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Giancarlo Mauri INDIA_2006 Diario di viaggio MONOGRAFIE DI GCM
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India_2006, di Giancarlo Mauri

Mar 06, 2023

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Giancarlo Mauri

INDIA_2006

Diario di viaggio

MONOGRAFIE DI GCM

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© 2006, 2013 MONOGRAFIE DI GCM

Tutte le fotografie sono dell’autore.

In copertina: Shakti Yantra.

ALTRE PUBBLICAZIONI DELL’AUTORE

1976 : Escursioni nelle Grigne Tamari Editori in Bologna 1980 : Escursioni nelle Grigne. II ediz. Ampliata Tamari Editori in Bologna 1983 : Il Sistema Operativo Unix Dataconsyst, Segrate 1985 : Il Sistema Operativo Unix e la Sicurezza Bancaria - Dataconsyst, Segrate 1988 : Le Grigne. I sentieri e l’Alta Via Tamari Editori, Padova

MONOGRAFIE DI GCM

2003 : La vita è un pellegrinaggio 2004 : I cammini di Santiago 2004 : Scritti di montagna 2004 : Val Codera 2004 : Yoginī (riedizioni : 2007, 2008, 2013) 2005 : Kinner Kailasa parikrama 2005 : Arrampicare ai Corni 2006 : India_2006 (riedizione : 2013) 2007 : India viva (tre ristampe) 2007 : La guerra Italo-Austriaca 1915-1918 2008 : Monte Priaforà e Monte Novegno 2012 : La Valsássina di Leonardo 2012 : S’io fossi stato fermo alla spelunca. Niccolò Stenone 2013 : Jicà 2013 : Scritti sull’India 2013 : India_2000

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MONOGRAFIE DI GCM 6

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l’ ESÈRGO

Non vengo qui per pregare nei templi.

Vengo qui per le montagne. Invece di adorare dèi e dèe,

dovremmo adorare la natura.

CANDRAVADHAM filosofo jina

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India Nord-occidentale

I nomi delle regioni interne sono quelli in uso tra il 700 e il 1200 e.c.

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Diario di viaggio

5 GENNAIO, New Delhi.1 Prima osservazioni: percorrendo la strada che collega l’aeroporto internazionale al Connaught Circus2 non ho visto una sola vacca, così come sono pure scomparsi i mendicanti che un tempo assalivano le automobili dei turisti ferme ai semafori, facendo affidamento sul senso di colpa - ma soprattutto sulla ripugnanza - che colpiva i neo-arrivati, vergini dell’India e quindi più generosi di offerte pur di toglierseli di torno. Seconda osservazione: ora a Delhi vi è la metropolitana. Tre linee che hanno il loro centro nell’ex Connaught Square, ora Rajiv Gandhi Chowk. Scimmiottando gli antichi padroni, poco lontano dal Chowk hanno aperto un locale “londinese” denominato Piccadelhi: quattro sale cinematografiche e un costosissimo ristorante. Immancabile il McDonald’s. Terza osservazione. Rispetto all’anno 2000, mio ultimo sbarco in questa città, i prezzi sono decisamente impazziti, come pure sono cresciuti di numero i ristoranti di lusso, quelli col poliziotto armato di fucile fuori dalla porta, l’arredamento da mensa aziendale all’interno. 6 GENNAIO, New Delhi. Anche se nel tragitto tra l’aeroporto internazionale e gli alberghi di New Delhi la municipalità riesce a propinare al viaggiatore distratto un maquillage da “India, terza potenza economica mondiale”, sia il vecchio mondo precario a cui ero abituato sia le vacche subito ricompaiono in grande stile appena mi metto a camminare tra la folla nei pressi della NDRS. Tutt’intorno vi è il solito bailamme tipico di ogni stazione ferroviaria. Numerosi tricicli, ma anche semplici biciclette, sono attrezzati per la telefonia. Più mobile di così! Venditori di cinture e di borsoni da viaggio si alternano ai barbieri e ai fuochi delle cucine volanti che sfornano frittelle a base di patate e peperoncino. Alle pompe dell’acqua giovani uomini si lavano il corpo, estremo esempio di dignità umana.

1 NOTA: in viaggio, ogni sera mi sedevo davanti a un computer per trasmettere a casa gli

spostamenti, le visite e le emozioni di ogni giornata. Rientrato in Italia ho ripreso queste mail, ho corretto alcuni svarioni, ho aggiunto alcune slides da me scattate, ho inserito le note a piè di pagina, ho scritto una BREVE STORIA DEL KACHCHH (v. pag. 86) e ne ho tratto un libro-strenna natalizio da regalare ad amici e conoscenti, senza altre pretese.

2 Il duca di Connaught (1850-1942), figlio della regina Vittoria, si recò in India nel marzo 1921 per inaugurare la nuova Costituzione (Government of India Act) decretata nel 1919. Per tale motivo col suo nome è stata chiamata la principale piazza della nuova città di Delhi.

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Alcune donne sdraiate sui loro charpai1 occupano il marciapiede: per reclamizzare la loro professione non potevano trovare posto più esplicito! Una si rivolge a me con frasi incomprensibili, le altre ridono in modo sguaiato. Vede che ho una macchina fotografica e mi chiede di ritrarre lei e le sue amiche. Dagli abiti compaiono altre foto scattate in uno studio. Me le mostra, come esempio di quello che si aspetta dal mio lavoro. Una ritrae la sua vicina di letto; confronto il falso con la realtà: il ritocco fotografico ha funzionato meglio della chirurgia estetica! Riparatori di biciclette (ma anche semplici pompatori di gomme), lattonieri, fabbricanti di scale di bambù, mense popolari, maniscalchi, venditori di polli, tacchini, capre e vitelli saturano i marciapiedi dell’affollatissima Qutab Road. Sopra un muretto vi è una bassa scodella piena d’acqua: un delicato gesto per dissetare i tanti scoiattoli della zona. Dopo la Sadar Bazar Railway Station, col suo popolare mercato stradale, prendo a destra per Shyama Prasad Mukherji Marg e raggiungo la DRS o Delhi Railway Station. Qualche chilometro dopo, prima del ponte sulla Jumna, seguo la Netaji Subhash Marg Road e passando tra il Forte Rosso e la Jami Masjid arrivo al Delhi Gate. Infine, per la Jawaharlal Nehru Marg approdo al Gandhi Memorial Museum. La sua visita è deludente: le solite vecchie fotografie viste e riviste. All’ingresso acquisto il libretto Dandi March and Salt Satyagraha, dove trovo l’elenco dei marciatori che accompagnarono Gandhi dal 12 marzo al 5 aprile 1930; i loro nomi mi erano sconosciuti. Non molto lontano vi è il rosso muro del Gandhi Darshana, con un museo fotografico dedicato alla memoria del Mahatman, ma anche la barca utilizzata per un guado durante la Marcia del sale e l’automezzo militare che ne trasportò la salma alla pira. Riprendo il cammino e raggiungo il Raj Ghat, il campo di cremazione dove il corpo del Mahatman venne bruciato alla presenza di quasi un milione di persone. Così ha descritto quel 31 gennaio 1948 Yogesh Chadha, amico e biografo di Gandhi, in Rediscovering Gandhi (1997):

Il carro entrò nel campo di cremazione, dove il dipartimento dei lavori pubblici durante la notte aveva costruito un piccolo palco sopraelevato in pietra, mattoni e terra. Il corpo di Gandhi fu cautamente adagiato sulla pira funebre, composta da una pila di ciocchi di sandalo, frammisti a burro chiarificato, incenso, noci di cocco e canfora. Alle 16.15 Ramdas appiccò il fuoco. La maggior parte dei membri del governo indiano, e con loro Lord e Lady Mountbatten, si misero a sedere sul prato, e rimasero a guardare in silenzio. La pira bruciò per quattordici ore mentre i sacerdoti recitarono l’intero testo della Bhagavad Gita. Quando gli ultimi tizzoni si furono

1 Charpai (inglesizzato in charpoy): quattro piedi. È il leggero letto tradizionale indiano,

formato da una rete di fibra vegetale, oggi anche artificiale.

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raffreddati, le ceneri vennero delicatamente raccolte in una borsa di cotone filata a mano, mentre le asthi, ovvero le ossa in quanto distinte dalle ceneri, vennero depositate in un’urna di rame. I resti mortali di Mohandas Karamchand Gandhi furono suddivisi e affidati ai governatori di ciascuna provincia affinché venissero riversati nei fiumi, oppure, come a Bombay, nel mare.

Tolgo le scarpe e mi avvio al semplice monumento. Davanti alla fiamma perenne oggi è tutto un vociare di turisti indiani che si agitano per avere una loro foto ricordo da portare a casa. Gandhi è morto e dimenticato, come lo può essere colui al quale si erigono monumenti.1 Non si può negare che arrivare fin qui dal Connaught Circus sia stata una gran bella camminata. Utilizzo un risciò per avviarmi verso una nuova ed importante meta: Birla House. Il 15 agosto 1947, giorno dell’Indipendenza dell’India, la politica britannica del divide et impera riscuoteva il conto.2 Dalla scissione di quello che era stato l’Impero

1 “Parlando di Gandhi, spesso viene dato un rilievo eccessivo al suo ruolo nella liberazione

dell’India dal dominio britannico. Ma è giustificato questo modo di vedere? Quando Gandhi arrivò sulla scena indiana, i movimenti di riforma politica e in favore della libertà erano attivi già da circa tre decenni. La linea adottata dall’Indian National Congress per l’avanzamento costituzionale si sarebbe sviluppata anche senza di lui, e con risultati tangibili. Nonostante il successo di Gandhi nell’aprire alle masse la politica del Congress, fino allora riservata alle classi superiori, e il carattere dominante della sua leadership, egli non può dunque essere acclamato come l’artefice della libertà dell’India, anche se il modo straordinario in cui questa venne conquistata è certamente dovuto a lui. Gandhi era essenzialmente un umanista, interessato più agli individui che alle istituzioni. D’altra parte, neppure si deve sottovalutare la componente politica della sua figura. La combinazione del Gandhi politico con il Gandhi umanista fu davvero cosa notevole, ma chiamarlo santo, come si fa implicitamente quando gli si assegna il titolo di Mahatman (Grande anima), non riflette la sua vera personalità. Se infatti egli aveva qualità non comuni, nessuno faceva mistero dei suoi difetti. Idee religiose autentiche e intima spiritualità erano parte integrante della sua natura. Questi attributi potrebbero, negli anni a venire, far dimenticare del tutto l’opinione diffusa secondo cui Gandhi operò il miracolo dell’indipendenza indiana. Espressioni ritrite come “santo hindu” e “padre della nazione” non servono a descrivere il suo vero ruolo nella storia della civiltà umana. Gandhi dimostrò al mondo intero come l’amore per il proprio popolo non deve necessariamente trovarsi in contraddizione con l’amore per l’umanità. Lottò per liberare gli oppressi dalle catene dell’ingiustizia, della schiavitù e della miseria, ma era anche preoccupato del futuro della razza umana. “Non c’è speranza per coloro che soffrono se non lungo il sentiero stretto e diritto della non-violenza” ebbe a scrivere. “Milioni di persone come me potranno non riuscire a realizzare la verità nella propria vita; ma sarebbero loro a fallire, non la legge eterna”. In verità, quando i nomi dei giganti del movimento indipendentista indiano rimarranno compressi negli strati fossili della storia, quello di Gandhi continuerà a splendere grazie al messaggio della verità e della non-violenza”. (Yogesh Chadha: Rediscovering Gandhi)

2 Ha scritto il generale Lord Wavell, viceré in India: “Churchill odia l’India e tutto quello che ha a che fare con l’India”. Questo ed altri interessi di parte, uniti ai troppi errori politici del Congress di Gandhi, portarono al genocidio di milioni di persone: una shoah volutamente

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delle Indie sorsero l’Unione Indiana e il Pakistan, il primo Stato moderno governato da una teocrazia e l’unico suddiviso in due parti distanti mille chilometri l’una dall’altra. Questa spartizione aveva creato in entrambi gli Stati delle minoranze, che decisero di emigrare verso la rispettiva madrepatria religiosa. Più di sei milioni di profughi si misero in cammino da una parte e dall’altra e quasi un milione di essi morirono nei massacri che accompagnarono la gigantesca migrazione. Gandhi rifiutò di partecipare ai festeggiamenti scegliendo di passare quel giorno ospite di un suo amico musulmano di Calcutta. Rientrò in treno a Delhi la prima decade di settembre. Alcuni amici lo aspettavano con un’auto alla stazione. Strada facendo lo informarono che la capitale era ormai sede di numerosi omicidi, incendi e saccheggi causati dai racconti dei profughi hindu e sikh arrivati in massa dal Punjab. Erano talmente tanti questi derelitti dell’infame spartizione territoriale che avevano invaso ogni spazio possibile, moschee comprese. Anche l’alloggio di Gandhi a Bhangi Colony, il quartiere degli spazzini municipali alla periferia cittadina, era stracolmo di profughi. Per evidenti ragioni di sicurezza i suoi accompagnatori lo convinsero ad accettare l’ospitalità dell’amico G.D. Birla,1 il ricco industriale che gli metteva a disposizione parte della sua sontuosa

dimentica dal civile Occidente. Anni dopo, com’era prevedibile, anche le due parti del Pakistan entrarono in conflitto tra loro. La guerra partorì il Bangladesh, fin da subito uno degli Stati più poveri del mondo, oggi un’economica miniera di braccia da sfruttare in nome della “globalizzazione”.

1 “Gandhi, che oltre a essere un grande sobillatore era anche un abilissimo raccoglitore di fondi. Essendo egli stesso membro di una casta di commercianti, Gandhi ebbe contatti privilegiati con i mercanti e con gli uomini d’affari indiani piuttosto che con gli intellettuali brahmani che avevano predominato nel Congresso nel primo periodo. Il Tilak Svaraj Fund (Fondo Tilak per l’autogoverno), per il quale egli aveva raccolto denaro durante la campagna di non cooperazione, ammontava a dieci milioni di rupie, che furono messe a disposizione per il mantenimento dei militanti politici attivi. Nel finanziamento del movimento di liberazione Bombay svolse un ruolo di primo piano, come pure la casta dei Marwari che erano sparsi in tutta l’India settentrionale. G.D. Birla, membro di spicco di tale comunità e amico inseparabile di Gandhi fino alla morte, sebbene possedesse egli stesso delle filande, donò ingenti somme di denaro all’Associazione dei Filatori Indiani istituita da Gandhi. Birla sapeva che l’industria non aveva nulla da temere dai filatori artigiani, la cui attività aveva un significato simbolico più che pratico. Gandhi aveva infatti sostenuto tale filatura col desiderio di conferire una dimensione positiva al boicottaggio dei filati stranieri e di promuovere l’autosufficienza indiana. Per un certo periodo persino la quota d’iscrizione al Congresso dovette essere pagata in natura e cioè con una certa quantità di filato a mano. Ma tutto ciò divenne ben presto vuota routine e il messaggio di Gandhi fu rapidamente dimenticato. Anche il tessuto filato a mano indossato dai membri del Congresso per sottolineare la loro fiducia nell’autosufficienza si tramutò in una specie di uniforme, che non poteva perciò garantire l’integrità di chi la portava. Fra i nazionalisti di una generazione più giovane ve ne furono alcuni che dissentirono dal programma e dalle idee di Gandhi. Mentori di tale nuova generazione furono Jawaharlal Nehru e Subhas Candra Bose, i quali propagandavano un antimperialismo basato su un’ideologia socialista e auspicavano

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abitazione. Gandhi accettò un ampio locale al piano terra, che volle privo di mobili.1 E arriviamo al fatidico 30 gennaio 1948, venerdì. Gandhi trascorse l’ultima mattina della sua vita scrivendo lettere. “Domani” aveva scritto “può darsi che non sia più qui.” Nel primo pomeriggio si era incontrato con una giornalista inviata da Life. Alla domanda “Che cosa deve fare un satyagrahi se una bomba atomica sta cadendo sulla sua città?” Gandhi aveva risposto: “Guardare in alto senza paura e pregare per il pilota”. Subito dopo ricevette due rappresentanti del Partito del Congresso per discutere di affari politici e mentre s’intratteneva con loro consumò la cena: latte di capra, verdura cruda e cotta, arance e una salsa a base di zenzero e burro filtrato. Poi, siccome la discussione si protraeva, Abhabehn - la giovane moglie di un suo cugino - si mise ad indicare un orologio ricordando a Gandhi che era già in ritardo di dieci minuti sull’appuntamento serale per la preghiera pubblica, fissato per le diciassette. Gli ospiti si congedarono e lasciarono Birla House. Contrariato per il proprio ritardo, Gandhi optò per una scorciatoia attraverso il prato. Camminando appoggiato a due giovani ragazze arrivò ai sei gradini che immettevano allo spiazzo delle riunioni, dove circa 500 persone lo stavano aspettando. Qui rispose al loro saluto congiungendo i palmi delle mani nel tradizionale namaskara. Facendosi largo tra la folla, un uomo tarchiato si portò davanti a lui e sparò tre colpi con una Beretta da 9 millimetri. “He Ram” (oh Dio) furono le ultime parole di Gandhi. Lo portarono subito in casa, dove un medico lo dichiarò morto. Aveva 78 anni.2

contemporaneamente l’emancipazione politica e socioeconomica dell’India”. (Kulke & Rothermund: Storia dell’India, Garzanti 1991).

1 I suoi adulatori interpretarono questa richiesta come esempio di semplicità o di umiltà. In realtà, conoscendo l’attaccamento di Gandhi ai princìpi religiosi appresi in gioventù dalla madre, non faceva che applicare i concetti della filosofia jaina, dove ancor oggi la struttura interna dei loro monasteri non prevede altri mobili che i letti in legno e i ganci alle pareti per appendere i fagotti e gli ogha. Anche i piccoli tappeti su cui gli asceti (sadhu) si siedono appartengono della comunità. Soltanto nelle grandi città esistono upasraya per entrambi i sessi, ma laddove ve ne sia uno solo, già occupato dai maschi, le monache devono cercarsi un un’altra sistemazione perché donne e uomini non possono vivere sotto lo stesso tetto.

2 “La morte di Gandhi pose termine alle stragi che avevano accompagnato la spartizione dell’ex India britannica. Non per questo, tuttavia, regnò la pace tra India e Pakistan, che dall’ottobre 1947 si contendevano il Kashmir, regione montuosa abitata da musulmani ma governata da hindu che avevano optato per l’Unione Indiana. La guerra finì nel gennaio 1949 con la vittoria dell’India, che si annesse quasi tutto il territorio contestato. Il Premier Nehru era morto da meno di un anno quando - il 1° settembre 1965 - il conflitto tra i due Stati si riaccese, il concludersi 22 giorni dopo con un’altra sconfitta per il Pakistan. Poche ore dopo la firma degli accordi di pace, avvenuta a Taskent grazie alla mediazione dell’Urss, il Premier indiano Shastri morì. Gli successe la figlia di Nehru, Indira Gandhi [il cognome è quello del marito, Feroze Gandhi, un parso non imparentato col Mahatman e da cui si era ben presto separata; Feroze

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dirigeva a Lucknow il National Herald, un giornale che esercitava spesso una violenta critica nei riguardi del governo del suocero]. Sotto la guida di Indira, il 3 dicembre 1971, l’India attaccò il Pakistan Orientale, intervenendo in aiuto alle forze del Bangla Desh che lottavano per l’indipendenza. La guerra si concluse con il pieno successo dell’esercito indiano, e con la nascita - dalle ceneri del Pakistan Orientale - del nuovo Stato del Bangladesh”. (Chadha: op. cit.)

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New Delhi

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Durante il processo il suo assassino, Godse Ran Nathuram Vinayak - un brahmano di Pune legato al movimento paramilitare RSS1 e che in quella città aveva fondato il periodico Hindu Rashtra2 - rivelò tutto il suo odio verso l’apertura al mondo islamico propugnata da Gandhi. Come sempre accade in casi simili, i mandanti se ne stettero al riparo nelle loro sedi istituzionali; toccò all’imbecille di turno eseguire per loro conto lo sporco lavoro, prima, salire sul patibolo, poi.3

1 Acronimo di Rashtriya Swayamsevak Sangh (Associazione di volontari nazionali), una

propaggine estremista del movimento revivalista hindu Mahasabha (Grande società). Agli occhi di queste due organizzazioni, Gandhi doveva essere eliminato perché continuava ad affermare che, malgrado la guerra col Kashmir, l’India doveva onorare i suoi impegni relativi alla divisione delle risorse, soprattutto economiche, col Pakistan.

Oggi, in India lo RSS conta circa 50 mila sezioni e sei milioni d’iscritti. Obiettivo dichiarato: creare un’India forte, capace di mettersi alla guida del mondo intero. Tanto per allenarsi al modesto impegno a cui aspira, lo Shiv Sena, falange dello RSS fondata da Bal Tackeray, dopo aver mandato 200 mila imbecilli a distruggere la moschea di Ayodhya ha poi scatenato la caccia al nemico nel Maharashtra: a cavallo tra il 1992 e il 1993 gli scontri di Bombay hanno registrato oltre 2000 morti. Fattisi una gloriosa reputazione, come spesso accade tra le popolazioni contadine cerebrolese perché affamate (per essere più facilmente dominate), questa nuova destra di “rottura” ha vinto le elezioni indiane, dove il BJP ha governato vagando a vista tra interessi personali e lussuriose tangenti dal 1996 al 2004. Nel 2002 vi è stato l’assalto al treno in Gujarat, con relativi morti bruciati vivi nei vagoni (per approfondimenti consiglio Sabarmati Express. Nel cuore del gigante indiano di Mark Tully, Sartorio 2006). Perso il potere, i nostri hanno ricominciato a dar la caccia al non hindu: l’11 luglio 2006 si ricorderà (forse) per la nuova battaglia di Bombay (ribattezzata Mumbay), con oltre 200 morti e migliaia di feriti.

2 Organizzazione Hindu era il nome del settimanale del Mahasabha, il movimento hindu fondato da Madan Mohan Malavija, accusato di convertire i musulmani con la violenza facendo ricorso a una sorta di battesimo hindu. Estraggo da Storia dell’India, di John Keay, Newton & Compton 2001: “In tutti i maggiori centri di lingua hindi dell’India settentrionale, le nuove associazioni politiche e religiose presentavano legami con luoghi sacri, sabhas (consigli, società) e istituzioni commerciali. (…) Nel Maharashtra le alleanze religiose dei brahmani di Pune videro le loro cerimonie trasformarsi in riunioni di protesta politica e i loro riti in propaganda nazionalista. E non fu un fenomeno passeggero: “Lo stile della politica indù che emergeva dalla vita urbana corporativa del tardo Novecento rimane vitale … sia nelle sembianze del Mahasabha indù degli anni Trenta, sia in quelle dello Jana Sangh degli anni Settanta”, sia nell’ultima reincarnazione dello Jana Sangh, il partito Bharatiya Party (BJP). In breve, c’era (e c’è) una terza prospettiva, quella dalla quale fu percepito il nazionalismo, non dall’esterno come un intero invisibile, né dai centri metropolitani come somma delle due parti, ma dall’interno più profondo, come proiezione di interessi settoriali ben radicati che erano orgogliosi di essere assai poco debitori nei confronti di ideologie estranee o di un’istruzione ricevuta in una lingua che non era la propria.”

3 Il verdetto finale del processo fu depositato il 10 febbraio 1949. Due dei congiurati, Nathuram Godse e Narayan Apte, furono condannati a morte; gli altri vennero condannati al carcere a vita, eccezion fatta per l’ispiratore del complotto, il potente avvocato Savarkar, prosciolto da ogni imputazione. Il 15 novembre, di prima mattina, Godse e Apte uscirono dalle loro celle e mentre si dirigevano al capanno dell’impiccagione più volte gridarono lo slogan akhand Bharat amar rahe (che l’India rimanga unita per sempre). Una sola forca era stata preparata

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Commentò Geoffrey Ashe (Gandhi, A study in Revolution, 1958): “Fu così che il santo hindu divenne martire dei musulmani”.1 Entro nella casa, ora ribattezzata Gandhi Smriti (Memoria). Dalla stanza occupata dal Mahatman parte una sequenza d’impronte in rilievo. Le seguo e in breve sono ai fatidici gradini. Gli ultimi due passi sono circondati da una balaustra quadrata. Mi ritrovo a ripercorrere in continuazione, avanti e indietro, questo breve itinerario. Non riesco a staccarmene. Rientro che è buio. 7 GENNAIO, New Delhi. Il treno per Ahmedabad parte dalla Delhi Railway Station alle 15:05. Ho tutta la mattinata a disposizione e la passo girovagando nei pressi della NDRS, alle cui spalle, esattamente tra il deposito delle motociclette e i binari della ferrovia, si allunga un insediamento di baracche. Mi muovo per le stradine con estrema cautela, sempre circondato da un nugolo di ragazzi incuriositi dalla mia presenza. Accorrono i boss della mafia, che vogliono sapere chi sono e che ci faccio qui, visto che non sono posti consigliati dalla sempre più inutile LP. Dei ragazzotti vogliono che scatti fotografie a un loro coetaneo con le gambe amputate. Rifiuto con fermezza. All’opposta estremità della baraccopoli il fetore preannuncia la montagna di rifiuti qui scaricati in continuazione dai camion della nettezza urbana. Un gruppo di schiavi sta setacciando l’immondezzaio per raccattare tutto il riciclabile, che viene separato e messo sui pianali dei tricicli in attesa. Il tutto sotto l’occhio vigile di altri scagnozzi della mafia, col telefonino perennemente attaccato all’orecchio. Alla partenza del treno dalla stazione di Delhi mi sono trovato a condividere lo scompartimento con un tedesco di Baviera, una ragazza fijiana e il suo moroso cinese (ma vivono a Vancouver, in Canada) e un ragazzo indiano reduce da Mosca, dove frequenta l’Università. Mezzo mondo si scambia opinioni in pochi metri quadrati. 8 GENNAIO, Ahmedabad. Rieccomi per la quarta volta ad Ahmedabad, mille chilometri a sud di Delhi.2 Verso le otto di mattina il treno si concede una breve

per entrambi, con due corde che scendevano dalla trave l’una accanto all’altra. I corpi di Godse e Apte furono cremati all’interno del carcere; subito dopo il terreno su cui erano state erette le pire venne arato, allo scopo d’impedire a chiunque di raccogliere le loro ceneri per farne reliquie. Infine, in tutta segretezza, terra e ceneri vennero gettate nel vicino fiume Ghaggar. Paradossalmente, la giustizia aveva utilizzato la violenza per uccidere gli assassini del padre della non violenza.

1 Vien facile assimilare la morte di Gandhi a quella del Cristo, così sintetizzata da Harold Bloom in Gesù e Yahvè, Rizzoli 2006: “Il Nuovo Testamento si fonda sulla sacra violenza della crocifissione e su quanto si suppone sia avvenuto dopo di essa, un evento in cui la morte per tortura si trasforma d’incanto nella resurrezione dalla morte”.

2 In realtà, Ahmadabad (Ambavad in gujarati) è la corretta grafìa del nome della città fondata nel 1411 da Shah Ahmad II, sotto il cui regno il sultanato del Gujarat, resosi indipendente dal

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sosta alla stazione secondaria di Ashram Junction. Ne approfitto per scendere e subito mi dirigo verso Sabarmati Ashram, il cottage dove Gandhi visse dal 25 maggio 1915 al 12 marzo 1930, giorno d’inizio della sua Marcia del sale.1

sultanato di Delhi, raggiunse l’apogeo. Suo nipote Mahmud Begarha (1458-1511) la ingrandì e ne fece agli occhi del mondo una delle più belle città dell’Oriente, con fortificazioni poderose, splendide moschee e grandi mausolei. Distrutta nel 1819 da un catastrofico terremoto, Ahmedabad, all’epoca da poco passata sotto dominazione britannica, divenne in seguito un importante centro cotoniero. Attualmente vi sono ubicati numerosi impianti per la lavorazione della seta e delle fibre artificiali.

