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Per civile conversazione Con Amedeo Quondam a cura di Beatrice Alfonzetti, Guido Baldassarri, Eraldo Bellini, Simona Costa, Marco Santagata VOLUME PRIMO Bulzoni Editore
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Il ritorno delle Muse e la via al Parnaso. Metafore della Rinascita tra Dante, Petrarca e Boccaccio (2014)

Mar 05, 2023

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Page 1: Il ritorno delle Muse e la via al Parnaso. Metafore della Rinascita tra Dante, Petrarca e Boccaccio (2014)

Per civile conversazione

Con Amedeo Quondam

a cura di

Beatrice Alfonzetti, Guido Baldassarri,

Eraldo Bellini, Simona Costa, Marco Santagata

VOLUME PRIMO

Bulzoni Editore

Page 2: Il ritorno delle Muse e la via al Parnaso. Metafore della Rinascita tra Dante, Petrarca e Boccaccio (2014)

LORENZO GERI

Il ritorno delle Muse e la via al Parnaso. Metafore della Rinascita

tra Dante, Petrarca e Boccaccio

L’immagine di Petrarca come «assertator e instaurator, fondatore e difensore [...] di una lingua e di una letteratura che tornano a fiorire dopo la barbarie» e «tornano a nascere dopo la morte, nella pristina forma»

1, nucleo originario del

sistema simbolico intorno al quale si costruisce il concetto di Rinascimento, è il prodotto della ricezione e della rielaborazione di una serie di metafore e concetti nati per amplificare l’evento epocale dell’incoronazione poetica in Campidoglio: il ritorno delle Muse e alle Muse, la scalata del Parnaso, la strada nuovamente per-corribile da quanti desiderano seguire le orme degli antichi. L’immagine di Pe-trarca come restauratore dell’antico e promotore della Rinascita presenta una storia complessa, all’interno della quale è possibile individuare due momenti: la fase dell’elaborazione, che si svolge a partire dall’incoronazione capitolina nell’aprile del 1341 tra un numero ristretto di interlocutori, Petrarca, Boccaccio e i loro so-dali; la fase del consolidamento allorquando, venuti a mancare i maestri, le prime generazioni di umanisti, ripetendone e variandone gli elementi costitutivi, tra-smettono tale sistema metaforico con la forza del topos. Consolidatesi nel pieno Cinquecento come fatto incontrovertibile e lontano, tale genealogia della Rinascita, sia sul versante “latino” sia su quello “volgare”, è ripetuta sin nei proemi dei trattati grammaticali e nei frontespizi delle raffinate edizioni petrarchesche d’Oltralpe, come nel caso emblematico dell’edizione apparsa a Basilea nel 1554 sulla quale ha posto l’attenzione Amedeo Quondam

2: «Francisci Petrarchae florentini philo-

sophi, oratoris et poetae clarissimi, reflorescentis literaturae latinaeque linguae,

1 A. QUONDAM, Premessa. Rinascere nelle forme degli Antichi, in Rinascimento e Classicismo.

Materiali per l’analisi del sistema culturale di Antico regime, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni,

1999, pp. 9-15, cit a p. 15; vd, inoltre ID, Classicismi e Rinascimento: forme e metamorfosi di una

tipologia culturale, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol. I, Storia e storiografia, a cura di M.

Fantoni, Treviso, Fondazione Cassamarca-Angelo Colla, 2005, pp. 71-102; ID., Rinascimento e

classicismi. Forme e metamorfosi della modernità, Bologna, il Mulino, 2013, in part. pp. 95-121. 2 QUONDAM, Premessa cit., p. 15.

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aliquot saeculis horrenda barbarie inquinatae ac pene sepultae, assertoris et instauratoris, Opera quae extant omnia».

Nel presente intervento intendo concentrare l’attenzione sulla prima fase di tale vicenda, analizzando le metafore utilizzate da Petrarca e Boccaccio nel discutere in merito alla rinascita degli studia e della poesia. Da una simile analisi emerge in con-troluce la presenza di Dante e la questione, ingombrante ma per Boccaccio ineludi-bile, del ruolo dell’Alighieri e del volgare nella renovatio. Per il Certaldese, infatti, ogni discorso sui meriti di Petrarca nel far ritornare le Muse comporta un giudizio comparativo con Dante, anch’egli, a suo modo, allievo delle Muse. La stessa fioren-tinità di Petrarca, passata ingiudicata per secoli, basti pensare all’aggettivo florenti-nus adoperato nel frontespizio basileese, è una forzatura boccacciana funzionale ad una duplice genealogia della rinascita: quelle delle litterae e quella del volgare. Conseguenza dell’intervento boccacciano è che nella nostra tradizione culturale il mito del ritorno del latino a una pristina forma si intreccia indissolubilmente con quello delle tre “corone” (si noti: un’immagine dafnea).

Per leggere il sistema metaforico adoperato da Petrarca e rilanciato da Boccac-cio in merito alla Rinascita, è necessario partire dagli incipit del Primo e del Venti-cinquesimo canto del Paradiso, luoghi nei quali, sin dalla notizia dell’incoronazione poetica di Albertino Mussato (1315) promossa dai maestri di artes dello studio pa-dovano

3, Dante contribuisce a trasformare un’istituzione medievale in un mito

universale dal sapore antico4. Si tratta di un’intuizione di sconcertante modernità e,

allo stesso tempo, straordinariamente ambiziosa, se si tiene conto che il poema im-maginato come degno di tale onore è scritto nella lingua volgare. Non sorprende, allora, che Giovanni del Virgilio, giunto a conoscenza delle ambizioni dantesche in relazione al poema scritto «nella lingua della piazza», lo inviti a non umiliare le Muse con una veste indegna e a scrivere piuttosto un poema epico in lingua latina, dedicato ad un argomento storico, per guadagnare così un’incoronazione analoga a quella ricevuta da Albertino Mussato

5. La risposta dell’Alighieri, attraverso il codice

allusivo dell’egloga, rifiuta con sprezzatura lo scontro: Titiro-Dante non risponde in modo esplicito alle incalzanti domande di Mopso-Giovanni del Virgilio, non

3 Vd. M. ZABBIA, voce Albertino Mussato in Dizionario biografico degli italiani, LXXVII,

Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2012, pp. 520-4, e R.G. WITT, Un poeta laureato: Albertino

Mussato in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzato e G. Pedullà, I, Dalle origini al

Rinascimento, Torino, Einaudi, 2010, pp. 134-9, da affiancare con ID., Sulle tracce degli antichi:

Padova, Firenze e le origini dell’umanesimo, Roma, Donzelli, 2005. 4 Sui rapporti tra Paradiso I, XXV e le Eglogae dantesche con la cerimonia dell’incoronazione di

Mussato e i circoli padovani rimando a: C. BOLOGNA, Dante e il latte delle Muse, in Atlante della

letteratura italiana cit., pp. 145-155; per il tema dell’incoronazione nella Commedia e nella lirica di

Petrarca e Boccaccio vd. M. PICONE, Il tema dell’incoronazione poetica in Dante, Petrarca e

Boccaccio, in «L’Alighieri», XXV, 2005, pp. 5-26. 5 Cfr. D. ALIGHIERI, Egloge, a cura di E. Cecchini, in ID., Opere minori, II, a cura di P. V.

