ad una realta prima e piu autentica. Abbracciare laLegge del Mare non offre una salvezza ultraterrena. Eppure, la transitorietadell’esistenza non apre uno spazio di contingenza, ma rende la natura umana ilpresupposto su cui fondare una politica vitalista, che, per diritto naturale, e la sola ingrado di sobbarcarsi il dono imposto dalla caducita della nostra esistenza. Se la forzadella pellicola di Crialese consiste nel farci osservare con senso critico la condizionedegli immigrati, altrettanto rischiosa si rivela la sua proposta politica, poiche trova lapropria legittimazione in valori al di fuori della storia. Come ci ricorda Foucault, enecessario opporsi al ‘dispiegamento metastorico dei significati ideali’ e quindi allaricerca dell’origine: ‘La storia insegna anche a sorridere delle solennita dell’origine.[…] L’origine e sempre prima della caduta […]; e dal lato degli dei, e a raccontarla sicanta sempre una teogonia.’6 In un’epoca caratterizzata dal paradigma biopolitico, ilrischio e di cantare la teogonia della Vita. Una possibile strategia per neutralizzaretale logica consiste nel mostrare il carattere in/originario,7contingente, dei valori,disinnescando la tentazione di definizioni essenzialistiche dell’essere umano,erroneamente capaci di prescrivere la piu vitale tra tutte le politiche.8

Se la comunita di Crialese e una comunita idealizzata, che misconosce il suocarattere contingente, allora il lavoro d’indagine e di scavo approntato nel film nonci restituisce un’immagine credibile della storia e delle sue complesse trame. Saraquindi utile valutare come il regista intenda il suo lavoro d’osservazione inrapporto al linguaggio del cinema.

OSPITALITA E RIFIUTO, IL MARE E L’INTERRUZIONE

Nei suoi lavori Crialese ha finora posto come cifra personale l’aderenza alla realta,o forse e meglio dire un confronto con la realta attraverso la lingua del cinema,‘che e una lingua di trascendenza’.9 La realta possiede in Crialese una tramapropria che rimane intatta anche quando se ne discosta ed emerge attraverso glistrumenti della narrazione: in tal modo anche il paesaggio e investito dalle vicendedel racconto. Nei campi lunghi e nei campi lunghissimi, quando l’obiettivo diCrialese corre sul paesaggio brullo e sul mare, lasciando che lo sguardo dellospettatore si abitui poco a poco al blu intenso delle scene, l’isola compare nella suarigida interezza, mostrando lo scarto o l’interruzione che la contraddistinguera.L’isola di Crialese e uno spazio astratto, irretito nel suo rapporto di continuita col

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passato, e al contempo calato nell’attuale, uno spazio che permette di mettere afuoco i meccanismi di produzione della modernita e gli strati sottostanti, rendendovisibile come il nuovo si produca attraverso un confronto polarizzato e feroce concio che l’ha preceduto. E possibile disinnescarne le procedure? Quale logicadetermina il costituirsi di un’identita anziche di un’altra?

Terraferma registra un lungo fermo-immagine in cui i personaggi sono ritrattinelle scelte e nei propri convincimenti di fronte alle vicissitudini esterne. Sonochiamati a prendere una decisione e a valutarne o subirne il peso. ‘Qualsiasidecisione tu voglia prendere, aspetta almeno un’altra giornata’, dira Ernesto perscongiurare la risolutezza di Giulietta.

Il tempo della modernita e un tempo sospeso? E uno spazio dilatato? E legittimoavanzare in questa direzione, ma si tratta prima di tutto di un tempodell’interruzione, in cui l’incontro con l’Altro cagiona faglie e sporgenze el’identita del soggetto non si da se non frammentata.

Risulta allora significativo soffermarsi sul ruolo occupato da Filippo lungo l’asseche contrappone Legge del Mare e leggi dello Stato.

Filippo raffigura anche anagraficamente questo essere presi nel mezzo tra gliinsegnamenti familiari del padre e del nonno e la nuova normativita: pur essendocresciuto sull’isola, deve confrontarsi con esperienze per le quali gli manca un metrodi raffronto. Filippo e il primo ad avvistare l’imbarcazione con i clandestini ed esempre lui a ‘pescare’ al porto ‘tre bei turisti’. Si trova insomma a dover scegliere tradue alternative, ma e per lo piu costretto ad adattarsi ai mutamenti che sisusseguono. Impostare cosı la questione, conduce a identificare il personaggio con ilterritorio stesso e a ritrovare in Filippo quel taglio che segna l’isola, comeconseguenza dei cambiamenti generati dal turismo di massa e dall’immigrazione.

L’improvviso perturbamento che pare aver preso ad abitare gli spazi familiariproduce apprensione e contraddizioni — esemplificativa la fuga di Filippo dalmare e dalla spiaggia senza aiutare i clandestini o denunciarne la presenza —,palesando l’inadeguatezza del presente nell’interpretare se stesso.

Al termine del film, Filippo tentera di condurre Sara e i suoi due bambini sullaterraferma, cercando la redenzione e assumendo le responsabilita di una scelta fattapropria. Se cosı stanno le cose, dovremmo interpretare il film non come unarappresentazione della realta ma come una sollecitazione a scegliere la Legge del Mare.

