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Il riparatore

Mar 31, 2016

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Elia Spinelli, fantasy. I Blaster minano il lavoro dei Padri Scrittori, coloro che decidono il nostro destino. Grazie alla loro grande forza di volontà, si rifiutano di percorrere i canali che sono stati assegnati loro e deviano, invadendo i destini altrui e rischiando di generare il Caos. Il Riparatore è un cacciatore di Blaster che lotta per ripristinare il giusto corso degli eventi. Un fedele soldato che dagli scontri della prima Guerra d’Indipendenza fino ai giorni nostri ha servito con devozione gli Scrittori della nostra vita. L’avvento dell’Abominio farà vacillare la sua fede ponendolo di fronte a una scelta drammatica: la sicurezza del certo, figlio del determinato, o il fascino dell’imprevedibile, padre del libero arbitrio?
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In uscita il 29/7/2014 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine agosto e inizio settembre 2014 (4,99 euro)

AVVISO

Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita.

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dell’anteprima su questo portale.

La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.

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ELIA SPINELLI

IL RIPARATORE

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RACCONTI INTORNO AL FUOCO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-756-8 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Puoi anche alzarti molto presto, ma il tuo destino s’è alzato un’ora prima.

Anonimo

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Questo romanzo è dedicato ad Anna. È grazie al suo ottimismo contagioso

che sono andato avanti con questa follia.

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1. TANTI AUGURI È da un po’ che sono Tano Buscemi. Non fu questo il nome con il quale nacqui. Non sarà con questo nome che morirò. Oggi sarà dura, mi aspetta una di quelle giornate che preferiresti dormi-re fino al mattino del giorno successivo. Tra poco arriverà Lucia, nel pomeriggio arriverà l’allegra compagnia festaiola con sindaco, parroco, medico e proloco al completo. Vado a prepararmi. Con la macchinetta raso a zero i capelli. Poi indos-so la calotta, con i pochi ciuffi bianchi spelacchiati, dalla quale di tanto in tanto strappo qualche capello per testimoniare il tempo che avanza. Passo al viso, con il trucco oramai sono esperto. Quindi indosso il pan-nolone e ci piscio dentro. Infine mi rinfilo nel letto. Sento aprire la porta d’ingresso, Lucia è arrivata. «Tano, sei sveglio? Auguri nonnino, oggi festeggiamo il tuo primo se-colo!» Lucia è la mia badante, diciamo che formalmente l’ho assunta con que-sta mansione. In realtà per me rappresenta quella figlia che non ho mai avuto, quella figlia che non potrò mai avere. Ha quarantasette anni por-tati male, tipico in coloro che hanno la cattiva abitudine di preoccuparsi troppo per gli altri e poco per se stessi. «Grunt, che se ne stiano a casa loro tutti quei rompicoglioni!» «Dai Tanuccio! Non brontolare sempre, dovresti essere felicissimo, mi-ca è un giorno come gli altri! È un evento che si verifica una volta sola, e soprattutto non è da tutti» dice mentre mi aiuta a scendere dal letto. Lei non può sapere che non è la prima volta che festeggio i cento. «Vieni che ti lavo e ti cambio» dice. «Non ci pensare proprio! Ce la faccio ancora. Mi laverai e cambierai solo per depositarmi nella bara. Quando non ce la farò più ti chiederò un po’ di veleno. Accompagnami in bagno piuttosto, ma fino alla por-ta.» «E che sarà mai!» mi fa ridacchiando «non te lo rubo mica il tuo gioiel-

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lo! Guarda che non mi impressiono per così poco. Certo che un lavoro comodo come questo, con te che ti ostini a fare tutto da solo…» Mi aiuta ad alzarmi e mi accompagna sorreggendomi per un braccio. Assumo una postura sbilenca e avanzo trascinando i piedi, entro nel ba-gno, chiudo la porta e giro la chiave. «Tano! Quante volte te lo devo dire che non ti devi chiudere a chiave? Se ti prende un accidente come faccio?» Sono alla frutta. Non credo di riuscire a resistere ancora per molto. Prima o poi mi verrà una voglia irrefrenabile di liberarmi da questo fal-so guscio decrepito e di mettermi a ballare il tiptap. Fede, obbedienza, sacrificio. Sono questi i tre comandamenti ai quali ho dedicato la mia lunga esistenza. Ma adesso stanno esagerando; abusan-do del mio sacrificio stanno minando la mia fede, e se continuano così si giocheranno la mia obbedienza. Cavolo! Sono passati trentadue anni da quando sono arrivato in Sicilia. Sono anni che me ne sto rinchiuso in casa o, massimo della trasgressione, a prendere un po’ di sole sulla panchina davanti alla porta. Comincio a pensare che si siano dimentica-ti di me, non ci può essere altra spiegazione. Il mio compito qui si è concluso da anni, che senso ha trattenermi ancora? Spero arrivi presto un nuovo incarico altrimenti esplodo! BOOOM! «Tanuccio tutto bene là dentro?» «Siii… vieni a prendermi!» Cento anni. Li ha compiuti oggi, giovedì 16 maggio, a Villa Iblea, Gae-tano Buscemi per tutti Tanuccio. Nato a Newark nel New Jersey da ge-nitori siciliani, si è trasferito a Villa Iblea nel 1981. Tanuccio vive in un’accogliente abitazione nel cuore del paese, la stessa dove nel giorno del suo centesimo compleanno è stato festeggiato da una rappresentan-za della comunità locale, con in testa il sindaco Antonio Modica ac-compagnato da numerosi consiglieri comunali. A rallegrare ancor più l’atmosfera, di per sé già festosa, era inoltre presente una formazione di danza folkloristica. Ben curato ed elegante, oltre che lucidissimo, Tanuccio si è dimostrato ancora una volta uno squisito padrone di casa intrattenendosi in amabile conversazione con gli ospiti. Non ha parenti in Italia, tuttavia oltre che della compagnia di Lucia, che da anni si prende cura di lui, Tano gode dell’affetto dei vicini di casa che ogni giorno non mancano di fargli visita. Sempre presente alla messa, all’uscita della chiesa ama inoltre soffermarsi a chiacchierare con la gente. Auguri.

