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Intervista di Claudio Sanfilippo (cs) a Franco Fabbri (ff) per Ciminiera: periodico di poe-
sia, narrativa, musica, arte, teatro, cinema, raccolta nell’ottobre 2003.1
cs – Sull’onda degli avvenimenti generati dalla tragedia dell’11 settembre hai pubblicato su
l’Unità un breve articolo che mi ha fatto riflettere molto fin dal titolo: «I confini delle musi-
che. E delle civiltà». In quello scritto sostieni l’importanza dei «generi musicali» in quanto
espressione di diverse unità culturali con delle proprie norme e tradizioni che servono in qual-
che modo «a regolare il traffico di una ragnatela fittissima che investe in modi diversi tutto
l’universo musicale». E poi citi Iannis Xenakis: «le musiche sono come le nuvole, si muovo-
no, si trasformano, si compenetrano, ma non hanno limiti né confini.» Non c’è un «di qui» e
un «di là». Possiamo definire questo apparente contrasto come un paradigma efficace del ruo-
lo della musica, e ancora di più dei musicisti, nel mondo della ipercomunicazione?
ff – Hai ragione a dire che il contrasto è apparente. Nel senso comune le categorie, le classi, i
tipi, i generi vengono immaginati come dei contenitori solidi, con contorni netti che separano
ciò che appartiene e ciò che non appartiene a questa o quella categoria, a questo o quel tipo.
L’organizzazione di una biblioteca o di un negozio di dischi è un ottimo modello concreto,
certamente una realizzazione pratica di quell’astrazione. Ma anche in questo modello ci si
confronta con casi problematici: libri o dischi che sembrano appartenere a più di una categoria
(il romanzo-saggio, il rap brasiliano – sarà rap o world music?) o a nessuna di quelle esistenti.
Di queste cose (le categorie, i generi, i tipi, le classificazioni) si occupa da millenni la filoso-
fia, e da qualche decennio le cosiddette scienze cognitive. I cognitivisti hanno ipotizzato che
la nostra mente non funzioni secondo il modello dei contenitori, ma che per decidere se un
oggetto o un concetto appartiene a una categoria o a un’altra si affidi a funzioni e meccanismi
diversi, per descrivere i quali sono state coniate espressioni come «categorie sfumate» (fuzzy),
«arie di famiglia», e dove sembrano giocare un ruolo importante singoli oggetti presi come
prototipi. Per fare un esempio musicale (fin troppo banale), è difficile dare una definizione e-
saustiva di cosa sia la canzone d’autore, ma certo è abbastanza sfumata da accogliere nel ge-
nere anche un o una cantante che interpreta una canzone non propria (purché scritta da un
1 Quest’intervista non è stata concepita come un testo accademico. Trovo comunque che sia interes-sante ripubblicarla a dodici anni di distanza, come testimonianza dello sviluppo di riflessioni e concetti che hanno trovato spazio in mie pubblicazioni successive, a cominciare dal libro L’ascolto tabù (2005). A quell’epoca la mia presenza nell’università italiana era molto limitata: tenevo due corsi a contratto a Torino, e uno a Savona: come si coglie da un passaggio di questa intervista, però, la batta-glia dell’ala più conservatrice della musicologia italiana contro i popular music studies era già iniziata.
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cantautore); sappiamo che un’interpretazione con un certo tono da cantautore «fa» canzone
d’autore (mentre se Al Bano cantasse un inedito di Tenco forse si farebbe fatica a riconoscerlo
come appartenente al genere); e sappiamo che se poi uno ha la voce di De André e
l’espressione facciale di De André (o di Paul Simon) verrà accettato come cantautore più
«spontaneamente» di uno con la voce e l’espressione facciale di Claudio Villa (o di Captain
Beefheart). E tutto questo nonostante che per una definizione formale di canzone d’autore (sia
come canzone d’arte – «Binario» non lo è? – sia come canzone scritta da un autore che la in-
terpreta anche) tutti gli esempi che ho elencato siano ugualmente validi. Quindi, il fatto che i
generi «esistano» – non come entità metafisiche, ma come concetti di uso comune – già di per
sé non implica affatto che debbano avere limiti e confini netti. Alla critica musicale è piaciuto
(e non da sempre: grosso modo dagli anni Ottanta in poi) immaginare i generi come dei terri-
tori, con le loro brave frontiere, le terre di nessuno, le enclaves, le barriere e i muri (normal-
mente da abbattere o attraversare). Un artificio retorico brillante, in un’epoca nella quale la
storia della musica veniva concepita come una linea, di inevitabile progresso, al di fuori della
quale c’era la non-musica, la musica «di consumo». Ma dopo vent’anni la metafora è diventa-
ta fiacca, priva di sorprese, sembra che questi confini e queste barriere (anche se da abbattere)
siano la cosa in sé.