1 Le date da me riportate sono quelle incise nella pietra all’ingresso del Museo, ma sulla loro veridicità c’è una discreta confusione. Al suo ritorno dal Sud Africa, “solo dopo aver viaggiato e riflettuto a lungo, Gandhi decise di stabilirsi alla periferia di Ahmedabad, dove avrebbe vissuto assieme ai familiari, agli amici e ai più stretti collaboratori in un’atmosfera di rinuncia e di servizio. L’amico Jivanlal Desai, avvocato, mise a sua disposizione un villino nel vicino villaggio di Kochrab, dove il 25 maggio 1915 venne fondato un ashrama. Altri due edifici vennero ben presto acquistati per accogliere tutti gli asramiti, allora in numero di venticinque fra uomini e donne. I mercanti tessili di Ahmedabad fornirono i fondi necessari al sostentamento dell’ashrama. L’attività principale era la tessitura a mano, oltre alla falegnameria. Non si ricorse a manodopera esterna: tutti lavoravano. La direzione dell’ashrama era per lo più nelle mani di Maganlal, che alla fattoria di Poenix [Sud Africa] aveva fatto esperienza nella coltivazione. Il nome prescelto, Satyagraha Ashram, rifletteva il desiderio di Gandhi di ‘far conoscere in India il metodo che avevo sperimentato in Sud Africa, e verificare in India sino a che punto ne fosse possibile l’applicazione’. Non ci volle molto tempo perché redigesse una bozza di costituzione in cui erano specificati i regolamenti e gli obblighi che gli asramiti erano tenuti a rispettare. Era una lista formidabile, in quanto tutti dovevano pronunciare i seguenti voti: veridicità, ahimsa, celibato, controllo degli appetiti, astensione dal furto, non-possesso, uso del khadi filato e tessuto a mano e rifiuto di vestire stoffe straniere, accoglienza degli intoccabili, pavidità. Ciascuno voto veniva spiegato nei suoi diversi aspetti, ad esempio l’impavidità rappresentava per Gandhi ‘la libertà dalla paura di re, uomini, caste, famiglie, ladri, predoni, animali feroci, come le tigri, e persino della morte’. Aderire a questo voto equivaleva a promettere di non ricorrere alla forza fisica, ma di difendersi sempre mediante la forza dello spirito, ossia dell’arma di cui dispone chi sia addestrato a praticare il satyagraha, la forza della verità e dell’amore.” (Chadha: op. cit., pp 238-9). Nel 1917, “durante il soggiorno nel Champaran [Bihar] Gandhi si tenne al corrente delle faccende relative alla condizione dell’ashrama: mandava regolarmente le sue direttive per posta e chiedeva in visione i resoconti finanziari, e di tanto in tanto faceva una rapida visita alla comunità. La colonia stava per assumere dimensioni più ampie quando nella zona scoppiò la peste. Nonostante il rispetto di rigide norme igieniche all’interno delle mura di recinzione, la sicurezza degli asramiti era in pericolo, anche perché gli abitanti del villaggio erano troppo malati o troppo ostinati per accettare l’offerta di Gandhi di riorganizzare le loro strutture sanitarie. Egli ritenne dunque che ciò fosse motivo sufficiente per abbandonare Kochrab e scegliere un’altra località sulle rive del fiume Sabarmati, circa sei km a nord della città di Ahmedabad, non lontano dal carcere centrale. ‘Siccome l’andare in prigione era abituale per i Ssatyagraha’ scrisse ‘quella località mi conveniva. E sapevo che i siti scelti per le prigioni sono generalmente in zone pulite’. Con l’aiuto di un commerciante di Ahmedabad Gandhi acquistò un appezzamento di terreno di otto ettari e al centro piantò delle tende. La regione era infestata dai serpenti, ma la regola generale era di non ucciderli. Presto iniziarono i lavori di costruzione di una piccola casa, furono piantati alberi e si approntarono stradine di mattoni e sentieri. La direzione dell’ashrama era affidata a Maganlal, poiché Gandhi era

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Il sole inizia a scaldare l’aria, il traffico urbano riparte. Una camminata di un paio di chilometri, salutare dopo 17 ore di treno, ed eccomi davanti al muro che circonda l’ashrama. Delle persone stanno spazzando l’alberato cortile. Vedendomi arrivare, un uomo smette il suo lavoro per scortarmi al cottage e aprirmi una porta. “Questa è la stanza da letto del Mahatman” dice, facendosi subito da parte affinché possa entrare. “Tutto è rimasto come quando lui era qui” aggiunge. Poso lo zaino ed entro. Sul nudo pavimento è stesa la stuoia su cui Gandhi usava sedere di giorno e dormire di notte. Davanti vi è un tavolino, di lato un arcolaio, nell’angolo un bastone di bambù. Mi sono commosso impugnandolo: lì, dove adesso è la mia mano, un giorno vi era la sua. In una stanza accanto vi sono altri oggetti personali: calzari di legno, indumenti di cotone, un paio di tondi occhialini. Affascina la semplicità.1

impegnato altrove in questioni urgenti”. (Chadha: op. cit., p. 259) E arriviamo all’anno 1933. “Falliti i tentativi di giungere ad un accordo, si decise di continuare la lotta in altre forme. Tutti coloro che desideravano ed erano in grado di trasgredire le leggi su base individuale erano invitati a farlo. Proprio in quei giorni Gandhi informò i suoi seguaci che si proponeva di smantellare l’ashrama di Sabarmati, dove aveva abitato per 18 anni [ma non l’aveva creato nel 1917?]. La ragione più impellente che lo spingeva a farlo era la sua convinzione che fosse ormai venuto il momento in cui il progrtamma costruttivo della comunità non poteva più essere portato avanti con un certo margine di sicurezza, a meno di troncare ogni rapporto con la campagna indipendentista. ‘Accettare la situazione odierna’ osservò Gandhi ‘vorrebbe dire sconfessare il suo credo’. Cedette così il terreno e i vari edifici a un’associazione recentemente fondata per il servizio agli intoccabili, lo Harijan Sevak Sangh. Il 1° agosto si mise in marcia con i compagni che avevano vissuto con lui nell’ashrama per andare a predicare la resistenza civile fra i contadini del Gujarat. Ma il gruppo non aveva percorso molta strada quando fu arrestato. Gandhi fu subito condotto a Puna e sistemato nel carcere di Yeravda, per essere rilasciato solo tre giorni più tardi, con l’ordine di non allontanarsi dalla città. Rifiutò di assoggettarsi a tale restrizione, fu nuovamente arrestato, condannato a un anno di reclusione e confinato ancora una volta a Yeravda. Alla breve udienza del processo indicò come sua professione ‘filatore, tessitore e contadino e come indirizzo permanente la prigione di Yeravda”. Rilasciato, nel settembre 1933 si recò “a Wardha, piccolo centro nelle Province centrali, dove stabilì la propria base in un ashrama fondato da un suo seguace, Vinoba Bhave”. (Chadha: op. cit., pp 382-3)

1 Alcuni articoli apparsi su Young India e su Harijan ben riassumono il Gandhi-pensiero: “La meccanizzazione è un bene quando la manodopera è troppo esigua rispetto al lavoro che si intende realizzare. È un male quando la manodopera è più abbondante di quella richiesta per quel compito, come nel caso dell’India. Il problema per noi non è come procurare del tempo libero alle moltitudini che pullulano nei nostri villaggi, ma come utilizzare le loro ore inattive, che equivalgono ai giorni lavorativi di sei mesi all’anno. Oggi le macchine aiutano soltanto i pochi a cavalcare sulla schiena dei molti. La spinta che le muove non è la volontà filantropica di risparmiare la fatica, ma l’avidità”. “La macchina, per essere correttamente usata, deve aiutare a facilitare lo sforzo umano. L’impiego attuale delle macchine tende invece sempre più a concentrare la ricchezza nelle mani di pochi, nella più completa indifferenza per i milioni di uomini e donne a cui esse tolgono il pane dalla bocca”. L’arcolaio per lui rappresentava il desiderio d’indipendenza della popolazione indiana: riprendendo a farsi in casa gli abiti

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Davanti al cottage scorre la Sabarmati, seminascosta da alberi dove sui rami più alti approdano verdi pappagalli. Sul versante opposto dell’Ashram Road vi è un museo fotografico e un triste albergo statale. Entro in vari uffici e a più persone chiedo informazioni sulla possibilità di ripetere da solo la Marcia del sale. Tutti me lo sconsigliano fortemente. Dicono che l’itinerario originale passa attraverso piccoli villaggi privi di ogni possibilità ricettiva. Mi confermano che la marcia commemorativa del 2005, organizzata da un nipote di Gandhi, ha goduto del forte appoggio politico e finanziario del Congress, il partito politico che ha messo a disposizione dei partecipanti le strutture logistiche dell’esercito, con tende, latrine e cucine da campo, ma anche jeep per il trasporto dei viveri, camion per il trasporto delle strutture e ambulanze attrezzate di frigoriferi per conservare gli antidoti al veleno di scorpioni e serpenti, che mi dicono prosperino nelle campagne da attraversare. Ai contadini che vi abitano tutti i giorni nessuno ha mai pensato?1 Sono entrato in alcune moschee, dove sono stato accolto come un fratello. Ennesima conferma che dove le alte cupole clericali non hanno specifici interessi bancari da tutelare - e quando i servizi segreti sono in pausa mensa - non esistono problemi di convivenza tra comuni mortali. “A incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma persone” ha scritto il sempre lucido Marco Aime (Eccessi di culture, 2004). Soprattutto quelle criminalmente maneggiate, aggiungo io. In tempi di influenza aviaria, passeggiare per il mercato delle carni del Khas Bazaar è decisamente out. Su entrambi i lati della strada vi sono decine di stie con i volatili che aspettano il boia. L’asfalto serve ad alcune donne d’infima casta

significava smettere di acquistare manufatti importati dall’Inghilterra, danneggiando l’industria e l’erario dei colonizzatori.

1 “La mattina del 12 marzo 1930 Gandhi lasciò l’ashrama, accompagnato da 78 seguaci scelti, per percorrere a piedi i 380 km che lo separavano dal mare a Dandi. Nel gruppo non c’erano donne. “Noi vogliamo apprestarci a soffrire, e può anche darsi che ci torturino. Se schieriamo le donne in prima fila, il governo potrebbe esitare a infliggerci per intero la punizione che altrimenti ci riserverebbe”. Non tutti i partecipanti alla marcia erano asramiti, e i loro nomi vennero pubblicati su Young India a beneficio della polizia. Fra loro c’erano due musulmani e un cristiano; gli altri erano hindu, di cui due intoccabili. Gandhi procedeva in testa, con in mano un bastone di bambù dalla punta metallica. Il corte avanzava nel caldo e nella polvere di villaggio in villaggio, dove moltitudini di spettatori attendevano ansiosi, nella speranza di procurarsi il darshana del Mahatman. Alcuni satyagrahi cedettero alla fatica e alle piaghe ai piedi, e furono obbligati a compiere parte del viaggio in un carro trainato da buoi. Ogni volta che si fermava in un villaggio esortava la gente a vestire khadi, trattare gli intoccabili con affetto fraterno, migliorare le condizioni igieniche, abiurare alcolici e stupefacenti, infrangere il monopolio del sale e unirsi ai ranghi dei satyagrahi. Ad Aslali, dove trascorse la prima notte, dichiarò ai suoi seguaci che non sarebbe tornato all’ashrama di Sabarmati finché la legge sul sale non fosse stata revocata”. (Chadha: op. cit.). In epoca successiva saranno accreditati altri due marciatori, portando il totale a 81, numero “sacro”.

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per il trattamento delle interiora e delle frattaglie dei pennuti uccisi. Quarti di montone penzolano tra nugoli di mosconi. Aleggia il dolce odore della morte. Un uomo ha voluto farmi conoscere la sua famiglia: lui avrà all’incirca 30-32 anni, sua figlia non supera i 14-15, suo genero ne avrà 15 pure lui, il loro pargolo tra i 9 e i 12 mesi. Tre generazioni in trent’anni. Un problema, questo degli sposi bambini, che Gandhi fece di tutto per abolire, ma non scarso successo.1 Una carto-libreria espone tre libri in vetrina, uno accanto all’altro: My life di M.K. Gandhi, The Year Book 2006 e il Kamasutra: il passato, il presente e l’eterno. 9 GENNAIO, Ahmedabad. Ho iniziato la giornata con una gita fuori porta. A circa dieci chilometri da Lal Darwaja, il quartiere dove risiedo e da dove partono i bus locali, vi è il sobborgo di Sarkhej. Alla sua periferia, circondato da fatiscenti abitazioni e fogne a cielo aperto, vi è il più grande mausoleo del Gujarat con la tomba del santo shaikh sufi Ahmad Khattu e di suo figlio Sid Salaudin, fatto erigere nel 1446 da Mahmud (1442-1451). La combinazione di mausoleo e moschea (rauza) rappresentò una caratteristica peculiare dell’architettura del Gujarat e quando Sarkhej divenne una città molto famosa, qui si costruirono moschee, mausolei, palazzi, porte e giardini in gran numero intorno a un grande bacino artificiale fatto scavare da Mahmud Begarha (1458-1511). Al piano terra di un palazzo di due piani una grande sala ricca di pilastri ospita tre tombe. Una lapide ricorda che contengono le spoglie del citato Mahmud Begarha, di suo figlio il sultano Muzaffar Shah II (m. 1526) e del “grande nipote” sultano Mahmud Shash III (m. 1553). Finestre di marmo cesellato filtrano la luce. Un balcone si affaccia sul grande lago artificiale. Rientrando in città ho fatto una deviazione per visitare il Dada Hari-ni Vav, uno dei più bei pozzi a gradini tipici del Gujarat settentrionale. Quello che lo rende diverso dagli altri appare subito evidente all’occhio allenato: queste strutture furono costruite dai musulmani turchi, ma qui operarono artigiani hindu che non si fecero scrupoli di riempire pareti e colonne con sensuali figure femminili. Del resto il committente, Bai Harir Sultani, all’epoca dei fatti (1500) non era il responsabile dell’harem reale? Oggi ho camminato per ore e ore nella labirintica città vecchia, dove vacche e pecore vagano in abbondanza. Visti dall’esterno i muri appaiono fatiscenti, ma

1 Quando Gandhi si sposò aveva poco più di 13 anni. In seguito, il rimorso per aver trascorso

la gioventù dedito ai “peccaminosi” piaceri del sesso diventerà per lui una vera e propria ossessione, fino ad arrivare al punto di incolparsi per lo stile di vita condotta dal suo figlio primogenito: “Ero schiavo delle passioni quando Harilal fu concepito, condussi una vita lussuriosa dedita ai piaceri carnali durante la sua infanzia”. Questa la ragione, secondo lui, perché Harilal era divenuto alcolizzato e puttaniere All’età di 37 anni, dopo averne informato la moglie Kasturba, Gandhi fece voto di castità perpetua.

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dietro si nascondono cortili e vecchi palazzi incredibilmente belli, ora abitati da gente comune. Tutto un mondo invisibile quanto vivo: vecchi templi jaina, haveli (le case dei ricchi commercianti del tempo che fu) decorate come nella Grecia antica e con pilastri scolpiti, strane fusioni architettoniche che rimandano all’Ottocento europeo. Nel cortile di un palazzo, in un angolo buio vedo un busto di legno dipinto di rosso; mi dicono sia Malla Mata, la dea protettrice di “quella” struttura. A me sembra un po’ troppo olandese. Pol è il termine che indica un insieme di haveli abitate da persone della stessa professione. Khadki o khadaki è sinonimo di corte o cortile. Tra i tanti visitati, mi ha piacevolmente impressionato il Sambhavnatha-ni Khadaki. Passato l’anonimo portale a sinistra vi sono alte case, a destra il recinto di un tempio invisibile dalla strada. Sul lato opposto vi è un secondo muro e il suo portale introduce al Chaumukhji-ni Pol. Mi trovo nella stretta strada che segue il perimetro di un grande tempio jaina dedicato all’Adhinata,1 il primo tirthankara. La seguo a destra e subito mi imbatto in un terzo tempio, ornato di sculture hindu alla base, cristianeggianti nella parte superiore, dove fanno mostra di sé colorate figure femminili con le ali che ricordano i nostrani angeli. Qui tutti lo negano, ma non sanno dare altre spiegazioni. Un torana con due gazzelle2 introduce al cortile dell’haveli Zaweri-wad: a destra le strutture dell’antico math (monastero) sono abitate da povera gente, a sinistra vi è il ricco portale del tempio jaina. Nel popolare quartiere di Zaveriwad entro nel Khadtarni Khadki. Una donna simpatica ed emancipata mi guida alla visita dei vecchi palazzi di questa corte. Al piano terra un locale è occupato da un’azienda per la lavorazione dei datteri: i frutti sono ammassati al suolo, in parte su lerci fogli di carta di giornale, e vengono messi a mano nei sacchetti, pesati e sigillati. Guardo l’etichetta: è quella di una nota marca. Un classico esempio di economia globalizzata, speculazione finanziaria che vive sull’altrui povertà. “Più la fila dei disoccupati è lunga, più un’azienda prospera”: il caustico assioma di Keynes resta sempre verità colata. 10 GENNAIO, Palitana. Sono partito alle 7:30 da Ahmedabad e alle 12:10 sono arrivato a Palitana, città “vecchia India”, dove la sera può essere utile la pila per camminare senza pestare le torte delle vacche. L’albergo è basico ma pulito ed è proprio di fronte alla fermata dei bus statali.

1 Adinatha = Signore del Principio. Epiteto di Rsabha, il primo (adi) dei 24 mitologici

tirthankara. 2 Due gazzelle affrontate a destra e a sinistra di una ruota stanno a simboleggiare, echeggiando

antichissimi motivi della iconografia buddhista, la prima predicazione della legge da parte del Buddha a Sarnath.

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Alle 13:30 sono uscito, ho mangiato un piatto di riso e daal, seguito da latte cagliato (lassì) come dolce. Qui nel Gujarat vige la proibizione dell’alcol e quasi tutti i “ristoranti” (sic!) servono “pure veg”, quindi niente carne. Mi piace. Dopo mi sono incamminato in direzione del Shatrunjaya,1 il monte su cui sono stati eretti 863 templi jaina. Anche qui, gente cordiale che mi chiede di scattar loro una fotografia. Io fotografo quello che mi piace, agli altri lascio un sorriso, sempre ricambiato. Arrivato quasi ai piedi del Shatrunjaya ho sentito un frastuono di musica; ho pensato al solito pujari che abusa degli altoparlanti, ma mi sono sbagliato. L’ho capito quando mi sono trovato a fianco di un carro dorato con a bordo delle donne che tengono in mano il ritratto del guru Bhupendra Surishvriju. Sul fianco, il carro porta il numero 16: infatti, davanti ve ne sono altri 15, alcuni dorati, altri color argento, a loro volta preceduti da un folto gruppo di donne in abiti coloratissimi. Allungando il passo ho ben presto affiancato due carri trainati da buoi dalle lunghe corna: nel primo ho notato un tempietto di Pashupati in argento massiccio, nell’altro vi sono un uomo e una donna con in testa una corona dorata.2 Anche sul loro carro vi è un tempietto d’argento, stavolta dedicato a Rsabha, il primo tirthankara. Man mano che questo carro avanza l’uomo incoronato fa scivolare per terra del latte, lasciando una bianca scia alle sue spalle. Davanti a loro raggiungo un folto gruppo di uomini col turbante rosso scuro e quadratini gialli, e poi una fragorosa banda con tanto di cantante. Un altro gruppo di uomini circonda cinque monaci jaina3 e un grosso elefante tutto

1 Il termine sanscrito jaya vale “sposa”, ed è accomunato al verbo jan “nascere”. 2 Nella liturgia religiosa del buddhismo l’officiante usa mettersi sulla testa la ringà, una specie

di corona fatta con cinque pentagoni di cartapesta sui quali è dipinta la sacra pentade (i cinque Buddha supremi) che simboleggiano i cinque centri germinali dell’evoluzione cosmica apparsi in seno all’indiscriminato principio dell’essere: l’officiante in tal modo si identifica col profondo dell’essere, con le potenze che governano il fluire del creato e può dominarne così tutte le forze. Per similitudine, lo stesso avviene nelle cerimonie jaina, dove a mettersi la ringà in testa non è il monaco officiante ma colui che finanzia l’operazione.

3 Se è vero che soltanto il monaco può sperare di ottenere la liberazione attraverso le privazioni e la mortificazione del corpo, anche per coloro nei quali la fede ha messo radici pur senza indurli a eleggere la vita ascetica è possibile creare i presupposti per abbracciare lo stato monacale in un’esistenza futura: farsi seguaci laici o laiche della comunità (shravaka e shravika, letteralmente “uditori”). La chiesa (samgha) giainica è pertanto composta veramente da 4 tirtham, “dignità”, intese come categorie di aderenti: monaci (sadhu o muni), monache (sadhvi), laici e laiche. La direzione spirituale è affidata a monaci, i quali sono depositari della dottrina e la commentano ai laici con prediche tenute all’aperto o negli upashraya, “rifugi”, sostenuti dalla munificenza dei benefattori. (Della Casa, op. cit., p. 72).

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dipinto, con delle donne sulla groppa.1 Due uomini a cavallo aprono il corteo. Come sempre, chiedo se posso fare fotografie (lo faccio sempre, poi stringo la mano ad ogni persona fotografata; è un must per me) e la risposta è stata positiva. Arrivati alla scalinata, tutti a terra e avanti a piedi. Tolgo le scarpe e seguo il gruppo. La prima sosta è per pregare in un tempio aperto su tre lati (celebrazione all’aperto, come d’antica tradizione). Al termine del rito siamo entrati nel sanctum del tempio di Adinatha, la cui immagine è per l’occasione esposta al pubblico. Suggestivi sono i suoi occhi, luminosissimi nella penombra: sembra che ti guardino “dentro”. Come impressionare il popolino i preti lo sanno fare bene e da sempre. È il loro mestiere. Finita la cerimonia, nel cortile del tempio sono stato onorato di due sciarpe arancioni e di un turbante di “famiglia”, che un anziano ha rifatto per adattarlo alla mia testa. Adesso ho un voluminoso copricapo da portare in giro per l’India. Un grande onore questo, e ho capito che l’adozione è scattata quando alle loro domande ho saputo dare risposte decenti in merito alla religiosità jaina, discutendo dei ventiquattro tirthankara e dell’ahimsa (non-violenza), una filosofia di vita che tutti appiccicano come etichetta a Gandhi ma che invece è un precetto jaina, così come il coprirsi la bocca con la muhpatti (mascherina protettiva) per non ingoiare insetti o spazzare la strada con l’ogha2 per non calpestare le più piccole forme di vita. Subito dopo, il citato sadhu e parte dei membri del gruppo col turbante mi hanno invitato a seguirli fino al vicino “rifugio” (upashraya), dove mi è stata offerto il pasto. Mi sono accomodato su di un lungo tappeto steso per terra e un gruppo di giovani fanciulle vestite di rosso mi hanno servito cibo e the in abbondanza. Noto che la sala da pranzo è molto grande ma che a mangiare siamo in pochi. In effetti, ogni jaina deve digiunare un giorno al mese, dall’alba al tramonto, e oggi la stragrande maggioranza dei presenti ha deciso di aspettare che scenda il buio. Nell’attesa della notte, qua e là sento voci femminili declamare “Om namo harihantanam”, la tipica invocazione che i pii devono recitare a digiuno.

1 Il perché del connubio tra donne ed elefante è subito spiegato: il pachiderma, simbolo

dell’immutabilità del mondo, rappresenta anche Airavata, l’elefante bianco di Indra, il re celeste, e pertanto esprime il potere regale, la pace, la prosperità. Per le masse rurali senza cultura, prosperità è sinonimo di fertilità. Ed è per questo motivo che frotte di donne in età fertile usano ancor oggi - soprattutto nell’India meridionale - andare in visita all’elefante del tempio, il quale, in cambio di una moneta, appoggia la proboscide (un palese simbolo fallico, lo stesso che il serpente) sulla fronte della donna ed emette un caldo soffio, considerato di buon auspicio alla procreazione. Da non dimenticare che la regina Maya concepì Buddha dopo aver sognato che un elefantino bianco le penetrava nel fianco destro.

2 Una scopetta formata di lana, di canapa o di peli di dromedario.

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Vikran Kumar Jain Pradeep, il mio tutore, m’informa che il loro maestro (guru) mi aspetta in un locale appartato del rifugio. Ci vado. I miei accompagnatori si abbassano ai suoi piedi, io mi limito a un modesto cenno d’inchino: ho una notevole ripugnanza per ogni gesto servile; è più forte di me. Mi siedo per terra e lui comincia a parlarmi. Al commiato, Jainmuni Jayanand Vijayji - questo è il suo nome - mi consegna una copia del libretto utilizzato dai sadhu durante le funzioni religiose, chiedendomi di farlo tradurre dall’hindi all’inglese. “È un lavoro che finora nessuno ha mai fatto” dice. Per dimostrarmi il suo reale interesse, non esita a darmi il suo recapito, numero di cellulare compreso. Si aspetta che lo contatti quanto prima (“anche al mobile”) per informarlo sul buon esito del compito assegnatomi. Non capisco il perché di questa bizzarra scelta: l’India è piena di gente che può tradurlo! Misteri della fede altrui. Ma chi sono e che ci fanno a Palitana i miei ospiti? Spiego: qui si sono radunati 235 componenti della potente famiglia Sankelcha, che hanno speso sei milioni di rupie (circa 120 mila Euro) per questo gigantesco rito - e i cinque sadhu mi sono parsi strafelicissimi, visto che gran fetta di questa fortuna è scivolata nelle loro tasche. L’intero rito dura 60 giorni e in questo periodo i fedeli paganti devono salire 99 volte in cima alla collina per il darshana con Duda, il nomignolo con cui chiamano l’Adhinata.1 Oggi ricorre il sessantesimo giorno e io ho partecipato al grande rito conclusivo. Se non è “fattore c” questo! Nel suo insieme, questo rito si chiama Navanu Dakshina e a me ricorda, in chiave non-violenta, il sacrificio dello stallone bianco di vedica memoria. Ma l’aspetto più intrigante è che a quei tempi l’ingordigia verso le ricchezze e il potere dimostrata dal clero brahmanico portò alla nascita del jainismo e del buddhismo, due movimenti di rivolta laica che predicavano l’inutilità del clero - esseri umani che nessun dio ha mai delegato, né per iscritto né in orale, a rappresentarli, dicevano i fondatori - per raggiungere il benessere dell’anima nell’aldilà previo pagamento anticipato dell’onorario nell’aldiquà.2

1 Anche detto Adishvara. 2 “Nelle parti orientali del bassopiano gangetico, e cioè nel Magadha (odierno Bihar), sorgono

sistemi ereticali, che negano ogni valore del Veda e con esso ogni ragion d’essere della supremazia sacerdotale: l’uomo non ha la via, sia pure costosa e lunga, del sacrificio per raggiungere la liberazione, non la guida di un esercito di sacerdoti avidi e gelosi del proprio potere; neppure sono bastevoli la meditazione, l’astrazione, l’annichilimento riservati a pochi eletti: la via di salvazione consiste in un approfondimento del sistema religioso, in uno sforzo etico dell’individuo, in una vita pura. Strada difficile, ma aperta a tutti, non limitata a una schiera di persone eminenti per casta o per censo. Il successo è grande; tra le varie sètte che predicano questa tendenza, due superano i secoli, si espandono fino a mettere a un certo punto in pericolo l’esistenza stessa del brahmanesimo: e sono il jainismo e il buddhismo”. (Della Casa, op. cit.).

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E dopo tanta rivolta laica, oggi ho partecipato allo stesso rito d’allora celebrato dal clero jaina in un tempio jaina! Del resto, non è forse vero che anche i karmapa ed i gelugpa, due comunità del buddhismo riformato, si sono date un loro alto clero e un loro papa-imperatore? Nel loro loka Gautama Buddha e Rsabha Adinatha hanno di che riflettere. 11 GENNAIO, Palitana. Shatrunjaya è una delle cinque montagne sacre del jainismo e si trova nella regione Saurashtra del Gujarat. Il suo nome è menzionato numerose volte nel canone scritturale shvetambara, il che vuol dire che questo tirtham era già noto nel V secolo. Da allora, un’atmosfera quasi sovrannaturale è associata a questa montagna sacra.1 La giornata comincia col piede giusto: mentre cammino verso la scalinata - lontana circa tre chilometri - un ragazzo in bicicletta mi si ferma accanto e mi regala una rosa profumata, che subito porto alle narici.2 Più avanti un venditore mi offre un frutto.

1 Una storia leggendaria di Shatrunjaya viene fatta risalire al principio di questa Età del Mondo

dalla Saravali, un testo datato intorno all’XI secolo. Secondo la Saravali, Pundarika, nipote di Rsabha, viaggiò fino a Shatrunjaya dopo che un tirthankara gli aveva riferito che lì avrebbe ottenuto la liberazione finale (moksha); per questa ragione il monte prese anche il nome di “Loto bianco” (Pundarika). Si dice anche che Bharata, suo padre, vi abbia costruito un tempio e si presume che Rsabha stesso abbia visitato il tirtham assicurandosi che venisse ritenuto il primo tra tutti i luoghi santi. La Saravali sostiene che lo stesso Bharata ottenne la liberazione sul monte Shatrunjaya, così come accadde ad altre grandi figure di eroi hindu incorporate nella tradizione jaina quali Rama, Sita e i cinque fratelli Pandava. Lo stesso testo segnala come sullo Shatrunjaya i conseguimenti spirituali vengano raggiunti senza sforzo e che la semplice installazione di un’immagine porterà a una rinascita in paradiso. In aggiunta, l’anonimo autore afferma che fare un pellegrinaggio allo Shatrunjaya equivale a fare un pellegrinaggio a tutti gli altri luoghi santi e che il dono religioso qui acquisito raggiunge una particolare eccellenza. Un’altra credenza popolare vuole che sul continente di Nandishvara, l’ottava isola del mondo di mezzo, non abitata né da esseri umani né da animali, vi siano cinquantadue templi contenenti le immagini dei tirthankara “che esistono da sempre”, presso le quali si recano ad intervalli regolari Indra e tutti gli altri dèi per offrir loro omaggio e venerazione. Altre simili immagini eterne sono sparse in tutto l’Universo, nei vari paradisi e sulla cima delle montagne. Secondo la Storia Universale, Bharata, il primo Imperatore di questa Età del Mondo, installò milioni di anni fa un gran numero di immagini, tra cui una di suo padre Rsabha, sul più importante di tutti i luoghi santi shvetambara: il monte Shatrunjaya, appunto. Non bastassero gli esempi citati, anche i cicli di leggende associati all’operatore di miracoli jaina Nagarjuna cercano di collegarlo con lo Shatrunjaya che, con i corsi d’acqua e i pozzi incantati, forniva un retroscena adeguato alle sue azioni miracolose. Buon ultimo, nella sua Descrizione dei luoghi santi Jinaprabha descrive come anche gli animali selvaggi che vi abitavano abbandonavano il comportamento selvaggio e carnivoro e intraprendevano digiuni sotto l’influenza dell’atmosfera della non-violenza che aleggiava sulla montagna. (Paul Dundas, Il jainismo, Castelvecchi 2005).

2 Nella religiosità jaina niente impedisce al laico di respirare il soave profumo dei fiori, mentre questo semplice gesto è vietato ai monaci e alle monache perché è contrario all’ahimsa.

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L’ascensione non può definirsi impegnativa: la collina ha un dislivello di circa 600 metri, da salire per una strada lastricata lunga quattro chilometri e tutta a gradini. A piedi nudi (ma non è obbligatorio: qui le scarpe sono ammesse) e in discesa soprattutto, è la rugosità della pietra a farsi sentire. Volendolo, portantine a spalla (doli) sono disponibili. Al termine della salita, donne in abiti zingareschi vendono ciottole di latte cagliato. È un’ottima occasione per prendersi una pausa prima di buttarsi nel “sacro”. I templi attuali risalgono al XVI-XVII secolo, essendo stati i primitivi del V secolo abbattuti durante le incursioni musulmane. La massa dei viandanti si concentra nel cortile del principale, sulla vetta, circondato da decine di altri templi semivuoti. Ogni anno qui vi si celebra la grande festa di Paryusana, che richiama in media 50 mila persone.1 In giro vi sono tante monache (sadhvi) della comunità Tapa Gaccha2 shvetambara, tutte col manico del piumaccio tenuto in orizzontale sul palmo

1 Le principali feste della comunità jaina sono legate ai cinque più importanti avvenimenti

della vita dei tirthankara: la discesa dello spirito nell’utero materno, la nascita, la rinuncia, il raggiungimento dell’onniscienza e il nirvana. Per i soli shvetambara la festa più importante dell’anno è il paryusana, che si celebra in settembre ed è tipica del modo jainico di considerare la religione, che in sostanza tende all’ottenimento di una salvezza individuale attraverso l’austerità e la rinuncia: per dieci o più giorni i devoti trascorrono il tempo nella meditazione, nell’esercizio dell’ascesi, nella contemplazione dei Perfetti, la cui distaccata chiarità libera di turbamenti e di dolori, ma anche priva di attività e di ogni compassione, essi sperano un giorno di raggiungere. Di grande importanza è pure l’aksayatritiya (il “terzo dell’imperituro”), una festività che ricorre il terzo della metà chiara di Vaishaka, tra aprile e maggio, ed è condivisa da shvetambara e digambara. La festività è essenzialmente una commemorazione dell’iniziazione del primo tirthankara, Rsabha, e in particolare del dono di succo di canna da zucchero fattogli da Shreyamsa che rappresentava il primo atto di dono religioso di questa Età del Mondo. Il nome “imperituro” si riferisce al merito che genera. Il completamento cerimoniale del digiuno e il racconto della storia dell’interruzione del digiuno di Rsabha rappresentano la sostanza del “terzo dell’imperituro” e in questa occasione coloro che hanno portato a termine una serie di digiuni nel corso dell’anno ricevono della canna da zucchero. Gli shvetambara ritengono che il luogo più adeguato per la celebrazione di questa festività sia il monte Shatrunjaya, la cui dea tutelare è Cakreshvari, la sostenitrice di tutte le donne che digiunano e la divinità servitrice di Rsabha, cui è dedicato il tempio principale della montagna. Molti, tuttavia, considerano che Hastinapura (Città degli elefanti), la scena leggendaria del dono al primo tirthankara che si trova a nord di Delhi, sia il luogo appropriato per le cerimonie che si svolgono durante il Terzo dell’imperituro e lì nel 1978 venne consacrato un tempio dell’interruzione del digiuno (paranamandir) con immagini di Rsabha a grandezza naturale.

2 Nel corso dei secoli sia shvetambara sia digambara (i quali abbandonarono, almeno in pubblico, la nudità) si divisero in diocesi, chiamate gaccha per i primi, sangha per i secondi, spesso in aspra polemica per una diversa valutazione di usi e costumi ritenuti degenerati o incompatibili con la tradizione, specialmente per quanto riguarda il progressivo abbandono della vita errabonda da parte dei monaci e il loro stabilirsi in centri residenziali in prossimità dei templi.