Mengaldo, B. Nardi, A. Furgoni, E. Cecchini, F. Mazzoni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, pp. 647-89.

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afferma né nega di desiderare la corona d’alloro ed allega alla missiva bucolica «dieci vaselli» di latte identificabili con i primi canti del Paradiso.

In alcuni canti della Commedia, dunque, Dante forgia una serie di immagini e di concetti destinati ad essere reinterpretai con una nuova sensibilità dalla genera-zione di Petrarca e di Boccaccio: il riferimento all’incoronazione poetica come evento raro diviene il punto di partenza per una critica dei contemporanei che hanno lasciato morire la poesia; il riferimento ad un incendio che seguirà a una piccola favilla (nient’altro in Dante che un’esibizione di modestia) è interpretato come una sorta di profezia in merito ad una diffusione di uomini studiosi degni di poetare come gli antichi; il sogno autoconsolatorio di una cerimonia di addottora-mento in San Giovanni (Pd XXV, vv. 1-9) è letta sulla falsariga del ritorno al mos antiquorum dell’incoronazione riportato in vita da Petrarca. Su questa serie di metafore si innesta una nuova immagine, diffusa da Petrarca nella Collatio lau-reationis, quella della scalata sulla cima del Parnaso

6.

Per cogliere la suggestione che tali metafore esercitano sui lettori della se-conda metà del Trecento è utile una ricognizione tra i commenti danteschi, che in questa sede limito a pochi riscontri. Nell’ambito di un solenne appello ad Apollo, cristianizzato nei primi commentatori come un appello a Dio

7, l’invocazione del

duplice «giogo» di Parnaso è illustrata ricorrendo al ben noto passo virgiliano (Georg. III, v. 43) con i relativi scoli, mentre le allusioni al mito dafneo sono ricondotte a trattazione altrettanto scolastica. L’estro dei commentatori, però, si accende nel caso dei versi che seguono, tra i più altamente oratori di tutta la Commedia:

O divina virtù, se mi ti presti

tanto che l’ombra del beato regno

segnata nel mio capo io manifesti,

vedra’mi al piè del tuo diletto regno

venire, e coronarmi de le foglie

che la materia e tu mi farai degno.

Sì rade volte, padre, se ne coglie

per trïumphare o cesare o poeta,

colpa e vergogna de l’umane voglie,

6 Sul tema della scalata del Parnaso vd. J. USHER, Boccaccio e Petrarca: compagni di viaggio

nell’iter ad Parnasum, in Autografi e lettori di Boccaccio, a cura di M. Picone, Firenze, Cesati, 2002,

pp. 255-76. Sulla presenza di Dante nel Petrarca latino vd: G. VELLI, Il Dante di Francesco Petrarca,

in «Studi Petrarcheschi», n., II, 1985, pp. 185-99; R. MERCURI, Genesi della tradizione letteraria

italiana in Dante, Petrarca e Boccaccio, in Letteratura italiana, storia e geografia, I, L’età medievale,

Torino, Einaudi, 1987, pp. 229-455, in part. pp. 303-76; M. BAGLIO, Presenze dantesche nel Petrarca

latino, in «Studi Petrarcheschi», IX, 1992, pp. 77-136 C. PULSONI, Il Dante di Francesco Petrarca:

Vaticano latino 3199, in «Studi Petrarcheschi», X, 1993, pp. 155-208. 7 Iacopo della Lana identifica il secondo giogo di Parnaso nel Paradiso: IACOPO DELLA LANA,

Commento alla Commedia, a cura di M. Volpi, con la collaborazione di A. Terzi, vol. III, Roma,

Salerno, 2009, p. 1695.

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che parturir letizia in su la lieta

delfica deïtà dovria la fronda

penia quando alcun di sé asseta.

Poca favilla gran fiamma seconda:

forse di retro a me con miglior voci

si pregherà perché Cirra risponda8.

L’espressione sì rade volte viene interpretata da Iacopo della Lana (1328), in un’accezione tra il morale e il letterario, come un’accusa alla «pusillamitade dei mortali» che «non accedono né a scienza né ad alcuno perfetto stato degno di co-rona síe in virtudi come savere»

9. Non si tratta ancora di un’accusa alle genera-

zioni di mezzo, dimentiche delle virtù militari e letterarie degli antichi romani, e infatti della Lana non spende parole per descrivere l’antica cerimonia dell’incoro-nazione in Campidoglio e non spiega il binomio «cesare e poeta» che tanta im-portanza avrà nell’interpretazione petrarchesca del rito. L’autore dell’Ottimo Commento (1334 ca)

10, invece, pur riprendendo le parole di della Lana in merito

alla «psuillanimitade de’ mondani», rievoca la cerimonia dell’incoronazione, ri-conducendola a quella del trionfo dei generali romani

11. Benvenuto da Imola nella

redazione finale del commento (1375 ca)12

interpreta la rampogna di Dante contro la «ignavia modernorum»

13 con un filtro petrarchesco. Per primo, infatti, connette

il riferimento alla «colpa e vergogna de l’umane voglie» con la «materia» della Terza cantica che in virtù della sua audacia rende Dante degno di far rivivere l’antico istituto dell’incoronazione poetica: «la materia e tu mi farà degno quasi dicat, opera mea qui assumpsi tam nobilem materiam et gratia tua faciet me meri-tum; quasi dicat, si feceris mihi istam gratiam, ego reddam tibi hanc gloriam, quod assumam statim lauream coronam quam nullus iam per tot saecula annorum con-secutus est»

14. La metafora dell’incendio e il riferimento ad una «miglior voce» è

letta in senso generico dai commentatori più antichi, mentre Benvenuto da Imola,

8 Cito da: D. ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, IV,

Paradiso, Firenze, Le Lettere, 1994. 9 IACOPO DELLA LANA, Commento cit., p. 1699. Agisce, probabilmente, la memoria di Pd XI 1-12.