Crialese contesta la legislazione italiana divenuta effettiva nel 200910 checriminalizza l’ingresso e il soggiorno illegale in territorio nazionale, perseguendouna condizione individuale — quella del migrante — anziche un comportamentopericoloso o lesivo. Il regista ribadira piu volte questa sua presa di posizione.11

D’altra parte, se guardiamo ai sistemi giuridici europei — ad esempio quellofrancese o britannico — scopriamo che la situazione non e cosı dissimile el’integrazione dello straniero rimane vincolata alla marginalizzazione o cancellazionedella propria eredita storico-culturale: l’identita sociale e nazionale rappresenta ilcompimento di un processo che neutralizza l’alterita per rinforzare i propri confini. Epossibile pensare una via d’uscita da questa logica di inclusione ed esclusione?

Crialese individua come risposta l’assunzione di un sentimento originario diempatia che prevede l’accoglienza. Tuttavia, una logica incline all’accoglienzarischia di incorrere nelle stesse conseguenze, in quanto riduce l’alterita a unoschema interpretativo di appropriazione, riproducendo la stessa contrapposizione

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binaria, sbarrando l’accesso a una domanda che rimane centrale: ‘Cosa vuolel’Altro da me?’. Lo straniero possiede una soggettivita?12

In ultima istanza, entrambi i discorsi di rifiuto o di accoglienza dell’Altro,13

tratteggiati nettamente nella pellicola, non fanno che reiterare la stessa logica diesclusione per cui lo straniero e funzione di un’identita predefinita, o che sidefinisce attraverso la procedura stessa di esclusione. L’immigrato/straniero risultacosı essere sovradeterminato dal di fuori, reso oggetto della relazione.

In Terraferma il soggetto subalterno fatica a diventare soggetto narrante. Se e purvero che Sara testimonia la sua biografia, e l’unica a prender la parola; i clandestinisono raccontati attraverso il loro corpo, attraverso la ‘pelle nera’ — evocata nelconsiglio tra i pescatori —, vivono la loro fisicita in scene di silenzio e apparizioniimprovvise. In una delle sequenze chiave, quando Filippo e Maura sono in marecircondati dai naufraghi, lo spettatore avverte distintamente le voci concitate dei dueragazzi ma solo un vociare confuso e basso dal mare. I corpi dei clandestini sonoesposti come se possedessero inequivocabilmente un discorso proprio (o ne fosserogia esclusi) e lo sguardo dello spettatore fosse immediatamente investito di unaconsapevolezza — di una decisione — in tensione tra accoglienza e minaccia. Lacategoria di testimonianza e stata del resto indagata in maniera approfondita comevarco per un’emancipazione dei gruppi esclusi.14 Rimane, nondimeno, come sogliateorica da investigare l’effettiva portata emancipatoria della testimonianza autobio-grafica per una riarticolazione dell’ordine discorsivo (quali effetti concreti producono ilracconto di Sara e la buona riuscita del suo viaggio?), volendo chiarire fino a che punto— e per mezzo di quali logiche— un’emancipazione individuale attraverso lamemoriapossa andare oltre la propria singolarita e accedere a una dimensione comune.

L’ILLUSIONE DELL’UNIVERSALE

Crialese elabora una prassi di resistenza che gli permette di contrapporsi all’attualesistema giuridico e — in misura altrettanto rilevante — ai suoi effetti di senso. Glieffetti della legge vanno oltre l’intervento giuridico del legislatore — l’attuazionedella norma e delle sanzioni —, ma indirizzano in maniera piu ampia icomportamenti etici e la sensibilita riservata ad alcune tematiche. L’interesse diCrialese ricade su questo secondo elemento, sui comportamenti indotti dallanorma del 2009 sull’immigrazione clandestina, seppur non prescritti nel testo dellalegge. Il film ha ricevuto dure critiche per aver prospettato l’esistenza di una leggedello Stato, che vieta ai pescatori di salvare in mare i clandestini diretti verso lecoste italiane. Il capitano della Guardia di Finanza, interpretato da ClaudioSantamaria, chiarisce la contraddizione registrata da Terraferma.

Guardia di Finanza : Lei ha l’obbligo di denunciarli, non lo sa?Pescatore: No, non sono pratico di leggiGdF: Ah non e pratico? Bisogna che cominci a impratichirsi. […] Non

avete il permesso per portare i turisti a mare e in piu avete commesso unreato ancor piu grave, favoreggiamento all’immigrazione clandestina.

P: E il codice del mare lo conosci? Quei cristiani dovevo farli morire infondo al mare?

GdF: Qui le cose sono cambiate. Lo dica anche ai suoi colleghi. Il natanteverra sigillato, mi consegni le chiavi.

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A tal proposito, Vittorio Moroni, collaboratore di Crialese in Terraferma, hadichiarato in un’intervista — concessa con il regista a Venezia — che ‘il film simuove su un altro livello, abbiamo capito che avevamo il dovere di riferirci piu chealtro allo stato d’animo che quella impostazione suggerita dallo Stato stavagenerando nelle coscienze delle persone’.15

Contro tale ‘stato d’animo’, Crialese assume il Codice del Mare come base delsuo impegno, dimostrazione o appello a un sentimento e un’idea differenti diaccoglienza verso gli immigrati.

