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Teodolinda Barolini Introduzione. Cronistoria di un anima Antonio Barolini nacque a Vicenza il 29 maggio 1910, e nel 2010 a cent’anni dalla nascita e a quasi quarant’anni dalla morte, genna- io del 1971 – due convegni ne hanno celebrato il centenario: il con- vegno di Vicenza, Antonio Barolini a cent’anni dalla nascita (Vicen- za, 28-29 maggio 2010), è stato organizzato dall’Accademia Olimpi- ca e dalla Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, mentre il conve- gno di New York, Un poeta sperso tra gli uomini. Antonio Barolini tra Italia e America (New York, 30 aprile 2010), è stato organizzato dal- l’«Italian Poetry Review» e dal Dipartimento d’Italianistica della Columbia University. Mi sia permesso di dire che queste occasioni mi parvero, soprattutto quella di Vicenza, bandita per prima, quasi miracolose; non mi sembrava plausibile che nel 2010 si ricordasse uno che, come mio padre, era scomparso già da così tanto tempo. Invece i convegni sia di New York sia di Vicenza sprizzavano ener- gia e quel che Barolini avrebbe chiamato «buona volontà»: la volon- tà di capire Barolini, il suo mondo, e il suo momento storico. Gli stessi due enti responsabili per i due convegni, «Italian Poe- try Review» e Accademia Olimpica di Vicenza, insieme emblemi della stagione di vita di Barolini in cui si trovò tra l’Italia e Nord America, si sono uniti per pubblicare questo volume. Ringrazio l’a- mico e collega Paolo Valesio, direttore dell’«Italian Poetry Review», il quale, con grande generosità verso gli studi baroliniani, additò per questa navicella il porto sicuro della Società Editrice Fiorentina. Non sorprende che, data la grande sintonia tra Barolini e la sua città di nascita, il convegno di Vicenza creasse un momento di sin-
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Introduzione, Antonio Barolini, Cronistoria di un'anima

May 15, 2023

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Teodolinda Barolini

Introduzione. Cronistoria di un’anima

Antonio Barolini nacque a Vicenza il 29 maggio 1910, e nel 2010 – a cent’anni dalla nascita e a quasi quarant’anni dalla morte, genna-io del 1971 – due convegni ne hanno celebrato il centenario: il con-vegno di Vicenza, Antonio Barolini a cent’anni dalla nascita (Vicen-za, 28-29 maggio 2010), è stato organizzato dall’Accademia Olimpi-ca e dalla Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, mentre il conve-gno di New York, Un poeta sperso tra gli uomini. Antonio Barolini tra Italia e America (New York, 30 aprile 2010), è stato organizzato dal-l’«Italian Poetry Review» e dal Dipartimento d’Italianistica della Columbia University. Mi sia permesso di dire che queste occasioni mi parvero, soprattutto quella di Vicenza, bandita per prima, quasi miracolose; non mi sembrava plausibile che nel 2010 si ricordasse uno che, come mio padre, era scomparso già da così tanto tempo. Invece i convegni sia di New York sia di Vicenza sprizzavano ener-gia e quel che Barolini avrebbe chiamato «buona volontà»: la volon-tà di capire Barolini, il suo mondo, e il suo momento storico.

Gli stessi due enti responsabili per i due convegni, «Italian Poe-try Review» e Accademia Olimpica di Vicenza, insieme emblemi della stagione di vita di Barolini in cui si trovò tra l’Italia e Nord America, si sono uniti per pubblicare questo volume. Ringrazio l’a-mico e collega Paolo Valesio, direttore dell’«Italian Poetry Review», il quale, con grande generosità verso gli studi baroliniani, additò per questa navicella il porto sicuro della Società Editrice Fiorentina.

Non sorprende che, data la grande sintonia tra Barolini e la sua città di nascita, il convegno di Vicenza creasse un momento di sin-

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golare calore umano, per cui mi è grato dovere segnalare l’impegno intellettuale e l’iniziativa civica dell’allora presidente dell’Accade-mia Olimpica, il compianto poeta vicentino Fernando Bandini (morto il 25 dicembre 2013). La lunga amicizia di Fernando Bandi-ni con l’editore e lo scrittore Neri Pozza, quest’ultimo nato nel 1912 (come l’altro amico fraterno di Barolini, Antonio Giuriolo), lo rese nel 2010 tra i pochi intellettuali veneti rimasti in legame diretto con Barolini. (Sia Giuriolo che Pozza erano del 1912, di due anni più vecchi di Barolini, mentre la nascita dell’alter-ego Stefano sarebbe avvenuta, secondo l’Avvertenza e premessa al romanzo La memoria di Stefano, due anni prima rispetto a quella dell’autore: «Stefano è nato in una cittadina di retroterra veneto, ma nel 1908»1.) Che il no-stro percorso si intersechi in questo modo con la storia di varie ami-cizie è opportuno e giustissimo: le amicizie per Antonio costituiro-no un filo dorato lungo la tela di una vita spesso intessuta di dolo-re2. Fernando Bandini, del 1931, e perciò molto più giovane di An-tonio e di Neri, fu amico devoto di Neri, il quale a suo turno fu amico fraterno di Antonio: Neri fu colui che per prima stampò la poesia di Barolini, l’amico di cui Bandini stesso aveva curato una se-lezione del carteggio con Antonio3.

Vari fattori umani e intellettuali confluirono così nella decisio-ne di celebrare la nascita di Barolini, non dimenticato nella sua pro-vincia natia (e ricordo che Vittore Branca mi aveva parlato, anni prima, di voler celebrare il centenario di Barolini presso la Fonda-zione Cini), e non dimenticato a New York. Sono perciò particolar-mente felice che parecchi contributi di entrambi i convegni siano uniti qui in un unico volume, che presenta non solo dei saggi dedi-cati a Barolini da vari studiosi ma anche dei testi inediti di Barolini stesso.

Il lavoro di rispolverare e di portare alla luce i testi inediti di Ba-rolini, testi di cui scrive autorevolmente Adele Scarpari nel saggio La dolce selva della vita nelle Carte Barolini conservate in Biblioteca

1 A. Barolini, La memoria di Stefano, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 7.2 Si veda l’Appendice di questo volume per gli amici che ricorrono nella poe-

sia di Barolini.3 Neri Pozza e Antonio Barolini, lettere (1955-1970), con uno scritto di Neri Pozza,

a cura di F. Bandini, Bassano del Grappa, Tassotti, 1998 (edizione in 400 esemplari numerati).

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Bertoliana, è solo cominciato. La sezione di inediti qui presentata testimonia l’intrepida impresa di mia sorella, Susanna Barolini, la quale proprio in onore del centenario di Vicenza si è messa a scio-gliere parola per parola la difficilissima calligrafia di Barolini, per trascrivere un diario steso durante la clandestinità del 1943-1945, in-titolato da Barolini stesso Diario di prigionia – Venezia4. Sia per Su-sanna che lo trascrisse che per me, che poi con lei l’ho studiato, la scoperta del diario scritto durante la clandestinità veneziana è stato un momento decisivo, che ha portato in varie direzioni non previ-ste. Oltre a questo volume stiamo approntando la pubblicazione di tutto il Diario di prigionia, integrato al diario che lo procede, in un unico libro che segue la vita e il pensiero di Barolini dal 25 luglio 1943 fino alla liberazione del maggio di 1945, un libro che verrà pub-blicato dall’Istituto Storico della Resistenza di Vicenza (Istrevi).