10 Cfr. C. CORRADO, Nuovi sondaggi sulla datazione dell’Ottimo Commento dantesco, in «Italia

Medievale e Umanistica», XXXI, 1988, pp. 403-8. 11

«Cesare, cioè imperadori, i quali quando avevano vinte le barbare nazioni, coronati d’alloro in sul

carro di quattro candidissimi cavalli erano onorati: in prima usarono eglino corone di quercia in segno di

fortezza; poi le fecino d’alloro in segno di perpetua odorifera fama» (L’Ottimo commento della Divina

Commedia Testo inedito d’un contemporaneo di Dante citato dagli accademici della Crusca, a cura di A.

Torri, III, Paradiso, Pisa, Niccolò Capurro, 1829 [rist. anastatica Bologna, Forni, 1995], p. 15. 12

Sulle diverse redazioni del Commentum e sulle loro datazioni rimando a: P. PASQUINO, voce

Benvenuto Rambaldi da Imola in Censimento dei commenti danteschi, vol. I/1, Commenti di

tradizione manoscritta (fino al 1480), a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Roma, Salerno, 2011, pp.

86-120. 13

BENVENUTI DE RAMBALDIS DE IMOLA, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, IV,

Florentiae, typis G. Barbèra, 1887, p. 304. 14

Ibidem.

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come vedremo più avanti a proposito della lettera di Boccaccio a Iacopo Pizzinga, la riconduce ad un’involontaria profezia della Rinascita.

Nel Venticinquesimo del Paradiso, con versi egualmente memorabili, Dante immagina una cerimonia solenne nell’ambito della quale la celebrazione del ri-torno dall’esilio si unisce con la consacrazione come «poeta» (vale a dire pari agli auctores regulati):

Se mai continga che ‘l poema sacro

al quale ha posto mano e cielo e terra,

sì che m’ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudeltà che fuor mi serra

del bello ovile ov’io dormi’ agnello,

nimico ai lupi che li danno guerra:

con altra voce omai, con altro vello

ritornerò poeta, e in sul fonte

del mio battesmo prenderà il cappello15

I commentatori antichi, che si trovano in difficoltà nell’interpretare il termine «cappello»

16, non lo mettono in relazione con la laurea poetica: Iacopo della Lana

si riferisce genericamente alla circostanza per la quale nel «fonte» dove ebbe il battesimo «avrà questo altro [nome di] vertudioso e saggio»

17, interpretando il

«cappello» come parte di quegli «onori ed utili»18

che Dante spera di trovare a Firenze; l’autore dell’Ottimo Commento propone una duplice interpretazione: «prederò il cappello: in segno di ribandito tratto d’esilio e libero, siccome Teren-zio

19; o il cappello cioè convento di scienza poetica»

20. Andrea Lancia nelle sue

chiose, stese a ridosso dell’incoronazione petrarchesca e databili tra il 1341 e il 1343

21, per primo interpreta il rituale come un addottoramento nella disciplina

poetica, una cerimonia di carattere universitario, interpretata, però come una sorta di incoronazione poetica: «Premictit exordium de coronatione sua poetica. Se mai continga che ‘l poema sacro etc. Da poi che l’autore nel precedente canto ha trat-tato de la prima virtù theologica, o ver contemplativa, qui intende trattare de la se-conda, cioè la speranza. Nel quale canto tocca viii cose. Prima come spera ritor-

15

Pd XXV, 1-9 in ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata cit., pp. 409-10. 16

L’interpretazione del passo non è pacifica nemmeno oggi; si vd. come primo orientamento,

oltre alla voce Cappello dell’Enciclopedia dantesca: E. FUMAGALLI, Canto XXV, in Lectura Dantis

Turicensis, III, Paradiso, a cura di G. Güntert e M. Picone, Firenze, Cesati, 2002, pp. 391-404. Per il

nostro discorso interessa piuttosto che l’intentio auctoris la ricezione dei lettori trecenteschi. 17

IACOPO DELLA LANA, Commento, cit., IV, p. 2401. 18

Ivi, p. 2389. 19

Per questa interpretazione del «cappello» come pileum si vd. da ultimo: C. VILLA, Corona,

mitria, alloro e cappello: per "Par." XXV, in «Studi Danteschi», LXX, 2005, pp. 119-137. 20

L’Ottimo commento cit.,, p. 543. 21

Per la datazione vd: L. AZZETTA, voce Andrea Lancia, in Censimento dei commenti danteschi,

I, cit., pp. 19-35, in part. p. 23.

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nare in Firenze e ive conventare [scilicet “addottorarsi”] in poesia»22

. L’iden-tificazione e il sertum laureum sarà data per certa alcuni anni più tardi da Pietro Alighieri nella redazione definitiva del suo commento

23. Il collegamento tra i due

incipit di Paradiso I e XXV viene segnalato da Benvenuto da Imola che considera sullo stesso piano la preghiera ad Apollo ed il sogno municipale, la profezia di una rinascita degli studi e il progetto di tornare a Firenze per «recipere lauream co-rona»

24, attribuendo così all’incoronazione alla quale Dante anela la dimensione di

un gesto simbolico analogo a quello petrarchesco: «e coronarmi delle foglie, sicut tu te coronasti et ornasti frondibus lauri. Hoc autem optabat poeta facere in Florentia, sicut ipse tangit uno capitolo libri huius tertiis [scilicet Pd XXV, 1-9]»

25.

In qualche caso i commentatori antichi arrivano a sovrainterpretare il testo dantesco, come nel caso di Andrea Lancia il quale, forse in preda all’entusiasmo per il progetto petrarchesco di ritorno al Parnaso

26, interpreta il riferimento alla

«morta poesì» nell’incipit del Purgatorio come una promessa implicita di una ri-nascita: «Ma qui la morta poesì. Morta dice però che sono pochissimi che lei revi-vano: “colpa de l’umane voglie”»

27. Tale interpretazione, per quanto poco strin-

gente, ottiene una significativa fortuna e viene fatta propria dalle Chiose Filip-pine

28 e da Benvenuto da Imola

29.

Quando tra il 1339 e il 1340 comincia a tessere la tela che lo porterà a ricevere contemporaneamente l’offerta di un’incoronazione poetica da parte dell’Univer-sità di Parigi e del Senato romano (1 settembre 1340)

30, Petrarca ha già diffuso

presso i sodali la fama di una dottrina e di un sapere letterari straordinari, degni degli antichi. Una testimonianza preziosa a riguardo è rappresentata dalla lettera con la quale si inaugura il carteggio tra Boccaccio e Petrarca

31. Mi riferisco alla

22

A. LANCIA, Chiose alla “Commedia”, a cura di L. Azzetta, II, Roma, Salerno, 2012, p. 1146. 23

«In hoc xxv capitulo, premisso exordio quod per se satis patet, accipiendo cappellum, de quo

hic auctor dicit, pro serto laureo quo poete coronantur, ipse auctor inducti beatum Iacobum examinare

eum in spe subsequenter [...]» (P. ALIGHIERI, Comentum super poema Comedie Dantis, edited by M.