Dopo le conquiste in Italia meridionale e delle isole di Sardegna e Sicilia, iRomani cominciarono a indicare il mare che solcavano come Mare Nostrum,16

definizione che con l’avanzare dei confini dell’impero finira per abbracciare l’interobacino del Mediterraneo. Mare Nostrum pare denotare uno spazio comune dinavigazione, ma si sviluppa in seguito alla conquista di nuovi porti e territori e allaloro incorporazione in un’identita geografica, economica e culturale unica.

La cancellazione dell’origine contingente della proposta di impegno, articolatada Crialese in Terraferma, alimenta l’illusione di un principio indifferenziato diaccoglienza. Le due analisi proposte giungono in fine a far emergere laproblematicita di tale assunzione. Il regista fa discendere dalla vita in se lapossibilita di una e una sola politica, sostanzializzando quella che e una posizionecontingente. Destoricizzare la prassi politica determina, contrariamente alleintenzioni che la ispiravano, l’assorbimento delle differenze all’interno di uncorpus unitario e la latente istituzione di nuove forme di esclusione.

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NOTES

1 Pierpaolo Antonello e Florian Mussgnun(a cura di), Postmodern Impegno. Ethicsand Commitment in ContemporaryItalian Culture (Bern: Peter Lang, 2009),p. 3.

2 Si veda Giorgio Agamben, Homo Sacer.Il potere sovrano e la nuda vita (Torino:Einaudi, 1995) e Stato di eccezione(Torino: Bollati Boringhieri, 2003).

3 Per un’analisi biopolitica della nozionedi vita e nascita, con riferimento criticoanche a Roberto Esposito e Pier PaoloPasolini si veda Lorenzo Chiesa, ‘TheBio-Theo-Politics of Birth’, in Angelaki:Journal of the Theoretical Humanities,16.3 (2011), 100–15.

4 Crialese e il suo Terraferma approdanoal Lido, intervista di Lucia Morelli,pubblicata il 4 settembre 2011,,http://www.movieplayer.it/eventi/articoli/crialese-e-il-suo-terraferma-approdano-al-lido_8480/v..

6 Michel Foucault,Nietzsche, la genealogie,l’histoire. Hommage a Jean Hyppolite

(Paris, PUF, collana ‘Epimethee’, 1971),trad. it. di Giovanna Procacci, Nietzsche,la genealogia, la storia, in Microfisicadel potere. Interventi politici (Torino:Einaudi, 1977), pp. 29–54.

7 Il riferimento e a Roberto Esposito,Bıos. Biopolitica e filosofia (Torino:Einaudi, 2004).

8 Per una nuova e originale interpreta-zione del paradigma biopolitico si vedaDavide Tarizzo, La vita, un’invenz-ione recente (Roma-Bari: Laterza,2010).

9 Entretien Filme avec Emanuele Crialese,intervista di Emilie Voisin, pubblicatail 14 marzo 2012, ,http://italopolis.italieaparis.net/articles/emanuele-crialese-524..

10 Dlgs. 286/98 – Testo Unico Immi-grazione, art. 10-bis cosı modificatodall’art. 1, c. 16, legge n. 94/09 del 15luglio 2009.

11 Si veda l’intervista citata Crialese e ilsuo Terraferma.

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12 Gayatri Spivak, ‘Can the SubalternSpeak?’, in Marxism and the Inter-pretation of Culture, a cura di CaryNelson e Lawrence Grossberg (Urbana:University of Illinois Press, 1987).

13 Per un’analisi del tema dell’ospitalita siveda Jacques Derrida, Politiques del’amitie (Paris: Galilee, 1994), trad. it.Politiche dell’amicizia (Milano: R.Cortina, 1995), oppure Jacques Derridae Anne Dufourmantelle, De l’hospitalite:Anne Dufourmantelle invite JacquesDerrida a repondre (Paris: Calmann-Levy, 1997).

14 Per un’analisi della categoria di testi-monianza nel teatro e nel cinema ita-liano contemporaneo, si veda PierpaoloAntonello, ‘New Commitment in Ita-lian ‘‘Theatrical Story-telling’’: Memory,Testimony and the Evidential Paradigm’, inAntonello e Mussgnug, Postmodern Im-pegno, pp. 233–57.

15 Si veda l’intervista citata Crialese e ilsuo Terraferma.

16 La prima occorrenza del termine MareNostrum viene fatta risalire al quintolibro del De bello gallico di GiulioCesare.

VIRZI E IL MONDO DEL LAVORO: IMPEGNO‘IN CHIAVE COMICA’