All’interno di questo volume, come anteprima del diario intero, presentiamo uno stralcio del Diario di prigionia. Sarà opportuno spiegare che nel titolo del diario Barolini si riferisce alla clandestini-tà veneziana che lui sceglie per evitare la prigione cui lo condanna-va il tribunale fascista, per il lavoro editoriale intrapreso quale diret-tore del «Giornale di Vicenza» durante i 45 giorni badogliani. Aven-do assunto la direzione del «Giornale di Vicenza» dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, Barolini è poi «condannato in contu-macia a 15 anni di reclusione» dopo l’8 settembre 1943, come leggia-mo sul Popolo vicentino del 29 marzo 1944:

Si è iniziata ieri una nuova sezione del Tribunale provinciale straordi-nario.

Sono stati per prima giudicati il pubblicista Antonio Barolini fu Giu-seppe di anni 34 e lo scultore Neri Pozza di Ugo, di anni 32, da Vicenza, imputati: il primo di avere svolta dal 25 luglio all’8 settembre propaganda antifascista attraverso articoli pubblicati su «Il Giornale di Vicenza» di cui era direttore e attraverso la casa editrice «Il pellicano» e la «Palladiana film».

Il Barolini è stato condannato in contumacia a 15 anni di reclusione al-la interdizione perpetua dei pubblici uffici e a tre anni di libertà vigilata; il Pozza è stato assolto non sussistendo il fatto a lui attribuito.

4 Il Diario di prigionia – Venezia costituisce una parte del Diario numerato viii da Barolini e 31 dalla Biblioteca Civica Bertoliana. La data posta da Barolini sul frontespizio è 20 ottobre 1944.

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Dato che nel presente volume pubblichiamo una parte dell’ine-dito diario di clandestinità, il breve e intenso epilogo intitolato Cro-nistoria dal 13 Sett. 1943 anzi 27 Luglio 1943 al 13 Sett. 1945, vorrei sof-fermarmi brevemente sulla scelta di Barolini di andare clandestino a Venezia invece di affrontare i «15 anni di reclusione» della condanna fascista. Le varie traiettorie attraverso il fascismo di un gruppo di giovani vicentini intellettuali di allora sono state ampiamente analiz-zate in un recente libro, il cui autore critica severamente la decisione di Barolini di fuggire da Vicenza5. Astraendo dal loro contesto in modo alquanto discutibile i brani più compromettenti dei diari di Barolini, lo storico presenta un uomo di «una varietà di vedute spes-se contraddittorie che […] disegna, fra il 1935 e il 1945, una evoluzio-ne a zig zag», e soprattutto un uomo che fugge dalla sua città:

Tutte attitudini, queste, che a Barolini consentiranno (o non impedi-ranno), di tempo in tempo, di restare amico di Giuriolo e di figurare, sino alla guerra, quale soggetto irrequieto e poco allineato, o addirittura di as-sumere, durante i 45 giorni, la direzione del «Giornale di Vicenza» bado-gliano; ma poi anche di fuggire letteralmente dalla sua città, senza far altro se non stare nascosto a Venezia, nel corso della guerra civile; e infine di ri-prendere per qualche anno, a conflitto concluso, il proprio cammino nella vita nazionale italiana da moderato convinto (più che da «liberale di sini-stra», come pretendeva di essere stato durante la breve stagione azionista)6.

Qui ci sarebbe molto da discutere. Da un lato il lettore viene in-formato che Barolini si è esposto in un atto di notevole responsabi-lità civica, assumendo la direzione del giornale cittadino in un mo-mento di grandi speranze e di grandi pericoli; mentre dall’altro, questo dato significativo viene subito svilito dalla recisa condanna nei confronti di qualcuno che fugge dalla sua città «senza far altro se non stare nascosto a Venezia». Ma perché, se le azioni di Barolini furono percepite in questo modo, i partigiani avrebbero corso i ri-schi di nasconderlo a Venezia, spostandolo ben otto volte?

A questo punto, difronte all’evidente biasimo per il «fuggiasco Barolini»7, e considerando la pungente frase «senza far altro», è im-

5 E. Franzina, Vicenza di Salò (e dintorni): Storia, memoria e politica fra Rsi e dopoguerra, Vicenza, Agorà Factory, 2008, capitolo 1.

6 Ivi, pp. 33-34. 7 Ivi, p. 40.

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portante chiedersi quali fossero le opzioni possibili per Barolini. Po-teva andare in prigione o poteva fare la mossa eroica: salire sulle col-line per raggiungere i partigiani. Purtroppo la scelta della lotta ar-mata, certo più attraente per i posteri, non era un’opzione ideologi-camente possibile per Barolini.

Barolini era un convinto nonviolento, una posizione discussa nei diari8. Il 31 agosto 1944 Barolini nota la sua «spontanea avversio-ne a ogni violenza […] il mio preferire di subire una violenza piut-tosto che provocarla»: «Certe volte penso se è solo viltà, o educazio-ne e civiltà, la mia spontanea avversione a ogni violenza, sotto qual-siasi aspetto anche in amore; il mio preferire di subire una violenza piuttosto che provocarla»9. E più avanti, Barolini afferma esplicita-mente, e alquanto utopisticamente, di sostenere le idee sulla non-violenza di Aldo Capitini: «Il principio della non violenza dev’esse-re principio basilare della vita morale contemporanea e dobbiamo intenderlo in forma assoluta, come San Francesco. In questo senso ha ragione Aldo Cap[itini]»10. Subito, sulla prima pagina del Diario di prigionia, Barolini mette in dubbio la legittimità anche della le-gittima difesa, se violenta:

Quest’armonia è l’unica libertà cui si deve aspirare, l’unica libertà per la quale vale la pena di morire. Essa esclude ogni forma di violenza e non è affatto azione negativa o passiva come i più affermano; anzi è la sola vera azione positiva che trova la sua espressione eroica in Cristo. Sempre più mi accorgo che anche la legittima difesa (così giuridicamente detta), se violen-ta, non è affatto legittima; non è più tale ogni difesa nel momento in cui

8 Tuttavia questi brani sono assenti dal campione citato in Vicenza di Salò. In effetti l’analisi di Franzina è metodologicamente problematica, non solo per la de-contestualizzazione dei brani dei diari di Barolini riportati, ma soprattutto per la non-paragonabilità fra diari privati e materiali scritti per la pubblicazione. Franzi-na ricostruisce le traiettorie ideologiche dei suoi soggetti nella maggioranza dei ca-si in base ai loro scritti pubblicati; del gruppo di amici vicentini discussi nel pri-mo capitolo, unicamente nel caso di Barolini lo storico usa quasi sempre fonti non destinate alla pubblicazione. Essendo il diario privato una meditazione di un uomo con se stesso, non inteso per un pubblico di lettori, non è metodologica-mente corretto usare le opere pubblicate di x e i diari privati di y per poi derivare da queste fonti di ordine profondamente diverso delle traiettorie che siano para-gonabili.

9 A. Barolini, Diario vii, Bertoliana no. 30, p. 33 del quaderno manoscritto.10 Id., Diario di prigionia, Diario viii, Bertoliana no. 31, p. 49 del quaderno

manoscritto.

