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InSchibboleth

Mar 17, 2016

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La rivista si occupa dei temi della laicità e della crisi della politica in Occidente
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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofi e per una riforma della politica

Adesioni

Bruno ACCARINO (Univ. di Firenze), Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapien-za, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giusep-pe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sas-sari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Maurizio IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sa-pienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontifi cia Università Urbaniana), Alessandro PAGNINI (Univ. di Firenze), Silvano PETROSINO (Univ. Cat-tolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI (Univ. di Padova).

Coordinamento scientifi co-editorialeElio Matassi - Ivana Bartoletti - Carmelo Meazza

Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Ottobre-Novembre 2008, n° 12. (Numero 13, 30 Novembre 2008) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Uffi cio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: [email protected] Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.

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I N D I C E

La crisi finanziaria e il Partito Democraticodi ELIO MATASSI p. 3

Ci ripensi, Ministra!di UMBERTO CURI p. 7 Pubblico, privato di MAURO VISENTIN p. 9

Le bugie del governo e lo smantellamento dell’istruzione pubblicadi MAURO PONZI P. 17

Sulla laicità della politica di MASSIMO ADINOLFI P. 21

Dilemmi di Claudio Napoleoni: quale progetto oltre il “socialismo reale”?di ALFREDO REICHLIN P. 26

Declino USAdi SILVANO ANDRIANI P. 31

La paura e il pericolo in Occidentedi CARMELO MEAZZA P. 35

Ethical Analysis of Decision Making for HIV Testing in Pregnant Women Using The Capability Approach

di ADAMU ADDISSIE NURAMO P. 39

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La crisi fi nanziaria e il Partito Democratico

di Elio Matassi

Dopo la grave crisi fi nanziaria – analogie e differenze con la situazione del ’29 e del ’33 sono state approfondite in tutte le direzioni e implicazioni – il capovolgimento di paradigma che s’intravede negli scenari internazionali e nazionali risulta veramente profondo e non può non essere attentamente valutato anche dall’attuale classe dirigente del Partito Democratico.Vengono meno, sul piano strettamente teorico-ideologico, due condizioni che il trionfo del capitalismo ormai in via di globalizzazione sembrava aver sancito in maniera defi nitiva. Entrambe queste condizioni sono state enunciate e sviluppate in due libri del politologo americano d’origine nipponica Francis Fukuyama; la prima nel volume dal titolo paradigmatico, La fi ne della storia e l’ultimo uomo, le cui premesse è utile riportare per esteso: “Le lontane origini del pre-sente volume vanno ricercate in un mio articolo intitolato Siamo forse alla fi ne della storia?, scritto per la rivista ‘The National Interest’ nell’estate del

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1989. In esso sostenevo come in questi ultimi anni fosse emerso in un gran numero di paesi un notevole consenso verso la legittimità della democrazia liberale come sistema di governo, vincente nei confronti di ideologie rivali quali la monarchia ereditaria, il fascismo ed ultimamente anche il comuni-smo. Non solo, ma aggiungevo che la democrazia liberale avrebbe potuto costituire addirittura ‘il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’uma-nità’, e ‘la defi nitiva forma di governo tra gli uomini’, presentandosi come ‘la fi ne della storia’. Mentre infatti le precedenti forme di governo erano state caratterizzate da vari difetti e irrazionalità che avevano fi nito per pro-vocare il crollo, la democrazia liberale pareva immune da contraddizioni interne tanto profonde. Con questo non intendevo dire però che in demo-crazie stabili come sono attualmente quelle degli Stati Uniti, della Francia o della Svizzera non vi fossero ingiustizie o gravi problemi sociali; ma solo che questi problemi riguardavano l’incompleta attuazione dei due principi della libertà e dell’uguaglianza sui quali si fonda la democrazia moderna, piuttosto che non difetti degli stessi principi. E mentre oggi è possibile che alcuni paesi non riescano ad instaurare una democrazia liberale stabile e che altri fi niscano addirittura per regredire a forme primitive di governo quali la teocrazia e la dittatura militare, non pare invece possibile apportare miglioramenti all’ideale della democrazia liberale.” E’ chiaro come i prota-gonisti impliciti di questa pacifi cante “storia della fi ne della storia” fossero e sentissero di essere gli Stati Uniti.L’attuale crisi fi nanziaria che sta devastando i mercati internazionali e che ha la sua origine proprio negli Stati Uniti modifi ca i termini del problema argomentato da Fukuyama? Credo in una risposta fortemente affermativa al quesito, una risposta che mette radicalmente in questione la possibilità di portare miglioramenti al-l’ideale della democrazia liberale. Sia sul piano economico sia su quello politico (tra i due piani vi è un automatismo) l’attuale crisi fi nanziaria ca-povolge il problema: il capitalismo fi nanziario ha di fatto minato alle radici l’idea stessa su cui si regge la democrazia liberale. Chi crede in una visione ‘integralistica’ della democrazia e non minimalistica – la democrazia è il migliore sistema politico e non il meno peggio – non può non porsi oggi il problema della sua legittimità democratica che non dovrà esaurirsi nella semplice scelta elettiva dei propri rappresentanti. Mi riferisco in particola-re al recente volume La légitimité démocratique dello storico francese Pier-re Rosanvallon, professore al Collège de France, creatore della Fondation Saint Simon, oggi animatore della “Rèpublique des idée”, che offre spunti importanti di rifl essione alla politica. L’intellettuale francese è favorevole ad un “sistema di doppia legittimità”, dato che il verdetto delle urne non è suffi ciente a realizzare compiutamente la democrazia.E’ venuta, inoltre, meno la seconda delle condizioni, annunciata da Fuku-yama in un libro successivo a quello sulla fi ne della storia, Fiducia. Come le virtù sociali contribuiscono alla creazione della prosperità. La fi ducia dovreb-be rappresentare l’ingrediente straordinario per il successo di una società meritocratica. Il cittadino crede che il sistema sia sostanzialmente ‘giusto’, e quindi è pronto ad accettare in pieno le regole contribuendovi attivamente, anche se sa che non sarà necessariamente lui il diretto benefi ciario del suo impegno e dei suoi sacrifi ci. Il cittadino dovrebbe, dunque, nutrire fi ducia nel secondo pilastro del merito, le pari opportunità, ossia confi dando nel fatto che, se forse a lui non sarà consentito di realizzare i propri sogni, i suoi fi gli possibilmente partiranno al pari di altri che stanno molto più in alto nella scala sociale. La profonda fi ducia nel fatto che le pari opportunità

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siano davvero tali dovrebbe far sì che i cittadini delle società meritocratiche tollerino la disuguaglianza poiché credono nella mobilità sociale. Anche questo meccanismo di fi ducia reciproca si è profondamente incep-pato con la crisi fi nanziaria; il supercapitalismo, il capitalismo nella sua de-clinazione fi nanziaria, ha di fatto espropriato la sostanza della democrazia e per questo fanno oggi sorridere per la loro ingenuità e per essere ormai scavalcati dal tempo reale, pamphlet come quello, oggi, fortunatissimo, di Roger Abravanel. Meritocrazia. Non appartengo alla schiera dei semplifi catori catastrofi sti. Hanno ragione sia Carlos Quijano quando sostiene che i peccati contro la speranza sono i più terribili perché sono gli unici che non hanno né perdono né redenzio-ne, sia Paolo Rossi Monti nel suo recentissimo Speranze, quando afferma, contro gli intellettuali alla moda, che non viviamo nella peggiore epoca del mondo, dato che la democrazia va estendendosi e molti stati stanno abolendo dal proprio sistema giudiziario la pena di morte. Non affermo infatti che la democrazia debba essere sostituita da un altro sistema vago e futuribile ma che debba essere rafforzata. E per il suo rafforzamento è necessario metabolizzare fi no in fondo l’idea che la politica interpretata come una teologia secolarizzata va tramontando in maniera defi nitiva; “E’ soprattutto una metafi sica della volontà quella che si è eclissata alla fi ne del XX secolo – scrive ancora Pierre Rosanvallon, in Contre la démocratie.- E’ ormai semplicemente impossibile continuare a pensare la democrazia se-condo le regole teologico-politiche che le erano intrinsecamente proprie”. Che cosa bisogna intendere con ciò. In primo luogo che la politica sacra-lizzata, caratteristica della modernità, con la sua concezione assolutistica della sovranità, non è più accettabile al giorno d’oggi. Fede politica e fede religiosa si separano per sempre, nel senso che la prima cessa di ricalcare la seconda.L’entrata nell’era dell’ipermodernità implica l’abbandono di ogni speranza di materializzaizone storica di un assoluto (la nazione, il popolo, la classe, ecc.). Il senso di vacuità di cui alcuni avvertono – rafforzato dall’impressio-ne che lo Stato ‘giri a vuoto’, che gli uomini politici si accontentino di se-guire gli sviluppi che non sono più in grado di gestire – non è null’altro che il disorientamento per l’esaurirsi di quella forma di politica che funzionava da sostituto essenziale della fede. “Stiamo scoprendo la politica dell’uomo senza il cielo – né con il cielo, né al posto del cielo, né contro il cielo”, sottolinea Marcel Gauchet. Nell’epoca dell’iper-modernità, l’autorità non viene né dal passato né dal futuro, l’ipermodernità è, dunque, l’avvento dell’autonomia, ossia dell’indeterminato e per ciò stesso, la possibilità di un nuovo inizio. Noi non viviamo la fi ne della storia, come presume Fuku-yama, ma, al contrario, la fi ne della “storia concepita all’insegna della sua fi ne”( Marcel Gauchet).La scomparsa di ciò che restava di ‘religioso’ nel politico comporta una trasformazione radicale dei rapporti tra società e Stato. Entrate in crisi una dopo l’altra, le istituzioni che prima funzionavano come altrettanti crogiuo-li, hanno perduto la capacità di istituire un legame sociale. Da allora que-st’ultimo si ricostituisce al di fuori di esse. Contemporaneamente alla pa-ralisi dello Stato-nazione, si assiste ad una fi oritura di reti e di associazioni che aspirano a giocare un ruolo nella sfera pubblica.Non bisogna tuttavia ingannarsi , questo fenomeno non si lascia interpre-tare secondo lo schema liberale di una ‘società civile’ opposta alla sfera pubblica. Non è il privato che s’impone a danno del pubblico, è piuttosto il sociale nel suo insieme che ritrova quella dimensione politica che aveva

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perduto. La politica, che fuoriesce dalla sfera statuale-istituzionale o per ritrovare il suo posto all’interno della società globale, procede di nuovo dal sociale in tutta la sua complessità.Dinanzi a mutamenti di tale portata, il Partito Democratico dovrà essere quello di fornire risposte credibili per il rafforzamento della democrazia, una democrazia che dovrà tenere nel debito conto l’emergere della rico-struzione del legame sociale attraverso modalità del tutto nuove.Questo rafforzamento, dinanzi alla crisi evidente del modello di sviluppo del capitalismo fi nanziario e di un mercato privo di regole, dovrà proce-dere ripristinando l’idea forte di una democrazia come partecipazione che si va sempre più imponendo nella ipermodernità. Una democrazia che si struttura su una forma-partito radicalmente nuova, che dovrà isituzionaliz-zare il sistema delle primarie in tutte le sue possibili forme e declinazioni. Rafforzare la democrazia nella sua forma partecipativa signifi ca, dunque, creare una nuova comunità che diventa oltre che un’“esigenza ineludibile”, una “comunità associativa” (Gorz), una creazione collettiva, senza frontie-re. Secondo la defi nizione di Victor Turner”, c’è un particolare modo in cui le persone guardano, comprendono, agiscono l’uno nei confronti dell’al-tro, stabilendo un rapporto tra individui concreti , storici, particolari”, un rapporto che non dissolve l’individuo nell’collettivo ma permette piuttosto il riconoscimento da parte degli altri. Diventa l’opposto del mercato, non nel senso che con il mercato è incompatibile, ma piuttosto che ne costitui-sce un “altrove”, “dominato da forme comunicative e da valori opposti – reciprocità, durata, gratuità – a cui si può accedere nel corso del processo storico.Una comunità che si proietta sullo scenario internazionale andando ben al di là della fuorviante distinzione contrapposizione negoziazione/arbitrato (il dibattito tra Rawl e A. Sen), una comunità non semplicemente identi-taria ma caratterizzantesi per un modello contrattualistico polidecisiona-le. Perché la sfi da della globalizzazione sia pienamente raccolta, andando in una direzione alternativa a quella del capitalismo fi nanziario, dovremo pensare a nuove prospettive di civilizzazione che non possono prescinde-re dall’eredità della modernità occidentale e che, pur cogliendone limiti e inadeguatezze, ne sviluppino le istanze di emancipazione, espansione delle libertà e delle capacità adeguate alle emergenze del nostro tempo.

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Ci ripensi,Ministra!

di Umberto Curi

In una lettera pubblicata sul “Corriere della sera” intorno alla metà di ottobre, commentando la manifestazioni contro i decreti voluti dal ministro Gelmini, un lettore osservava sconsolato che qualcosa di molto simile è già accaduto in passato, quando a ricoprire il dicastero della Pubblica Istruzione erano Mussi, la Moratti o Berlinguer. Di qui la conclusione, fi n troppo ovvia, secondo la quale il mondo della scuola è per sua natura refrattario a qualunque ipotesi di riforma, quale che ne sia il segno e il contenuto specifi co. Come spesso accade, c’è del vero anche nell’opinione espressa da quel lettore. Si deve avere il coraggio di riconoscere, infatti, che in particolare l’Università italiana si è dimostrata alla prova dei fatti del tutto incapace di promuovere quel movimento di autoriforma, che pure sarebbe stato indispensabile. Studenti, docenti, personale tecnico-amministrativo degli Atenei ritrovano coesione e capacità di mobilitazione quando si tratta di pronunciare dei “no”, ma sono poi del tutto afasici se si pone il problema di proporre cambiamenti necessari. In questo modo, soprattutto nel corso degli ultimi anni si è alimentata una situazione perversa: da un lato si sono moltiplicati e radicalizzati i mali che da tempo affl iggono l’istituzione universitaria italiana, dai corsi di laurea “inventati” senza alcun criterio, alla proliferazione di sedi nelle località più improbabili, dai concorsi sempre più dominati da cupole mafi oso-massoniche, agli sperperi irrazionali di risorse già scarse, ecc. Dall’altro lato, pressochè nulla di propositivo è mai emerso da un corpo docente sempre più complice, o rassegnato, rispetto ad un

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andazzo davvero insostenibile, senza che vi sia traccia di un progetto complessivo, capace di orientare interventi non più differibili. E’ accaduto, insomma, qualcosa di simile a ciò che si è registrato per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia, dove l’inerzia e le resistenze conservatrici di parte cospicua della magistratura hanno favorito interventi di riforma selbaggia dell’ordinamento giudiziario da parte del governo di centrodestra. Inevitabile, allora, che in un quadro di questo genere possa accadere che un personaggio obbiettivamente del tutto inadeguato, quale è Maristella Gelmini, possa imperversare con provvedimenti totalmente aberranti, sostenuta dal largo favore dell’opinione pubblica nazionale. E che dunque ci si possa avviare di fatto alla distruzione di ciò che resta dell’Università pubblica letteralmente a furor di popolo. Le misure che verranno adottate sono tali per cui nessuna differenza verrà fatta tra facoltà, corsi di laurea, settori disciplinari, sicchè potrà accadere che a pagare le conseguenze di questa dissennata decurtazione potranno essere proprio i centri principali a cui si deve l’innovazione scientifi co-tecnologica, con danni irreparabili per l’economia del paese. Si coglie qui quello che è probabilmente, fra tutti, il punto di maggiore debolezza degli interventi ministeriali, quello che più di ogni altro è rivelatore della penosa impreparazione dell’attuale titolare della Pubblica Istruzione. La Gelmini non sa, non ha neppure la più pallida idea, di quali potranno essere gli effetti concreti dei provvedimenti assunti. Non sa quali corsi di laurea saranno costretti a chiudere, quali laboratori cesseranno di funzionare, quali sedi dovranno essere disattivate, in quali settori si avvertiranno maggiormente i contraccolpi dei tagli. Non è minimamente in grado di descrivere quale sarà l’assetto futuro dell’Università italiana, dopo la tsunami del triennio di “risparmi” forzosi stabiliti per decreto. Appare in tutta evidenza la frottola dei tagli motivati dal necessario risanamento economico del paese. Non è la stessa cosa – stupisce doverlo sottolineare – cancellare un corso di laurea in cucina mediterranea o in tecnologia della moda (corsi effettivamente esistenti), ovvero intervenire penalizzando corsi di laurea in settori di punta della ricerca scientifi co-tecnologica. La mannaia dei tagli indiscriminati, predisposta dal duo Gelmini-Tramonti, si abbatte invece indiscriminatamente su ogni realtà universitaria, falcidiando insieme ciò che è obbiettivamente superfl uo, o non indispensabile, e ciò che potrebbe invece funzionare come propulsore fondamentale per l’economia del paese. Sfi diamo la ministra a comportarsi nel modo che sarebbe richiesto dall’alta responsabilità del dicastero a lei affi dato. Si presenti davanti alla pubblica opinione con un piano dettagliato, nel quale compaiano analiticamente motivati i tagli previsti e le conseguenze che ne dovrebbero scaturire. Ci dica dove e perché userà la scure; ci spieghi quali saranno le implicazioni pratiche dei presunti “risparmi” effettuati. Malauguratamente, già sappiamo che questa sfi da non sarà raccolta, pur in presenza di una mobilitazione massiccia di tutto il mondo universitario. Ci ripensi, ministra. Anzi, dimostri indipendenza di giudizio. Assuma lei stessa una iniziativa che taciterebbe i suoi detrattori. Spieghi al suo premier che tagliare le risorse nel settore della formazione e della ricerca è semplicemente demenziale. Di più: è autolesionistico, per lo sviluppo economico del paese. E proponga di colpire i veri fannulloni, riducendo gli stipendi e i molti benefi ts dei politici, nazionali e locali, tagliando le auto blu, riducendo le trasferte all’estero a spese dello stato, ridimensionando i bilanci delle Camere e dei governi regionali e locali. Lo faccia. E poi allora si potrà anche discutere del risanamento della scuola e delle Università.