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«Tano! Hai sentito? Pure a me hanno nominato!» dice Lucia commen-tando il servizio di TeleSudTrinacria «certo che tu che non ti perdi una messa… non ricordo di averti mai visto in chiesa, a parte oggi. Poi che ti fermi a chiacchierare… ma quando mai!» «Non ci pensare, devono ricamare per riempire il servizio. Adesso vai che devi badare anche alla tua famiglia.» «Tu sei parte della mia famiglia. Ti serve altro? Ti preparo una tisana? No? Va be’, allora vado. ‘Notte Tano.» Oggi pomeriggio me la sono cavata bene. Alle 15:50 Lucia mi porta in chiesa; dista ottanta metri per cui siamo andati a piedi. Inizia la recita. Con la mano destra mi appoggio al bastone mentre “Santa Lucia” mi sorregge dal braccio sinistro. Cerco di ingobbirmi e svergolarmi senza esagerare troppo per evitare di scivolare nel grottesco, sto attento a non alzare troppo i piedi da terra, spingo le labbra verso l’interno, a coprire quei denti che non dovrebbero esserci e rispondo con voce biascicata ai saluti e agli auguri della gente: “Grassie… sciao…”. Davanti alla chiesa mi aspetta la piccola banda del paese e il gruppo folkloristico. La gente comincia a cantare “Tanti auguri a teee… tanti auguri a teee”, la signora Rosina ci prova in inglese “eppi berto yuyu… eppi berto yuyu”. L’affetto sincero di questa gente mi fa sentire un verme, ma mentire non è una mia scelta. Una lacrima, vera, riga la mia guancia. Don Tonino è stato celere, come sempre. Dio sia lodato! Al termine della funzione ci attende un piccolo buffet a casa mia. Si è occupata di tutto Lucia, i suoi cannoli vanno a ruba. Il sindaco Luca Bianco mi chiede: «Come va Tanù?» «Eh?» «Come va?» «Eh?» «COME VA?» «E come vuoi che vada, continuo a rubare giorni al Padreterno e scioldi al governo.» «Ah, questa è bella. E I PARENTI, SI SONO FATTI VIVI?» «Ehi! Non sc’è bisciogno di urlare! Scion mica sciordo io!» «Ah scusami. E allora?» «Mi ha chiamato mio nipote. Dice che mi riporterà in America.»

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«Ma alla tua età ne vale la pena?» «Come?» «Non è troppo stressante per te il viaggio?» «Naaa. Voglio esciere scepolto con i miei cari. Quindi, viaggiare per viaggiare, voglio provarci da vivo. Meglio da vivo che da morto, no?» «Giusto. Mantieniti forte Tanuccio.» Lucia è andata a casa sua. Ha un marito e tre ragazze a cui badare; tre figlie, una delle quali adottata. Il marito è una delle tante vittime della crisi economica che attanaglia l’Italia e gran parte del mondo. L’acciaieria dove ha lavorato per più di venti anni ha chiuso i battenti e, alla soglia dei cinquant’anni, per Sergio Salemi trovare un nuovo lavoro non sarà facile. Sara, la primogenita, è stata sposata, ma da quando si è separata vive più a casa di Lucia che a casa sua. Poi ci sono Angela, di diciassette anni e Frida, la figlia adottiva di otto anni. Adesso che sono rimasto solo in casa, finalmente posso svestirmi dei panni di Matusalemme. Indosso la mia tuta da ginnastica e comincio a eseguire gli esercizi di stretching, apro la porta del disimpegno, quella della camera da letto e del soggiorno, sposto le sedie e la pista è pronta. Percorso di quattordici metri da ripetere duecento volte. Due chilometri e ottocento metri di corsa leggera che eseguo tutte le sere in poco meno di mezz’ora. Poi venti flessioni, qualche addominale, doccia, pigiama, un po’ di TV e a nanna. «Tano, è arrivato il corriere! C’è un pacco per te. Te lo apro?» Un pacco, chi me l’avrà inviato? Chissà cosa c’è dentro? Ma sì! La-sciamo libero sfogo alla curiosità di Lucia. «Sì, apri pur… NO!» E se nel pacco ci fosse il mio nuovo incarico? Certo, non mi è mai capi-tato di riceverlo con un corriere espresso ma si sa, il mondo va avanti. «Che ti prende? È un pacco bomba?» «No. È che mi è venuto un gran mal di pancia. Accompagnami in ba-gno, il pacco lo apro là mentre ehm…» È passata una settimana dal mio centesimo compleanno quando, seduto sul vaso con il pacco sulle ginocchia, le mani tremanti, il cuore pieno di speranza, comincio ad analizzare ciò che mi è stato consegnato. Non c’è traccia del mittente. Mi libero dell’involucro aiutandomi con il mio coltellino svizzero, comincio a pescare tra le palline di polistirolo.

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«Tano tutto bene?» «Sì!» e tiro lo sciacquone. La prima cosa che emerge è un telefono cellulare, la seconda è un por-tadocumenti, infine una lettera. Leggo la lettera e la richiudo. Apro il portadocumenti, all’interno ci sono due MasterCard, una patente di gui-da, un documento di riconoscimento, una tessera sanitaria. I dati sul do-cumento: Cognome: Vitale Nome: Renzo Nato il: 18/08/1958 a: Newark - New Jersey - USA Cittadinanza: Italiana Residenza: Roma Via: Treponti, 18 Professione: impiegato Statura: metri 1,75 Capelli: castani Occhi: scuri Segni particolari: nessuno Finalmente! Avrò cinquantacinque anni. Me li porterò un po’ male ma questo mi consentirà di restare al naturale per almeno una quindicina di anni, se nel frattempo non avrò un nuovo incarico naturalmente. Bella notizia! Nel pacco nessun riferimento all’incarico, tantomeno alla de-stinazione reale. I natali in America e la residenza a Roma servono solo a rendere meno reperibili le informazioni sulle mie origini e sulla mia parentela. Rimetto il cellulare nel pacco e nascondo i documenti nella tasca del mio pantalone. Prima di uscire dal bagno cerco di cancellare dalla mia faccia l’espressione di enorme soddisfazione impressa dall’ultima novità. «Lucia mi leggi questa lettera? Io non riesco» «Subito Tano. Ma non dirmi che nel pacco c’era solo una lettera» «No. C’era pure questo coso» mostrandole il cellulare. «E che ci dovresti fare col telefonino? Dammi qua!» e mi strappa prati-camente di mano la lettera.

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Caro nonno Tano, tantissimi auguri per il tuo compleanno. Sono vera-mente dispiaciuto di non essere riuscito ad arrivare in tempo per i fe-steggiamenti, ma proveremo a rifarci in America. A casa non vedono l’ora di riabbracciarti, e per l’occasione stanno organizzando un gran-de evento. Conto di arrivare per giovedì 30 maggio. Ti confermerò tramite SMS sul telefonino che ti ho inviato. Stammi bene. Tuo nipote Eddy «Giovedì 30, tra una settimana…» «Sì» risponde Lucia «Mi conferma con l’ellesse… cosa significa?» «SMS. È un messaggio sul telefonino. A proposito, dammelo che te lo metto sotto carica.» Poi quindici minuti di silenzio, fatto insolito per una donna prolissa come Lucia. Continua a spolverare nervosamente il tavolo, lo sguardo perso nel vuoto, il volto coperto da un velo di tristezza. Immagino cosa possa passarle per la testa; dopo il marito anche lei perderà il lavoro, occupazione che le aveva garantito per tanti anni un’entrata mensile, seppur modesta. Nemmeno per me sarà facile separarmi da lei. Mi è sempre più difficile separarmi dalle persone che ho provveduto a ripa-rare personalmente. Per me Lucia è una figlia che non rivedrò mai più anche se con lei resterà per sempre una parte di me. «Nonno Tano, è vero che tra qualche giorno vai via?» È Frida, la figlia adottiva di Lucia. Io sono seduto sulla panchina da-vanti casa a godermi un po’ di sole pomeridiano. «Sì piccola, parto giovedì prossimo.» «Mamma mi ha detto che andrai via con l’aereo. Ma se muori sull’aereo - sai, tu sei tanto vecchio - se muori il pilota cosa farà?» «Di preciso non lo so, avranno una qualche procedura da seguire. Co-munque cercherò di non metterli in difficoltà arrivando sano e salvo a destinazione.» «Ma tu non hai paura di morire?» «Un pochettino sì, ma proprio poco poco.» «Io invece, ho proprio tanta paura di morire, ma proprio tanta tanta! Sogno tante volte di morire, e a volte anche mamma e papà. Che sono morti loro dico!» «Ehi! Alla tua età non ci devi proprio pensare a queste cose!»