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della mano destra e fermato col pollice e l’indice. Sarà un caso, ma sono quasi tutte giovani e belle. E restano belle anche le più anziane. Qualunque sia la cura che facciano, il risultato è ottimo.1

1 Un’iscrizione a Shravana Belgola (India meridionale) descrive la divisione che il maestro

Arhabdali, temendo le varie discordie che sarebbero potute sorgere come risultato dell’influenza del Kaliyuga, la corrotta Età del Mondo in cui viviamo, divise il Mula Sangha (assemblea radice) in quattro sezioni chiamate Sena, Deva, Simha e Nandi. Nel secolo XVI, l’autore Indranandi offrì una versione più estesa di questa storia, facendo riferimento a una maggiore varietà di suddivisioni della comunità, con l’obbligo per ogni monaco di incorporare nel proprio nome la designazione della divisione settaria cui apparteneva. La datazione digambara tradizionale considera Arhadbali il ventinovesimo maestro nella successione che parte dal discepolo di Mahavira, Gautama, collocandolo così all’inizio dell’era comune, sebbene i resoconti delle sue attività potrebbero suggerire un tentativo posteriore di spiegare una situazione contemporanea di scissione all’interno della comunità ascetica. Qualunque sia la verità contenuta in questa storia, questa non può fare giustizia alla complessità dell’organizzazione ascetica digambara nel medioevo in cui una pletora di comunità e sottogruppi, molti dei quali oscuri al giorno d’oggi, emergevano sulla base di associazioni precettoriali e di connessioni geografiche con regioni e città particolari. Un esempio rappresentativo di questa situazione è il monaco del secolo XIII Ramacandra Maladharideva il cui titolo completo conteneva connessioni a non meno di sei lignaggi separati. Furono i monaci del Mula Sangha a esercitare l’influenza dominante e di più lunga durata sulla comunità ascetica digambara. La tradizione digambara considera il Mula Sangha come una sorta di sostituto del Nirgrantha Sampradaya (il “lignaggio senza legami”), una linea, presumibilmente antica e incontaminata, di discendenza da Mahavira. Le prime allusioni a riguardo segnalano una consapevolezza della separazione crescente tra i monaci nudi e i monaci bianco-vestiti, e sono databili verosimilmente attorno alla fine del IV secolo. I riferimenti shvetambara alla comparsa di un “lignaggio di abitatori delle foreste” al comando del maestro Samantabhadra, confermano l’esistenza di una comunità ascetica particolarmente austera che divenne infine conosciuta come digambara. Fin dal secolo V o VI circa abbondano nelle iscrizioni i riferimenti al Mula Sangha e ai suoi monaci anziani, e il suo nome ricorre a Shravana Belgola fino al secolo XIX, sebbene un’affermazione di tale affiliazione settaria fin da allora deve essere stata di poco conto. Secondo Shrutasagara, uno scrittore del secolo XVI, il Mula Sangha era chiamato così poiché era la base (mula) del cammino per la liberazione e coloro che non ne facevano parte erano solo degli pseudo-jaina. Tuttavia, erano comuni nel jainismo le pretese di rappresentare la vera discendenza lineare dai maestri antichi ed è difficile evitare la conclusione che il Mula Sangha divenne gradualmente poco più di una designazione, prestigiosa ma artificiale, che portava l’aroma di un’ortodossia da tempo irraggiungibile. Sono frequenti nelle iscrizioni medioevali gli accenni ai vari raggruppamenti ascetici digambara considerati devianti dai monaci che rivendicavano l’affiliazione al Mula Sangha. La principale fonte testuale continua su queste comunità è una breve opera di Devasena (scritta verosimilmente all’inizio del X secolo) che difende la centralità del Mula Sangha come l’unica comunità jaina legittima e descrive una galleria di furfanti, di eretici, tra cui il Buddha - presentato come un seguace apostata di Parshva -, gli shvetambara e gli yapaniya, il cui comportamento era per lui inaccettabile. Tuttavia, Devasena si scaglia soprattutto contro le comunità digambara rivali. La prima di queste è il Dravida Sangha, l’assemblea dravidica fondata da Vajranandi (morto nel 469) a Madurai, nel cuore del Tamil. Devasena accusa Vajranandi di sostenere una mollezza di condotta totale per quanto concerne il bagno e le prescrizioni alimentari. Si afferma, con veemenza ancora maggiore, che i suoi seguaci hanno abbandonato di fatto la questua errante e hanno adottato una vita sedentaria, arando la

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Arrivato al tempio di Rsabha - tutto scolpito all’esterno, con abbondanza di dee dai seni nudi e ben torniti e divinità del pantheon hindu e buddhista1 - ho preso visione del “giro dell’elefante”. Il perché di questo rituale si trova nel mito: si dice che la madre dell’Adhinata si recasse a visitare il figlio stando in groppa a un elefante. Oggi i fedeli ricordano quell’episodio seguendo un piccolo elefante d’argento montato su ruote e trainato in cerchio da un inserviente sull’apice della collina di Shatrunjaya, laddove l’Adinatha raggiunse il nirvana. Altri pellegrini, seduti in un carretto trainato da un cavallo d’argento - in realtà a tirare sono degli inservienti - si apprestano a fare lo stesso giro. Pratiche che sconfinano dai rituali canonici della religiosità e si riallacciano a superstizioni: gli animali, cavalcature di alcune divinità, assurgono a simbolo degli stessi dèi. Delle scale portano sul piatto tetto, dove vedo la servitù scaricare nel dirupo quintali di collane di fiori appena acquistate dai fedeli. Al riparo di cupole e padiglioni centinaia di tirthankara scolpiti nell’alabastro controllano ogni mio gesto. Sotto una grande cupola dal soffitto decorato vedo la statua d’oro di un Perfetto protetto da un cobra a sette teste. Malgrado il suo colore inganni, mi è tuttavia facile riconoscerlo: secondo la leggenda, Parshva salvò dal fuoco di un brahmano crudele un serpente e questo, in un’esistenza successiva, gli offrì la

terra e vendendone i prodotti. Il Kastha Sangha, che sembra aver preso il suo nome da un luogo, fu fondato, secondo Devasena, da Kumarasena alla fine del VII secolo. Tra i suoi presunti errori c’era l’abbandono della scopetta di piume di pavone, l’emblema classico degli asceti digambara, e la sostituzione con una fatta di peli di coda bovina. Si ritiene invece che il Mathura Sangha, l’assemblea appartenente a Mathura, fondato forse da Ramasena nel secolo II e.c., abbia sostenuto il totale abbandono della scopetta. Questi gruppi ascetici, tra cui il Mathura Sangha e il Dravida Sangha scomparvero in qualche momento del tardo periodo medioevale, erano ritenuti eretici da Devasena sulla base del rifiuto di aspetti del costume e della pratica, considerato il riflesso di un falso intendimento. Da parte loro, il Kastha Sangha e il Mathura Sangha dovevano ritenersi ultraortodossi, giacché il primo considerava che una scopetta di coda di mucca avrebbe ridotto al minimo la possibilità di nuocere alle forme di vita, dato che le piume di pavone sono più appiccicose e potevano raccogliere la polvere e i piccoli insetti, mentre il secondo si sentiva giustificato nel rifiuto della scopetta dal momento che i monaci non dovevano possedere nulla. Sembra che Devasena abbia avuto un terreno più solido nell’esprimere dubbi a riguardo della legittimità del Dravida Sangha, il quale pare sia stato un primo esempio della tendenza da parte di molti asceti a cedere all’inevitabilità del contatto con il laicato e alla vita sedentaria nei monasteri. (Paul Dundas, Il jainismo).

1 Spesso, accanto alle immagini dei tirthankara gli scultori hanno rappresentato Yaksa e Yaksini, i geni della foresta, sorta di semidèi legati al culto degli alberi. In totale, a Palitana sono presenti circa 7000 statue di divinità transitorie; queste appartengono al pantheon hindu e contano numerose figure femminili, sempre raffigurate come dedite all’ascesi, alla benevolenza e al vegetarianesimo, in stridente contrasto con le consorelle hindu.

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protezione del suo cappuccio contro la pioggia di pietre scagliategli da quello stesso prete.1 Guardando verso il basso, da qui è ben visibile la pavimentazione bianco-nera dell’intero cortile, un altro simbolismo poi ripreso nei rituali dell’Occidente cristiano.2

1 I serpenti (naga in hindi, klu in tibetano), custodi di fonti e di fiumi, sono una classe

numerosa dei sadàg, i protettori del suolo, che bisogna propiziare se non si vuole affidare la propria vita al loro arbitrio capriccioso.

2 Il simbolo massonico del “pavimento a mosaico” è fra quelli che spesso vengono intesi in modo inadeguato o mal interpretati; tale pavimento è formato da piastrelle bianche e nere, disposte esattamente allo stesso modo delle caselle della scacchiera. Aggiungeremo subito che il simbolismo è evidentemente lo stesso nei due casi, poiché, come abbiamo detto in varie occasioni, in origine i giochi sono tutt’altro che semplici divertimenti profani quali sono divenuti oggi, e d’altronde il gioco degli scacchi è certo uno fra quelli in cui le tracce del carattere ‘sacro’ originario sono rimaste più visibili malgrado questo processo di degenerazione. Nel senso più immediato, la giustapposizione del bianco e del nero rappresenta naturalmente la luce e le tenebre, il giorno e la notte, e quindi tutte le coppie di opposti o di complementari (è quasi inutile ricordare che quel che si trova in opposizione a un certo livello diventa complementare a un altro livello, di modo che gli si può applicare lo stesso simbolismo); si ha quindi, a tale riguardo, un esatto equivalente del simbolo estremorientale dello yin-yang. Si può anche osservare che l’interpenetrazione e l’inseparabilità dei due aspetti yin e yang, che vengono rappresentate dal fatto che le due metà della loro figura sono delimitate da una linea sinuosa, vengono rappresentate anche dalla disposizione a incastro dei due tipi di piastrelle, mentre una diversa disposizione, come ad esempio quella di strisce rettilinee alternativamente bianche e nere, non renderebbe altrettanto chiaramente la stessa idea e potrebbe anche far pensare piuttosto a una giustapposizione pura e semplice. Sarebbe inutile ripetere a questo proposito tutte le considerazioni già fatte altrove in merito allo yin-yang; ricorderemo solo in modo particolare che non si deve vedere in tale simbolismo, come nel riconoscimento delle dualità cosmiche di cui è l’espressione, l’affermazione di alcun dualismo poiché se queste dualità esistono realmente nel loro ordine, i loro termini sono nondimeno derivati dall’unità di un medesimo principio (il Tai-Ki della tradizione estremorientale). È questo infatti uno dei punti più importanti, giacché è soprattutto quello che dà luogo a false interpretazioni; taluni hanno creduto di poter parlare di dualismo a proposito dello yin-yang, probabilmente per incomprensione, ma forse a volte anche con intenzioni di carattere più o meno sospetto; in ogni caso, per quanto riguarda il pavimento a mosaico, una simile interpretazione è il più delle volte dovuta ad avversari della massoneria, che vorrebbero fondare su di essa un’accusa di manicheismo. È senz’altro possibile che certi dualisti abbiano distorto il vero senso di questo simbolismo per interpretarlo conformemente alle proprie dottrine, così come hanno potuto alterare per la stessa ragione i simboli che esprimono un’unità e un’immutabilità per loro inconcepibili; ma queste sono in ogni caso soltanto deviazioni eterodosse che non toccano in nulla il simbolismo nella sua essenza e quando ci si pone dal punto di vista propriamente iniziatico non è certo il caso di esaminare simili deviazioni. Ora, oltre al significato di cui abbiamo parlato fin qui, ce n’è un altro di un ordine più profondo, che risulta immediatamente dal duplice senso del colore nero, da noi spiegato in altre occasioni; abbiamo ora considerato soltanto il suo senso inferiore e cosmologico, ma bisogna anche considerarne il senso superiore e metafisico. Se ne trova un esempio particolarmente chiaro nella tradizione hindu, in cui l’iniziato deve sedersi su una pelle dai peli neri e bianchi, che simboleggiano rispettivamente il non-manifestato e il manifestato; il fatto che si tratti di un rito

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Al vertice della sikhara principale vi è il piccolo e oscuro garbhagrha, che vedo frequentato solo da monaci e monache. Si tratta di due stretti corridoi che

essenzialmente iniziatico giustifica sufficientemente l’accostamento con il caso del pavimento a mosaico e l’esplicita attribuzione dello stesso significato a quest’ultimo, anche se, allo stato attuale delle cose, questo significato è stato completamente dimenticato. Vi si ritrova dunque un simbolismo equivalente a quello di Arjuna, il bianco e di Krishna, il nero che sono, nell’essere stesso, il mortale e l’immortale, l’io e il Sé; e poiché essi sono anche i due uccelli inseparabilmente uniti di cui si parla nelle Upanishad, ciò evoca un altro simbolo ancora, quello dell’aquila bianca e nera a due teste che figura in certi alti gradi massonici, nuovo esempio che, dopo tanti altri, mostra una volta di più che il linguaggio simbolico ha un carattere veramente universale. A un altro livello questi due colori rappresentano anche il Cielo e la Terra, ma bisogna fare attenzione al fatto che, in ragione della corrispondenza di questi con il non-manifestato e il manifestato, è allora il nero che si riferisce al cielo e il bianco alla terra, di modo che le relazioni esistenti nel caso dello yin-yang si trovano invertite; del resto è solo un’applicazione del senso inverso dell’analogia. L’iniziato deve toccare il punto di congiunzione dei peli neri e bianchi, unendo cosi i principi complementari da cui sta per nascere in quanto Figlio del Cielo e della Terra. (René Guénon: Simboli della Scienza sacra, Adelphi, 1984).

Metamorfosi. Forse il pensiero celtico è quello che più di tutti ha legato questa caratteristica agli esseri dell’Altro Mondo. Metamorfosi in quanto trasformazione di stato e di livello. Ciò si potrebbe spiegare con la storia delle pecore nere e bianche. All’interno di una vallata, divisa in due da un fiume, vi sono due greggi di pecore, un gregge è tutto nero e l’altro tutto bianco. Ogniqualvolta una pecora bianca bela, una nera passa dall’altra parte e diventa bianca, e viceversa. La metamorfosi è dunque il tratto essenziale dell’unità. Di fatto la religione dei Celti è una religione strettamente monoteista, come quella indiana, dal momento che gli innumerevoli dèi altro non sono che infinite facce di uno stesso principio divino, il quale si manifesta attraverso infinite metamorfosi, come gli innumerevoli aspetti della realtà altro non sono che schegge metamorfizzate di un’unità (J.A. MacCulloch, La religione degli antichi Celti, Neri Pozza, 1998).

Lo sciamanesimo bonpo, ordinato in tempo non ancora bene accertato da un maestro la cui personalità è stata offuscata dalla leggenda ma sulla cui realtà storica non mi pare si possano aver dubbi, nel darsi una sistemazione organica da opporre al buddhismo trionfante, fu costretto ad attingere largamente non solo dal buddhismo ma dalle altre religioni diffuse nei paesi confinanti. Ne abbiamo una riprova non in questa dicotomia [del bianco e del nero] cui sopra accennavo che corrisponde ad una concezione fondamentale dello sciamanesimo, ma in una sua elaborazione teorica sulla quale, quasi certamente, influiscono idee di origine iranica trapiantatesi su quella primitiva concezione sciamanica; ne fanno documento la terminologia, soprattutto l’accentuazione del carattere luminoso del padre buono. All’origine delle cose, dicono alcuni libri che i bonpo considerano autorevolissimi, c’era un principio indistinto, potenzialità inerte degli elementi, dal quale per generazione spontanea derivano due uova, l’uno bianco e l’altro nero. Dall’uovo bianco nasce il padre benefattore; da quello nero, il padre malefico: il primo è nella luce, il secondo nella tenebra che si spinge fino a toccare il limite della luce: il primo è bianco ed il secondo è nero ed armato di lancia. Il primo, il padre beneficiente, è chiamato il re dell’esistenza positiva, il secondo il re dell’esistenza negativa. Il primo è luce ed è perciò chiamato la manifestazione luminosa, o semplicemente il luminoso, ma è anche chiamato il trono, il re, il richiamo: nel qual caso, per l’ultimo epiteto, si potrebbe pensare al manicheo akrostag. Il secondo è tenebra, ed è chiamato la sofferenza nera. Tutto il bene, la buona creazione deriva dal primo, la cattiva creazione dal secondo: questi produce la morte ed i demoni maligni, quello insegna come vincere le potenze infauste.” (Giuseppe Tucci, La regalità sacra nell’antico Tibet, 1956).

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s’intersecano a croce. In centro vi sono quattro immagini di Adhinata rivolte ai punti cardinali, con a lato le riproduzione degli altri tirthankara. In questo ambiente semibuio - retaggio delle primitive grotte, come lo è la cripta delle chiese cristiane1 - monaci bianco vestiti sostano davanti ad ogni statua, ungono con l’anulare il tika - il terzo occhio, quello dell’onniscienza - e depongono rose profumatissime. Resto fermo in un angolo, seduto per terra, ad assaporare ogni istante di questa visione.2 Preceduta da un leggero fruscìo di vesti vedo entrare una giovane sadhvi. Nel chiaroscuro noto i suoi denti bianchissimi e lo sguardo dolce (se non conoscessi l’India, direi languido). Dopo aver portato a termine il suo parikrama, uscendo mi si ferma davanti e regalandomi un sorriso da pubblicità sussurra: “I bless you (ti benedico)”. Spontaneo, per la testa mi passa un pensiero non proprio religioso e mentre cerco delle parole adatte per la risposta lei s’allontana col suo passo da gazzella, un’altra caratteristica di queste monache camminatrici. Essendo in casa sua, subito Adhinata mi lancia un ammonimento: qui le porte sono basse ed alzandomi la mia testa “sente” il soffitto. Non mi sono fatto male, ma dovevo stare più accorto: quando si ha a che fare con un Perfetto, più che il corpo si deve controllare la mente.3

1 Nell’Occidente cristiano, il culto nelle grotte - o santuari rupestri - ci ha lasciato pregevoli

esempi in Cappadocia. Dando molto spazio alle figure di Cristo Pantocratore e della Vergine, l’arte monastica di questi santuari ha contribuito - nei secoli IX-X - a rinnovare l’arte bizantina.

2 Il culto si celebra nei templi, dapprima scavati nella roccia a imitazione delle grotte in cui dimoravano gli asceti, quindi eretti in strutture dapprima lignee e poi marmoree, spesso di proporzioni grandiose e di raffinatezza preziosa. Di fronte alle immagini dei tirthankara, che sono distinguibili soltanto per l’animale o il simbolo che li accompagna, il fedele, vestito di una veste priva di cuciture, procede alla circumambulazione, poi al bagno e alla lustrazione delle membra della statua con vari tipi di sostanze, quindi procede all’offerta di primizie, all’arsione di incenso, al canto di inni, alla recitazione di formule sacre e all’oscillazione di luci. Tra questi atti, apprezzabili anche perché durante il loro svolgimento i sensi sono domati e il pensiero si eleva, sono interpretabili simbolicamente. Così l’offerta di cibo significa rinuncia allo stesso, la venerazione prestata a un’immagine antropomorfa implica il riconoscimento della divinità della condizione umana, l’oscillazione di luci (che pure è in contrasto con il principio dell’ahimsa, poiché rischia di ledere lo spirito dell’anima) ricorda la luce della conoscenza, che soltanto da Mahavira proviene.

3 Al momento dell’iniziazione i monaci jaina pronunciano cinque grandi voti: non nuocere ad alcun essere vivente, non mentire, non rubare, castità, rinuncia a ogni possesso. Da quel momento non possono possedere altro che una veste, una ciotola per la raccolta del cibo (entrambe negate dai digambara), un filtro per l’acqua, una pezzuola per la bocca (per impedire l’ingestione involontaria di qualche creatura microscopica o inquinare lo spirito dell’aria), un bastone da viandante, un piumino per liberare la strada da qualsiasi creatura e talvolta un libro che simboleggia il maestro assente. S’impone un assoluto vegetarianesimo, il rispetto per animali anche vecchi e malati, s’esclude il consumo di tuberi, di frutti ricchi di semi o acerbi, di cipolle, di aglio, considerati sede di molte anime (ma aglio e cipolla sono anche afrodisiaci) e di miele.

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Mi sono preso tutto il tempo che ho voluto, girando da un tempio all’altro. Strano ma vero, sono riuscito a suscitare le ire di tre bigotti: nel gioco dei grandi numeri una certa percentuale è sempre da mettere in conto, e a me riesce sempre il numero più alto. Uno mi ha contestato di avere poco rispetto per la sacralità del luogo in quanto dalla mia borsa usciva il collo di una bottiglia di acqua minerale, proibita all’interno dei templi. Una cavolata, visto che i pujari spandono acqua “santa” su tutti i richiedenti, e che un po’ ovunque mi è possibile vedere fedeli che travasano di ampolla in ampolla (un rito di purificazione collettiva) l’acqua con cui poi aspergeranno i Perfetti. Il secondo ha dichiarato che avrebbe immediatamente riferito ai poliziotti che io, con la scusa di fotografare le opere d’arte, in realtà potevo anche riprendere i fedeli; il solito processo alle intenzioni, tipico dell’imbecille che vuol essere più realista del re. La terza, una donna, mi ha diffidato dall’avvicinarmi alle statue dei Perfetti, privilegio, a suo dire, riservato ai soli umani di comprovata fede. “Come si misura la fede?” chiedo. Segue uno sprezzante silenzio.1 In un angolo vi è un albero dipinto di giallo e dai suoi rami pendono stoffe multicolori. I fedeli dapprima s’inchinano poi vi girano attorno, gratificando la Yakshini che abita quel tronco. Davanti vi sono alcuni tavolini azzurri o verde-rossi, utilizzati per tracciare con il riso che non può più germogliare figurazioni magiche, quali lo swastika, da distruggere subito dopo averli terminate. Un esercizio che abitua alla precarietà terrena. All’uscita del cortile del tempio principale vedo due sadhu che spruzzano acqua sulla testa e sulla faccia di un malconcio vecchietto, incapace di reggersi in piedi da solo. Imparo che ha 62 anni, solo tre più di me. Mi fermo per cercare di capire. I sorridenti e floridi sadhu mi raccontano che l’uomo ha fatto voto di non bere per almeno 48 ore consecutive, e questo perché anche nell’acqua vi sono forme microscopiche di vita e lui intende purificarsi dal “peccato” della loro ingestione. Dico ai sadhu che personalmente trovo in questo zelo puzza d’ignoranza. Dovrebbe essere ben chiaro che se un dio ci ha creati così come siamo - quindi bisognosi di cibo e acqua - non possiamo essere noi i colpevoli dell’uccisione dei microbi. Per tutta risposta uno dei sadhu parte con una tiritera sul valore dell’ahimsa (non-violenza), sullo spiritualità che ci eleva, sulla necessità umana di mettersi periodicamente alla prova offrendo al dio di turno il nostro dolore fisico.

Alcolici e attività sessuale sono da evitarsi in quanto alla fermentazione e nel coito si distruggono troppi esseri animali.

1 Il jainismo è una religione senza dèi onnipotenti o creatori. I tirthankara non sono ritenuti i creatori del mondo, che per i jaina è increato ed eterno, e quindi nessuno è in grado di indicare ad altri la strada della purificazione: ognuno può trovarla solo in se stesso: “Il complesso di retta fede, retta conoscenza e retta condotta costituisce la via della liberazione” (Tattvarthasutra I, 1).

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Mentre il cordiale dialogo è in corso, due eleganti signore si fermano ad ascoltare i diversi pareri. Inizio a scendere e loro decidono di farmi compagnia. Apprendo che sono originarie di Mumbay ma sposate in USA, dove abitano a Cleveland. Fin da subito una delle due riprende il sermone iniziato dal sadhu, raccontandomi di quanto faccia bene allo spirito frequentare i luoghi di fede, della purificante fatica necessaria per salire i monti sacri e tant’altro. Sembra una predicatrice da televisione americana, ora tanto di moda anche sui canali satellitari dell’India. Smetto presto di ascoltarla e concentro la mia attenzione sulla luminosa superficie del golfo di Khambhat e sui granitici picchi di Sihor. Ogni tanto dico di sì e lei si accontenta. Ad un certo momento, l’indo-statunitense estrae dal cilindro una discutibile affermazione: “Camminando al tuo fianco sento che sei una persona speciale perché emani good vibrations”. Ho subito pensato ad una canzonetta in voga negli anni Sessanta. Poche decine di metri più sotto, al termine della rampa che stiamo percorrendo, a sinistra vi è il tempietto di Devi Mata, qui detta Ambika Devi. L’americana riprende il concione, io rallento il passo fino a fermarmi davanti alla rossa immagine di Matadevi. Madame good-vibrations neppure se ne accorge e continuando a parlare svolta il tornante, uscendo di vista. Per maggior sicurezza mi concedo una lunga pausa, necessaria anche a far riposare i piedi nudi. Prudenza non è mai troppa. Quasi alla fine della discesa un poliziotto distribuisce rossi foglietti a chi ne fa richiesta. Mi informo e mi ritrovo tra le mani un buono pasto gratuito, da consumare in un apposito locale ai piedi della collina. Ottimo e abbondante, con the a volontà. Pochi metri più sotto altri due uomini aspettano i fedeli che scendono. Il pujari mi segna la fronte col segno rosso della tilaka, l’altro mi regala due lucide monete da una rupia, il simbolico compenso per essere salito alla presenza del divino. Da buon italiano, mi rimetto in coda per avere altre rupie; tutti capiscono lo scherzo e ci mettiamo a ridere. Dopo tanto shvetambara, adesso vorrei incontrare i digambara, l’altra delle due principali comunità jaina, originalmente caratterizzata dalla nudità, che si distingue dalla shvetambara per un rigoroso ascetismo. Alcuni anni fa ho visitato un loro tempio nel Kerala, ma di giovani sadhvi vestite di cielo neppure l’ombra. Ma la speranza è sempre l’ultima a morire.1

1 In India la nudità è sempre stata una prerogativa dell’asceta. Secondo la minoranza

digambara solo rinunciando anche agli abiti si raggiunge la purificazione. Ansioso di raggiungerla, l’asceta si sente ostacolato dalla concretezza del proprio corpo per cui indossare una veste, come fanno gli shvetambara, significherebbe riconoscere il “peso” della condizione umana. Essendo vietata la nudità alle donne, esse non possono raggiungere la salvezza. Il monaco digambara non entra mai nelle città: glielo vieta il suo essere “vestito di cielo”. Sia i musulmani sia gli inglesi bandirono infatti la nudità e anche dopo l’indipendenza le cose non sono cambiate.

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12 GENNAIO, Junagadh. Giornata di transumanza sui carri bestiame chiamati State bus. Ieri sera, dopo il solito riso, daal e sweet lassì, sono uscito per una passeggiata, tanto per tirare un’ora decente per andare a dormire. Ho dovuto rientrare perché il leggero venticello che mi ha sempre accompagnato era cessato, e l’odore dei gas di scarico offriva momenti da Mauthausen. Qui la quantità di moto Honda e di motorisciò ha raggiunto numeri spaventosi. Se poi si pensa alla Cina, ai paesi ex Urss, al Sud e Centro America e all’Africa, appare evidente quale mondo consegneremo alle prossime generazioni. Ho letto che nella sola città di Ahmedabad il numero dei motorisciò cresce al ritmo di 60 mila unità all’anno. E se si pensa che quando hanno percorso 500 mila chilometri qui ritengono che siano ancora nuovi e in garanzia ... Il mio albergo è proprio di fronte alla Bus Station; il bus per Rajkot, altra località legata alla vita di Gandhi, parte alle 6:00. Chiedo la sveglia per le 5:30. Alle 5:00 qualcuno picchia forte i pugni sulla mia porta e urla parole incomprensibili. È la sveglia elettronica che è entrata in funzione. Alle 5:35 sono sul bus. Alle 5:46 il conducente accende il motore e due minuti dopo parte. Chiedo al mio vicino che ora è, nel dubbio. Lui capisce e mi dice che molti autisti non amano rispettare l’orario e partono quando ne hanno voglia. Il bello è che per Rajkot non ci sono corse ogni mezz’ora: la prossima è alle 13:30. Ho capito il motivo della sveglia anticipata. Dopo quasi 4 ore di tribolazione (ogni tot chilometri il motore si fermava e ripartire era sempre un terno al lotto), sono sbarcato nell’ex capitale. Senza il sollievo del vento, il sole picchia forte sulla cabeza: meglio camminare all’ombra. Gli hotel visitati offrono stanze che anche i porci potrebbero rifiutare (i prezzi, però, nobilitano il lerciume). Alla fine ho affittato per 180 rupie una discreta stanza alla Evergreen Guest House. Sono uscito nel traffico: una bolgia assurda. Si fa la gara a chi suona di più il clacson, agli incroci pare di essere in un film ambientato nel Vietnam. Unico momento d’umanità: un uomo sui trent’anni, con evidenti tare mentali, attraversa il caotico Sanganwa Chowk e mi viene incontro. In braccio tiene un cucciolo di cane. Mi chiede di essere fotografato col suo amico peloso. Lo faccio. Sorride e mi stringe la mano. Se ne va contento, continuando a girarsi per salutarmi. Bastasse sempre così poco vivremmo tutti decisamente meglio. Tra una merda squacchera e l’altra (non tutte vaccine) arrivo alla Kaba Gandhi no Delo, la casa costruita nel 1880-81 e da allora abitata dalla famiglia di Karamchand Gandhi.1 Qui, a circa 13 anni d’età (1882) Mohandas portò a vivere

1 Mohandas K. Gandhi aveva circa cinque anni quando il padre fu nominato primo ministro

del rana di Rajkot, ma la famiglia rimase a Porbandar per altri due anni prima di trasferirsi. A

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la giovane sposa che era stata scelta per lui: Kasturba, figlia di Gokuldas Makanji, un mercante di stoffe, granaglie e cotone che abitava poco distante da casa Gandhi a Porbandar, località dove si svolse il rito. In questa casa di Rajkot nel novembre 1885 morirà suo padre e sei anni dopo sua madre. Mohandas vi rimarrà fino al 10 agosto 1887, il giorno in cui lasciò la città per trasferirsi a Bombay, porto d’imbarco (4 settembre 1888) per il suo primo viaggio in Inghilterra. In seguito (1948) questa residenza è stata acquistata dal Governo del Saurashtra, che nel 1969 l’ha trasformata in Gandhi Smriti (Memoria) Trust. Un cortile precede l’abitazione. Al piano terra vi sono quattro locali a cui si accede da un lungo atrio davanti e da un lungo corridoio dietro. Le stanze abitate da Gandhi fanciullo e poi da sposo bambino sono al piano superiore, non visitabili. Nessun mobile ma le solite foto ai muri. In un angolo del cortile hanno ripiantato un albero di guava nello stesso punto dov’era quello su cui Mohandas s’arrampicava per gioco. Oltre alla Kaba Gandhi no Delo, l’unica cosa che può interessami a Rajkot è il Watson Museum, ma chiude tra meno di mezz’ora. Ritornato nel traffico non ho resistito: che ci faccio qui fino a domani, mi son detto. Mi informo: c’è un bus diretto per Junagadh alle 12:45, cioè tra 10 minuti. Dico all’autista di non fare scherzi e di aspettarmi. Salgo in camera, prendo lo zaino, saluto i ragazzi dell’albergo e me ne vado lasciando in regalo i soldi della camera, pagati in anticipo, come si usa da queste parti. Alle 15:45 sono a destinazione. Sceso dal bus, andando verso il centro città ho di fronte il monte Girnar, un altro grande complesso templare jaina. È un vulcano spento da salire su migliaia di gradini. Ci penserò domani. Junagadh è pure lei una città incasinatissima, ricca di vecchie costruzioni fatiscenti di ogni epoca e stile: incredibili palazzi musulmani con portoni a sesto acuto, minareti fioriti, case in stile inglese, palazzi decorati. Anche qui vi è un fiume: dal ponte - non è certo una novità - si vedono le capanne costruite vicino all’acqua ferma, stagnante e puzzolentissima (vi confluiscono tutte le fogne cittadine). Scoppiasse un’epidemia sarebbe una strage. Ma qui devono avere anticorpi grossi come le palle del biliardo. Ho saputo che sul Girnar, alle spalle dei templi jaina il sentiero prosegue sul crinale. Nel punto più lontano dovrebbe esserci un gruppo di Aghori, gli aderenti alla comunità estrema dello shivaismo che vive nutrendosi di cadaveri e come dessert non disdegnano gli escrementi altrui. De gustibus… 13 GENNAIO, Junagadh. Giornata memorabile. Inizio con una precisazione riguardo il report di ieri: dicendo che gli Aghori mangiano i cadaveri non ho poi

Rajkot Mohandas e i suoi fratelli frequentarono dapprima una scuola elementare locale e poi la Alfred High School, rovinata dal terremoto del 2001.

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fatto una grande rivelazione: non conosco nessun umano omnivoro che mangi animali vivi. Loro, invece usano mangiare qualsiasi tipo di carne (ma non il cavallo) e d’immondizia, escrementi inclusi. Giustificano queste pratiche dicendo che tutti i gusti e le inclinazioni naturali dell’uomo devono essere distrutti, che non esistono né bene né male, né cose sgradevoli né cose disgustose. Come gli escrementi umani fertilizzano un suolo sterile, così l’assimilazione di ogni tipo di sudiciume fertilizza il corpo e rende lo spirito capace di ogni tipo di meditazione. Credono che se un essere umano, grazie all’ascetismo yogico utilizzato per scollegare il cervello e privare il corpo da dolori ed emozioni, riesce ad accettare simili ripugnanze, il loka è assicurato.1 Non fosse per l’attività sessuale, che loro rifiutano, potrebbero essere (grossolanamente) assimilabili ai carpocraziani del primitivo cristianesimo. Ma veniamo all’orsù dunque. Sono cinque i sacri monti che ogni jaina deve salire almeno una volta nella vita. Uno di questi è il Girnar, un tempo chiamato Raivata o Ujjayanta, quello dedicato a Nemi, il mitico ventiduesimo tirthankara che qui avrebbe raggiunto il nirvana. È un vulcano spento, circondato da una serie di verticali picchi prodotti dall’erosione, vagamente rassomiglianti ai puy francesi. Da Junagadh dista una dozzina di chilometri, ma la strada non manca d’interessi. Si esce dalla porta di Vagheshvari, si passa accanto all’omonimo tempio e si prosegue verso la pietra di Ashoka, un blocco di granito rotondo, su tre settori del quale sono visibili delle iscrizioni, una per settore: il primo riporta un editto dell’imperatore Ashoka (250 a.e.c. circa), il secondo è un’iscrizione di Rudradaman della dinastia dei Kshatrapa (150 a.e.c. circa), il terzo è un’iscrizione di Skandagupta (454 e.c.). Continuando a salire si arriva al fiume Sonarekha, oltre il quale si incontra un gruppo di templi con numerose figure di asceti completamente nudi. Poco più avanti si trova un vecchio pozzo e il portale d’accesso al sentiero lastricato di granito, l’inizio della salita. Sono le 7:15 quando approccio il primo dei gradini che s’inerpicano sul crinale occidentale del Girnar.2 Il sole comincia a rischiarare il cielo e la sagoma del

1 Siamo di fronte a fatti auto-ipnotici volutamente provocati non solo con la concentrazione

del pensiero, chiamando a raccolta tutte le forze nelle credenze avite e inconfutabili, ma ponendo in azione quel controllo del respiro che è la chiave di volta di tutto lo yoga e il cui esercizio ha la capacità di sconvolgere molte certezze della nostra fisiologia. (Giuseppe Tucci, Dell’arte di far resuscitare i morti, 1951).