Chiamenti, Tempe (Arizona), Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, 2002, p. 665). 24

BENVENUTI DE RAMBALDIS DE IMOLA, Comentum cit., vol. V, p. 353. 25

Ivi, IV, p. 304. 26

Lancia, amico di Boccaccio, ha certamente modo di leggere lo scambio poetico tra il

Certaldese e Petrarca intorno all’incoronazione. 27

LANCIA, Chiose alla “Commedia, cit., I, p. 499. 28

«Eo quod hodie poesis parum habetur in usu. Nota quod licet poesis non possit mori, potest

tamen negligi et sperndi, quando nulli curant ipsam adiscere vel ea uti; et vere istis diebus potest dici

nedum mortum, sed eciam sepulta» (Chiose filippine. Ms. CF 2 16 della Bibl. oratoriana dei

Girolamini di Napoli, a cura di A. Mazzucchi, II, Roma, Salerno, 2002, p. 607). 29

BENVENUTI DE RAMBALDIS DE IMOLA, Comentum cit, vol. IV, p. 5. 30

Fam. IV 4 e 5 cfr. E. H. WILKINS, Vita del Petrarca (1961), trad. it. Milano, Feltrinelli, 2003,

pp. 33-9. 31

Si vd. G. ALBANESE, La corrispondenza tra Petrarca e Boccaccio in Motivi e forme delle

Familiari di Francesco Petrarca (Gargnano del Garda, 2-5 ottobre 2002), a cura di C. Berra, Milano,

Cisalpino, 2003, pp. 39-97, saggio denso di spunti critici e di indicazioni bibliografiche.

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Il ritorno delle Muse e la via al Parnaso 623

lettera nota col titolo di Mavortis milex (Epistole II) con la quale nel 1339 il Certal-dese scriveva per la prima volta a Petrarca proponendosi come suo interlocutore

32.

Con tale missiva Boccaccio intende entrare a far parte della schiera dei sodali di Petrarca, «sotto l’insegna» di quel nome prestigioso

33. Stesa prima dell’incoro-

nazione e la missiva inaugura un’interpretazione idealizzata ed emblematica della figura di Petrarca: allevato dalle Muse

34, è adorno di tutte le virtù

35 e in lui rivivono

Aristarco di Samotracia, Guglielmo di Occam, Cicerone, Ulisse, Giordano Nemo-riano, Euclide, Boezio, Tolomeo

36. Si tratta a un tempo di un catalogo eterogeneo e

di seconda mano, “medievale” nel gusto, e insieme di una significativa anticipazione del topos che vuole Petrarca come la reincarnazione di Cicerone e di Virgilio. L’immagine-emblema di questo Petrarca ammirato de lohn è quella di una fenice oltremontana

37, ovvero, volendo interpretare il testo alla luce del sistema metaforico

che si definirà in seguito, un prodigio che annuncia la renovatio. Nell’aprile del 1341 Petrarca, dopo essere stato esaminato da Re Roberto, in

rapida successione recita in Campidoglio un discorso solenne, la Collatio laurea-tionis

38, e, sulla via del ritorno da Roma ad Avignone, scrive un dittico di lettere in

prosa dedicate all’incoronazione, la Fam. IV 7 al re di Napoli e la Fam. IV 8 al segretario regio Barbato da Sulmona, alle quali si aggiunge un’epistola in versi a Giovanni Barilli (Epist. metr. II 1). Il solenne discorso e le lettere, ricorrendo a un registro stilistico diverso, mettono in campo un sistema metaforico coerente: la Collatio laureationis, a partire da un passo delle Georgiche (III vv. 289-93), è co-struita intorno alla metafora dell’ascensione attraverso le cime deserte del Parnaso

32

Vd. G. BOCCACCIO, Tutte le opere, V, Rime, Carmina, Epistole e lettere, a cura V. Branca, G.

Velli, G Auzzas, Milano, Mondadori, pp. 754-62. Tale tipologia di lettera sembrerebbe piuttosto

comune: scrivono al Petrarca offrendo ossequiosamente la propria amicizia, un’amicizia che

presuppone un rapporto di discepolanza, Coluccio Salutati (11 settembre 1368, Lettere a Petrarca,

traduzione e note a cura di U. Dotti, Torino, Aragno, 2012, pp. 290-4), e l’aretino Giovanni di Matteo

Fei (1, aprile 1370, ivi, pp. 336-41). 33

L’espressione si legge nella lettera di di Francesco Nelli a Petrarca del 30 gennaio 1351, ivi, p. 36. 34

Epist. II, 9 (cito da G. BOCCACCIO Tutte le opere, a cura di V. Branca, vol. V, Rime, Carmina,

Epistole e lettere, Vite, De Canaria, a cura di V. Branca, G. Velli, G. Auzza, R. Fabbri, M. Pastore

Stocchi, Milano, Mondadori, 1992, p. 512). 35

Epist II, 9, pp. 512-4. 36

Epist. II, 9, p. 514. 37

Epist. II, 10, p. 514 (“ut phenix ultra montes”). 38

La data di tale evento non è certa: i manoscritti del Privilegium laureationis riportano il 9 aprile

1341, lunedì di Pasqua, data che non corrisponde a quella che riferisce Petrarca nelle sue lettere, il 13

aprile; Boccaccio nel suo Zibaldone riporta l’avvenimento con la data 17 aprile, data corretta nel 9 aprile

nel De vita Petracchi, vd. C. GODI, La «Collatio laureationis» del Petrarca, in «Italia Medievale e

Umanistica», XIII, 1970, pp. 1-27, in part. pp. 4-7. Sul testo della Collatio vd. inoltre ID, La «Collatio

laureationis» del Petrarca nelle due redazioni, in «Studi Petrarcheschi», V, pp. 1-58, M. FEO, Note

petrarchesche, in «Quaderni petrarcheschi», VII, pp. 183-203, in part. pp. 186-98 e S. RIZZO, voce

Collatio laureationis in Codici latini del Petrarca nelle biblioteche fiorentine. Mostra, 19 maggio-30

giugno 1991, catalogo a cura di M. Feo, Firenze, Le lettere, 1991, pp. 322-30.