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Pubblico, privato.(Fra la crisi internazionale e la protesta del mondo dell’istruzione in Italia)

di Mauro Visentin

Erano anni che non si vedeva un ottobre così. Il rilievo non ha carattere meteorologico (anche se potrebbe averlo, visto il clima torrido, per la sta-gione, di questi giorni): riguarda ciò che è accaduto nel mondo, in Europa e in Italia, tra l’inizio del mese e il momento in cui scrivo (mercoledì 22). A livello mondiale il mese di ottobre è iniziato con il dilagare e globalizzarsi nel giro di pochissimi giorni di una crisi fi nanziaria che covava da tempo e che ha avuto in America (nelle linee di politica del credito adottate dalle istituzioni bancarie e assicurative statunitensi, in primo luogo, ma anche nella politica economica dell’amministrazione Bush, la sua origine princi-pale). In Europa, oltre a questo, è esploso, nelle ultime ore, un contenzioso tra l’Italia e un certo numero di paesi dell’est entrati di recente nell’UE, da una parte, gli altri paesi europei (tra i quali tutti quelli che appartengono, con l’Italia, al gruppo dei “fondatori”), dall’altra, riguardo al “pacchetto clima” (fonti energetiche alternative e contenimento delle emissioni “ser-ra”). Stiamo poi assistendo, sul piano nazionale, al rapido estendersi di una protesta senza precedenti (se non si vuole risalire molto indietro nel tempo) che coinvolge il nostro intero sistema di istruzione pubblica (dal-le scuole elementari all’università) e che vede come protagonisti studenti, docenti, genitori e operatori del mondo della scuola. Hanno qualcosa in comune questi tre avvenimenti? Nel cercare di rispondere alla domanda appena formulata sarà bene, innanzitutto, escludere ogni genericità: è evidente che in un mondo come il nostro, tutto ciò che avviene sul piano nazionale è in qualche modo ri-conducibile, almeno in parte, a fattori esogeni, così come che non c’è fe-

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nomeno, a qualsiasi livello si collochi la sua manifestazione, che non sia in-trecciato con molti altri, e quindi non dominabile per sé, “fuori contesto”, senza tener conto delle sue innumerevoli interrelazioni. Evitiamo, pertan-to, di affermare (cosa che non sarebbe sbagliata, ma ovvia e perciò inutile) che questi tre eventi hanno in comune la “complessità”. Come anche che hanno in comune l’appartenenza ad un ambito nel quale il problema di fondo è rappresentato dalla migliore allocazione delle risorse disponibili (cioè, in senso lato, dall’economia). Se c’è qualcosa che lega in maniera non generica i fenomeni che ho appena elencato, fi nendo con il rappresentare per essi qualcosa come una sorta di comun denominatore, e che dunque si presta ad essere esaminato con particolare evidenza proprio partendo da un’analisi delle tre situazioni citate, direi piuttosto che questo è il problema di come, in ciascuno dei settori investiti dalla crisi (economica nel primo caso, politica nel secondo e di consenso nel terzo), debbano combinarsi il pubblico e il privato, con le rispettive esigenze e i relativi valori. La crisi fi nanziaria sembra, a detta di (quasi) tutti, aver insegnato che l’intervento pubblico in economia è indispensabile. Si tratta, naturalmente, di vedere in quale misura lo Stato debba o possa intervenire. Ma sul fatto che un intervento sia necessario (come sul fatto che solo l’intervento statale promosso dall’amministrazione repubblicana in America, con l’approva-zione di entrambi i candidati alle presidenziali di novembre, e da tutti i governi europei, indipendentemente dal loro colore e per lo più con il con-senso delle rispettive opposizioni, ha consentito, fi n qui, di evitare il peg-gio) l’accordo, anche tra gli economisti, appare essere pressoché generale. Forse se ne potrebbe trarre una conclusione inedita (e sulla quale, anche dalle colonne di questa rivista on line, ho insistito ripetutamente, essendo una mia precisa – e ritengo fondata – convinzione), ossia che la linea diviso-ria fra pubblico e privato, con riferimento alla vita economica di un sistema capitalistico maturo, non coincide più – se non per coloro che sono ancora soggiogati dal peso di ideologie arcaiche – con quella che separa sinistra e destra politiche. Se eccettuiamo il liberismo oltranzista (tipo Milton Frie-dman e scuola di Chicago) e i fautori (oggi ritengo sostanzialmente scom-parsi) dell’economia pianifi cata, la maggior parte degli analisti economici conviene sul fatto che un mercato globale non può essere infl uenzato da decisioni di politica economica prese a livello nazionale e che, d’altra parte, un controllo sui mercati volto a favorire la concorrenza, la correttezza, la trasparenza, da un lato, e a limitare la speculazione, dall’altro, è inevitabile e non può essere ottenuto che attraverso accordi internazionali. Questa è, ad ogni modo, una semplice constatazione. Alla quale posso-no aggiungersene altre due. La prima riguarda il fatto che se la storia del Novecento ha confermato in modo molto persuasivo l’incompatibilità fra l’economia pianifi cata e un sistema politico liberale, l’evoluzione dei paesi ex socialisti dopo il crollo del muro di Berlino prova invece che non è vera la reciproca, vale a dire che un liberismo economico assai spinto può benis-simo coniugarsi con sistemi politici antidemocratici o addirittura totalitari (l’esempio della Cina dovrebbe mettere a tacere, in proposito, ogni dub-bio). La seconda constatazione supplementare si lega ad un dato di fatto che ho già ricordato: in occasione della crisi fi nanziaria che ha investito con violenza e rapidità insospettata tutte le maggiori economie planetarie, sia negli Stati Uniti sia in Europa le destre al potere si sono mostrate ben poco aliene dall’uso invasivo di strumenti e leve tipici dell’azione dello Stato e della politica al fi ne di evitare un tracollo dei mercati (da noi il ministro dell’economia, che è di destra e, contemporaneamente, tutt’altro che ostile

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all’intervento pubblico nella sfera fi nanziaria e produttiva, è addirittura diventato il simbolo e l’alfi ere di questa tendenza). In altre parole, con l’ec-cezione di alcuni liberisti ideologici (come i repubblicani che hanno votato al Congresso di Washington contro i provvedimenti di salvataggio delle banche e del credito proposti dal loro presidente), la destra occidentale non sembra più considerare il mercato un dogma intangibile. Allo stesso tempo, la sinistra moderata e riformista ha abbandonato ogni idea di supe-ramento del mercato e del capitalismo, preferendo caldeggiare l’adozione di regole che consentano di attutire e correggere le conseguenze spontanee e socialmente meno sostenibili di entrambi. Veniamo allora a quella con-seguenza inedita – almeno nella sua formulazione – cui accennavo prima, e cerchiamo di proporla sotto forma di un’ipotesi generale: se per “sociali-smo” intendessimo – seguendo l’oltranzismo degli esponenti repubblicani del Congresso americano ai quali ho accennato poco fa – ogni tipo di inter-vento consistente della sfera pubblica a sostegno dell’economia fi nanziaria e/o reale, allora potremmo forse dire che il socialismo non rappresenta più, nell’unico senso che oggi si possa, plausibilmente e realisticamente, assegnare al suo concetto, un’alternativa al capitalismo di mercato, ma una sua variante interna. Detto altrimenti: il capitalismo globale non può fare a meno di regole, anche se non potrà mai essere imbrigliato a tal punto da prevenire ogni crisi possibile, e il suo destino sarà sempre più quello di oscillare da un insieme di regole più fl essibili a un insieme di norme più rigide, a seconda dei casi e delle circostanze. L’entità delle crisi future dipenderà dall’ampiezza di questa forbice, nel senso che sarà, presumi-bilmente, maggiore ove la forbice si trovi ad essere più ampia e minore nel caso opposto. Ad ogni modo, la scelta fra regole fl essibili e regole di (relativamente) maggiore rigidità sarà, in misura crescente, affi data a con-siderazioni sempre più tecnico-pragmatiche anziché ideologiche.

Per quanto riguarda il contenzioso che si è aperto fra l’Italia (schierata insieme ad alcuni paesi dell’est, di recente acquisizione nei ranghi della Co-munità Europea, a cominciare dalla Polonia) e le altre nazioni componenti l’UE, in relazione a tematiche ambientali, possiamo, intanto, partire da un rilievo: anche questo è un caso in cui si tratta di dosare la proporzione secondo la quale “pubblico” (ossia regole collettive, vincolanti per tutti) e “privato” (vale a dire libertà di comportamenti individuali) devono combi-narsi. Con in più la complicazione derivante dal fatto che qui, in aggiunta, compare un motivo di contrasto ulteriore: quello fra istanze istituzionali di-verse e di diverso livello (le richieste dilatorie di un certo numero di singoli paesi, per un verso, e la volontà della maggioranza dell’Unione Europea di mantenere gli impegni e lo scadenzario a suo tempo decisi, per l’altro). Indubbiamente, la questione sollevata non si fonda su presupposti ideo-logici ma pragmatici: nessuno contesta che le emissioni di CO2 determini-no il progressivo riscaldamento del pianeta e neppure la conseguente ne-cessità di ridurle in modo signifi cativo. Quello che è oggetto di divergenze anche radicali sono le valutazioni relative ai costi e le considerazioni sugli effetti planetari delle scelte europee. Ora, è chiaro che chi non disponga di dati esaurienti ed esatti e non sia un esperto di questa materia (ma forse neppure i tecnici) è in grado di intervenire con cognizione di causa in un dibattito di questo tipo. Pertanto, il mio interesse alla cosa si limita ad al-cune considerazioni sulla logica degli argomenti addotti e sulle loro ragio-ni politiche. Avendo, personalmente, sempre ritenuto che la decisione di escludere l’energia di origine nucleare dal novero di quelle utilizzabili per

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soddisfare le esigenze energetiche crescenti di un paese industriale come l’Italia fosse ideologica e insensata – perché, adottandola, senza poter eli-minare i rischi derivanti dall’impiego di questa fonte (data la presenza di grandi centrali in tutta Europa e anche a poca distanza dai nostri confi ni), l’Italia si precludeva ogni possibile accesso ai suoi vantaggi –, non posso che essere sensibile ad un argomento come quello utilizzato dal governo italiano in carica, ossia che mantenere lo scadenzario a suo tempo deciso porterebbe ad una forte penalizzazione del nostro sistema industriale sen-za alcun signifi cativo vantaggio per nessuno, vista la irrilevante incidenza di un comportamento ecologicamente virtuoso da parte della sola Europa. Ma è davvero così? E’ perlomeno lecito avanzare seri dubbi. Innanzitutto, non sembra credi-bile che il vantaggio globale derivante da un comportamento virtuoso del-l’Europa (una delle aree più industrializzate del pianeta) nel suo complesso possa essere così esiguo, anche in assenza di comportamenti ugualmente virtuosi da parte delle grandi economie in espansione (Cina, India e Rus-sia). In secondo luogo, attenuare la nostra soglia di attenzione renderebbe certamente più diffi cile contrattare con altri un innalzamento della loro. Terzo fattore di cui tenere conto, il probabile (e, per me, anche auspicabi-le) cambiamento, in seguito alle imminenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti, dell’amministrazione Bush con un’amministrazione democratica, la quale avrebbe un atteggiamento verosimilmente diverso nei confron-ti dei problemi climatici (e questo renderebbe assai più incisiva l’azione in tal senso dell’Europa, sempre che questa si dimostrasse, in proposito, compatta). Per tutto l’insieme di ragioni appena esposte, l’analogia con l’argomento riguardante il rapporto costi/benefi ci nel caso della scelta a suo tempo fatta da noi di abbandonare totalmente l’opzione energetica nucleare non direi che regga. In quel caso tale rapporto era evidentemente sfavorevole, in questo è quantomeno dubbio che lo sia o che lo sia nella misura e nelle proporzioni dichiarate dal governo.A queste considerazioni di ordine “logico” o logico-politico, mi sembra giusto ed anzi doveroso aggiungerne una esclusivamente politica o, se si vuole, storico-politica, riguardante il nostro ceto imprenditoriale. Qui il discorso (che d’altra parte è già stato affrontato ripetutamente da altri, più esperti di me al riguardo) sarebbe lungo e complicato, mentre dobbiamo renderlo breve, per evitare di uscire dal tema che ci siamo proposti di trat-tare nel presente intervento. Mi limiterei alla seguente osservazione. Se per l’Italia e il nostro sistema industriale i costi sarebbero così rilevanti come governo e imprenditori in coro denunciano, allora mi sembra evidente che qualcosa non ha funzionato e qualcuno non ha fatto ciò che avrebbe dovuto fare. Intendo dire che il cosiddetto “protocollo di Kyoto” è stato fi rmato diversi anni fa. L’emergenza climatica non è una scoperta delle ul-time settimane. I sistemi industriali dei paesi economicamente più avanzati sapevano da tempo di doversi adeguare e molti hanno cominciato tempe-stivamente ad attrezzarsi per farlo e non doversi trovare impreparati nel momento in cui si fosse decisa un’accelerazione o anche solo una verifi ca dello stato di avanzamento del programma. L’impressione è che in Italia poco o nulla sia stato fatto, fi dando, come sempre, nella possibilità di otte-nere sconti, dilazione, vantaggi, con poco o nessun rispetto degli interessi collettivi. Una responsabilità che ricade sui governi che si sono succeduti nel tempo (non solo sull’ultimo, sul quale ricade, invece, quella di voler fare la voce grossa in un situazione in cui non pare ricorrano le condizioni per poterselo permettere – visto che l’Italia si trova in difetto –, cercando,

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con quel misto di ingenuità, furbizia e prepotenza che è uno dei – poco apprezzabili – capolavori del genio italico, di presentare un vizio come se fosse una virtù), ma che investe, insieme, la classe imprenditoriale, fautri-ce convinta dei vincoli quando le convengono e fanatica oppositrice degli stessi quanto le nuocciono: un ceto di industriali e dirigenti, il nostro (con le dovute, e perciò tanto più encomiabili, eccezioni, beninteso), cultural-mente immaturo e con poco o nessun senso della responsabilità collettiva, che ha sempre cercato di socializzare (con l’aiuto di governi compiacenti) gli oneri e privatizzare i vantaggi. E con quest’ultima considerazione siamo fi nalmente arrivati (dopo quel-la che, in sostanza, è stata solo una lunga premessa) a toccare il punto che ci consente di affrontare il discorso sull’università, la scuola e le proteste che attualmente hanno visto la mobilitazione di molti istituti e atenei, in tutta Italia, contro la legge 133 e il cosiddetto “decreto Gelmini”. Un terreno sul quale penso di potermi esprimere con più pertinenza (anche se senza en-trare in discorsi troppo tecnici o minuti), per via dei quasi venticinque anni che fi no ad ora ho trascorso nel mondo accademico italiano, prestandovi, in vari ruoli, nel corso del tempo, la mia opera come docente.

Uno dei motivi ricorrenti della protesta è rappresentato dall’accusa, rivolta al decreto poi recepito nella legge 133, di mirare alla “privatizzazione del-l’università italiana”. E’ un’accusa fondata o, come sostengono il ministro e il governo di cui l’on. Gelmini fa parte, pretestuosa? E’, per così dire un’iperbole. Nata dalla semplifi cazione che qualsiasi protesta collettiva inevitabilmente introduce, attraverso le proprie parole d’ordine e i propri slogan, nelle ragioni dalle quali trae spunto e alimento. Ma denuncia, più che un pericolo, un problema reale, emerso assai prima del decreto Gel-mini, anche se questo decreto, indubbiamente, lo acuisce, anziché tentare, non dico di risolverlo, ma almeno di avviarlo ad una qualche soluzione. Il sistema universitario (come quello, in generale, scolastico) è, in Italia, come si sa, pubblico. Ma prevede che istituti e atenei privati possano, senza oneri per lo Stato, essere fondati e riconosciuti come fornitori di un analo-go servizio. Queste scuole e università private devono sottostare a regole pubbliche per quanto riguarda il reclutamento dei docenti e il conferimen-to dei titoli di studio, ma ne sono esentate, in ragione della loro specifi ca natura, con riferimento a certi aspetti di queste due voci (per esempio nel caso degli istituti confessionali). Godono poi della più assoluta libertà nella fi ssazione delle tasse che gli studenti devono pagare per poterne frequen-tare i corsi. Con l’introduzione dell’“autonomia” universitaria si è fatto un passo ulteriore nel rendere meno vincolanti per i singoli atenei le disposi-zioni generali emanate dall’autorità centrale. Anche l’introduzione dell’au-tonomia fu accolta da proteste vivaci da parte degli studenti, soprattutto perché, sia pure entro limiti molto più ristretti di quelli cui sono soggette le università private, con essa si concedeva anche a quelle pubbliche la fa-coltà di fi ssare in modo relativamente libero il livello delle tasse corrisposte dagli iscritti. L’autonomia ha poi avuto altri effetti, imprevedibili e assai più deleteri, con l’approvazione e soprattutto l’applicazione more italico di due ulteriori riforme: quella concernente il reclutamento del personale docente su base locale e quella relativa alla riorganizzazione dei curricula universitari secondo il modello prevalente in Europa, rappresentato dal cosiddetto 3+2, ossia la divisione e articolazione di tutti i corsi di studio in due livelli: il primo, “di base”, della durata di tre anni, e l’altro, “magistra-le” o “specialistico”, della durata di due. Tale modifi ca ha provocato, per

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ragioni che sarebbe troppo complicato anche solo cercare di riassumere in questa sede, una moltiplicazione dissennata degli insegnamenti e dei corsi di laurea, spesso frenata solo dall’impossibilità di scovare nuove denomi-nazioni che potessero giustifi care la loro istituzione (e nonostante il fatto che la fantasia accademica abbia saputo, in questi anni, fare mostra di una insospettata fertilità, alla quale si devono denominazioni così stravaganti da divenire ben presto, almeno in certi casi, oggetto di sarcasmo nello stesso ambiente universitario). A ciò si aggiunga una proliferazione incredibile di sedi (comprendendo nel loro numero sia quelle pubbliche che quella private e aggiungendovi le telematiche di recente introduzione, siamo ad oltre no-vanta atenei, su un territorio nazionale che non ha certo l’estensione di un continente), una correlativa pessima distribuzione della popolazione studen-tesca e del corpo docente, oltre ad una scarsissima mobilità di quest’ultimo, e si avrà un quadro suffi cientemente chiaro (anche se non completo) delle insuffi cienze del nostro sistema di istruzione superiore, come pure, di con-seguenza, delle ragioni per le quali nessuna protesta contro l’introduzione di nuove normative potrebbe essere considerata legittima se si riducesse a difendere ciò che esiste.Risolve qualcuno di questi problemi; introduce correttivi capaci di inverti-re anche una sola di queste tendenze deleterie; agisce effi cacemente (ossia razionalizzando e redistribuendo in modo più attento le risorse) sugli sper-peri (e sui difetti che ne sono la causa) intrinseci all’attuale assetto della vita universitaria il “pacchetto” Gelmini? L’unica risposta onesta che si può dare a questo insieme di domande è, per i motivi che adesso cercherò di illustrare, “no”. Per quanto riguarda l’università, le norme introdotte con la legge 133 possono ridursi a tre voci fondamentali: a) taglio del fondo ordinario di funzionamento (ossia del fl usso di danaro che ogni anno lo Stato riversa nelle casse degli atenei e che consente ad essi di pagare gli stipendi del personale docente e non docente, di provvedere alla gestione ordinaria e straordinaria di immobili e infrastrutture, di promuovere varie attività di sussidio e supporto alla didattica) in misura progressiva: 63,5 milioni di � nel 2009, 190 milioni nel 2010, 316 milioni nel 2011, 417 milioni nel 2012 e 455 milioni a partire da 2013; b) riduzione del turn over al 20% del personale cessato (per pensionamento) nell’anno precedente fi no a tutto il 2011 e al 50% per il 2012 (signifi ca in concreto che fi no al 2011 non si po-tranno bandire concorsi per nuovi docenti se non nella misura di uno ogni 5 professori andati in pensione e di uno ogni due nel 2012), dopo, vista la riduzione del fondo di fi nanziamento nella misura di 455 milioni a partire dal 2013, a meno che non siano intervenute altre forme di fi nanziamento come quelle rese possibili dal punto seguente di questo elenco, buio totale; c) possibilità concessa agli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. Cercherò, adesso, di spiegare perché a mio parere (come a quello della stragrande maggioranza dei docenti e e di un numero crescente di studenti dell’università italiana), le prime due misure non forniscano nessuna ri-sposta alle defi cienze elencate più su in questo contributo e perché la terza (l’unica che si ripromette di ovviare a tale lacuna) sia di dubbia effi cacia e presupponga un’impostazione scorretta del problema relativo al modo di coniugare pubblico e privato in un sistema universitario come il nostro. Non penso ci voglia molto a capire che tagli indiscriminati e della portata di quelli previsti dalla legge che recepisce il decreto Gelmini non risolvono né il problema del numero eccessivo di atenei e corsi di laurea né quello