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oppone una violenza. Ogni violenza si vince con la forza del diritto e ap-punto per vincerla, in nome di questa forza, si subisce11.

Tormentato dalle sue «intime viltà»12, Barolini è al contempo si-curo e certo delle sue idee, del fatto che «al versamento del sangue altrui preferisco senz’altro il mio»:

Non è solo viltà questo orrore del sangue ma un sentimento più alto, per il quale al versamento del sangue altrui preferisco senz’altro il mio, nel senso che io ti prego di concedermi di avere le mani sempre pure di san-gue, Signore; aver sempre accarezzato e costruito, non mai distrutto con queste mani, averne sempre fatto strumento di pace13.

Ecco il contesto che dobbiamo tenere in mente per capire la tra-iettoria attraverso il fascismo di Antonio Barolini. Alla mossa eroica Barolini non era portato, non solo perché non aveva il temperamen-to, ma anche per ragioni di convinzione ideologica. Barolini era uo-mo di fervido e angosciato impegno religioso, ampiamente docu-mentato in tutti i suoi scritti lungo tutta la vita (e si veda in questo volume il saggio di Nicola Di Nino, che discute tra l’altro la difficol-tà di essere un cattolico riformatore della Chiesa). L’impegno alla nonviolenza era un componente integrale della sua spiritualità. In un momento storico in cui non c’era molto rispetto per chi non par-tecipasse alla lotta armata, la posizione di Barolini era difficile da di-fendere, direi anche a se stesso. Ma i suoi diari testimoniano un in-teresse coerente e continuo nelle idee di Gandhi e molta della sua produzione letteraria può essere considerata quale tentativo di esa-minare e tastare il concetto di eroismo e i suoi paradossi.

Bisogna anche dire che Barolini non si è mai dedicato al gioco di costruirsi retrospettivamente quale altro di quello che fu: egli stesso, per primo, segnalò le «compromissioni» a cui non resistette, modesto impiegato di banca, scrivendo, nel Confiteor conclusivo della seconda commemorazione per Antonio Giuriolo, delle «mie fatali compromis-sioni con il fascismo e il mio essere, al tempo stesso, un antifascista»14. Paragonando le scelte sue a quelle di Giuriolo, Barolini continua: «Io

11 Ivi, p. 1 del quaderno manoscritto.12 Sono parole dedicate alla sorella Mariarcangela; si veda p. 3, nota 2.13 Ivi, p. 68 del quaderno manoscritto.14 A. Barolini, Il capitano Toni, in Per Antonio Giuriolo: scritti di Antonio Ba-

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vissi una storia onesta ma mediocre. Lui ne visse un’altra, coraggiosa fino all’eroismo, al sacrificio cosciente di sé, alla morte».

La nostra conoscenza dell’ambiente culturale di Barolini viene ampliata dallo straordinario contributo di Adrianna Chemello, la quale ha curato per questo volume sia delle lettere inedite dal car-teggio tra Barolini e Aldo Capitini sia una commemorazione inedi-ta dell’amico Antonio Giuriolo, scoperta recentemente dalla Che-mello tra le Carte Barolini conservate nella Biblioteca Civica Berto-liana di Vicenza. Questi preziosi testi hanno anche il pregio di illu-minare i legami religiosi, filosofici e spirituali che unirono questi uomini. Per esempio Barolini, lodando nella lunga lettera del 7 feb-braio 1956 il libro di Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa15 e scrivendo della filosofia capitiniana della nonviolenza, invoca anche il nome di «Toni», cioè di Giuriolo:

Hai concluso il tuo libro con un cenno su Toni. Effettivamente il tuo li-bro «Gli Elementi…» fu pane suo e mio per lungo tempo. Ti ricordi? Fu Russo che ci consigliò di prendere contatto con te. Egli, Toni, credeva alla non-violenza ed era, si può dire, istintivamente vegetariano, senza fariseismi, proprio come dici e consigli tu, per cui il problema non è di buttare un bro-do di carne fuori dalla finestra ma di una costante collaborazione a far sì che si tenda a circoscriverla sempre di più, la necessità della violenza, ovunque e comunque essa si presenti. (Lettera di Barolini a Capitini, 7 febbraio 1956)

La lettera del 7 febbraio 1956 continua chiosando la poesia dedi-cata da Barolini a Giuriolo nella raccolta del 1949 Il veliero sommer-so16: «Or Toni ebbe praticamente il premio che desiderava (non so se hai mai visto la poesia che gli ho dedicato nel Veliero sommerso) e la sua morte fu indubbiamente un atto di offerta che è la sublimazio-ne del suo costume». Segue un cenno alla complessità dell’essere sia nonviolento sia soldato, un cenno poi ripreso e sviluppato: «tanto più che – se egli, come soldato, avesse consumato una violenza – la

rolini, Norberto Bobbio, Enzo Enriques Agnoletti, Luigi Meneghello, a cura di N. Bob-bio, Vicenza, 1966, pp. 7-17, citazione a p. 16 (originalmente in «Il Ponte», 1964).

15 A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Bari, Laterza, 1937, collana «Biblioteca di Cultura moderna».

16 A. Barolini, Il veliero sommerso, Vicenza, Il Pellicano, 1949. Importante no-tare che la poesia al capitano Toni venne pubblicata già nel 1949, poi ristampata più tardi in altre raccolte baroliniane.

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sua morte l’avrebbe riscattata, e poi il suo momento della scelta era stato certamente sincero nella sua verità, nella sua sete di libertà, di là da ogni momento di fazione, almeno nella speranza». Colpisce qui il sobrio realismo della frase «se egli, come soldato, avesse con-sumato una violenza», un realismo poi meno evidente nella com-memorazione qui pubblicata, dove Barolini segue la linea che Toni morì «con l’arma in posizione di sicurezza […] perché la non vio-lenza come l’obbiezione di coscienza erano leggi di Toni». L’idea che Giuriolo potesse essere soldato letteralmente nonviolento è un’idea che attrae perché combina il fascino dell’essere partigiano con il ri-gore morale della nonviolenza, e ha trovato molti seguaci17. L’idea è abbracciata da Barolini, invece, come omaggio alla eccezionalità di Antonio Giuriolo.