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Vedi un po’ se una bambina di otto anni deve pensare a queste cose. Noi adulti siamo dei veri campioni nel trasmettere le nostre ansie a chi ci segue. «Ok. Ciao nonno. Cerca di resistere.» È mercoledì, alle dieci mi faccio accompagnare da Lucia all’ufficio po-stale. Aspetto il mio turno e saluto Davide l’impiegato. «Buongiorno signor Tano. Cosa posso fare per voi?» «Devo chiudere il mio conto.» «Dove devo trasferire l’importo?» «Devi aprire un nuovo conto a nome di Lucia Patanìa e versarci sessan-tatremila euro. I dispari me li dà in contanti.» «Attenda un attimo.» Davide, sospettando di avere a che fare con una persona incapace di in-tendere e di volere, si reca nell’ufficio del direttore per chiedere il da farsi. Lucia attende, ignara, sulla panca. Dopo pochi secondi l’impiegato torna e, sbloccando la porta di sicurezza che separa gli uffi-ci dagli utenti, ci invita a entrare. «Signor Buscemi» dice il direttore «Davide è venuto a informarsi sulla legittimità di questa operazione. A dire il vero, un suo parente mi aveva già contattato per anticiparmi le sue intenzioni e per farmi sapere che la sua scelta è assolutamente condivisa dai suo familiari. D’altro canto, anche se non fosse stato così, non avremmo potuto né voluto opporci alle sue volontà. Aspettate qui mentre viene preparata la documentazio-ne da firmare. Signora Patanìa, dovrebbe darmi un suo documento.» «Un mio documento? E io cosa c’entro?» «La signora Lucia non è stata informata di questa operazione» chiarisco «dai il documento al dottor Guariti, che ti spiego.» Il direttore esce. «Ho deciso di lasciarti un po’ di risparmi che avevo da parte. Non sono molti, ma ti consentiranno di andare avanti fino a quando le cose non si saranno aggiustate.» «Ma Tano! Cosa…» «Aspetta. Non ho finito. Sarà tua anche la casa con quel poco che c’è dentro. Mio nipote si sta già occupando degli aspetti legali. Io non ne ho più bisogno, presto lascerò questa vita per iniziarne una nuova e per la mia nuova vita c’è già chi si occuperà di me. Dai, smettila di piange-re che sta tornando il direttore.»

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Il mio riferimento all’inizio di una nuova vita è molto meno mistico di quanto non abbia voluto far intendere a Lucia. «Tano, credo che questo non sia corretto nei confronti dei tuoi familia-ri.» «Come già ci ha spiegato il direttore, i miei familiari non solo sono al corrente, ma sono anche favorevoli. Anche se non fosse stato così, nel caso di un loro parere contrario intendo, nulla avrebbe potuto impedir-mi di ringraziare in modo adeguato la persona che mi è stata vicina e a cui ho voluto bene. Lucia, vedi di fartene una ragione, per me sei come una figlia.» «Dai, non buttiamola sul sentimentale. Lo sai che mi dà fastidio, vorrai mica farmi piangere?» nemmeno lo finisce di dire che scoppia in un pianto a dirotto, poi mi abbraccia forte. «Lucia! Vedi un po’ chi è» È arrivato il giorno della partenza. Suona il campanello, dovrebbe esse-re lui. I bagagli sono pronti. Stamattina sul presto è passato a ringra-ziarmi Sergio, il marito di Lucia. Poi, prima di andare a scuola, sono passate per salutarmi Frida e Angela, per ultima Sara. «È arrivato Eddy!» Il mio presunto nipote, apparentemente sulla trentina, alto, aitante, ca-pelli corti, si presenta in abito scuro, occhiali scuri e auricolare. Sembra più una guardia del corpo che un recuperatore di parenti. Si avvicina e mi abbraccia. Poi si rivolge a Lucia. «Signora Patanìa, volevo ringraziarla per la dedizione con cui si è presa cura di mio nonno in tutti questi anni.» «A essere onesti» risponde Lucia «è stato Tano a prendersi cura di tutti noi. A tal proposito, è giusto che ti informi dell’ultima follia fatta da tuo nonno.» «No. Non è necessario. Sono al corrente. Se si riferisce alla donazione chiaramente. A proposito! Le vado a prendere i documenti della casa. Nonno, comincio a caricare i bagagli?» «Sì. Comincia pure.» Resto solo in casa con Lucia. «Allora… adesso che non ci rivedremo mai più, mi puoi dire chi sei in realtà?» Sono spiazzato da questa domanda assolutamente inattesa. «Che cosa intendi?»

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«Hai cento anni. Non hai mai assunto alcun farmaco, mai un raffreddo-re, un mal di testa, una linea di febbre, un giorno in ospedale. Hai tutti i denti sani. Per non parlare della tua falsa incontinenza, delle corsette serali. Ma hai pensato davvero che in tutti questi anni non mi fossi ac-corta di niente? Me ne sarei accorta anche se avessi avuto due fette di prosciutto davanti agli occhi.» «Ma Lucia, non so cosa…» «Tano, quella mattina di trentuno anni fa ero cosciente, ho visto cosa hai fatto a Sara. Allora me lo dici chi sei?» Incredibile. È riuscita a tenersi tutto dentro per tanti anni. E io che pen-savo di essere infallibile. L’abbraccio e le do un bacio sulla fronte. La-scio il bastone e mi avvio senza aiuto verso la porta. Apro la porta, mi giro verso di lei e le dico: «Il tuo angelo custode.»