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della cattiva distribuzione del personale docente e della popolazione studen-tesca sul territorio nazionale, cui ho fatto riferimento, denunciandoli, in pre-cedenza. Allo stesso modo la limitazione drastica del turn over non modifi ca i meccanismi di selezione dei docenti (che sono attualmente caratterizzati da un eccesso pernicioso di localismo e in certi casi di familismo) né incide, se non nel senso di aggravarlo, sul problema dell’elevata età media del nostro corpo docente in relazione a quello delle altre maggiori nazioni europee. Per usare un’immagine che mi sembra calzante, è come se ad un malato affetto da insuffi cienza respiratoria (dovuta, diciamolo pure, a qualche cat-tiva abitudine o a qualche deprecabile comportamento del soggetto che ne è colpito, come, che so, il suo essere un fumatore irriducibile), anziché proporre una terapia in grado di curare questa disfunzione, si togliesse, puramente e semplicemente, il supplemento di ossigeno garantitogli dal respiratore. Ma il decreto contiene un articolo (il 16) al quale, si direbbe, il ministro affi da tutte le sue speranze di poter raddrizzare, con l’intervento virtuoso dei privati, una situazione ormai sfuggita di mano al “pubblico”. L’apporto di capitali e fondi provenienti da società, industrie, aziende operanti nella sfera della “società civile”, con le quali stabilirebbero rapporti organici le università trasformate in fondazioni, esse stesse di diritto privato, sarebbe, in quest’ottica, la panacea di tutti i mali e compenserebbe, con gli interessi, i tagli al fondo di funzionamento di cui abbiamo appena discusso. E’ curio-so, quando qualcosa non funziona, in Italia c’è sempre qualcuno disposto a giurare negli effetti miracolosi di un farmaco che avrebbe le più straordi-narie virtù (a tutt’oggi, peraltro, non provate): le fondazioni. Banche, enti lirici e ora le università. Lasciamo da parte la modestissima prova che fi nora le fondazioni hanno dato di sé nel caso degli enti lirici e, senza indagare l’effi cacia che esse hanno avuto con riferimento alle banche, limitiamoci ad una considerazione che dovrebbe essere ovvia, anche se non pare lo sia: le università rappresentano istituti molto diversi, per fi nalità e modi di funzionamento, rispetto a quelli di credito, e trasformate in fondazioni di diritto privato vedrebbero di sicuro l’aggravarsi e non il risolversi dei pro-blemi sorti con l’introduzione dell’autonomia. Un processo come questo non toglierebbe il suo carattere pubblico all’università italiana e l’apporto dei privati sarebbe, presumibilmente molto diverso da regione a regione, pur restando, con ogni verosimiglianza modesto. Non esiste infatti, nel-l’imprenditoria e nella fi nanza italiane (anche a prescindere dal pessimo momento che – come quelle di tutto il mondo, del resto – attraversano ora e attraverseranno quasi certamente nei prossimi due o tre anni) una spiccata propensione ad investire in cultura e ricerca (la Fondazione Adriano Oli-vetti è stata, da questo punto di vista, un unicum, la cui attività, non a caso, è cessata da tempo). Soprattutto, non si vede come un’industria abituata a fare pochissima ricerca funzionale ai suoi scopi, ossia applicata, trovando evidentemente più comodo ed economico servirsi di brevetti stranieri, sa-rebbe disposta a fi nanziare la ricerca di base che è un compito fondamenta-le e non eludibile dell’università, al quale il carattere prevalentemente pub-blico di quella europea garantisce un’autonomia e una libertà tali da offrire all’Europa, come l’esempio del CERN di Ginevra dimostra, l’occasione di prendere il sopravvento sulla ricerca americana nella fi sica delle micropar-ticelle e nelle indagini sull’origine e la costituzione dell’universo. Ma la questione vera è un’altra. Non c’è dubbio, infatti, che un servizio pubblico possa essere fornito non solo dallo Stato ma anche, e talvolta più effi cacemente, dai privati in convenzione con lo Stato. In altre parole,

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i privati possono certamente entrare a far parte di un sistema pubblico “in-tegrato” di erogazione di servizi sociali le cui prestazioni vengano offerte in modo cooperativo e non, evidentemente concorrenziale, da entrambi i settori. Tuttavia, se il servizio è, e deve restare pubblico, è lo Stato che deve defi nire norme e fi nalità del servizio erogato nonché i limiti dell’intervento privato nella sua erogazione. Fondazioni di diritto privato nei cui consigli di amministrazione siedano soggetti privati con diritto di voto non offrono le suffi cienti garanzie che questo criterio venga rispettato e danno adito al comprensibile timore che tutto si risolva nell’ennesima forma di socializ-zazione degli oneri e privatizzazione dei profi tti che è tipica delle forme di servizio misto (pubblico nella sua dotazione strutturale, ma privatistico nel suo modo di agire), che tra i sistemi coerentemente pubblici e quelli coerentemente privati rappresenta, senza timore di confronti, la variante di gran lunga peggiore.

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Le bugie del governo e lo smantel lamento dell’istruzione pubblica

di Mauro Ponzi

«Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però vuole formalmente rispettare la costituzio-ne [...] non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l’aula parlamentare in un alloggiamento per i manipoli; ma vuole istituire, senza parere, una larvata dittatura. [...] Allora comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, a impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Si comincia persino a consigliare ai ragazzi di andare alle scuole private perché in sondo sono migliori, si dice, delle scuole pubbli-che». Sembra una citazione tratta dai giornali di questi giorni, e invece è tratta da un discorso di Pietro Calamandrei al III Congresso in difesa della

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scuola pubblica del febbraio 1950. Quella che allora era un’ “ipotesi astrat-ta”, un artifi zio retorico, oggi è una tragica realtà.

Ormai è chiara la strategia politica del governo: vuole smantellare le strut-ture dello stato. E’ in corso un attacco massiccio – preceduto da una cam-pagna mediatica – contro gli impiegati, gli insegnanti, insomma il pubblico impiego. Tutti i provvedimenti contenuti nella fi nanziaria e nei decreti leg-ge approvati dall’estate ad oggi vanno contro i lavoratori a reddito fi sso e a favore degli imprenditori e del cosiddetto “popolo dell’IVA”. Se non ci trovassimo in una situazione fi nanziaria drammatica ci sarebbe da ridere: questo governo sembra la caricatura di quel “comitato d’affari della bor-ghesia” di cui parlava un fi losofo tedesco dell’Ottocento. Invece i provve-dimenti del governo italiano vanno tutti nella direzione di una distruzione del ceto medio. Sembra che abbia fatto proprio il modello brasiliano: ri-durre la maggioranza della popolazione alle soglie del sottoproletariato, intrattenerla con stupidaggini televisive e favorire solo una piccola parte della popolazione che può permettersi un ritmo di vita economicamente alto. Alcuni colleghi mi dicono che attribuisco alla compagine governati-va una capacità di progettazione politica troppo alta: il profi lo di questo governo, su cui la stampa europea ha già ironizzato, è infatti molto basso. Forse lo smantellamento delle strutture statali corrisponde solo alla politi-ca della Lega, che è il vero partito politicamente e ideologicamente egemo-ne di questo governo.Si tratta di una politica irresponsabile. Le nostre traballanti strutture statali sono state costruite nel corso di 150 anni, ma ci vuole poco a distruggerle con provvedimenti amministrativi. Poi persino il Brasile sarà più organiz-zato di noi. Vista la crisi internazionale il governo – cioè Tremonti che pro-segue la politica del precedente governo Berlusconi – ha deciso di “vende-re” il patrimonio dello Stato, dapprima cedendo i beni immobili e quindi attaccando direttamente il budget dei singoli ministeri – istruzione e sanità in primo luogo. I “tagli” alla spesa pubblica signifi cano riduzione del per-sonale, riduzione dei salari, riduzione degli investimenti. Per fare che? Per fi nanziare a fondo perduto le industrie in crisi (Alitalia docet). Questa è una politica sconsiderata. Non solo perché gli altri paesi europei ed ex-traeuropei, ugualmente governati dalle destre, hanno attuato una politica opposta di intervento statale nell’economia e quindi di investimenti nelle strutture pubbliche, ma perché i provvedimenti economico-amministrativi del governo italiano stanno distruggendo la scuola, l’università e in gene-rale l’apparato statale. La differenza con il precedente governo Berlusconi sta tutta nel fatto che questi scellerati provvedimenti sono stati preceduti e accompagnati da una campagna stampa di diffamazione nei confronti del ceto medio impiegatizio e degli insegnanti a cui bisogna pure reagire. La caratteristica della dittatura mediatica è stata quella della menzogna e della intimidazione (si pensi a tutte le balle e gli insulti del primo ministro ripresi in diretta televisiva e puntualmente smentiti poche ore dopo, si pensi al redattore di “Famiglia Cristiana” linciato dai mass-media per aver criticato il governo). Ma nel caso dei provvedimenti sulla scuola e sull’università ab-biamo raggiunto il limite del grottesco. Tremonti con un paio di articoli del decreto legge 112/08 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico” ha, di fatto, distrutto la scuola pubblica e cambiato la natura dell’univer-sità statale. Lasciamo stare le questioni di principio, cioè che dei provve-dimenti così radicali che vanno contro un dettato della costituzione sulla pubblica istruzione andavano discusse in parlamento – questo governo ha,

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nei fatti, esautorato il parlamento, attuando quel “fascismo strisciante” di cui parlava qualche anno fa Chomsky. Tremonti ha deciso per decreto leg-ge che il budget che si libererà nei prossimi anni per il pensionamento del personale nella scuola e nell’università non sarà reinvestito in quei settori se non per il 20%, il rimanete 80% «dovrà essere versato al Bilancio dello Stato», che deciderà come impiegarlo (cioè per le detrazioni fiscali delle industrie e per il salvataggio delle aziende in crisi o – nell’ottica della Lega – per il finanziamento del federalismo fiscale). Bisogna sapere che tra il 2009 e il 2013 andrà in pensione circa il 46% del personale della scuola e dell’università. In termini amministrativi si libererà un budget enorme che non sarà reinvestito nella scuola e nell’università. Tutta la campagna stam-pa contro gli insegnati e i professori è servita a oscurare l’assalto a questo “tesoretto”, senza spiegare le conseguenze: tagliare l’80% del budget signi-fica far crollare l’università pubblica che già si regge in piedi con enormi difficoltà. La conferenza dei Rettori ha già fatto presente questa situazione. Ma sulla stampa e sui media le considerazioni dei rettori e dei presidi non hanno trovato spazio.Le calunnie e la demonizzazione della figura dell’insegnate servono a co-prire la distruzione della istruzione pubblica. Inutile enumerare le idiozie in proposito che si leggono sui giornali e che si ascoltano in televisione. Non si riesce a capire se i “non capisco” del ministro Gelmini siano frutto di ingenuità o di una astuta recita. Invece di fare la figura dell’impreparata in televisione, consiglio al ministro di leggere il decreto 112/08 “Disposi-zioni urgenti per lo sviluppo economico” in particolare gli articoli 66, 67, 69 e 70, così scoprirà che la politica universitaria dei prossimi anni è già stata decisa da Tremonti. L’attacco all’università pubblica è scientifico e a tutto campo: il governo ha semplicemente tagliato tutte le risorse finanzia-rie, impedendo alle università pubbliche di funzionare decentemente nei prossimi anni. La novità di questi provvedimenti consiste nel fatto che non si tratta di mancati finanziamenti alla ricerca o all’edilizia universitaria, ma della sottrazione di budget attualmente impegnato nell’università. Anche la dotazione ordinaria viene drasticamente ridotta. L’irresponsabilità della politica governativa consiste nel fatto che l’impove-rimento dell’università (quel renderla “anemica” come scriveva Calaman-drei) distruggerà la ricerca scientifica e la formazione in Italia e le renderà poco competitive. Già oggi, prima dei tagli già previsti per decreto legge, solo l’1,1% del Pil è destinato alla ricerca – mentre il Francia e in Germania più del doppio (e va considerato il fatto che il Pil di Francia e Germania è superiore a quello italiano!). Solo gli studenti si sono accorti delle implica-zioni di questi provvedimenti (del resto ben “nascosti” dentro le “Disposi-zioni urgenti per lo sviluppo economico”), hanno capito di essere destinati a rimanere precari avita e hanno deciso di lottare per il loro futuro. La strategia della Francia e della Germania è quella di considerare la ricerca e la formazione un investimento. Anche negli Stati Uniti alcune università sono delle Fondazioni private, ma hanno una reale autonomia scientifica e amministrativa e vengono generosamente finanziate dalle industrie per la ricerca di base senza per questo chiedere in cambio “progetti finalizzati”. Finché la ricerca e la formazione saranno trattate come “spesa” e non come “investimento” non ci sarà futuro per l’innovazione e lo sviluppo né per i giovani che ora protestano.I ministri rispondono con le loro bugie, dicendo “non è vero”, smentendo le dichiarazioni del giorno prima, negando l’esistenza di decreti legge già approvati e in vigore, criminalizzando l’opposizione, il ceto medio impiega-tizio e il movimento studentesco. La singolare combinazione della volontà

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di smantellare le strutture pubbliche e di svendere il patrimonio materiale e culturale della comunità e la dittatura mediatica fa sì che si stia realiz-zando il peggiore degli incubi. In passato abbiamo vissuto altre fasi dello scontro sociale, anche in maniera “forte”, ma oggi ci troviamo in una fase molto arretrata: non ci sono partiti d’opposizione di massa, non c’è una classe sociale che abbia coscienza dei propri bisogni. Bisogna ricominciare da capo: da una contro-informazione. L’unica speranza è che i giovani, che non hanno nulla da perdere, trovino le forme di organizzazione e di lotta per costruire un futuro migliore.

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Sulla laicità della politica

di Massimo Adinolfi

Di recente, Jürgen Habermas ha affi dato all’espressione “socie-tà post-secolare” il compito di descrivere il carattere fondamentale delle società avanzate, per sottolineare la permanenza del fenomeno religioso ben al di là del solo ambito individuale e soggettivo nel quale si è credu-to un tempo che si sarebbero progressivamente ritirate. L’espressione fa riferimento, in particolare, ad una trasformazione della coscienza pubblica che Habermas ha formulato nei seguenti termini: vi è innanzitutto il venir meno della certezza che la religione sia destinata a scomparire con l’avan-zare della modernizzazione; v’è poi l’infl uente ruolo di «comunità d’inter-pretazione» che la religione continua ad esercitare su un gran numero di questioni; vi è infi ne l’impatto, dovuto all’ampiezza dei fenomeni migrato-ri, con forme di vita diverse, in cui si rapprendono le differenze religiose, e che è quindi più diffi cile far convivere in condizioni di reciproco rispetto1. Da tutti questi fenomeni si sarebbe sollecitati a porre la domanda se e in qual misura il carattere laico e secolare dello stato moderno debba essere seriamente riconsiderato, per tenerne debitamente conto.

Ora, è anzitutto ben chiaro che cosa si intenda abitualmente per lai-cità: secondo la sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale, il principio di laicità “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”. Nella pubblicistica corrente, si as-siste però, da qualche tempo, ad una lussureggiante fi oritura di appelli ad una nuova oppure vera oppure sana laicità, come se la vecchia laicità (che,

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quanto alle affermazioni in diritto dello Stato italiano, non risale troppo indietro nel tempo) fosse falsa o malata o frutto di un fraintendimento – il che è perlomeno discutibile. Quel che però questi appelli paradossalmente fi niscono con il sottintendere, non è soltanto che occorre ripensare il ruo-lo pubblico della religione, ma che persino un simile ripensamento, per quanto profondo, non può spingersi fi no al punto di rinunciare al carattere fondamentalmente laico dello Stato. Piuttosto, si pretenderà di reinterpre-tarlo.

Ad esempio. La laicità comporta che lo Stato si mantenga neutrale verso ogni confessione religiosa. Questa neutralità può essere interpretata come ostile, indifferente o collaborativa, ma in tutti i casi non può com-portare il sacrifi cio della libertà religiosa di alcuno. E nessuno, per quanto insoddisfatto di questa formula, si è al momento spinto sino al punto di chiedere che lo Stato non sia affatto neutrale verso ogni confessione reli-giosa, ma ne favorisca anzi una a dispetto di tutte le altre. Cionondimeno, si prova ad esempio a sostenere che una simile neutralità non è infi ciata dall’attenzione particolare che ciascun paese deve prestare alle proprie tra-dizioni culturali, linguistiche ed anche religiose. In realtà, non vi è, in ciò, alcuna particolare novità: la stessa sentenza sopra citata non aveva diffi col-tà a rendere compatibile con il principio supremo della laicità il riconosci-mento del valore formativo della cultura religiosa, ma poi anche l’obbligo dello Stato, contratto nell’84 con la revisione del Concordato lateranense del ‘29 e con il successivo protocollo dell’85, a impartire l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, in virtù dell’appartenenza del cattoli-cesimo al “patrimonio storico del popolo italiano”. Vi era quindi una spe-cifi cità che si riteneva di dover salvaguardare, e si riteneva – così come nel fatto ancora si ritiene – che questa salvaguardia potesse essere esercitata senza discriminazione di alcuno. La Rochefoucauld diceva che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù; allo stesso modo, la ricercata laicità sana o vera o bene intesa è forse solo un omaggio un po’ ipocrita reso ad una cornice politico-costituzionale che non può essere posta apertamente in discussione.