Ci sono effettivamente vari ricordi inediti di Giuriolo pubblica-ti in questo volume: i ricordi privati sparsi nelle lettere di Barolini a Capitini, e la commemorazione pubblica, letta da Barolini in una sala del Municipio di Vicenza, la sera di sabato 2 luglio 1966. Inti-tolata Il Capitano Toni e il suo e nostro piccolo mondo antico, quest’ul-tima è diversa dalle commemorazioni che Barolini pubblicò, per esempio nel libro curato da Norberto Bobbio già citato18; e qui mi permetto di notare la lettera che Bobbio scrisse a Barolini, portata alla luce dalla Scarpari nel suo saggio:

17 Per la linea più corretta e storica si veda la biografia di A. Trentin: «Ma le sug-gestioni culturali vissute e trasmesse non riducono l’intensità dell’impegno anche mi-litare, al di là anche di ogni passata attenzione per i temi della non-violenza. Nelle operazioni tra i boschi e i borghi appenninici, contesi tra tedeschi e Alleati, Giuriolo è a tutti gli effetti un combattente che – come dirà di persona a Enriques Agnoletti – “entra in villaggi bruciati, trova i resti carbonizzati di donne, di bimbi, trova compa-gni appiccati dai tedeschi a ganci da beccaio”, e reagisce di conseguenza» (Toni Giu-riolo: Un maestro di libertà, 1a ed. 1984 Neri Pozza editore, 2a ed. Istrevi Ricerche 18, Verona, Cierre edizioni, 2012, p. 166). Il passo di Agnoletti citato da Trentin si legge in E. Agnoletti, Ultimo colloquio col comandante Toni: «Entra in villaggi bruciati, trova i resti carbonizzati di donne, di bimbi, trova compagni appiccati dai tedeschi a ganci da beccaio. Sa, lui così mite, che bisogna uccidere, e uccide» (orig. 11 Agosto. Scritti di partigiani, a cura di C. Coccioli e A. Predieri, Firenze, La Nuova Italia, 1945, pp. 48-51, rist. in Per Antonio Giuriolo: scritti di Antonio Barolini, Norberto Bobbio, Enzo Enriques Agnoletti, Luigi Meneghello, cit., pp. 47-51, citazione a p. 49).

18 A. Barolini, Il capitano Toni, in Per Antonio Giuriolo: scritti di Antonio Ba-rolini, Norberto Bobbio, Enzo Enriques Agnoletti, Luigi Meneghello, cit. La prima commemorazione pubblicata da Barolini è del 1946: Il capitano Antonio Giuriolo, «La Rassegna d’Italia», i, 9, settembre 1946, pp. 86-92.

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[…] dopo aver letto le sue pagine su Toni Giuriolo non potevo non scri-verle almeno due righe per dirle quanto mi abbiano commosso ed esaltato. Pensi che ho ricevuto quel numero del «Ponte» il giorno stesso che stavo per partire per Bologna dove avrei tenuto una commemorazione di Toni nel ventesimo anniversario della morte. Ah! se avessi potuto leggere quelle pagine prima di scrivere la mia commemorazione, ne avrei avuto una ispi-razione e ne avrebbero serbato un’eco. Ma ho letto alla fine i suoi versi… (lettera di Bobbio a Barolini datata Torino, 18 dicembre 1964)

Trattandosi della stesura letta alla cerimonia civica di Vicenza, la commemorazione che stampiamo per la prima volta in questo vo-lume contiene dettagli personali che non appaiono nelle versioni scritte per la pubblicazione. La lectio è di tono più municipale, più legato alla vita di città, più nostalgico, comprendendo un ubi sunt di nomi del piccolo mondo antico della Vicenza frequentata da Giuriolo e da Barolini da giovani: «il caro vecchio mondo antifasci-sta della mia tradizione familiare borghese». Spicca in questo mon-do anche la figura paterna di Torquato Fraccon, «animatore infles-sibile» dei movimenti cattolici di resistenza19.

Altri testi inediti, derivati dalle lettere scambiate tra Barolini e l’arcivescovo Giovanni Colombo durante gli ultimi anni di vita del poeta, si trovano nel notevole lavoro di scavo di Nicola Di Nino, La religione di Antonio Barolini (con inediti dal carteggio con l’arcivesco-vo Giovanni Colombo). La definizione che Barolini dà di sé in una lettera all’arcivescovo del 10 novembre 1970, «un povero diavolo cri-stiano», echeggia la lettera a Capitini del 7 febbraio 1956: «m’è ve-nuto voglia di scrivere, e non so se mi riuscirà, un saggio che avesse per titolo “Contributo di un povero diavolo a un messaggio di san-tità”». Di Nino sottolinea l’importanza del lavoro archivistico da fa-re rispetto a Barolini, osservando che il suo scritto nacque «dalla vo-lontà di cominciare a studiare tutte quelle carte che sono conserva-te nell’archivio e che possono aiutare a meglio comprendere lo svi-luppo dei temi principali delle opere di Barolini e i tratti generali della sua figura di intellettuale cattolico».

Leggendo i diari di Barolini, si capisce che la parola «cronisto-ria» assume una particolare importanza per questo autore. Si tratta di una parola che si trova già nel diario precedente a quello che ver-

19 Le citazioni dall’elogio a Giuriolo si trovano in questo volume alle pp. 61 e 70.

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rà da noi pubblicato, in un passo scritto nel maggio del 1942, dove Barolini medita appunto sul significato di «scrivere una cronistoria» e distingue tra «una cronistoria dei propri fatti» e «una cronistoria dei propri moti spirituali»:

Scrivere una cronistoria dei propri fatti è facile, ma non avrebbe nessun interesse per me stesso; scrivere una cronistoria dei propri moti spirituali che sia il più possibile veritiera è invece un compito che mi pare più nobi-le e più utile. È uno specchio degli alti e bassi dello spirito attraverso le vi-cende cui è quotidianamente soggetto; è un atto di umiliazione che fa be-ne, che purifica, che dà la possibilità di esaminare le cose in tutti i loro multiformi aspetti; che ci rivela costantemente nei limiti e nelle aspirazio-ni della nostra natura umana.

(16 maggio 1942, dal Diario VI, Bertoliana no. 29, Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, trascrizione di S. Barolini)

E qualche giorno prima, l’8 maggio 1942, Barolini discuteva con se stesso la possibilità che il diario potesse essere reso sufficiente-mente «dignitoso» da essere condiviso con dei lettori. Spera infatti di essere in grado di depurare la storia preservata nei diari in modo che «questa cronaca della mia anima» possa essere un giorno «util-mente offert[a] a un lettore»:

Chissà che, rileggendole con calma e metodo un giorno, raggiunto che abbia uno stato di equilibrio e maturità maggiori, mi sia dato di sceverare la scoria, l’inutile, il contrasenso, ciò che fu reazione e impulso anziché me-ditazione disinteressata e dare in tal modo a questa cronaca della mia ani-ma un aspetto più dignitoso e tale che possa essere utilmente offerto a un lettore.

(8 Maggio 1942, dal Diario VI, Bertoliana no. 29, Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, trascrizione di S. Barolini]

La parola «cronistoria» assume in questo modo un rilievo note-vole nella interiorità di Barolini, nel suo modo di raccontarsi a se stesso – e forse eventualmente anche ad altri. Da una parte Barolini si presenta come un uomo che lotta disperatamente per acquisire un io non contingente, in qualche modo metastorico, ma dall’altra è consapevole di vivere completamente calato nella storia: la storia della sua famiglia e di Barolini stesso è una storia devastata prima dalla prima guerra mondiale e poi dalla seconda. Avvicinandosi al

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suo trentaduesimo compleanno, il 29 maggio 1942, Antonio passa in rassegna una vita familiare di trauma e di malattia:

23 maggio 1942 ore 1Padre del cielo, non ho sonno, penso che, col giorno ventinove di que-

sto mese, saranno per me compiuti trentadue anni da quella mattina in cui tu mi hai donato la vita.