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sino al «bosco inaccessibile delle Muse»39

; la Fam. IV 7, tessuta di memorie dal primo Canto del Paradiso

40, interpreta l’incoronazione come il rinnovamento di

un cerimoniale antico41

; entrambi i testi insistono su un concetto fondamentale: Petrarca è il primo a far rivivere un’usanza abbandonata da secoli con lo scopo di essere seguito da altri: la profezia dantesca di nuove voci che pregheranno da Apollo per essere ispirate a nuove imprese (Pd I vv. 35-36) si tramuta in un progetto di re-novatio fondato sulla presenza tra i contemporanei di uomini dotti che si dedicano agli studia humanitatis e che, rincuorati dall’esempio petrarchesco, saranno pronti ad intraprendere la via che conduce sulle cime del Parnaso

42. L’incoronazione poe-

tica, dunque, proprio perché condotta a Roma, sul Campidoglio, secondo il rituale degli antichi, viene assunta come simbolo di una renovatio che passa attraverso il ritorno alle Muse ma che può comportare anche una riscossa del popolo italiano, destinato a rendersi degno della duplice eredità dei suoi avi: il valore poetico e quello politico-militare

43. Il merito che Petrarca si arroga è quello di aver avuto il

coraggio di tentare di tornare alle Muse attraverso un cammino impervio dimenti-cato da secoli ma non interrotto, ponendosi così all’avanguardia

44.

39

Coll. 5, 5. 40

«desertas Pyerides» (Fam. IV 7, 1) e «obsoletum Capitolii palatium» (Fam. IV 7, 1) cfr «Sì

rade volte, padre, se ne coglie / per trïonfare Cesare o poeta» (Pd I, vv. 28-9); «parva res [...] sed

profecto novitate conspicua» (Fam. IV 7, 2) «poca favilla gran fiamma seconda» (Pd I, v. 34); «lauree

morem [...] iam prorsus oblivioni traditum, aliis multum diversiis curis ac studiis in republica

vigentibus» (Fam. IV 7, 2) cfr. «colpa e vergogna delle umane voglie» (Pd I, v. 30); si cfr. anche lo

stilema «sitientibus animis» nella Collatio laureationis (Coll. 8, 2) da mettere a confronto con «la

fronda / penia quando di sé asseta» (Pd I, vv. 32-33). Cito da: F. PETRARCA, Le familiari, edizione

critica per cura di V. Rossi, Firenze, 1933-1942., 4 voll; F. PETRARCA, Res seniles. Libri V-VIII, a cura

di Silvia Rizzo con la collaborazione di Monica Berté, Firenze, Le Lettere, 2009; GODI, La «Collatio

laureationis» del Petrarca cit. 41

«lauree morem [...] nostra etate renovatum te duce, me milite» (Fam. IV 7, 2). 42

«Circa tertium, hoc est calcar aliene industrie, hoc tantummodo dixerim: sicut quosdam pudet

per aliorum isse vestigia, sic alii multoque plures sunt qui, sine aliquo certo duce, iter arduum aggredi

reformidam, quales ego multos, et precipue per Italiam, novi eruditos quidem et ingeniosos viros

eisdem studiis deditos, eademque sitientibus animis anhelantes, herentes tamen adhuc et seu

verecundia, seu diffidentia, sue, quod suspicari malim, humilitate quadam ac modestia, nondum iter

hoc ingressos. Audacter itaque fortassis [...] me in tam laborioso et michi quidem periculoso calle

ducem pebere non expavi, mutos posthac, ut arbitror, secuturos» (Coll. 8 1-2); «Scio quedam, et per

Italiam et apud exteras nationes, ingenia clarissima, que nichil ab hoc proposito nisi desuetudo longior

et semper suspecta rerum novitas arcebat; ea deinceps, postquam in meo capite pericuum fecere, brevi

consecutura et romanas lauros certantibus tudiis decerptura, confido» (Fam. IV 7, 3). 43

Cfr. l’immagine dell’Italia che si desta dal suo sonno secolare nella lettera indirizzata a Cola di

Rienzo nel giugno del 1347: F. PETRARCA, Lettere disperse, a cura di A. Pancheri, Parma, Fondazione

Pietro Bembo-Guanda, 1994, p. 60. 44

Per inciso è interessante notare come, nei fatti, Petrarca si opponesse ferocemente a quanti

tentavano di ripetere la sua impresa; nota è il fastidio, infatti, nei confronti dell’antico sodale Zanobi

da Strada, incoronato a Pisa nel 1355 dall’imperatore Carlo IV; rivelatrice è la reazione degli altri

sodali, che si stringono intorno a Petrarca; si veda la lettera indirizzata a Petrarca il 3 febbraio 1356

con la quale Francesco Nelli dileggia l’ambizione di Zanobi, il quale, ignaro dell’offesa arrecata a

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Il ritorno delle Muse e la via al Parnaso 625

Boccaccio coglie immediatamente la portata del gesto petrarchesco e nel suo Zibaldone autografo (Firenze, Laurenziano 29, 8, f. 73r) riporta l’avvenimento «con la solenne capitale rustica che utilizza per le rubriche”

45. Alcuni anni più

tardi, tra il 1348 e il 1349, una volta entrato in contatto con il maestro e dopo aver raccolto un numero maggiore di notizie e di testi petrarcheschi, Boccaccio stende il De vita et moribus Domini Francisci Petracchi de Florentia. L’immagine di Petrarca come poeta prediletto da Apollo e dalle Muse, già tracciata in parte nella Mavortis milex, è messa al centro di una narrazione romanzata sulla giovinezza di Petrarca, nell’ambito della quale la vocazione poetica (definita con bella immagine la «febbre delle Muse»)

46 si scontra con l’opposizione paterna ma è destinata a

trionfare con la cerimonia capitolina. Petrarca non è più definito come la reincar-nazione di dottrine tra loro disomogenee (poesia, aritmetica, oratoria, dialettica, astronomia) ma come un seguace dei migliori modelli antichi: Cicerone e Virgi-lio

47. La vita di Petrarca culmina nell’incoronazione poetica, evento paragonato al

ritorno dei Saturna regia48

, metafora molto forte che rappresenta uno dei più alti riconoscimenti tributati da Boccaccio all’opera petrarchesca.