C’è un altro modo di vedere questo problema. La rappresentazione topografica dei generi mu-
sicali implicherebbe che fossero enti bidimensionali, o riducibili a due dimensioni. I generi
musicali non lo sono. Chiunque cerchi di comprendere la loro natura si rende conto che
l’appartenenza a un genere implica il rispetto di un numero alto (certamente maggiore di due)
di norme di vario tipo. Già vent’anni fa Philip Tagg e io, indipendentemente l’uno dall’altro,
avevamo osservato come un singolo genere musicale possa venire descritto da un vettore (una
matrice di una riga e n colonne) dove ogni elemento (ogni casella) indica l’efficacia di una
certa norma per quel genere. Tagg descriveva così, con una matrice di tre righe e n colonne, il
sistema della musica occidentale, distinguendo fra musica colta, musica di tradizione orale
(folk), popular music. Non voglio insistere sull’applicazione di formalismi matematici alla
descrizione di fenomeni culturali: implicitamente, è chi paragona i generi a territori su una
mappa che lo fa. Ma, se accettiamo il gioco, allora dobbiamo osservare che un genere è un
oggetto multidimensionale, la cui rappresentazione spaziale è molto più complessa. L’idea
delle nuvole, suggerita da Xenakis, mi piace perché rende immediatamente la mobilità e la
compenetrabilità dei generi, e perché – detta da un musicista di formazione scientifica più che
solida – mi ricorda le rappresentazioni degli orbitali molecolari o di funzioni statistiche a n
dimensioni: sono queste le immagini che cerco di tenere a mente quando ragiono sui «confi-
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ni» tra un genere e l’altro.
Infine, tornando all’origine del tuo spunto, voglio sottolineare che quello che ho detto sui
«confini» tra generi musicali vale – a maggior ragione – per sistemi ancora più complessi,
come le culture. Il periodo post 11 settembre è stato ricco di teorizzazioni grevi sullo «scontro
fra civiltà», nelle quali la nozione di confine veniva usata come un’arma. Indipendentemente
dall’11 settembre, e prima di quella data, mi ero convinto che la percezione di una cultura da
parte di appartenenti a un’altra cultura si basa spesso in modo determinante sulla proiezione
sull’altro di ciò che non si ritiene di essere o non si vuole essere. Edward Said ha insegnato
che la nozione di «Oriente» che gli occidentali hanno costruito corrisponde più alle paure, ai
tabù e alle false credenze degli occidentali che alla realtà così come viene percepita non solo
da chi appartiene al mondo orientale, ma anche da chiunque abbia un contatto non occasionale
con quelle culture. E viceversa, naturalmente. Per questo in quell’articolo che citi mi augura-
vo che una migliore comprensione della complessità dei generi musicali e dell’insussistenza
di certi «confini» potesse aiutarci a considerare in termini più realistici la questione dello
«scontro di civiltà». E certo, la percezione della caduta dei confini (o della loro inadeguatezza
a rappresentare il mondo) è un aspetto centrale della vita musicale e più ancora della vita dei
musicisti, oggi. È la globalizzazione, ragazzi!
cs – mi pare di cogliere un senso nuovo, profondamente diverso dagli archetipi post nouvelle-
vague e post sessantotto (peraltro ancora diffusi, per fortuna o per disgrazia), della funzione
sociale del musicista, o sbaglio ?
In realtà potrebbe voler dire che oggi è «tutta musica di consumo» (come in larga misura an-
che ieri) e che le differenze e le direzioni sono molto meno assoggettabili alla critica o al mar-
keting di una multinazionale, e così anche il ruolo del musicista si ritrova a vivere in un con-
testo più ampio e trasversale ?
C’è anche da dire che non esistono altre forme d’arte che negli ultimi vent’anni abbiano subi-
to sconquassi tellurici come il mondo della musica. Dall’avvento del cd a Internet, dai video
musicali e relative tv al mondo dei computer... è cambiato l’ascolto della musica, sono cam-
biati i modi di registrarla, e anche di comporla, nonostante il buon artigianato resista...
ff – Mi sembra che sia già stato detto che l’essenza della globalizzazione consista nel trasfe-
rimento a qualsiasi industria (calzaturiera, automobilistica, tessile, ecc.) delle strategie e delle
modalità produttive dell’industria musicale: importanza del brand (del «nome»), automatizza-
zione spinta, delocalizzazione, smaterializzazione (si vendono diritti, non prodotti), ecc. In
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questo senso i musicisti negli ultimi vent’anni hanno sperimentato in anticipo un mondo del
quale altri lavoratori hanno fatto la conoscenza molto più di recente. Sere fa parlavo con un
musicista cubano, che lavora qui nei pub. Per uno abituato a gruppi di dodici-quindici musici-
sti, tutti diplomati al conservatorio, che fanno musica da ballo dal vivo (perché a Cuba è sem-
plicemente inconcepibile ballare la salsa o la timba con dei dischi) la situazione che ha trovato
qui è uno shock. Mi ha raccontato di aver assistito a una festa di matrimonio a Rimini dove
c’era un’orchestra di nove elementi (perché il numero «fa» ricco), dove in realtà suonavano
solo il cantante (noto), un chitarrista, e quello che faceva andare le basi Midi. Il tastierista a-
veva una tastiera finta, disegnata; il bassista aveva un amplificatore leggerissimo (dentro non
c’era l’altoparlante). Lo stupore del musicista cubano può forse farci sorridere, ma se penso a
vent’anni fa, quando gli Stormy Six hanno smesso di essere un’entità economica nel mondo
della musica italiana, ricordo che suonavamo in sei o sette, ciascuno diversi strumenti, che
componevamo e leggevamo tutta la nostra musica, che i mezzi di produzione (compreso im-
pianto audio e parco luci, e due camion per trasportare tutto) erano nostri; solo due anni dopo
tutto questo sembrava antidiluviano, in un mondo di duetti e di trii, sincronizzati con basi Mi-
di, con mezzi di produzione noleggiati. Noi eravamo gli artigiani: ora la figura dell’artigiano
della musica rimane metaforica (e quindi svuotata). L’artigiano della musica oggi è un
co.co.co., un precario, se va bene un professionista con partita Iva: ma l’essenza
dell’artigianato (la proprietà dei mezzi di produzione, in un lavoro di alta intensità di mano
d’opera qualificata) si è dissolta.