Non posso a meno di volgermi indietro e di guardare questo tempo passato, durante il quale non un’ora, si può dire, fu lieta e serena. Guerre continue e rivoluzioni lo hanno flagellato, il mio padre terrestre patì e lan-guì molti anni e mi lasciò fanciullo con due sorelle e una mamma eroica; la malattia di mio padre durò sette anni. Poi, da sedici anni dura la malat-tia di Caterina; la povertà ha battuto fieramente alle mia porte; ebbi sem-pre il pane quotidiano, ma l’agiatezza se ne andò e le cure necessarie per i malati della famiglia furono sempre contestate da infinite angustie; questa povertà dura da almeno venticinque anni. Un po’ per colpa mia, un po’ per causa delle contingenze, non riuscii a coronare i miei studi, a farmi una po-sizione regolare, mi considero uno spostato; non ho conosciuto la giovi-nezza e l’amore; dal ventesimo anno ho lavorato e per ogni pezzo di pane ho sentito sempre tutto l’amaro della conquista.

(23 Maggio 1942, dal Diario VI, Bertoliana no. 29, Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, trascrizione di S. Barolini)

Guardando indietro al suo «tempo passato», alla sua personale esperienza di vita, Barolini nel passo appena citato lo definisce un’e-sperienza condizionata dall’inizio alla fine dalla guerra: «Guerre con-tinue e rivoluzioni lo hanno flagellato». Qualche mese più tardi, do-po la morte della sorella Caterina il 2 agosto 1942, Barolini sottolinea la storicità del trauma subito dalla famiglia, scrivendo del «morbo della guerra» contratto dal padre e poi trasmesso dal padre alla figlia. La tragedia della famiglia viene percepita da Barolini come tragedia storica e politica, sicché nel detto baroliniano la guerra stessa diven-ta il morbo contagioso di una storia familiare infausta:

Sappiano gli Italiani che mio Padre contrasse il morbo dalla guerra e che Caterina lo contrasse da mio Padre; e furono trent’anni di dolore. Ad-dio, piccola, addio! Non so più nemmeno piangere; ma non mi dò pace.

(9 Agosto 1942, dal Diario VI, Bertoliana no. 29, Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, trascrizione di S. Barolini)

Nell’idea scottante del «morbo della guerra» si vedono già le ra-

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dici profonde del pacifismo di Barolini, un pacifismo che in lui vie-ne nutrito dal dialogo e dall’amicizia con Aldo Capitini. L’amicizia di Antonio Barolini e Aldo Capitini è il tema dello studio di Adria-na Chemello, Storia di un’amicizia: il carteggio di Antonio Barolini con Aldo Capitini (1945-1968), dove la studiosa delinea i nessi religio-si, professionali e umani che legarono i due scrittori (tra l’altro, im-pariamo che Barolini voleva far tradurre Capitini e trovargli una ca-sa editrice statunitense). Undici lettere dallo stesso carteggio, finora inedite, vengono presentate nella sezione di documenti inediti, gra-zie alla curatela della Chemello. La prima lettera conservata di Baro-lini a Capitini è stata spedita da Canove di Roana il 30 giugno 1945, dove Barolini si trovò convalescente dopo la guerra, mentre la mag-gior parte delle lettere sono degli anni dal 1950 al 1962, dal periodo in cui Barolini viveva negli Stati Uniti. Si sente la sua solitudine e la lontananza dagli amici in questa lettera del 15 dicembre 1955:

E così pure ricorda che tutte le tue cose – anche se lontano e silenzio-so – son sempre per me ragione del più alto interesse; e mi duole che la vi-ta mi abbia sempre portato così lontano da tutti voi, dai quali mi piacereb-be ancora tanto attingere esperienza coraggio e responsabilità; e ai quali forse potrei dare anch’io qualcosa delle non semplici esperienze che hanno toccato e mosso la mia vita. […]

Queste lettere non sono se non fisiche testimonianze di una realtà per cui mi sento sempre vicino a te e a voi, quando lavorate e discorrete costì. E io credo fermamente che queste lettere, anche se confuse, sono dei tanti modi che gli uomini possono avere per pregare, cioè per unire i fili rotti, per consolidare la forza degli affetti nella fede e nella libertà. E, malgrado l’oceano, io penso che tu pure mi puoi sempre mandare un po’ della tua energia e della tua fede, anche se – come probabilmente è – per tanti giu-dizi ed esperienze ci troviamo profondamente diversi. (Lettera di Barolini a Capitini, 15 dicembre 1955)

Ma Capitini compare negli scritti di Barolini molto prima del 1955, già nella poesia Pomeriggio con gli amici, pubblicata nel Mera-viglioso giardino del 194120:

Si parlò a lungo di Goethe,e Aldo mi spiegò la teoria vegetarianach’io non avevo capito nel suo libro.

20 A. Barolini, Il meraviglioso giardino, Vicenza, Edizioni del Pellicano, 1941.

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Il verso «e Aldo mi spiegò la teoria vegetariana» viene echeggia-ta anni dopo nella lettera a Capitini nella quale Barolini scrive di un Giuriolo «istintivamente vegetariano»: «Egli, Toni, credeva alla non-violenza ed era, si può dire, istintivamente vegetariano» (lette-ra di Barolini a Capitini del 7 febbraio 1956). In questo modo «la te-oria vegetariana» della poesia del 1941 s’innesta in una lettera del 1956, in un discorso ormai arricchito culturalmente da altri contesti vegetariani. Mi riferisco alla passione di Antonio per lo yoga:

tra le cose di cui, da circa sette anni, mi sono occupato, c’è anche quella de-gli esercizi Yoga. Qui, c’è un Istituto Yoga a New York. Non lo posso fre-quentare perché non ho i soldi per potermi pagare il maestro. In Italia c’è niente di simile? A mio parere è una cosa che dovrebbe molto interessare il tuo centro di orientamento. Indubbiamente (non guardare me perché so-no un pessimo discepolo anche qui), penso che gli esercizi yoga mattutini e la meditazione sviluppino profonde energie che riposano nel fondo di noi stessi; non solo, riscattano il corpo da molte sue insufficienze.

(Lettera di Barolini a Capitini del 7 novembre 1957)

Qui vorrei inserire un altro richiamo che bene dimostra come i do-cumenti inediti pubblicati in questo volume abbiano tra loro una capa-cità interattiva e dinamica di illuminare la storia, o meglio la «cronisto-ria», di Barolini: ancora nel carteggio di Barolini e l’arcivescovo Colom-bo, degli anni 1968-197121, troviamo il dibattito rispetto alle altre forme di spiritualità, per esempio l’induismo, a cui Barolini rimane aperto.

Nella poesia Pomeriggio con gli amici s’incontrano quattro amici: «Ludovico», «Cesare», «Aldo», e «Giuliano». Ai nomi di battesimo della poesia quale appare prima nel Meraviglioso giardino del 1941 e poi nel Meraviglioso giardino del 196422, vengono aggiunti i cognomi nelle Note dell’Angelo attento del 1968: «Erano: Aldo Capitini, Carlo Ludovico Ragghianti, Cesare Gnudi, Giuliano Briganti»23. La strofa

21 L’ultima lettera a Colombo citata da Di Nino è del 12 gennaio 1971; Baroli-ni morì nove giorni più tardi, il 21 gennaio 1971.