MARCO PAOLI

University of Liverpool, UK

La nozione di documento come testimonianza storica viene ormai riconosciutaall’intera produzione cinematografica. Cio che pero e ed e stato, a mio avviso, senon ignorato, quanto meno sottovalutato, e il contributo che i film di genere —ovvero quei film piu disponibili al consumo di un pubblico piu ampio e variegato,tra cui commedie di costume, polizieschi ecc. — possono apportare alladiscussione sull’evoluzione del concetto di impegno nel quadro del cinema politicoitaliano. Fino a non molti anni fa si parlava di cinema d’impegno e cinemad’evasione negli stessi termini in cui in altri ambiti si parlava di letteratura eparaletteratura. Concetti che nell’era postmoderna hanno di fatto perso il lorosignificato perche sono cambiati i codici e i linguaggi cinematografici e letterari econ essi si stanno pian piano modificando i rigidi parametri di analisi critica chevigevano in passato. Non sembra ad esempio avere piu senso giudicare un’operacinematografica (o letteraria) solo alla luce del genere di appartenenza poiche nederiverebbe un’analisi piatta e basata solo su determinati stereotipi. Chiaramente,il tipo di genere a cui appartiene un’opera informa sul tipo di approccio stilisticocon cui viene trattata una certa tematica, tuttavia non fornisce alcuna indicazionesulle qualita cinematografiche o letterarie dell’opera stessa. Inoltre, dicotomie deltipo cinema di destra e cinema di sinistra, cinema d’autore e cinema di generesembrano sparire definitivamente con il riconoscimento della frammentazione e ladiversificazione che ha caratterizzato la nozione di impegno nell’era postmoderna.Come sottolineano Mussgnug e Antonello, l’impegno in chiave postmodernaimplica un’apertura discorsiva e un pluralismo culturale, politico e sociale cheporta di fatto all’emergere di nuove forme di riflessione, di consapevolezza e diemancipazione politica ed etica. Ci lasciamo cosı alle spalle quella nozione

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monolitica di impegno saldamente legata ad un’ideologia definita a priori e con loscopo di imporre questa o quella determinata egemonia ideologica.1 Da un puntodi vista di analisi critica, oltre al ricambio generazionale, un aspetto che stascuotendo alle radici il concetto di impegno riguarda la riattribuzione allospettatore/lettore dell’importanza dovutagli. Si riconosce cosı l’obbligo di accettareil concetto ampio di opera cinematografica o letteraria facendo combaciare imetodi di analisi usati dai critici con la conoscenza e il ruolo degli spettatori e deilettori anche nelle loro specificita. In altre parole, vi e la necessita di riconoscere atutti gli effetti la capacita di un cinema e di una letteratura di una societa di massadi rivolgersi non solo ad una stretta cerchia sociale, ma anche al grande pubblicocon lo scopo di renderlo consapevole e potenzialmente ‘attivo’, stimolando inquest’ultimo una riflessione a questioni sociali, politiche ed etiche.2 Unapprofondito studio dell’arte politica ed etica puo quindi emergere da unapproccio critico che tenda a spostare il centro dell’attenzione dall’autore/registaal lettore/spettatore: detto altrimenti, dalla produzione alla ricezione dell’operaartistica come Umberto Eco gia sosteneva a meta degli anni ’70.3 Ed e in questocontesto che riacquistano valore e rispettabilita ad esempio i libri gialli di AugustoDe Angelis, Giorgio Scerbanenco e Franco Enna; oppure i film di genere, come lecommedie, proprio per il loro carattere ambivalente dove la critica di costume devefare i conti con le esigenze degli spettatori. Si prendano come esempiocontemporaneo alcuni film di Paolo Virzı — La bella vita (1994), Ovosodo(1997), Baci e abbracci (1999) e in particolare Tutta la vita davanti (2008) — che,a mio avviso, rappresentatano in quale misura le commedie di costume possanoproporre una critica riflessiva mirata a offrire un’analisi politica e sociale sutematiche importanti. Nel caso specifico Virzı tratta del mondo del lavoro, con piuo meno successo, ma sempre alla ricerca di un linguaggio cinematografico chepossa collegare le realta individuali dei vari personaggi con una riflessione, undiscorso politico, sociale ed economico su larga scala, capace di coinvolgere ancheil grande pubblico.

Prima di tutto va riconosciuto al regista il merito, tra gli altri, di concentrarsi suuna tematica, quella del mondo del lavoro e della sua evoluzione, che il cinemarappresenta pochissimo, soprattutto se si pensa a quanto la posizione lavorativapossa di fatto influenzare i rapporti sociali e la vita di tutti i giorni delle persone,con particolare riferimento alle classi sociali piu deboli e marginalizzate.4

Un’evoluzione che vede il passaggio da un’era lavorativa ‘moderna’, in cui illavoro stabile e duraturo definiva l’identita personale e sociale degli individui egarantiva un’integrazione sociale, a un’era che potremmo chiamare pienamente‘postmoderna’, a partire dai primi anni ’90, periodo in cui si diffondono i nuovicontratti di lavoro flessibili che producono precarieta, instabilita e incertezza. A talproposito vari studiosi hanno analizzato questo fenomeno, tra i quali ZygmuntBauman, che spiega come l’uomo postmoderno si trovi a vivere nella modernitaliquida, cioe in un mondo in continuo rapido movimento e cambiamento chegenera una condizione di insicurezza lavorativa, sociale, esistenziale e personale.5

E mentre La bella vita, Ovosodo e Baci e abbracci si concentrano sul passaggio damoderno a postmoderno,6 Tutta la vita davanti rappresenta a pieno l’eralavorativa postmoderna rappresentando, oltre alla marginalizzazione dei sinda-cati, l’esperienza del precariato e dell’incertezza in una delle tante effimere tappelavorative attualmente offerte ai giovani (e non solo ai giovani). Come spiega