Nella primavera del 1351 Boccaccio si reca a Padova per consegnare a Pe-trarca la missiva solenne con la quale il comune di Firenze restituisce al figlio di Petracco i beni paterni e, al contempo, lo invita a stabilirsi nella patria assumendo l’incarico di insegnante di retorica nello Studium cittadino. La missiva in que-stione, scritta dallo stesso Boccaccio, rappresenta un documento di straordinario interesse in quanto permette di cogliere i lineamenti di un progetto culturale falli-mentare nell’immediato ma destinato ad una grande fortuna. Mi riferisco al tenta-tivo di valorizzare la presunta fiorentinità di Petrarca e al contempo di trapiantare la renovatio a Firenze, per mezzo del trasferimento nella città toscana dello stesso poeta laureato, sogno amaramente, quasi beffardamente spezzato nel 1353, quando la scelta cadrà sulla Milano viscontea. La lettera scritta per conto della città di Firenze, si apre evocando l’incoronazione poetica con una formula che sintetizza con grande efficacia il simbolismo adoperato da Petrarca stesso nei testi dedicati alla laurea: «movit nos admirabilis professionis et excellentis studii tui meritum ut, qui intonsas a seculis lauros vertice digno virentes acceperis, sis mire indolis perpetue posteritati futurus exemplar»

49. Dopo aver lodato le straordinarie

capacità di Petrarca, nel quale rivivono Virgilio e Cicerone (paragone destinato a

Petrarca e a tutti i sodali, credendo di crescere nella fama ha ottenuto invece un universale: cfr. Lettere

a Petrarca cit., pp. 114-5. Sulle incoronazioni poetiche prima e dopo quella petrarchesca si vd.: F. P

TERLIZZI, Le incoronazioni poetiche, in Atlante della letteratura italiana cit., pp. 141-4. 45

GODI, La «Collatio laureationis» del Petrarca cit., p. 6. 46

Cito da BOCCACCIO, Tutte le opere cit., vol. V, 7, p. 900. 47

Ivi, 9, p. 900. 48

“Cum quanta hoc romanorum civium letia tam nobilium quam eciam plebeiorum factum

contigerit, non opus est verbis: facile quidem postet ab unoquoque presummi; ipse id nempe omnibus

visum puto, iam multo ante lapsa felicia tempora ac regna saturnia rediisse” (Ivi, § 16, p. 904). 49

Epist. VII, 1, p. 550.

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626 Lorenzo Geri

divenire topico)50

, la missiva prosegue affermando che Firenze ambisce a rifiorire grazie agli studia humanitatis

51, per dimostrarsi degna figlia Roma

52 e sopravan-

zare le altre città d’Italia. A questo scopo Petrarca è inviato a trasferirsi nella ma-dre patria, città nella quale potrà completare la sua Africa e porsi a capo di una ri-nascita fiorentina:

Tu tecum librum hac facultate legendum nostriis ingeniis legas quem honori et otiis qui

censeas commodiorem. Erunt insuper nonnulli ingenio clari, sacri cultores studii, qui, te

duce, audebunt forsan carmina sua fame commictere: et enim parvo principio magna res

conflate sunt53

.

Accingere igitur nec te ulterius, vir optime, Affricam tuam, opus quod immortale laboras, et

neglectas per tot secula Musas Aonias, nomini tuo et glorie aut voluptati nostre amplius

subtrahas54

.

Il movimento di dotti che nella Collatio laureationis e nella Familiare IV 7 era stato individuato in Italia e persino tra i popoli barbari, si riduce nel progetto boccacciano ad una prospettiva municipale; non stupisce allora che la risposta di Petrarca sia piuttosto fredda. Non è un caso, dunque, che anche in sede di bilanci, nella primavera del 1373, Petrarca nella Senile XVII 2 indirizzata proprio a Boc-caccio si riferisca alla rinascita degli studi come ad un movimento che riguarda non soltanto l’Italia ma anche paesi più lontani55

.

Il rifiuto di stabilirsi a Firenze e la successiva, scandalosa scelta di farsi ospi-tare dai Visconti, nemici della città paterna (giugno 1353), d’altronde, causa un attrito molto forte tra i due letterati

56. In questa sede interessa notare come questa

polemica si intrecci con un’altra grande controversia tra i due sodali: quella rela-

50

Tre anni più tardi Francesco Nelli loderà Petrarca affermando che: «te solum legens, Maronem

Ciceronemque legam” (Lettere a Petrarca cit., p. 96). 51

Epist. VII, 14, p. 554. 52

Epist. VII, 12, p. 554. 53

Epist. VII, 15, p. 554. 54

Epist. VII, 16, p. 554. 55

«Illud plane preconium quod michi tribuis non recuso: ad hec nostra studia, multa neglecta

seculis, multorum me ingenia per Italiam excitasse et fortasse longius Italia; sum enim fere omnium

senior, qui nunc apud nos his in studiis elaborant», cito da F. Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti,

Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, p. 1144. 56

Si vd. V. BRANCA, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, Firenze, Sansoni, 1977, pp. 93-5. Le

rimostranze delle quali si fa portavoce Boccaccio trovano ascolto anche presso sodali non fiorentini: è il

caso di Meletto Rossi da Forlì che il 3 aprile 1354 indirizza a Petrarca un’epistola metrica con la quale si

univa «anch’egli (ma con molto garbo) al coro degli amici fiorentini che avevano deplorato che il grande

poeta avesse preso stanza, al suo rientro in Italia, anziché a Firenze, a Milano, presso gli odiati Visconti»

(Lettere a Petrarca, a cura di U. Dotti, Torino, Aragno, 2012, p. 551), vd. inoltre La corrispondenza

bucolica tra Giovanni Boccaccio e Checco di Meletto Rossi. L’egloga di Giovanni del Virgilio ad

Albertino Mussato, a cura di S. Lorenzini, Firenze, Olschki, 2011.

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Il ritorno delle Muse e la via al Parnaso 627

tiva a Dante. Non ripercorrerò lo scambio di manoscritti, lettere, carmina che se-gna tale vicenda, del resto assai nota e discussa

57, ma mi limito a segnalare i passi

che interessano il nostro discorso. Già nel Trattatello in laude di Dante (1350-1355) Boccaccio aveva contaminato l’elogio del poeta volgare con l’immagine del ritorno delle Muse, lasciando trasparire una diversa genealogia della Rinascita, aperta da Dante e portata a compimento da Petrarca: «Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante, che a’ nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle Muse, sbandite d’Italia, aprir la via»

58. Si tratta di un arguto adattamento di una metafora

adoperata dai sodali per riferirsi al ruolo di Petrarca nella renovatio della poesia: Francesco Nelli, ad esempio, in una lettera del 1354 scrive a Petrarca che nelle sue poesie, le quali «profumano d’antico», è presente tutto il coro delle Muse «che viene cantando con voci modulatissime insieme all’intera fonte Castalia»

59.

