1 Istituto Comprensivo “Lanza-Milano” - Cassano allo Ionio Scuola secondaria di 1^grado A.S. 2014/2015 Tristi echi dal passato… Docente Vigna Rosaria Classe III^C
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Istituto Comprensivo “Lanza-Milano” - Cassano allo Ionio
Scuola secondaria di 1^grado
A.S. 2014/2015
Tristi echi dal passato…
Docente
Vigna Rosaria Classe III^C
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Indice
1. “Lottate” pag. 3
2. Prefazione 4
3. Introduzione 7
4. Ricordi e pensieri 9
5. Appunti sul treno 15
6. L’addio 17
7. E’ impossibile dimenticare 19
8. Il campo negli appunti di un bambino 21
9. La follia umana non conosce confine 26
10. La vita nel campo 29
11. La speranza 30
12. La disperazione 32
13. La mia storia è uguale a quella di tanti altri… 36
14. La classe 41
15. Riferimenti bibliografici 42
16. Documenti 43
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“Dedicata a chi soffre e
ha perso ogni speranza,
in qualunque tempo e in ogni dove…”
Gli alunni della III^C
“LOTTATE”
Non cadete!
Non cedete!
Lottate!
Lottate!
A un passo tra la vita e la morte,
a un passo tra la terra e il cielo,
Lottate!
Per tornare al vostro antico splendore,
Per rimanere in questo mondo crudele
In cui regna la causa delle vostre disgrazie!
Lottate!
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Prefazione
Nel corso della storia gli atteggiamenti di superiorità, la classificazione della
popolazione in razze e la convinzione che una razza sia migliore e superiore
alle altre hanno avuto conseguenze disastrose. Una delle pagine più buie e
tragiche della storia della storia dell’umanità, è stato il genocidio del popolo
ebraico, conosciuto come Shoah, da parte dei nazisti che, nella loro follia,
consideravano la razza ariana superiore alle altre. Nel 1935, in Germania
vennero promulgate le leggi razziali per “la protezione e l’onore della razza
tedesca”e tutto ciò che poteva nuocere alla purezza della razza Ariana venne
sistematicamente distrutto. Durante la seconda guerra mondiale la Germania
nazista trasformòI campi di lavoro in campo di sterminio il cui unico scopo era
quello di uccidere I prigionieri che vi giungevano. I nazisti rinchiusero nei
campi di sterminio: ebrei, zingari, slavi, portatori di handicap, oosessuali,
testimoni di Geova e oppositori politici. I nazisti miravano ad attivare la
cosiddetta soluzione finale del problema ebraico che consisteva nell’uccisione
di tutti gli ebrei d’Europa, compresi nella sfera d’influenza politica del Terzo
Reicht.I campi di sterminionazisti furono create sulla base di un complesso
programma organizzativo e causarono la morte di million di ebrei di ogni età e
sesso tramite l’uso di gas tossici o fucilazione. Nei campi di concentramento
uomini e donne venivano privati della loro identità, ridotti ad un numero,
considerati non più esseri umani ma bestie. L’attività di annientamento nei
campi di sterminio rappresentò la fase culminante e più tragica dell’Olocausto.
In Italia le leggi fasciste furono in vigore dal 1938 al 1944. Esse erano
principalmente contro gli ebrei che non potevano sposarsi con altri cittadini
italiani, e non potevano svolgere professioni di notai o giornalisti o di
dipendenti pubblici. Inoltre I ragazzi non potevano sndare a scuola. Alcuni
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sopravvissuti nei campi hanno scritto o raccontato la loro esperienza per dare
tesimonianza dell’orrore vissuto in prima persona e per far sì che le
generazioni fture conoscano e, soprattutto, non dimentichino ciò che è
successopoichè come dice Brecht, la “matrice che ha partorito questo mostro è
ancora feconda”e assume ora l’aspetto dell’intolleranza, ora quello
delrazzismo e del nazionalismo, ora quello della negazione dei diritti. Abbiamo
scelto diverse narrazioni memorialistiche per i seguenti motivi:
1. Documentarci sullo svolgimento di determinati episodi e cercare di
ricostruire la cultura e la mentalità del periodo
2. Arricchirci di testimonianze importanti
3. Riflettere su esperienze che ci hanno aiutato a maturare interiormente e,
a volte, a rivedere idee e posizioni.
Attraverso la lettura, l’analisi del testo, schede linguistiche e con l’uso di
tecniche narrative diverse (flashforward, flashback, dialoghi ect), abbiamo
fatto nostri i sentimenti dei protagonisti, siamo entrati nelle situazioni e nei
loro stati d’animo. Abbiamo studiato e approfondito il periodo storico
attraverso ricerche in rete o tra vecchi testi, abbiamo scoperto che non è un
passato molto lontano da noi e che innumerevoli sono le attinenze con il
presente. Lavorare in gruppi eterogenei ci ha permesso di superare alcune
barriere che senza accorgecene avevamo eretto tra di noi ed ha reso lo
studio più interessante e coinvolgente.