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Bauman, in questo contesto di modernita liquida e di incertezza le persone vivonomoltissime esperienze lavorative differenti e sempre piu effimere, muovendosicontinuamente tra gruppi lavorativi diversi, modificando le proprie appartenenzesociali. La difficolta sta proprio nel riuscire a creare un’identita armonica ecoerente ricomponendo queste brevi esperienze di lavoro frammentarie.7 Illavoratore postmoderno, che la protagonista di Tutta la vita davanti incarna allaperfezione, a differenza del lavoratore del passato, costruisce la propria identita inbase ai riferimenti sociali dei gruppi lavorativi in cui si trova a transitare. Untransito che diventa sempre piu effimero col passare del tempo: l’identificazionecon il lavoro tende a diventare sempre piu immediata perche superficiale, fragile epronta ad essere recisa da un momento all’altro proprio per la natura stessa dellavoro precario e dei contratti a tempo determinato.8 Richard Sennett parla invecedi ‘corrosione’ dell’identita, mettendo in risalto l’impossibilita nella societa attualedi perseguire obiettivi a lungo termine, come plasmare e crearsi un’identita stabilein un’economia che ruota attorno al breve periodo. In breve, Sennett si chiede inche modo possiamo decidere quali delle nostre caratteristiche, dei nostri tratti,meriti di essere conservato nella creazione della nostra identita all’interno di unasocieta impaziente, che si concentra sul momento. Questa, secondo Sennett, e lasfida principale che il capitalismo flessibile impone al lavoratore postmoderno.9 Ede proprio questo il messaggio che Virzı lancia in Tutta la vita davanti: rendereesplicito e mostrare, in chiave comica ma in modo del tutto inequivocabile, ildisastroso risultato finale delle conseguenze di questa perversa relazione tra lavoroflessibile/precario e ricerca dell’identita e cioe il fatto che l’unica possibilita offertaal lavoratore postmoderno, come sostiene Bauman, sia il tentativo, pressochevano, di unire i vari frammenti di identita effimeri e superficiali per comporreun’identita stabile e coerente. Un compito praticamente impossibile da portare atermine perche, come spiega Sennett, le caratteristiche dinamiche e mutevoli dellasocieta postmoderna sono in netta contraddizione con quelle stabili e permanentidi un’identita solida e armonica.10

Da questa brevissima analisi sull’evoluzione del mondo del lavoro emergonochiaramente l’impegno politico e sociale di Virzı e le sue scelte ideologiche.11

Quello che pero viene spesso messo in discussione e che vuole essere al centro diquesta analisi e lo strumento attraverso il quale questo impegno si concretizza. Sitratta di tematiche rielaborate e proposte dal registra livornese in chiave comica econ tutte le costrizioni imposte dal mercato cinematografico specialmente inambito di produzione e post-produzione con cui devono fare i conti quei film che sipropongano di soddisfare le esigenze del grande pubblico. Per dirla con Zagarrio‘La regia di Virzı e al servizio dello spettatore, cosı come il suo lavoro disceneggiatore’.12 Potremmo dedurrne che da cio derivi un impegno e una criticadiluiti, sfumati, nel caso di Virzı, ad esempio, dal bisogno di sentimentalismo, dievasione e di finali, solo all’apparenza a mio avviso, consolatori e ottimistirivendicati in genere dal grande pubblico.13 Elementi che invece possonocontribuire ad incrementare la portata di analisi e critica politica e sociale delleopere in questione, proprio perche buona parte dei film commerciali sonopotenzialmente in grado di espandere alla societa di massa il rinnovato concetto diimpegno.14 Nel contesto della commedia all’italiana degli anni ’60 e ’70, AlanO’Leary ci ricorda come la tipica ambivalenza delle commedie di costume, basatasulla dicotomia critica di costume/fini commerciali e in particolare sull’approccio

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moralistico/opportunistico nei confronti dell’oggetto della satira, abbia comeconseguenza una critica dei personaggi — che in genere riflettono il peggio degliitaliani — e delle tematiche che si prefiggono di affrontare tanto ambigua quantosuperficialmente fraintesa. Da qui, O’Leary sottolinea, nel nuovo contesto diimpegno postmoderno, l’importanza del ruolo ‘attivo’ dello spettatore a cui vienerichiesto non solo di assistere e godersi quel momento di evasione, ma anche dirielaborare e giudicare la moralita delle azioni che vede sullo schermo benche sianofiltrate e solo all’apparenza attutite dal filtro della commedia.15 Il ruolo dellospettatore quindi non si limita ad una semplice reazione istintiva alla scena comicadalla quale potremmo erroneamente dedurre che approvi moralmente ilcomportamento dei personaggi sullo schermo per quanto scorretto sia. Una voltasuperata la fase di reazione iniziale che si materializza in un sorriso o una risata, lospettatore rielabora la scena comica producendo una critica del tutto soggettiva delpersonaggio, e quindi di se stesso, e della tematica oggetto della satira. Si prendacome esempio il seguente passaggio tratto da La commedia all’italiana diGiacovelli:

immaginate un uomo che passeggia in una via del centro. A un certo puntoinciampa e cade esclamando ‘‘a momenti cadevo’’. La gente quasi lo calpestatanto e presa dalla propria fretta, dalla propria indifferenza. L’uomo magarisi rialza, traballante e un po’ pesto, e borbotta tra se o rivolto alla macchinada presa: ‘‘Bella societa: qui, se cadi, ti calpestano subito’’. Poi si allontanazoppicando in mezzo alla folla impassibile. Come reagisce lo spettatore?Sulle prime lo spettatore ride di gusto ma poi il riso gli si blocca in gola. Egliinfatti sa di essere chiamato in causa, di essere allo stesso tempo l’uomocalpestato e la gente che lo ha calpestato: sa di aver visto una verita messa incommedia.16