Tale interpretazione di una rinascita avvenuta a partire dalla Commedia, opera di straordinario valore poetico nonostante la scelta del volgare, timidamente la-sciata trapelare nel carme Ytalie iam certus honos (1356), viene rifiutata da Pe-trarca ricorrendo alla metafora del cammino, complementare a quella della scalata del Parnaso. Nella Fam. XXI 15, databile al maggio 1359, risemantizzando con un certo sarcasmo un’immagine dantesca (Pg XXII, vv. 67-9), Petrarca si riferisce a Dante come un uomo che procede di notte illuminando i passi di quanti lo se-guono; la sua fiamma, l’opera in volgare, è minacciata dal vento, vale a dire dalla stessa ricezione del testo presso gli uomini del volgo; pur se destinato al fallimento nell’ambito di questo cammino notturno, Dante è ambiguamente lodato per non aver abbandonato la strada intrapresa (arreptus callis) nonostante la dura condi-zione dell’esule

60. La metafora del cammino è infine applicata alla scelta lingui-

stica alla base delle due esperienze: durante la giovinezza Petrarca si sarebbe tro-vato di fronte ad un bivio e avrebbe scelto la poesia volgare come cammino meno elevato e ambizioso di quello rappresentato dalla poesia in latino, salvo ritornare sui propri passi spaventato proprio dall’ignoranza dei lettori di cose volgari

61. Cin-

que anni più tardi, nell’ambito di una seconda lettera dedicata all’argomento, la contrapposizione tra latino e volgare è ricondotta alla stessa immagine della scelta

57

In questa sede mi limito a rimandare a: E. PASQUINI, Dantismo petrarchesco. Ancora su

“Fam.” XXI 15 e dintorni, in Motivi e forme delle Familiari di Francesco Petrarca cit., pp. 21-38, con

relativa bibliografia, e F. PETRARCA, Senile V 2, introduzione, testo e traduzione a cura di M. Berté,

Firenze, Le Lettere, 1998. 58

G. BOCCACCIO, Tutte le opere, dir. da V. Branca, III, Amorosa visione. Ninfale fiesolano.

Trattatello in laude di Dante, a cura di V. Branca, A. Balduino, P. G. Ricci, Milano, Mondadori, 1974,

prima redazione, § 19, p. 442. 59

Lettera a Petrarca cit, p. 90. L’immagine di Petrarca musagete si basa sui versi della già

menzionata epistola metrica a Giovanni Barilli: «[...] de vertice Cirre / avulsas [scilicet Musas] paulum

mediis habitare coegi / urbis ac populis» (Epist. metr. II 1, vv. 49-51, cito da F. PETRARCA, Opere, a

cura di E. Bigi, Milano, Mursia, 1963, p. 442). 60

Fam. XXI 15, 11. Com’è stato notato il passo in questione è una riscrittura di If XXVI, vv. 94-99. 61

Fam. XXI 15, 25.

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628 Lorenzo Geri

del latino come iter aliud rispetto al volgare62

. La metafora del cammino, d’altronde, anche a di là del confronto con la figura ingombrante di Dante, è strettamente con-nessa nelle lettere di Petrarca al tema della rinascita e dell’imitazione; significativa, a riguardo, la missiva indirizzata a Boccaccio nell’ottobre del 1354 nella quale Pe-trarca afferma di seguire la strada appartata (semita) che conduce alla gloria, un tempo calcata dagli antichi, ma senza per questo mettere il piede sulle impronte de-gli scrittori classici, ovvero senza imitarli pedissequamente, in quanto la sua poesia persegue la somiglianza con gli antichi (similitudo) e non l’identità (identitas). Per questo il cammino nella direzione indicata dagli antichi avviene liberamente:

Nolo ducem qui me vinciat sed precedat, sint cum duce oculi, sit iudicium, sit libertas; non

prohibear ubi velim pedem ponere et preterire aliqua et inacessa tentare; et breviorem sive ita

fert animus, planiorem callem sequi et properare et subsistere et divertere liceat et reverti63

.

Nelle lettere più tarde tra quelle indirizzate al Boccaccio Petrarca non ricorre all’immagine delle Muse e del Parnaso e non si riferisce all’incoronazione poetica. Il tema della renovatio, tuttavia, emerge in sede di bilanci. Nella Sen. XVII 2 Pe-trarca rivendica da una parte il ruolo svolto nell’eccitare i contemporanei agli stu-dia «multa neglecta seculis», dall’altra ricorre alla metafora del cammino per indi-care un percorso che non intende arrestarsi prima del tempo; l’imminente conclu-sione della giornata della sua vita, infatti, impone a Petrarca il proposito di rad-doppiare il passo prima che il sole tramonti64.

Se Petrarca negli ultimi anni non ricorre più all’immagine della scalata del Parnaso

65, Boccaccio non abbandona il simbolismo dei testi petrarcheschi per la

laurea nell’ambito della sua tematizzazione della renovatio. Nella bucolica XII (1364) le immagini relative al Parnaso e alle Muse strutturano il testo: Boccac-cio/Aristeo colloquia con Calliope, verso la quale si è diretto attratto dal profumo del lauro. Il pastore è alla ricerca di Saffo, simbolo della poesia in latino e la Musa lo informa che la fanciulla vive sulla cima del Parnaso. I sentieri che conducono sin lì sono «confusi dai rami secchi dei boschi, dai macigni dei pruneti, dalla pol-vere portata dal vento». Ariteso non deve disperare, c’è un pastore che conosce il cammino: è Silvano/Petrarca, caro alle Muse. Nell’ambito della poesia bucolica, rinnovata proprio da Petrarca, Boccaccio, dunque, adotta una genealogia della ri-nascita per così dire “ortodossa”, condivisa dai sodali petrarcheschi. Sette anni più tardi, però, in una lettera indirizzata a un giovane studioso siciliano, Iacopo Pizzi-

62

“Tanquam ergo qui currens callo medio colubrum offendit, substiti mutavique consilium iterque

aliud, ut spero rectius atque altius arripui; quamvis sparsa illa et brevia iuvenilia atque vulgaria iam, ut

dixi, non mea amplius sed vulgi potius facta essent, maiore ne lanient providebo” (Sen. V 2, 55). 63

Fam. XXII 2, 21. 64

Sen. XVII 2 in PETRARCA, Prose cit., p. 1142 . 65

Sen. XVII 2, Ivi, p. 1152.

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Il ritorno delle Muse e la via al Parnaso 629

nga66

, Boccaccio traccia un quadro della rinascita più ampio, includendo l’opera di Dante in un disegno provvidenziale che comprende più generazioni, da quella dei padri (l’Alighieri stesso, isolato profeta di un’imminente renovatio), passando per quella del maestro Petrarca e dei suoi coetanei, sino alle nuove leve, ansiose di seguire il cammino verso il Parnaso.

La lettera si apre lodando il Pizzinga, che aspira all’incoronazione poetica se-guendo l’esempio di Petrarca e Zanobi da Strada; l’ardore del giovane è il frutto di una dantesca «favilla»

67.