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2. 8 APRILE 1848 Tutta colpa di Giorgina. È per colpa sua se mi trovo qui. Ha preferito Giovannone il macellaio, figlio di macellaio (e di putta-na!) nipote di macellaio a me, re degli sfigati, figlio delle promesse mai mantenute, nipote dei sogni infranti. D’altro canto come darle torto, soprattutto dopo l’ultima cazzata che ho fatto. Torto o ragione, adesso sono qui. E chi lo avrebbe mai detto. Io, che quando vedo un minimo accenno di rissa cambio strada. Io, che se qualcuno alza la voce mi tappo le orecchie. Io, che se ci sono più di quattro persone intorno a me mi manca l’aria. Eccomi qua! Arruolato volontario nell’esercito piemontese per combat-tere gli austriaci. Che poi chi li conosce a ‘sti austriaci… cosa mi han-no fatto mai di male ‘sti austriaci che gli devo sparare contro? Certo che se si sapesse che son qui non tanto per senso patriottico ma perché mi sono state negate due belle puppe, non è che ci farei un gran bella figura. Farei la figura di quello che sono: un grandissimo coglio-ne! Così mentre Giovannone se la spassa con Giorgina io, grande eroe, sono qui, con le pallottole dei cecchini che mi fischiano vicino alle o-recchie. Questi e mille altri pensieri tormentavano Vincenzo Innocenti da Pe-scia. Reso vulnerabile da una cocente delusione d’amore, era stato fa-cilmente convinto ad arruolarsi dal suo amico Vittorio, studente di fisi-ca all’università di Pisa. Si era pentito subito dopo. «Lascia perdere la Giorgina» gli disse Vittorio, quasi avesse letto nei suoi pensieri «cerca di restare concentrato che fra poco si balla.» «Hai ragione, ma proprio non mi riesce di non pensarci. Oramai l’avevo conquistata. Se non fosse stato per suo padre, a quest’ora sarebbe mia.» «Caro Vincenzo, continui a prendertela con il suo babbo ma te la do-vresti prendere solo con te stesso. Ma come ti è venuto in mente di scri-verle quei versi? Ti sembra un approccio corretto?»

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«Con lei sarebbe stato giustissimo. Non me la aveva ancora data ma e-ravamo entrati in confidenza, avrebbe apprezzato i miei versi, ne sono certo. Sono convinto che quella mattina sarei riuscito a sfondare le sue difese, peccato che la mia poesia è finita nelle mani sbagliate.» «Certo che è forte. Com’è che fa?» «È questa, leggila pure.» A Giorgina Se miri i campi con gli occhi tuoi belli tra ortaggi e legumi ridesti i piselli, non puoi cucinare uno scorfano morto che come lo tocchi il pesce è risorto, se al vento dell’est sciogli i capelli si alzan dai rami frasche e augelli, quando ti togli i vestiti da dosso anche un topino diventa più grosso, nei tuoi lineamenti non v’è alcun difetto dammene assaggio ospitandomi a letto, non ti curar delle altre pulzelle che per astio e invidia si strappan la pelle, ondeggi le terga per puro diletto non ti crucciar se poi t’inchiappetto. «E tu che fai? Infili una roba del genere sotto la porta!» «Il padre a quell’ora non è mai in casa. Avrebbe dovuto essere da sola. Così ho aspettato che mi aprisse la porta.» «Invece la porta te l’ha aperta lui.» «Eh già. Lo sai quant’è grosso il babbo di Giorgina. Con una mano mi ha preso per il collo e mi ha sollevato, con l’altra mi teneva premuto il coltello sulle parti basse. Pure la rima mi ha fatto: Lo giuro sugli angeli e i santi più boni, se rivedi mia figlia ti taglio i coglioni! …questo mi ha detto prima di scaraventarmi per aria.» Erano stati assegnati alla Legione Griffini, composta principalmente da volontari lombardi. Al comando della Legione vi era il capitano Saverio Griffini, fondatore della stessa. La Legione faceva parte della 2ª com-pagnia bersaglieri.

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Il corpo dei bersaglieri era nato dodici anni prima per volontà dell’ufficiale Alessandro La Marmora. Era costituito da reparti di fante-ria celere armata di carabine, capace di rapidi spostamenti, caratterizzati da un fuoco preciso e utile alle piccole distanze. I bersaglieri dovevano avere grande resistenza alle fatiche, ottima mira con la carabina e intel-ligenza per trovarsi sempre al posto giusto nel momento giusto. In lontananza si intravedevano le prime case dell’abitato di Goito Il pa-ese era difeso da milleduecento Schützen tirolesi della brigata Wo-hlgemuth decisi a impedire alle truppe piemontesi di giungere al Min-cio. I bersaglieri attaccarono a colpi di carabina i cacciatori imperiali austriaci che sbarravano l’ingresso al paese mettendoli rapidamente in fuga. «Ma proprio con questi fanatici con le piume in testa dovevamo capita-re?» disse Vincenzo «sempre all’attacco, sempre di corsa! Sembra che abbiano una gran fretta di farsi ammazzare.» «E smettila di lamentarti sempre» protestò Vittorio «occhio ai cecchini piuttosto!» In quell’istante sbucò da un vicolo uno schützen che lestamente puntò contro Vittorio e aprì il fuoco. Il cappello di Vittorio volò per aria, ma per sua fortuna la testa rimase al suo posto. Altrettanto rapido fu Vin-cenzo nel puntare la sua carabina contro l’austriaco. Premette il grilletto ma non successe nulla; aveva dimenticato di togliere la sicura. Fu Vit-torio a sparare, mancando clamorosamente il bersaglio. Lo schützen stava cercando di ricaricare, ma Vincenzo si avventò su di lui branden-do la carabina impugnata per la canna come una mazza. Gli calò una randellata in mezzo agli occhi, fracassandogli il naso con il calcio del fucile. L’austriaco vacillò, poi cadde a terra stordito. «Scusa. Ti sei fatto male?» chiese Vincenzo correndo in soccorso del nemico «certo che pure te! Che ti spari! Vedi poi che succede?» «Leck mich am arsch italienisch scheiße» rispose l’austriaco. «Ma che fai, imbecille! Prendigli il fucile e lascialo perdere, si occupe-ranno di lui le retrovie» urlò Vittorio tirandolo per un braccio. «Cosa mi ha detto l’austriaco?» «Ti ha detto: “ma prego, si figuri, non è successo niente”.» La loro colonna stava aggirando sulla sinistra il centro abitato per pren-dere alle spalle gli imperiali, bloccandone così la ritirata, e per raggiun-gere rapidamente il ponte sul Mincio, ponte che avrebbero dovuto at-traversare prima che gli austriaci lo facessero saltare in aria. Contempo-