Naturalmente, questo non signifi ca affatto che la laicità non sia sot-toposta a nuove prove, specie nel nostro paese, o che le assicurazioni di principio possano, di per sé sole, bastare: a che vale, infatti, salvare la cor-nice, se il quadro che ne esce risulta sfi gurato? La prudenza con cui si assu-me, anche da parte di chi chiede sempre nuovi e maggiori riconoscimenti per il ruolo pubblico delle religioni, che tuttavia lo Stato deve rimanere laico, signifi ca però che quel che viene richiesto non sono revisioni di prin-cipio, e che quanto forse occorre, da parte laica, non sono nuove buone ragioni, bensì piuttosto suffi ciente forza politica per non cedere troppo sul piano delle mediazioni storico-effettive di volta in volta richieste. Per rimanere sul terreno, così sensibile, della scuola, non è insomma alle viste un Giovanni Gentile per il quale la dottrina cristiana nella “forma ricevuta dalla tradizione cattolica” assurga assai poco laicamente a “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”, come si leggeva nell’art. 36 del Concordato del ‘29.

Non si può forse dire che la laicità non debba essere ripensata, quando si tratta invece dei problemi che devono affrontare oggi le società multiculturali. Sono ormai presenti in molti stati europei minoranze cultu-rali e religiose che chiedono tutela della propria identità collettiva, e che rifi utano di ricondurla al comune denominatore dei diritti di libertà propri del canone occidentale. Quanto a questo, si può essere d’accordo, in linea

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generale, con Habermas, per il quale sul piano teorico è semplicemente oziosa, o ideologicamente viziata, la diatriba fra quelli che mettono la pro-tezione dell’identità culturale sempre innanzi all’affermazione dei diritti individuali, e quelli che viceversa mettono i secondi sempre innanzi alla prima, senza alcun bilanciamento. Secondo il fi losofo tedesco, a fomentare una simile contesa è “da un lato un relativismo culturale imbellettato in maniera postmoderna, dall’altro un laicismo antireligioso e demodé”2. Le etichette di Habermas sono evidentemente polemiche: si intende con esse che, da un lato, la postmodernità è poco più di uno scetticismo nei con-fronti della ragione, che peraltro ha costantemente accompagnato il cano-ne razionalistico moderno, e, dall’altro, che a voler essere aggressivamente critici nei confronti della religione non si propone nulla di inaudito o di particolarmente nuovo, ma si torna anzi indietro a certo sbrigativo anticle-ricalismo di stampo ottocentesco. In verità, vi è molto di sbrigativo anche nel modo in cui sono disegnate queste opposte fi sionomie intellettuali; ma, depurato dal suo carattere polemico, il discorso di Habermas sta a dire che quel che si presenta oggi in forme anche virulente è un confronto tra posi-zioni che non si affacciano certo per la prima volta sulla scena europea, e per affrontare il quale la soluzione è, sul piano teorico, già stata formulata, nei termini di un processo che ha la forma di un chiasma, di uno scambio reciproco e di una reciproca contaminazione. Quando riesce virtuoso, un simile processo porta in dote una sorta di reversibilità, per cui quello che le minoranze cedono accogliendo i principi universalistici della cittadinanza viene restituito loro in termini di riconoscimento per le specifi che diffe-renze culturali di cui sono portatrici. Nessuna priorità assoluta, nessuna pretesa di squalifi care sempre le formazioni religiose in quanto teoretica-mente inconsistenti e ideologicamente oppressive da un lato, e dall’altro nessuna rivendicazione aere perennius da parte di una cultura o subcultura, sostenuta come valida sempre in base solamente al fatto di vigere e di ap-partenere a una qualunque identità e memoria storica. Nessun diritto, pur riconosciuto in principio, può d’altronde pretendere di imporsi d’emblé su fatti che hanno lo spessore storico-culturale di una tradizione; e d’altro canto, nessun fatto può, con altrettanta immediatezza, per il solo tramite della sua tradizionalizzazione, mutarsi in diritto.

Sin qui, non ci muoviamo – così, almeno, si può ritenere – su un terreno del tutto inesplorato. Anche il modo in cui Habermas rappresenta l’esito di questa sorta di mediazione fra gli opposti cade all’interno di un quadro concettuale non inedito. Qui però c’è forse una piccola mossa teo-rica che occorre compiere. Habermas parla infatti di “due processi com-plementari” che devono svilupparsi “in maniera equilibrata e parallela: da un lato l’aprirsi della comunità politica all’inclusione (riguardosa delle dif-ferenze e giuridicamente equilibrata) delle diverse subculture; dall’altro, il liberale aprirsi di queste stesse subculture alla partecipazione (equiparata e individuale) dei loro singoli membri al processo democratico”3. In real-tà, non si tratta probabilmente di una vera e propria complementarietà. È vero, infatti, che l’una cosa deve aggiungersi all’altra per completarla, ma quel che si ottiene non è – com’è invece nella logica del complemento – un intero, perché non è mai privo di scarti, di attriti, di resistenze. Vi è for-se, nella ragionevole e raziocinativa dialettica proposta da Habermas, una qualche sottovalutazione del fatto che i due processi in questione non sono processi ideali, che possano quindi essere descritti secondo il modo in cui funzionano idealmente le categorie della rifl essione: l’identità e la differen-za, la medesimezza e l’alterità. È sempre valido, al riguardo, l’insegnamen-

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to di Kant: un conto è quello che il fi losofo chiamava il confronto tra le rappresentazioni innanzi all’intelletto, cioè la determinazione logica della loro possibilità; un altro è quel che accade innanzi alla sensibilità, e cioè sul terreno scabro e irregolare dell’esperienza. Detto più semplicemente: quel che riesce complementare in linea teorica, non sempre si completa in pratica.

D’altra parte, più profondamente di quanto non sospettasse Kant, la dialettica in questione investe, senza renderli complementari, i due stessi piani della sensibilità e dell’intelletto, delle idee e delle cose, dei retaggi culturali e delle condizioni materiali da cui dipende la costituzione delle identità collettive. Se però quella che si vuole è una buona dialettica – e al riguardo aveva ragione Merleau-Ponty – occorre che essa sia “cosciente del fatto che ogni tesi è idealizzazione, che l’essere non è fatto di idealizzazione o di cose dette, come credeva la vecchia logica, ma di insiemi legati in cui il signifi cato non è mai se non come tendenza [...]. Come nella vita, così nel pensiero e nella storia noi conosciamo solo superamenti concreti, parziali, oberati di sopravvivenze, gravati di defi cienze”4.

Nel tentare queste formulazioni, Merleau-Ponty inseguiva un altro problema. Ma il modo in cui riformulava la questione della dialettica con-tiene alcune istruzioni importanti. In primo luogo, ci impedisce di con-siderare che i termini, di cui occorre pensare la relazione, si defi niscano prima e a parte da questa stessa relazione. In secondo luogo, ci impedisce di ritenere che questa stessa relazione sia calcolabile, rappresentabile alla stregua di un algoritmo e interamente proceduralizzabile. Applicate al ‘fat-to’ della società multiculturale, le istruzioni merlo-pontiane sul buon uso della dialettica consentono di battere in breccia qualunque rappresentazio-ne del problema che muova da termini già conclusi e defi niti, come se le culture e le civiltà fossero, in quanto tali, insiemi chiusi e impermeabili, e come se l’apertura di queste culture alla modernità fosse un movimento ad esse esterno, che dunque possa essere solo subito, importato. E consento-no anche di escludere che sia strettamente teorico, rigoroso e dimostrabile come un teorema matematico, il modo e il luogo in cui culture diverse si incontrano, alla stregua di un comune denominatore del tutto astorico, un set di principi universali e di conseguenti diritti che da quell’incontro non riceverebbe alcun apporto.

Non si tratta affatto di una considerazione scontata. Al pensiero laico è certo consustanziale la distinzione fra politica e religione, così come la distinzione fra diritto e morale. Metafi sicamente intese, quel che queste distinzioni distinguono è una forma da un contenuto: e poiché solo la for-ma è universale, il contenuto si trova ipso facto dal lato di ciò che, essendo particolare, non può costituire il fondamento universale di un ordine po-litico democratico, basato sull’uguaglianza fra gli uomini. Per dirla però nei termini di Habermas, a cospetto di una simile universalità della forma, ogni cultura precipita in subcultura. Posti così i termini, non v’è dialettica possibile. Ma non appena domandiamo – com’è inevitabile – anche solo: ‘in cosa gli uomini sono uguali?’, subito si fa chiara la necessità di un’inter-pretazione del principio di uguaglianza formale, e di un fondamento per quell’interpretazione, che il principio stesso non può di per sé contenere, e che un qualche contenuto deve poter fornire. E la dialettica, così, riparte.

Con ciò non si vuole, naturalmente, revocare le distinzioni. Far ta-cere i teologi per costruire nella pace religiosa l’ordine politico-giuridico è gesto inaugurale della modernità, come tale irrinunciabile. Ma occorre mantenere viva la consapevolezza che si tratta di un gesto eminentemente

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politico, la cui politicità si riconosce proprio dal fatto che non si lascia sistemare entro le distinzioni che intende produrre, perché le precede e in questo modo le eccede. Questo signifi ca che un tal gesto non è assicurato una volta per tutte, e che occorre a volte tornare ad eseguirlo. L’ultimo ter-reno sul quale misurare la tenuta della laicità della politica sembra in effetti richiedere qualcosa del genere. Sono oggi all’ordine del giorno un certo numero di questioni concernenti la ‘natura umana’, che non sono mai state fi nora oggetto di decisione politica. La ‘regola’ moderna è: altro il diritto, altra la morale e la religione. Purtroppo però si tratta di una regola astratta: se fosse davvero possibile separare senza resti né sopravanzamenti l’una cosa dall’altra, dovrebbe essere anche possibile, ad esseri privi (per ipotesi) di qualunque senso morale, di dotarsi di una costituzione giuridica: il che è perlomeno dubbio. Per di più, quel che i nuovi orizzonti di interven-to tecnico sulla natura schiudono è la possibilità di ‘costruire’ i soggetti che la modernità riconosce come titolari di diritti (e anche quella, in certa misura, di autocostruirsi). Ora, è vero che “la strategia teocon passa an-che attraverso la drammatizzazione degli effetti «bioetici» che l’evoluzione scientifi ca e tecnologica determina”5; è vero cioè che suscitare paura per il futuro della specie umana, alimentare sensi di colpa nei confronti della natura violata, far leva sui rischi e le incertezze dell’età globale – tutto ciò è funzionale all’affermazione dell’esigenza di ristabilire autorità assolute, in sede morale o apertamente confessionale, a cui affi dare una parola defi ni-tiva per illudersi di poter rimanere così saldamente ancorati ad essa. Ma è vero pure che i nuovi scenari che sembrano schiudersi non consentono la mera riproposizione del quadro concettuale moderno: non perché si abbia bisogno di supplementi d’anima di cui la fredda tecnica sarebbe priva, ma perché quegli scenari vanno disegnati secondo linee che la politica deve ancora tracciare.

Poiché però quel che oggi si paventa (almeno da parte di chi subi-sce il silete! di Alberico Gentile) è una brutale subordinazione della vita umana alle esigenze economicistiche della ragione strumentale, in una cor-nice morale utilitaristica, edonistica e relativistica, non è forse inutile far notare infi ne quel che a tutta prima può sembrare un paradosso, ma che paradosso invece non è. E cioè che gli apostoli dei valori si muovono spes-so e volentieri su quello stesso terreno di integrale naturalizzazione, anzi biologizzazione dell’umano, su cui agiscono i corifei della tecnica. Con in-tenti diversi, naturalmente: gli uni per proibire, gli altri per intervenire, ma entrambi incapaci di riconoscere il luogo fondamentale in cui l’uma-no in quanto tale abbia veramente luogo: il luogo cioè e la responsabilità della politica, che gli uni e gli altri fi niscono per esautorare, in nome della competenza tecnica o in nome della sapienza morale e religiosa. E così il compito di una politica veramente laica, si rivela essere anzitutto quello di guardarsi dalle pretese eccessive dei troppo sapienti e dei troppo compe-tenti, della religione e della tecnica, per rimettere nello spazio a tutti comu-ne della democrazia il momento autentico della decisione politica.

Note1. J. HABERMAS, Perché siamo post-secolari, in Reset, luglio-agosto 2008, pp. 23-32. 2. J. HABERMAS, Perché siamo post-secolari, cit., p. 30.3. J. HABERMAS, Perché siamo post-secolari, cit., p. 29.4. M. MERLEAU-PONTY¸ Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993, p. 115. Ne approfi tto per segnalare che i termini, sopra impiegati, di chiasma e reversibilità provengono direttamente del lessico merlo-pontiano.5. G. PRETEROSSI, Contro le nuove teologie della politica, in Le ragioni dei laici, a cura di G. Preteros-si, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 4.

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Dilemmidi Claudio Napoleoni Quale progetto oltre il “socialismo reale”?

di Alfredo Reichlin

Confesso che il mio ricordo di Claudio Napoleoni è dominato da un grande rimpianto. Rimpianto per l’uomo straordinario che egli era ma anche per quell’Italia, quel mondo politico e morale in cui la politica poteva essere pensata come storia in atto e la sinistra come funzione del destino della nazione, nonchè strumento della lotta per cambiare il rapporto tra dirigenti e diretti. Parlo di quella dialettica tra servo e padrone, tra tesi e antitesi hegeliana, su cui giovani della «Rivista Trimestrale» costruivano

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la loro fi ducia nell’esistenza di un soggetto rivoluzionario. Quel mondo non c’è più. E io (non solo io, penso) sono assillato dalla sensazione che siamo arrivati a un passaggio cruciale, il quale mette in causa tutto il modo di essere, di pensare se stessa e di essere percepita di quell’insieme di forze, di idee e di retaggi che chiamiamo sinistra. E tuttavia, proprio a fronte di questa radicale mutazione del quadro storico, di questa vera e propria cesura, a me sembra che la fi gura di Claudio Napoleoni assuma un signifi cato quasi profetico.Io non parlo di lui come fi losofo, né del rapporto complesso e diffi cile ma molto profondo che egli aveva con la religiosità e con la Chiesa. Parlo di quel raffi nato intellettuale che di sé diceva:

Il luogo in cui io cerco, come posso, di stare e da cui provo, come posso, a parlare è la politica, è la dimensione politica. Io non avrei mai affrontato in vita mia una questione teoretica se non fossi stato spinto a farlo da un interesse politico. Ma ciò che posso dire, anzi arrischio a dire, è che il signifi cato della politica, come luogo in cui stare e da cui parlare, io lo desumo dal fatto che la politica sia concepita come lo strumento di una liberazione.

Al fondo fu questa la sua visione. Napoleoni sapeva benissimo che la politica si nutre di concretezza, e che a essa spetta defi nire in un tempo determinato e in un contesto determinato i rapporti tra uomini anch’essi determinati, ma tutto questo avveniva all’interno di una visione più generale del cammino dell’uomo. La politica, in sostanza concepita laicamente come la lotta che l’uomo ha ingaggiato da secoli per la sua progressiva liberazione da tutti i servaggi, le credenze, le paure più ancestrali che hanno accompagnato la sua storia. Compresa, come egli dirà, quella lotta per l’emancipazione del lavoro che si era organizzata in base alla concezione della storia come storia alla divisione tra le classi. E a ciò aggiungeva – voglio sottolinearlo – anche il rischio che la Chiesa escluda da sé non solo gli «infedeli» e i «pagani» come nei secoli medievali ma i cristiani stessi, dove la parola «cristiano» è sinonimo della libertà della risposta umana al messaggio evangelico.Al fondo, era l’idea di un nuovo umanesimo. Ma la politica, pur così concepita, egli l’ha vissuta con estrema drammaticità. La drammaticità di un dubbio se non di una certezza (e in ciò mi appare oggi profetico) che eravamo giunti a una sorta di ‘stretta storica’ per l’avvento di una forma inedita di supercapitalismo per cui cambiava la stessa condizione umana. L’inaudita potenza dei mercati mondializzati, il denaro come sola misura di una ricchezza astratta per cui il capitalista e l’operaio, pur nel perdurare del loro confl itto diventano fi gure o maschere di una medesima alienazione. Insomma la novità di quella svolta che in realtà avvenne negli anni Settanta e che purtroppo con molte incertezze e ritardi (noi, dirigenti del Pci, capimmo poco) si è poi confi gurata come qualcosa di più di un mutamento del paradigma dell’economia, bensì come l’avvento di una vera e propria rivoluzione politica, sia pure conservatrice.Finiva il cosiddetto compromesso tra democrazia e capitalismo, cioè la base stessa di quell’impianto riformista che contemperava gli squilibri del mercato con la funzione redistributrice dello Stato sociale. Si trattava, in effetti, di una svolta, ed essa era tale da mettere in discussione tante cose. E rileggendo gli scritti di allora io sono molto colpito dal fatto che assai prima e molto più acutamente di altri, Napoleoni capì che si trattava di qualcosa che mutava l’intero corso storico. E che per questa ragione la sinistra veniva a trovarsi di fronte a un bivio che egli rappresentava più

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o meno in questi termini: o si torna indietro, privilegiando le logiche del mercato e del nuovo capitalismo, a scapito delle ragioni delle democrazia, o si va avanti. E andare avanti non signifi ca approdare al riformismo ma superare i termini stessi di quel compromesso. Con quali implicazioni? La sua risposta (ricordo una polemica con me relatore di un convegno economico) era molto radicale, nel senso che egli poneva il problema di una uscita dal meccanismo dato verso assetti che però egli stesso riconosceva essere indefi nibili ma che in ogni caso – diceva – avrebbero comportato la necessità di ripensare le forze in campo, il loro modo di schierarsi, il ruolo della politica, la funzione dello Stato.Questo è il problema drammatico che egli poneva al Partito comunista, ma che in realtà poneva anche a se stesso. È impressionante la radicalità delle domande che egli rivolse al Congresso di Firenze del Pci (1986):

Voi avete dichiarato esaurita la spinta propulsiva dell’esperimento sovietico e considerate che sia venuta meno, come obiettivo possibile, l’idea peraltro mai precisata ma caratterizzante della fuoriuscita del capitalismo? Bene. Se è così a voi spetta indicare i vostri nuovi obiettivi, dato che è sui moventi e sui fi ni che si fonda il consenso ed è in forza di essi che la gente si muove, partecipa, lotta, alza i vessilli, ed è su questo che si decide lo sviluppo o il declino, anche rapido, la perdita o meno di signifi cato per la società italiana di un partito come il vostro.