Più che mai, in una situazione come questa, io penso che un musicista che si voglia divertire
(men che meno che voglia «dire» qualcosa) debba lavorare per progetti, infischiandosene del-
le regole produttive della discografia e delle «leggi del mercato». Perché se è vero che
l’industria discografica è stata la prima a operare sui modelli della globalizzazione, è anche
l’unica che non se ne sia fatta una ragione. Quindi l’incontro fra la produzione e il mercato re-
sta affidato al caso, e non vale la pena di preoccuparsene troppo. Ma, naturalmente, ci sono
persone a cui piace perfino lavorare in un call center.
cs – A proposito, quali sono i progetti a cui ti stai dedicando ? So che recentemente hai ope-
rato una svolta nella tua vita professionale proprio per poterti dedicare a ciò che ti piace e che
ormai da anni occupa gran parte del tuo tempo, che è l’attività didattica... e la musica suonata,
composta? Quale sono le strade che stai percorrendo e come le vivi in rapporto alla tua attività
di musicologo e di docente?
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Da anni ho un progetto, un ciclo di canzoni (non necessariamente un album). Ma le mie con-
dizioni di lavoro mi hanno impedito anche solo di cominciare; ne sanno qualcosa alcuni musi-
cisti coi quali ne ho parlato, e che ho intenzione di coinvolgere. Finora ho composto qualche
pezzo strumentale, o di musica elettronica, che mi è servito anche per mettere a punto delle
tecniche di scrittura. Quasi per caso, due anni fa, ho lavorato con Cesare Picco a uno spettaco-
lo didattico su canzoni di Fabrizio De André: un lavoro che mi ha divertito e appassionato, dal
quale ho imparato molto sia sulla musica di De André e dei suoi collaboratori, sia sulle mie
capacità vocali. Su quello slancio ho fatto qualche serata da solo e due in compagnia (una con
Gualtiero Bertelli, una con Bertelli e Fausto Amodei). Ho perfino cantato in un palasport con
migliaia di persone, insieme a Picco, rendendomi conto che le canzoni che ho scritto per gli
Stormy Six funzionano benissimo anche così (un’accoglienza trionfale: mi ha fatto un certo
effetto scoprire di essere una specie di rockstar «in sonno», per usare un termine spionistico).
Con il gruppo, comunque, continuo a cantare e suonare, se mai ne capita l’occasione, e se
siamo tutti disponibili. Sono sempre stato convinto che i miei studi musicali e l’insegnamento
(e la scrittura di articoli e saggi) abbiano una qualità particolare – non necessariamente siano
migliori di altri, ma certamente differenti – perché ho un’esperienza diretta della musica, in
diversi generi. Come minimo, questo mi motiva a continuare. Ma ho fiducia che dedicando
più tempo alla musica nel suo complesso, il mio progetto di canzoni (non posso dire di più,
per scaramanzia) si farà strada.
cs – In casa tua oltre ad alcune belle chitarre (penso soprattutto a una Raspagni acustica vinta-
ge) campeggia un piano a mezza coda. Quale strumento prediligi per comporre?
E poi: nelle tue riflessioni c’è una parte decisiva dedicata alla struttura formale delle canzoni
(penso in particolare a Il suono in cui viviamo, che peraltro sarebbe un magnifico titolo per un
disco). Negli anni settanta ricordo alcuni tentativi di «destrutturare» la forma-canzone a cui si
era abituati, mi pare però che nel frattempo i canoni egemoni siano rimasti gli stessi...
ff – Ho composto soprattutto sulla chitarra, non sono un pianista. Ma uso il pianoforte per ve-
rificare le orchestrazioni, e i pezzi che scrivo direttamente in partitura (per gli Stormy Six ho
scritto così «Rosso», «Le lucciole», l’ouverture del «Pinocchio Bazaar», «Somario»). Una co-
sa a cui tengo molto è l’equilibrio dei registri, e quando si usano strumenti che traspongono
un’ottava sotto come il basso elettrico o la chitarra è facile scrivere cose sbilanciate. Sul piano
lo si capisce subito.