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Introduzione
Levi afferma che “conoscere è necessario” perché non si può
dimenticare ciò che è accaduto. Non sappiamo se sia meglio
dimenticare o ricordare perché dimenticando nessun pazzo potrà far sì
che riaccada ciò che è già accaduto, ma l’uomo è fatto per odiare, per
annientare chi gli sta attorno e quindi anche non conoscendo,
chiunque potrebbe idearlo nuovamente. Anzi, la triste realtà è che
l’uomo lo sta già facendo, senza che nessuno se ne renda conto, l’odio
che accomuna tutti gli uomini per quelli della sua specie, non è mai
cessato. La guerra continua tutt’ora e, nessun’ associazione guidata
dall’ uomo sarà in grado di evitare le guerre: non ne è stata capace la
Società delle Nazioni e non ne è capace neanche l’ONU. O
dimenticando ciò che è accaduto o ricordandolo l’uomo continuerà a
causare morte e distruzione. È, quindi, giusto ricordare non per
impedire che ciò riaccada, perché sta già riaccadendo e continuerà a
riaccadere, ma per tutte le vittime di ieri e di oggi.
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Ricordi e pensieri
Auschwitz, 3 giugno1942
Cara Meredith,
sono tre mesi che sono qui, mi stupisce il fatto di essere ancora vivo, di essere
ancora io. Lo stesso Jordan di cui ti sei innamorata … posso scriverti solo
adesso e ti chiedo scusa se per tre mesi non ti ho dato mie notizie,
probabilmente non ci rivedremo più e mi fa soffrire molto dirtelo cosi. Ricordo
ancora quando ci hanno deportato ad Auschwitz, e dico “ci hanno” perché
con me ci sono tanti altri di ebrei. Eh sì … è questa la mia colpa, essere un
EBREO!
Ricordo il viaggio in treno, avevo capito dov’eravamo diretti, Sapevo
benissimo delle camere a gas, le avevo create io, ero a conoscenza della morte
di tante persone … tante quante le stelle del cielo, tante quanto ogni
minuscolo granello di sabbia di una spiaggia grande, grandissima. Vorrei
poter tornare indietro per evitare la morte di ogni uomo, donna e bambino.
Tu non puoi immaginare quanti bambini c’erano con me sul treno.
Tu non puoi immaginare quanti bambini ho visto morire a causa mia. Mi
sento in colpa! Non sono un uomo sono una bestia!
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La vita nel lager è dura, non si può di certo vivere cosi, trattati senza
dignità alcuna come animali. Non si può continuare a vivere se non si ci
lava, se si è scheletri … sì scheletri senza né cibo né acqua costretti lavorare
giorno e notte
senza nessuna ricompensa.
Spiegami tu come si riesce a rimanere un uomo, un uomo senza affetti,
costretto a guardare la propria discendenza spegnersi e svanire piano senza
poter far nulla.
Come può un uomo fare tutto questo, come può un uomo sterminare miliardi
di ebrei con la convinzione della superiorità assoluta della razza ariana, e
senza il minimo scrupolo? Come può scomparire l’UMANITA’?
Non mi sento un uomo se mi viene gridato addosso, sono diventato fragile,
malnutrito, non ho più un nome. Sono un numero, una cosa.
I miei compagni mi dicono di non arrendermi, ma perché non dovrei farlo?
Starei meglio di come sto? Piacerei di più a qualcuno? Vivrei un giorno,
un’ora in più? Tanto vale che finisca una vita che non può essere definita
tale.
Vivi ogni giorno della tua vita come se fosse l’ultimo, goditi ogni attimo di
vita.
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Sii felice e vivi anche per me.
Jordan Swarzchen,84567
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Ricordi e pensieri
Milano, 1948
Cara Sarah,
è passato molto tempo da Ferramonti, da quell’ultima volta, vero?
Io ricordo ancora quei giorni come se non ci fossimo mai separati. Come se
fossimo ancora nelle vecchie baracche fredde e buie, ma che non avevano nulla a
che fare con quelle di Aushwitz, che profumavano di sogni e ricordi.
Dei sogni che facevamo noi prigionieri, sperando in una vita nuova oltre il filo
spinato del campo, e dei ricordi belli dei momenti passati accanto a persone care
che si trovavano dall’ “altra parte”.
Passeggiando per le strade, oggi, mi sento libero.
Posso di nuovo guardare il cielo, le nuvole, senza preoccuparmi di essere
sparato da qualcuno, perché ora non ci odiano più.