In tale scena le strategie tipiche della commedia producono divertimento e possonosembrare inizialmente innocue. E proprio in un secondo tempo tuttavia, nella fasedella rielaborazione, che lo spettatore riacquista una certa consapevolezza delleimplicazioni della situazione ‘comica’ in cui si trova il personaggio. Questopassaggio e quindi fondamentale perche e proprio in questa fase che il lato serio eriflessivo della commedia viene riconosciuto e assimilato, sviluppando potenzial-mente su larga scala quella nozione di impegno tradizionalmente associata elimitata all’autore, o meglio all’opera in questione, e ad una stretta cerchia diintellettuali. E nonostante il fatto che le commedie possano mettere a repentaglio illoro potenziale critico per soddisfare le esigenze degli spettatori, rischiando lasemplificazione, lo stereotipo e il qualunquismo, le comiche disavventure di cuisono protagonisti i personaggi di Virzı, tramite la loro semplicita e umilta, la loroinadeguatezza al contesto sociale che fa da sfondo alle loro storie, invitano ilgrande pubblico non solo ad una superficiale identificazione con i personaggi piudeboli, ma anche ad una riflessione mirata e specifica.17 E soprattutto a unarielaborazione delle scene comiche — e al tempo stesso drammatiche, nellatradizione della commedia all’italiana — e quindi ad assumere potenzialmente unpunto di vista critico nella discussione di questioni politiche e sociali. Molte sonole scene tipiche della commedia di costume adattate all’epoca postmoderna inTutta la vita davanti che esemplificano tale procedimento cognitivo e invitano lo

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spettatore ad un’autocritica e ad una riflessione sul precariato e su altre tematichelegate all’evoluzione del mondo del lavoro: dalla travolgente quanto iperreale egrottesca coreografia messa in scena all’inizio del turno di lavoro dalle telefonistedella Multiple alla superficiale e sterile solidarieta di alcuni esponenti di quellasinistra colta legata al mondo dello spettacolo (Serena Dandini, FrancescaArchibugi, lo stesso Virzı e molti altri) che emerge all’uscita dalla rappresentazioneteatrale satirica sul precariato organizzata dal sindacato. In questa scenaparticolarmente cinica e crudele, a questi ‘intellettuali benpensanti’, come li hadefiniti lo stesso Virzı,18 la protagonista si trova improvvisamente e con grandeimbarazzo e umiliazione a stringergli la mano presentandosi in qualita diesemplare incarnato di precario: ‘Marta, precaria della Multiple’. Come sottolineaZagarrio, il cinema di Virzı ‘e un cinema ‘politico’, anche se ironico e autoironicosino al limite della presa in giro beffarda; un cinema di apologhi morali, travestitida gag e da farse’.19 E tramite un cinema che nasconde dietro la superficie del risoun chiaro impegno politico, sociale ed etico basato sull’antiegemonia esull’autocritica ironica in seno ad una certa classe sociale o ‘constituency’,20 comela summenzionata crudele scena degli ‘intellettuali benpensanti’ dimostra a pieno,Virzı, con piena consapevolezza, tenta di coinvolgere anche il grande pubblico, omeglio la gente comune che va al cinema in cerca di evasione, in una riflessione sutematiche politiche, sociali ed etiche essenziali anche in un’epoca, quellacaratterizzata dalla modernita liquida, che non sembra lasciare tempo per leriflessioni, nemmeno per quelle piu superficiali. Va infine aggiunto che benche lescelte ideologiche del regista livornese non lascino spazio a dubbi, Virzı dimostradi aver assimilato a pieno l’essenza del concetto di impegno in seno alla commediaall’italiana — sicuramente anche grazie all’insegnamento di Furio Scarpelli — che,per dirla con Christian Uva e Michele Picchi, possiamo sintetizzare come segue:‘partire dalle viscere, dalla fame del personaggio per arrivare alla realta edescriverla cercando il riso, senza pregiudizi concettuali della realta, senzaescludere dal proprio sarcasmo alcuno schieramento, alcuna parte politica, socialee culturale’.21 Lo stesso Virzı afferma:

Non e facile parlare del proprio tempo, parlare dell’Italia di oggi […] perchepossono prevalere atteggiamenti moralistici, di sdegno, di indignazione apriori. Invece noi volevamo fare un film [Tutta la vita davanti] che fosseanche pieno di curiosita verso un mondo che apparentemente sembrerebbemeritare la nostra condanna pregiudiziale […] [e questo si riflette] nelleperipezie tragicomiche di una ragazza colta e curiosa che non ha unosguardo pregiudiziale e spocchioso verso la realta contemporanea, verso lesottoculture pop.22

In un’intervista a Daniele Segre, riportata da Elisa Veronesi nel suo Cinema elavoro, il regista afferma di mettere il mondo del lavoro nelle sue pellicole perchecol cinema intende proporre riflessioni sulla realta, non evasione fantastica. EVeronesi nota che forse proprio questo ci fa capire il motivo per cui il lavoro siastato scarsamente rappresentato nel cinema, almeno fino a non molti anni fa,proprio per il carattere di evasione che il cinema per lo piu ha assunto nel nostrotempo.23 A tal riguardo, a proposito di Mi piace lavorare (mobbing) (2003) diFrancesca Comencini, Tullio Kezich ha scritto sul Corriere della Sera: ‘Mi piace