22 A. Barolini, Il meraviglioso giardino, Milano, Feltrinelli, 1964. Nel Viaggio col veliero San Spiridione, Vicenza, Il Pellicano, 1946, troviamo una versione di que-sta poesia (col titolo Lasciando Torcello, con gli amici) denudata di nomi e di storia. Sul percorso di questa poesia, si veda S. Ramat, Il poeta Antonio Barolini, in Lungo le bianche strade provinciali, Rovigo, Il Ponte del Sale, 2013, pp. 44-102, a pp. 72-74.

23 A. Barolini, L’angelo attento, il meraviglioso giardino e altre poesie inedite, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 287.

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aldina citata sopra è alleggerita di un verso nelle versioni del 1964 e del 1968 (diventa semplicemente «Si parlò a lungo di Goethe, / e Al-do mi spiegò la teoria vegetariana», senza il verso «ch’io non avevo capito nel suo libro»). Ma Aldo è sempre, come nella stesura origina-le del ’41, l’amico che rimane con Antonio più a lungo, l’amico che ritorna nella conclusione della poesia e viene nominato due volte, l’amico che parte per ultimo:

Quindi, ad uno ad uno partimmo, A uno a uno partimmo,con i treni neri, con i treni neri,salutandoci sotto la tettoia. salutandoci sotto la tettoia.Anche Aldo partì, Anche Aldo,che già la notte era cosparsa di lumi. che già la notte era cosparsa di lumi.(Pomeriggio con gli amici, 1941) (Pomeriggio con gli amici, 1964 e 1968)

Data la presenza di Capitini nella poesia stampata nel 1941, non sorprende che Capitini compaia anche nei diari di Barolini scritti durante la guerra, dove viene ricordato nelle parole che Barolini scrive il giorno dopo la caduta di Mussolini, la mattina del 26 luglio 1943. Qui Barolini si permette un momento di auto-compiacimen-to e si vanta di essere stato proprio lui il primo a far venire a Vicen-za Capitini (ed ecco nell’elenco di nomi accanto a Capitini lo stes-so Ragghianti presente nella poesia Pomeriggio con gli amici), il pri-mo «a dare la possibilità agli amici vicentini di contatto con deter-minati gruppi liberali»:

26 Luglio, mattina. È una fantasmagoria, tutti sono pazzi di gioia: è bastato un nulla perché tutta la vescica scoppiasse e si vuotasse del suo me-fitico odore. In ufficio la situazione è buffa e penosa: o diari miei, final-mente posso scrivere in voi e fuori di voi tutta la verità, senza tema di per-quisizioni e di rappresaglie; ora il vostro pensiero sarà chiaro, toglierò da voi tutto ciò che fu scritto per opportunità e ambiguità in caso di perqui-sizione. Resta il fatto che il primo a dare la possibilità agli amici vicentini di contatto con determinati gruppi liberali sono stato io, quando ho cono-sciuto e fatto venire a Vicenza Capitini, Ragghianti, Brizzi, Bassani e altri molti; Antonello, Alicata, poi divenuti comunisti. Viva la pura libertà!

(26 Luglio 1943, dal Diario VI, Bertoliana numero 29, Biblioteca Civi-ca Bertoliana di Vicenza, trascrizione di S. Barolini)

Più tardi nel Diario di prigionia Barolini discute esplicitamente il principio di nonviolenza, sottoscrivendo le idee di Capitini e di-

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chiarando che «è veramente meglio morire noi stessi» che ferire un altro:

Il principio della non violenza dev’essere principio basilare della vita morale contemporanea e dobbiamo intenderlo in forma assoluta, come San Francesco. In questo senso ha ragione Aldo Cap. Per questo senso io mi sento soprattutto incapace di ferire di offendere di aizzare altri al feri-mento, all’offesa. In questo caso è veramente meglio morire noi stessi; si af-ferma molto di più sapendo morire in questo caso.

(Diario di prigionia, dal Diario VIII, Bertoliana numero 31, a p. 93 del quaderno, Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, trascrizione di S. Ba-rolini)

Nell’epilogo del Diario di prigionia, la Cronistoria dal 13 Sett. 1943 anzi dal 27 Luglio 1943 – al 13 Sett. 1945, Barolini ritorna sull’im-portanza di aver fatto venire Capitini a Vicenza, e di aver incoraggia-to il dialogo tra Capitini e gli amici vicentini, datando al 1937 il «pri-mo incontro Ragghianti, Capitini a Venezia»24: «Non eroicamente ma militavo nelle file dell’antifascismo dal 1937 (primo incontro Ragghianti, Capitini a Venezia; io sono stato il primo di Vicenza che ha avuto contatti con essi)» (Diario di prigionia, Cronistoria).

Il dialogo con Capitini era fondamentale per Barolini: il tenta-tivo di vivere secondo il principio della nonviolenza è al centro del-la sua identità e della sua vita morale, e anche della sua vita artisti-ca. Raffaele Liucci nota la centralità del pacifismo cristiano nel ro-manzo Le notti della paura, dove il protagonista si tormenta per il suo comportamento non «eroico»25. Secondo me, questo tema, a cui Barolini pensa continuamente durante la guerra e che molti anni dopo drammatizza nei due romanzi resistenziali, assume per lui un carattere proprio tecnico: nel mio saggio, Testimonianza sto-rica e nonviolenza nei romanzi resistenziali di Antonio Barolini, cer-co di dimostrare che egli sta esplorando la possibilità di mettere in

24 La poesia Pomeriggio con gli amici si situa appunto a Venezia, iniziando con le parole: «Lasciammo Torcello…». La data citata nella Cronistoria per il «primo in-contro Ragghianti, Capitini a Venezia», 1937, ci potrebbe indicare anche lo spunto della poesia.

25 R. Liucci, Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2011, pp. 216-17.

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atto i principi di nonviolenza di Capitini e di fare ciò durante la conflagrazione di violenza che fu la seconda guerra mondiale.

Barolini si sente schiacciato dalla «cronistoria» della sua vita, trascinato alla soglia della disperazione dalla tisi della sorella Cateri-na e dalla sua incapacità di guadagnare abbastanza per salvarla. Da quando è morto il padre nel 1920 Barolini sente il peso della respon-sabilità per la famiglia, e davanti alla malattia della sorella si sente abietto per il fatto di non poter «spendere per lei la misera moneta di due o tre mila lire al mese», come scrive il 14 maggio 1942:

Quest’agonia è una cosa lunga e terribile, che avvolge tutta la vita, che la rende un profondo incubo. Trenta volta al giorno il pensiero ricorre a questa sorella e trenta volte al giorno trovo insolubile il problema della sua cura e mi ribello al pensiero ch’essa almeno potrebbe essere tranquilla e quasi certamente salva se potessi spendere per lei la misera moneta di due o tre mila lire al mese.

(14 maggio 1942, dal Diario VI, Bertoliana no. 29, Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, trascrizione di S. Barolini)

E infatti La memoria di Stefano comincia proprio con una scena in cui Stefano si scaglia contro l’ingiustizia del dover portare la so-rella al «sanatorio che costa meno»26, dove non riceve la cura di cui ha bisogno.