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Nella produzione corrente di oggi sembra esserci poca consapevolezza della potenza espressi-
va della struttura di una canzone, ma direi anche che gli autori che sanno quello che fanno u-
sano questa forza con molta sottigliezza. Penso a Chico, ai miei amati greci (Málamas, Xida-
kis), a Costello, allo stesso Sting, a un grandissimo ignorato come Richard Thompson. Non ci
sono violazioni clamorose alle forme canoniche, non ci sono le condizioni per scrivere una
canzone durchkomponiert (senza elementi strofici, in continua variazione dall’inizio alla fine)
come quelle dei gruppi radicali degli anni settanta, ma a volte le piccole irregolarità sono an-
cora più espressive. Oltre i limiti dell’ovvietà, poi, sono convinto che il controllo della forma
sia il «vero» segreto del mestiere di musicista. Ricordo, su questi argomenti, discussioni infi-
nite, nel pulmino degli Stormy Six.
cs – A proposito dei nomi che citi mi vengono in mente Milton Nascimento e Joni Mitchell,
maestri della composizione «circolare».
«Una buona musica con un testo appena sufficiente può essere una buona canzone, il contra-
rio non è possibile». Questa frase la sentii pronunciare dal grande Carlo Alberto Rossi (autore
di decine di successi tra cui «E se domani») durante un dibattito sulla musica italiana ormai
molti anni fa. È chiaro che una buona canzone risiede idealmente nella fusione tra musica e
testo, ma trattasi di una forma espressiva squisitamente musicale... oppure «multimediale»?
ff – Certo, anche Milton, ma lo trovo più discontinuo. Avevo dimenticato di citare Joni Mi-
tchell.
Carlo Alberto Rossi era un amico di mio padre, abbiamo fatto anche vacanze insieme, quando
ero ragazzino. Per me ha sempre rappresentato il mondo della canzone, istituzionalmente, sot-
to tutti gli aspetti. In un certo senso, la mia opinione sull’editoria musicale e la discografia,
anche la più ostile, è sempre stata temperata o misurata dalla conoscenza di quest’uomo della
generazione di mio padre, un signore, un competente, uno che però accoglieva come dati di
fatto principi e comportamenti per me inaccettabili. Mio padre, fra parentesi, fu incaricato di
organizzare il Festival di Sanremo del decennale, nel 1960. Venne poi costretto alle dimissio-
ni, fra l’altro perché aveva proposto che le giurie fossero scelte con metodi demoscopici, e
non fossero diretta emanazione dell’industria. Fu anche disgustato dagli infiniti tentativi di
corruzione, spontanei e immediati. L’unico regalo che accettò fu una fonovaligia stereo (una
delle primissime), perché veniva, in amicizia e senza secondi fini, da Carlo Alberto Rossi.
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Tornando a Rossi, quella che citi è un’affermazione sensata, ma proprio nei limiti di quel sen-
so comune istituzionale del mondo della canzone che meriterebbe – invece – una revisione
radicale. Cosa vuol dire «sufficiente»? Che cos’è che rende «appena sufficiente» il testo o la
musica di una canzone? Rispetto a quali valori? Credo che ti potrei fare un elenco piuttosto
lungo di canzoni con un testo eccellente (secondo me!), e che proprio per questo considero
canzoni buone o ottime, con la certezza che Carlo Alberto Rossi non le troverebbe «buone
canzoni», e che valuterebbe la loro musica «appena sufficiente». È chiaro che quel senso co-
mune è forte (come mai a un paroliere si danno 4/24 e a un compositore il doppio?), ma io
credo che sarebbe più produttivo pensare che una composizione di musica e testo sia un ibrido
molto specifico, che può essere giudicato solo in funzione della combinazione dei suoi ele-
menti costituitivi. Il fatto è, poi, che nemmeno la musica (compresa quella strumentale, com-
presa l’Arte della fuga) è «di natura squisitamente musicale»: voglio dire che la musica è
un’espressione integralmente umana, e in quanto tale comunque intessuta di elementi che ri-
mandano ad altro, al non-musicale. È il crocianesimo che relega la musica al mondo della tec-
nica, allo specialismo, quindi al privilegio riservato ai «tecnici» di decidere cosa è «sufficien-
te». Ma la musica, dentro quello schema, non ci sta. Su «multimediale» ho qualche riserva. Sì,
se sottintende che vedere un cantante in concerto è fondamentale (nessuno oggi può avere
nemmeno un’idea di cosa fosse Jacques Brel dal vivo); no se implica che musica e parole ci
arrivino attraverso canali diversi.
cs – Sono d’accordo, un po’ meno su Milton. Concordo sulla discontinuità, che peraltro ac-
compagna molti grandi brasiliani della sua generazione, al tempo stesso trovo che Nascimento
metta sul piatto una vocalità originale e poetica come raramente è capitato nella canzone e che
alcuni suoi lavori tocchino vette espressive di grande raffinatezza, di ineguagliabile unicità.
Chissà perchè a me Nascimento mi fa venire in mente Mina...
Sulla musica come espressione «integralmente umana», potremmo dire allora che la musica è
parente stretta della poesia, o meglio, che sono facce diverse della stessa medaglia?
Mi vengono in mente i Cantacronache di Calvino, Fortini, Amodei, Straniero... in realtà
l’esplorazione delle affinità tra musicisti e poeti non si è mai spinta più in là di molto...
ff – Non voglio insistere su Nascimento, che certamente conosci meglio di me. Ho presente il
suo ultimo album, nel quale ho trovato solo un paio di cose interessanti. Ma direi che la riso-
nanza con Mina calza a pennello, anche in questo.