Oh, Ferramonti! Loro ci odiavano, ma tra noi non c’era odio, c’era amore! A
Ferramonti ci volevamo bene ed eravamo uniti. Quella “permanenza”, che
tanto breve non fu, ora vive nella nostra memoria. Ed i momenti trascorsi,
ormai parte di un passato che non ha futuro, erano diversi da quelli degli
internati di Aushwitz. Perché gli ebrei nei lager tedeschi, non dovevano
mostrarsi felici, potevano morire da un momento all’altro per un semplice
capriccio di chi comandava e non accettava sorrisi. Perché? Perché colpevoli di
appartenere alla razza ebraica, non potevano abbracciarsi, dormire a lungo, gli
era impedito di lavarsi con acqua pulita, di mangiare cibo sano, costretti a
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lavorare per guadagnarsi “un giorno in più” anche se malati, stanchi, per poi
invecchiare ed essere uccisi con metodi violenti, perché ormai inutili, come
animali, come bestie. I racconti di chi è sopravvissuto sono strazianti, mi fanno
sentire in colpa per essermi lamentata di Ferramonti. I più elementari diritti
ad Auschwitz, erano negati e le persone non volevano sopravvivere a
quell’incubo, ma speravano di morire al più presto per non essere obbligati, un
domani, a ricordare quel che è stato. Noi, invece, potevamo mangiare, lavarci,
e, per quanto fosse brutto vivere in un campo di concentramento, ci divertivamo
e sorridevamo, volevamo restare vivi, per uscire dai cancelli di Ferramonti e
riabbracciare gli amici, per poter testimoniare tutto quello che ci hanno fatto ma
anche per poter far conoscere i gesti di chi ci ha aiutato e ha avuto pena di noi
poveri ebrei.Ora che siamo veramente liberi Sarah, spero che tu non abbia già
dimenticato Ferramonti e me, il tuo caro amico.
Ti auguro una buona vita!
Jordan.
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Visita al campo “Ferramonti” di Tarsia – Planimetria del campo
Le brande
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Appunti sul treno
Varsavia,23novembre 1940
Carissimo diario,
questa tragica avventura non cessa mai come desidero che
un giorno tutto questo finisca, ho solo voglia di ritornare
alla mia vita. In questa dura realtà, fra questi vagoni, tu
diario, sei la mia unica dolcezza. Si perché scrivendo queste
pagine dimentico la dura realtà che mi attente e penso…
penso se tutto questo fosse soltanto un incubo, da cui
svegliarmi, ma purtroppo non è così. Qui è dura, nessuno ha
pietà. Veniamo trattati da animali noi, noi che veniamo
rinchiusi e che abbiamo la colpa di essere EBREI. Noi che
prima vivevamo la nostra vita siamo stati privati di tutto.
Ci hanno raggruppati, buttati gli uni sugli altri all’interno
di vagoni, siamo animali. Qui, chiusi in questi treni, in
cui siamo privati persino dell’aria per respirare. Siamo in
molti a soffrire la fame, la sete e il freddo. Mi giro e vedo
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visi sconvolti, occhi tristi, preoccupati e incerti, madri con
figli e noi adulti soffriamo in silenzio per non trasmettere
loro le nostre paure. Siamo in condizioni pessime. Eppure
nessuno fa nulla, non sappiamo quando questo treno si
fermerà e dove ci porterà. Non sappiamo quello che ci
aspetta. Ho paura…...
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L’addio
Camisano Vicentino, 3 ottobre 1941
Caro amore mio,
questa è l’ultima volta che ti parlo, l’ultima volta che ti posso scrivere. Anche
se sono molto arrabbiata con te, non posso tenere rinchiusi nel cuore i miei
sentimenti. Non sono neanche moltissimi giorni che non ci vediamo e già sento
la tua mancanza, la mancanza dei tuoi baci, dei tuoi abbracci che mi facevano
sentire più importante di quanto i nazisti mi considerano. Il tuo cuore è troppo
distante dal mio ora. Manca una parte di me quando non ci sei. Ma io lo so
che il legame che ci unisce è più forte. Più forte di mille chilometri, più forte di
tutta la sofferenza, del dolore passato. Mi mancano i tuoi sorrisi che non so
per quale motivo facevano sorridere anche me. Ti guardavo quasi stregata da
ogni tua parola e dalla tua voce. Oh, quella voce! Quella voce così calda che
adesso non sentirò più. Se solo ci riuscissi smetterei di piangermi addosso e di
ricordarti. Perché fa male il ricordo di qualcosa che si aveva, a cui ci si teneva
molto, e che ora invece, non si ha più e non potrà più tornare. Ma è inutile
scappare dai ricordi, perché solo ora ho capito che ci sto affogando dentro. Non
riesco a capacitarmi del fatto che tu oggi, non eri presente alla mia partenza.
Forse eri incapace di dirmi addio. Ma forse per te sono solo un ostacolo, una
cosa di cui doversi vergognare. Ora ho capito di essere un difetto vero e proprio.
Sento la mancanza della tua pelle sulla mia, la percepisco sul corpo, come si
percepisce il freddo che regna nel mio vagone, dove ragazze, ormai sole sono
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state strappate dall’ amore del proprio fidanzato che non può più riscaldarle e
proteggerle come tu facevi con me. Mi proteggevi tra le tue braccia forti che mi
facevano sentire al sicuro. Sono in un vagone buio e stasera, io e la piccola
Anna, rifugiate in un angolo, siamo riuscite a guardare le stelle, che
nonostante tutto quello che ci sta capitando, brillano ancora. Si dice che le
stelle cadenti aiutino a realizzare desideri, allora io ne vorrei esprimere uno,
quello di rivederti, perché nonostante in mezzo a tutti questi problemi tu rimani
sempre il mio primo pensiero. Capisco che forse avrai paura di restare legato a
me, ad un ‘ Ebrea, ma sono convinta che il nostro amore vada oltre ogni
convinzione sociale. Se potessi tornare indietro, ti stringerei molto più forte di
come già facevo, da farmi restare il tuo profumo addosso. Ti abbraccerei, e non
m’ importerebbe se l’abbraccio ti spezzasse le ossa perché servirebbe ad
aggiustarci il cuore che batte, nonostante tutto, ancora accanto al mio.