E perciò si diceva sconcertato che di ciò non si discutesse apertamente fi no a rimettere in discussione perfi no il nome. E siamo – badate bene – a parecchi anni prima della svolta di Occhetto. Ma stiamo attenti. Non confondiamo Napoleoni con Bertinotti o Ferrero. Tutt’altra era la sua cultura e completamente diversa era la lettura delle cose che sorreggeva la sua polemica e che lo spingeva fi no alla provocazione.La sua domanda vera, tutto sommato, era la seguente. Dato che il vecchio impianto del comunismo non è più storicamente adeguato a esprimere l’istanza di liberazione che lo ispirava, quale altra prospettiva può rappresentare non un ripiegamento e una rinuncia a ogni discorso di valori e di fi ni, ma un avanzamento e uno sviluppo che ne ritrovi e ne adempia la stessa interna verità? In realtà la risposta a questa domanda egli la cercava in una revisione radicale del pensiero economico-sociale ispirato al marxismo. Ciò da cui bisognava liberarsi – diceva – è l’idea troppo limitata dallo sfruttamento inteso come dominio di classe esercitato mediante l’appropriazione di lavoro non pagato. È la teoria del valore-lavoro che non funziona e quindi lo sfruttamento deve essere diversamente fondato. Questa era l’idea di fondo. Essa nasceva dalla consapevolezza di una cesura con la storia precedente la quale consisteva nel confl uire di tutte le classi in una condizione di subordinazione al meccanismo economico. Non era solo – né tanto – la riscoperta del tema marxiano dell’alienazione. Napoleoni cominciava a pensare che l’intero corso storico compiva un salto, nel senso che la mondializzazione attribuiva al capitalismo soprattutto fi nanziario una potenza tale da assoggettare tutta la realtà a una logica che confl iggeva in modo radicale con la soggettività e l’autonomia dell’uomo. Ciò che dava al suo pensiero una straordinaria tensione e drammaticità era la sensazione che si stava toccando un limite insuperabile per la politica. E se le cose stavano così, tutto l’impianto del gruppo che si era riunito intorno a Rodano e alla «Rivista Trimestrale» veniva in discussione. Si apriva un problema cruciale che egli così defi niva:

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Posto che la storia contemporanea culmina in una “società” dominata da uno sviluppo nuovo del capitalismo che per l’uomo ha un carattere distruttivo, è possibile una uscita da essa per via puramente politica? Intendendo per “puramente politica” una via in cui non si diano altre ragioni dell’operazione politica se non quelle interne alla politica stessa, non sorrette da altro che dal riferimento a una morale strettamente naturale, che mette in evidenza i valori dell’uguaglianza e della libertà. Insomma una via “laica” per la quale non occorre il riferimento né a valori religiosi né a una qualche fi losofi a della storia, compreso il marxismo.

Questo è il grande dubbio che lo assillava e che ha dominato l’ultima parte della sua vita. Fino alla drammatica domanda fi nale se arrivati a questa ‘stretta storica’ si dovesse dichiarare con Heidegger l’esaurimento della fi losofi a e di qualsiasi altro rifl ettere e agire umano per cui si dovesse concludere che «ormai solo un Dio ci può salvare». Il suo dubbio, ma anche la sua esortazione agli amici e a noi: «Cercate ancora».E io non posso non chiedermi se e in quale misura dopo la sua morte, abbiamo cercato ancora e a quali conclusioni siamo arrivati.Il bilancio non è esaltante. Ma se guardiamo bene in faccia la realtà e ci chiediamo perché non siamo riusciti a incidere più di tanto sui processi reali, le risposte possono essere tante ma la verità, al fondo, è che in conseguenza di quel fenomeno grandioso che chiamiamo globalizzazione, non sono cambiati solo i poteri, i bisogni, e le aspettative, ma sono venuti meno gli stessi strumenti dell’agire politico della sinistra: la moneta nazionale, le funzioni redistributive dello Stato, l’economia pubblica, quel confi ne nazionale che solo, fi nora, ha garantito al cittadino la rappresentanza politica e il sistema dei doveri e dei diritti. Se non si parte da qui non serve molto questo continuo pentirsi, fl agellarsi, chiedere scusa, per poi cambiare quasi niente. Contano certamente i nostri errori e le nostre divisioni, ma conta soprattutto il fatto che non riusciamo a collocare la nostra azione al livello di quella che è la grande ingiustizia ma anche la grande contraddizione del nostro tempo: da un lato la potenza dell’economia che si mangia il potere della politica in quanto libertà uguale e interesse generale, ma dall’altro il fatto che la società non può essere ridotta a società di mercato senza creare problemi insolubili di governabilità ed effetti catastrofi ci anche morali, di perdita di identità. Stiamo attenti perchè se la sinistra non scende su questo terreno, e non a chiacchiere (dibattiti, convegni), ma liberando forze, mobilitando interessi, mondi, bisogni, movimenti reali, essa si condanna a un ruolo subalterno: l’ospedale che cura nella misura del possibile gli eccessi di crudeltà della destra.Vorrei ricordare a questo nostro mondo di partitini, che rappresentano ormai solo i frantumi di quella grande organizzazione autonoma dal potere dominante che fu la vecchia sinistra, quale enorme potere di condizionamento è insito nell’esplosione delle comunicazioni e nella loro pervasività. Si è scatenata una forza inaudita e quindi un potere tale che può ormai ‘colonizzare’ i mondi vitali, le identità degli individui e dei luoghi che hanno fatto fi nora la diversità del mondo. Una forza che investe direttamente e quasi senza mediazioni l’esperienza della vita quotidiana. La gente chiede nuovi beni non solo materiali i quali diano senso e signifi cato alle loro vite, ma la risposta, insensata, è la valanga dei consumi superfl ui. E ci penserà la Tv a scambiare il vero con il verosimile. Solo un Dio potrà salvarci? Per me non credente questo Dio è la capacità

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di darsi un pensiero autonomo rispetto a quello della destra, intendendo per destra – ripeto – non solo Berlusconi ma quell’insieme di forze reali e di culture (se è troppo dire «pensiero unico», diciamo lo spirito del tempo) che ha governato il mondo nell’ultimo decennio. A cominciare da quell’idea grandiosa secondo la quale il crollo del comunismo segnava una sorta di ‘fi ne della storia’, cioè dei grandi confl itti e delle alternative pensabili. Come si vede anche in questi giorni con la crisi che sta travolgendo la fi nanza mondiale, la missione dell’uomo non può consistere nella creazione di un mercato globale in cui capitale, risorse naturali, Paesi diversi, lavoro umano non sono nulla di più che fattori di produzione fi nalizzati alla conquista di una produttività e di un profi tto sempre maggiori. È essenziale che emerga a questo punto un’altra dimensione della politica. Non basta la lotta di classe, né si va lontano con le ricette di tipo keynesiano. Quando la sostanza delle contraddizioni e dell’impegno politico democratico, attinge l’estrema frontiera della salvaguardia della specie umana e della biosfera, allora le contraddizioni domandano risposte che non possono esaurirsi in un atto, in un voto, in un provvedimento, ma debbono avere il carattere della costruzione di un processo in cui l’impegno politico si deve incontrare gramscianamente con l’etica, si deve fare riforma intellettuale e morale. L’egemonia della sinistra si ricostruisce mettendo al centro la persona umana e la sua liberazione, il rispetto dei viventi non umani. Io non so se c’è bisogno di un Dio per salvarci. So che ci vogliono nuovi partiti più ‘sociali’, e al tempo stesso più politici, meno nomenclatura dell’economico-corporativo. Perché è vero che siamo in presenza di società che sono molto più di prima società di individui, ma dal momento che il capitale che alimenta lo sviluppo non è più tanto costituito dalle risorse fi siche, è dall’insieme dei rapporti personali e dai modi di vita che dipende la capacità di creare i nuovi beni e di metabolizzare le innovazioni tecniche e scientifi che. Insomma la politicizzazione delle società non è diminuita, anzi è cresciuta se non altro per il fatto che sulla scena arrivano sempre nuovi problemi che riguardano il destino della collettività umana. Ecco perché una nuova sinistra diventa essenziale nell’era globale. Si tratta di ridefi nire i beni comuni e le linee di evoluzione della società a fronte di fatti enormi la cui novità consiste proprio nel rimettere in gioco ben altro che i governi: l’evoluzione stessa della società umana e il suo destino. Si tratta quindi di ridefi nire i principi etici sulla base dei quali stare insieme e le nuove responsabilità verso la comunità. Altrimenti su che basi pensiamo di costruire una nuova sinistra? Su un accordo tra spezzoni di ceto politico? Nella mia immaginazione è questa la domanda che ci avrebbe posto Claudio Napoleoni. E io gli avrei risposto con queste parole di Enrico Berlinguer:

Noi siamo convinti che il mondo, anche questo intricato mondo di oggi, può essere conosciuto, interpretato, trasformato e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita. Noi non vogliamo imporre alla storia una destinazione. Il modo in cui noi stiamo nella storia è la tensione e la passione con cui agiamo in essa, è la speranza indomabile che ci anima in quanto rivoluzionari. L’assalto al cielo – questa bellissima immagine di Marx – non è per noi un progetto di irrazionalistica scalata all’assoluto. Non ci muoviamo sul piano di un esaurimento della storia: tendiamo invece tutte le energie di cui siamo e saremo capaci*

*Il testo sarà pronunciato alla Commemorazione uffi ciale di Claudio Napoleoni che si svolgerà nel mese di novembre.

*In collaborazione con la Rivista Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri

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Declino USA?

di Silvano Andriani*

Due guerre iniziate, in corso e senza prospettiva di vittoria; anzi tre, se si tiene conto che l’istigazione e l’aiuto del governo Usa sono stati decisivi nell’indurre l’Etiopia a intervenire militarmente in Somalia protraendo una guerra civile che era arrivata al termine e provocando un altro confl itto senza prospettiva di vittoria. La situazione mediorientale in pieno caos con lo stallo del confl itto israelo-palestinese, l’inasprimento del confronto fra sunniti e sciiti, il rischio di destabilizzazione del Libano e, soprattutto, il rischio di fare precipitare il Pakistan in una situazione di guerra civile. La grande insensibilità ai problemi ambientali. L’economia diventata sempre più dipendente dal fi nanziamento estero, soprattutto asiatico, ora in recessione e il sistema fi nanziario in sfaldamento. La rimessa in discussione del multilateralismo, la perdita di prestigio e di capacità di leadership in un mondo che appare sempre più non governato, dove aumenta il risentimento contro gli Stati Uniti ritenuti la causa principale dei mali del pianeta. Questa è l’eredità che Bush jr. sta lasciando al suo successore.Non bisogna tuttavia credere che tutto provenga dalla miseria intellettuale di Bush jr. e dalla sua adesione alla visione neoconservatrice. I neocon, in fondo, rappresentano la fase suprema del neoliberismo, una sorta di suo overshooting, per dirla con Gideon Rachman su «Financial Times» del 7/10, per il quale «ciò che stiamo sperimentando ora è il fallimento susseguente la trentennale corsa al rialzo nelle idee del conservativismo che cominciò con la rivoluzione di Thatcher e Reagan del 1979-80». In altri termini con

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l’avvento al potere della destra moderna. Dalla visione di Reagan proviene la mitizzazione del mercato, suo lo slogan «piking the winners» (sostenere i vincenti) che è alla base dell’attuale modello distributivo e del conseguente aumento delle disuguaglianze, sua la propensione unilateralista.Nei vortici della crisi fi nanziaria oggi è di moda individuare nella fi nanza la fonte delle degenerazioni e la causa della crisi dell’economia mondiale. Perfi no Berlusconi, con la ben nota impudenza, è arrivato ad affermare che «dobbiamo riportare l’etica nella fi nanza». Ciò falsifi ca la realtà. I fallimenti e gli scandali societari sono cominciati dalle grandi imprese industriali negli Usa e in Europa all’inizio di questo decennio e hanno proposto anche rilevanti problemi etici, messo in evidenza che la fi nanziarizzazione è un fenomeno che investe la generalità delle corporation e, soprattutto, un problema decisivo di governance delle imprese. La governance dominante basata sull’alleanza fra capitale fi nanziario e management e sull’idea che il maggior valore prodotto dalle imprese debba essere spartito fra essi, ha dato luogo alla tendenza a valutare i risultati con ottica di breve periodo e a un sistema di incentivi perverso che ha portato molti manager ad arricchirsi mentre mandavano in malora le imprese. E questo ha riguardato tutte le imprese.Focalizzare sulla fi nanza le responsabilità della crisi vuol dire spostare il fuoco dalla politica, dalla visione liberista che ha orientato lo sviluppo negli ultimi trenta anni, codifi cata nel Washington consensus che ha ispirato l’azione delle istituzioni economiche internazionali.Degenerazioni della fi nanza vi sono state, che sono state in tempo reale analizzate su questa rivista, ma esse non si possono comprendere se non nel contesto del modello di sviluppo affermatosi nell’ultimo trentennio e, soprattutto, dopo le grandi crisi fi nanziarie verifi catesi nella seconda metà degli anni Novanta e all’inizio del millennio. I Paesi anglosassoni, Stati Uniti in testa, sempre più si sono confi gurati come consumatori di ultima istanza in grado di trainare la domanda mondiale e di sostenere gli attivi strutturali delle bilance commerciali di Cina, Giappone, India e Germania, cioè Europa. Hanno fi nanziato i loro consumi indebitandosi massicciamente rispetto agli altri Paesi, Cina in testa. Cina e India si sono confi gurati come i produttori di manufatti di massa e hanno fi nanziato il loro acquisto da parte dei Paesi anglosassoni esportando verso di loro capitali. In questo mondo capovolto, dove i poveri fi nanziano i consumi dei ricchi, trascurano gli investimenti nella propria agricoltura contribuendo potentemente a provocare una crisi alimentare e tutti trascurano investimenti in energia alternativa, provocando una crisi energetica, la fi nanza ha escogitato le ‘innovazioni’ atte ad allocare le risorse fi nanziarie in corrispondenza con le esigenze di quel modello di sviluppo e a fi nanziare l’enorme debito che si andava accumulando nella parte più ricca del pianeta. Ora assistiamo al ritorno dello statalismo, ma si tratta di uno statalismo senza alcuna visione, alcun tentativo di ridefi nire il rapporto Stato/mercato; solo disperate improvvisazioni per evitare la catastrofe e salvare i banchieri responsabili della crisi con interventi, tipo il maxisalvataggio proposto da Paulson, che rappresentanti repubblicani al Congresso hanno tacciato di socialismo, ma sarebbe un socialismo riferibile a Groucho Marx piuttosto che a Karl Marx. Il tipo di sviluppo che giunge ora a conclusione ha già determinato uno spostamento nei rapporti di forza a favore dei Paesi dotati di un maggiore potere d’acquisto sull’estero o perché deputati alla produzione manifatturiera di massa o perché dotati di risorse energetiche: Cina, Russia e Paesi petroliferi. La nascita e gli interventi dei fondi sovrani esemplifi cano questo

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cambiamento. Ora l’operare di una spirale recessione/crisi fi nanziaria provocherà un ulteriore indebolimento della infl uenza dell’Occidente. La indebolirà per ragioni oggettive, in quanto, per quanto la crisi colpirà tutti i Paesi, saranno avvantaggiati quelli dotati di maggiore liquidità. Ma anche perché le sofferenze che la crisi provocherà saranno messe nel conto dell’Occidente.

Anche l’evolvere delle relazioni internazionali sta producendo un ulteriore indebolimento e discredito dell’Occidente.Nonostante le rassicurazioni date all’inizio del secondo mandato da Bush, ripetute periodicamente da Condoleezza Rice, la politica estera statunitense continua a ispirarsi a un rigido unilateralismo: mancanza di volontà di dialogare con gli alleati, di confrontarsi costruttivamente con i partner, di trattare con gli avversari. L’ipotesi di trattare direttamente con l’Iran, Hamas, Hezbollah, talebani viene considera un tradimento, come se, da che mondo è mondo, la pace non si trattasse fra nemici.L’ultima manifestazione di questa attitudine e ritenere di potere imporre le proprie soluzioni con la forza sta nell’intervento dell’esercito statunitense sul territorio del Pakistan al confi ne con l’Afghanistan, contro la volontà del governo di quel Paese e che ha già provocato scontri con l’esercito pakistano. Il rischio ora è quello di un collasso del potere che collocherebbe il Pakistan nel novero degli Stati falliti dando grande spazio di iniziativa ai talebani, in tutta la grande area posta ai confi ni dei due Paesi, e ai terroristi. Sarebbe una situazione ben più pericolosa di quella afghana in quanto il Pakistan è un Paese molto più grande e popoloso per di più dotato di armi nucleari.Anche l’evoluzione dei rapporti con la Russia è riprova della persistente negazione al negoziato del governo Usa. Si può certo stigmatizzare la scarsa propensione del governo russo a procedere sulla strada della democrazia, ma non si può negare che Putin abbia ragione nel sostenere che gli Usa si comportano come se fossero in grado di decidere da soli gli assetti delle diverse parti del mondo. Così è stato per la questione dei sistemi missilistici da insediare in Polonia e Cecoslovacchia; così per il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo contro i dettami del’Onu; così per la pressione esercitata per introdurre nella Nato Paesi caucasici quali l’Ucraina e la Georgia; così per il massiccio sostegno al rafforzamento militare della Georgia che ha preluso allo scoppio della guerra con la Russia. Ora, dopo la decisione della Russia di riconoscere l’indipendenza di Ossezia e Abkhazia, il problema dei confi ni esistenti può riproporsi in un’area dove, dopo la fi ne dell’Urss vi sono già state guerre per i confi ni.In questi frangenti l’Europa non mostra di volersi dare una visione e una politica propria. Frena, ma spesso fi nisce malvolentieri col seguire il governo Usa. Così è stato per l’Iran, per i missili in Polonia, per il Kosovo. L’incapacità di dare una risposta unica al pericolo di collasso dei sistemi bancari mostra che il nazionalismo è la cifra ancora prevalente nell’Europa. E non c’è da meravigliarsi tenuto conto del peso nettamente prevalente che oggi la destra ha e la sua storica propensione al nazionalismo. Tale attitudine potrebbe rafforzarsi con il procedere della crisi economica e produrre spinte protezionistiche. La sinistra avrebbe un grande spazio se volesse fare del rilancio di un’Europa soggetto politico il terreno privilegiato della sua iniziativa politica.