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lavorare meriterebbe di essere visto e meditato da molti; ma il problema e semprequello dai tempi del neorealismo: ha voglia la gente entrando in un cinema diritrovare sullo schermo gli aspetti crudi della realta?’24 Ci chiediamo quindi separte della troppo facilmente criticata commedia italiana contemporanea — e nonmi riferisco solo ai film virziani ma anche a Sud (1993) di Gabriele Salvatores,Ricordati di me (2003) di Gabriele Muccino, Senza arte ne parte (2011) diGiovanni Albanese e molti altri — insomma se questa rinnovata commedia dicostume all’italiana, spesso capace di offrire una miscela fatta sı di evasione, maanche di critica impregnata di un rinnovato impegno postmoderno, sia il veicoloestetico per riuscire a coinvolgere il grande pubblico in un’autocritica spettatorialeche risvegli sempre piu l’interesse ed inviti ad una riflessione su tematiche politiche,sociali ed etiche tanto fondamentali quanto neglette, senza cadere pero nellatrappola dell’imposizione di cliche ideologici.

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NOTES

1 Per l’evoluzione del concetto di impegnoin epoca postmoderna si veda Jenni-fer Burns, Fragments of Impegno:Interpretations of Commitment inContemporary Italian Narrative, 1980-2000 (Leeds: Northern University Press,2001) e il volume Postmodern Impegnoa cura di Pierpaolo Antonello e FlorianMussgnug (Bern: Peter Lang, 2009).

2 Tra gli altri questi concetti furono messiin risalto in ambito di critica letterariada Giuseppe Petronio, in principio inTrivialliteratur?, a cura di GiuseppePetronio e Ulrich Schulz-Buschhaus(Trieste: Lint, 1979) e in seguito in altrisaggi. Si veda a tal proposito GiuseppePetronio, Sulle tracce del giallo (Roma:Gamberetti Editrice, 2000).

3 Si veda Antonello e Mussgnug (a curadi), Postmodern Impegno, p. 20.

4 Si veda a tal riguardo la prefazione alvolume Cinema e lavoro di Elisa Veronesi(Torino: Effata, 2004), pp. 7–14. Edoveroso anche aggiungere che, in terminigenerali, se e vero che negli ultimivent’anni il cinema e poco attento almondo del lavoro, e anche vero pero chenell’ultimo decennio qualcosa in questosenso sta cambiando, come dimostranoad esempio l’inaugurazione, nell’estate del2003, della prima edizione del Festival diCinema e Lavoro di Terni (,www.cinemaelavoro.com.) e i numerosi filmitaliani usciti negli ultimi anni che stanno

creando un vero e proprio ‘filone’ incen-trato sul mondo del lavoro. Tra questi, ifilm dello stesso Virzı ma anche Parolesante (2007) di Ascanio Celestini;Generazione mille euro (2008) diMatteo Venier; Tutti giu per aria (2009)di Francesco Cordio; Caro parlamento(2008) di Giacomo Faenza; Mi piacelavorare (mobbing) (2003) di FrancescaComencini; Cresceranno i carciofi aMimongo (1996) di Fulvio Ottaviano;Vesna va veloce (1996) di CarloMazzacurati; Forse sı ... forse no (2004)di Stefano Chiantini; Santa Maradona(2001) di Marco Ponti; La fabbrica deitedeschi (2008) Mimmo Calopresti; Lasvolta. Donne contro l’ILVA (2010) diValentina D’Amico; Morire di lavoro(2008) di Daniele Segre, e molti altri.

5 Si vedano a tal riguardo Zygmunt Bau-man, La societa dell’incertezza (Bologna:Il Mulino, 1999) e Modernita liquida(Roma-Bari: Laterza, 2002).

6 Virzı sin dall’inizio della sua carriera siconcentra su un mondo lavorativo in fasetransitoria e non a caso i protagonisti deisuoi film — le vere vittime di questomutamento economico, politico, e sociale— appartengono alle classi meno agiate epiu vulnerabili. Per un approfondimentosulla rappresentazione del mondo dellavoro in Ovosodo si veda Elisa Ver-onesi, Cinema e lavoro, pp. 154–57. Perun’analisi di Baci e abbracci nel contesto

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del progetto ‘A New Italian PoliticalCinema?’ si veda il volume Un nuovocinema politico italiano, vol. 1, a cura diWilliam Hope, Luciana D’Arcangeli, eFabiana Stefanoni (Leicester: Troubador,2013).

7 Zygmunt Bauman, cit. in Elisa Veronesi,Cinema e lavoro, p. 70.

8 Bauman cit. in Elisa Veronesi, p. 70.9 Si veda Richard Sennett, L’uomo flessi-

bile. Le conseguenze del nuovo capita-lismo sulla vita personale (Milano:Feltrinelli, 1999).

10 Oltre alle opere citate di Bauman eSennett, un conciso ma esaustivo quadrodelle teorie sull’identita e il mondo dellavoro viene tracciato da Elisa Veronesi,Cinema e lavoro, in particolare nelcapitolo ‘L’identita al lavoro e il lavorodell’identita’, pp. 44–87.