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raneamente un’altra colonna, guidata dal capitano Lions, attraversava il paese puntando direttamente al ponte con un attacco frontale alle difese nemiche. Arrivarono alla spianata del ponte mentre gli austriaci, che battevano in ritirata, lo stavano attraversando. Furono preceduti dal colonnello Alessandro La Marmora che inseguiva a cavallo gli austriaci oramai allo sbando. I tirolesi, appostati al di là del ponte, nell’albergo della Giraffa, lo presero di mira e riuscirono a col-pirlo. La palla gli fracassò la mandibola e gli uscì dal collo, appena sot-to l’orecchio; nonostante la grave ferita, riuscì comunque ad abbattere con la spada un ufficiale austriaco che cercava di catturarlo. Poco dopo gli austriaci fecero esplodere le cariche che avevano prece-dentemente piazzato e il ponte crollò. “Il comandante fuori combattimento, il ponte crollato” questa volta Vincenzo tenne i suoi pensieri per sé “a questo punto la missione è fal-lita. Ma pensa te ‘sto colonnello. Gli hanno aperto una seconda bocca e lui che fa? Continua a cavalcare e ti infilza pure un nemico! Un assa-tanato, ecco cos’è. Finché ce ne saranno, di invasati come lui, questo schifo non finirà mai… ma che combinano quelli?” Il ponte non era crollato del tutto. Un parapetto restava ancora in piedi, e lungo questo si lanciarono i più coraggiosi dopo un intenso e violento scambio di colpi. Alcuni caddero nel Mincio, crivellati dai colpi degli austriaci. Il capitano Saverio Griffini fu il primo a raggiungere l’altra sponda. L’intero reparto lo seguì; tra loro c’era anche un tutt’altro che entusiasta Vincenzo Innocenti da Pescia. «Vincenzo, hai saputo? Ci stanno raggiungendo i nostri conterranei. Ci sono anche centinaia di studenti pisani, tra di loro tanti miei amici. Non vedo l’ora di riabbracciarli» disse Vittorio. «Certo che ho saputo. Quello che non ho capito è perché non siamo partiti insieme a loro. Addestrati come si deve, magari. Per colpa della tua frenesia ci ritroviamo qui, super imbranati, in mezzo a questi pro-fessionisti della guerra.» «Ma cosa dici? Per niente al mondo avrei rinunciato a questo trionfo. Sii più orgoglioso; hai preso parte a un evento epico. Hai visto? Carlo Alberto in persona ha consegnato la medaglia d’oro al valor militare al nostro comandante Griffini.» «Perché, secondo te, ne vale la pena di fare tutto sto casino per il Vene-

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to? Chiamatemi Radetzky che il Veneto ce lo giochiamo io e lui, a min-chiate fiorentine.» «Ma se a minchiate sei una schiappa!» «Una schiappa dici? Solo perché ultimamente hai dato sfoggio al tuo gran culone. Comunque il Feldmaresciallo lo batto di sicuro.» Vittorio non riuscì ad abbracciare i suoi amici studenti. Lui e Vincenzo rimasero a presidiare Goito mentre la divisione toscana, che compren-deva volontari toscani e napoletani, andò a schierarsi alle porte di Man-tova. Intanto l’esercito sabaudo cominciava a manovrare all’interno del Qua-drilatero delimitato dalle quattro roccaforti nelle mani degli austriaci: Peschiera, Mantova, Verona e Legnago. Il 13 Aprile cominciò l’assedio di Peschiera. Il 26 aprile i piemontesi mossero in forze oltre il Mincio, con movimento verso nord-est. Il 30 spezzarono le forti posizioni austriache sui colli di Bussolengo e Pastrengo, a ovest dell’Adige, a monte di Verona, costringendo Radetzky a chiudersi dentro alle nuove mura della città scaligera. Il 6 Maggio conquistava due delle quattro posizioni del campo trincerato che cingeva Verona. Nonostante questa serie di successi, Carlo Alberto non diede seguito all’azione offensiva su Verona preferendo concentrare le forze nell’assedio a Peschiera. Questo errore strategico consentì a Radetzky di riorganizzarsi, dandogli inoltre la possibilità di recuperare le posizio-ni perse. Vincenzo Innocenti si stava abituando molto bene alla vita delle retro-vie. Tra le varie mansioni che gli erano state affidate, una gli risultava particolarmente gradita: ritirare il pane dal fornaio e consegnarlo alla corvée di turno. Effettuava il ritiro tutte le mattine. Al forno, a occupar-si della consegna del pane, era Adalgisa, moglie del fornaio Gustavo. Il marito, che di notte preparava il pane per il giorno dopo, tutte le mattine si concedeva qualche ora di riposo. Adalgisa, una bella signora matura e alquanto procace, prese subito in simpatia il giovane soldato. I due cominciarono a entrare in confidenza e i loro colloqui si fecero sempre più intimi. «Dimmi Vincenzo, ma tu ce l’hai l’amorosa?» «Purtroppo no, gentile signora. Ce l’avevo ma… ce l’avevo quasi ma poi ha preferito un altro.»

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«Oh, poverino. Non te la prendere, si vede che non ti meritava. Vedrai che presto ne troverai una più bella.» «Magari, sempre che non ci lasci prima le penne in questa dannata guerra.» «Cerca di stare attento mio bel giovanotto, vedi di non fare l’eroe.» «Sarò vigile. Tornando al discorso di prima, spero proprio di trovare una ragazza bella come voi, signora Adalgisa.» «Oh, ma che gentile, ma certo che la troverai.» «Certo che se fosse veramente così bella sarei sicuramente molto gelo-so. Vostro marito lo sarà senz’altro, vero?» «Sai Vincenzo, mio marito sono mesi che non mi degna più delle sue attenzioni. Ma secondo te, ho qualcosa che non va?» «Signora bella, vi assicuro che in voi ogni cosa sta al posto giusto.» «Ha un amante! Ecco come si spiega! Non ci posso pensare, ogni volta che ci penso mi vengono le palpitazioni. Senti come batte forte il mio cuore.» Prese energicamente la mano di Vincenzo e la posò sul suo seno. Vin-cenzo non riuscì a percepire la palpitazione della signora, troppa mate-ria separava la sua mano dal muscolo cardiaco di Adalgisa. Viceversa, avvertì immediatamente il rapido rigonfiamento fra le sue braghe. «Adalgisa! Avete finito?» «Quasi Gustavo… giovanotto, forza con quelle pagnotte che si è fatto tardi.» «Subito signora… ho finito signora.» «Mi raccomando, domani venga prima così evitiamo di fare tardi.» «Come desidera, signora.» Il giorno dopo Vincenzo arrivò al forno in anticipo, come promesso ad Adalgisa. La voluttuosa fornaia coinvolse l’inesperto giovane toscano in una passione irrefrenabile, facendogli sperimentare varianti inimma-ginabili. Ben presto si dimenticò completamente di Giorgina. Più scopriva i piaceri della vita e più lo tormentava la possibilità di la-sciare questo mondo anzitempo. Ogni giorno Vincenzo andava a ritirare il pane più presto, ogni giorno veniva consegnato alla corvée più tardi. Questo strano fenomeno fu no-tato dal sergente maggiore Filippi. Il sergente, a causa della tendenza al lamento del volontario toscano, aveva preso quest’ultimo in antipatia. Sospettando che Vincenzo si imboscasse, decise di seguirlo per poterlo sorprendere sul fatto. Era il 29 maggio.