Quali che siano le analogie che si possono riscontrare fra l’attuale crisi fi nanziaria ed economica con quella degli anni Trenta, l’esperienza storica

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ci dice che la fi ne di un grande ciclo economico dà luogo in genere all’inizio di un nuovo ciclo politico. Allora Roosevelt vinse negli Usa e Hitler in Germania. La crisi degli anni Settanta dette origine da una parte all’inizio della terza ondata del processo di democratizzazione, secondo l’analisi di Huntington, con la caduta progressiva delle dittature europee e dell’America latina, dall’altra all’ascesa del neoliberismo. Nella situazione attuale non possiamo aspettarci molto dall’Europa, ma le elezioni statunitensi potrebbero segnare un punto di svolta facendoci registrare un’altra analogia con gli anni Trenta.All’ordine del giorno vi sono due grandi issue. Vi è la necessità di cambiare radicalmente l’agenda delle relazioni internazionali fi nora imperniata sulla lotta al terrorismo. Tale lotta è importante, ma solo se al servizio di una strategia politica; non può essere essa stessa una tale strategia. Il rilancio del multilateralismo dovrà essere la chiave di una nuova strategia per dare risposta alle crisi aperte, affrontare i problemi della difesa dell’ambiente, della povertà. La seconda issue è di dare vita a un nuovo ciclo di sviluppo mondiale con caratteristiche sostanzialmente diverse da quelle del ciclo che si sta concludendo. E poiché la maggiore differenza dovrebbe riguardare il modo come si defi nisce il rapporto fra generazioni presenti e generazioni future nell’uso delle risorse fi nanziarie e ambientali, una issue questa che non può essere defi nita dai mercati per il semplice fatto che in esso le generazioni future sul mercato non ci sono, questo dovrebbe essere il punto principale sul quale ridefi nire il ruolo dello Stato.Dalle posizioni che Obama è andato assumendo nel corso della campagna elettorale proviene un grande desiderio di cambiamento. Dobbiamo sperare che vinca e che riesca a formare una squadra in grado di tradurre in atto tale volontà di cambiamento. Se dovesse vincere McCain il declino degli Usa e dell’Occidente potrebbe diventare irreversibile.

*In collaborazione con la rivista Argomenti Umani diretta da Andrea Margheri.

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La paura e il pericolo in Occidente

di Carmelo Meazza

Quali sono i pericoli che oggi sovrastano e minacciano l’Occidente? Siamo sicuri di sapere bene cosa sia una minaccia o un pericolo, di possedere la giusta dose di sapere e di potere per individuarli e farvi fronte? La paura è il sentimento dominante dell’America e dell’Europa, seppure non ovunque nello stesso modo o nel medesimo stato di allerta. Da tempo l’immaginario dell’Occidente elabora la certezza che qualcosa di enorme debba accadere, che stia per accadere. O addirittura che non possa non accadere. La cinematografi a americana vi costruisce i suoi effetti colossali provando ad elaborarne simbolicamente l’oggetto mancante. Di volta in volta la minaccia arriva dall’alto o dal basso, dall’Oriente o dall’Occidente.Se la paura è sempre paura di qualcosa di preciso, di concreto, di coordi-nato in uno spazio e in un tempo, se questa è la paura, non si può dire che questo sentimento di pericolo vi corrisponda pienamente. Esso può apparire invece più prossimo all’angoscia a cui lo avvicina l’indeterminazione del suo oggetto. L’angoscia infatti, come si sa, è una paura che non ha qualcosa di chiaramente delineato da cui difendersi. Ma, in realtà, questo diffuso sen-timento di pericolo non è neppure angoscia. La certezza del pericolo non appartiene alla natura dell’angoscia mentre

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nella paura dominante il pericolo lo si sente nell’aria. Non si sa bene da dove possa arrivare ma è sicuro che sia in agguato da qualche parte. Quindi una strana allerta e oscillazione tra la paura e l’angoscia. Tra una paura che non sa bene quale sia il pericolo e un’angoscia certissima della minaccia di un pericolo imminente. Qualcuno, molto autorevolmente, ha parlato di logica autoimmune. Le difese immunitarie di un organismo vivente, per la medesima energia con la quale si difendono da un agente esterno, quasi per uno slancio eccessivo di potenza, a un certo punto si autocombattono, minacciano se stesse e possono persino autodistruggersi. Le difese contro un nemico esterno, prima o poi, fondano il nemico dentro se stessi e in questo nemico si fanno la guerra. Persino il ter-rorismo internazionale e il nemico islamico non sarebbero del tutto estranei all’economia di questa logica autoimmune. In qualche modo, sarebbe la st-essa America a generarli dentro il suo corpo. Queste immagini teoriche spie-gano suggestivamente varie cose sull’imperialismo delle logiche identitarie, ma non dicono l’essenziale sull’orizzonte di questa strana paura un po’ es-tatica che attraversa l’America e rimbalza in Europa. La logica autoimmune presuppone una potenza alla sua massima espressione. Invece la certezza di un pericolo imminente e sicuro, il sentimento di paralisi e impotenza che l’accompagna, persino il panico senza sorpresa che guarda nell’occhio del ciclone con il freddo disincanto (disincanto dalla paura stessa) della video-camera del fi lm Cloverfi eld, esprimono il declino di un equilibrio nel mondo nella sua totalità e un passaggio di epoca. L’Europa e l’America in questa paura elaborano il tramonto del loro primato: in questo senso è un sentimento inedito, almeno per gli ultimi secoli di storia moderna di queste Nazioni. E’ capitato altre volte ai popoli dell’Europa di elaborare la profezia o la realtà della propria fi ne ma oggi c’è qualcosa di diverso e di più radicale. Come ripetono i commentatori più autorevoli il mondo si allarga e diventa multipolare. La grande crescita del PIL delle potenze dell’Asia cambia la geografi a della ricchezze e delle povertà. I valori perduti in questi ultimi mesi dalle borse euroamericane non sono che una conseguenza, alla fi ne, di un in-cremento di valore e di ricchezza delle nuove realtà dell’economia mondiale. Queste fra pochi anni contenderanno agli Stati Uniti il primato nella tec-nologie militari, aerospaziali, e soprattutto nelle biotecnologie, cioè in quei settori in cui è più intensa la volontà e la pratica di potenza nei confronti di tutte le specie e soprattutto della nostra. Il mondo va verso una nuova epoca sempre più carica di rischi. Aumenteranno le situazioni di tensione e di confl itto a causa di risorse primarie più scarse, per la possibile ricerca di compensazioni alla perdita di precedenti primati o per l’affermazione di nuove autorità per primati conseguiti, per l’urgenza di tracciare nuovi confi ni (lo spazio interstellare sarà tra non molto affollato e manca al momento un diritto e una legge), e si potrebbe continuare...La storia, per quanto possa insegnare, dimostra che le istituzioni liberal democratiche diventano più fragili nel momento della tensione e della com-petizione internazionale. Nell’alternativa tra la sicurezza del futuro dei pro-pri beni e una maggiore partecipazione alla vita pubblica e l’organizzazione di un orizzonte comune, l’opzione che prevale è quasi sempre la prima. Il vecchio Hobbes aveva visto bene l’alleanza naturale tra la paura e il sovra-no, tra il sovrano e il tempo futuro. Quando i propri beni sono o sembrano in pericolo c’è sempre un’istanza sovrana a farsi avanti, ad assumere il mo-nopolio del tempo futuro. Le democrazie dunque si indeboliscono e sono attraversate dall’imperativo a semplifi care e ridurre le procedure della deci-sione. E’ una tendenza che viene da lontano, alimentata da spinte impetuose,

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e si somma alla naturale tendenza delle democrazie a implodere sotto il peso delle burocrazie, dell’inerzia delle oligarchie, del debito pubblico e della dis-sipazione delle risorse. Questo scenario tuttavia non basta a spiegare la paura che sovrasta l’Occidente, quella paura, ripetiamo, elaborata simbolicamente in vario modo dalla cinematografi a americanaNell’estatica di questa paura c’è la consapevolezza di una certa colpa. Al-meno una parte dell’Occidente si autocomprende come responsabile delle minacce che lo sovrastano. Questa consapevolezza non è diffusa ed infl uente quanto sarebbe necessario ma è tuttavia presente e ha una sua effi cacia reale. Questa paura che denuncia i pericoli, avvertendosi come responsabile e col-pevole di quanto accade per certi versi contribuisce al declino e allo stesso sentimento del pericolo. In qualche modo è, nello stesso tempo, un effetto e una causa. La paura dell’Occidente quando è qualcosa di più del timore di perdere uno status e un tenore di vita, nello stesso momento in cui contribuisce al declino, proprio in quel momento, può rivelarsi una risorsa preziosa. Il più delle volte occorre perdere un certo primato per comprendere il rapporto inverso che stringe insieme il futuro e l’avvenire. Per comprendere quanto la forza del futuro possa reprimere l’avvenire di una comunità. Come possa esserci un futuro senza avvenire. Nel momento in cui una comunità sembra avere nelle proprie mani il futuro diffi cilmente è attraversata dalla paura e dal senso di colpa. Diffi cilmente elabora la forza del principio di responsabilità. Le soci-età che hanno un futuro aperto e avanzano spedite verso la conquista di un primato e di un privilegio verso tutti gli altri, non hanno né paura né sensi di colpa. Quasi sempre questa conquista del futuro incrementa identità molto spiccate, ristabilisce i confi ni e dispone la logica dell’amico e del nemico.

(Le comunità degli uomini che corrono verso il futuro, in vario modo, af-fermano il principio di una totalità condivisa. Quasi sempre sono comu-nità in cui il futuro è ancorato al legame con un Dio (o a una mission o a un principio molto forte che può farne le veci). Stiamo attenti però, questo Principio, quando contribuisce a raccogliere una comunità verso il futuro, è sempre un Dio proprio ed esclusivo, quasi sempre evocato nella formula di un mio Dio. Quando invece una comunità vive l’orizzonte di apertura di un certo avvenire è sempre come in eccesso rispetto al proprio futuro. Anzi è nel suo eccesso che il possibile è garantito. C’è sempre la possibilità di qualcosa di inedito e di grande in quest’eccesso dell’apertura. Nell’eccesso di quest’apertura il comune è di tutti e di ciascuno, in qualche modo sottratto all’appropriazione. Nel momento in cui il comune prende a distribuirsi sec-ondo il principio di un futuro proprio, indifferente a quello degli altri, entra sempre in tensione con il suo avvenire. Questo vuol dire che in ogni futuro c’è sempre un avvenire, ma vuol dire, più di ogni altra cosa, che le comunità ordinate verso il futuro nell’appropriazione del comune sono prima o poi sottoposte al principio della divisione e del limite, prima o poi, vanno in rovina (Forse è proprio Paolo di Tarso che ha capito più di tutti il principio della maledizione della Legge) . Ci sono momenti dunque nei quali il futuro di una comunità è più estranea al proprio avvenire di quanto possa esserlo il suo declino. Ecco perché c’è sempre una chance per l’avvenire quando la logica di un primato viene meno o sta per venire meno.

Nella scena del mondo i popoli vanno e vengono. Le civiltà nascono, cresco-no e muoiono (affermarlo non signifi ca cadere in una qualche fi losofi a della storia). Da sempre il tramonto e il declino dei popoli è incominciato nello

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stesso momento in cui il futuro ha prevalso sull’avvenire (per quanto gli effetti possano apparire dopo diverse generazioni). E fi nora ha sempre pre-valso, per questo i popoli si sono succeduti, dentro confi ni molto netti tra il dentro e il fuori, da un primato ad un altro.Oggi, dalla cultura e dalla sensibilità dell’Occidente che nella paura sente colpa e responsabilità verso le generazioni future viene questo allarme, in vario modo motivato: se la storia del mondo continuasse ad accadere con la ricorrenza della medesima legge tutto sarebbe davvero in pericolo. C’è in questa paura la percezione di un rischio fi nale e defi nitivo che la nos-tra civiltà non può permettersi di correre. Di un rischio diverso rispetto alle epoche precedenti, qualcosa che minaccia, come tante volte giustamente si ripete, la vita stessa così come si è evoluta dopo milioni di anni. La coscienza critica dell’Europa e dell’America proprio mentre contribuisce al declino di una certa idea di supremazia sa cogliere più di tante altre esibizioni di forza il fatto che tutto ciò a cui si deve tenere di più, dalla democrazia alle varie sfere dei diritti di cittadinanza agli stessi valori delle fedi religiose, si difen-dono solo se si esprime fi no in fondo il carattere cosmopolita che la civiltà dell’Occidente si porta dentro come sua chance ancora inespressa. Ma per far questo occorre essere capaci di far morire i vecchi siti in cui questi val-ori si sono affermati e inventarne di nuovi. Non è facile, visto che proprio la vecchia Europa non va oltre un semplice coordinamento delle politiche sociali ed economiche non riuscendo a rinunciare alle piccole sovranità e alle piccole patrie, con una politica tanto più teatrale quanto meno incidente ed effi cace sull’evoluzione dell’epoca (e anche quest’ultimo ritorno alla de-cisione degli stati non è in fondo una maschera teatrale, una recitazione di sovranità, mentre questa si è spostata da tempo altrove e viaggia senza patria da un punto all’altro del globo?).

Orientarsi verso il cosmopolitismo signifi ca elaborare in altro modo il tema della frontiera e del confi ne, la nozione di cittadinanza e i suoi diritti inalien-abili, signifi ca governare la perdita di sovranità degli stati nazionali verso nuove forme sovranazionalità. Le organizzazioni internazionali costruite sulle rovine della seconda guerra mondiale sono ancora più ininfl uenti e siamo lontanissimi da alternative praticabili. Eppure non c’è altra strada. Se si resta nella logica del primato e del piccolo impero quanto di buono viene in superfi cie nella paura dell’Occidente verrà perduto; si proverà allora ad esorcizzarla con la logica della sfi da e della competizione con le conseguen-ze che almeno in parte non è diffi cile prevedere. Occorrerebbe convincersi della seguente cosa: qualche volta, affermare un possibile che appare impos-sibile non è senza conseguenze sulla realtà del possibile (non è facile dopo che diverse fi losofi e in Europa hanno lavorato nel senso di tenere aperto il possibile verso l’impossibile...). Se questo non accadrà nel breve-medio periodo, se l’Occidente non saprà su-perare la logica dei confi ni nazionali e degli stati sovrani, se non si darà al più presto luogo a una nuova sovranità e a un nuovo cosmopolitismo dei diritti e della cittadinanza, se questo non arriverà in tempi brevi, nel medio termine, saranno nuovamente i confi ni a far pesare la loro logica di potenza.

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Ethical Analysis of Decision Making for HIV Testing in Pregnant Women Using The Capa-bility Approachdi Adamu Addissie Nuramo

MD, MPH, MA (Bioethics); Assistant Professor of Public Health, School of Public Health, Faculty of Medicine, Addis Ababa University; P. O. Box 366 Code 1029, Addis Ababa, Ethi-opia; E mail: [email protected]

This article presents the results of an original research work produced within the Erasmus Mundus Master of Bioethics, organized by a Consortium of three European Universities: Katholieke Universiteit Leuven, Radboud Univer-sity Nijmegen, Università di Padova (Department of Philosophy). My special thanks goes to Professor Corrado Viafora, who has been mentoring the paper closely throughout the period of the research.

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Abstract:

The HIV/AIDS pandemic has raised a number of ethical dilemmas and considerations of peculiar nature. The issue around HIV testing policies of pregnant women has currently gained an increasing interest; whether it is ethical to let a pregnant woman make a deci-sion to forego HIV testing to the extent of refusing test and treatment at the potential expense of the life of the would-be-born child versus mandating HIV testing in all preg-nant women. HIV testing of pregnant women is an important entry point to benefi t from PMTCT. It is reported that a signifi cant number of women decline HIV testing and fail short of benefi t-ing from the program for various reasons. Because of this, there is an urgent need to look for ways of maximising the number of pregnant women being tested for HIV to the extent that all are tested in areas of high HIV prevalence such as Sub-Saharan Africa. To ensure this the available options include an ‘opt-out testing approach’ versus ‘mandatory testing’. Mandatory testing has gained much attention recently and there is an ongoing dialogue on the relevance of mandatory HIV testing in pregnant women. Is such an interceptive approach worth considering?The objective of this paper is to assess the ethical issues around HIV testing in pregnant women with more critical focus on mandatory HIV testing, using mainly the Capability Approach for further elaboration and deliberation. The Capability Approach, apart from utilitarian, liberal and communitarian perspectives, is used for elaboration and ethical deliberation. The capabilities and functionings of women are very important in the un-derstanding of the status of vulnerable groups like women of the developing world. Even though in utilitarian terms, mandatory HIV testing of all women coming for a prenatal care is assumed to be of maximum effects, this is yet practically unproved assumption which has rather problematic ethical issues that need due reconsideration. Informed-con-sent and counselling should not be skipped in such emotionally engaging and psychologi-cally affecting test. Providing HIV testing in a forced and coercive way can work rather negatively against the effectiveness of the PMTCT program; women will loose confi dence in the health care system, they shy away from services and there results big uncertainty about the subsequent cooperation of the women in the rest of the PMTCT interventions i.e. compliance to treatment, breast feeding options and medical follow-up. This will put the practical effectiveness of the approach in to question. There is rather a need to analyse the capabilities that women have in decision making in important and sensitive issues. The analysis is of more importance for women who have a vulnerable position socially, biologi-cally, intellectually and economically; which is the case in the Sub-Saharan Africa. Due emphasis needs to be given for the decision making capabilities of women and the factors playing determinant role in their decision making. With out addressing their capability coercion will have dire effects. Acknowledging this fact, any kind of maximisation of HIV testing intake needs careful thought and ethical analysis before implementation because of the nature of the test and the interplay of factors in determining the effectiveness of such an approach. In this regard an ‘opt-out’ strategy of testing gives a better position for pregnant women to act based on their capabilities.