Tua per sempre Vivian…
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E’ impossibile dimenticare
Torino, 22 agosto 1949
Caro diario,
tu ora, come allora, sei la mia unica fonte di salvezza. Era il lontano 23 febbraio
del 1944, pensavo che finalmente quella sarebbe stata la data della fine, che saremo
ritornati tutti a casa e che quell’orrore, quell’incubo, sarebbe finito, ma non fu così.
Fummo così costretti ad entrare di nuovo in uno, ancora una volta, in uno di quei
treni merci, tutti ammucchiati uno sull’altro, senza cibo né acqua, affianco ai nostri
compagni morti. C’era terrore nell’ aria, vedevo occhi vuoti e volti stanchi di tutto
quell’orrore. I primi giorni ancora credevamo in una sorta di salvezza, ma poi
man mano che i giorni passavano, ci rassegnammo a quell’incubo e alla certezza che
nessuno avrebbe potuto cambiarlo. Arrivammo a notte fonda, dopo giorni di
viaggio, al campo di concentramento di Aushwitz. All’inizio ci sembrò un campo
come tutti gli altri ma ci sbagliavamo di brutto… io sono uno dei quattro sopravvissuti
fino alla liberazione del campo.
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Adesso sono finalmente a casa, ma purtroppo quelle immagini mi rimarranno per
sempre impresse nel cuore, una crepa nel petto e un dolore che non dimenticherò mai,
come quel numero tatuato sul mio braccio
Ferramonti,22 Gennaio 2015 – Incontro con Dina Smadar
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Il campo negli appunti di un bambino
Dachau, 23 novembre 1942
Caro diario,
nessuno di noi sapeva cosa sarebbe accaduto
in quelle case, anche se di caldo e accogliente
non avevano nulla, erano sporche tutte vicine
e circondate da uno strano filo che mamma mi
aveva detto di non toccare prima che, davanti
ai miei occhi, le rasassero, e non so perché, i
suoi bellissimi capelli biondi. Il treno che ci
portò alla nostra nuova casa, non era come
quello con cui giocavo e non mi piaceva
affatto: eravamo tutti costretti a stare stretti
e nessuno ci dava da mangiare e da bere.
Alcuni signori dall’aria molto strana, ci
avevano detto che ci avrebbero serviti dopo,
ma non fu così.Appena arrivammo, mi
separarono da mamma e da papà e mi
portarono da altri bambini. Ci scrissero
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unnumero sul braccio e infilarono a tutti noi,
incapaci di farlo da soli, un pigiama che, però,
invece di tenerci al calduccio, ci fece
raffreddare tutti.I nostri lettini, non erano per
niente comodi e dovevamo dormire in tre. I
miei amichetti si chiamano Luigi e Luca.Noi
tre ci divertiamo tanto a giocare insieme.
Molti bimbi, chissà come mai, piangono
ancora oggi dopo tanto tempo in silenzio, forse
anche a loro manca la mamma come a me, ed
ogni tanto sentiamo degli strani rumori che ci
fanno spaventare molto. Papà l’ho vedo spesso
mentre trasporta qualcosa di pesante e mi
saluta triste, come per scusarsi del suo aspetto.
Sembra tanto stanco ma alla gente in divisa
non importa.
Loro sono persone molto serie. Sono in tanti e
parlano una strana lingua. Loro ci hanno
portati in questo posto ma la nostra,
evidentemente, non è una visita di cortesia. Ci
trattano male e ci picchiano.
Oggi sono molto felice, però. Questi signori ci
hanno appena detto che domani ci porteranno
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a fare una bella doccia calda, ed io la desidero
tanto: è da molto che non mi lavo.
Chissà se la mamma mi aiuterà a sciacquarmi
con la mia spugna preferita. Ti scriverò
domani, ciao diario ti nascondo sotto al letto:
Matteo, il più grande di noi, non viene e fa la
guardia.
A domani, il tuo Davide
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Kopoczinze,15 settembre 1940
Caro diario,
ho solo otto anni, sono un bambino ma ormai
credo di non esserlo più. Mi hanno portato
via da casa, mi hanno tolto ogni cosa e mi
hanno lasciato portare solo una valigia. Ti
sto scrivendo mentre sono su un treno,
viaggio da giorni e non riesco a sopportare la
sete. Ormai la sofferenza è una cosa di tutti i
giorni, ci ho fatto l’abitudine e credo anche
che nel posto in cui andremo non ci saranno
amici e lì non potrò nemmeno più giocare. Non
è giusto! I miei compagni non mi vogliono bene
da tempo, da quando sono obbligato a
portare una stella gialla sul petto. Mamma e
papà sono su un altro vagone e credo che
non li rivedrò mai più, credo che ora loro
andranno via. Credo che quando saremo
arrivati non potrò più scriverti ma tanto che
importa, tanto anch’io non ho la certezza di
svegliarmi, non so cosa mi accadrà, cosa mi
faranno i tedeschi appena arrivato. Non sono
più un bambino! Durante questi giorni di
viaggio, nel mio vagone, sembra di non
respirare perché tutti stiamo uno sull’altro.