2 Alto circa 1100 m e circondato da colli un po’ più bassi, il Girnar era un tempo chiamato Raivata o Ujjayanta. Monte sacro dei jaina, che l’hanno dedicato al ventiduesimo tirthankara (Nemi), è raggiungibile da Junagadh; si esce dalla porta di Vagheshvari, si passa accanto al tempio di Vagheshvari e si prosegue verso la cosiddetta pietra di Ashoka, un blocco di granito rotondo (6x9 m), su tre settori del quale sono visibili delle iscrizioni, una per settore: il primo riporta i quattordici editti dell’imperatore Ashoka (databile al 250 a.e.c. circa), il secondo è un’iscrizione di Rudradaman della dinastia dei Kshatrapa (150 a.e.c. circa), il terzo è un’iscrizione di Skandagupta (454 e.c.). Continuando a salire si arriva al fiume Sonarekha, oltre il quale si incontra

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monte assicura ombra per tutta la salita. I primi gradini sono numerati a cinque a cinque, poi ogni cinquanta, infine ogni cento. Sull’itinerario si trovano numerosi chioschi che vendono santini e bastoni, ma anche acqua minerale, Fanta, Coca, Pepsi, latte aromatizzato in bottiglia, latte cagliato (lassì), spremute di canna da zucchero e biscotti. Tra i gradini 1550 e 1750 vado in crisi (mi ostino a voler partire senza aver fatto colazione), ma sono determinato a non mollare. Alle 8 e 10 mi siedo accanto al chiosco del gradino 2000, dove compero un pacchetto di biscotti e persino - udite, udite - una Coca Cola. Ritengo che un po’ di droga a quest’ora ci possa anche stare. Coca sì, coca no, stà di fatto che la crisi è presto superata e riprendo a macinare salita. Alle 8 e 25 sono al gradino 2300, tra i muri di una prima serie di templi. Monaci in zafferano,1 brahmani in vesti bianche e i loro pujari sono tutti in fibrillazione: oggi stanno salendo a dir poco mille persone e quindi - per dirla all’indiana - c’è “latte che cola dal cielo” per tutti. Ovunque trovo sassi dipinti di rosso e tempietti rurali, tutti con in primo piano una capiente donation box per raccogliere il “latte”. Da quel che posso vedere, oggi i salitori abbondano in generosità e le banconote (sorry, il latte) passano velocemente di tasca. Mi appoggio al muretto per un breve riposo: di fronte ho il Datar, il promontorio su cui è stata costruita una moschea. Più in alto vi è il rifugio in pietra del Bhairava Japa, “l’orrido precipizio” di 300 metri dove numerose persone hanno offerto la loro vita al divino gettandosi nel vuoto. Oggi nessuno lo fa più, confermando che si vive in tempi di scarsa fede. I successivi gradini affrontano il poderoso contrafforte di roccia terminale, impennandosi ancor di più (sembrava impossibile!). Dal gradino 3300 vedo per la prima volta un muro del tempio jaina. Al Deva Kota, il portale che immette

un gruppo di templi con numerose figure di asceti completamente nudi: tra i santuari spicca il tempio di Bhavanatha dedicato a Shiva. Nei pressi si trova un vecchio pozzo dietro il quale il sentiero lastricato di granito comincia a inerpicarsi; da lì si può anche osservare il monte che termina in un ripido banco roccioso su cui si ergono i templi. Luoghi dove riposare sono ubicati ad altitudini diverse; dopo l’ultimo di questi siti, il sentiero si restringe e corre lungo una ripida parete rocciosa alta non meno di 60 metri. Il luogo è sacro dal III secolo a.e.c. mentre i sedici templi jaina sono stati costruiti tra il 1128 e il 1500.

1 In India il colore del lutto è lo zafferano, come d’altronde nel mondo celtico. “La pratica assai diffusa di cospargere di ocra rossa adepti o persone è un simbolo di rinascita. Nelle tombe dell’alto paleolitico le ossa dei morti sono cosparse di ocra rossa” (F.C. Hawkes, The Prehistoric Foundations of Europe, p. 38). Il colore zafferano o ocra è il colore sacro di Shiva. Quando non sono nudi, i monaci shivaiti portano vesti color zafferano. Questa pratica verrà ripresa dai monaci buddhisti. Anche a Dioniso si attribuisce una veste color zafferano. Quando presso i cristiani il nero divenne il colore del lutto, i sacerdoti vestirono di nero perché, dal punto di vista del mondo, sono dei morti-vivi.

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nel recinto dei templi jaina, arrivo alle 9 in punto. I primi 900 metri di dislivello sono superati. Una decina di metri in piano ed eccomi all’ingresso del tempio di Nemi, terminato nell’anno domini 1128. La sua struttura si compone di un cortile rettangolare circondato da un colonnato con settanta nicchie e altrettante statue di marmo. Il tempio vero e proprio è formato da due sale con pilastri. Una cupola sostenuta da ventiquattro colonne in marmo bianco sovrasta la navata che contiene quindici statue e due piattaforme calcaree ricoperte di impronte del tirthankara e dei suoi discepoli. Nel centro vi è la grande immagine nera di Nemi, ricoperta d’oro e pietre preziose. Nella penombra, i suoi occhi a mandorla circondati da lastrine metalliche catalizzano l’attenzione.1 Su questo ripiano roccioso si trovano in tutto sedici strutture jaina. Maestoso è il triplice tempio fatto erigere dai ministri Tejapala e Vastupala nel 1177, splendido esempio dello stile che caratterizza la dinastia Solanki.2 Nel suo tempietto centrale si è una statua di Malli, nei due laterali quelle di Maru e dell’asceta Parshva: i lobi delle sue orecchie scendono ad appoggiarsi sulle spalle, la piccola bocca ha un accenno di sorriso, come sempre nella scultura jaina il viso è largo, i piedi ricoperti da lastre d’argento. Altri templi sono dedicati a Panchabai (è il più recente), a Parshva (ben due), a Kumarapala, a Malli (1231) - l’unica donna tirthankara, secondo gli shvetambara3 - a Samprati Raja (un

1 La grande cupola con mosaici ricopre un tempio molto più antico, la cui copertura originaria

era stata danneggiata. 2 Clan Rajput, probabilmente della stessa famiglia dei Chaulukya di Vatapi che si stabilirono

a Anhilvara dopo la scomparsa dei Chapa (974 circa). I loro sovrani, essenzialmente di fede jaina, regnarono sul Gujarat (e per un certo periodo anche su Malwa e parte del Rajasthan) fin verso il 1200. La genealogia tradizionale inizia col fondatore Mularaja I (circa 974-995) e finisce con Bhimadeva II Abhinavasiddharaja (1199-1238 o 1241). Nell’ambito artistico, hanno legato il loro nome ai famosi templi del Monte Abu, fatti edificare da un ministro - un certo Vastupala - del sovrano Chaulukya Viradhavala. Il Tempio del Sole di Modhera, sebbene in rovina, è uno dei templi più belli del Gujarat del tempo dei Chaulukya (Solanki) e risale al 1026-27.

3 Bellissima, Malli mandava in estasi gli uomini tanto che ben sei principi aspiravano ardentemente alla sua mano, benché essa rifiutava di vederli. Per vendetta, i sei innamorati dichiarono guerra a suo padre. Non sopportando la disperazione del genitore, Malli acconsentì di incontrarli e pregò il padre di inviare loro degli emissari. I principi si precipitarono, ciascuno convinto di essere il prescelto. Il padre di Malli ospitò gli aspiranti in sei camere dalle quali potevano ammirare una statua della bella principessa. Il giorno dopo, mentre tutti erano in estasi davanti alla sublime bellezza della scultura, sopraggiunse Malli. Essa tolse i fiori di loto che ricoprivano la statua e immediatamente un insopportabile fetore appestò l’aria, costringendo i principi ad allontanarsi. Allora Malli si rivolse loro dicendo: “Signori, all’interno della statua ho collocato ogni giorno degli alimenti, potete ora constatare cosa sono diventati. Anche il mio corpo è fatto così: bile, sangue, urina, pus, feci; la decomposizione è insita nella mia stessa essenza. O prediletti degli dèi, non abbandonatevi alla gioia; non fatevi dominare dal desiderio, da un eccessivo senso del possesso”. Convinti da queste parole, i principi abbandonarono i loro regni e abbracciarono l’ascetismo. Malli, sublime nella sua purezza, raggiunse quel giorno stesso

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secondo, del 1453) e a Melak Basahi (XV secolo), questi ultimi due con stupendi tetti traforati. Poco discosto vi è il Bhima kundh, grande bacino (21x15 m) di raccolta delle acque. Alla vetta mancano ancora 200 metri di dislivello, quindi devo riprendere a salire. Voltandomi, i sedici templi jaina si mostrano nel loro insieme - con le loro bianche cupole arricchite dei decori tipici dei Solanki - circondate da strutture in pietra scura tutte pizzi e merletti. Una vera goduria. Alle 9 e 50 sono all’altezza del gradino 4862, l’ultimo. La vetta del Girnar è raggiunta. Subito a sinistra vi è l’antico tempio di Amba Mata,1 quello dove gli sposini della casta dei brahmani devono recarsi in pellegrinaggio per assicurare felicità al loro matrimonio. Ci entro anch’io. Un pujari grasso come un bue sgrida a voce alta i fedeli che dopo aver fatto visita alla Dea2 non sganciano i soldi, e per far capire quant’è la tangente consigliata mostra anche a me un vassoio con alcune banconote da 10 e 20 rupie, una giornata di lavoro per i contadini. Penso che sia per questa palese esosità che i fedeli pregano e poi glissano. Siccome non sono né un brahmano appena sposato né un pio seguace di qualsivoglia fede, esco lasciandolo urlare in pace.3

la salvezza. Benché sia donna, essa è raffigurata come tutti gli altri tirthankara, senza personali caratteristiche fisionomiche.

1 La primitiva Dea Madre si suddivideva in sette “sorelle”, poi inglobate nel brahmanesimo coi nomi di Vaisno Devi, Jvala Mukhi, Kangrevali Devi (o Vajreshwari), Cintapurni, Naina Devi, Mansa Devi e Camunda Devi; nel tempo, il loro numero è salito a nove con l’aggiunta di Shakumbhari e Kalika Devi. Restando ai nomi antichi, tra le sorelle di Amba Mata vi è Ravechi Mata, veneratissima dai Ràbari del Kachchh. Ancora una volta un’arcaica divinità è stata inglobata nel pantheon della religiosità vincente, trasformando una delle forme dell’arcaica vergine Dea Madre in una figura brahmanica. Infatti, nell’epopea del Mahabharata, Amba, Ambalika e Ambika appaiono quali nomi delle figlie del re di Kashi (Varanasi) costrette a sposare Vichitravirya; Ambalika diventa la madre di Pandu, Ambika di Dhritashtra. In seguito, Amba rinascerà come uomo (il guerriero Shikhandin) per vendicarsi di Bhisma; è questa duplice esperienza di donna e madre prima, di uomo e padre poi, a renderla tutrice della felicità matrimoniale. I nomi di Amba, Ambalika e Ambika, che significano “madre”, furono poi dati a Parvati, Uma, alla sorella di Rudra e a Durga.

2 Malgrado la sua remota origine, il brahmanesimo ha inglobato ogni Dea Madre nel suo pantheon divino. Oggi, il termine generico Dea è inteso come Sri o Laksmi, sposa di Visnu, sovrana della bellezza, della fortuna e del benessere.

3 La relazione tra digambara e shvetambara non deve essere sempre vista in termini puramente antagonistici. Vi sono, ad esempio, interessanti riferimenti medioevali a membri di entrambe le comunità che intraprendevano assieme interi pellegrinaggi, e, nelle aree in cui entrambi i gruppi jaina erano numerosi, le comunità riuscirono in genere a coesistere senza problemi, pur senza avere alcuna reale interazione sociale o religiosa. Tuttavia se si dovesse selezionare un’annosa causa di animosità settaria, bisognerebbe di certo prendere in considerazione le dispute sulla proprietà dei luoghi sacri. Il prototipo di questo genere di conflitto fu il tentativo degli shvetambara di scacciare i digambara dal monte Girnar, un luogo sacro al tirthankara Nemi, ove si suppone avvennero gli eventi principali della sua vita, palcoscenico

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Per la folla il viaggio d’andata finisce qui. Solo una sparuta minoranza affronta anche i pinnacoli Gorakhnatha e Gurudattaraya,1 svettanti in fila indiana dal costone orientale. A dir la verità vi sarebbe anche una quarta guglia denominata Kalika,2 ma nessun turista la prende in considerazione. Salire al Gorakhnatha significa innanzitutto affrontare una discesa e poi una ripidissima salita, cosa che faccio. La sua piccola vetta è coperta da modesti templi. Un sadhu arancio vestito gestisce il piccolo tempio dedicato allo yogarishi Gorakhnath3 nonché il vicino buco nella roccia, dipinto di rosso, dove le giovani donne si infilano carponi: il rito di fertilità noto come regresso in utero.

leggendario anche della redazione di una delle scritture digambara più venerate. Le fonti shvetambara medioevali descrivono la sconfitta dei digambara in un dibattito a opera del maestro Bappabhatti (secolo VIII circa) che portò alla ratifica finale di Girnar come luogo sacro shvetambara. Questo evento è segnalato ritualmente dalla vestizione delle immagini dei tirthankara nudi con gioielli ed emblemi di buon auspicio a rappresentare degli abiti, rendendoli così inadatti alla venerazione da parte dei digambara. In realtà, la verità del coinvolgimento di Bappabhatti e del dibattito stesso è dubbia e, dato che non vi è attestazione di alcuna iscrizione significativa che lo colleghi a Girnar (la prima iscrizione jaina su Girnar risale al X secolo), è assai verosimile che le agiografie medioevali che descrivono questo evento riflettano un periodo in cui gli shvetambara si stavano definitivamente stabilendo in Gujarat come comunità dominante. Quanto ai digambara, sulla base di un’antica associazione, questi considerano ancora il monte Girnar come uno dei loro maggiori luoghi sacri, e ricordano una tradizione interna alla comunità secondo cui un maestro del secolo XIV sconfisse gli shvetambara persuadendo un’immagine della dea Sarasvati a pronunciarsi in favore dell’appartenenza digambara del luogo sacro. Tuttavia, l’esiguità numerica dei digambara in Gujarat e l’associazione di fatto del monte Girnar con la comunità shvetambara garantiscono che quest’area non sia più centro di un reale conflitto settario. (Paul Dundas, Il jainismo).

1 Questo picco è anche noto coi nomi di Neminatha (Signore Nemi) e di Hogartuk (tuk = picco). Dattaraya e Dattatree sono deformazioni fonetiche di Dattatreya, “figlio di Atri”, dio composito detto anche Hari-Hara-Pitamaha. Rappresentato come una incarnazione della trimurti (triade) formata da Hari (Visnu), Hara (Shiva) e Pitamaha (Brahma), Dattatreya è un tentativo di unificare tre culti in uno. È raffigurato con l’aspetto di questi tre dèi, ciascuno con i suoi consueti attributi e cavalcature, oppure come un personaggio con tre teste, ciascuna delle quali rappresenta uno dei tre dèi, accompagnato da quattro cani, simbolo dei Veda, e, a volte, da un toro. Il culto di Dattatreya è piuttosto diffuso nel Karnataka e nel Maharashtra, dove va sotto il nome di Dattoba.

2 Kala non è un termine aryano, ma è un semplice prestito del sanscrito al dravidico comune, dove la radice kar- (anche kal-) ha il senso di nero.

3 Goraknath o Goraksha Yogi, il più famoso dei Natha che vissero nella zona nordoccidentale dell’India tra i secoli IX e XII. Una ricca mitologia si è sviluppata attorno alla sua figura e ai suoi seguaci per via delle pratiche poco ortodosse che seguivano, come la necrofilia e la zoofilia. Il culto, fiorito dopo il XII secolo, comprende molti elementi tratti dallo shivaismo, dal tantrismo e, in misura minore, dal buddhismo, nonché pratiche magiche e alchemiche. Gorakhnath è considerato il fondatore dell’ordine degli yogi Gorakhnathi o Kanphata (Orecchio spaccato), così chiamati perché durante la cerimonia d’iniziazione ai novizi veniva rescissa la cartilagine dell’orecchio per inserirvi un grande orecchino. Gli sono attribuiti il trattato sullo hatha yoga intitolato Goraksha-shataka (Cento versi di Goraksha) e parecchi versi in lingua punjabi;

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i suoi seguaci scrissero opere di magia, alchimia e occultismo. A Gorakhnath si attribuivano poteri magici, grazie ai quali resuscitava i morti e, una volta, fece crescere un baniano dal seme alla maturità nell’arco di poche ore *** Anche dopo essere diventato un siddha ci vuole tempo per progredire oltre. Dopo migliaia d’anni di austerità a un Siddha può essere permesso di incontrare un nath e imparare da lui. Se un siddha lavora veramente duro può perfino diventare un nath. I nath sono Aghori. Fanno sì che tutto il loro essere s’identifichi con il Signore Shiva anche nelle circostanze più difficili e allettanti. Il loro motto è Alak Niranjan. Alak significa a-laksha, “libero da attribuzione” o discriminazione. Nir-anjana significa “completamente pulito”, libero da qualsiasi colpa, macchia o difetto. Qual è quella cosa che è pura e indefinita? Il Brahman assoluto e imperituro. La maggior parte delle persone sarebbe terrorizzata nel vedere un nath nella sua vera forma, con le ciocche dei capelli intrecciate, le grandi pinze per il fuoco, le borse piene di cenere e gli occhi ardenti che non ammiccano. “Perciò tutti i sadhu nath che vanno in giro in questo modo in realtà lo fanno per imitare i veri nath, gli immortali?”. Si, ed ogni particolare del loro modo di abbigliarsi ha dietro un certo significato; non è casuale. I sadhu nath sono noti come Kanphatas (Orecchie con il buco) per i grossi orecchini che ricevono dai loro guru quando vengono iniziati. Gli orecchini rimangono finché il sadhu vive e la regola era che se si rompeva un orecchino, il sadhu doveva immediatamente suicidarsi. Temo che al giorno d’oggi pochissimi sadhu nath seguano questa regola. La parola orecchino ti ricorda qualcosa? “Mi ricorda Kundalini, visto che kundala significa orecchino”. Giusto. Perciò vi è una connessione tra orecchino e Kundalini o, più precisamente, tra il posto in cui viene bucato l’orecchio e Kundalini. L’orecchio è pieno di nadi importanti, ed è per questo che i Cinesi hanno approfondito tanto l’agopuntura nell’orecchio. Ci si aspetta che i sadhu nath siano celibi, e una ragione per cui bucano le orecchie è perché quando fori il lobo nel posto giusto, puoi prevenire l’idrocele, che può diventare una complicazione del celibato. Naturalmente se vai leggermente fuori posto diventerai impotente per sempre, perciò è meglio sapere cosa si fa prima di bucare. “Se si suppone che rimangano casti, che differenza fa se diventano impotenti; al contrario, questo dovrebbe renderli felici, non è vero?”. Pensaci su. Se perdono interamente la loro energia sessuale, cosa gli rimarrà da usare per favorire il risveglio di Kundalini? “Oh, giusto”. Per praticare il Tantra devi essere virile. I nath immortali sono appassionatamente devoti al loro guru Dattatreya, e vestono come fanno in onore di Adinath, il primo nath: il Signore Shiva. Così Shiva non è il guru qui; è un discepolo di Dattatreya, il primo di tutti gli Aghori. Puoi immaginare che tipo di essere sia Dattatreya se il suo primo allievo fu lo stesso Shiva? Cercai d’immaginare il Signore Dattatreya. I nath sono veramente nath (maestri). Sono maestri dei dieci sensi. Si crea un nervo speciale, l’undicesimo senso, che permette loro di ricevere le istruzioni telepaticamente. I nath sono superiori ai siddha perché ricevono trasmissioni telepatiche direttamente dai loro capi, i muni. Infatti i nath sono sempre in attesa di adesha, di istruzioni: ‘Quello che è ascoltato senza orecchie, visto senza occhi, detto senza lingua’. Siccome sono immortali ed hanno il completo controllo dei sensi, i nath sono maestri anche del mondo fisico. Semplicemente pisciando o perfino sputando su una roccia un nath può produrre dell’oro. Nell’alchimia devi usare il metallo come materia grezza, ma un nath ha solo bisogno di una roccia. Egli ha ingerito e digerito tutti i tipi di veleno, e questo ha cambiato il suo metabolismo a tal punto che lui stesso è diventato una pietra filosofale. Naturalmente un nath non darà alcun valore all’oro o alle persone come i re, che gli danno valore. Dà valore soltanto all’oro della pura coscienza. Un nath è veramente una pietra filosofale spirituale. Chiunque venga a contatto con un nath deve diventare spirituale, deve diventare un vero uomo o donna di Dio, che lo voglia o no. Questo è il potere di un nath. I nath hanno un modo completamente diverso d’insegnare. Una volta, mentre Gorakh nath sedeva sul suo dhuni vide che la moglie del re era morta e che il re stava piangendo come se fosse finito il mondo. Gorakh decise di andare a trovare il re. Portò con sé

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Guardando verso oriente, a sinistra ho il Gurudattaraya e alla sua destra il nero picco del Kalika, dedicato al sanguinario culto della dea Mahakali.1 Prima di iniziare la ripidissima discesa chiedo al sadhu dov’è possibile incontrare gli Aghori. Mi indica il Kalika, aggiungendo che arrivarci è quasi impossibile, non essendoci strade lastricate ma solo rare tracce sui sassi neri - un tempio dedicato

un vaso d’argilla e, quando fu in presenza del re, improvvisamente lo lasciò cadere. Si ruppe in cento pezzi e Gorakh cominciò a piangere, lamentandosi: ‘Ho perduto il mio bellissimo vaso, che amavo così tanto! Ora l’ho perso per sempre!’ Guardandolo sorpreso, il re disse: ‘Sei diventato matto? Stai piangendo per un vecchio vaso? Puoi comprarne centinaia al mercato’. Gorakh gli rispose: ‘Maharaja, sei il sovrano del paese e nel tuo harem vi sono molte donne bellissime. Puoi avere qualsiasi donna desideri. Perché piangere per una donna che hai perduto?’. Il re disse: ‘Ma lei era così bella, meravigliosa e aveva tantissime virtù che me la rendevano cara’. In risposta, Gorakh prese un po’ di cenere dalla sua sacca e la gettò a terra. Apparvero subito due donne viventi, ciascuna delle quali era una copia perfetta della moglie defunta del re. Gorakh gli chiese: ‘Puoi dirmi quale delle due è la tua? Se la conoscevi così bene dovresti essere in grado di riconoscerla’. Il re non pote distinguere quale fosse sua moglie; entrambe apparivano esattamente uguali. Allora Gorakh gli disse: ‘Re, non puoi neppure riconoscere tua moglie eppure ti consumi dal dolore per lei. Ora chi è pazzo, tu od io?’. Il re comprese. I nath sono di fatto le creazioni di certi muni, che a loro volta sono soltanto manifestazioni di alcuni Rishi. Ciascun gruppo è, a sua volta, tenuto nell’ignoranza della propria vera natura perché il Lila, il gioco cosmico, possa continuare. Essi vengono limitati nelle loro nuove esistenze per poter adempiere certi compiti. Se nath e muni sapessero chi sono, non svolgerebbero i loro compiti nel modo giusto. Un nath aspetta milioni di anni per incontrare un muni e, dopo lunghissime austerità, un nath può infine diventare un muni. In realtà un muni dovrebbe essere chiamato Mauni, uno che osserva il silenzio. Egli non parla affatto nel Vaikhari; comunica soltanto con gli occhi o telepaticamente. Un muni deve attendere yuga o manvantara per avere anche solo una visione fugace di un Rishi. Se vi è destinato, dopo molti miliardi di anni da muni, può avere la possibilità di diventare un Rishi. Le categorie più basse di Mahapurusha sono tutte in sfere; ciascuno ha la propria sfera, ma sono tutti legati, per quanto leggermente. Un Rishi invece è totalmente libero. Può viaggiare in qualunque stella, qualunque sistema solare gli piaccia, nel battere di un ciglio. “Questo vale anche per le donne?”. Una donna che realizza lo stato senza attributi ritorna come Bhairavi o Yogini; anche qui la gerarchia è molto rigida. Dopo tantissimi yuga viene promossa e diventa una Grande Dea. In ultimo si ritira nello sfondo, come fanno i Rishi più anziani, per lasciare che altri godano del gioco. In realtà quelli che stanno nello sfondo controllano tutti i giocatori, come il burattinaio che tira le corde dei burattini. Ma nessuno è consapevole di ciò, eccetto le Shakti e i Controllori delle Shakti più anziani. I Rishi sono i burattinai e tutti gli altri esseri dell’universo, mortali e immortali, sono i burattini. I Rishi continuano a creare rna (debiti karmici) da estinguere, per spingere e aiutare le persone a progredire. Se vuoi smetterla di essere un burattino devi fare sadhana. (Robert E. Svoboda, Kundalini. Aghora II, Edizioni Vidyananda, 1996).

1 Personalmente, ritengo Kalika una distorsione fonetica di Kalighat o Kalighata (Ghat di Kali), il sobborgo di Calcutta sede del più sacro di tutti i templi dedicati a Kali. Secondo la leggenda, dopo la morte della moglie Sati, Shiva vagò disperato con il suo corpo, minacciando di distruggere il mondo. Intervenne Visnu, che con il suo disco (cakra) tagliò il corpo di Sati in 54 pezzi. Dove questi caddero sulla terra si formarono i cosiddetti Shakti-pitha (Seggi della dea), sede della forza spirituale di Sati. Secondo la tradizione, il cranio cadde a Kalighat: da qui il collegamento con gli Aghori.

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alla Grande Unica Nera non poteva che essere su di un picco nero e col sentiero nero! - e che la salita terminale è roba “da yogin aghora”. Zucchero per le mie orecchie. Parto. In discesa, per il gran caldo (che le pietre concentrano) mi trinco una Pepsi, poi un bicchiere di lassì salato, infine una bottiglia di latte al chimico sapore di vaniglia. Non ho zaino, non ho viveri e non ho acqua con me. Dipendo dai baracchini: è vero che non porto pesi, ma sono obbligato a quel che il convento pagando passa. La caduta libera (ora i gradini non sono più numerati, ma saranno tra i 2500 e i 3000, a mio avviso) finisce al gruppo di orride costruzioni in cemento del Kamdhel kunda.1 In sanscrito, kunda indica un posto sacro dove vi è una pozza d’acqua - talvolta artificiale - vicina ai templi delle dee, così come le vette sono riservate agli dèi maschi. Chi scomodiamo: Freud o Jung? Da qui devo risalire puntando direttamente al cielo fino alla vetta del Gurudattaraya, dove si trova il piccolo tempio di Datatree, nome locale del dio Sole, talvolta chiamato anche Datyogash, termine che deriva da Dhatr, “creatore, ordinatore”. Egli è infatti il dio che crea il sole, la luna, il cielo, la terra e l’aria. Nel testo dell’Atharvaveda viene invocato perché conceda benessere, longevità, immortalità, progenie e prosperità, ma anche perché, sciogliendo l’otre delle acque celesti, assicuri piogge abbondanti. Mi faccio coraggio - tutto sommato una salita non è che una discesa vista dal basso - e parto. Quando arrivo sotto la vetta, dove si tolgono le scarpe, sono le 11 e 25. Qui tutto è molto stretto: sembra di essere sulla punta di uno spillo. Dentro, due pujari in arancione gestiscono il traffico. Si passa dal primo, a sinistra, si gira alle loro spalle su traballanti assi di legno, si passa dal secondo, si lascia l’obolo e poi si scende. Tutto perfetto, rodato. Tra i due religiosi spicca la bianca statua che rappresenta una vacca su cui sono seduti, da sinistra a destra, Visnu, Mahesh2 e Brahma. Insolita triade, senza Shiva, qui sostituito da una sua paredra. Potere della superstizione.

1 Anche qui sono certo di essere di fronte a una storpiatura locale del termine kamandalu,

“vaso, brocca per l’acqua”, in particolare la brocca degli asceti. In generale qualifica l’ascetismo, mentre quando contiene l’amrita (ambrosia) è associato all’immortalità. Il kamandalu è attributo di numerose divinità, come Brahma, Sarasvati, Shiva, Varuna e la dea fluviale Ganga.

2 Diminutivo di Maheshvari (Grande Signora). È l’energia femminile, intesa come donna, e Shiva ne assorbì in sé otto, spose di ognuno dei suoi molteplici aspetti. Sposa del suo aspetto principale era Mahadevi, la Grande Dea o Devi. Le altre sette spose sono Parvati, Durga (Yoni), Gauri, Kali (Mahakali), Kalaratri, Candika (Camunda) e Bhairavi. È anche il nome di una yogini.

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Uscendo, i fedeli suonano una campana. Il sadhu di destra - mi ci sono seduto accanto e lui mi ha offerto il prasad: un pezzetto di noce di cocco e mezzo melograno, ma anche il primo santino indiano della mia vita! - mi dice che suonare la campana è un segno di riconoscenza verso i proprii genitori. Niente di nuovo sotto il Sole, la divinità che mi ospita in questo tempio: tutti quelli che vogliono saperlo conoscono il simbolismo della campana. Se il batacchio è il maschio e l’ogiva è la femmina, il loro “amplesso” simula il suono originario, genesi procreativa.1 Seduto su di un gradino mi riallaccio le scarpe, il

volto rivolto al Kalika. Ogni tanto qualcosa luccicare sulla sua vetta. Potrebbe essere uno specchietto oppure - me lo auguro - un ornamento metallico indossato da un Aghori che si muove tra le rocce. Discendo al Kamdhel kunda. Anche qui mi informo sul Kalika: i pujari mi guardano come fossi un pazzo. Dopo essersi messo gli scarponi “da guerra” (cosa vorrà farmi intendere?) un soldato mi accompagna per una cinquantina di metri, fino ad un bivio. A sinistra si stacca una nera traccia sassosa. Mi dice: questa porta verso il Kalika, ma più avanti finisce e dovrai passare tra la fitta vegetazione e arrampicarti sulle rocce. Chiedo quanto tempo, secondo lui, occorre per la salita. Almeno due ore, risponde. Sono le 11 e 52. Scendo con estrema cautela, muovendomi su pietre sconnesse e aprendomi un varco tra le spine. L’esperienza mi insegna che questi sono luoghi amati dai cobra. Arrivato ad un colletto devo riprendere a salire. A circa 50 metri dalla vetta trovo una serie di bivacchi degli Aghori. Una grotta ha una lucida collana appesa all’esterno e dentro vi è un pentolone e delle scatole di fiammiferi. In una radura trovo delle coperte piegate e altre pentole. Tutto è in ordine e non c’è

1 Nella ritualità religiosa, il suono transitorio della campana (ghanta) simbolizza

l'impermanenza dell’esistenza. Il suo suono può scacciare i demoni e può attirare l'attenzione dei fedeli. Nel buddhismo, rappresenta la saggezza (prajna). Nei riti Tantra è tenuta in mano dalla divinità femmina, mentre il maschio tiene il vajra (anche se il manico della campana assomiglia ad un vajra). Come un attributo di Shiva, simboleggia la creazione; la campana è pure un simbolo di Parvati, quale saggezza e passività femmina *** In ambiente tibetano, la funzione religiosa comincia con la musica dei piatti, il tintinnio frenetico del campanello (ghagari) e l’agitare del vajra (in tibetano rdorje), strumenti simbolici nei quali la ritualistica del buddhismo vede l’immagine figurata di alcune mistiche forze che nella cerimonia debbono essere evocate: la campanella (femmina) è la verità del “vuoto” cioè dell’indifferenziato principio di tutte le cose e il vajra (maschio) è l’upaya, la prassi che serve alla completa realizzazione di quella

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traccia di polvere su questi oggetti. Ne deduco che non possono essere stati abbandonati da troppo tempo. Le tracce svaniscono tra la fitta vegetazione. Non capisco dove passare. Davanti a me vi è la roccia. Metto la fedele Leica al collo e inizio ad arrampicare trovando difficoltà fino al terzo grado. Alle 12 e 27 godo del forte vento che spazza la bifida vetta, su cui sventola una bandiera rossa. Verso oriente vi è l’altare per i “sacrifici” a Mahakali: un rettangolo scavato nella pietra e dipinto di rosso, che interpreto quale simbolico sangue delle vittime. Dentro vi sono delle scodelle striate di rosso e una scatola di fiammiferi in ottime condizioni. Tutto è pulito, niente è rotto. Sul versante opposto, rivolto al Gurudattaraya, ai piedi delle rocce sommitali vedo due legni bruciacchiati e uniti da nastri colorati, un tipico segno di culto animista.1 Cerco con attenzione, ma non trovo nessun oggetto luccicante. Ho sempre più la certezza che gli Aghori siano nei dintorni, spiando le mie mosse; lo “sento”. Riparto alle 12 e 35. In discesa seguo un altro itinerario, marcato qua e là da vernice rossa che pare una striscia di sangue. Alle 13 sono di nuovo al kunda, raggiunto in salita. Sono appagato ma sfatto dal calore e dalla fame: in tutto ho mangiato sei biscotti. Il militare mi riaccoglie come un eroe. Mi ha visto sulla vetta, dice, e adesso merito un pasto. Lo seguo fino al locale mensa, dove mi viene servita una abbondante razione di riso e lenticchie - per piatto un pezzo di carta di giornale riciclata, poggiato per terra - e un bicchiere d’acqua. Veloce riflessione: bere o non bere quell’acqua? Decido per il sì: siamo in montagna, in luogo sperduto; di certo non l’hanno portata fin qui dalla città, ma probabilmente hanno una vasca per la raccolta (infatti, non a caso questo luogo si chiama kunda). Chi non risica, non beve. Alle 13 e 15 sono pronto per affrontare il muro di gradini che mi si para davanti. Tante pause mi agevolano la fatica. All’incirca ogni 50 metri di dislivello vi è un chiosco. Mi fermo spesso per ingollare del latte al sapore di rosa chimica, del dudhthas (latte salato) e altri intrugli. Alle 13 e 50 sono in vetta al Goraknhnatha, alle 14 sul monte Girnar. La folla del mattino è svanita, i bottegai stanno chiudendo baracca. Gruppi di scimmie hanno preso possesso del sentiero e dei

1 In sanscrito, il verbo impiegato per eseguire la zangolatura è manth-, che indica qualunque

tipo di movimento vigoroso avanti e indietro. Nei Veda, si riferisce innanzitutto allo sfregamento dei due bastoncini con cui si accende la fiamma sacra, un atto cui spesso si attribuiscono connotazioni sessuali sia nel Rgveda (III, 29,1-3) che nella assai più tarda poesia devozionale, in cui il fuoco è ritenuto androgino: Immagina di tagliare in due / un lungo bambù; / fa’ della parte inferiore una donna, / e della punta superiore un uomo; / sfregali insieme finché si infiammano: / e ora dimmi, / il fuoco generato / è maschio o femmina, / o Ramanatha? (Devara Dasimayya, 144). L’intrigante storia dei bastoncini “infuocati” nel simbolismo delle vacche e del latte è ben spiegata da Wendy Doniger in Le origini del male nella mitologia indù, Adelphi, 2002, a cui rimando.