Lo stilema dantesco introduce una storia della Rinascita che si spinge indietro sino all’età di mezzo; la poesia degli antichi è paragonata ad una fiammella tenuta a stento in vita negli anni bui che seguono alla caduta dell’Impero romano e ravvivata impetuosamente dall’opera provvidenziale di due uomini divini, Dante e Petrarca:

Fuit enim illi continue spiritus aliqualis, tremulus tamen et semivivus potius quam virtute

aliqua validus, ut in Catone, Prospero, Pamphilo et Arrighetto florentino presbitero, termi-

nus quorum sunt opuscula parva nec ullam antiquitatis dulcedinem sapientia. Verum evo

nostro ampliores a celo venere viri, si satis adverto, quibus cum sint ingentes animi, totis

viribus pressam relevare et ab exilio in pristinas revocare sedes mens est, nec frustra68

.

Una volta chiarito che le opere di Dante e Petrarca sono provvidenziali per la rinascita della poesia, Boccaccio mette a confronto i due grandi modelli attraverso la metafora dell’ascesa al Parnaso. Con un’intuizione profonda Boccaccio inter-preta l’opera di Dante come inimitabile: Dante è giunto alla fonte Castalia, abban-donata da secoli, per una via traversa (diverticula), ignota agli antichi, costrin-gendo per giunta le Muse a cantare in volgare. Se Dante per primo ha mostrato ai posteri che la fiamma della poesia era ancora viva, a Petrarca spetta il vanto di es-sere stato il primo a ripercorrere la strada degli antichi che conduce al Parnaso, aprendo la via a quanti volessero imitarlo: «post eum ascendere volentibus viam aperuit». Sebbene a Dante sia riconosciuta una maggiore originalità, è a Petrarca che spetta il titolo di praeceptor di tutta un’epoca: non soltanto ha mostrato la via ma ha purificato le acque della fonte Castalia e ricondotto la vetta del Parnaso, immaginata come un giardino, al suo antico, ordinato splendore.

66

Scarne le notizie e la bibliografia sul Pizzinga, si vd. A. De STEFANO, Iacopo Pizzinga

protonotaro siciliano del sec. XIV, in «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani»,

V, 1957, pp. 183-97; A. SOTTILI, In margine al Catalogo dei codici petrarcheschi per la Germania

occidentale in Il Petrarca ad Arquà. Atti del Convegno di studi nel VI Centenario (Arquà Petrarca, 6-

8 novembre 1970), a cura di G. Billanovich e G. Frasso, Padova, Antenore, 1975, pp. 293-314

(edizione di un carme di Pizzinga alle pp. 313-4); V. FERA, I versi di Giacomo Pizzinga contro la

Sicilia in Margarita amicorum. Studi di cultura europea per Agostino sottili, a cura di F. Forner, C. M.

Monti, P. G. Schmdt, I, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 293-90 (il carme, già edito da Sottili, alle

pp. 287-8). 67

Epist. XIX, 23, p. 664. 68

Epis. XIX, 24-25, pp. 664-5.

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630 Lorenzo Geri

La distinzione dei ruoli tra Dante e Petrarca nella Rinascita delle lettere che emerge dalla lettera a Pizzinga, dunque, prefigura implicitamente due ruoli di-stinti: Dante è il poeta, Petrarca il filologo, lo studioso della lingua, il retore. Dante ha accesso la fiamma dell’ispirazione poetica, Petrarca ha insegnato l’arte paziente dello studio dei testi antichi e della loro imitazione. Tale schema è seguito da Ben-venuto da Imola nella redazione definitiva del suo commento, in relazione all’immagine del grande incendio che segue alla favilla dantesca:

Et hic nota quod poeta pro parte videtur dicere verum: nam tempore quo florebat Dantes

novissimus poeta Petrarcha pullulabat, qui vere fuit copiosior in dicendo quam ipse. Sed

certo quam Petrarcha fuit maior orator Dante, tanto Dantes fuit maior poeta ipso Petrarcha,

ut facile patet ex isto sacro poemate69

.

La contrapposizione tra Petrarca e Dante, tra il retore e il poeta ha una sua im-portanza in ambito fiorentino. Lo stesso Leonardo Bruni recupera tale distinzione additando in Petrarca colui che ha aperto la vita all’imitazione della buona prosa latina:

Francesco Petrarca fu il primo ch’ebbe tanta gratia d’ingegno che riconobbe et rivocò in luce

l’antica leggiadria dello stile perduto et spento; e posto che in lui perfetto non fusse, pure da sé

vide et aperse la via a questa perfetione, ritrovando l’opere di Tullio et quelle gustando et in-

tendendo, adactandosi, quanto poté et seppe, a quella elegantissima et perfectissima facondia:

et per certo fece assai, solo a dimostrare a quelli che doppo lui aveano a seguire70

.

L’elogio non è privo di riserve: Petrarca ha sì aperto una via ma non ha condotto a perfezione il ripristino del latino sino a recuperare il suo splendore originario.

Sul finire del Quattrocento le metafore della Rinascita cominciano a intrec-ciarsi con lo schema storiografico delle tre corone. Tra i tanti passi che si possono citare, ha un particolare rilievo il Proemio di Cristoforo Landino al suo Commento dantesco (1480). Al paragrafo IV (Fiorentini excellenti in eloquentia), infatti, Landino riprende le metafore presenti nella lettera di Boccaccio Iacopo Pizzinga:

Ma di Danthe et del Petrarca diremo in altro luogo. E qui solamente grandissime, infinite et

immortali laude riferiremo loro, perché la già molti anni smarrita strada, la quale gli amanti

delle Muse guida in Parnaso et al pegaseo fonte, ritrovorono, et tra’ pruni et sterpi ricoperta

et per questo incognita in maniera purgorono che dipoi da molti è stata pesta. Le vestigie di

questi imitò Ioanni Boccaccio71

.

69

BENVENUTI DE RAMBALDIS DE IMOLA, Comentum cit., IV, p. 309. 70

L. BRUNI, Opere letterarie e politiche, a cura di P. Viti, Torino, UTET 1996, pp. 555-56. 71

C. LANDINO, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno, 2001,

pp. 236-37.

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Il ritorno delle Muse e la via al Parnaso 631

Dante e Petrarca sono raffigurati come giardinieri del Parnaso, esempi da imitare per una letteratura che ha trovato una «strada» che può condurla verso le cime raggiunte dagli antichi, come dimostra il caso di Boccaccio, primo imitatore dei due grandi fondatori. Il cerchio, in qualche modo, si chiude: le metafore dante-sche relative al Parnaso e all’incoronazione poetica, risemantizzate da Petrarca con una sottile contrapposizione tra il sogno municipale di Dante e l’incoronazione in Campidoglio, tramite la mediazione di Boccaccio sono utilizzate per descrivere una genealogia della Rinascita che si estende al volgare e si incentra su una artifi-ciale concordia tra i due grandi poeti fiorentini.

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