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Il sergente seguì la carretta condotta da Vincenzo. La vide fermarsi da-vanti al forno. Il toscano scese ed entrò. I minuti passavano, ma pane sulla carretta non ne arrivava. Filippi si decise a entrare. Nella bottega non c’era nessuno ma dei gemiti si udivano al di là di una porta semi-chiusa. Si affacciò, era il magazzino delle granaglie. Tra i sacchi di frumento vide i corpi nudi dei due amanti che si contorcevano in fu-namboliche posizioni. Crepò d’invidia. «Innocenti!» Vincenzo trasalì, subito afferrò la divisa, poi riconobbe il sergente. «Sergente! Ma che ti rompi i…» In quel momento dalla strada si udì gridare: «Radetzky avanza verso Goito!» «Innocenti! Sbrigati con il pane. Faremo i conti dopo!» disse il sergente affrettandosi a uscire. Il toscano si rivestì, caricò rapidamente il pane, salutò una imbarazza-tissima Adalgisa e si avviò. Radetzky uscì da Verona la sera del 27 Maggio diretto verso Mantova. Per aggirare l’esercito piemontese, stanziato a Villafranca, fece un largo giro marciando prima a sud e puntando poi a ovest. Arrivò a Mantova la sera del 28. Intenzione di Radetzky era puntare verso Pe-schiera per rompere l’assedio dei piemontesi alla fortezza in mano agli austriaci. Il 29 fece avanzare i suoi ventimila uomini verso le posizioni fortificate di Curtatone e Montanara dove li attendevano i seimila uo-mini della divisione toscana. Nonostante la netta inferiorità numerica, toscani e napoletani offrirono una valida resistenza. Molti rimasero uc-cisi e feriti, ma inflissero gravi perdite anche all’esercito austriaco. Il loro sacrificio diede il tempo all’esercito piemontese di concentrarsi su Goito, che si trovava a metà strada tra Mantova e Peschiera. Era il 30 maggio 1848. L’esercito piemontese, forte di ventitremila uo-mini, si schierò da Goito, a sud-est, alla frazione di Cerlongo a nord-ovest. L’assalto austriaco cominciò nel pomeriggio, annunciato da un nutrito fuoco d’artiglieria. Il generale Bava decise di spostare un battaglione con quattro pezzi di artiglieria sulla riva sinistra del Mincio, in modo tale da prendere il ne-mico di fianco. “Ci risiamo” pensò Vincenzo mentre aiutava a spingere uno dei quattro cannoni “eccomi qua, di nuovo in prima linea, per colpa di quella be-

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stia del sergente Filippi. Figlio di una gran maiala!” Il suo battaglione si stava spostando verso sud, lungo la riva sinistra del Mincio. Al di là del fiume era cominciato l’assalto all’abitato di Goito. I quattro pezzi di artiglieria furono piazzati in una posizione strategica ottimale, protetti dal fiume Mincio, e rappresentavano una spina nel fianco per l’esercito austriaco. Gli imperiali tentarono per cinque volte l’attacco ma furono sempre respinti. Radetzky, resosi conto che lo scontro aveva preso una brutta piega ordinò la ritirata. La battaglia si era conclusa favorevolmente per l’esercito sardo-piemontese. “E vai!” pensò Vincenzo “anche stavolta siamo riusciti a salvare la pellaccia.” Vincenzo stava prendendo una grossa pietra quando arrivò quell’ultimo, inaspettato, imprevedibile colpo di cannone. La granata esplose un paio di passi alla sua destra scaraventandolo a terra vicino all’argine del fiume. «Non mi sono fatto niente, non mi sono fatto niente» disse rialzandosi. Poi guardò il lato sinistro del suo corpo e vide i rivoli di sangue che scorrevano copiosi dal collo fino al ginocchio. Istintivamente cercò di tamponare i fori provocati dalle schegge con le dita. Le dita finirono, i fori no. «Oh mamma!» gridò. Poi il buio. Scivolò lungo l’argine e scomparve nelle acque del Mincio. Il suo corpo non fu mai trovato.

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3. RINASCITA «Sono Renzo Vitale… sono Renzo Vitale… sono Renzo Vitale… so…» «Ok! Ok! È un concetto ben chiaro. Oramai lo sanno pure i copertoni che sei Renzo Vitale.» «Guarda che non è semplice cambiare identità dopo trentadue anni.» «Tutto quello che vuoi, ma non puoi continuare ad assillarmi per tutto il viaggio con questa tiritera.» Il viaggio con Eddy prosegue senza intoppi verso la mia prossima de-stinazione. Eddy è il Funzionario incaricato del mio trasferimento. La-vora per i miei capi da sedici anni, esattamente da quando il ventottenne Franco Birgi è sparito dalla circolazione. Da qualche minuto abbiamo lasciato l’albergo a ore dove ci siamo fer-mati per la trasformazione. È un albergo molto discreto dove non si prendono il fastidio di chiedere le generalità, basta pagare in anticipo e in contanti. Sono entrato in bagno con il mio beauty case, mi sono sfila-to la calotta dalla testa e ho controllato lo stato reale dei miei capelli. Erano anni che non li facevo crescere così tanto, da quando ho ricevuto la lettera non li ho più rasati. Ho finito di struccarmi eliminando le false rughe dal viso, dal collo, dalle mani. Nello specchio ho visto un pallido uomo di mezza età, leggermente stempiato, dai capelli più grigi che neri. Dopo la doccia ho indossato un jeans e una polo per darmi un tocco più giovanile. Sono rientrato in macchina e siamo ripartiti. Penso a Lucia. Chissà da quanto tempo si era accorta della mia farsa. Quello che mi ha sorpreso di più è stato il suo silenzio. Mai un accenno, una domanda, un’allusione. Eppure di domande se ne sarà poste tante. «Dimmi Eddy, dove siamo diretti?» chiedo. «La località si chiama Torremaura, il navigatore indica la zona tra A-bruzzo e Molise. Dovremmo arrivare intorno alle diciotto.»

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Non chiedo altro. So che non può sapere altro. I dettagli dell’incarico mi arriveranno in sogno, come sempre. Prendendo un CD di Battiato chiedo: «Ti dispiace se metto su questo?» «Certo che no. Piace anche a me il maestro.» «Più che altro sono i testi. Sono talmente complicati che non ci capisco niente. È questa la cosa che più mi affascina. Ecco senti…» “Emanciparmi dall’incubo delle passioni cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male essere un’immagine divina di questa realtà…” «Ah, però» risponde Eddy ridendo. Stiamo per imbarcarci sul traghetto che ci condurrà a Villa San Gio-vanni, aldilà dello Stretto. Sto per lasciare la Sicilia, chissà se il mio è un addio o un arrivederci. Dopo aver percorso più di cinquecento chilometri sull’A1, abbiamo la-sciato l’autostrada all’uscita di Caianello, proseguito per una settantina di chilometri sulla SS85 giungendo al bivio con la provinciale che ci condurrà a Torremaura. E intanto: “E gli orinali messi sotto i letti per la notte E un film di Eisenstein sulla rivoluzione…” «Eh?» commento «forte vero?» «A che ora siamo partiti questa mattina?» mi chiede. «Alle dieci. Perché?» «Il CD a che ora lo abbiamo messo su?» «Credo intorno a mezzogiorno. Ma cosa c’entra?» «C’entra, eccome se c’entra. Sono le sette di sera. Il CD dura cinquan-tacinque minuti. Sai cosa significa? Che questo è l’ottavo passaggio. La prima volta è stata una goduria. La seconda: giusto concedere un bis. La terza: va be’, se proprio ci siamo persi qualcosa. Ma l’ottava… dai, non è possibile. Se incontriamo Battiato da qualche parte gli piazzo una pallottola tra gli occhi.» «Cavolo, per tutta la durata del viaggio non hai mai pronunciato tante parole di fila!» Dopo Isernia è cominciata la salita, leggera ma costante. I centri abitati sono diventati sempre più piccoli e distanti tra loro. I terreni coltivati hanno lasciato posto ai pascoli e ai boschi di cerro, agli abeti e, più in alto, ai faggi.