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templi. Divallo con calma sotto un sole che picchia. Quasi alla fine della discesa un gruppo di scimmie, femmine coi loro piccoli, occupano l’intero passaggio. Con gesti lenti punto la macchina fotografica. Il maschio - un bestione mica male - mi si avvicina rapido. Ha un atteggiamento poco rassicurante e pare deciso a difendere l’onore del suo harem. Temo di non aver sufficiente tempo per intavolare con lui un discorso sulla filosofia della non-violenza. Veloce infilo la mano in tasca e gli getto il pacchetto col resto dei biscotti. Lui lo prende al volo, si siede lì vicino e comincia a mangiarli tenendomi sotto controllo. Le femmine, che hanno visto tutto, reclamano la loro razione. Una di loro mi si aggrappa con le quattro mani ai miei pantaloni, la sua faccia mi arriva al petto. Resto tranquillo, quindi non emano adrenalina - che gli animali sentono come “paura” e quindi infieriscono perché diventi un loro sottoposto. Me l’ha “imparato” mio nonno Mauri quand’ero bambino. Dopo un paio di minuti, lei scende dalle mie gambe e comincia a perlustrarmi le scarpe, mentre il suo piccolo mi lavora le stringhe. Mi sono fatto dei nuovi amici indiani: troppo bello! Alle 16:05 è tutto finito. Di fronte ho la lunga strada per rientrare a Junagadh. 14 GENNAIO, Somnath. La verità è sempre in fondo alla canna del fucile, scrisse Mao, e qui a Somnath di fucili ce ne sono anche troppi.1

1 L’antica Semenat di Marco Polo, ora Somnath (ma anche Patan Somnath o Brabhas Patan

o Deva Patan), si trova sulla costa meridionale della penisola del Kathiawad, a 3 km dal porto di Veraval. Lungo la strada che da Veraval porta a Patan si trova un’imponente necropoli con migliaia di tombe. Si entra in città varcando la porta di Junagadh, formata in realtà da tre portali successivi; l’antico tempio di Somnath si trova vicino al mare, fuori dalle mura. La leggenda vuole che il tempio sia stato costruito dal dio Soma (dio della Luna) in oro, poi riedificato da Ravana in argento, da Krisna in legno e infine da Bhima (uno dei cinque Pandava) in pietra. In ogni caso ha avuto una storia molto tormentata: fu distrutto e saccheggiato da Mahmud di Ghazni nel 1024 (la conquista di Somnath fruttò un bottino immenso), ricostruito da Kumarapala di Anhilpatan nel 1169, di nuovo distrutto nel 1297 da Alaf Khan Khilji, fratello di ‘Ala’ud-Din Khilji (sultano di Delhi), ricostruito nel 1325 da Mahipaladeva di Wanthi, distrutto nel 1394 da Muzafir Khan, ancora ricostruito e infine nuovamente distrutto per ordine di Aurangzeb nel 1706. Il tempio attuale è una costruzione recente ed è uno dei dodici santuari sacri a Shiva; vi si venera il jyotirlinga (pronuncia: ghiotirlinga) e si compone di una cella quadrata, circondata da un deambulatorio, davanti alla quale si trova una sala ottagonale a sua volta sormontata da una cupola (di 10 m di diametro) poggiante su otto pilastri. Che questa città sacra sia stata un luogo di pellegrinaggio tra i più importanti, anche con riguardo alle dimensioni, viene indirettamente confermato dalla tradizione che parla di ben 2000 brahmani addetti al culto con 300 musici e 500 danzatrici. Non lontano da Patan si incontra un laghetto (kunda) considerato sacro da tempo memorabile. Si racconta infatti che qui, mentre dormiva, Krisna sarebbe stato involontariamente ucciso con una freccia da un membro della tribù dei Bhil (sinonimo di selvaggio abitante della foresta) di nome Jara. Il bacino sacro è considerato una triveni in quanto per il popolo si situa alla confluenza dei fiumi Gange, Jumna e Sarasvati; 200 m più a nord si incontra un altro tempio del Sole, Suraj Mandir, distrutto durante il saccheggio della città a opera di Mahmud di Ghazni

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Innanzitutto Somnath è il nome proprio del tempio dedicato a Soma, il dio Luna che personifica la bevanda dell’immortalità. Leggenda vuole, è stando su questa spiaggia del Mar Arabico che Soma fu testimone della creazione dell’Universo. Per l’evoluzione del tempio, invece, ci si affida alla mitologia: Soma aveva sposato in blocco le 27 figlie del re Daksh, ma essendo attratto soltanto da una sola di queste, Rohini, lasciò vergini le altre. Infuriate per la non confortevole situazione, le intonse si rivolsero al loro genitore e lui non trovò di meglio che lanciare una maledizione sul genero, per effetto della quale Soma si ritrovò a perdere gradualmente, giorno dopo giorno, le proprie energie. Ovviamente, man mano che il dio Luna si affievoliva anche la Terra ne subiva le conseguenze, con notti sempre più buie. A Soma non rimase che mettersi in penitenza e pregare Shiva affinché intervenisse risistemando la questione. Il dio col tridente si manifestò su questa spiaggia e tolse la maledizione a Soma. E siccome gli dèi vivono grazie ai sacrifici celebrati in loro onore, per mantenere in vigore Soma - caricato della responsabilità di rendere felici 27 mogli - bisogna che i fedeli devolvano il loro obolo direttamente a Shiva in questo tempio, costruito sul luogo del miracolo. Così facendo, i “costruttori della fede” hanno preso due piccioni con una fava: hanno fornito al popolino una spiegazione “scientifica” sul ciclo lunare, all’impresa che ruota attorno alla gestione del “sacro” è stato fornito un nuovo gigantesco appalto. E che appalto! Si vuole che il primitivo tempio sia stato costruito in oro, il secondo in argento, il terzo di legno e l’ultimo di pietra, né più né meno come i quattro yuga o ere cosmiche. Che fine ha fatto l’oro e l’argento (la legna gliela regaliamo) non è dato sapere. Storielle a parte, di certo sappiamo che già nel decimo secolo il tempio di Somnath era noto per l’enorme ricchezza accumulata grazie alla generosità del popolo fedele. Secoli dopo, questi beni attirarono l’attenzione di Mohammed Ghazni, il conquistatore Moghul che depredò il tempio, lasciandolo vuoto di ogni oggetto prezioso. Reclamizzato su tutti i dépliant turistici, visto da vicino è una deludente costruzione di pochi decenni fa, in cemento e con brutte colonne. Essendo una ricostruzione (“ma sul luogo esatto del primitivo”) a questo manufatto è stato dato il nome di Mahamanu Prasad. Per evitare che altri vogliano ripetere le gesta di Mohammed Ghazni, la massiccia presenza all’esterno di militari armati dà l’impressione che qualche paese civile stia esportando un’overdose di democrazia. Depositati cellulari, borse e macchine fotografiche si può accedere - passando attraverso le porte con metal detector - al portico coperto da un cupolone. Al suo termine, proprio sopra la porta d’accesso al tempio vero e

(1024): per quanto in rovina, sono ancora visibili alcuni interessanti particolari. (Heimo Rau, India)

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proprio, un tv color (sembra una lavatrice da quanto è mastodontico) riprende da una posizione laterale i pujari mentre depongono nella yoni che circonda il linga (traduco: nella vulva che circonda il pene), le numerose corone di fiori portate dai fedeli. Barre metalliche dividono il traffico (enorme oggi, perché giorno di festa), nei sensi di andata e di ritorno. Nel tempio, altra doppia divisione: donne a sinistra, uomini a destra. A dividere i sessi è una lunga, ininterrotta fila di metalliche “donation box” che non restano disoccupate. Arrivati al darshana, lo Shivalinga appare ricoperto da una maschera d’argento. Una donna decisamente sgraziata invita i fedeli a deporre una nuova offerta nella donation box che fa da balaustra e subito cedere il posto ad altri. Cialò cialò (andiamo! muoversi!) è il suo grido di battaglia. Il garbhagrha è circondato da un corridoio che i fedeli percorrono fino ad arrivare ad una mattonella metallica - di circa 70 cm di lato - al cui centro vi è un buco di circa 30 cm (non mi meraviglierei affatto se fosse di 33) davanti al quale la gente si inginocchia per infilarvi il braccio destro e raggiungere, abbastanza in profondità, l’acqua benedetta con cui bagnarsi la fronte. Le statue del tempio sono nuove e molto kitch. Ogni pilastro nasconde un soldato, mitraglietta in mano. C’è troppo piombo per i miei gusti. Perché tanta folla è subito detto: il suolo indiano è ricoperto da centinaia di milioni di yonilinga, simbolo della potenza maschile che si rigenera attraverso il contatto sessuale con la femmina (coi succhi vaginali, in verità, come ogni adepto di riti tantrici ben conosce), portatrice di energia o shakti (termine divenuto in India il nome di una marca di batterie). La continua rigenerazione duale - e qui si entra nella metafisica - produce il Tre, il Divino Uno e Trino. Lo dice anche la dottrina cristiana, evitando i dettagli di cui sopra. Detto questo, dei tanti linga esistenti, soltanto dodici1 sono jyotirlinga, il “fallo di fuoco” che rinvia al pilastro di luce di greca memoria che squarciò le tenebre dando vita all’Universo, quindi i più sacri di tutti.2 E questo è uno dei dodici. O almeno, questo è quello nuovo, perché il vecchio e originale jyotirlinga è in altro tempio fin dai tempi delle citate

1 Guarda caso, anche questo numero lo ritroviamo tra i monoteisti: dodici tribù ebraiche,

dodici profeti maggiori e dodici minori, dodici apostoli, dodici mesi dell’anno, dodici segni zodiacali e tant’altro.

2 L’apologia dello skambha (sostegno o colonna, il pilastro di luce che illuminò le tenebre primordiali ma anche la divinità quale supporto dell’universo) si trova nel libro X dell’Atharva Veda, così riassunto: “Verso chi tende la fiamma che sorge? Verso chi soffia bramoso il vento? Su chi convergono tutti i punti cardinali? Verso chi corrono le sorelle, giorno e notte, che sembrano così diverse, eppure rispondono a un unico richiamo? Verso chi fluiscono le acque con struggimento? Parlami di quel sostegno - chi mai può essere?” Risposta: qui si venera uno dei dodici jyotir-lingam (fallo di fuoco) presenti sul territorio indiano, mentre due ciottoli arrotondati simboleggiano i testicoli di Shiva, riportandoci all’originale e meno cervellotica interpretazione: il sostegno è il lingam, il simbolo del dio maschio, colui che “arando e seminando” la Terra ne garantisce la continua fertilità a favore del mondo contadino.

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invasioni di Mohammed Ghazni. Ma quest’ultima struttura - a suo tempo costruita coi soldi di Ahalyabai1 Holkar, re di Indore - è vecchia, ha statue e sculture sbrecciate, quindi un po’ abbandonata. Il nuovo rende il doppio, come il brodo Star. La visita all’originario jyotirlinga non richiede tanta strada: basta attraversare la piazza. Qui niente caos, né soldati, né metal detector. L’accesso è in discesa per una ripida scala, claustrofobica e satura d’incenso. La sala quadrata col linga è molto piccola ed è forte il tanfo di fogna che vi si respira. Prima di scendere, ancora nel cortile, pensando fosse da bere - me tapino - avevo acquistato due bricchi di latte. Poi, visto che il liquido aveva uno strano colore grigiastro, ho imparato che serviva per mantenere bagnato il linga. Quando è arrivato il mio turno, con calma e dignità ho versato il biancastro liquido sul simbolo del pene divino, il tutto sotto l’occhio attento dei brahmani soddisfatti. Uno di loro, pensandomi un pio devoto, mi ha chiesto se volevo unirmi, previo pagamento della dakshina, ai fedeli che sotto l’auspicio dell’hotr venivano fatti entrare col petto nell’umida yoni per poi raggiungere con la testa la base del linga.2 Non era previsto nel mio carnet de voyage e quindi ho gentilmente rifiutato. Vicinissimo ai due templi è il Mar Arabico. Il solito mercato di cianfrusaglie sacro-profane tipico di ogni centro di turismo cultuale che attira le folle. Sulla

1 Il nome ricorda Ahalya, la moglie del veggente Gautama che fu sedotta da Indra, il quale

assunse l’aspetto del marito mentre questi era impegnato ad eseguire i riti mattutini. Gautama dapprima maledisse la moglie trasformandola in un cumulo di rocce, poi si vendicò di Indra riempiendo il suo corpo di segni a forma di vulva. La letteratura più tarda, per pudicizia, trasformò questi segni in occhi.

2 Sia nel mito di Skanda che in quello della Foresta dei Pini la concupiscenza di Shiva viene frenata con l’immersione nell’acqua. Un precedente generico di ciò si trova nel Mahabharata: “Un uomo in cui sia sorta la passione entri nell’acqua”. Shiva implora Parvati di tirarlo fuori da Kama come da un fuoco, di salvarlo con il Soma [ambrosia, il nettare degli dèi] del suo corpo. Egli cerca il sollievo nelle acque di due fiumi [Yamuna e Kalindi], i quali appaiono come sostituti di Parvati, come il Gange nel mito di Skanda. (…) L’acqua non spegne il fuoco di Kama, anzi brucia a sua volta. (…) Parvati si serve di questa metafora per esprimere la sua passione: “Se anche il fuoco diventasse freddo non smetterei di amare Shiva”; ma quando, da lui rifiutata, entra nel fuoco, i suoi poteri ascetici lo fanno diventare fresco come pasta di sandalo. Il fuoco inestinguibile compare nella Foresta dei Pini sotto forma di un linga fiammeggiante (jyotirlinga) che spesso finisce in un fiume, così come il fallo reciso di Uranos cade in mare. L’idea del fallo igneo posto nell’acqua appare in un sogno narrato da un Agaria. […] Questo simbolismo naturale ha dunque un’attestazione psicologica in India ed è intrinseco alla mitologia del linga. Brahma raccomanda ai saggi di chiedere a Parvati di trasformarsi nella yoni in modo da accogliere il linga e di aspergerlo con acqua consacrata per pacificarlo. Ciò è rispecchiato anche nella pratica cultuale: “Il linga di Mahadeva, un dio assetato che ha bisogno continuo di refrigerio per alleviare le sue pene, deve essere mantenuto sempre umido per evitare la siccità”. Benché la sete e la siccità siano motivi connessi con questo simbolismo, è soprattutto la concupiscenza di Shiva che deve essere tenuta a freno in tal modo. (Wendy Doniger, Shiva. L’asceta erotico, Adelphi 1997).

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spiaggia vanno alla grande i tour sui dromedari. Musiche da film disturbano le orecchie. Togliersi in fretta da qui.

*****

Due chilometri più lontano vi sono i ghat (scalinate) che danno accesso alle acque del fiume Hiranya, ma strada facendo devìo attratto da un un bel tempio dedicato a Rudra. I resti dell’antico math (monastero) è abitato da famiglie contadine. Mi ricevono con affetto, mi aprono la porta del manufatto e poi restano a guardare le mie mosse con curiosità. Il luogo dove il corpo di Krisna è stato consegnato alle fiamme, detto Triveni Ghat, è poco lontano. La tradizione vuole che al tempo di Krisna in quest’area tre fiumi sfociassero paralleli nel mare, come le tre righe orizzontali sulla fronte dei vaisnava. Come sempre, dei tre fiumi soltanto due sono visibili ai comuni mortali, la Kapila e la Hiranya in questo caso. Il terzo, la solita Sarasvati, è una corrente fluviale cosmica, presente ma invisibile. La metafisica insegna che il Tre non è visibile all’occhio: è il “cuore” che lo deve percepire. Lo Spirito Santo ne è un esempio. L’accesso ai ghat è custodito da gruppi di donne che in cambio di cinque rupie vendono fasci di vegetali da offrire in pasto alle numerose vacche che ruotano nei dintorni. Un segno che riporta alla gioventù di Krisna, trascorsa in compagnia delle mandriane di Mathura e dintorni. Il lungofiume è tranquillo e i fedeli sono attratti dal parikrama in barca. Un militare mi informa che la sponda opposta fa parte del Parco Nazionale del Gir, l’unico dove ancora si possono vedere (dalla jeep) i leoni asiatici. Ai turisti è proibito l’approdo perché in passato alcune leonesse avevano preso l’abitudine di farne carne da braciole. Si dice che Krisna - la cui storia ricorda in maniera notevole quella di Gesù Cristo, cominciando dalla sua nascita virginale alla morte trafitto sul legno - passò le sue ultime ore di vita adagiato a un albero pipal in località Bhalka Tirth.1 Dal Triveni Ghat dista sette chilometri, passando per il vecchio porto di Veraval (deve essere proprio vecchio perché, passandovi, il tanfo di pesce marcio è insopportabile persino per gli indiani). L’unica stanza ospita una ricostruzione del dio sdraiato sotto il pipal, l’innamoratissima gopi Radha in adorazione. Un cartello informa che sia l’albero che i personaggi occupano l’esatto punto loro assegnato dalla geografia del sacro. Al momento, sono il solo occupante. La balaustra è formata dalla solita scatola metallica con fessura centrale, stavolta dipinta in giallo shock su cui campeggia,

1 Per approfondimenti, un titolo tra i molti possibili: La leggenda di Krishna di Nigel Frith,

Moizzi Editore, 1975.

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a caratteri cubitali, la nera scritta PLEASE DROP DONATION IN DONATION

BOX. Ripetere giova. Il brahmana non mi degna di uno sguardo, preso com’è da una chilometrica telefonata cellulare. Dai suoi monosillabi secchi e dalle smorfie della faccia deduco che più che in contatto col dio, al momento lo è col suo agente di Borsa. 15 GENNAIO, Porbandar. Il viaggio è iniziato alle 5 e 30 del mattino. Verso le 9 si sente un botto: un pneumatico, liscio fino all’osso - come tutti gli altri del resto - è esploso. Come sempre succede in questi casi, i passeggeri devono scendere e arrangiarsi per continuare la corsa. Dopo un’ora e 40 minuti di sosta sul bordo della strada, un pietoso camionista prima, un’auto di servizio statale poi - con tanto di insegne sulla fiancata; e qui l’autista, da bravo dipendente stipendiato, ha preteso da ogni passeggero un arrotondamento di dieci rupie - mi hanno depositato a Porbandar. Erano le 11 e 20. Mai credere a quel che ti dicono, e a metà di quel che vedi, è pur sempre un buon insegnamento. Avevo letto che Porbandar è una città sozza, dal cielo perennemente coperto dalla caligine prodotta dagli stabilimenti chimici e dai cementifici costruiti alla sua periferia. Oggi non è così: il cielo è blu, il sole picchia forte.1

1 Porbandar è una città portuale sulla costa meridionale della penisola di Kathiawad. Un

tempo capitale di un piccolo principato dei Rajput di Jethwa, la città è situata nello stesso luogo dove pare si trovasse la mitica Sudamapuri (citata nella Bhagavadgita), circostanza cui rinvia il Sudama Mandir (tempio) in città. Nel XIX secolo Porbandar era la capitale di un piccolo principato omonimo, sulle sponde della penisola del Kathiawar (oggi Gujarat), protesa verso il Mare Arabico. Secondo il censimento del 1872, l’intero stato (1663 kmq) contava 72.000 abitanti, di cui 15.000 residenti nella capitale. I Gandhi appartenevano al ramo modh baniya della casta vaishya - che nel sistema tradizionale hindu rappresenta le classi mercantili - e in origine, a quanto sembra, erano speziali. Ma da lungo tempo la famiglia godeva di una certa notorietà nel Kathiawar. Il nonno (Uttamchand), il padre (Karamchand) e lo zio di Gandhi ricoprirono l’uno dopo l’altro l’incarico di primo ministro del re di Porbandar. Il padre fu in seguito primo ministro di altri due staterelli della regione. Nessuno di questi stati fu sottoposto al dominio diretto inglese e, di conseguenza, qui le antiche usanze tradizionali furono mantenute in vita assai più che in gran parte dell’India britannica. Karamchand Gandhi si sposò una prima volta a quattordici anni e una seconda a venticinque. Da ciascun matrimonio ebbe una figlia; entrambi le mogli morirono senza avergli dato un figlio maschio. Il terzo matrimonio rimase senza prole. Karamchand era già sulla quarantina quando prese in moglie Putlibai, allora meno che ventenne. Da lei ebbe quattro figli: Raliatbehn, la prima, nacque nel 1862 e morì quasi cento anni dopo; Lalkshmidas, il maggiore dei maschi, vide la luce l’anno seguente; Karsandas, il secondo, nacque nel 1866 e Mohandas Karamchand, l’ultimo, nel 1869. Karamchand padre e Putlibai vivevano insieme ai figli nella vecchia casa di famiglia, che nel corso degli anni si era ingrandita fino a formare un edificio a tre piani. Non è possibile sapere in che anno la casa fosse stata costruita, ma l’atto di compravendita indica che venne acquista nel 1777 da Harijivan Gandhi, bisnonno del Mahatman. Era inserita fra due templi, e aveva l’apparenza più di un fortino che di una normale abitazione. All’interno, una serie di stanzette scure e anguste si stringeva a nido d’ape attorno a

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Mi reco in visita alla casa dei Gandhi, dal 27 maggio 1950 circondata dal gigantesco Mahatman Gandhi’s Birthplace Kirti Mandir che la sfigura. La verde residenza (le porte sono ultrabasse!) è molto bella per lo standard indiano, suddivisa su tre piani, molto aereata ai piani superiori e con resti di affreschi sui muri interni. Nel locale d’ingresso un cartello segnala al visitatore che un vistoso swastika dipinto sul pavimento segna il punto esatto in cui la madre partorì il futuro Mahatman. Era il dodicesimo giorno della luna nera di Bhadrapada 1925 per il Vikrama Samwat, il calendario hindu. Il 2 ottobre 1869 per gli occidentali.1 A partire dal 1982, Porbandar - o meglio: la vicina area marittima di Alang - è il luogo dove si portano a morire le carrette del mare. Qui vengono smontate con la fiamma ossidrica - un lavoro pericolosissimo che tanti esseri umani ha distrutto - petroliere e altre navi portatrici di ogni sorta di veleno, poi rivendute a pezzi. Tonnellate di materiale inquinante finiscono dapprima nel mare, poi in giro per il mondo variamente riciclato. È un gigantesco affare economico, tranquillamente organizzato dalle cosche mafiose, in società con gruppi di oneste persone che si sono dedicate alla politica attiva al solo scopo di garantire l’ottimale gestione del bene pubblico. Fino a pochi anni fa, qui lavoravano circa 60 mila persone, ora ridotte a poche migliaia per l’agguerrita concorrenza di altre nazioni asiatiche, tra cui Pakistan e Cina. Il declino è cominciato dopo che Greenpeace aveva sollevato il caso, attirando l’attenzione dei giornali di tutto il

un piccolo cortile. Solo le camere del piano superiore, più ariose, si lasciavano penetrare dai raggi del sole. Karamchand e la sua famiglia occupavano due stanze al pianterreno, con accesso a una veranda, il resto della casa era stato riservato ai quattro fratelli di Karamchand con le rispettive mogli e figli.

1 Del padre, Gandhi ereditò la caparbietà, l’incorruttibilità e il senso pratico, e dalla madre la propensione alla religiosità, alla devozione e all’ascetismo. La sua esistenza fu influenzata tanto dal visnuismo che dal jainismo, due culti che consideravano ogni forma di vita opera di Dio, e perciò sacra. Crebbe in una comunità che non avrebbe mai ucciso animali, neppure quelli che ogni giorno distruggevano i raccolti. Santi e saggi di tutte le comunità frequentavano la sua casa. “Anche i monaci jain” Gandhi scrisse “venivano spesso a trovare mio padre e, fatto per loro inconsueto, accettavano da noi - che non eravamo jain - del cibo e si intrattenevano con mio padre su argomenti religiosi e mondani”. Karamchand aveva molti amici musulmani e parsi, che gli illustravano le rispettive fedi, e lui ascoltava i loro ragionamenti con deferenza. Facendo da attendente al padre, Mohandas ebbe numerose occasioni di ascoltare tali discussioni e avere i primi barlumi sul mondo della religione. “Queste varie circostanze contribuirono a inculcarmi la tolleranza per tutte le fedi”. (M.K. Gandhi, My life, pag. 43).

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mondo. Risultato: le navi le smantellano ancora, ma in posti protetti. Ovviamente, tutti i veleni che escono dalle stive finiscono ancora sia in mare che in terraferma, ma sembra che adesso a nessuno interessi più sapere. I salari attuali oscillano sulle 80/90 rupie al giorno, ma le spese sopportate per sopravvivere sono ben maggiori, causa l’inflazione. La gran parte dei lavoratori vive in povertà e i troppi debiti contratti coi negozianti e con le farmacie li costringono a restare, non ricevendo credito per acquistare il biglietto di ritorno a casa. Moderne forme di schiavitù, ipocritamente non considerate tali solo perché remunerate. “Perché Greenpeace non va a fare in Cina e in Pakistan lo stesse azioni che ha fatto qui?” mi domandano. Una nuova guerra tra poveri è in atto. Sono andato alla ricerca del mattatoio delle navi, ma non me l’hanno fatto trovare. Mi sono rifatto con quello delle auto, dei bus e dei camion: da solo basta a farsi un’idea di cosa vuol dire inquinare per arricchirsi. Seduti all’ombra, alcuni boss sovrintendono al lavoro dei loro schiavi. Lamiere arrugginite trasportate a mani nude; batterie che colano il liquido facendo pozze per terra, dove i disgraziati smantellatori passano a piedi nudi; mani, braccia e restante pieni d’olio di motore di un nero che più nero non si può neanche col nereggio. Due dei citati boss mi invitano a sedere e a degustare con loro un the, cosa che rifiuto dopo aver visto la sozzura delle tazze. Nell’aria è forte l’odore di pesce morto, deposto sulla battigia dalle onde. Domani partirò verso il nord: destinazione Kachchh (inglesizzato in Kutch), piccola area semideserta abitata da numerose popolazioni tribali. È il territorio colpito dal terremoto del 26 gennaio 2001, ma non essendo “vendibile” (non c’erano attori, pallonari o giornalisti in vacanza) è stato presto dimenticato da Tv e giornali, né più né meno di quel che hanno fatto col recente terremoto nel Pakistan, dove adesso i sopravvissuti muoiono per il freddo. Ma sono musulmani. 16 GENNAIO, Bhuj. Piatto ricco mi ci ficco: ho affittato un’auto e il suo proprietario-autista, tale Kamlesh. Ha trent’anni e parla poco o niente l’inglese, ma guida con estrema attenzione la sua proprietà e questo per ora mi basta. Ho fatto questa scelta dopo averne discusso con più persone: il Kachchh non è direttamente raggiungibile da Porbandar, quindi avrei dovuto saltapicchiare da uno scassato bus all’altro per almeno due giorni. Poi, una volta a Bhuj, muoversi alla ricerca delle popolazioni tribali implica l’avere un mezzo proprio. Appena entrati nella cittadina, ovunque sono visibili i resti del terremoto che nel 2001 uccise 12.221 persone, ne lasciò ferite più o meno gravemente 14.282 e distrusse milioni di case. Già il primo albergo che ho visitato a Bhuj - Abha International è il suo pomposo nome - è un esempio della voglia di rinascere di questa gente: un’intera ala del

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palazzo è crollata e per raggiungere le stanze rimaste integre bisogna attraversare da uno stabile all’altro su di una passerella di legno lunga oltre due metri, ma si è al quarto piano! Muri caduti e calcinacci fanno da contorno. La stanza è ampia e luminosa, anche se basica. Quando sono ritornato alla reception, prima ancora di sapere se prendevo la stanza o meno, il direttore e un giovane si sono sbattuti per spiegare a Kamlesh tutti i luoghi da visitare in città e per propormi, cartina alla mano, una serie di itinerari con rientro serale a Bhuj. L’hanno fatto per amore verso la loro terra, non per vendermi qualcosa. Lo si capiva fin troppo chiaramente. Ho affittato la stanza e sono contento di avere due persone come loro su cui fare affidamento. Nel pomeriggio sono andato in visita ai monumenti storici di Bhuj. Su indicazioni dei locandieri, sono dapprima approdato allo Swaminarayan Temple. Fuori è tutto colorato rosso e verde, con decorazioni floreali. L’interno mostra un ampio cortile rettangolare su cui si affacciano i lunghi ballatoi che portano alle celle dei monaci. Anche qui è tutto un tripudio di colori. Una scalinata porta al piano rialzato, dove quattro monaci vestiti di arancione scuro mi stanno aspettando. Sono tutti giovani, tra i 20 e 30 anni direi. Uno si fa avanti e dichiara di essere il solo a parlare inglese. E lo parla fin troppo bene, non il caratteristico indinglese in uso tra il popolino. Mi si siede vicino e si presenta: Ghanshyam Prasad Dasji. Mi racconta che il tempio ha più di 200 anni d’età e che fino al terremoto era abitato da 150 monaci, ora ridotti a otto. Gli altri non sono morti, ma si sono trasferiti nel tempio nuovo - tutto in pietra bianca, ben visibile arrivando in città - costruito coi fondi di solidarietà arrivati loro da ogni parte del mondo. Chiedo se hanno avuto danni, lui mi risponde di no. E allora, che bisogno c’era di costruire un tempio nuovo coi fondi di solidarietà, che potevano essere dirottati verso i veramente bisognosi? Mi risponde che era loro dovere esaudire la volontà dei benefattori. Così sia. M’informo: “Voi monaci dello Swaminarayan” - una comunità che non si rifà alla Trimurti ma che ha sviluppato una dottrina autonoma, così come ha fatto lo Shaktismo, il Tantra ed altri - “avete un nome per chiamarvi tra di voi?”. Mi risponde: “Noi siamo sadhu, che significa sant’uomo”. Un dubbio che mi era arrivato al naso durante tutto il colloquio (tra cui l’aggiungersi il suffisso -ji, “venerabile”, al nome) trova qui la sua conferma. Faccio la domanda furbetta: “Perché ti vuoi dare l’appellativo di santo, così diverso dall’esatto significato del termine in sanscrito, che vede nel sadhu il monaco errante oppure l’eremita? Da quale parte dell’India arrivi?”. Lui capisce e mi lancia un abbacinante sorriso: “Sono nato da genitori indiani a Manchester, in Inghilterra, dove ho sempre vissuto. Tre anni fa ho deciso di cambiare vita e sono venuto in questo monastero. Il termine santo l’ho usato