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Purtroppo, anche se vorrei poter indulgere, sono molto reticente ad accettare l’uso estensivo o
metaforico di termini come «poesia» e «musica». Anche qui il crocianesimo è in agguato.
Preferisco parlare della poesia come della pratica di comporre dei versi, e della musica come
della pratica di comporre dei suoni. Entrambe, e anche insieme, possono dar luogo a risultati
di grandissima intensità estetica. La presuntuosa superiorità che Croce attribuisce alla poesia
su tutte le altre arti (ultima la musica) – tanto che anche nel linguaggio dei non crociani in Ita-
lia «poesia» è tout court sinonimo di efficacia artistica (e lo si usa anche per i calciatori...) – fa
sì che nella nostra storia recente (post-Croce) siano rari e stentati gli approcci fra poeti e mu-
sicisti: nel paese del madrigale di Marenzio, Gesualdo, Monteverdi, nel paese dell’opera, della
canzone napoletana. A me piace spesso ricordare (lo faccio anche ora) che in Grecia è norma-
lissimo che un musicista (colto, o popular) musichi testi di Kavafis, di Elitis, Seferis, Ritsos, e
queste canzoni non sono «esperimenti» come anche di recente si è fatto qui, ma pratica cor-
rente, a volte di grande successo. Ho sentito con le mie orecchie il pubblico di concerti pop (e
non certo un pubblico urbano, raffinato) cantare in coro a memoria versi di Costantino Kava-
fis, o dell’Erotocrito (il poema cavalleresco tardo-rinascimentale, col quale nasce la letteratu-
ra neogreca). È come se Fossati musicasse Campana, o De Gregori l’Orlando Furioso. «To
parapono» (il rimpianto), su versi di Elitis, è uno dei maggiori successi di Eleftheria Arvani-
taki, si trova sulla sua antologia che si vende anche in Italia. «Defteri zoì den èchi», una se-
conda vita non c’è. E noi ci titilliamo ancora con «Dove vola l’avvoltoio» (bella canzone, non
discuto).
cs – credo che comincerò ad approfondire la musica che proviene dalla Grecia, ricordo una
tua trasmissione a radio rai 3 in cui passasti diverse cose molto belle. Ma quali sono a tuo pa-
rere, oltre la Grecia, i luoghi dove si produce buona musica e che noi non conosciamo e che
magari avrebbero pure delle affinità naturali con il nostro modo di «sentire» la musica?
ff – Ho sentito cose che mi sono piaciute molto dalle direzioni più disparate. Dal Brasile – na-
turalmente, direi – col quale ho rapporti non tanto perché sia nato là (non ci sono mai tornato)
ma perché ho molti parenti che ogni tanto mi mandano dischi: l’album di Renato Braz che ha
vinto il premio Visa della MPB è molto bello. Quasi al polo opposto ho quasi tutti gli album
(meno uno) delle Värttinä, finlandesi (uso il femminile perché sono quattro donne che canta-
no, ma ci sono anche vari strumentisti maschi molto bravi). Pensare che le ho scoperte al Fe-
stival del Club Tenco, qualche anno fa, dove erano approdate per qualche coincidenza mana-
gerial-discografica, ed erano state trattate con un certo distacco, come se con la canzone
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d’autore non c’entrassero. Ripeto che un cantautore eccezionale è Richard Thompson, che se-
condo me sta ai vari personaggi angloamericani omaggiati a casa nostra tanto quanto i «gran-
di» come Kubrick o Coppola stanno ai registi di routine. Ho molto apprezzato un album di
Uxia, cantante galiziana, e uno di Sussan Deyhim, iraniana che sta a New York, su poesie su-
fi. Trovo molto bello il lavoro di Bustan Abraham, un gruppo israeliano formato da ebrei e
palestinesi. Molte di queste cose non si trovano nei negozi di dischi, nemmeno in quelli spe-
cializzati. Però sono colpito dall’atteggiamento dei critici, che sanno benissimo quanto la di-
stribuzione sia inefficiente e quanta musica di valore non arrivi in Italia, ma al tempo stesso
sembrano dare per scontato che quello che non arriva direttamente a casa loro, per cortesia dei
discografici, non esista. La Grecia è un caso macroscopico: non c’è amico o collega al quale
abbia fatto sentire gli album recenti di Málamas, di Xidakis, di Melina Kaná, eccetera, che
non sia rimasto a bocca aperta. Sto parlando di persone come Cesare Picco, Piero Milesi, Iva-
no Fossati, Eugenio Finardi. Ma tutti pensano che la Grecia sia il paese del sirtaki, e un critico
e organizzatore importante, che non nomino, quando è venuto all’unico concerto di Málamas
in Italia alla fine mi ha detto: «Ma è tutto un po’ sempre uguale». Capisci, queste sono le per-
sone che trent’anni fa ridevano dietro al povero funzionario della RCA di Roma che trovò po-
co interessante un provino di un certo Bob Dylan. «Tutto un po’ sempre uguale»: un bel
commento standard, applicabile a Leonard Cohen e a Brassens, e anche a Mozart, Wagner,
Ravel.
cs – insomma, il solito provincialismo, la solita omologazione verso il nulla...