E poi nessuno parla da giorni. L’ultima cosa
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che abbiamo detto, è stata chiedere un po’
d’acqua ma nessuno ci ha ascoltato e solo
pochi l’hanno fatto, si sono avvicinati e poi i
tedeschi li hanno mandati via! HO PAURA!!!!
Forse sono l’unico ad averla perché ormai
tutti, nel mio vagone, sanno di morire. Io ho
paura della morte. Ma ormai sono
rassegnato, non posso farci niente. Il lager è
sinonimo di morte e questo lo dico per la
brutalità con cui ci hanno arrestato. A chi si
opponeva, i tedeschi lo fucilavano sul
posto!!! Ho visto mia zia Sara morire fucilata!!
Vorrei che mamma e papà fossero qui. Ciao
diario, speriamo che tutto vada bene e che io
possa tornare a casa, possa tornare a
giocare, possa tornare ad essere un bambino
e soprattutto spero che domani possa
ancora scriverti.Iltuo joseph
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La follia umana non conosce confini…
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LA MIA STORIA…
Sono Vladimir, un quarantenne di nazionalità russa, sono sposato e ho due figli
che non hanno mai conosciuto il loro nonno paterno: nessuno gliel’ ha mai
fatto conoscere, anzila triste realtà e che non lo conosco neanch’io. Ho vissuto
sempre con mia madre, ma adesso che lei è morta mi sono reso conto che
nessuno potrà più parlarmi di lui. Nessuno mi ha maiparlato di mio padre, né
io ho mai chiesto a qualcuno chi fosse. Non l’ho fatto perché nonl’ho mai
avuto, non ho mai compreso quale dovesse essere la figura di un padre fino a
quando non lo sono diventato. Solo adesso mi sono reso conto del vuoto che
la sua assenza ha lasciato dentro di me. Mia madre è morta e, mentre
guardavofra le sue cose, ho notato una strana lettera conservata nell’ultimo
cassetto del suo comodino. L’ho aperta e tra lerighe sbiaditedal tempo, cerco
di leggere, mi accorgo subito che ad inviarla è statoproprio colui che non ho
mai conosciuto: mio padre.
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Cara Svetlana,
Sono ancora qui, rinchiuso in questo campo, ormai non ho più paura
di morire perché la morte ha cominciato ad allontanarsi dalla mia
vita che pian piano si rafforza sempre di più. Ora mi sento come un
albero nella prima fase della primavera ancora spoglio ma che sa di
poter rifiorire, deve solo trovare il coraggio di farlo. Negli ultimi
tempi devo ammetterlo mi sono un po’ trascurato e ho allontanato da
me la voglia di vivere, ma ora come ho detto prima, ho scoperto che
nel mio cuore, che adesso palpita appena, dietro questo filo spinato,
che divide l’orrore che vivo dalla realtà esterna, c’è ancora la voglia
di vivere che ti assicuro mi ha abbandonato solo per un breve
periodo. Ho iniziato a rivivere emozioni come l’invidia. Sì, sono
invidioso della gente libera di passeggiare, di parlare,di esprimere le
proprie opinioni! Io mi trovo qui proprio per questo,non perché sono
ebreo o perché omosessuale, ma perché ora come ora non si può dire
niente che sia contrario alle idee di Stalin. Mi manchi tanto e mi
manca il nostro piccolo bimbo di due anni, Vladimir, che ho dovuto
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lasciare solo. Aveva appena imparato a dire la parola papà, ricordo
come un sogno i due anni passati insieme a lui, che sono volati via
troppo velocemente. Ricordo i nostri vent’anni insieme, accanto a te,
la persona più importante della mia vita, la mia consigliera di vita.
Non ti dimenticherò mai, ricordati sempre che vivo solo per te e per il
nostro bambino e che solo Dio sa quanto spero di rivedervi un dì.
Ti amo e ti amerò per sempre.
Con immenso affetto il tuo Gilbert
Questa lettera mi ha fatto capire perché nessuno mi ha mai
parlato di mio padre. Leggendo questa lettera ho capito chi è
stato mio padre e, ora più che mai sento una sensazione di
vuoto nel mio cuore e nella mia anima. Sto ancora più male
sapendo ciò che lui ha subito dietro quel filo spinato e ora più
che mai sono convinto che la storia di mio padre, la mia storia
non debba riviverla più nessuno. E’ giusto instituire una
giornata della memoria per tutto ciò che è accaduto e bisogna
conoscere non solo i campi nazisti ma i campi di prigionia
presenti in tutto il mondo. Instituire una giornata della
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memoria per ricordare tutte le vittime, ma soprattutto per
fermare queste atrocità, che vedono l’uomo nelle peggiori
delle sue condizioni, e che continuano a causare morte e
disperazione.