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Svoltiamo a sinistra, imboccando la provinciale. Sulla sinistra, tra la SS85 e la provinciale, c’è un agriturismo con maneggio. L’insegna reci-ta: “Tenuta dei Sanniti”. Adesso la strada comincia a salire sul serio. Dopo cinque chilometri di curve scorgo il segnale: “Benvenuti a Tor-remaura 1.250 m. s.l.m.”. Sono trascorsi dodici giorni dal mio arrivo in Molise. Del mio incarico non so nulla ma questo non mi meraviglia; può arrivare dopo un giorno, un mese, cinque anni. Ieri sera, 10 giugno, per la prima volta non ho acceso la stufa a pellets. Nonostante l’estate imminente, la sera è molto fresca. Mi hanno detto che qui può nevicare da ottobre fino a maggio. La mia casa è situata sulla provinciale, all’inizio del paese. Al piano seminterrato c’è un garage e un locale che funge da deposito, al primo rialzato c’è la camera da letto, il bagno, un cucinino e il soggiorno. L’arredamento è essenziale ma in buono stato. Davanti casa c’è un pic-colo giardino diviso in due dal vialetto che porta al cancello sulla stra-da. Nel garage ho trovato una Alfa 159 sportwagon nera del 2008. Il libretto di circolazione è intestato a Vitale Renzo. Ho fatto qualche giro per riabituarmi alla guida e, soprattutto, per fare un po’ di pratica con tutti questi comandi (l’ultima vettura che ho guidato è una Fiat Uno). In questi giorni ho cercato di farmi un’idea sull’ambiente. Qui vivono solo quattrocento anime anche se il paese sembra molto più grande. Questo perché molte case sono vuote. Mi hanno detto che cento anni fa ci vivevano tremila persone, trent’anni fa erano in millecinque-cento e adesso quattrocento. Anche Torremaura, come tanti altri piccoli paesi del centro-sud, è destinato a scomparire. C’è una farmacia, un distributore di benzina, un ristorante-pizzeria, in piazza ci sono tre bar. L’ufficio postale è aperto solo il martedì e il gio-vedì, non ci sono sportelli bancari. In paese già mi conoscono tutti. Sono l’americano che, dopo una diffi-cile separazione, ha deciso di passare un po’ di tempo nella terra dei suoi avi. Sì, uno yankee che non ha mai messo piede negli Stati Uniti. Nei bar è concentrata la vita sociale del paese. Il bar “Da Vito” è fre-quentato dagli adolescenti. Da “Rosa” vanno soprattutto gli anziani a giocare a briscola e tressette. Si giocano una consumazione da un euro a incontro, disputando prima la partita, poi la rivincita, la bella, la rivincita della prima partita, la bel-la della bella…

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Il “Caffè Centrale” è il bar più frequentato. Qui prediligono le carte francesi, scala quaranta e ramino. A dispetto del nome, di caffè se ne consuma veramente poco. Il nome più appropriato sarebbe “Birra Cen-trale”. Una volta entrati, uscirne sobri è una vera impresa. Funziona più o meno così: entro nel bar e qualcuno che mi conosce ordina: “Irina, versa due birre, per me e per l’americano”. Dopo cinque minuti entra un mio conoscente e stavolta tocca a me: “Irina, versa tre birre, per me, Michele e Michelino” e così via. Lo chiamano il giro della birra. Se sta-zioni per più di mezz’ora nei pressi del bancone sei finito. La mattina mi sveglio presto. Esco a fare un po’ di jogging, curo il giardino, preparo da mangiare. Il pomeriggio faccio le pulizie, riposo, leggo qualcosa. Adesso sto rileggendo “Il lupo della steppa” di Her-mann Hesse. È il mio autore preferito. Forse perché era fuori come una campana, proprio come lo sono io. La sera vado al bar a socializzare e poi vado a cena fuori. O in pizzeria o alla Tenuta dei Sanniti. Lo so, può sembrare una vita noiosa, lo è sicuramente, ma confrontandola con quella di due settimane fa mi sembra il massimo della libidine. Tanto lo so, fra un po’ non avrò più tempo per annoiarmi. Ieri sera sono sceso giù alla Tenuta. È un bel locale ricavato dal restau-ro di un antico casale del seicento. Il ristorante è ampio, con il tetto co-stituito da volte con pietre a vista e un grosso camino acceso anche d’estate. Sopra ci sono dieci camere. A fianco c’è un altro locale, più grande, il Saloon, allestito in stile country. Mario Marcovecchio, il pro-prietario, mi ha spiegato cha ad agosto organizzano una manifestazione che dura dieci giorni, dove appassionati di tutti Italia si cimentano in emozionanti rodei. Disseminati negli ottocento ettari della tenuta ci so-no altri ex ruderi, restaurati e pronti per la ricezione. Sono entrato nel locale e ho salutato Adele Mastronardi, la mia vicina di casa che lavora alla tenuta. Vive nella casetta a fianco alla mia in-sieme alla figlia di sedici anni. Il marito lavora in Belgio e torna solo ad agosto e a Natale. In paese si dice che su al nord si è fatto una seconda famiglia. «Americano! Unisciti a noi. Qui c’è un tuo connazionale» mi ha invita-to Mario. Seduto al suo fianco c’era un uomo sulla sessantina. “Dannazione!” ho pensato “speriamo che Mario sia stato approssima-

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tivo sulla nazionalità del commensale. Magari è venezuelano o argen-tino.” Con la lingua non avrei avuto problemi, dopo anni a studiare l’inglese arricchito dello slang newyorkese, ma se si fosse entrati troppo nello specifico sarei andato in crisi. «Con vero piacere.» «Io sono Phil, Phil Tarallo. Piacere di conoscerti» si presenta l’americano, quello vero. «Il piacere è tutto mio» rispondo «io Sono Renzo Vitale.» «Da dove, Renzo?» «Newark, New Jersey.» «Fantastico! Io abito a Little Italy. Un mio carissimo amico ha un risto-rante a Newark, sulla Broad ST, nei pressi del Military Park. E tu dove abiti di preciso?» “Che culo! E adesso…” ho pensato “e adesso come ne vengo fuori? Chi ci è mai stato a Newark?” Mi sono messo la testa fra le mani, i gomiti poggiati sul tavolo e con aria stravolta: «Scusami Phil, scusatemi. La parola Newark riapre una ferita lacerante che non si risanerà mai. Nominando il Military Park è come se nella fe-rita avessi infilato un coltello seghettato. Phil, perdonami. Parliamo d’altro e vi prometto che sarò un allegro commensale come lo sono sempre stato.» «Oh! Mi dispiace amico. Mi dispiace davvero.» Per mia fortuna sono come i gatti: cado sempre in piedi. La cena è stata piacevole, sia per l’ottima cucina che per la simpatia dei commensali. Phil si è vantato per tutta la serata delle sue innumerevoli conquiste amorose. Io della mia presunta abilità nel cavalcare. Mario, da buon ospite, ha assecondato i nostri discorsi stravaganti. Ci siamo dati appuntamento per domani mattina. Dovrò dare un saggio delle mie doti cavallerizze. Quando arrivo alla tenuta trovo Phil già in groppa al suo cavallo. Mario mi aspetta vicino alla scuderia. «Renzo, per te ho sellato Saetta. È una Hannover nervosetta ma fortis-sima.» «Mario, non scherzare. Saranno vent’anni che non monto in sella.» «Ma come. Ieri l’altro ci raccontavi dei trofei vinti al salto ostacoli, del