Colgo la scusa degli album che citi per collegarmi a quanto scrivevi in «Mina, una forza in-
cantatrice», quando la accostavi ai Beatles in quanto «artista del disco», parlandone come uno
specifico musicale. Oggi, come già detto, l’ascolto della musica è radicalmente cambiato, è
più distratto e frammentato, così come la registrazione di un disco è diventata un’operazione
molto diversa. Pare che la potenziale semplicità offerta dalle nuove tecnologie abbia generato
meccanismi creativi meno immediati. In che senso può valere oggi la tua definizione di «arti-
sta del disco»?
ff – Essere un artista del disco oggi non ha più lo stesso potenziale di novità che aveva negli
anni sessanta, quando si scopriva (traendone le conseguenze) che il disco non era la riprodu-
zione di una performance, ma un artefatto autonomo, dotato di una forza espressiva che fino a
quel momento solo il cinema aveva sperimentato (il montaggio, gli effetti speciali...). A me
sembra che oggi, essendo relativamente più facile ottenere una qualità standard abbastanza al-
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ta, ci si stia adagiando nell’illusione della trasparenza digitale, e paradossalmente tornando
indietro: dato che non è più necessario ingannare l’ascoltatore con i trucchi – perché il soffio
non c’è più, e nemmeno il gracchiare della puntina, la dinamica limitata e così via – allora si
finisce per fare del disco, di nuovo, un surrogato della performance. Pur non avendo una par-
ticolare propensione per la sperimentazione in sé, a me piacciono molto i musicisti (inclusi i
produttori) che provano di nuovo a mescolare le carte: a mettere una voce o uno strumento in
un angolo (sembra quasi che lo stereo non serva più a niente, nella produzione corrente), a
creare degli ambienti molto caratterizzati, a rischiare suoni bruttini (non brutti, sgradevoli, che
è banale: bruttini, come una chitarra troppo cupa, una batteria un po’ «di latta», eccetera).
L’ascolto oggi è distratto anche perché i dischi sembrano tutti uguali, registrati nello stesso
studio, con gli stessi musicisti e gli stessi strumenti (in particolare i dischi dei cantautori ita-
liani sono una vera pena). Ti assicuro che quando si sente un pezzo di un «artista del disco»,
le orecchie si drizzano.
cs – concordo, anche perché la ricerca degli ambienti è al centro della musica, e l’ascolto pre-
suppone sempre un luogo di riferimento, vero o immaginario che sia. Purtroppo la presunta
facilità d’uso di certe strumentazioni sta generando uno scadimento medio della qualità sono-
ra. In realtà vi sono punte altissime (talvolta anche in certa musica prodotta in Italia), ma tro-
vare gli spazi adeguati che le valorizzino è assai arduo. Anche la musica puramente acustica
soffre di un analogo problema. Dall’avvento delle amplificazioni in diretta, tutti gli strumenti
a plettro non vengono più microfonati, e così anche i fonici stanno via via perdendo
l’abitudine allo studio del posizionamento dei microfoni per le riprese in diretta di una chitar-
ra o di un contrabbasso. Il risultato è un suono banalizzato, e ogni musicista in realtà vanifica
il proprio stile, il proprio tocco, in una sonorità che non accompagna il suo stile. Eh, ma la
musica è un affare molto articolato e difficile, e meriterebbe attenzione e amore...
I media sono pressoché assenti, a parte qualche rara isola felice che riguarda la radio, ma an-
che lì le cose stanno degenerando. Mi viene in mente radio rai 3, di cui tu sei stato collabora-
tore per lungo tempo, e che sta attraversando un momentaccio. Il ruolo della radio può davve-
ro significare un’ancora di salvezza per la musica di qualità...
ff – Sono d’accordo con te, in particolare sull’effetto che ha avuto sulle abilità dei tecnici del
suono l’adozione sistematica dei pick-up sugli strumenti acustici. Io stesso ho dovuto com-
prarmi una chitarra Takamine, dopo aver verificato nei concerti che i tecnici non avevano la
minima idea di dove piazzare e come regolare un microfono. Quando capita che suoniamo
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con gli Stormy Six abbiamo parecchie difficoltà, perché usiamo molti strumenti acustici, e
non tutti sono amplificati (come la leggendaria balalajka di Stalingrado, comprata in un festi-
val dell’Unità trent’anni fa: chi la trova una balalajka con pick-up e preamplificatore?).
La radio potrebbe essere il medium ideale per la musica di qualità. Purtroppo quasi tutte le ra-
dio trasmettono gli stessi quaranta pezzi da classifica. È una politica idiota: per il piatto di len-
ticchie dei cd regalati dai discografici le radio perdono la possibilità di creare una propria i-
dentità autonoma, che vale molto ma molto di più. Quello che mi sorprende è che non ci sia
nessun imprenditore dei media che abbia minimamente pensato quanto varrebbe (anche in
termini pubblicitari) una radio di qualità.