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La vita nel campo…
Nel lager, come afferma Levi, era davvero impossibile vivere una vita
umana, del resto come ci si poteva sentire ancora uomini senza
provare dispiacere per niente, quando ormai si era diventati a tutto
indifferenti, quando ormai non si aveva più nessun pudore neanche a
dormire nello stesso letto con un compagno morto? Come se non
bastasse c’era sempre quel numero di matricola stampato sul braccio
e sull’anima messo lì a ricordarti che ormai sei solo un numero e che
faresti meglio a dimenticare la vita prima del lager per stare meno
male, per non avere la malinconia di una casa e di una famiglia che
non rivedrai più. Poi però come in tutte le cose ci sono sempre quelle
piccole illusioni di un ritorno ad essere uomo ma purtroppo resta solo
tale: un’ illusione… del resto lì non era uomo nessuno né tanto meno
i tedeschi, come si può considerare uomini individui che per un
proprio capriccio uccidono qualcun’ altro, che ridono della morte
altrui, che per sembrare forti rendono deboli gli altri, che si sentono
superiori ad altre persone uguali a loro senza colpa, a bambini piccoli
e indifesi, a mamme flagellate dalla separazione dai loro piccoli, a
persone che ormai non si sentivano più persone perché costrette a
lavarsi con acqua sporca, a dormire accanto a un morto e a subire
tutte le atrocità del lager; piano piano, giorno per giorno la voglia di
vivere ti passa, vola via come una fogliolina che si stacca dall’albero
in autunno.
Questa è la vita nel lager quindi detto ciò mi chiedo:
“Ma come ci si può sentire uomini in un posto così?”
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La speranza
Caro Emanuele,
non sai quanto tempo ho aspettato una tua lettera,
sembra quasi un’eternità eppure l’ho ricevuta.
Sapevo che la carta su cui scrivere e anche
l’inchiostro erano finiti, avevo quasi perso le
speranze che tu mi scrivessi ma ora non sai che
gioia nell’aver tenuto stretta fra le mie mani
un’altra tua lettera. Non ci restano soltanto che le
lettere ora… e le nostre chiacchierate? Le nostre
giornate insieme? Tutte svanite, come le emozioni,
una volta varcato quel cancello. E’ difficile non
averti vicino, sapere che ti trovi là, rinchiuso, privo
della libertà che ti rendeva unico nel tuo modo di
essere; ora sei circondato dal filo spinato, grigio,
arrugginito ma non privo della luce del sole. In
realtà non tutto è finito, non siamo in fondo così
lontani, continuiamo a guardare lo stesso cielo
seppure distanti, le stesse stelle solitarie che ci
rispecchiano, e quella luna che continua a
raccontarmi di te ogni notte. Ti sono vicina, anche
se non posso abbracciarti e stringerti a me, sono le
mie parole che continuano a farti sentire amato, e ti
danno un senso di speranza, quel senso che in te è
sparito. Ogni volta che ti penso il vuoto mi assale,
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prendo le tue lettere e le stringo forte a me
immaginandoti qui, anche se qui non sei. Immagino
le condizioni in cui ti trovi, mi fa male sapere ma
anche soltanto immaginare. L’unica cosa che mi
riesce bene in questo momento è sperare, la
speranza che ci unisce, ci rende più forti di prima.
Mi manca tutto di te. E’ difficile poter pensare che
forse non ci rivedremo più, forse questa è l’ultima
mia lettera che leggerai. Spero di rincontrarti o per
lo meno avere una tua risposta, quella risposta che
mi lega a te e che mi consola. Su questa lettera lascio
il mio profumo, con la speranza che quando la
leggerai ti accompagnerà, ti aiuterà e soprattutto ti
darà la forza per poter superare questa tragica
avventura. Qui è dura senza te. Vorrei averti con
me e rivederti anche solo per un attimo. Ed ora
nulla ha senso, l’unico senso alla mia vita eri tu.
Tutti continuano ad agitarsi… le SS continuano a
girare in cerca di altri ebrei, come cani accaniti in
cerca della loro nuova preda. Beh, non potendo fare
nulla oltre che scriverti, non mi resta altro che
convincermi o meglio convincerti che questo incubo
presto passerà e ricominceremo insieme, ancora una
volta, a vivere tutto ciò che ci è stato rubato! Amore
mio, comunque vadano le cose io ti sono vicina con il
cuore e con la mente.La tua Amara
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La disperazione
Auschwitz, 23 giugno 1941
Ottantesimo giorno di campo. Sono qui da ottanta
giorni, due ore e un minuto. Ho sete e bevo pieni di
dolore, mi fa ritornare in mente il mare. A quando stavo
ore e ore a mollo nell’acqua. Avevo a disposizione le
mie stesse lacrime. La sete che ho è troppa. E’ come se la
mia bocca, la mia lingua, mi urlassero il proprio dolore e
la loro disgrazia d’essere appartenuti proprio a me. Ad
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unebreo. Le bevo e il loro sapore, così strano e salato,
ma anche tanto litri e litri di acqua, Dio mio! Ricordo le
cascate vicino casa mia, ilpiccolo ruscello dove
nascevano i girini, e quegli zampilli che facevano
sgorgare un piccolo getto d’ acqua, che anche se debole
mi dissetava. Ho sete e mi taglierei anche le vene a costo
di poter assaporare quel gusto così strano e fresco. Non
ho più saliva in bocca, e ho le labbra disidratate. Qui è
una battaglia continua. Si lotta per mangiare, per
dormire, per respirare e persino per far battere il
proprio cuore, un cuore così lacerato che fa fatica anche
a pulsare. E’ l’ottantesimo giorno di campo.