Caterina ha bisogno di una casa sua, con la sua famiglia; ed ec-co qui che ricorre nel diario del 1942 proprio l’immagine della casa indovinata da Michela Rusi, nel saggio La donna, la casa, il paesag-gio: ricorrenze tematiche nella scrittura di Barolini, come struttura profonda dell’immaginario di Barolini:

Basterebbe una casa in campagna (mezza montagna anzi), una dome-stica e sua madre accanto, la visita dei fratelli sovente, il controllo medico una volta al mese, buon vitto (e ora che tutto è tesserato questo è un altro problema e i malati non li vogliono), un radiogrammofono e dei buoni di-schi classici; in fin dei conti così poco ed essa sarebbe felice, guarirebbe.

(14 maggio 1942, dal Diario VI, Bertoliana no. 29, Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, trascrizione di S. Barolini)

Il senso di essere sommerso dalla storia non è mai così forte co-

26 A. Barolini, La memoria di Stefano, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 15.

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me nella raccolta di poesie pubblicata dal Pellicano nel 1949, Il velie-ro sommerso, dove la sezione Voci degli amici morti comprende una serie di poesie-epitaffi (qui c’è la poesia dedicata a Antonio Giurio-lo). Nel suo saggio penetrante Tra i frammenti e i residui del Veliero sommerso: la dimensione del «fondo» e l’utopia linguistica della «parola d’acqua», Maria Luisa Ardizzone trova in Barolini uno che «nuota in un fiume controcorrente, ma si avvale strategicamente del naturale moto verso il mare della corrente. E la corrente in questo caso è la tradizione, che lui ripercorre, ma nella direzione opposta al suo flui-re». In base a questa rivalutazione, Ardizzone inserisce Barolini nel panorama della poesia europea del Novecento e illumina la «dimen-sione del fondo», il «naufragio»: «Il veliero sommerso è la scoperta del-la dimensione del fondo come caduta, ma che diventa condizione abituale. È il dopo della storia. E di questa restano frammenti, ma sul fondo. I residui disarticolati rimandano al passato, il naufragio del veliero è simbolico del naufragio della storia e delle sue rovine».

Barolini vive un continuo e mai placato dibattito interno, echeggiato nel dibattito tra modernità e cattolicesimo, tra l’io mar-cato indelebilmente dal tempo e dalla storia – dalla «cronistoria» che rischia di sommergerlo – e l’io che il poeta ambisce a costruirsi al di là di ogni tempo e di ogni storia.

Ed è importante constatare che il dibattito interno spirituale si riflette anche letterariamente e testualmente: per esempio, negli spo-stamenti da un genere letterario a un altro, tipici della prassi di Ba-rolini già da giovane. Per non parlare dei cambiamenti di registro e di tono che si trovano entro i suoi volumi di poesia: le divergenze per esempio tra le poesie del volume La gaia gioventù del 1938, qui pre-sente soprattutto nel saggio di Giovanni Salviati, e le poesie del vo-lume Il veliero sommerso del 1949, discusso nel saggio della Ardizzo-ne. Anche il testo stesso di una poesia può variare notevolmente, es-sendo pubblicata in diverse sedi e in diversi momenti con cambia-menti non trascurabili. Per esempio, la poesia Toni (Antonio Giurio-lo), pubblicata per la prima volta nel Veliero sommerso del 1949, per-de, nella versione del Meraviglioso giardino del 1964 (dove ha il tito-lo Il capitano Toni), il suo incipit «Come Orlando paladino», verso però restituito al testo nella versione dell’Angelo attento del 1968.

Di questa dedizione baroliniana alla pluralità letteraria – sia nel-la forma micro-testuale dei cambiamenti verbali e testuali tra le di-verse edizioni, sia nella forma macro-testuale del vagare da poesia a

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racconto breve a racconto lungo a romanzo – di tutta questa plura-lità scrive acutamente Paolo Valesio nel saggio qui accolto: «Come se non bastasse, infatti, il suo ripetuto movimento di avanti-e-indie-tro fra due mondi geografici o meglio geo-sociali (Italia e Stati Uni-ti), Barolini si muove (come detto) fra mondo laico e mondo reli-gioso; fra poesia e prosa; e, all’interno del genere “prosa”, fra prosa lunga di romanzo, prosa breve di racconto (con toni diversi da quel-li dei romanzi) e prosa giornalistica e saggistica».

Barolini è il poeta della «cronistoria» in ogni senso e in tutta la sua varietà: sia quale poeta del naufragio storico del Veliero sommer-so, sia quale uomo consacrato alla quotidianità della vita che ci cir-conda, quella cronaca che con lieve tocco coglie e preserva nelle po-esie esaminate destramente da Giovanni Salviati nel saggio I confini meravigliosi del giardino: la speranza in Antonio Barolini «poeta sulle soglie del mondo». Nell’analisi di Salviati, incentrata sui due primi li-bri poetici di Barolini, La gaia gioventù e altri versi agli amici del 193827 e Il meraviglioso giardino del 1941, cogliamo l’apertura baroli-niana a «tutta la varietà del mondo»: «Il dettato baroliniano, teso, deliberato, quasi fanciullescamente caparbio e al tempo stesso igna-ro, è come lo spartito su cui c’è posto per tutta la varietà del mon-do, come in chi non sa in anticipo tutto, ma si sprofonda nel reale con umiltà per saperlo».

Mentre i saggi ricordati sinora si concentrano sulla poesia baro-liniana (Rusi, Salviati, Ardizzone, Valesio), Monica Giachino, a cui possiamo dare il credito di aver rinnovato lo studio di Barolini nel suo saggio magistrale del 198528, si concentra qui soprattutto sui meccanismi della prosa. La Giachino compie un’opera di sintesi in «Stefano sa»: memoria e racconto nella narrativa breve di Antonio Ba-rolini, indagando la memoria quale valore fondamentale negli scrit-ti di Barolini. La memoria nella scrittura baroliniana ha l’effetto di riscattare la cronistoria della vita e di custodire le persone e gli ogget-ti amati in quello che Andrea Sartori accortamente definisce, con memoria agostiniana, «il presente del passato». Infatti il saggio di Sartori, Il presente del passato: memoria e identità personale in «Gior-

27 A. Barolini, La gaia gioventù e altri versi agli amici, Vicenza, Edizioni dell’Asino volante, 1938.

28 M. Giachino, Antonio Barolini (1910-1971), in «Studi novecenteschi», xii, n. 30, dicembre 1985, pp. 183-206.

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nate di Stefano» di Antonio Barolini, suggerisce che Giornate di Ste-fano «pare anzi esplicitamente rifarsi all’archetipo di ogni scrittura in prima persona capace di aprirsi a considerazioni che ne trascen-dono la dimensione meramente individuale: le Confessioni di sant’Agostino, con il loro Libro xi dedicato all’analisi della tempo-ralità, al confluire della memoria (e dell’attesa) nel qui e ora della li-bera soggettività che pensa e agisce».

Soffermandosi sulla «circolarità» dell’itinerario baroliniano, la Giachino nota che «Giornate di Stefano si chiude sul pianto del pro-tagonista bambino di fronte alla morte del padre e sulla lacerante scoperta che “c’è anche la morte al mondo”» mentre «La memoria di Stefano si conclude sul pianto liberatorio del protagonista adulto, che a fronte di un bambino che sta per nascere (e poco importa che quel figlio sia suo o d’altri) può constatare che al mondo c’è anche la vita: “C’è dunque anche la vita, al mondo”». Il voluto specchiar-si tra i due testi, uno scritto nel 1928 e ripubblicato più di qua-rant’anni dopo quale Appendice al romanzo maturo, La memoria di Stefano29, illumina la consapevole dialettica della scrittura barolinia-na e il suo farsi, nelle parole perspicaci di Michela Rusi, «un percor-so unitario, essenzialmente monotono nell’accezione positiva della “monotonia” come valore che ne aveva il coetaneo Cesare Pavese, cioè di ricerca e scavo nel proprio “gorgo”».