La storia di Radio Tre è penosa, purtroppo. È stata trasformata in una versione più paludata e
noiosa di Radio Due. E la musica registrata è stata sottomessa a un sistema di playlist che fa
infuriare la vecchia base di ascolto (costituita anche da molti giovani) e non serve a nulla per
crearne una nuova. Gli ascolti da disco (in realtà convertiti in files compressi, con uno stan-
dard più vecchio dell’mp3) capitano sempre fuori contesto, con i poveri conduttori costretti ad
arrampicarsi sui vetri per far finta che ci sia una ragione, per quelle scelte. Avendo criticato
questo sistema con vari articoli, sono stato estromesso: non solo non mi fanno più lavorare,
ma è implicitamente proibito citarmi, intervistarmi (lo fa Radio Uno, non Radio Tre), e perfi-
no mandare in onda registrazioni di programmi nei quali ero coinvolto. E ovviamente, trattan-
dosi della radio e non della televisione, ed essendo una questione apparentemente tecnica e
non politica (è molto politica, ovviamente), non ho goduto nemmeno di un milionesimo della
mobilitazione e della solidarietà che hanno avuto le vittime dello spoils system di fama televi-
siva. La radio non interessa, per la pura imbecillità dei politici. Ha trentasei milioni di ascolta-
tori al giorno, con un bacino di utenza più grande della televisione, e per fare un esempio le
tre reti di Radio Rai (circa quattordici milioni di ascoltatori) hanno un’unica direzione dei
giornali radio, saldamente e ferocemente in mano alla destra. Hai mai visto sulla stampa uno e
un solo articolo (tranne i miei) che se ne occupasse?
cs – No, non l’ho mai visto. E dire che io acquisto a turno 4 o 5 quotidiani di ispirazioni di-
versissime tra loro.
So invece che stai collaborando alla Radio Svizzera, che rappresenta sempre un riferimento
qualitativamente alto.
Per quanto riguarda la tua carriera didattica, parlaci dei corsi che tieni all’Università di Tori-
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no.
Mi pare che i temi siano due, la «Popular Music» e «Musiche contemporanee dei media»...
ff – Sì, i titoli dei corsi sono quelli, uno al DAMS, l’altro a Lettere e Filosofia. Mi occupo di
queste cose dal 1977, più o meno. Sono stato – nel 1981 – fra i fondatori dell’associazione in-
ternazionale di studi sulla popular music, ne sono stato presidente dall’85 all’87, sono di nuo-
vo (dallo scorso luglio) nel direttivo. Ho partecipato a conferenze e tenuto seminari, quasi più
spesso in università straniere che italiane. Negli ultimi tempi, con un ritardo di almeno quin-
dici anni sugli altri paesi europei, anche in Italia le università hanno cominciato a ospitare
corsi sulla popular music. A me è stato affidato un corso a Trento nel 1995, ci sono stati i cor-
si di Gianfranco Salvatore a Lecce, di Vecchioni al DAMS di Torino, di Montecchi allo
IULM di Milano, di Agostini a Pisa, e vari altri. Naturalmente a nessuno passa per la testa di
fare un concorso per professore associato né tantomeno ordinario con questa specialità: pri-
mo, toglierebbe posto ai musicologi «colti», secondo non si capisce chi potrebbe formare una
commissione (se non quelli che – si suppone – potrebbero aspirare al posto). A Bologna han-
no risolto il problema affidando un seminario sulla «Musica di consumo» (usano questo ter-
mine qui, una formula superata da quarant’anni) a due musicologi storici che si sono sempre
occupati del melodramma, uno dei quali di fronte a me ha pronunciato il nome dei King
Crimson «King Craimson». Questa è l’università, o meglio, queste sono le baronie. Ma ci so-
no anche molti musicologi ed etnomusicologi che sono sinceramente interessati a che gli studi
sulla popular music trovino la loro collocazione. A Torino mi ha chiamato Giorgio Pestelli:
gli avevo mandato uno dei miei libri dopo che avevamo conversato alla radio sul suo libro su
Brahms. Non me l’aspettavo, è stata una sorpresa. Per due anni ho tenuto un corso che si
chiamava «Musiche contemporanee nel mondo dei media: la popular music e gli altri generi
nell’epoca della produzione e distribuzione mediatica del suono», un titolo lunghissimo moti-
vato dal fatto che il consiglio di facoltà non voleva un titolo in una lingua diversa
dall’italiano. Poi, anche per l’abbandono di Vecchioni, il DAMS mi ha chiesto se potevo por-
tare il mio corso anche lì, e ora ne faccio metà (30 ore) a Lettere e Filosofia, e l’altra metà al
DAMS, che ha accettato il titolo breve, «Popular music». Nel primo corso faccio una storia
della musica incentrata sui media (dall’editoria alla discografia, a radio, tv, internet), quindi
con un largo spazio alla popular music, e non solo quella anglosassone. Nel secondo sviluppo
ogni anno un tema monografico diverso. Seguo molti laureandi: questa è una delle ragioni
principali per cui mi hanno chiamato a Torino. Si sono sempre fatte molte tesi sulla canzone,
sul rock, sui cantautori, nelle università italiane, ma in genere i relatori ne sapevano meno de-
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gli studenti: non avevano idea di quali studi di un certo livello esistessero su questi argomenti,
in Italia e fuori. Le difficoltà sono molte, i fondi (con la Moratti, e questo governo) inesistenti.