1. Ethical issues in the Prevention of Mother to Child Transmission of HIV

With the increased and already heavy burden of disease and death due to HIV, many women and their children in developing countries have suf-fered from the devastating effects of compromised maternal and child sur-vival affecting many families, households and communities. Alongside the devastating effects the HIV pandemic has also brought about a number of ethical challenges and dilemmas. One of the areas with ongoing ethical debates is in the area of the Prevention of Mother to Child Transmission (PMTCT) of HIV. The debate mainly involves the issue of mandatory HIV testing and treatment. The main question being, is it ethical to let a mother decide to be tested or not by her self to extent of refusing test and treat-ment at the potential expense of the life of the would-be-born child? There have been arguments in both directions either supporting or objecting the

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mandatory approach. Globally, almost all of the 2.5 million children under 15 years who are in-fected with HIV have acquired the HIV infection from their mothers. Eve-ry day, more than 1400 children under the age of 15 continue to be infected with HIV in resource-constrained settings. With out care and treatment, more than half of these children will die before their second birthday[1, 2]. In high income countries Mother-to-Child Transmission (MTCT) has been virtually eliminated thanks to effective voluntary testing and counselling, access to antiretroviral therapy, safe delivery practices, and the widespread availability and safe use of breast-milk substitutes. These PMTCT interven-tions save the lives of hundreds of thousands of children each year [3]. In the developing parts of the globe the situation is different because of not only lack of accessibility of services but also due to inadequate service seek-ing and the quality of services. Even in settings where the full package of PMTCT services is available, not all pregnant women participate in HIV testing or receive the full benefi t. Knowing the HIV status of pregnant women is considered as a central and rate-limiting step in the whole spectrum of interventions in PMTCT. If the HIV status of women is not known, it will be impossible for them to benefi t from the PMTCT interventions. Pregnant women, being offered an HIV test during pre-natal care decline from the test for various reasons which include, fear of learning that they have a life-threatening condition (low self risk perception), distrust HIV tests, do not expect their results to remain confi dential, fear stigma and discrimination following a positive result, the negative experiences they had interacting with clinic staff, perception of poor health care support, being poorly informed about HIV transmission and how it can be prevented, lack of the relevant knowledge about PMTCT and husband’s disapproval [3-10]. The decision making about testing and subsequent treatment measures for prevention of mother to child transmission ideally has to be made by the fu-ture mother with the assumption that pregnant women make best choices for their future children. In reality this is not always the case. What if preg-nant women decide not to take part in HIV testing as well as treatment and as a consequence the child to be born is potentially exposed to the incur-able chronic HIV infection which could have been prevented otherwise. The recommendation for adopting Mandatory HIV testing for pregnant women is based on the notion and ideal that there is a duty to protect the future newborn from the potential infection in areas of high HIV preva-lence [11, 12]. In this condition arguments are presented against a policy that allows the mother to make a free choice, which is potentially harmful for the child. Accordingly, experts have argued that maternal anxieties must not be per-mitted to override the future offspring’s interest in living a healthy life em-phasising that once a voluntary decision in favour of having the baby has been made by the pregnant woman, she has responsibilities toward her future offspring during her pregnancy, including having an HIV test done. They have also presented proposal that HIV testing of pregnant women should be mandated especially in the (SSA) Sub-Saharan Africa [6, 12]. An important question to be asked is whether this should really be applied to the guidelines of HIV testing in the Sub-Saharan Africa?

Unlike conventional clinical ethical argument, such a discussion extends

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to the level of public health policy and country wide national guidelines. Conventional clinical ethical arguments in health care focus on protecting individuals in various settings, where as, public health programs extend beyond this and focus on the population level on the health issues of the whole population or large population sub groups. Some aspect of public health concern include decision on the type of intervention, seriousness of health related risks, characteristics of those most affected and the risks involved in implementing or not implementing a certain public health pro-gram [13]. The way how we look in to ethical issues in public health like this one could take different shapes. The commonly used approaches are based on rights (Liberal Approach), outcome (Utilitarian Approach), com-munity behaviour and virtue (Communitarian Approach) and capabilities (The Capability Approach) [14, 15]. The Liberal perspective is a radically individualist view which affi rms the classical natural rights of man, and that they should be enjoyed without interference from others. In the Utilitarian tradition the primary aim is to maximize utility by focusing on achieving the greatest possible collective benefi t for the greatest possible number. The Communitarian approach is founded on the perception of commonly shared values where the rights of individual citizens are dependent upon shared will of the community and not antecedent to it [13]. Amartya Sen and Martha Nussbaum have intro-duced the Capability Approach which refl ects a person’s ability to achieve a given functioning, emphasizing that capabilities refl ect a person’s real op-portunities or positive freedom of choice between possible life-styles [16]. Such ethical approach goes beyond the liberal approach based on ‘indi-vidual rights’ and also beyond the utilitarian approach which is based on ‘preferences of utilities’. The main centre of this model of analysis is the idea that the focus of wellbeing evaluations and policies should be what people can do (capabilities) than what they actually do (functionings). Ac-cording to Anand the approach ‘provides a conceptual apparatus that is missing from health maximization yet necessary to describe ethical issues that are important in many medical choice problems’; it is found to be more importantly explicit about wellbeing than utilitarian counterpart and gives detailed and direct account of relevant factors in the ethical analysis than the utilitarian approach [15]. Recommendations for the mandatory testing of pregnant women for HIV, has been mostly based on Consequen-tialist (Utilitarian) and Communitarian perspectives and the critics against mandatory testing are based on the unbalanced liberal argument where the rights to request for the test or not, as well as, the right to be tested or not are absolutely respected. The Capability Approach will help us in arriving at an argument which is beyond mere rights or mere utilities, rather focusing on the capabilities.

2. Critical Analysis on Mandatory Approach

2.1. The Essence of ‘Mandatory’ Approach

Mandatory approach is an approach where a justifi ed action is taken on a person by a government or another bestowed person, against once will and clear objection. This is opposite to voluntary action which always is preced-ed by the approval or assent of the object of the action. The Online Medical Dictionary defi nes mandatory testing as, ‘Testing or screening required by federal, state, or local law or other agencies for the diagnosis of specifi ed

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conditions. It is usually limited to specifi c populations such as categories of health care providers, members of the military, and prisoners or to specifi c situations such as premarital examinations or donor screening’ [17]. Few examples of implementation of mandatory policies and forms of ac-tion in the health care setup include mandatory psychiatric admission and treatment in the US, mandatory Treatment of Tuberculosis patients in Rus-sia, mandatory admission and treatment of drug and alcohol abusers in Canada and mandatory isolation and treatment of HIV infected in Cuba. The main justifi cations in all the four cases were that the mandate of the health system to protect health of the public is greater than the mandate to benefi t an incompetent patient [18-21].

In mandatory HIV testing, all clients or all members of some special groups, pregnant women in our case, are forced to under go HIV testing irrespec-tive of their consent with compulsory disclosure of their status [11]. There are various forms of mandatory HIV screening policies such as institution-al mandatory screening policies in military services, mandatory pre-marital screening and mandatory screening for blood, organ and sperm donors. However it would be inappropriate to refer them as absolutely compulsory because the individuals can often choose whether to enter situations or institutions in which screening is mandatory. Once they inter the situation or institution, it is situationaly or institutionally compulsory [22].

2.2. Mandatory HIV Testing in the light of Ethical values and theories

As presented in the earlier section, the arguments for mandatory HIV test-ing are based on the health related benefi ts of primarily the child and the mother. The main bioethical principles emphasized in this case are be-nefi cence and paternalism trying to justify the importance of overriding an individual’s autonomy, for the good of the other i.e. overriding the auton-omy of the mother for the sake of the good of the child-to-be-born. Even though the arguments appear to be logical and justifi ed at the fi rst glance, a critical approach is required to look in-depth in to the very nature of the ethical dilemmas and issues at stake.

2.2.1. Right Based (Liberal) Arguments (Liberal Individualism); Autonomy and Informed Consent

Most opponents have used these arguments to criticise the coercion and absence of informed consent in mandatory testing. Respecting personal human rights have been very important principle in bioethics. According to Beauchamp and Childress, ‘Statements of rights provide vital protec-tions of life, liberty, expression, and property. They protect against op-pression, unequal treatment, intolerance, arbitrary invasion of privacy, and the like.’ All theories of autonomy agree that two conditions are of utmost importance; independence from controlling infl uences (liberty) and capac-ity for intentional action (agency). [22]Respect for autonomy is a sacred position in the western tradition; an im-portant prima facie principle. According to Viafora, respecting autonomy of a person can be formulated as an “act in such a way as to respect the pa-tient in his right to responsibly decide whether to accept or to refuse a sug-gested treatment”. [23] In this notion we can see that beyond mere rights there is also concern over responsibility. The person making the decision

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is deciding to be responsible for the outcomes of the decision. Therefore individual’s right to make decision on their own life should be respected. The complexity of the issue in the case of pregnant woman’s decision for HIV testing is that the consequences of the decision is not restricted to her-self, but extends to her baby. Is a mother responsible for her baby? Who is bestowed the responsibility and trust of raising the child and protecting the life of the new born; making sure that the child is fed well, nurtured and protected from physical harm. In most traditions and most impor-tantly in Sub Saharan Africa, the answer will be that this is conventionally the responsibility of the parents and more specifi cally the mother. The legal doctrine of informed consent essentially elaborates that, with certain exceptions, nothing can be done to one’s body without explicit agreement, careful review of the risks, benefi ts, and alternatives, including the alternatives of doing nothing. Informed consent must be voluntary, knowing and competent. Accordingly individuals have the right to make lawful decisions about all aspects of their life without undue intrusion from the state or others. [18]. Voluntary indicates a mental state of willingness and readiness. How important is this in the context of a pregnant woman is well elaborated under the discussion of capabilities. Knowing or informed implies the fact that adequate and understandable information is provided for the client about the benefi ts, risks and possible outcomes and limita-tions of a particular procedure. Different factors play a role here: the back ground and literacy level of the patient, the communication with the health care professional at the work station. Competence is also a very much relat-ed concept with the former. According to Grisso and Appelbaum it implies four tests, evidencing a choice, understanding, reasoning, and appreciation [18]. It is very important that one has to make sure personal autonomy is maintained during the decision for HIV testing. We have to make sure that the decision is made responsibly. As parents, mothers do have the duty to be responsible for the future and well being of their children. During the informed consent of the decision making we have to make sure that they are aware of this very important issue. They have a special biological role and duty as well as responsibility of making decision. The most important aspect in respecting the mother decision for HIV testing and treatment has to be whether the decision is made responsibly. According to Emmanuel Levinas one has responsibility not only for him self but for the other and the others [24].

2.2.2. Utilitarian/Consequential Approach

Consequentialism refers to theories explaining the facts and arguments on the basis that ‘actions are right or wrong according to the balance of their good or bad consequences. The right act in any circumstance is the one that produces the best overall result, as determined from an impersonal perspective that gives equal weight to the interests of each affected party’. The most prominent part of Consequentialism, utilitarianism, ‘asserts that we ought always to produce the maximal balance of positive value over disvalue’. [22] It is a theory which is based on utility. The approach is de-fi ned as ‘the greatest good for the greatest number’. In the analysis of the Ethics of Mandatory Community Treatment of Mental Illnesses, Munetz, Galon and Frese mentioned that ‘Using a utilitarian framework of bal-ancing goods would appear to favour the benefi cent/paternalistic course. Because of the seriousness of the possible harms, the utilitarian is likely to

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believe that avoidance of those harms is preferable to preserving autonomy. When the risk of harm is slight, then it is likely the utilitarian would opt to preserve autonomy, because in most situations, self-determination pro-motes the greatest good. It is important to remember, in this instance, that the utilitarian is likely to favour the most intrusive benefi cent option only if the results of the use of (an approach) indeed signifi cantly reduce the risk of harm.’ Accordingly we have to look in to the potential benefi ts and harms of mandatory testing against that of voluntary testing for HIV and decide which is of maximum benefi t. [18]The outcome to be achieved in mandated testing is the increased number of women tested and resultant prevention of vertical transmission of the virus to the children to be born. One question that should be asked is whether the mandatory testing will really result in the intended outcome and not the reverse. As will be discussed further, different factors play a role in deter-mining the desired outcome is achieved. The HIV testing intake is an important precondition, but is not suffi cient by it self. The full cooperation of a well-informed and responsibly acting mother is so vital for the attainment of the results. If the maximum out come has to be achieved an approach has to involve the mother. The right formula for an effective PMTCT program would be as follows: HIV testing + Cooperative mother = Effective PMTCT. .

Cooperative Mother Effective PMTCTHIV Testing

Getting the full confi dence and cooperation of pregnant mothers in the whole package of PMTCT program is as equally important as increasing the intake of HIV testing. Mandatory approach tries to increase the fi rst of the two important components at the same time compromising the other important variable i.e. the cooperation of the pregnant woman who is the active player responsible for the maximum outcomes of all the subsequent components of PMTCT beyond testing. Mandating, coercive testing will have the negative effects of the woman shying away from ANC, psychologi-cal problems, erosion of trust, refusal of treatment and lack of cooperation in the advices about treatment and infant feeding options. There could be lost from follow-up too. This means that the supposedly maximum utility may have a reversal effect and the utilitarian analysis may not favour man-datory testing. In consequential terms it is rather important to think about an approach which will increase both the possibility of intake in to the HIV testing and at the same time engage the woman willingly and actively so that the maximum benefi ts would be acquired. In voluntary counselling and testing there is a clear benefi t in involving those mothers who are willing and would be fully cooperative. But it lacks the active intervention of offer-ing testing for all women in ANC and making sure that they understand the offer. A routine offer for mandatory testing coupled with counselling and opt-out model will fulfi l the maximum benefi t to be achieved: Routine offer for HIV testing + Counselling + opt-out approach = Effective PMTCTRoutine offer makes sure that all pregnant women are offered the testing option and the subsequent treatment for prevention of vertical transmis-sion of HIV. An effective counselling makes sure that all the women offered the test do understand the test and the benefi ts and the coping mecha-

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nisms for the adverse psycho social problems that may arise from being HIV positive. This may raise the question of resources and time. But if we have to be effective we need to invest on counselling services no less than other resources like treatment availability in HIV care. The other benefi t of counselling is like a two sided sword, it will address the behavioural issues in the overall HIV prevention and control. Finally the opting out strategy makes sure that the women make decision by not objecting to the offer realising that they could have declined. Since they will have adequate coun-selling and information they will make the decision more responsibly with the maximum outcomes possibly achieved.

2.2.3. Communitarianism

Communitarian ideals are rooted in the philosophical notion that ethical decision making should be based on promoting communal good, tradi-tional practices and cooperation. Communitarians oppose the fundamental positions of liberalism, especially neutrality, as well as the current societal network structures that support those ideas [18]. According to Beauchamp and Childress, ‘communitarian theories view everything fundamental in ethics as deriving from communal values, the common good, social goals, traditional practices, and the cooperative virtues. Conventions, traditions, and social solidarity play a far more prominent role in communitarian theo-ries (than other theories)’ [22]In analysing an ethical problem, the fi rst enquiry that communitarians would have is ‘which communal values and relationships are present or absent, focusing on the family as a small community intermediate between the individual and the state.’ Communitarians support actions that express communal values as well as actions having positive impact on the commu-nity. [22] It is used in argument for mandatory testing which gives more weight and importance for the wellbeing of the community, the public and the majority than respecting individual or minority rights at the expense of the community. In further analysis, it is important to underline that the good of the community lies on individuals. Considering the family struc-ture of a typical rural African household, we see how important the role of women is as mothers, wives and care takers. Imposing a law which does not consider the opinion of the most important person in the house hold structure of the community will have a negative dynamics.

The common good in the communitarian principle, should also address the stigma and discrimination; misconceptions and economical problems that make women more vulnerable. The common good should work on empowering women in decision making and carrying on the responsibil-ity for the good of the family and the community. Most traditional beliefs and practices in Sub Saharan Africa do emphasize on commonness. ‘Mak-ing oneself a person through the other person’- is the basis of the Obuntu philosophy in the southern African Bantu tradition [25]. According to the Obuntu philosophy, solidarity and togetherness are key agenda. The com-munity is for individuals and individuals are for the community. The com-munity has a role to play in creating a favourable medium for the women. The cooperation in the community needs to be for the common good and should provide a safe environment for the women. The well-being of the child can not be seen as a separate entity from the wellbeing of the mother which in turn is embedded in the larger context

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of the family and community structure. This psychological, social and eco-nomic wellbeing plays important role in the decision making dynamics of the women. The community who is responsible for making sure that the next generation is a healthy one as a common societal good has the same responsibility of making sure that there is a favourable condition in the community that empowers pregnant women to make the right choice with out any fear and uncertainty.

3. Capability Approach

Another very important way of looking ethical issues in public health is The Capability Approach. Recent publications have suggested integrating Capability Approach as a key concept in the analysis of issues in public health care. The approach gives broader perspective for understanding and explanation of life events. The Capability Approach was developed out of dissatisfaction with available utilitarian tools for evaluation of development which fail to address separateness and diversity. It goes beyond both the liberal approach which is based on mere ‘individual rights’ and the utilitar-ian approach which is based on ‘preferences of utilities’ [15, 26, 27]. The Capability Approach refl ects on a person’s ability to achieve a given functioning and capabilities which indicate a person’s real opportunities (positive freedom) of choice between possible life-styles [16]. The main centre of this model of analysis is the idea that the focus of wellbeing evalu-ations and policies should be what people can do – capabilities, than what they actually do - functionings. Capability “refers to a person’s or group’s freedom to promote or achieve valuable functionings. It is a set of vectors of functionings, refl ecting the person’s freedom to lead one type of life or another” [26]. Amartya Sen uses the term ‘capability’ to explain what he means by posi-tive freedom. According to him, capability lies between a raw capacity and an excellently executed activity. Most human beings are born with the raw capacity to participate in deciding about the conditions of our collective life together, just as most human beings are born with the raw capacity to see colours. But developing the capacity to distinguish turquoise from sky blue or even dogs from cats is something that has to be developed by experience and (informal or formal) education. Likewise, developing the capability to reason together with others about social problems so as to reach a decision is not something we are born with. We have to learn by seeing how it is done when others do it and partly by practicing our selves. But having a capability is not a guarantee of use. A person who can lift weights because he has practised doing so, still has this capability when he is asleep or read-ing a book and not lifting weights. What makes it a capability and not a raw capacity is that he could move to activate it relatively quickly. Capability is linked to activity but not identical to it [28]. Functioning is preceded by capability and capability is preceded by capacity.