Sono qui da ottanta giorni, due ore e ventinove minuti.
Quando ci si dimentica di vivere, ecco che cosa succede.
Si dimentica di andare avanti. L’ho scordato non perché
ho voluto, ma perché sono stati loro a ridurmi così. Un
povero scheletro ricurvo, che si lascia perforare dalle
pallottole che gli lancia la vita, tanto crudele da avermi
lasciato un posto in prima fila nel treno dei disgraziati.
La mia mano è stanca, la mia pancia, il mio cervello, i
miei occhi sono stanchi. Non riescono più a realizzare
l’idea di far filtrare la luce. E’ come se qui esistesse solo
l’oscurità. E’ come se il sole per noi non sorgesse più. E’
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come se anche lui, come me, si fosse dimenticato di
vivere.
Sono ottanta giorni, due ore e quarantacinque minuti
che sono qui. Puzzo di piscio, sporco e sudore. Sono
sporco e mi viene da vomitare per la puzza che mi
circonda. Ci saranno più di duecentomila persone qui,
tutte così, così sfortunate da credere di essere loro stessi
la causa di tutto. Ho sete! E non si vede acqua da
nessuna parte. Sono arrivato a bere la mia urina e a
mangiare i miei pidocchi. Non ce la posso fare. Non ce
la faccio a continuare così. A spaccarmi la schiena
portando su e giù sacchi di sabbia. Non ce la faccio a
darmi speranze, ad auto convincermi che ce la farò. Non
riesco a pensare ad una luce di salvezza. Ad una piccola
scorciatoia che mi semplifichi le cose. La verità è che qui
è un manicomio di gente che va e che viene. Ma la gente
che viene è molto di meno di quella che va. Sono stanco,
assetato, stremato, puzzolente. E’ diventata anche una
colpa solo respirare, chiedere del cibo, pregare di
potercela fare. Vedere il sole sorgere e tramontare è una
lotta continua. E’ il gioco dei più forti e io sono debole.
Debole, assetato e puzzolente. Invidio le nuvole. Oh, le
nuvole! Così leggere, così alte in cielo. Così tranquille,
con la certezza che loro sì, non muoiono mai. Piango
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bevo le mie stesse lacrime. Ho sete! Arrabbiarsi,
prendermi a morsi, non servirà più, Anche se volessi
dimenticare non ce la farei, con questa cifra sul braccio
che mi fa dimenticare quello che sono davvero; un
uomo vero. Non ce la faccio a mangiare questo cibo che
non è nient’altro che acqua sporca. Ho freddo e il mio
letto è scomodo. E’ duro come un tempo era la mia
testa. La mia mente non mi regge più. Mi chiedo se un
giorno potrò mai rivedere i miei cari, tutto ciò che
avevo, la mia piccola Holly. Oh, la mia Holly, la mia
piccola, dolce bambina che sorrideva così tanto da
essere invidiata da tutti! Me l’hanno strappata via. Le
sue piccole mani che mi accarezzavano il petto, si sono
staccate da me. L’ ultima volta che l’ho vista stava per
farsi una doccia e piangeva perché non voleva spogliarsi
davanti le SS che le gridavano contro di muoversi. Lei
piangeva ed io non ho potuto far nulla per aiutarla. Da
quel giorno non l’ho più vista. Per un padre tutto questo
è la morte. Vedere un proprio figlio essere maltrattato
davanti ai propri occhi e non poter far nulla per
aiutarlo.
Sono ottanta giorni e tre ore che sono qui. In questo
inferno che ha preso il sopravvento. Non faccio altro che
pregare per me. Per vedere ancora il sole.
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Sono ottanta giorni, quattro ore e nove minuti che sono
qui e il lager mi ha fatto diventare un animale con le
pulci, la rabbia e malinconia pura.
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La mia storia è uguale a quella di tanti altri
La mia storia è uguale a quella di tanti altri vissuti
nell’intolleranza, nella discriminazione, appartenuti a questo o
al secolo scorso, senza distinzione di colore di pelle o
religione. L’uomo, a parer mio, non sembra imparare dai suoi
errori che ripete ciclicamente causando solo dolore, amarezza
e infelicità.
Il mio nome è Nour, sono nata in Iraq nel 2000.
Non ho vissuto una bella infanzia, perché sono nata nel posto
sbagliato anzi a pensarci bene non ho mai vissuto, fin ora, in
un posto fisso insieme alla mia famiglia.