Non posso contare su questo come lavoro, ma non ho intenzione di andare all’estero (come ha
fatto qualche collega) anche se ne avrei titoli e possibilità. Nel 2005, se ci riusciamo, la confe-
renza internazionale di studi sarà in Italia. Spero che questo serva, se non a me, a fare sì che
qualche collega più giovane entri nell’università dalla porta principale.
cs – Un’ultima riflessione.
Pochi mesi fa è scomparso Roberto Leydi, che potremmo definire il pioniere della etnomusi-
cologia italiana.
Per inciso, il suo cospicuo archivio lo ha donato al Canton Ticino, e mi pare che questa scelta
sia abbastanza emblematica. Leydi è stato testimone e motore della cultura musicale nella Mi-
lano degli anni cinquanta e sessanta, quando la capitale lombarda svolgeva un ruolo culturale
innovativo e di respiro internazionale. Il suo percorso è segnato dalla capacità di attraversare
le culture musicali grazie al privilegio dell’esperienza, lontano dagli excursus accademici di
stampo tradizionale. Luciano Berio, nel ricordarlo, ha scritto che «Leydi non parlava mai di
realtà della cultura ma, piuttosto, di cultura della realtà».
Tu vivi e operi a Milano, e a questa città sono legate anche le tue esperienze di musicista,
Stormy Six in primis, e credo di non sbagliarmi se dico che il tuo mestiere di studioso, di mu-
sicologo sia approdato a questi lidi attraverso un viaggio basato, anche per te,
sull’esperienza...
ff – Non ho lavorato con Leydi, non sono stato suo allievo, ma sicuramente gli devo moltis-
simo. Quando gli Stormy Six sono entrati in contatto con la musica popolare, quando è nata la
cooperativa l’Orchestra, il quadro ideologico e organizzativo della musica militante a Milano
era fortemente segnato dal lavoro di Roberto Leydi, oltre che dal Nuovo Canzoniere Italiano.
A quell’epoca (primi anni Settanta) Leydi e il NCI avevano già rotto i ponti, e sicuramente
per noi era più facile riconoscerci nell’apertura di Leydi alle più diverse culture musicali che
nella tenace difesa della «cultura della classe» del NCI. Fu illuminante per me una lunghissi-
ma conversazione con Leydi sulla storia delle ricerche sul folklore e del folk revival in Italia,
dai viaggi di Lomax a «Bella ciao» ai Dischi del Sole. Poi ci siamo visti sporadicamente,
qualche volta perché eravamo rispettivamente relatore e correlatore di tesi di laurea a Bolo-
gna. Ma ho sempre sentito una grande affinità per lui: era come se stessi facendo il suo stesso
lavoro, ma in tempi cambiati. Circa un anno fa sono intervenuto in un convegno dei DS a Mi-
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lano, dove si stigmatizzavano gli sperperi di denaro pubblico della Lega per iniziative sulla
cultura popolare, e ho fatto notare (con indignazione) che era stata la sinistra a regalare ai le-
ghisti un terreno dove in Lombardia aveva avuto sempre il primato. Ho ricordato il lavoro di
Leydi e il suo ufficio di studi finanziato a lungo dalla Regione. I presenti, devo dire, hanno
concordato e hanno parlato del lavoro di Leydi con grande rispetto e affetto. Nessuno, me
compreso, sospettava che fosse molto malato, e che di lì a poco sarebbe morto. Il suo archivio
è finito a Bellinzona perché la Regione Lombardia (che finanzia con decine di migliaia di eu-
ro il Capodanno Celtico) non dava nessuna garanzia che non finisse in un magazzino. Credo
che noi tutti finiremo a Bellinzona, di questo passo.
Certo, il mio studio è totalmente legato all’esperienza di musicista. Il mio filtro metodologico
è fondamentalmente questo, quando scrivo un saggio o faccio una lezione: un musicista di
mestiere cosa ne direbbe? Ci riderebbe sopra? Gli sembrerebbe una cosa assurda? E mi rendo
ben conto che nel mondo della popular music c’è un antiintellettualismo di fondo, che a volte
a priori si prende beffe di chiunque voglia occuparsi di quegli argomenti «seriamente», usan-
do gli strumenti della linguistica, della semiotica, dell’antropologia, eccetera. Ma di questo
non mi preoccupo. Mi preoccupo che – ottenuta perlomeno una sospensione di giudizio, di
pregiudizio – uno non mi dica che mi sto inventando delle cose, che non si fa così. Che è
quello che spesso penso (sia da musicista che da musicologo) di molta letteratura sulla popu-
lar music, scritta da persone che non hanno nemmeno un’idea di cosa voglia dire scrivere un
testo, comporre una canzone, fare un arrangiamento, fare un missaggio, salire su un palco e
rivolgersi al pubblico. Non che sia indispensabile: uno queste cose le può anche studiare, ci
può fare ricerca come un antropologo la fa sulla cultura e le pratiche di una popolazione lon-
tana. Ma sappiamo che il caso di molto giornalismo musicale è un altro, è il caso di persone
che credono di sapere. La cultura della realtà, appunto, è un’altra.