11 Si noti che in questo contesto il mondodel lavoro e stato preso come esempiotra le varie tematiche politiche, socialied etiche affrontate da Virzı nei suoifilm tra cui, ad esempio, il contrasto tracultura di destra e di sinistra in Feried’agosto (1996) e Caterina va in citta(2003), oppure il fenomeno della sedu-zione tra leader politico e popolazionein N. – Io e Napoleone (2006). Per unapiu ampia riflessione sul rapporto traVirzı e la politica si veda AlessioAccardo e Gabriele Acerbo, My nameis Virzı (Genova: Le Mani, 2010) inparticolare il capitolo ‘La politica.Dalla parte dei piedi’, pp. 223–33.

12 Vito Zagarrio, ‘La bella societa. Identita,politica e ideologia nella commedia ‘‘post-moderna’’ di Paolo Virzı’, inLo spettacolodel reale. Il cinema di Paolo Virzı, a curadi Federico Zecca (Ghezzano: FeliciEditore, 2011), pp. 29–38 (p. 31).

13 Vedi Luciana D’Arcangeli, ‘Un nuovocinema politico italiano? Indagine su uncontenuto al di la di ogni sospetto’, TheItalianist, Film Issue, 32.2 (2012), 300–08 (pp. 303–04).

14 Come detto in precedenza, si tratta diuna selezione che puo emergere solo daun’accurata analisi critica che acquistavalidita se fatta autore per autore, operaper opera, non esclusivamente in base al

genere di appartenenza nel suo insieme esoprattutto riconoscendo l’importanzadello spettatore e quindi della ricezionedell’opera artistica.

15 Alan O’Leary, ‘‘‘In pieno fumetto’’:Bertolucci, Terrorism and the commediaall’italiana’, in Terrorism, Italian Style:Representations of Political Violence inContemporary Italian Cinema, a cura diRuth Glunn, Giancarlo Lombardi e AlanO’Leary (London: IGRS Books, 2012),pp. 45–62 (pp. 56–57).

16 Enrico Giacovelli, La commedia all’i-taliana (Roma: Gremese, 1990), pp. 7–9. Si noti che questo esempio vienecitato con valore universale in quantorappresentativo della tipica commediadi costume all’italiana, benche il testooriginale tratto dal volume diGiacovelli faccia riferimento alla com-media all’italiana in un contesto stor-ico-politico-sociale ben preciso, gli annidel miracolo economico, tempi bendiversi da quelli in cui sono ambientatii film di Virzı che tuttavia ne condividetanti aspetti basilari come l’umanesimo,il cinismo ecc. Per un conciso parallelotra la commedia all’italiana degli anni’60 e i film di Virzı si veda Zagarrio, p.31.

17 Per alcune considerazioni sul modo incui Virzı facilita l’identificazione deglispettatori con i personaggi dei suoi filmsi veda Zagarrio, p. 32. Un’attenta einteressante analisi comparativa diTutta la vita davanti e altri film digenere, attingendo in particolare ateorie postfemministe, e stata propostada Danielle Hipkins nel contesto delprogetto ‘A New Italian PoliticalCinema?’, in particolare nel workshopche si e tenuto a Londra il 27 novembre2010. In breve, Hipkins ha messo inrisalto come alcuni di questi filmall’apparenza innocui, concentrandosisu protagoniste femminili, sfruttino gliideali femministi a fini commercialiproponendo talvolta un’immaginedegradante della femminilita. Cio riflet-terebbe quindi una certa tendenza dellacultura contemporanea di sinistra avoler focalizzare sulla sessualita e sui

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corpi delle giovani donne italiane laresponsabilita per varie colpe politichecontemporanee, in linea con la tipicatradizione paternalista del cinemaitaliano. Secondo Hipkins, a farnele spese sarebbe quindi il pubblicofemminile.

18 Si veda la versione del film commentatadal regista inclusa negli extra del DVDTutta la vita davanti (2008) MedusaFilm e Motorino Amaranto.

19 Zagarrio, p. 32.20 Per un approfondimento sul concetto di

constituency (elettorato) in tale contestocinematografico si veda Alan O’Leary,Tragedia all’italiana: Italian Cinemaand Italian Terrorisms, 1970–2010(Oxford: Peter Lang, 2011) in partico-lare il capitolo sesto ‘Constituencies ofMemory’, pp. 185–227.

21 Christian Uva e Michele Picchi, Destra esinistra nel cinema italiano (Roma:Edizioni Interculturali, 2006), p. 16.Questo concetto viene esemplificato dagliautori rievocando una conversazione,tanto divertente quanto delucidante, traNanni Loy e Toto su come interpretare unpersonaggio comico (p. 15). Si vedainoltre il summenzionato volume, per unapprofondimento su come si riflettel’ideologia politica sulla commedia all’i-taliana degli anni ’60 e su altri ‘filoni’appartenenti al cosiddetto cinema digenere.

22 Intervista a Virzı inclusa negli extra delgia menzionato DVD Tutta la vitadavanti.

23 Elisa Veronesi, Cinema e lavoro, p. 209.24 Tullio Kezich, Corriere della Sera, 12

febbraio 2004.

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