Gli amici non si aspettavano che Barolini andasse via da Vicen-za. Da certe battute quasi esasperate della corrispondenza di Neri Pozza, per esempio, è chiaro che l’idea di un Barolini nordamerica-no era pressoché inconcepibile. Anche sotto questo aspetto, in altre parole, e nei modi segnati da Paolo Valesio nel suo saggio su un Ba-rolini, più che tra due mondi, tra due concetti – Antonio Barolini fra radicamento ed espatrio –, Barolini fu un uomo più aperto alla dialettica che non si pensasse. Radicato (come la famiglia di retro-terra di sua madre) in una Vicenza di allora che si estende capillar-mente nei suoi scritti, Barolini si è mostrato anche scaltro erede del-la famiglia paterna, una stirpe di marinai veneziani: marinaio della vita, Barolini era capace di navigare situazioni che erano, sì, molto diverse da quelle delle sue origini, ma non percepite da lui come aliene.

29 A. Barolini, Giornate di Stefano, Padova, Tolomei, 1943; A. Barolini, La memoria di Stefano, Milano, Feltrinelli, 1969.

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Un altro esempio di specularità memoriale fornita dalla Giachi-no lega due momenti in cui Barolini è ricoverato in un ospedale, il primo veneziano, dove Barolini fu portato dopo la liberazione nel maggio del 1945, e il secondo di Tarrytown, New York, dove Baro-lini si trova nel febbraio del 1964, dopo l’attacco cardiaco:

La degenza in una modernissima clinica statunitense negli anni Sessan-ta richiama alla mente, soprattutto la mattina presto mentre lo sguardo se-gue al di là dei vetri il volo dei gabbiani sul fiume, un’esperienza simile vis-suta vent’anni prima: il ricovero, nell’aprile del 1945, presso l’Ospedale Ci-vile Santi Giovanni e Paolo di Venezia, nei giorni confusi tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la Liberazione. Il recupero memoriale è reso più intenso dalla presenza nel letto accanto di un uomo magrissimo, Mr. Goodman, che ricorda «un altro uomo magrissimo», un compagno di stanza di tanti anni prima, Mario Levi, persona di profonda fede.

Come descritto nel racconto Cronache d’ospedale, nell’ospedale nordamericano Barolini si trova vicino un «Mr. Goodman» che ri-corda «un altro uomo magrissimo»30, un compagno di stanza di tanti anni prima: si chiama Mario Levi nel racconto e si tratta di Giuseppe Fano di Trieste nella storia ricostruita dalla Giachino (si veda a proposito la nota 27 del suo saggio). Qui ci troviamo di nuovo davanti alla presenza del passato, e davanti a un’apertura mentale che si trova pronta a registrare le somiglianze umane più che le differenze.

Un valore centrale del Barolini maturo, affine alla carità stessa, è l’apertura: parola che risuona nelle lettere a Capitini, autore non per niente di un libro intitolato Religione aperta. Sia in contesti filo-sofici, sia in contesti politici, sia in contesti personalissimi, scriven-do dei rapporti con la moglie (con la quale gli manca «quell’apertu-ra che sarebbe necessaria a portare nella tua verità anche la persona che ti sta vicina e per la quale la strada è un’altra»31), Barolini ritor-na al concetto cardinale di apertura. Barolini è poeta dell’inclusio-ne: dell’assorbimento dell’altro e del nuovo nel passato vecchio ma sempre rinnovato e teso verso un futuro dove, nelle ultime parole del suo ultimo romanzo, ci sarà «anche la vita, al mondo».

Si potrà discutere se è l’esperienza americana che ha creato l’a-

30 A. Barolini, L’ultima contessa di famiglia, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 290.31 Lettera di Barolini a Capitini di 7 febbraio 1956.

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pertura in Barolini, come lui stesso suggerisce scrivendo di apertu-ra religiosa all’arcivescovo Colombo (si veda il saggio di Di Nino), o se l’esperienza americana ha invece confermato – come penso io – un aspetto del suo carattere già presente e disposto a recepire la novità e la differenza. La disposizione all’apertura fu, secondo me, svegliata dalle esperienze fondamentali della seconda guerra e della clandestinità veneziana: esperienze a cui Barolini torna con la me-moria ancora alla fina della vita, negli ultimi romanzi.

Paolo Valesio lega la «forte plurivocità» di Barolini alla «poesia dell’espatrio»:

Ma riappare la sovradeterminazione dell’espressione poetica, qui con-centrata nella figura di un espatriato. Ogni andata-venuta può configurar-si come la lacerazione del distacco da una radice diversa: dall’Italia verso gli Stati Uniti; ma poi dagli Stati Uniti verso l’Italia (le «cronache del Canave-se»); poi ancora il ritorno dall’Italia verso gli Stati Uniti; e ancora dagli Sta-ti Uniti all’Italia – ritorno «finale» solo perché troncato dalla morte. E in questi movimenti di vita agiscono elementi politici (o anti-politici) e spiri-tuali (la fede cristiana alla prova del confronto con fedi e ideologie diver-se), così come elementi personali e sentimentali. La poesia dell’espatrio na-sce da questa forte plurivocità.

Condividendo le conclusioni di Valesio rispetto alla plurivocità di Barolini, vorrei solo aggiungere che i segni di tale prospettiva era-no presenti molto prima della sua esperienza di espatrio. Nascono, come si vede già nei diari, dalla stessa indole incline alla tolleranza che lo porta al rifiuto del settarismo durante la seconda guerra (e dopo) e al forte attaccamento alla dottrina di nonviolenza.

Mi soffermo in conclusione sulle peregrinazioni poetiche di una strofa baroliniana che ho sempre molto amato, e che mi sembra, nel suo richiamo al «bosco della vita», un perfetto emblema dell’apertu-ra spirituale del poeta. La strofa ha origine nella poesia Quel giovine collega, stampata nel Meraviglioso giardino del 1941, dove si trova in-serita in una lunga poesia32. Nel Meraviglioso giardino del 1964, or-

32 «O meraviglioso giardino, / non ho occhi se non per te; / dolce bosco della vita, dove camminano le creature» (Quel giovine collega, strofa 6). La strofa è iden-tica quando Barolini ristampa Quel giovine collega nel Viaggio col Veliero San Spiri-dione. Si veda il saggio di Michela Rusi per la discussione di Quel giovine collega, ivi stampata per intero.

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mai svestita dell’«O» iniziale e dell’aggettivo «dolce», la strofa ha una diversa dignità. Isolata, non più parte di una poesia ma un te-sto a sé stante, è diventata epigrafe del volume stesso:

Meraviglioso giardinonon ho occhi se non per te,bosco della vitadove camminano le creature.

Il desiderio di Barolini («non ho occhi se non per te») si dirige al «meraviglioso giardino», al «bosco della vita», a un’esperienza, in-fine, eminentemente plurale: «dove camminano le creature».