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perché è molto diffuso tra gli occidentali”. Ora tutto mi quadra, compreso il linguaggio inglese da lui parlato. Prima di lasciarci, mi dice che esistono sei templi della comunità Swaminarayan in India, tutti nel Gujarat. Il maggiore si trova ad Ahmedabad e questo, per grandezza, è il secondo. Scoprirò in seguito che non mi ha detto tutta la verità. Ma Gandhinagar e il nuovissimo tempio di New Delhi appartengono alla “concorrenza”, quindi me li ha taciuti. Dietro il monastero vi è un palazzo strano, molto inglese, tutto in pietra marrone e colonne in stile greco. Macerie dappertutto, con sassi su cui sono scolpite intere statue. Il terremoto non ha avuto pietà per nessuno. È il Prah Mahal, il palazzo dei maharaja costruito a partire dal 1865. Il vecchio palazzo - detto Aina Mahal, del 1752, è ancor più in disgrazia: i deliziosi balconcini coperti sono crollati, come pure parte del tetto e delle mura. La celeberrima Sala degli specchi si è salvata. La visito. Al centro del salone che la precede vi è una leonessa impagliata, uccisa da un passato maharaja nell’area di Gir. Abituato ai gattoni del circo e dello zoo, nati in cattività da chissà quante generazioni, questa mi sorprende. È seduta, le gambe anteriori ritte e la sua testa mi arriva a metà del petto. Bella bestia! Strabiliante, infine, la visita all’area archeologica detta Rao Lakha Chhatri o cimitero di Rao Lakha. Su di una vasta superficie vi sono i piccoli templi e le steli votive (paliya) che ricordano due sovrani del Kachchh e le loro famiglie. Mi viene incontro un uomo in divisa. Si presenta come l’incaricato dall’Archaeological Survey of India a dirigere i lavori di restauro di quest’area. Dice di essere di Agra, qui inviato in missione. La stele di Maharao Lakhapatji è affiancata da quelle che ricordano le sue quindici vedove. Chiedo: “Il sovrano è stato sepolto oppure il suo corpo è stato bruciato?”. Lui inorridisce: “Era un hindu, quindi è stato bruciato!”. La mia domanda non era poi così ingenua: volevo essere certo che le sue amate quindici moglie siano finite sulla stessa pira del marito e bruciate vive con lui, come da nobile tradizione - poi copiata anche dagli stolti contadini, dimentichi che l’usanza di non lasciare vedove significava anche, ma non solo, non lasciare che eventuali futuri figli bastardi potessero un giorno pretendere il trono. Ma si sa che i contadini hanno sempre avuto il debole di imitare i loro padroni. Non a caso la domenica si vestono “della festa”, con camicia e cravatta. Chiedo all’archeologo di quanti secoli sono vecchi questi monumenti. “Almeno 500 anni” risponde sicuro. Lo guardo strano: “Sei sicuro?”. “Certo!”. “Come possono essere vecchi di cinque secoli quei vestiti, così tanto portoghesi?”. Tace, mentre mi accompagna verso l’uscita. Qui vi è cartello esplicativo, scritto in gujarati e in inglese. Mi fermo a leggerlo insieme a lui: Maharao Lakhapatji nacque nel 1710 e regnò dal 1752 al 1761; l’altro sovrano, Maharao Raydhanji II,

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dal 1778 al 1813.1 Glielo faccio notare. Non gli interessa: l’archeologo laureato è lui, non il cartello. 17 GENNAIO, Bhuj. I segni del destino, in un paese che (soprav)vive sulle superstizioni come l’India, non sono mai da sottovalutare. Nel Sud-Est del Kachchh (nel Piccolo Rann, esattamente) vivono numerose mandrie di asini selvatici. Molti di loro sono “emigrati” in città - un po’ come hanno fatto gli orsi in Canada e Alaska o gli alligatori in Florida - e vanno in giro randagi, cercando cibo nei pressi dei mercati della verdura. Stamattina, in partenza per il Nord (ai confini militarizzati col Pakistan), proprio davanti alla nostra auto un asino - e la sua mascolinità era fin troppo evidente - ha iniziato il suo lavoro riproduttivo saltando in groppa ad una compiacente femmina. Non dovendo “perdere tempo” con baci, carezze e bugie, di norma tra gli animali l’amplesso dura il tempo necessario allo schizzo. Quindi breve. Ma il mio autista, forse imbarazzato, non dimostra pazienza e subito si mette a fare un sacco di manovre per poter aggirare l’ostacolo e partire. Sarà una giornata “feconda” ho pensato. Per l’asina è quasi certo. Oggi Kamlesh mostra tutti i suoi limiti: sa guidare, ma non è mai stato in Kachchh, quindi non conosce le strade secondarie, né dove incontrare le tribù. Si affida totalmente a me: lui guida, io gli devo dire dove andare, pagando un tot al chilometro. Lungo la strada vedo file di carovane di nomadi in transumanza coi loro dromedari. Kamlesh sfreccia veloce. Quando gli dico che non sono venuto fin qui per fare le corse in auto ma per visitare le popolazioni, lui sorride: ho capito che non ha capito. Riesco a raggiungere l’abitato di Khavda, dove vivono genti Sumra, musulmani “moderni”, indottrinati dai vicini confratelli del Pakistan (siamo a meno di venti chilometri dal confine). Ritornando più indietro, entro nel villaggio di Ludia: anche qui sono musulmani, ma di etnia Nodo. Mentre mi aggiro tra le case un uomo si mette a parlare con Kamlesh. Pochi minuti dopo, il mio autista mi invita bruscamente a salire in macchina. Chiedo spiegazioni: “Quell’uomo è molto pericoloso” dice. “È convinto che vuoi fotografe le donne”. Il solito, stupido processo alle intenzioni. In vita mia, non ho mai fatto una foto da vicino senza prima aver chiesto l’autorizzazione. Come paparazzo avrei fatto la fame. Ma tant’è: mai discutere con gli stupidi, potrebbe non riconoscersi la differenza. In auto dico a Kamlesh che non ho apprezzato il suo interferire, quindi il nostro rapporto commerciale non ha un radioso futuro. Strano, ma stavolta capisce tutto e cerca di evitare la scissione con un iperattivismo, fermandosi a chiedere informazioni a destra e a manca. Non ha però capito, il tapino, che questa è

1 Secondo P.J. Jethi, attuale conservatore dell’Aina Mahal di Bhuj, Maharao Raydhanji II,

dodicesimo re di Kachchh, regnò dalla nascita (1779) alla morte (1814).

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un’area supermilitarizzata, e tutte queste sue domande non fanno che produrre altri danni: una pattuglia di militari ci ferma. Prima chiedono di vedere i documenti dell’auto, poi iniziano loro a far domande a Kamlesh, ma non a me. Scendo dal mezzo e prendo a vagare libero - per ora - stando nei pressi del posto di blocco. Un uomo sta cucinando un liquido bruno detto koha, una mistura di latte e zucchero che deve essere bollito a lungo. Dopo 5/10 minuti i militari rilasciano il mio autista. Ha la faccia un po’ contrita; non chiedo niente di quel che è avvenuto, ma suggerisco di rientrare direttamente in albergo a Bhuj. Lui acconsente e riparte a tutta gallara. A mezzogiorno Kamlesh riceve i soldi pattuiti. Ci lasciamo in amicizia, con sorrisi e strette di mano. Stavolta ha capito.1 Alla reception si danno un gran daffare per salvare il mio viaggio. Il direttore - squisitamente dolce e gentile - continua a far telefonate fino a raggiungere colui che cerca: Raysinhji Rathod, gran conoscitore delle popolazioni tribali. Lo incontro alle 12 e 30. Ascoltate le mie argomentazioni, lui le approva: sarà felice di essere con me. In motoretta andiamo a casa sua, dove sua moglie ci serve il pranzo. Alle 14 arriva un suo amico tassista, Bharybhi Jethi, e tutti e tre partiamo verso Est. Sia Rathod che l’autista sanno dove andare, quindi non sprechiamo inutile tempo a cercare i viottoli secondari. Il primo villaggio che visitiamo è Padhar, abitato da etnie Machhoya Ahir2 e Debhar Ràbari. Qui, come in tutti i successivi villaggi che visiteremo, Rathod è di casa. Tutti lo salutano con affetto. Lui spiega chi sono e perché sono lì: trovo complicità, le porte delle case aperte, uomini e donne sorridenti. Questo è il mio modo di intendere un viaggio - al contrario di quello di stamattina, che considero un piccolo intoppo superato. Rathod mi insegna a riconoscere le diverse etnie dai loro abiti: sia i maschi Ahir che i Ràbari portano lo stesso abito bianco frangiato ai fianchi, ma soltanto questi ultimi hanno un grosso buco nella cartilagine superiore dell’orecchio, adatta a ricevere grossi orecchini. Le donne, al contrario, si riconoscono dalle vesti: in nero ma col corpetto colorato le Ràbari, colori sgargianti per le Ahir. Tutte portano pesanti ornamenti metallici al collo e ai polsi, uomini compresi. Le Ràbari vestite di nero ma con un lungo velo verde sulle spalle sono le ragazze da marito.3

1 Tra l’altro, al momento del fatto entrambi ignoravamo che oltre Sumerasar, 25 km a nord

di Bhuj, serve il permesso rilasciato dal comando di polizia (Police Permission). 2 Ahir è il termine che indica la casta dei vaccari e dei lattai. In India, vivono 18 milioni di

Ahir; nel Kachchh sono 300 mila. 3 Il popolo Ràbari è misterioso e il loro modo di vivere li distingue da tutte le altre etnie.

Alcuni dicono che i loro antenati siano partiti da Jaisalmer, in Rajasthan. Altri ritengono che la loro origine sia da ricercare in Afghanistan, poi arrivati fin qui via Baluchistan. Altri ancora dichiarano che siano originari del Sindh. Comunque sia andata, oggi nel Kachchh vivono da 2500 a 3000 famiglie Ràbari, di cui il 70% fa vita nomade, spostandosi con le proprie mandrie in cerca

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Nel villaggio vi è un’area coperta da tumuli funerari. Rathod mi spiega che in passato il pellegrinaggio al tempio di Hinglaj Mataji, eretto nella regione di Mankharana (nel Beluchistan, Pakistan), era molto importante per tutti i Ràbari. Essi visitavano il santuario a piedi, e quando capitava che un pellegrino morisse per strada gli erigevano una pietra commemorativa con il suo nome e il villaggio natale. Ora questo yatra è reso precario dai complicati equilibri politici tra India e Pakistan. Altre steli (paliya in gujarati) mostrano mani alzate: ricordano le donne che si sono sacrificate salendo sulla pira del defunto marito. Ogni sati rende il villaggio “santo” per sette generazioni ed attira frotte di imbecilli che credono di risolvere i loro problemi esistenziali pregando sul luogo esatto in cui una donna si è così barbaramente uccisa. Ovviamente, tra di loro usano chiamarsi “fedeli”. Opinioni molto diverse, le nostre. Una stele di sati porta una scritta in gujarati: Rathod me la traduce ed insieme computiamo che risale all’anno 1749 del mondo occidentale.1

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Il successivo villaggio da noi visitato si chiama Dhaneti, abitato al 90 percento da Ahir, coloro che si ritengono i discendenti di Krisna, e questo perché fino a un migliaio di anni fa vivevano come pastori a Gokul Mathura, terra che hanno lasciato per emigrare verso il nord e il nord-ovest dell’India, creando i sottogruppi Prantharia, Machhoya, Bouricha e Sorathia Ahir. Il tempio principale è dedicato a Ravechi Mata, nome locale di una delle sette sorelle in cui si è suddivisa la potente Dea Madre generatrice dell’universo.2 A Dhaneti vivono circa 500 persone. Dei ragazzi ci vengono incontro per annunciare che siamo vicini alla scuola dove imparano a usare il computer; il loro maestro sarebbe felice d’incontrarmi. Detto, fatto. Santosh Kumar Ahir insegna in un buco di 10/12 metri quadrati. Quattro PC, due lunghe panche e 40 studenti che si alternano alle lezioni. Rispondo alle domande dei ragazzi. Il maestro chiede loro, come esercizio, di scrivere sul monitor il mio nome e cognome in caratteri gujarati. Prima di congedarci, Santosh mi dice che malgrado questo suo sforzo per introdurre i giovani in un mondo nuovo, tecnologicamente avanzato, nella comunità vige ancora il tribale sistema dei matrimoni infantili - legato, in passato, alle continue guerre e relativi spostamenti che falcidiavano le

di acqua ed erba in Gujarat, Madhya Pradesh, Orissa, Maharashtra e Karnataka. Per altre informazioni, rinvio al mio scritto Breve descrizione del Kachchh.

1 Si veda Sati di Giancarlo Mauri. Più esaustivo è il libro Sati, una tragedia indiana di Laura Piretti Santangelo, CLUE Bologna 1991.

2 Altre divinità importanti sono Amba Mata, Ashapura Mata, Wageshwari Mata, Rudra Mata, Momaya Mata, Sikotara, Loladi, Bhed, Vankol, Khodiar e Hinglaj.

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popolazioni. Mi presenta due mariti oggi in classe: Babu (14 anni) e Maholi (15), sposato con una ragazza di due anni più vecchia di lui. Li guardo: sono bambini che dimostrano molto meno della loro età. Mi viene in mente quel che ebbe a scrivere in My life Gandhi, anche lui vittima di questo sistema: a scuola, anziché prestare attenzione all’insegnante, la sua mente era rivolta a Kasturba e “il pensiero del nostro prossimo incontro non cessava di ossessionarmi. La separazione mi era insopportabile, poi la tenevo sveglia fino a notte alta”. In seguito Gandhi avrebbe condannato “la crudele usanza dei matrimoni infantili”, additandola come causa principale della debolezza e degenerazione dell’India in quanto instillava nelle menti dei bambini pensieri lussuriosi, ne consumava le energie, ritardava il progresso negli studi e permetteva loro di condurre un’esistenza fiaccata dai piaceri dei sensi.1

1 Oggi, finalmente qualcosa si muove. Ecco quel che ha scritto Raimondo Bultrini (India, sfida

alla tradizione - La Repubblica, 21 dicembre 2006): La legge indiana torna a sfidare una tradizione antica e radicata, il matrimonio tra bambini. Misure più severe delle precedenti sono state adottate contro chiunque - preti, poliziotti e funzionari di stato compresi - registri le nozze dei minori di 18 anni nel caso delle donne e 21 per gli uomini. Ma è prassi comune in diversi stati del paese di sposare i figli dai due anni in su, retaggio di antiche credenze attorno alle quali si celebrano addirittura feste religiose annuali. La nuova legge approvata il 14 dicembre e resa nota ieri, è solo l’ultima di una serie di decisioni prese dal partito del Congresso che guida il governo per dare un segnale alle autorità locali e invertire le tendenze più tradizionaliste e irrazionali della società. Durante la riunione del Parlamento Renuka Chowdhury, ministro per le donne e l’infanzia, ha posto un significativo quesito per chiedere di approvare le ulteriori restrizioni: «Quando diciamo ai nostri figli che non possono votare se hanno solo 15 anni o gli diciamo che non gli permettiamo di guidare o di bere, allora come possiamo pensare che siano capaci di sposarsi? Mi rifiuto di accettare che un bambino possa dare il suo consenso. Sono solo bambini, sono forzati, spinti, ricattati, sfruttati emozionalmente». La legge aumenta da tre mesi a due anni il periodo di detenzione e porta la multa da poche migliaia di rupie al corrispettivo di duemila euro (una cifra altissima specialmente nelle aree rurali) per i trasgressori. Ma tra le innovazioni principali c’è l’imposizione al marito o ai tutori - compresi i genitori che spesso non rivogliono le figlie in casa - di mantenere comunque fino ai 18 anni le ragazze già sposate. La legge è infatti retroattiva e dovrebbe favorire anche le ex spose bambine ancora non maggiorenni che intendono chiedere l’annullamento del matrimonio. Per questo in ogni stato saranno istituiti o rafforzati appositi uffici speciali. Le statistiche sono senza paragoni nel resto del mondo: il 65 percento delle giovani indiane si sposa sotto i 18 anni e oltre 300 mila tra queste ha già un figlio sotto i 15 anni, mentre un’adolescente su tre è incinta, con una incidenza diretta sul numero elevatissimo delle morti legate al parto. “Chhota chhora dahej kam mangta” è un detto hindi che vuol dire «Più giovane è la sposa, più piccolo il dowry», ovvero la dote che la famiglia della figlia femmina è costretta a versare al marito. Quello dei soldi è il principale dei motivi che spingono le famiglie a sposare i loro figli in tenera età, una tradizione che viene fatta risalire a oltre mille anni fa quando gli hindu temevano che gli invasori musulmani rapissero le ragazze nubili per convertirle. Nel Rajasthan, dove è un costume dilagante, il 56 per cento delle donne prende marito sotto i 15 anni, ma è un fenomeno che coinvolge con cifre non troppo dissimili enormi aree rurali del Madhya Pradesh, dell’Uttar Pradesh, Bihar e del Bengala occidentale, dove vive oltre il 40 per cento della popolazione indiana. Durante la festa di Akhai Teej anche i politici

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Sempre in questo villaggio ho visitato il tempio di Pabu Dada, un popolarissimo uomo santo del Rajasthan, qui attorniato da decine di cavalli di legno bardati, talvolta coi loro cavalieri. Come non riandare col pensiero al “mio” Aiyanar, forse il primo concetto di un dio antropomorficamente riprodotto sulla Terra, dapprima in forma di una pietra nera infissa nel suolo, poi nelle sembianze dell’eroico (viran) cavaliere notturno protettore del villaggio?1

Una donna di nome Vegibén ci ospita nella sua lindissima casa, divisa in due locali: niente colori pastello, ma tutto qui dentro ha i colori della vita.

Sanosara (si pronuncia Sanos’ra) è l’ultimo villaggio della giornata, abitato per intero da Kachchhi Ràbari. La dea del villaggio è la terribile e sanguigna Camunda. Il sole tramonta. Si rientra a Bhuj.

Villaggio di Khavda

locali e le autorità di polizia presenziano a cerimonie di matrimoni di massa di piccoli sposi che spesso non hanno nemmeno l’età per capire che non si tratta di un gioco. Difficile dire se la nuova legge troverà applicazione immediata, viste le resistenze ancora forti.

1 Si veda Aiyanar, il Signore di Giancarlo Mauri.

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Villaggio di Dhaneti

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Villaggio di Dhaneti

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Raysinhji Rathod e il Pir Aga Khan dei Fakirani Jath (a destra)

Fakirani Jath

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Fakirani Jath

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18 GENNAIO, Bhuj. Il team a tre si ripropone. Alle 7 si parte verso occidente, con l’intento di far visita ai Fakirani Jath. Sono all’incirca 160 chilometri, la sola andata. Per strada chiedo di sostare a Tera, nota per il forte che in una stanza conserva un dipinto murale di 24 metri narrante le gesta del Ramàyana. Sono l’unico a saperlo, ma Rathod si muove calmo e sicuro. Si informa e presto le chiavi del portone sono in mano nostra. I segni del terremoto del 2001 sono visibili dappertutto. Sculture, balconi e muri sono ai nostri piedi. Entriamo in qualche locale, tutti infestati dai pipistrelli che al nostro arrivo vanno in fibrillazione. Almeno tre nel fuggire entrano in collisione col mio corpo. Inutile tentare di salire al piano nobile dov’è l’affresco: il pericolo è evidente. Per il pranzo ci si ferma a Nalia, dove Rathod incontra vecchi amici. Siamo ospiti a casa di uno di loro. In attesa del pasto visitiamo il locale tempio jaina dedicato a Candraprabha (qui noto con l’epiteto di Shanti, “pace interiore”), l’ottavo tirthankara. È completamente diverso da tutti gli altri templi da me finora visitati, essendo questo tutto colorato, contrariamente al solito bianco che caratterizza i monumenti e le vesti jaina. Le strette vie della cittadella sono ingombre di porte e finestre appoggiate ai muri, quel che si è ricuperato dalle case terremotate. L’obiettivo della giornata, come detto, è far visita ai Fakirani Jath, ma mai avrei immaginato quel che mi è succeduto. Innanzitutto, come si conviene (e l’ho sempre fatto in vita mia), bisogna far visita al capo villaggio e chiedere la sua autorizzazione a muoversi e fotografare tra la sua gente. Ma qui tutto va in altro modo: nessuno ci ha preannunciato, ma un’Ambassador bianca che si ferma al bordo della strada sterrata e due uomini - tra cui un pellebianca - che risalgono il pendio di sabbia rossa non passano inosservati. Un uomo grande e possente ci sta aspettando in cima alla duna. Arrivati a un metro da lui ci regala il suo grande sorriso e mi tende - per primo, quale ospite straniero, le sue mani aperte. Io vi metto le mie ed insieme creiamo un legame carico di arcaico quanto nobile simbolismo: siamo entrambi in pace perché le nostre mani non impugnano armi. “Assalam aleikum” è il suo saluto. “Aleikum assalam” rispondo. Con Rathod parla brevemente in gujarati: capisco che è lieto di rivederlo. Anch’io sono lieto di averlo come compagno di viaggio: senza di lui mai sarei arrivato fin qui così facilmente. Sul dosso della duna vi è un recinto di pali, messi in orizzontale. Il vento soffia da ovest. Guardo in quella direzione e vedo luccicare il Mar Arabico, distante poche centinaia di metri. Tutt’intorno il vuoto è riempito dalla sabbia e da altre capanne disseminate su di un vasto territorio. Non ci sono villaggi. Alla mia sinistra ho due capanne rettangolari di canne di fiume, in parte ricoperte con teli di iuta. Su di un arrugginito bidone fa bella mostra di sè un pannello solare. Entro nella prima capanna, diversa dall’altra perché i suoi supporti in legno sono

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colorati in verde, giallo e rosso. Tolgo le scarpe e mi accomodo sui tappeti. A dispetto delle apparenze, il nostro ospite non è una persona qualsiasi: lui è il sovrano dei Fakirani Jath e il suo titolo è Pir Aga Khan. Prima di iniziare il colloquio, parla fittamente con Rathod informandosi su di me. Vuol sapere cosa mi ha portato fin qui. Rathod spiega, lui annuisce. Il suo cellulare inizia a squillare (e lo farà in continuazione, da adesso in poi). Rathod, di volta in volta, mi racconta con chi è al telefono. Ora è in conversazione con un ministro del Governo centrale di Delhi, ora è un dirigente del Congress Party che desidera incontrarlo quanto prima, ora è un alto ufficiale dell’esercito che lo vorrebbe nel suo ufficio entro la fine del mese. Resto affascinato dalla semplicità di quest’uomo presumibilmente “potente”. Tra una telefonata e l’altra riusciamo a discutere di molte cose: le mie domande sono pertinenti al suo popolo. Mi racconta della migrazione del ceppo originario Amir Amsa (Grande famiglia), partito migliaia di anni fa dall’odierna Germania, e delle scissioni man mano che attraversavano l’Iran, il Beluchistan (ma non l’Afghanistan, precisa) e il Rajasthan; nelle aree di Bajana e Varai di quest’ultimo Stato indiano esistono tuttora grandi comunità di suoi sudditi. Cinque secoli fa i suoi antenati hanno lasciato il Sindh per il Kachchh e d’allora si è preso a contare gli Aga Khan che si sono susseguiti al comando. Lui è il 17° sovrano. “Troppo pochi in mezzo millennio” dico. Lui sorride e mi spiega: “In effetti il conteggio veniva tramandato per via orale, niente era scritto. Al tempo della scissione tra India e Pakistan queste terre hanno subito violenze e chi sapeva è morto senza avere il tempo di passare ad altri la nostra storia”. Per questa ragione si è ripartiti da dove la memoria arrivava e lui, oggi, è “soltanto” il 17° Aga Khan del suo popolo. Circa i suoi “alti” contatti, semplicemente mi risponde che oltre ad essere il sovrano dei Fakirani Jath - di cui è anche il capo religioso e giuridico - come deputato del Congress Party lui rappresenta il Governo centrale di Delhi su quest’area. Ed essendo terre di confine col Pakistan, la sua gestione politica non è di minimo impegno. Resto con lui per più di due ore. Molte domande, a cui sempre risponde. Imparo che sebbene i Fakirani Jath siano genericamente etichettati come sunniti, in realtà la loro religiosità si esprime nella venerazione di numerose divinità locali, primo fra tutti il santo Savla Pir. Prima di lasciarci col solito saluto, lui posa con piacere per delle foto. Ora siamo liberi di andare tra tutti i Fakirani Jath che vogliamo, ma prima m’intrattengo un’altra ora a parlare coi suoi figli, e questi, tra le altre cose, mi insegnano come girare la stoffa sulla testa per fare un buon rumàl, il loro copricapo. In quest’area ci sono dodici comunità Fakirani Jath, e ognuna di esse ha in media 30 abitazioni e 150 abitanti. La più vicina è Dragavandh, un insieme di capanne

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sparse, tutte col loro recinto. Fuori si muovono lenti i bufali. Solo donne al villaggio: sono due anni che non piove e gli uomini coi dromedari e il resto del bestiame sono in transumanza nel Maharashtra, alla ricerca dell’erba. Nani, vestita con abiti coloratissimi e ornati di tondi specchietti, mi ospita nella sua capanna, dove incontro le sue due figlie. La maggiore si chiama Amnét, l’altra Janatà. Mi offrono del the. Sono contente e sorridono. Senza problemi mi mostrano abiti e gioielli, che fotografo col loro permesso. Una capanna ospita una scuola per bambini di 6/8 anni. Entro, saluto gli studenti e Ambalal Ubadhai Sarania, il maestro. Oggi studiano l’alfabeto gujarati. Rispetto al mattino, il ritorno avviene per un’altra strada, con soste per fotografie oppure per visitare il celeberrimo tempio di Mata-no-Madh. In novembre qui vengono genti da tutta l’India, tanto è popolare la “energia” (shakti) femminile di questa Dea Madre. Rathod ha da poco saputo, via cellulare, che un suo carissimo amico stamattina ha avuto un incidente stradale ed è morto. Questa sosta me l’ha richiesta lui. Nulla osta da parte mia. Arriviamo a Bhuj che sono le 9 di sera. 19 GENNAIO, Bhuj. Giornata di riposo. Stamattina sono andato a riservare un posto sullo sleeper bus notturno per Ahmedabad. Al ritorno, sulla strada pincipale della città un giovane ragazzo mi è venuto incontro chiedendomi la cortesia di entrare nella libreria dove ieri sera avevo acquistato due volumi sulla storia del Kachchh. L’ho seguito. Kamlesh Bhujangilal, il titolare del Cross Word Bookshop, mi ha ringraziato e mi ha subito spiegato il perché di questo invito: la nostra breve discussione di ieri sera - dice - gli ha spalancato un nuovo mondo. Aggiunge che a Bhuj finora sono arrivati pochi stranieri, in genere turisti, ma il peggio l’hanno conosciuto con il personale della varie Ong qui giunte dopo il terremoto. “Hanno pensato soltanto a fare soldi sulla nostra disgrazia”. Che altro dire? Io non c’ero, quindi mi limito a riportare le sue parole. Del resto la cosa non mi sorprende affatto; lo cantava già nel 1967 il menestrello del Minnesota Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan: “Businessmen they drink my wine, plowmen dig my earth” (gli uomini d’affari bevono il mio vino, gli uomini con l’aratro scavano la mia terra). Accanto a Kamlesh c’è un altro uomo, che annuisce. Me lo presenta: lui è Jaideep Shah, il giornalista che scrive del Kachchh sul Gujarat Samachar, il più autorevole quotidiano del Gujarat. Insieme ne hanno discusso ed oggi volevano contattarmi in albergo per chiedermi un’intervista. Poi mi hanno visto per strada ed eccoci qui. Fatto strano per un giornalista, le sue domande sono precise e intelligenti. Tra una domanda e l’altra, il libraio mi chiede se può invitare in negozio una persona di grande cultura e competenza circa le tribù del Kachchh. Ne sono felice, rispondo. Alle 11 e 30 arriva Rathod (lui l’aveva già capito con chi

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volevano s’incontrasse: quanti altri stranieri vi sono oggi a Bhuj?). Siamo entrambi contenti di rivederci. Mi racconta del suo amico: in attesa che tornino i figli, sparsi nell’India e a Dubai, ora a sostenere la vedova vi è sua moglie. Non è il momento per altre domande. Ci lasciamo augurandoci ogni bene. Lascerò Bhuj alle 21 e 15. 20 GENNAIO, Ahmedabad. Mai avevo visto il Carro Maggiore e la Stella Polare così vicini come stanotte, mentre viaggiavo disteso sullo scomodissimo letto del bus che collega Bhuj con Ahmedabad. Per alcune ore le stelle sono state le mia televisione. Trovato un alloggio e fatta una doccia, verso le 8 e 30 sono pronto per ri-affrontare il traffico cittadino. La meta non è casuale: a Bhuj avevo avuto il mio primo contatto con i membri della comunità degli Swaminarayan (ne conoscevo l’esistenza, ma mai avevo approfondito l’argomento) e qui, in Ahmedabad, vi è la loro sede primaria. Già visto da fuori il tempio m’incuriosisce: una strana struttura da casa di montagna in vecchio stile inglese (tipo Mussoorie o Shimla) introducono all’iper colorato tempio della sètta. Poi imparerò che la prima struttura è l’haveli, mentre il tempio è stato ricolorato tre anni fa. Nel cortile è tutto un via vai di macchine e di gipponi, polizia e soldati in ogni angolo, folla da grandi occasioni. Mentre tolgo le scarpe (inzaccherate di fresco con sana merda di vacca), un uomo vestito di bianco - è un seguace laico della comunità, ma non sadhu: questi vestono di arancio scuro - mi avvicina e subito mi informa che da me non vuole soldi, ma che il suo compito è di introdurre gli stranieri alla conoscenza del tempio e della sètta. Saputo che sono italiano, da una borsetta estrae un’agendina e mi mostra l’elenco dei loro templi all’estero: molti in Inghilterra, altrettanti in Usa, ma nessuno sull’italico suolo. Mi ci vedo, vestito in arancio, a dirigere il business della filiale. Mi porta a visitare il sanctum: è una profusione di porte e di idoli in oro finemente cesellato. Intuendo il mio pensiero, mi informa che qui tutto è molto costoso. Questo fatto non mi stupisce, anzi mi riporta con la memoria al nostrano medioevo, dove il clero imponeva chiese ricche perché al popolino conveniva far credere che in una chiesa povera mai sarebbero potuto avvenire miracoli “importanti”. Toccava poi ai fedeli accrescerne la ricchezza coi lasciti. Ma l’effervescenza che oggi è nell’aria è decisamente inusuale: hanno preso a suonare trombe, flauti e tamburi, mentre i fedeli cantano in coro. Il mio accompagnatore toglie dalla borsetta una serie di santini e me ne regala due (nessuno in una vita intera, tre in un solo viaggio!): uno mostra Krisna e Radha - a loro è dedicato il tempio centrale.