The approach is also characterised by the high respect for freedom, fl ex-ibility in situation and understanding of pluralistic differences in a society (pluralism). Freedom is a key concern for in the basic tenets of the capability approach. It refers to the actual capabilities that one is afforded, not just individual control and choice. Freedom in the capability approach indicates more

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than simply autonomous, individual choice. According to Law and Wid-dows, “‘freedom from hunger’ or ‘being free from malaria’ need not be taken to be just rhetoric. There is a very real sense in which the freedom to live the way one would like is enhanced by public policy that transforms epidemiological and social environments” [26] In the case of HIV testing the approach calls for looking beyond the mere act of accepting or refusing HIV testing, not to draw judgements and rec-ommendations based on that action only. Why do particular women decide to forego an HIV test? There is a difference between a woman who delib-erately and freely has chosen to forgo a test and a woman who is forced to make that decision based on the life circumstances she is in. There is a great difference, according to Nussbaum, between ‘fasting’ and ‘starving’ [29]. The fi rst one is a free choice provided with the options and oppor-tunities where as the second one is a directly or indirectly forced course of action. The important thing here is whether one is making a choice from a rational mind or because of lack of the required internal factors and exter-nal choices. A mother may decide to forego her meal because there is not enough food at home and she has to feed her small children fi rst. She did not have the freedom of choosing what could be best for her self and the kids. What about a rich healthy woman who goes hungry not because she did not have enough food at home, rather because she wanted to fast or do a diet for her shape. The fi rst woman did not choose what she wanted. The judgement is made not based on the mere action of being hungry but based on the levels of freedom the two women had. Neither are nutrition-ally “doing well” in nutritional terms but the person who chose to fast has substantial freedom. Accordingly Sen derives persuasive conclusions that instrumental freedoms are interrelated and enhance each other and collec-tive choices can make a signifi cant positive difference in people’s lives. In this regard, coercive population control methods are less effective, limiting population than educating and empowering women [28]. In HIV testing this freedom is ensured by giving or making sure that re-alistic options are given for a mother and make sure that she has them available. Let her know about the service and increase her decision making power. Making the judgement just based on the mere action of accepting and refusing an HIV test, we tend to focus on the mere action and over look the actual situation and decision making capability of the woman. We need to focus on the degree of freedom assured for the mother to arrive at the decision, if the capability of the woman has to be assured. Another key aspect in the capability approach is fl exibility and pluralism. In application the approach is “rather culture dependent, especially in the weighing of different capabilities”. [26] Thus the valuable functionings which make up capability are open to negotiation and change from one context and individual to another. If it were not so “we might be as worried about the rich person fasting as about the starving poor” [26] There fore the construction of capability in a particular context is determined by the chosen set of functionings. Coming to the issue of HIV testing, earlier discussions have demonstrated that the factors playing a role in the determining the decision of women are more in number and could also vary from place to place; from one social group to another and from setting to setting. One factor which holds true in one setting can not be always generalised and applied in another set-ting. The policy of HIV testing should then be fl exible depending on the context taking in to due consideration the actual set up and environmental

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factors the woman is in. Mandatory HIV testing has no room for such fl ex-ibility. All pregnant women coming for prenatal care are expected to react in the same manner and follow the same route irrespective of the actual differences in the situations they are in. Health as a capability is constructed from various possible functionings. These set of ‘health goods’ change between contexts and individuals, al-lowing certain constituents to be global, others local and even individual. In this light being free from HIV is one aspect of capability, where as being tested for HIV is one of the important sets of functionings. Even though, pregnancy is a universal biologic phenomenon, societal values and believes about a woman and about HIV infection in general are very variable de-pending on the socio cultural and geographic contexts. In some cultures HIV infection is considered as a curse and those with the infection are highly stigmatised. Other communities could be more supporting and un-derstanding. More specifi cally house-hold and individual factors too vary from person to person even in the same socio-cultural context; these in-clude husband’s attitudes, and woman’s level of economic dependence on the husband. Accordingly there should be freedom and fl exibility in attaining the re-quired capability which varies from place to place and from time to time. There are a number of other factors which play equally important role in determining the pregnant women’s capability to make the right decision. Factors like knowledge, the attitude towards HIV/AIDS, the decision making status of women in the family and in the community etc are no less important. These root factors should be addressed so as to make women capable of making the right decision and keep her self well and protect her child from infection. Comprehensiveness is another important principle in The Capability Ap-proach which focuses on the need for a more comprehensive intervention. In comprehensive PMTCT program, different integrated approaches work together with synergy for the maximum control of HIV infection at large. We need to be careful not to disturb the coherence of the different com-ponents of the comprehensive model. The best model focused on effective treatment should not compromise the behaviour change and preventive program; and the other way round. The comprehensive intervention addresses the problem from various an-gles and provides real opportunities and capabilities for women to be free from HIV so as to realise the prevention of mother to child transmission. HIV testing and provision of drugs for the mother is just one aspect of PMTCT. For a long term effectiveness of a program we need to maximise the capabilities of women beyond HIV testing. This extends from the pre-vention of HIV infection among women to provision of care and support of those affected. The PMTCT strategy defi ned by the WHO in the 1990s consist of four components: 1) prevention of HIV infection among young people and pregnant women, 2) prevention of unintended pregnancies among HIV positive women, 3) prevention of HIV transmission from HIV positive women to their infants and 4) provision of treatment, care and sup-port to HIV infected women and their families. But the PMTCT programs so far has focused mainly on the third component of the strategy. There is a weak emphasis in on implementing the fi rst, second and the last compo-nents. There is a need for a practically comprehensive approach meeting the needs of women. Short of such a comprehensive approach, women will continue to be impacted disproportionately by the pandemic and the

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PMTCT interventions will not be as effective as required [30]. The Oxford English Dictionary defi nes capability as ‘the power or ability to do something’[31]. Different people have various levels of capabilities i.e. different levels of potential for a particular activity in life and they should be expected to perform based on their real capability or else there is a need to enhance their capability for a better achievement and performance. Ca-pability precedes ability and action. Before one actually becomes able to do something, he has to develop the potential he need for that ability. For a pregnant woman to be able to make the right decisions in HIV testing, her capabilities should be well developed. Before expecting ability we need to ask do they have the capability for it. As has been discussed earlier, the reasons why women decline from HIV testing are mainly due to absence of a particular capability that would enable them to make the expected deci-sion. Expectations then should be based on the provided capability, not on mere assumptions and presumptions. These potential abilities are dependant on both internal and external fac-tors. Internal factors include knowledge, belief and psychological and men-tal state. Even if one has the inherent qualities to perform something good and important, these internal goods need enablement from external, i.e. favourable and encouraging environment and people. Capability = Internal capability + External capability

Knowledge and the right to information about HIV is important for the pregnant women to willingly participate in HIV testing program. She also needs to develop confi dence and trust in the health care system and health care providers. She should be convinced that she will benefi t from the in-tervention. The woman needs some degree of psychological and emotional readiness to arrive at decision related to HIV testing. In most instances women who refuse HIV testing lack such internal capabilities like knowl-edge, conviction and motivation. Availing HIV testing and treatment op-tion is a very important component in ensuring their capability from the ex-ternal point but is not enough with out addressing the internal capability. Even if this looks a simplifi ed illustration of a complex issue; the factors that affect the decision making status of pregnant women for HIV fall in to either of the two categories; internal or external. And what is interesting is that (a) the fulfi lment of both internal and external conditions is important for the achievement of the desired goal; the fulfi lment of only one is not enough and (b) internal capability has a complex nature beyond material fulfi lments and is not easy to achieve; it is impossible to assume achieve-ment of one by having fulfi lled the other, as there is not direct relationship between the two. Internal factors include factors which are inherent to the woman like psy-chological readiness, low self risk perception, lack of knowledge, percep-tion of poor health care support, educational level, self stigma, and feeling of security while external factors are those factors in the outer environment which include availability and effectiveness of drug, presence of services like counselling, accessibility of services, economic access, stigma and dis-crimination, presence of a competent health care giver and husband sup-port. Even if they play important role in the woman’s capability to decide, most internal factors and many of the external factors are usually by-passed. One of the issues which are not addressed by the mandatory approach is acces-sibility of services. In Sub-Saharan Africa most women live in an area which

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is far from immediate access to services and ANC (Ante Natal Care) follow up rates are still low. There is problem of transportation and economic barriers which limit the poor dependent women of the developing world from accessing the health institutions and the basic health care services. There is a lot of work to be done to make sure that every pregnant woman is attending prenatal care. If that were the case that all these conditions are fulfi lled, the picture might be different. But in the currently existing situ-ation, mandated HIV testing in a setting where there is low rate of ANC follow-up would further compromise the ANC service and jeopardise the PMTCT program. One may argue that the stigma and discrimination is beyond the control of the health system and addressing such deep rooted issues is time tak-ing compared to the urgency of addressing PMTCT programs. But we know that mandatory testing would complicate the situation and there is no guarantee for the women for being discriminated by their neighbours and violated by their spouses, as a result of which, they will disappear from treatment plans and follow-up interventions. Even though, most women have been infected by their husband, the mandatory testing will identify the women as the fi rst HIV positive in the family leaving the men, who are the potential sources of the transmission untested. The women who have very limited scientifi c knowledge about the infection will be the vic-tims of blame, abuse, violence and discrimination. Making a move only on a singled out intervention would rather incapacitate individual women and develop a negative feedback which will negatively affect not only the PMTCT program per se but also the effectiveness of prenatal care. Any ap-proach which is intending on the good of a society and a community or the public should in broader terms focus on the comprehensive and communal capabilities to be effective. If a PMTCT program has to be effective, in a sustained and comprehensive manner, it should address all the important factors for internal and external capabilities.

4. Factors Which Determine the Decision Making Capabilities of Wom-en in HIV Testing

In order to understand how the capability focused approach is important in the effectiveness of a PMTCT intervention, it is worth investigating the various factors that play a determinant role in the decision making of preg-nant women for HIV testing. Psychological readiness. HIV testing is different from other routine hema-tologic tests like hemoglobin and VDRL, which are performed during pre-natal care. This is due to the psychological issues related with the nature of the disease and the attached attitudes and understanding in the com-munity. Different studies have shown that HIV is associated with a range of psychological problems like anxiety and depression [32]. Positive re-sults are highly associated with stigma, discrimination, different degrees of desperation and suicidal tendencies. The psychological effects are more pronounced in setups where there is lack of understanding and existence of misconceptions about the disease. Women are no less victims of this. The particular psychological effects are rather pronounced on women being superimposed on the widely held undermining believes and disadvantaged gender roles assigned to them in the society. In most Sub-Saharan Afri-can countries, women are victims of the social brunt of gender based dis-

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crimination. During pregnancy, in addition, women are affected by series of psychological and emotional liability due to hormonal and physiologi-cal changes in pregnancy. In that condition, the decision making for HIV testing in pregnant women needs to be free of coercion, giving them the chance for self refl ection and be able to make decisions in a free way. Gender roles in the family. In a Sub-Saharan African family, women do not autonomously exercise decision making on reproductive issues like contraception and prenatal care. Until very recently in some countries women were asked to verify that the husband is in to their decision for contraception and family planning. This is due to two reasons; the social power of husbands bestowed by the culture and the economic depend-ence of women on their husbands. This economic power of husbands over their wives makes them decision maker even on the personal issues of their partners. In some communities women should get permission from hus-bands to visit a health center or hospital. This is beyond verbal permission as the money for their transportation and medical expenses comes from their husbands. If the husbands are not willing to pay for them they have no much alternative. In most families the husband has the fi nal word on deciding the number of children and if the woman has to use any modern family planning method. There is a proxy decision making by the husband. On issues which are not easy for discussion or in taboos like sex and HIV, the women do not want to initiate discussion and prefer to avoid them instead. Even though important family decisions are supposed to be made by both parties with mutual understanding, there should be a room for the independence of women to make a decision which they feel is important irrespective of their partner’s opinion. It could be depicted then that the power relationship in the family as well as the opinion of husband could operate in the background of the woman’s decision. Lack of adequate knowledge and information. In any part of one’s life, de-cisions are made based on relevant information. Information exchange targeting on behavioral change has been one of the main stays of HIV prevention and control. Having the right and adequate information about HIV prevention, treatment and control, enables women make appropriate decisions at personal, family and community levels. Women have little ac-cess to important sources of health information such as the mass media and they usually get information from their peers.In order to be able to decide to undergo an HIV test, a woman should un-derstand the apparent meaning of the test, its implications and importance in the prevention of the vertical (mother to child) transmission of HIV in-fection. The information should be based on facts and her misconceptions and wrong beliefs about HIV should be cleared. It will be wrong to assume that all women know about the implications and importance of HIV tests during pregnancy as women coming for prenatal care have lots of varia-tions in this aspect. Some kind of uniform and basic information should be provided for all pregnant women before HIV testing. There is a great chance that women will be tested with no idea about the test its importance and implications. The information is important also for the further actions that would be required i.e. treatment and follow-up, partner referral and prevention of further infection. Unlike voluntary testing, mandatory test-ing does not guarantee that information is provided as a precondition for testing and making decision to be tested or not. Equally important as the content of the information is the way how it is delivered. Information com-munication skill is very important. These call up on availing information

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and counselling session, giving a chance for women to make their own re-fl ective judgement and decision. Mandatory testing does not adequately address these issue or not at all. Enabling environment. The environment of testing should be enabling for the pregnant women to make the best decision ever. The testing environ-ment includes the various factors in the health care institution and in the community which are external to personal and family controls. According to the WHO/UNAIDS guideline on PICT (Provider Initiated Counseling and Testing), HIV testing should be accompanied by the provision of min-imum package of HIV- related prevention, treatment, care and support services. This is a list of interventions ranging from provision of male and female condoms to antiretroviral treatment [33]. Gruskin et al in their anal-ysis to the WHO guideline have suggested that ‘attention should also be given to the larger social, policy and legal context,’ including laws and poli-cies out side the health sector. The responsibility and accountability being that of the local and national policy makers to make sure that the services are provided for pregnant women in an enabling environment [34].The Capability Approach encourages awareness of certain functions that are central to living a distinctively human life, and asks whether individuals are actually capable of functioning as persons. The approach invites to look the broader picture of how people are in fact living instead of considering the mere task to be accomplished. Beyond a policy frame work there is a need for enabling environment. Mere policies, how rhetoric they might be, could lack practicality and fail the target. If this is not well addressed there will be no safety and guarantee. ‘Habit, fear, low expectations and unjust back ground conditions deform people’s choices and even their wishes for their own lives’ [29]. According to The Capability Approach, the ability of women in developing countries to make an independent, free and responsible choice is signifi -cantly compromised [27]. Women often come to health facilities already disadvantaged and disempowered by variety of factors, including patriar-chy, poverty and violence. It is argued that by limiting the women’s freedom to choose whether to be tested would bring on another curtain of disadvan-tage and affect their right to privacy, equality and dignity [35]. As has been suggested by Armstrong (2008), we need to look beyond the woman, her apparent autonomy and immediate health care settings, to understand the contextual factors that force women to a decision of forgoing HIV testing and those facts should be addressed from the base. “Part of the content of the equation for southern Africa must be realization that many infl uences are affecting women’s ability to choose in the context of prevention of HIV transmission during pregnancy, and that these infl uences are related to per-sistent conditions of poverty, inequality and disadvantage, something that the fulfi llment of rights will address, not the opposite” [36].

5. “Nothing about us Without Us”: Informed Consent as an Important Ethical Balance

To see if routine mandatory testing is plausible one important question that should be asked is whether there is an absolute need for informed consent for HIV testing in general and for pregnant women in particular. HIV test-ing is different from other routine medical tests due to the fact that the disease has a different nature which should be understood by the client if one has to make the best out of the testing. Even in urban set ups where

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the literacy and awareness levels are better there are lots of misconcep-tions about the infection. Appropriate information is very important for the prevention, treatment and control of the infection at personal, family and community level. Pretest counseling provides an adequate information about the meaning and implications of the test; means of transmission and prevention and available treatment and care options. Unlike other most medical conditions the description of the results of the test also could be easily misunderstood. Many people have different mis-conceptions about the means of transmission and ways of prevention of the infection. The session of HIV testing should be a session of teaching the right thing about the nature of the disease, its transmission and prevention. In addition, women who test negative need advise to protect themselves from potential infection during pregnancy or anytime latter. The message about HIV since the last 25 years has been telling us that HIV infection is a death sentence! The image about the infection in the com-munity is the image of death, the image of a vampire, a skeleton or an angel of death. Thanks to medical discoveries HIV is currently treatable chronic condition provided the drugs are accessible. There is a need to counsel in-dividuals about their understanding about AIDS. This plays an important role in the effectiveness of the treatment strategy. The above issues make information provision, a mandatory process during HIV testing on an individual level. HIV testing should never be offered with out counseling and information. Most studies have shown that not all women coming for ANC in sub-Saharan Africa have the basic important knowledge about HIV infection. They should be given adequate informa-tion to be followed by an informed decision. As discussed elsewhere in the paper, the most effective intervention should focus on the reasons why women are declining from testing and treatment. No one can be more concerned and responsible about the child than the mother. With this assumption, a mother who is concerned for the best of her child would not normally make a decision that is obviously known to harm the baby. The mother has biological, social and natural responsibili-ties to take care of the wellbeing of her child. Provided the proper infor-mation and support, they can make the best possible timely decision for themselves and their future children. Her worries and concerns should be heard and she should be helped to overcome those. It will be wrong to assume the mother as a categorical threat for her own child. The interception of a state or a health care giver as a ‘guardian angel’ for the child should not be more than a facilitation role to make the woman capable of making the desired decision; The decision about them is made by themselves. Effective PMTCT program requires the full and motivated cooperation of the mother in all stages of the intervention. The woman is required to take antiviral drugs with some mild side effect in the last trimester of her preg-nancy. This requires motivation and correct information. During labour and delivery there is a need for certain precautions to avoid ARM (Artifi -cial Rapture of Membranes) and instrumental manipulation. The woman is responsible for making her attending midwife aware of the condition. After delivery there is the issue of breastfeeding. Breast feeding has to be avoided or should be restricted to exclusive feeding and this again needs continuous commitment and motivation from the mother. As the widely used tests can not tell if the child has been protected or not until 18 months of age, there is a need for follow-up and check up. The ultimate effective-

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ness of every intervention rests on the motivation and commitment of the mother. Mothers have an active role in the whole process and should play also active role in the decision making for the testing. Decision should not be enforced or predetermined with no room for their active involvement; ‘Nothing about us without us’.

6. Conclusion and Recommendation

With the current trends and rates of mother to child transmission of the virus, there is no question that if we have to have a signifi cant reduction in vertical transmission of the HIV virus, there is a need to maximise the HIV testing intake of pregnant mothers to the extent that all are tested. HIV test-ing of pregnant women is an important entry point. Acknowledging this fact the paper has pointed out that any kind of maximisation of HIV intake needs careful thought and ethical analysis before implementation because of the nature of the test and the interplay of factors in determining the effectiveness of such an approach.

Even though in utilitarian terms, mandatory HIV testing of all women in the pre natal care is assumed to be of maximum effects, this is yet prac-tically unproved assumption which has rather problematic ethical issues that need due reconsideration. It is diffi cult to buy the idea that informed consent and counselling be skipped in such emotionally engaging and psy-chologically affecting test. Providing HIV testing in a forced and coercive way can work rather negatively against the effectiveness of the PMTCT program. The importance is pronounced more for women who have a vulnerable position socially, biologically, intellectually and economically, which is the case in the sub-Saharan Africa. Emphasis should be given for the decision making capability of women and the factors playing a role in determining women’s role in the decision making. An ‘opt-out’ strategy of testing gives a better position for pregnant women to act based on their capabilities. Further understanding of the decision-making capabilities of women and the factors affecting them gives a more realistic understanding. These potential abilities are dependant on various internal and external factors. The factors include psychological readiness, emotional stability and knowledge; the social-status of women, in SSA, as also another important determinant. Based on analysis of capa-bilities, mandatory approach is not plausible for SSA. Probably there is no a magic bullet for addressing the issue but it is not time to mandate HIV testing in the pregnant women in Sub Saharan Africa. It can only be con-sidered as a last resort when we do not have alternative ways of achieving the desired goal which we have not explored yet. Based on the conclusions one can arrive at the following recommenda-tions;

• Careful analysis of the decision making dynamics before implementa-tion of any proposed ethically controversial strategy

• The capabilities and functioning’s of women are very important in the understanding of the status of vulnerable group like women of the developing world.

• The already existing ‘opt out’ approach in PMTCT programs should be better framed out by incorporating adequate counselling and in-formation provision, to make sure that pregnant women are acting responsibly on the best interest of their future child.

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