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dressage…» «Ma tu l’hai sentito Phil? Lui ci ha fatto una testa così con le sue con-quiste amorose. Donne di qua e di là, prese anche quattro per volta, tut-te super soddisfatte, donne giovani e meno giovani, bianche gialle, ros-se, more. Con la fica verticale, orizzontale e diagonale. Avrai mica cre-duto a tutte quelle cazzate?» «Certo che no.» «E proprio alle mie dovevi credere?» «Ah! Ah! Ah! Certo che sei proprio un bel tipo. Ti sello Pagagnot. È un islandese tranquillissimo.» «Ecco. Così va meglio.» «Allora dove ci porti?» chiede Phil rivolgendosi a Mario. «A cavalcare lungo il tratturo Celano - Foggia. Percorso facile, durata quattro ore.» «Che cos’è un tratturo?» chiedo. «I tratturi erano le autostrade delle antichità. Sono dei percorsi su man-to erboso, pietroso o di terra battuta che si sono generati per il passag-gio delle mandrie durante la transumanza. Le vacche venivano condotte dai pastori nei mesi caldi sulle montagne dell’Abruzzo e nei mesi freddi al Tavoliere delle Puglie. Noi percorreremo un tratto quasi completa-mente erboso.» «Fantastico!» interviene Phil «ma non lo possiamo integrare con qual-cosa di più impegnativo?» «Certo che sì. Organizziamo viaggi che durano una settimana, con ca-valcate di otto/nove ore al giorno, pernottamento in tenda e sacco a pe-lo. I partecipanti, però, sono abituati a restare a cavallo per tante ore. Se volete possiamo simulare una giornata tipo, aggiungendo una deviazio-ne su un tratturello e su qualche braccio, che sono dei sentieri più fati-cosi. Torneremo a casa per il tramonto. Se mi date l’ok faccio preparare qualcosa da mangiare per il pranzo a sacco.» «OK! Così mi piaci» risponde Phil. «OK» rispondo io. La cavalcata è stata veramente piacevole. Mi sono ritrovato immerso in un mondo senza tempo. Abbiamo attraversato boschi di faggio e di cer-ro, incontrato branchi di cervi e di cinghiali, ci siamo dissetati da fonti sorgive. Ho scoperto con piacere che a cavallo me la cavo ancora beni-

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no, un po’ di problemi all’inizio ma poi è filato tutto liscio. Siamo rien-trati un paio d’ore prima del previsto, Mario ha preferito - e di questo gliene sarò sempre grato - non esagerare con la durata dell’escursione. Dopo il bicchiere della staffa sono rientrato, stanchissimo, a casa. Fac-cio una doccia e vado a letto senza cenare. Domani mattina mi sveglie-rò fresco e riposato. Mi sveglio e guardo l’orologio: sono le undici e mezza. Ho passato una notte quasi insonne a causa dei dolori alle anche, ai glutei, alla spina dorsale. Ho scoperto che il mio stato di sano e longevo Riparatore non mi protegge dall’utilizzo sconsiderato di muscoli non allenati. Cerco di alzarmi dal letto ma sono completamente bloccato. La mia vescica gon-fia mi dà la forza di arrivare in bagno, poi indosso la tuta e mi sdraio sul divano. «Signor Renzo, è in casa?» «Sì Adele, entri pure, è aperto» dico mentre cerco di mettermi seduto. «Signor Renzo, mi scusi se la disturbo, ma stamattina non l’ho vista in giardino e ho temuto che stesse poco bene.» «Grazie per la premura Adele, è davvero molto gentile. In effetti ha ra-gione. Ieri ho fatto una cavalcata troppo lunga e, non essendo più abitu-ato, oggi sono tutto un dolore, non riesco praticamente a muovermi.» «Gliel’ho detto ieri sera a Mario che secondo me aveva esagerato. Mi ha risposto che avevate tanto insistito.» Insistito io. Capirai. Maledetto Phil. «Effettivamente siamo stati un po’ sconsiderati.» «Se ha bisogno di aiuto mi chiami pure. Mi occuperò io del pranzo. So-lo che dovremo aspettare Maria che rientra da scuola alle due. Le piace il ragù?» «È gentilissima Adele. Il ragù va benissimo. Non vorrei approfittare troppo della sua cortesia.» «Non si faccia di questi problemi.» «Le posso chiedere un’altra cortesia?» «Certo, mi dica pure.» «Potrebbe darmi del tu? Il “Lei” mi mette a disagio.» «Come desideri Renzo.» Nel tardo pomeriggio sento squillare il cellulare. È Mario. «Ciao Renzo, sono Mario. Disturbo?»

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«Niente affatto. Dimmi pure.» «Adele mi ha detto che stavi poco bene, va un po’ meglio adesso?» In realtà sto già benissimo, le guarigioni immediate rappresentano uno dei vantaggi dell’essere un riparatore, ma devo sempre cercare di mani-festare il mio lato umano, per cui rispondo: «Leggermente meglio. Purtroppo oltre ai dolori muscolari mi è arrivato pure un bel mal di testa.» «Ah, mi dispiace. Che tipo di mal di testa? Laterale, frontale, esteso, sulla nuca? Sai, per capire se si tratta di emicrania, sinusite, cefalea o problemi alla cervicale. Purtroppo sono un esperto di mal di testa.» «Diciamo che ho un cerchio alla testa talmente pesante che, messi al confronto, gli anelli di saturno mi sembrano il citoplasma di una cellula epiteliale.» «Be’, diciamo che non hai proprio risposto alla mia domanda, comun-que hai reso l’idea. In ogni caso, se vuoi, ti faccio portare da Adele, in-sieme alla cena, delle compresse a base di triptani. È l’unico rimedio efficace per le mie emicranie.» «Vada per la cena. Per quanto riguarda le compresse, preferisco aspet-tare ancora un po’. Sai, sono un po’ fobico nell’utilizzo dei medicinali. Se proprio non ci sono segni di miglioramento ti chiamo e me li fai por-tare.» «Come preferisci. Mi raccomando, riprenditi in fretta.» «Grazie Mario, grazie di tutto. A presto.» Fine anteprima.Continua...