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L’altro è una fotografia che mostra un uomo anziano, suo figlio e il nipotino. Mi insegna che loro sono il passato, il presente e il futuro (maestro) della sètta. Il padre si chiama Tejendra Prasadji Maharaj, mentre il figlio - attualmente in carica, visto che è quello che porta il turbante rosso sulla testa - si chiama Koshlendra Prasadji Maharaj. E in questo momento Koshlendra è qui, in visita pastorale. Ecco la ragione del frizzante che vi è nell’aria. Il mio cicerone ora mi deve lasciare perché l’acarya si appresta a ricevere i principali finanziatori della comunità nel padiglione di fronte a noi, e lui ci deve

essere. Prima, però, mi dice che qualora sia interessato, sono libero di scattare tutte le foto che voglio, “perché nei nostri templi niente è proibito”. Lo seguo e al centro dell’arioso padiglione vedo un uomo (ha 35 anni) seduto immobile sul trono, le gambe incrociate, lo sguardo fisso in avanti. Non una smorfia sul volto, né altri segni di vita: potrebbe essere un manichino ben fatto. Tutt’intorno a lui vi è uno stuolo di monaci e sadhu di rango elevato. I filantropi pagatori si mettono in fila di fronte al loro maestro spirituale, poi, uno dopo l’altro gli si avvicinano e con le mani scendono a sfiorargli le scarpe. Un addetto consegna una corona di fiori a Koshlendra e lui - senza mai aprir bocca - la mette al collo del ricco fedele. Finito il giro di giostra, tutti gli astanti agitano fiamme nell’aria (aarti) e poi di nuovo tutti a cantare. Suona un cellulare. L’acarya china leggermente il capo, estrae il telefonino da una tasca e lo porta all’orecchio. Resta sempre in ascolto, non risponde mai. Poi chiude la comunicazione. Nel frattempo il rito è proceduto tra suoni e preghiere. Al termine, Koshlendra si alza (sarà alto un metro e 90) e si dirige verso una porta. Tutti lo seguono e lo faccio anch’io. Strada facendo, i fedeli al suo passaggio si gettano a terra e cercano di raggiungere le sue scarpe per baciarle. Lui continua imperterrito, abituato. È sempre rigido, austero, personificando il suo ruolo di dio distaccato dall’umana gente. Sosta qualche decina di secondi davanti all’immagine di Bhagwan Swaminarayan, incarnazione (avatara) del Supremo Signore Sceso sulla Terra per l’Emancipazione Religiosa e Servizio Sociale, poi velocemente riparte.1 Adesso si dirige verso il sancta sanctorum, dove i soldati faticano a contenere la folla. Lui sosta davanti alle immagini di Harikrsna Maharaj, Dharmadev e Bhaktimata, poi si sposta al centro dove vi sono Nara e Narayana, i gemelli di

1 Sinceramente, dopo aver letto sul portale l’intero epiteto “Incarnation of the Supreme Lord

on Earth for Religious Emancipation and Social Service” l’avevo scambiato per un ministro del governo italiano.

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Badrinath, ed infine al terzo portale con Krisna e Radha. Poco lontano vi è il tempio con l’immagine di Shri Sahajanand Swami, il fondatore della sètta. Per meglio fotografare resto su di una scalinata, non sapendo che lui da lì dovrà passare. Un monaco mi chiede gentilmente di cedere il passo all’acarya, cosa che faccio immediatamente. Tutti si buttano in ginocchio, io resto in piedi (l’unico). Fulmine a ciel sereno, passandomi davanti piega un poco la testa e mi chiede: “Which are you from?”. “Italy” rispondo. “Nice place!” chiude lui. Le uniche parole uscite finora dalla sua bocca!

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Gandhinagar - la capitale moderna del Gujarat disegnata da Le Corbusier (a mio avviso gli riuscivano meglio le chaise-longue) dista 35 chilometri. Nel settore 11 di questa squadrata città è sorto il complesso templare detto Swaminarayan Akshardham.1 Salgo sull’autobus di linea e dopo un’ora sono all’ingresso. Qui la sera del 24 settembre 2002 un gruppo di terroristi pakistani votati al suicidio iniziarono un assedio; 14 ore dopo si contarono 33 morti e 72 di feriti. Adesso tutto è militarizzato, fuori e dentro. Nessun telefono, né macchina fotografica, né borse possono entrare. Depositato il bagaglio, ci si mette in fila per tre controlli polizieschi, di cui uno molto corporale. “Scapà el purscèl sàren sù el stabièl (scappato il maiale si chiude lo stabbio)” si dice in Brianza. Dentro, tutto è un paradiso terrestre: strade pulitissime, prati e giardini curati, passaggi pedonali ricoperti da rampicanti. Ovunque segnalazioni: a destra vi è l’ufficio informazioni, poi il ristorante, i bagni e tant’altro. A sinistra vi è il Meditative Garden, la cascata d’acqua, il lago artificiale, i sacri fiumi Ganga, Jumna, Sarasvati e Narmada. Irrinunciabile è la visione della Frullatura dell’Oceano primordiale. Un ricco parco giochi è a disposizione per il divertimento di bambini ed adulti. Altri cartelli informano che qui è vietato fumare, portare cibo dall’esterno, sputare negli angoli (sic!) e dappertutto nei prati. Seguono altre pedanti e tediose informazioni, che risparmio. A volte mi sembra di essere tornato a Singapore, dove ovunque mi si ricordava che l’introduzione del chewing-gum era punita con la prigione, mentre a chi urinava negli ascensori - un sensore apposito ne captava l’odore e bloccava le porte - veniva comminata una sonora multa e la sua fotografia pubblicata sui quotidiani, versione moderna dell’antica gogna.

1 Letteralmente: eterna, divina sede del Dio Supremo. Questa megastruttura cultural-

religiosa, realizzata per attirare immense folle di turisti della fede, è stata inaugurata il 30 ottobre 1992 con celebrazioni protrattesi fino al 2 dicembre. In questo lasso di tempo si sono tenute conferenze e seminari, una Sadhu convention (7-XI), un matrimonio di massa (17 e 18-XI), 54.300 persone hanno donato 831.600 cc di sangue e sei milioni di persone hanno visitato il complesso.

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Non ci avevo mai pensato prima, ma dopo aver letto quei cartelli ogni volta che entravo in un ascensore mi scappava un impellente bisognino. Il pezzo forte della visita a questo complesso templare sono le quattro “Indimenticabili Esperienze di Cultura Indiana”. La prima - Sahajanad, un film di 60 minuti - racconta l’incredibile vita di Bhagwan Swaminarayan. Segue Sat-Chid-Anand: quattordici schermi multi-mediali rivelano le Verità Vediche. Nella terza sala si può assistere a Nityanand (Camminare attraverso), dove diorama e figure in fibra ottica spiegano i messaggi morali insiti nelle Upanishad, nel Ramayana e nel Mahabharata. Per i masochisti resta ancora Premanand, audio-animazione elettronica di figure. L’ingresso agli spettacoli comporta un “generoso supporto” di 30 rupie. Chissà perché, tutto ciò mi riporta alla mente il comandamento dettato (10 dicembre 2004) da una dentiera ridens alla folla di pubblicitari costretti ad una sua convènscion: “Dobbiamo portare il quoziente intellettuale dell’italiano al livello di un ragazzo di 15 anni, ancora in seconda media e che nemmeno siede al primo banco”. In altre parole: un popolo pronto a obbedir tacendo. Al termine del largo viale vi sono le seimila tonnellate di arenaria rosa del tempio. Il suo interno è una esaltazione di ricchezza e di potere: un centinaio di alte colonne riccamente scolpite sorreggono il tetto a cupole, le finestre sono in marmo traforato. Al centro dell’Hari Mandapan vi è la statua ricoperta d’oro di Bhaghwan Swaminarayan, alta più di due metri, e di altri due guru. I sacri resti del fondatore della comunità sono esposti all’Hari Smruti Mandapam. La costruzione dell’immenso complesso è stata possibile grazie al contributo di “undicimila artigiani che hanno lavorato con immenso sacrificio, austerità e preghiere per complessive 300 milioni di ore-uomo, offrendo gratuitamente il loro colossale sforzo devozionale”. Altri pannelli erudiscono sul numero dei pilastri, delle statue e della lunghezza-larghezza-altezza dei locali. Apprendo che per realizzare il film sul mitico viaggio di Bhagwan Swaminarayan ci sono voluti ben due anni di lavoro, oltre diecimila comparse e cento località come sfondo.1

1 Il giorno di Ashadh sud 10, in Samvat 1849 (29 giugno 1792 del calendario occidentale),

all’età di 11 anni Bhagwan Swaminarayan lasciò la casa di Ayodhya (Inconquistabile) per il lago di Manasarovar, ai piedi del Kailasa. Come il principe Gautama, anche lui decise di rinunciare al mondo (mahabhinishkraman) e da questo lago iniziò il suo personale Kalyan Yatra (Pellegrinaggio del riscatto). In 7 anni, un mese e 11 giorni percorse oltre 12 mila km, visitando 187 luoghi santi. Tappe principali del suo viaggio furono Badrinath, Hardwar, Ayodhya, Muktinath; Kathmandu (Nepal); Kamakshi (Assam); Batwakund (Bangladesh); Navdwip (Bengala); Jugernaut (Orissa); Tirupati, Rameshwar e Kanniyakumari (Tamil Nadu); Cochin (Kerala); Puna, Burhanpur e Nasik (Madhya Pradesh); Surat, Bhavnagar, Junagarh e Loj nel Gujarat.

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Per mantenere desta l’attenzione del pubblico, il marketing prevede religiose visite da parte di popolari attori di Bollywood (reclamizzate sui quotidiani e dalle TV locali), oppure di politici in cerca di approvazione elettorale. Al Presidente A.P.J. Abdul Kalam e al Primo Ministro Manmoham Singh è spettato l’onore dell’inaugurazione alla presenza di ventimila devoti. In tempi recenti anche Bill Clinton ha ricevuto la benedizione di Pramukh Swami Maharaj “acclaimed as a unique and rare holy soul of India”. Oggi l’intera struttura si giova del disinteressato lavoro di 8233 persone, che un apposito cartello - aggiornato al 6 novembre 2005 - suddivide per settore e per sesso. Undicimila artigiani prima, ottomiladuecentotrentatrè persone adesso, hanno deciso di lavorare gratuitamente per costruire e mandare avanti la straricca baracca. Cosa non si farebbe per un essere raccomandati nell’aldilà! 21 GENNAIO, Ahmedabad. Ieri qualcosa non mi quadrava, e non era un problema di cerchi fisici ma di aureole per santi. Spiego: nel tempio della comunità Swaminarayan di questa città ho scambiato due battute con l’acarya in carica. Tutti mi hanno detto che lui è il capo supremo della comunità, carica ereditata dal padre e destinata al figlio, già presente nelle immagini ufficiali. Nel pomeriggio, a 35 chilometri di distanza, ho visitato un altro tempio (più una Disneyland all’indiana che non un posto di meditazione), e qui dappertutto era affissa l’immagine di un uomo vestito d’arancione e senza il turbante rosso in testa. Mi sono informato e mi hanno detto che lui è Pramukh Swami, il sesto Maharaj ed attuale capo della sètta. Quando chiedevo spiegazioni su chi era veramente il capo (ne ho conosciuti due nello stesso giorno), notavo che all’improvviso tutti avevano altro da fare. Giusto per capire, oggi sono ritornato nel tempio di Ahmedabad. Mi sono seduto all’ingresso, al fresco e all’ombra, e poco dopo, neanche ci fossimo dati appuntamento, è arrivato lo stesso uomo che ieri mattina mi ha fatto da cicerone. Dopo i convenevoli è arrivato il tempo delle domande. Essendo le sue risposte evasive sono andato al contrattacco. “Visto che non ne volete parlare, ecco cosa scriverò una volta in Italia. La comunità ha due capi: uno, lo swami arancione, ricopre lo stesso ruolo che Wojtyla si era ritagliato per sé, cioè del Buon Pastore e grande comunicatore fintamente lontano dai miasmi del potere curiale. È all’acarya, invece, che compete il ruolo tecnico e finanziario, una specie di Marcinkus indiano”. Touché, direbbero i francesi. “Non è così! La verità è un’altra: settant’anni fa, all’interno della comunità c’è stata una scissione, e gli altri si sono messi in proprio aprendo loro templi, come quello di Gandhinagara e di Delhi [inaugurato il 6 novembre 2005], le due più grandi strutture Swaminarayan al mondo!”.

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Ho finalmente risolto l’arcano. Mi pareva strano che una scissione non ci fosse ancora stata: “Dove il latte cade dal cielo” ognuno pretende la sua razione. Ovviamente, anche qui i motivi ufficiali della scissione mi sono stati spiegati quali “una diversa interpretazione delle Sacre Scritture”. Una dolce novella valida per chi ama stare nel gregge protettivo, credendo acriticamente ad ogni parola del suo pastore. 22 GENNAIO, New Delhi. Con un volo low-cost sono ritornato a Delhi. Come sempre mi accade, il rientro chiude in qualche modo il viaggio intrapreso. Ora mi dedicherò alla visita di luoghi da me sfiorati in passato, come Brindàvana, la località legata all’infanzia di Krisna, oggi ridotta a terribile lager per le sfruttatissime vedove rifiutate dalle loro famiglie.1 È anche il tempo, per me, di buttar giù alcune considerazioni, “memoria” da riservare ad uso futuro. A Delhi ho ripreso la buona abitudine di fare incetta dei giornali nazionali, tra cui i settimanali The Week e India Today. Per coincidenza, la copertina di quest’ultimo lancia l’articolo speciale dedicato al quinto anniversario del terremoto che nel 2001 ha distrutto Bhuj e altre città del Kachchh. Leggendo, ritrovo quel che ho visto coi miei occhi e attraverso i racconti dei sopravvissuti da me interpellati: le case pericolanti sono tuttora in piedi, ufficialmente disabitate - ma tutti sanno che molte famiglie vi sono rientrate (dove andare, altrimenti?). Che soltanto i ceti abbienti hanno avuto una casa nuova, fuori dal centro, antisismica. Che le Ogn si sono distinte per la loro arroganza “occidentale”, provvedendo a costruire quel tanto che serviva loro per abbagliare i sottoscrittori di fondi di carità, tralasciando le reali necessità popolari. Sono famose nel Kachchh le ricostruzioni in cemento delle cadute capanne di canne. Qui, la temperatura media invernale è di 28 gradi, 42 l’estate. Quindi, le canne hanno la funzione di agevolare il flusso dell’aria, lasciando il giusto fresco all’interno.2 Le nuove, in cemento, sono un forno. Nessuno le abita, ma sui dépliants pubblicitari i loro ricostruttori potranno vantarsi di aver ridato una casa “civile” ai tribali del Kachchh, quindi di “aver fatto”. Classico metodo di neo-colonialismo becero e truffaldino, fondato sul modello missionario: noi imponiamo i nostri modelli - che sono sempre quelli giusti - loro li devono subire. Inoltre, leggo che nella città di Gandhidham i soldi della ricostruzione sono stati utilizzati per erigere ex novo alcuni ipermercati. Metodo poi esportato con lo tsunami, dove la montagna di soldi raccattati sono stati in gran parte utilizzati per mantenere l’apparato burocratico-salariale delle Ong coinvolte. Quel poco

1 Per maggiori informazioni, rimando al libro In India di William Darlymple, Rizzoli 2000 2 Nel linguaggio gergale dell’India, pukka è il termine che genericamente definisce le

abitazioni definitive, con struttura in muratura, mentre kachcha è il nome dato alle costruzioni in legno, paglia e fango.

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che è rimasto è stato utilizzato per rimettere in sesto le strutture turistiche e commerciali. Tanto il popolino era già abituato alla miseria...1 Quarta considerazione. Come già detto, in India i ricavi dei maggiori luoghi di culto sono resi pubblici, anche per favorire la quotazione in Borsa delle istituzioni che li governano. L’insieme religioso erroneamente chiamato hinduismo non contempla un potere centralizzato, tipo il Vaticano per capirci.2 I brahmani più intraprendenti si creano una loro comunità, in genere basata sulle personali riletture dei testi

1 “Ong cooperazione: non è tutto come ho letto ma ce n’è abbastanza. Ecco perché M. non

lavora più in quel settore dopo notti insonni, rimuginazioni, discussioni e fegato grosso non c’e l’ha più fatta. Troppi gipponi e poco coinvolgimento e partecipazione della gente del luogo”. M.M., e_mail inviata all’autore il 15.09.2006.

2 In verità, un tentativo in questa direzione si è fatto. La storia in breve: dopo sei anni di lavaggio di cervello, il 6 dicembre 1992 circa 150 mila fedeli convenuti nella città di Ayodhya rasero al suolo la Babri Masjid, la moschea che l’imperatore moghul Babur aveva fatto erigere in un punto che oggi si vuole sia lo stesso dov’era nato il dio Rama. Nell’occasione, braccio secolare dell’interessato clero fu l’ala destra del partito nazionalista hindu Bharatiya Janata Party (BJP) e la sua emanazione, il Vishwa Hindi Parishad (VHP) o Consiglio Mondiale Hindu. A dir la verità, prima che la distruzione della moschea di Ayodhya diventasse il perno attorno al quale presero a ruotare tutti i partiti politici dell’India, la città non era mai entrata nel giro d’affari tipico delle grandi città di pellegrinaggio. Non esistevano alberghi e il traffico che congestionava i suoi vicoli era formato da risciò a pedali. I pellegrini venivano quasi tutti dai villaggi vicini, dove tornavano la sera. Insomma: il dio Rama non attirava le folle immense tipiche dei luoghi consacrati a Shiva quali Haridwar, Hallahabad (sede del Kumbha Mela, la più grande festa religiosa del mondo) o il tempio di Sri Nivasa, una personificazione di Shiva presente a Tirupati; al suo interno vi è un sacco dove i pellegrini gettano oro, gioielli e denaro affinché Sri Nivasa possa pagare il debito contratto con Kubera: si dice che questo sia il più imponente cash flow di tutti i templi indiani. I ghat per la cremazione di Ayodhya non potevano di certo competere con quelli di Varanasi, vero colosso dell’industria funeraria. Ma dopo che la moschea fu rasa al suolo - e tutti gli occhi del mondo erano ancora puntati sulla città - il VHP prese la palla al balzo consacrando Ayodhya a diventare il “Vaticano” degli hindu. Scrive Mark Tully (Sabarmati Express, Sartorio Editore 2006): “Non è affatto sorprendente che il VHP sognasse un Vaticano indù. Il Consiglio era stato istituito per porre rimedio a quelli che l’RSS considerava i punti deboli dell’induismo: la mancanza di un’organizzazione simile a quella della Chiesa cattolica e la tradizionale riluttanza al proselitismo. Swami Chinmayananda, primo ad avanzare la proposta di un consiglio indù, dichiarò: “So che un’organizzazione religiosa va contro i princìpi fondamentali dell’induismo, ma dobbiamo stare al passo coi tempi. Sembra che oggi, dovunque nel mondo, in ogni aspetto della vita, si sia entrati nell’era dell’organizzazione … di conseguenza in ambito spirituale, per quanto l’individuo cresca e progredisca, se la religione vuole servire la società, deve anche dotarsi di un’organizzazione”. I missionari inviati dal VHP a fare proseliti tendevano a semplificare l’induismo. Sull’esempio della Chiesa cristiana, che aveva pensato a una fede semplice basata su un solo Dio e una sola Bibbia, loro si concentravano su Rama e il Ramayana”. E per far breccia tra le masse contadine non a caso hanno scelto di promuovere - tra le 25 varianti possibili - la versione scritta nel XVII secolo dal poeta Tulsi Das in avadhi, una variante dell’hindi, la lingua del popolo e per questo divenuta la vulgata, la versione popolare del poema, ben diversa dall’originale versione scritta da Valmiki in sanscrito, la lingua dei sacerdoti.

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“sacri”, siano essi i Veda o le Upanisad. Se riescono nell’intento il successo commerciale è assicurato. Quindi non mi stupisce leggere nelle pagine finanziarie del settimanale The Week che “la recente stagione di pellegrinaggio al tempio montano di Sabarimala (Kerala) ha fruttato ben 62,5 crore di rupie”. Siccome un crore è pari a 10 milioni, tradotto in numeri nostrani le offerte assommano a 625 milioni di rupie, circa 12,500,000 Euro. Per la massa contadina dell’India è una cifra stratosferica. Le azioni del tempio schizzeranno verso il Cielo, trapassando il trono del Divino.

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A proposito di Sabarimala: nel 1988 ho cercato di salire a piedi fino a questo tempio. Ero solo, come adesso. A Pamba, punto di partenza dell’erto sentiero, ho subito trovato forte ostilità da parte dei brahmani locali e uno di loro, con la scusa del controllo dei documenti, mi ha chiuso a chiave in un locale completamente vuoto, da dove sono riuscito a scappare (e il verbo è giusto, per l’occasione). Dopo qualche chilometro ho fermato l’unica automobile di passaggio e offrendo all’autista una dose di rupie sono riuscito a farmi portare alla stazione dei bus di Pathanamthettà, lontana quasi due ore di viaggio. Il successivo bus si è fermato a Trivellà, località in cui sono incappato nel secondo momento negativo del mio “tampax day” (essere nel posto giusto al momento sbagliato): l’annuale raduno del CP1(M), il Partito Marxista allora al governo nel Kerala, era al suo culmine. Per strada i bambini marciavano in divisa col passo dell’oca e i caporioni godevano del controllo sul liquefatto cervello altrui. La mia improvvisa comparizione venne da loro paragonata a quella di Satana in Paradiso e venni indicato alla massa come “esemplare di capitalista nemico del nostro popolo.” Gruppi di facinorosi imbottiti di slogan e alcolici mi si strinsero attorno, io avevo un muro di mattoni alle spalle. Intuito il pericolo, un uomo di buon cuore mi prese per mano e mi spinse in un vicolo buio, affidandomi ad un secondo uomo mentre lui si fermava a trattenere i “sinistri bigotti” che lo riempirono di pugni e calci. Chi mi teneva la mano (era una notte senza luna e neppure ho visto la faccia del mio salvatore), passando a zig-zag da un vicolo all’altro mi consegnò ad un terzo uomo e questi mi fece entrare in una automobile, pregandomi di restare il più nascosto possibile. Viaggiammo alcuni minuti al buio, poi, raggiunta una strada asfaltata, l’autista svoltò a destra e accese i fari. Alla due di notte ero a Kottayam, un po’ stremato ma salvo. Per un vero capitalista non sarà una valida ragione, ma mai comprerò le azioni di Sabarimala.

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23 GENNAIO, Mathura. Di buon mattino ho lasciato Delhi. Alle 7 e 55 c’è l’Amritsar Express, il treno superfast per Mumbay. Compro un biglietto di seconda classe, posto non riservato, e ci salgo. È strapieno e ci si arrangia tutti, senza protestare. Il sedile è per quattro persone, ma sfruttando al meglio lo spazio riusciamo a starci in sette. Appena partiti inizia il solito spettacolo: c’è chi vende prodotti alimentari e chi mendica. La novità di oggi sono due: per soldi, una donna si mette a cantare struggenti nenie, senza musica, modulando la voce. Resta nel nostro vagone per almeno 45 minuti, senza mai smettere di cantare. Due ore di viaggio e sono a Mathura, la città dov’è iniziata la carriera di Krisna. È la terza volta che approdo in questa città. Vado subito al Bengali Ghat dove vi è “l’unico albergo in riva al fiume”, come insegna la pubblicità. Chiamarlo albergo è una esagerazione, ma la struttura ha i suoi pregi. Raro traffico motorizzato, quindi niente rumore. Al massimo può capitare di essere svegliati nel cuore della notte da un indemoniato che si mette a urlare preghiere alla dea Yamuna, come mi è successo nel 2000. Non siamo nell’alta stagione dei pellegrinaggi, dunque l’albergo è vuoto e mi fanno un buon prezzo (anche se è pur sempre un prezzo elevato, riservato ai non-indiani, come usa da tempo). Due ore di treno e cambia il valore del mondo. Se è vero che ovunque nel mondo i pujari sono avidi di potere e di denaro, quelli di Mathura li avevo già messi al vertice della scala dell’ingordigia. Come appaio sui ghat mi saltano addosso come zanzare, ma sono vaccinato e li ricaccio dove sono venuti. Il tutto con calma, senza arrabbiature; fa parte del gioco delle parti: io ho il sangue, loro la siringa.1 Gironzolo a lungo nella cittadella, sempre affascinato dalle vecchie strutture architettoniche ricche di intarsi e di pregevoli portali. Oggi tutto è fatiscenti e abitato da gente comune. Le stradine sono spesso ingombre di vacche, tori, bufali, non tutti ben disposti. Le loro odorose torte ricoprono ogni millimetro quadrato, ma presto ci si abilita a districarsi, passando sul secco ed evitando l’umido. Per strada sento un gran rullare di tamburi. Da un vicolo laterale sbuca una piccola processione, fatta soprattutto di bambini che accompagnano due giovani sposi. Lui è malamente vestito all’occidentale, lei, tutta velata come da tradizione, lo segue a distanza. Dalle spalle di lui scende uno scialle, annodato a quello di lei: più che due sposi sembrano due prigionieri in catene. 24 GENNAIO, Mathura. Ieri sera, dopo la quotidiana seduta internet ho deciso di rientrare alla locanda passando per la “porta sacra”, quella che immette ai ghat sulla Jumna (i fiumi in India sono femminili). Il motivo era semplice: la strada “sacra” dispone di luce elettrica e quindi si vedono sia i buchi dei lavori in corso

1 Non a caso un adagio tibetano recita: “Prima faceva il prete, adesso è diventato mercante”.

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sia le torte bovine. Arrivato nei pressi del Dwarkadesh, il roseo tempio principale, ho percepito una certa agitazione nell’aria. Infatti vi era una troupe televisiva intenta a riprendere in diretta il rito dell’aarti. A differenza della puja, rito gestito nel tempio da un pujari e dal capofamiglia a casa, l’aarti è il rito che prevede la presentazione del fuoco alle acque di un fiume sacralizzato. In pratica, la mistica fusione di fuoco e acqua con l’immensità dell’etere. Costa il 500 percento in più rispetto la puja più esosa, quindi è più sacra. Sono i soldi che creano il “potere salvifico”. Noi li abbiamo copiati - come sempre - creando le indulgenze e le messe di suffragio: più paghi, più redimono.

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Stamattina sono andato a Brindàvana, il luogo dove passò l’infanzia Krisna, il dio proprio delle tribù Yadava dedite alla pastorizia. Una specie di re David ebraico: dapprima si dedicò allo sterminio di tutte le tribù nemiche, poi divenne colui che nella battaglia di Kurukshetra intimò all’indeciso Arjuna di prendere parte all’eccidio perché ad ognuno di noi è dato un destino. Quello del guerriero è di combattere, anche quando il nemico è del suo stesso sangue. Solo tre secoli fa, riveduto e corretto, Krisna è stato fatto diventare il dio della bhakti, la devozione assoluta. La città è strapiena di templi. Ne visito tre, poi decido che per oggi basta ed avanza. In confronto a questi, gli esosi pujari e brahmani di Mathura impallidiscono: qui tutti spingono il visitatore verso il loro tempio, tutti vogliono i suoi soldi. Più che Krisna, il nome del dio da me più ascoltato è stato Rupìa. Tralascio il resto dei faraonici templi, regno del pacchiano grandeur creato ad uso e consumo delle folle beotizzate e mi faccio portare ai ghat. Tenendo a bada la folla che preme - chi per farmi da guida, chi per portarmi in barca sul fiume, chi per visitare il tempio più tempioso, o più semplicemente per estorcermi soldi1 - riesco a girovagare tra gli stretti vicoli che caratterizzano quest’area. Dappertutto è diffuso il profumo delle fogne a cielo aperto. Per fortuna è una giornata fredda e ventilata. Penso a come dev’essere in periodo monsonico, quando le piogge tutto allagano e trasportano le umane feci in ogni dove. 25 GENNAIO, Mathura. Gran fermento sui ghat stamattina. Allo Shyam un uomo attillato da brahmana di lusso - giacca marrone lunga al ginocchio e pantaloni bianchi - mi saluta con un gran sorriso. Qui saper tutto di tutti è sport nazionale; dunque lui ben sa che l’Occidentale a suo tempo (a.d. 2000) invitato personalmente dal “papa arancione” a seguire il suo parikrama sul fiume in

1 Tutti i mendicanti e i bambini mi chiedono dieci rupie, mai meno. Non hanno colpa: in

passato hanno chiesto questa cifra ai turisti e le hanno avute, quindi....

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occasione dello Sri Sri 84 krosh Vrajamandal sono io. È naturale che mi veda con un occhio speciale: raccolgo il seminato. Anche lui vuole essere gentile e mi chiede di partecipare al rito del bhumi, incitandomi a scattare fotografie. Saliamo su di una terrazza che dà sul fiume, dove troviamo Viswanatha caturvedi, oggi ottantenne, un tempo patewaz (lottatore). Il suffisso caturvedi (“quattro veda”) indica che è nato di casta sacerdotale. Il mio ospite ha 51 anni e si chiama Vipin Swami. Anche lui di casta caturvedi, è il fondatore del Viswa Sanatan Dharma Rakshah Dal, un’associazione che gestisce tutte le attività religiose di Mathura. Mi faccio spiegare ogni cosa in dettaglio e traggo le conclusioni che quest’uomo ha messo in piedi una Confcommercio della Fede. Aggiunge che la sua foto è spesso sui giornali, anche oggi. Bene. Nel frattempo un ragazzo gli passa dal basso un recipiente d’acqua fresca di fontana. Un secondo ragazzo passa dei sacchetti. In uno vi è una discreta dose di marjuana cotta (“rispetto a quella naturale questa va subito alla testa” - mi dice), in un altro vi sono una trentina di palline di hashish. Rifila il tutto al vecchietto e questo prende un paio di pugni di marjuana, aggiunge un tot di hashish, un po’ d’acqua ed inizia a tritare l’impasto tra due pietre, creando il “green butter” o hemp. Finito il suo lavoro passa il tutto a Vipin. Lui prende un colino, vi mette l’hemp e gli versa sopra il resto dell’acqua fino a riempire due vasi metallici, uno chiaro e l’altro di rame. Chiedo se i due colori sono casuali, ben sapendo la risposta: mi conferma che l’uno è maschio, l’altro femmina. Ora travasa il contenuto da un recipiente all’altro, e la distanza fa descrivere al raggio verdastro un’ardita curva nell’aria. Vipin sta mischiando (copulando) i due contenuti in modo che diventino Uno. Il Grande Gioco del Rito è in corso, il tutto cantando salmi in onore di Shiva. Ora è il momento finale: l’hemp viene bevuto tenendo il boccale alto sopra la bocca, in modo che cada in gola con discreto impeto. Inizia il vecchio col suo bravo mezzolitro, segue Vipin; a me viene offerta la terza ed ultima dose. Chiedo venia, ma rifiuto. Fanno salire sul tetto un terzo caturvedi che prende il mio posto. Il fatto di avermi messo sul piano di un caturvedi non è roba da poco. Ma droga è droga e questa - l’ho visto più volte - fa sballare di brutto. Ora i tre si siedono al sole e gli effetti della bevuta si vedono subito. Il perfetto inglese di Vipin diventa un ciarfugliare, la faccia di Viswanatha assume aspetti grotteschi. Dopo loro è il turno di altri tre che salgono sul tetto per preparare l’hemp. Vipin mi dice che andrà avanti così per tutto il giorno, in ordine decrescente di casta. Mi insegna anche i nomi alternativi per definire questo impasto: Shankarabuthi,

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Shivabuthi, Vijiya Siddhi, Bhang e Hemp.1 Saluto tutti. Lascio il Paradiso e ritorno sulla Terra. Vedo preparare il candan o “burro giallo” nello stesso posto di cinque anni fa. Si tratta di un impasto di sandalo e zafferano e il suo utilizzo (messo sulla fronte, in orizzontale) è riservato ai soli sacerdoti e agli idoli. Le gradinate finiscono all’altezza di una vecchia moschea trasformata in tempio. Sul terrazzo superiore vedo altri tre uomini intenti a preparare l’hemp. La statua in marmo del vecchio rishi Surdas tutto vede, ma tace. Alle spalle dei ghat vi è il mondo abitato dai comuni cittadini. Nella cittadella, chiusa da mura e con grandi portali, le strade sono strette e con ripidi saliscendi. Giro tranquillo, tutti mi salutano. Entro nella fortezza, ora abitazione, e dalle sue mura mi godo il paesaggio: di fronte ho il villaggio di Durvasha (ci sono stato ieri, ritornerò anche oggi) sovrastato dal suo bianco tempio. Alla mia sinistra vi è un’isola. Con la fantasia penso sia quella su cui Krisna usava portare le gopi (vaccare) per far loro ammirare la notte stellata. Conoscendo le sue inclinazioni, credo non si sia limitato a questo. A tal proposito, scrive Jayadeva, poeta indiano vissuto nel XII secolo:2

Nel cielo di velluto dei suoi seni, spalmato di luminoso muschio di cerva, ornato con la luna dai segni delle unghie, unisce un filo di pietre preziose come un chiaro mazzolino di stelle: nel bosco su un’isola della Jumna trionfante Murari ora si delizia. Fra le sue cosce ampie, dimora del piacere, trono aureo nel palazzo d’amore, distende una fascia gemmata, come un festone ridente intorno a un portale: nel bosco su un’isola della Jumna trionfante Murari ora si delizia.

È lo stesso poeta,3 indiscreto quanto mai, a rivelare come alla pergola sulla riva del fiume fosse giunta anche l’innamoratissima Radha. Vi arrivò signorina, ritornò signora:

1 Decotto di canapa indiana, con proprietà allucinogene. Si tratta del narcotico in polvere

estratto dalla pianta della canapa (cannabis sativa), conosciuto in India come bhang o cheras, in Turchestan come nasha e da noi in Occidente come hashish.