Tutto ha avuto inizio in un giorno qualsiasi per il resto della
gente: mi trovavo in Iraq con la mia famiglia, sembrava un
giorno tranquillo come ogni altro, io avevo solo tre anni non
sapevo né potevo immaginare che la mia vita si sarebbe
trasformata in un incubo. Stava per scoppiare la guerra, gli
iracheni non volevano altre popolazioni diverse dalla loro.
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Un giorno sentimmo bussare alla porta, mia nonna aprì e si
trovò davanti sei guerrieri furiosi, che cercavano mio padre, il
quale aveva la colpa di essere di origine palestinese e non
irachena. Mia nonna rispose che era in viaggio e non a casa
con noi: le credettero e ci diedero 24 ore per lasciare la nostra
casa e l’Iraq, nonché la nostra vita, per sempre.
Di mattina presto raccogliemmo tutto il possibile e
scappammo in auto verso la Siria, ma quando pensavamo di
essere fuori pericolo incontrammo quei guerrieri che si
accorsero della presenza di mio padre. Ci circondarono armati
e ordinarono a mio padre di scendere e seguirli. In quel
momento mi sentivo senza speranza e ho pensato che non
avrei più riabbracciato il mio amato padre. Di ciò che stava
accadendo si accorse un suo amico iracheno, ci venne
incontro e con un diversivo riuscì a distrarre i guerrieri e a
dare a noi la possibilità di fuggire.
Nonostante tutto riuscimmo ad arrivare in Siria, dove
speravamo di poter vivere una vita tranquilla e serena, invece
anche lì i poliziotti ci dissero che non potevamo rimanere
perché avevamo la cittadinanza irachena. Furono loro stessi
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che ci scortarono ai confini della Siria dove erano allestite
delle tendopoli per le famiglie palestinesi fuggite dalla guerra.
Lì per un po’ ho vissuto tranquillamente e sono riuscita anche
ad andare a scuola, fare nuove amicizie e giocare con i miei
coetanei. Mio padre aveva trovato lavoro, mentre mia madre
si occupava di me e delle mie sorelle, finalmente facevamo
una vita tranquilla come tutti.
Durò poco, la sfortuna ci perseguitava e ben presto siamo
dovuti fuggire anche da lì. Da quel momento non ho più avuto
un posto stabile dove vivere perché in qualunque posto
andavamo venivamo cacciati, per un motivo o per un altro,
senza tener conto che eravamo persone in cerca di serenità.
Dalla tendopoli siamo arrivati in Italia, a Reggio Emilia, da lì
in Svezia, poi a Roma, poi di nuovo in Svezia ed infine ho
trovato casa a Cassano. Da tre anni la mia vita è cambiata: ho
fatto nuove amicizie, mi sono inserita nella cultura italiana
seppur molto diversa dalla mia, ho imparato una nuova lingua
e addirittura a cucinare pietanze italiane. Qui, in un piccolo
paesino del Sud Italia ho trovato la felicità assieme alla mia
famiglia.
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Questa è la mia storia simile a quella di tanti altri fatta di
fughe, paura e perdite.
A scuola abbiamo studiato un poesia di Primo Levi che invita
gli uomini a meditare su quanto accaduto in un recente
passato per evitare che ciò avvenga di nuovo, ma io mi chiedo
se mai ciò accadrà affinché la mia storia non venga vissuta da
altri bambini.
I colori della pace La pace
Avevo una scatola di colori Quando la Pace verrà
brillanti decisi e vivi. I bambini come noi non avranno più paura.
Avevo una scatola di colori Quando la Pace verrà
alcuni caldi, alcuni più freddi. I bambini potranno giocare serenamente.
Non avevo il rosso Quando la Pace verrà
per il sangue dei feriti, tutti i colori di pelle vivranno insieme.
non avevo il nero Quando la pace verrà
per il pianto degli orfani, il mondo sarà più libero.
non avevo il bianco Quando la pace verrà
per i volti e le mani dei morti, sarà fragile e meravigliosa…
non avevo il giallo ( Shanin Qodes, 13 anni palestinese)
delle sabbie ardenti,
ma…
avevo l’arancio per la gioia della vita,
ed il verde
per i germogli e i nidi,
e il celeste
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dei chiari cieli splendenti,
e il rosa
per il sogno e il riposo.
Mi sono seduta e
Ho dipinto la PACE.
(Tali Sorex, israeliana 13 anni)
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La classe
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Riferimenti bibliografici
Anna Frank, Diario, Einaudi
Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi
M.Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Aushwitz, Mursia
A. Mieszkowska, Nome in codice Jolanda, San Paolo edizioni
D.Maraini, Il treno dell’ultima notte, Rizzoli
L.Di Cave, Addio Davide, Edizioni Le Stelle
W.Nina, Con la gente di Ferramonti. Mille giorni di una giovane
ebrea in un campo di concentramento, LaFeltrinelli
S.R.Mignone, Il compleano di Franz, Lapis Edizioni
V.T. Salamov, I racconti della Kolyma, Adelphi
Malala-C.Lamb, Io sono Malala, Garzanti
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