2 Strofe 165 e 167 del canto XV del Gitagovinda, edizione a cura di Giuliano Boccali, Adelphi 1982.

3 Gitagovinda. Estratto dall’edizione a cura di M.R. Telang, 1899.

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Radha, incapace di frenare oltre il desiderio, Si rivolge all’amica dicendo “O Shakti, fa’ in modo che Krisna si unisca a me, Perché sono infiammata dal desiderio”, E quindi in sei strofe espone quello che accadrà a lei e a Krisna, Quando lui arriverà: Sarò piena di vergogna nell’incontrarlo dopo tanto tempo Ma lui mi renderà desiderosa dicendomi cento cose graziose Sorriderò dolcemente e parlerò con gentilezza E lui allenterà il sari di seta sul mio monte di Venere. Mi stenderà sopra un letto di foglie E lui giacerà a lungo sul mio seno Lo abbraccerò stretto e lo bacerò E anche lui mi abbraccerà con lo stesso trasporto E bacerà il mio labbro inferiore. Chiuderò gli occhi con languore E le sue guance si abbelliranno con i segni del piacere Il corpo si inumidirà per il sudore della foga E lui sarà scosso dai tremiti del supremo eccitamento. Io ripeterò il verso del cuculo E lui farà più di ciò che consigliano i libri erotici Cadranno i fiori dai miei capelli e si scioglierà la crocchia E sui miei seni turgidi lascerà i segni delle unghiate. Tintinneranno le catenelle alle mie caviglie E lui completerà l’atto d’amore La mia fascia si scioglierà e sarà tutta sfilacciata Mi prenderà per i capelli e mi bacerà. Mi abbandonerò al languore, al momento dell’orgasmo Lui avrà gli occhi semichiusi, simili a fiori di loto Il mio corpo sussulterà come un serpente, Incapace di reggere ancora E Krisna sarà felice per aver soddisfatto la sua passione.

26 GENNAIO, Mathura. - FINEZZE ORIENTALI. Racconto ad un locale un episodio del 2000, quando due soldati su indicazione del “papa arancione” vennero a prendermi per mettermi su di una barca del seguito “vip”. Mi corregge: non mi hanno preso, mi hanno scortato. Ha ragione. EDUCAZIONE CIVICA. Passo davanti ad una scuola. Il cancello è aperto e vedo gli studenti in fila come soldati. Un uomo parla al microfono, io mi fermo ad osservare. Un tizio basso e grasso mi si avvicina fingendo di guardare altrove. Una donna mi informa che è il preside. Ha il volto severo, è compreso nella sua parte. L’uomo al microfono ha finito, un altro attacca a suonare con l’harmonium, i ragazzi cantano, le fanciulle si dimenano a destra e a sinistra

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battendo i tamburelli. È arrivato il momento del preside: dai movimenti e dal modo d’intercalare le parole sembra la caricatura del fu italico duce conductor. Per quel che vedo potrebbe tranquillamente recitare “Studenti - di terra - di cielo - e di mare - etc etc”. Alle sue spalle due inservienti mostrano ai giovani un missile di cartone dipinto coi colori della bandiera indiana, che poi depositano sugli schienali di due sedie. Alla fine di una serie di “Attenti! Riposo!” segue il “Rompete le righe”. Scrive Francesco Antinucci in La scuola si è rotta (Laterza): “Sotto il peso dell’imponente cambiamento tecnologico in corso, scricchiola il pilastro centrale su cui si fonda il tradizionale modo di apprendere. È questo che andrebbe cambiato: ma la scuola può farlo?”. Bella domanda. 26 GENNAIO, INDIPENDENT DAY. Queste giornate “patriottiche” sono sempre da prendere con le pinzette. Trovi sempre l’imbecille fanatico che ti rompe le uova. Per strada si vendono bandierine e coccarde tricolori. Per due rupie ne compero una, adesiva. Come ho già avuto modo di constatare, ho speso bene i miei soldi. LA BELLISSIMA KALI (parte prima). Un risciò-wallah mi indica una nera figura ferma sull’altro lato della strada. Non ho nemmeno il tempo di capire che lei parte, attraversa la strada e s’infila in un cortile. La seguo. Il cortile è cieco e in fondo ci fermiamo. Ora vedo bene: è un hijra (un femminiello) vestito come la dea Kalì, con una ghirlanda di teschi di plastica intorno al collo. Questi uomini effeminati (molti per disfunzioni ai genitali, altri perché castrati da infanti) terrorizzano le masse ignoranti (perché ignorano), vittime delle superstizioni religiose. Per me lei si mette in posa, piede destro alzato e lingua in fuori. Scatto due slides, poi le offro il giusto. Prende i soldi, li porta alla testa e poi su di un teschio per nove volte consecutive, li bacia e li mette in tasca. Fatto questo prende una mia mano e la mette tra le sue, tipo panino imbottito. Quando fanno così, dicono, portano fortuna e oggi mi fa comodo crederci. 27 GENNAIO, Mathura. Visto che ogni tot manca la corrente elettrica, prima di accendermi il PC l’uomo del Cyber Cafè (come si chiamano quasi tutti i centri internet) ha acceso un cero e un bastoncino d’incenso davanti ai ritratti della dea Kalì e di altri dèi. Ora la connessione può essere attivata. MOSTRARE I MUSCOLI. Ieri, nel primo pomeriggio, parata patriottica per le strade di Mathura. Tutti i bambini delle scuole primarie erano cooptati e suddivisi per settori merceologici. Apriva un risciò a pedali su cui era montato uno missile di cartone dal nome Colambia, con all’interno un bimbetto salutante. Seguivano

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gruppi di infanti guidati da maestri incoccardati. Molti di loro, vedendo le mie bandierine sul petto, mi hanno salutato militarmente, scattando sull’attenti. Un gruppo di bambini avanzava portando aratri di bambù in spalla, seguiti da altri che agitavano falci di cartapesta nel cielo. Un gruppo ricordava i personaggi che hanno fatto la storia recente dell’India: alcuni avevano una nera barba e finte pistole alla cintura, altri portavano baffoni e fucili. Chiudevano tre imitazioni di Gandhi, seguite da tre soldati armati, ricordo delle guerre vinte contro il Pakistan. Tristi contrasti. Dietro loro, bambini biancovestiti portavano finte maschere a gas in faccia e bottiglie vuote di acqua minerale con la scritta Oxigen sulle spalle. Un’intera classe portava mazze da cricket, col nome di un “eroe nazionale” impresso sul retro della bianca maglietta. Chiudeva la parata un risciò a pedali carico di missili puntati al cielo e un altro con un megafono da cui uscivano musiche patriottiche a ventimila watt. UN ANGOLO DI PACE. Al Bengali Ghat, giusto di fronte all’Agra, vive giorno e notte un vecchietto. Lato fiume ha chiuso una torretta con della plastica e qui resta seduto ad attendere gli immancabili visitatori. Ho preso l’abitudine di sedermi accanto a lui e osservare l’ondivagante muoversi della varia umanità. Lui mi sorride sempre ma non apre mai bocca per parlare. Oggi, mentre scrivevo le mie impressioni di viaggio sul quaderno, a gesti mi ha chiesto il quaderno e in caratteri devanagari ha scritto il suo nome - Shyamlal Baba Bolevandari Harekrsna - su di una pagina, un grande Hare Krisna sulla copertina. Contento, mi ha restituito il tutto. Nel frattempo, i due metri quadrati della sua residenza si sono popolati: a noi due si sono aggiunti quattro scoiattoli, mentre un quinto si è attaccato con le zampette anteriori alla mia scarpa sinistra per rosicchiare tutto il cibo trovato tra i tasselli della suola. LA BELLISSIMA KALI (parte seconda). Oggi, passando da una stradina all’altra, mi sono ritrovato nei tortuosi bassifondi di Mathura. Dopo un lungo girovagare sono sbucato su di una strada a me ben nota. Fatti pochi metri sento una voce strana: è la “dea Kalì” di ieri. Mi ha visto e mi è corsa incontro. È davvero contenta di vedermi. Mi riprende la mano sinistra e la stringe tra le sue due, mollicce per la verità. Con gesti civettuoli si sistema la spada di plastica che le penzola al polso e per un po’ camminiamo insieme, mano nelle mani. Che sia nato un nuovo amore?

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BREVE STORIA DEL KACHCHH

Area tribale del Gujarat settentrionale Note esplicative

Il Kachchh è l’area che fa da cuscinetto (anche politicamente) tra lo stato indiano del Gujarat e il Pakistan. Nel periodo dei monsoni questa penisola si trasforma in una grande isola circondata da basse acque salmastre, in parte utilizzate per la produzione del sale. In periodo vedico il suo bordo settentrionale (Rann di Kachchh) era modellato dalle acque del Sind (Indo) e, forse, della Saraswati, che qui sfociavano nel mare. Due grandi fiumi sacri (e navigabili) a nord e i porti sul Mar Arabico hanno fatto del Kachchh un notevole punto di confluenza per merci e genti diverse. Non è quindi casuale se in quest’area gli archeologi hanno ritrovato venticinque siti del periodo della Civiltà dell’Indo (III millennio a.e.c.). In tempi più recenti (VIII secolo) fu l’invasione araba del Sindh a spingere le popolazioni del Rajputana e del Gujarat a cercare riparo in queste lande. Tre secoli dopo vi approdarono le tribù Rajput1 dei Samma, poi dette Jadeja, i cui sovrani regnarono ininterrottamente fino al 1948. I TRIBALI. Tra le popolazioni che hanno occupato questo lembo di terra spiccano i pastori nomadi giunti da Afghanistan, Iran e Asia Centrale passando per il Marwar e il Mewar (due aree del Rajasthan), oppure dal Sindh e dal Saurashtra. Attualmente, il gruppo più numeroso è quello dei Ràbari, che ha occupato un’area che va dal Kachchh al Rajasthan suddividendosi nei tre gruppi endogamici di Rajasthan, Gujarat centrale e Kachchh; questi ultimi si sono a loro volta scissi nei sottogruppi Garasia, Kachela, Dhebaria e Wagadia, tutti allevatori di bovini. Venerano la Dea Madre, ma anche il maschio Ramdev Pir, i cavalieri eroici e i santi defunti. Per tradizione, tutti i matrimoni vengono celebrati una volta all’anno nel giorno di Gokul Ashtami, il compleanno di Krisna. I Ràbari collegano la loro origine con Shiva attraverso il loro mitico antenato Sambal, l’uomo che il dio creò dal suo sudore dopo una giornata di lavoro col dromedario. Un’altra versione vuole che Shiva abbia chiesto a Parvati di custodire i dromedari, ma che dopo un giorno di lavoro lei, già stanca, si sia rifiutata di proseguire. Allora il dio prese dell’erba, ne fece una sagoma umana e vi soffiò la vita: era nato Sambal, l’uomo adatto per la cura dei camelidi. In

1 Rajput : Membro di un clan guerriero hindu.

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seguito, Shiva decise far sposare Sambal con tre apsaras e queste ninfe gli generarono cinque figli, un maschio e quattro femmine.1 Col passare degli anni, disturbato da questa famiglia numerosa, Shiva chiese a Sambal di lasciare la sua dimora celeste per andare a vivere altrove; è per questo motivo che Sambal prese l’epiteto di Rahàbari, “colui che vive fuori”. Un’altra tradizione vuole che i Ràbari discendano da un gruppo di Rajput che rifiutarono le donne della loro tribù per sposarsi con delle apsaras, e per questo definiti “coloro che sono usciti fuori” dal solco della tradizione. Forse il chiarimento più logico è che scegliendo una vita nomade sono “usciti dal percorso” rispetto alla maggioranza, che ha invece optato per l’agricoltora stanziale. Con ogni probabilità la casa d’origine dei Ràbari è il Marwar. Una storia vuole che al tempo del re Alla-ud-din Khilji i Ràbari del Kachchh avessero la loro residenza in Jhalra Patan. In una delle sue spedizioni di guerra nel Rajputana, Alla-ud-din sentì parlare della bellezza straordinaria di una ragazza Ràbari di quel luogo e volle sposarla. I Ràbari chiesero una breve tregua per considerare la questione. Ottenutala, ne approfittarono per lasciare segretamente il luogo ed errando verso occidente arrivarono a Nagar Summa, in Sindh, dove il principe della dinastia Sumra accordò loro ospitalità. Non molto tempo dopo, attorno all’anno 1315, il regno dei Sumra venne invaso dai Muhammadan (musulmani) e ai Ràbari non restò che emigrare verso il Kachchh al seguito della popolazione Samma, che nutrirono col latte dei loro armenti di camelidi e vacche. I Samma non dimenticarono mai i loro primitivi reggenti Sumra, ed ancora oggi le loro donne portano braccialetti d’avorio2 non colorati in segno di pianto. La primitiva sistemazione dei Ràbari nel Kachchh fu Morchimana, un villaggio vicino a Matano Madha nel distretto di Lakhpat. Vagham Chavda Gadha e Ghuntali, i due villaggi associati al primo avvento dei Samma in Kachchh, sono vicini a quest’area, una circostanza che appoggia la credenza che siano arrivati assieme ai Ràbari verso l’anno 1320. Alcune delle famiglie di Ràbari, specialmente quelle di Anjar e Vaghad, sono probabilmente venute dal Marwar.

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1 Apsaras : ninfe celesti - rappresentate spesso nell’atto di danzare o suonare - nate dal Mare

Frullato e connesse con gli alberi, l’acqua (ap) e le nuvole (saras). Fanciulle divine concesse in premio a chi si è guadagnato il paradiso con la mortificazione ascetica. Nei testi più antichi, sono geni fluviali femminili, consorti degli dèi, in particolare di Indra. In altri testi, sono le mogli dei Gandharva, i musici celesti. In senso figurato: una bella donna.

2 Materia nobile e ricercata, che entra a far parte dei materiali impiegati nella creazione di gioielli e di oggetti intarsiati, l’avorio condivide e riveste i significati simbolici di saggezza e di longevità attribuiti all’elefante. Simbolo della divinazione, vi aggiunge il senso di purezza, legato al suo colore.

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Il secondo grande nucleo consiste di due dozzine di gruppi di musulmani semi-nomadi che hanno le loro radici nel Sindh ed oltre. Di questi, i Jath sono il gruppo più grande; gli altri, più piccoli, vivono nell’area di Banni, dove occupano 16 mila metri quadrati di pascolo a ridosso delle paludi saline del Rann. I clan principali si chiamano Halipotra, Raisipotra, Mutwa, Nodo, Hingorjah, Bhambha, Cher, Junejah, Kaskalee, Korar, Ladai, Nunai, Pathan, Baluch, Samejah, Sumra e Tabah. In quest’area vivono anche i Dhanetah, un sottogruppo Jath. Tutti allevano esclusivamente bovini e la loro vita ruota attorno ai circa 50 pozzi d’acqua scavati nel Banni. Morfologicamente parlando, questi mandriani si differenziano da tutte le altre persone della regione per via della loro testa piatta. Si deve sapere che benché siano arrivati cinque secoli fa dal Sindh, hanno sempre mantenuto le loro usanze matrimoniali strettamente endogamiche, anche se alcuni gruppi sono estremamente piccoli (poche dozzine di famiglie). Questo fa sì che tramandino la tipica testa piatta di generazione in generazione, anche se talvolta aiutata da pressioni fatte con i cuscini sui neonati.1 Come semi-nomadi limitano i loro vagabondaggi all’area locale finché i pascoli del Banni possono sostenere i loro animali. Soltanto verso la fine dell’anno si mettono in viaggio verso aree distanti, da cui ritornano poco prima del monsone. In simbiosi con questi gruppi vivono altre comunità, quali i Meghwal che basano la loro economia sull’utilizzo delle carcasse degli animali morti, conciando le pelli per fare scarpe, secchi, selle e bardature. Parlando dei Jath è importante chiarire che il termine Jath, pronunciato con la ‘t’ debole, implica un insieme di persone molto diverso rispetto a quelli che portano il nome di Jat. Il primo è un mandriano musulmano del Sindh mentre il secondo è un coltivatore hindu del Punjab. I Jath del Kachchh sembrano aver avviato la loro migrazione in questa area partendo dal Sindh oltre quattro secoli fa. I loro gruppi principali sono Dhanetah, Fakirani e Garasia. Il nome Dhanetah è possibile che arrivi da dhan, per via della ricchezza dei loro armenti.2 Una caratteristica distintiva delle donne Dhanetah Jath è l’enorme anello d’oro che portano infilato nel naso. I Fakirani Jath3 un tempo erano gli uomini santi

1 Questo non deve stupire: altre genti fanno lo stesso. Un esempio: l’idea di bellezza tra i

kashgari del Turkestan cinese è che la nuca debba essere piatta in modo che il turbante calzi con eleganza e che i capelli lunghi scendano bene sul collo; fin da subito i neonati vengono deposti in culle di legno, dove restano sdraiati sulla schiena finché le ossa della parte posteriore del cranio abbiano perso ogni rotondità.

2 Sanscrito dhana: denaro; possesso; ricchezza; beni; tesoro. In aritmetica: l’addizione (più). 3 Estraggo e traduco dal Dictionary of Islam di Thomas Patrick Hughes, edizione 1885: “Faqir.

Persiano darweesh. L’arabica parola faqir significa “povero”, ma è usata nel senso di vita spesa alla ricerca della misericordia piuttosto che dell’aiuto mondano. Darweesh è parola persiana drivata da dar “una porta”, quindi “quelli che implorano porta a porta” (in Italia si implora A Porta a Porta).

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delle loro comunità. Oggi pure loro vivono allevando camelidi e bovini, abitando in capanne di canna facilmente smontabili nelle aree litoranee di Lakhpat. Il loro sito sacro è la tomba di Savla Pir, sull’isola di un torrente fuori di Lakhpat. I Jath che hanno scelto di condurre una vita contadina sono detti Garasia (possidenti). Vivono principalmente nella regione di Nakhatrana e venerano Mai Bhambi, una santa donna che ha un monumento a Sumrasar, mèta di un loro raggruppamento annuale.

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Nel Kachchh c’è una grande concentrazione di Ahir. Delle loro origini così ha scritto J.M. Campbell: “Gli Ahir o bovari di antiche scritture hindu, generati secondo Manu da un Brahmano e da una donna Ambastha o Vaid, secondo il Brahma Purana da un Ksatriya e da una madre Vaishya, secondo il Bhagvat Purana da genitori Vaishya e secondo una vecchia tradizione da una giovane schiava Rajput e da uno schiavo Vaishya, loro dicono di essere Vaishya, ma sono dai Brahmani classificati come Shudra.”1 Un’altra interessante comunità è quella dei Sodha Rajput, alcuni dei quali, venendo dal Pakistan, si sono stabiliti nel Kachchh soltanto nel recente passato. Per lo più in molti villaggi tribali oggi convive una miscela di popolazioni Bairagi, Bania, Bhadala Syed, Bhanushali, Bhatia, Brahmana, Gadhvi, Gosain, Jadeja, Jaina, Jogi, Kapdi, Kharva, Kayasth, Khoja, Lohana, Meman, Miyana, Patel, Pathan, Rajput, Samma, Sanghar, Shaikh e Tori. A loro si sono aggiunti i gruppi di artigiani dei Chudgar (fabbricanti di braccialetti), Kamangar (pittori), Kansara (calderai), Khatri (stampatori di tessuti), Kumbhar (vasai), Lohar (fabbri), Meghwal (lavoratori del cuoio), Od (garzoni), Salat (scalpellini), Soni (orefici), Suthar (falegnami), Vanja (tessitori), Wada (lavoratori della lacca) e Wankar (tessitori). Altri gruppi che offrono servizi sono i Bhat (bardi), i Charan (geneaologisti) e uno spruzzo di Bharward arrivati dal Kathiawar. LA RELIGIOSITÀ. Una straordinaria amicizia fra i diversi gruppi religiosi è la grande tradizione del Kachchh, e questa apertura verso tutte le fedi risale alle radici comuni dei Jadeja e dei Samma del Sindh. Tale coesione risultò essere di grande utilità quando il paese venne invaso dagli eserciti musulmani, che finirono per considerare il Kachchh immaturo per la jihad. I passati reggenti del Kachchh

I termini sono generalmente usati per tutto ciò che riguarda la vita religiosa. Le comunità e i sottogruppi faqirs sono numerosi.

1 Gazetteer of the Bombay Presidency, volume V, Cutch, Palanpur and Mahi Kantha, Bombay 1880. Per maggior comprensione: i Brahmana sono la casta clericale, i Ksatriya i re-guerrieri, i Vaishya i commercianti e gli artigiani, i Shudra la quarta casta dei contadini e degli operai. Seguono migliaia di sottocaste.

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offrirono l’identica devozione a templi, moschee e dargah e pur essendo hindu, una buona porzione dei loro eserciti era musulmana. I Kachchh durbar diedero sempre protezione e mezzi ai pellegrini diretti a La Mecca.1 Questa religiosità “incrociata” tra differenti gruppi di fede continua anche oggi. Più interessante è il fatto che rispetto al mare magnum della religione ortodossa prevalgono i ruscelli della credenza popolare, con adorazione di santi, mistici ed eroi. I Kanphata di Dhinodhar, Kanthkot e Manfra sono shaiviti celibi che ben accettano nuovi adepti nella loro comunità. I governatori hanno sempre avuto grande rispetto per loro. Il Pir2 di Than fu investito dal sovrano Rao Desal I (1718-41) del turbante di seta bordato d’oro e da lui ricevette appezzamenti di terreno su cui erigere il convento di Dhinodhar per dare ospitalità a tutti i visitatori. Il santo Dhoramnath e il suo discepolo Garibnath sono anch’essi profondamente venerati dai loro seguaci. Dhoramnath era il fondatore dell’ordine dei monaci Kanphata (“dal lobo fesso”) i quali, in onore a Shiva, usano forarsi gli orecchi per introdurvi grossi orecchini. Una leggenda vuole che verso il X secolo Dhoramnath, arrivato nel Kachchh per meditare, trovò a Raipur un luogo adatto, all’ombra di un albero. Il sant’uomo inziò così una penitenza di dodici anni, disturbata dalla popolazione locale che non vedeva di buon occhio la sua presenza. Irritato, lui pronunciò una maledizione per effetto della quale l’intera area di Raipur si desertificò, costringendo la popolazione ad emigrare. In seguito, Dhoramnath si pentì e decise una nuova penitenza: salire in vetta al vulcano di Dhjnodhar alla rovescia, la testa appoggiata su di una noce di cocco, gli occhi rivolti verso terra. Impressionati da tanto fervore, gli dèi gli chiesero di desistere ma lui rispose che, in ragione del voto fatto, ovunque avessero guardato i suoi occhi il territorio sarebbe diventato sterile. Gli dèi trovarono una mediazione: lui avrebbe diretto il suo sguardo sempre verso Nord ed è così che si originò il Rann. Sceso dal monte Dhoramnath costruì il convento di Than, mentre sulla vetta del vulcano vi è semplice sacrario. Il convento dei Than attraversò grandi momenti. Secondo una descrizione di G.W. Briggs “il Pir porta vestiti molto ricchi. Il suo abito d’onore consiste di un turbante di seta bordato d’oro, una piccola cintura alla vita, un sacro filo di lana al collo e uno scialle rosso o una sciarpa color mattone, ma mai indossa scarpe di cuoio. Alcuni suoi ornamenti sono molto preziosi, ed alcuni molto vecchi. I suoi orecchini, d’oro e con gemme, sono così grandi e pesanti che devono essere sorretti da una stringa passata sopra la testa. Alle dita porta anelli d’oro di fattura tipica del Kutch e i suoi braccialetti sono larghi e pesanti. Tutti i monaci hanno

1 Dargah: il sepolcro di un santo musulmano. In lingua Kutchi, durbar vale sovrano, reggente. 2 Pir: anziano; santo, per i musulmani indiani.

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gli orecchi forati (da qui il nome dell’ordine) adatti a contenere enormi orecchini di corno, vetro o agata che distorcono grottescamente i lobi. Sono molto rispettati per la loro carità e la semplicità di vita.”1 A Than vi è un fuoco sacro che brucia ininterrottamente dai tempi di Dhoramnath. Il Than Jagir ora è sotto la gestione del Collector e negli anni 1992-93 grandi rinnovamenti sono stati eseguiti allo scopo di riportarlo alla sua primitiva gloria. Ci sono anche santi venerati da persone che non aderiscono alla loro religione. Tutti i nomadi adorano Mekan Dada, il sant’uomo che in compagnia del cane Motia e dell’asino Lalia soccorse i popoli nomadi che si erano sperduti nel Kachchh. Similmente, Savla Pir è venerato sia dai musulmani sia dai nomadi hindu del Kachchh occidentale. Il santo Murad Shah di Bokhara (anche noto come Shah Bokhari) è invece il patrono dei marinai di tutte le fedi. Le cime delle Black Hills sono marcate da sacrari che ricordano questi ed altri santi. Sopra Mandvi vi è il sacrario di Rawal Pir, ricostruito da due commercianti nel 1819. Si dice che Rawal sia nato nel XIV secolo da una vescica nel palmo della mano di sua madre e che si guadagnò il favore di Dhoramnath “distruggendo” alcune delle persone che lo stavano disturbando. Sul Kala Dungar, il punto più alto del Kachchh, vi è il sacrario di Pachhmai Pir, talvolta identificato con Guru Dattatreya perché come lui viveva in compagnia di uno sciacallo addestrato a portare soccorso alle persone. Ancora oggi quando i sacerdoti servono il prasad gruppi di sciacalli sembrano uscire dal nulla per venire fin qui a banchettare.2 Ad Anjar una coppia deificata nel lontano passato è quella di Jesal e Toral. “A oriente del convento di Ajeypal vi sono le due piccole tombe di Jesal, un Jadeja, e di sua moglie Toral, una Kathi. Si narra che nella metà del XIV secolo Jesal fosse un distruttore di campi e villaggi, uccisore di persone e ladro di bestiame bovino. Nello stesso periodo, una donna Kathi di nome Toral era sì famosa per la sua devozione e la sua abilità nel comporre inni sacri, ma ancor più per la sua bellezza. Lei viveva con l’asceta Savasdhir, che non la considerava sua moglie ma una creatura capace di aiutarlo a perseguire la via della salvezza. La fama della sua bellezza arrivò a Jesal, il cui tentativo di prenderla con la forza fallì. Allora il bandito ritornò nelle vesti di un’asceta, stavolta ben accolto. In seguito, lui cercò di incontrarla a mezzanotte ma i suoi piani furono scoperti. Dopo la sua confessione la comunità - la cui regola prevede di assecondare ogni desiderio di

1 Report on the Antiquities of Kathiawad and Kutch, Archaeological Survey of India, Bombay 1876. 2 Prasad: qualsiasi sostanza, in genere cibo, che è stata offerta a una divinità o a un santo o

all’immagine di una divinità o di un santo, e che poi viene condivisa dal discepolo o devoto. Si crede che il prasad contenga una piccola quantità della shakti (potenza) della divinità o del santo, che può esercitare un effetto spiritualizzante su chi lo assume.

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un richiedente - gli diede Toral a condizione che lui divenisse asceta. Jesal fu dapprima d’accordo, ma poi, stancandosi della limitazione, tentò di nuovo di portar via Toral con la forza” (Campbell, op. citata). Ma lei era troppo intelligente: dapprima fece fallire il piano, poi riuscì a convertirlo definitivamente ed insieme vissero felici e beati, come Francesco e Chiara in quel d’Assisi. Uno dei doveri del Collector è presiedere il Comitato di Devasthan, quello che sorveglia la gestione dei sacrari storici del Kachchh, 40 in tutto, includenti Koteshwar, Narayansarovar, Manfra, Ajepal, Jesal-Toral, Kanthkot, Peeran Pir e la tomba di Fateh Muharmnad. Ci sono anche sacrari gestiti dal clero locale; i più noti sono Mata-no-Madh, Bhadreshwar e Mota Jakh. Nel Kachchh occidentale i panch-tirtha (“cinque guadi”) di Naliya, Jakhau, Suthri, Kothara e Tera sono sacri alla comunità Jaina. Infine, la comunità di Swaminarayan dispone di un buon seguito e di due monasteri a Bhuj. Il tempio di Mata-no-Madh, il più sacro di tutto il Kachchh, è gestito da preti dell’ordine di Kapdi. Secondo una leggenda, il tempio fu costruito dopo che il figlio di Mod sognò che doveva cercare un ruscello sulle cui sponde avrebbe trovato del grano di un colore insolito. Due pii fratelli Bania furono incaricati della ricerca e quando trovarono il luogo vi costruirono un piccolo tempio. L’invisibile dea dapprima mostrò la sua approvazione suonando musica di notte, poi chiese ai fratelli di chiudere il sacrario per i sei mesi necessari alla sua manifestazione in forma tangibile. Ma per l’eccessivo zelo di uno dei fratelli il tempio fu riaperto troppo presto e la forma divina rimase incompleta; ai devoti non resta che “vedere” nella naturale convulsione della pietra lo sforzo della dea di apparire al suo popolo. Della primitiva grandezza di Koteshwar (“i dieci milioni di dèi”) non resta granché, eccetto un tempio nei pressi del torrente Kori. Si suppone che l’area sia la stessa descritta dal viaggiatore cinese Huien Tsang come “Kie-tsi-shi-fa-lo, sulla frontiera occidentale del paese vicino al fiume Indo e al grande oceano”. Su di una superficie di cinque miglia sono stati eretti 80 conventi, che vivevano sul contributo dei loro cinquemila (circa) devoti. L’unico tempio rimasto è quello eretto in comunione dalle sette Sunderji e Jetha Shivji. Il suo portico ha tre cupole: sotto la centrale vi è un grande toro di ottone presentato da Rao Desal I, quella destra protegge una grande statua di Hanuman, quella di sinistra una di Ganapati. Il sacrario custodisce uno shivlinga svayambhu, “nato da se stesso”. In origine il prete del tempio era un nath dell’ordine dei Kanphata, ma da molte generazioni è ormai gestito dalla comunità degli Atit.1 Perché ritenuto uno dei cinque laghi santi in India, Narayansarovar è un importante luogo di pellegrinaggio. Oltre al tempio fortificato e altri templi

1 Nath: Signore. Un essere altamente evoluto, un aghori della comunità yoga dei rinuncianti

fondata da Gorakhnath.

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sparsi, nell’area vi sono molte caverne cultuali, la più importante delle quali è la Shesh gupha. Il tutto ebbe origine da Vagheli Mahakunvar, la moglie di Rao Desalji I, la quale, scontenta dei preti di Dwarka, decise di costruire Narayansarovar come luogo di santità concorrente. Nel 1734 fece innalzare i templi di Laxminarayan e Trikamray, copia di quelli di Dwarka. Più tardi vi fece aggiungere i templi di Adinarayan, Govardhannath, Dwarkanath e Laxmiji. Il tempio di Trikamray assomiglia a quello di Koteshwar: il sacrario è pavimentato con marmo bianco e nero, le porte sono ricoperte d’argento. Al suo interno, sopra un trono d’argento vi è la statua in marmo nero di Trikamray. Alla sua destra vi è Garuda, il veicolo di Visnu. Trikamray è protetto da parasoli d’oro e d’argento, dono dei devoti. Dopo ogni monsone vi è un risorgere dell’attività religiosa. Le famiglie nomadi ritornano nel Kachchh con i loro armenti e l’aria diventa festiva, con celebrazioni ricche di colore. La stagione si apre con una grande adunata al tempio di Ravechi Mata. Quasi simultaneamente i nomadi Ràbari di Anjar si ritrovano a Varsha Medi per l’adunata notturna che serve a dare il nome ai neonati. Alcuni giorni più tardi, i Ràbari si spostano coi loro animali per andare a venerare la loro dea madre, Momai Mata, nel suo tempio tra le montagne di Kotda-Chakar, dove restano accampati per due notti. Poi raggiungono le colorate fiere di Ramdev Pir e di Mota Jakh. Fiere minori sono quelle di Vamu, Mai Bhambi, Dhinodhar, Dhrang. Quella di Savla Pir si tiene su di una fangosa isola di mangrovie accessibile da Koteshwar con un’ora di barca. Durante le grandi adunate di Haji Pir e Mata-no-Madh si possono vedere migliaia di persone intraprendere lunghe marce a piedi per raggiungere i sacrari, in compimento dei loro voti. Il sole bruciante pone fine al ciclo annuale delle feste. EPILOGO. In tutta l’India il 26 gennaio si celebra con feste e parate il Giorno dell’Indipendenza. Alle ore 8 e 46 di venerdì 26 gennaio 2001 la giornata festiva fu rovinata da una terribile scossa di terremoto: novanta secondi di magnitudo 6,9 della scala Richter rasero al suolo gran parte delle case del Kachchh. A Bhachau, l’epicentro, si ebbero 4767 morti su 35 mila abitanti, 3098 su 100 mila a Bhuj. Gli effetti del sisma lambirono la periferia di Ahmadabad, con un centinaio di costruzioni residenziali gravemente danneggiate.

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INDICE

INDIA_2006

Diario di viaggio 7

Breve storia del Kachchh. Area tribale del Gujarat settentrionale 86