UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA Facoltà di Sociologia Corso di Laurea triennale in Sociologia – Lavoro e organizzazione IL RECENTE DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE E IL CASO ITALIANO Relatore: Chiar.mo Prof. Emilio REYNERI Tesi di laurea di: Niccolò CAVAGNOLA Matr. N. 073506 Anno Accademico 2008-2009
116
Embed
Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano
Tesi di laurea triennale in Sociologia del lavoro e dell'organizzazione presso l'università di Milano-Bicocca
Welcome message from author
This document is posted to help you gain knowledge. Please leave a comment to let me know what you think about it! Share it to your friends and learn new things together.
Transcript
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA
Facoltà di Sociologia
Corso di Laurea triennale in Sociologia – Lavoro e organizzazione
IL RECENTE DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE
E IL CASO ITALIANO
Relatore: Chiar.mo Prof. Emilio REYNERI
Tesi di laurea di:
Niccolò CAVAGNOLA
Matr. N. 073506
Anno Accademico 2008-2009
INDICE
Premessa p. 004
I. IL SINDACATO
1.1. A che cosa serve il sindacato? 007
1.2. Chi e perchè si iscrive al sindacato? 012
1.2.1. Logica dell’azione collettiva 012
1.2.2. Logica dell’azione individuale 019
— L’Italia 024
II. IL DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE
2.1. Il quadro generale 028
— Rappresentanza e rappresentatività 028
— La sindacalizzazione nel secondo dopoguerra 030
2.2. Perchè si riduce la sindacalizzazione netta? 042
2.2.1. Variabili cicliche 043
— Disoccupazione 043
— Inflazione 045
— Clima politico 047
— Sciopero 048
2.2.2. Variabili strutturali 050
— Nuova occupazione 052
— Impiego pubblico 054
— Globalizzazione 056
— Immigrazione 058
2.2.3. Variabili istituzionali 060
— Sistema Ghent 060
— Corporativismo, centralizzazione e copertura 062
— Rappresentanza sui luoghi di lavoro 064
2.3. Il caso italiano 067
— Le fasi della sindacalizzazione in Italia 067
— Il declino 070
— Un declino resistibile 075
— Il sindacalismo non confederale 078
— Le determinanti della sindacalizzazione 083
III. IL FUTURO DELLA PRESENZA DEL SINDACATO
3.1. L’attore sindacale 087
— Declino o ripiegamento? 087
— Reazioni adattive 090
3.2. Il futuro dei sistemi di relazioni industriali 097
— Convergenza o divergenza? 097
— Patti sociali 104
Riferimenti bibliografici 110
PREMESSA
Secondo Anthony Giddens [1994] la frattura fondamentale che ha avviato la modernità (intesa
come i modi di vita e organizzazione sociale sorti in Europa intorno al XVII secolo), distinguendola
qualitativamente dall’epoca precedente, è stata il progressivo “svuotamento dello spazio e del
tempo”. Il tempo si svuota perché si stacca dal contesto socio-spaziale in cui è vissuto, smette di
essere organizzato socialmente diventando uno standard a livello globale. Il “quando” non è più
necessariamente collegato a un “dove”, diventando una misura indipendente dal contesto. Lo spazio
si svuota a sua volta perché si separa dal “luogo”: diventano sempre più frequenti i contatti tra
persone “assenti”, lontane da qualunque tipo di interazione faccia a faccia localmente situata. Oggi,
come esito e continuazione di tale processo, ci troveremmo in un periodo che Giddens chiama di
“modernità radicalizzata”, in cui culmina la disaggregazione (disembedding) dei sistemi sociali,
cioè «l’enuclearsi dei rapporti sociali dai contesti locali di interazione e il loro ristrutturarsi
attraverso archi di spazio-tempo indefiniti» [Giddens 1994, 32]. In termini di relazioni industriali e
mercato del lavoro tale situazione trova il suo relativo nel processo di riorganizzazione del
capitalismo iniziato negli anni ’70 che, a un sistema di relazioni lavorative localmente e socialmente
embedded e workplace centered, ha sostituito un sistema sempre più flessibile e teso allo sviluppo
di forme di lavoro contingente, tale da portare a «schemi eterogenei di presenza e assenza dal posto
di lavoro e a una crescente non permanenza e transitorietà delle relazioni lavorative» [Haunschild
2004, 77]. Come rileva Federico Butera, «scompaiono chiarezza e stabilità di strutture entro cui
ricoprire mansioni e posizioni chiave e entro cui sviluppare una carriera prevedibile. Si appannano
le culture dell’appartenenza. Diventano instabili le relazioni industriali su base aziendale» [Butera
1990, 23]. Secondo Manuel Castells, col rapido sviluppo delle tecnologie informatiche e
dell’informazione, il sistema produttivo è riuscito a riorganizzarsi globalizzandosi e
delocalizzandosi, così che «lo spazio delle organizzazioni nell’economia dell’informazione è
sempre più uno spazio di flussi (space of flows). […] Le conseguenze di tale conclusione sono di
ampia portata, in quanto più le organizzazioni dipendono, in definitiva, dai flussi e dai network,
meno sono influenzate dal contesto sociale associato alla loro localizzazione» [Castells 1989, 169-
170]. E’ evidente come questo processo di trasformazione del sistema produttivo e delle relazioni di
lavoro abbia necessariamente delle conseguenze sul piano delle relazioni industriali, quindi dei
modelli di conflitto tra le imprese e i lavoratori. I correlati di classe diventano meno deterministici e
meno legati al posto di lavoro, in quanto, come sostiene Giuseppe Bonazzi, «in un regime
produttivo post-fordista il cleavage tra destra e sinistra si sposta sempre più dalla fabbrica alla
società esterna, dal momento della produzione a quello della distribuzione» [Bonazzi 2001, 143].
4
Ulrich Beck a sua volta afferma come la nuova dinamica del mercato del lavoro, unita alle garanzie
delle stato sociale, in un processo di crescente individualizzazione, abbiano dissolto le classi
internamente al capitalismo (pur senza risolvere i problemi di disuguaglianza), fino al punto in cui
«l’azienda e il posto di lavoro perdono importanza come luogo di formazione di conflitti e di
identità e si afferma un nuovo luogo di genesi di vincoli e conflitti sociali: la disposizione e
configurazione dei rapporti sociali privati e delle forme di vita e di lavoro» [Beck 2000, 146]. La
disgregazione in definitiva porta a «una crescita di importanza di identità caratterizzate sempre più
dalle differenze, dalle multiformità e dalla mutevolezza delle storie di vita personali, a fronte di una
progressiva perdita di significato di ideologie e quadri di riferimento collettivi legati al lavoro e alla
struttura di classe della società» [Bordogna 2007, 230].
Sempre secondo Giddens, però, ad un processo di disaggregazione sociale si accompagna
necessariamente uno speculare processo di riaggregazione (reembedding), offrendo nuove occasioni
per il reinserimento dei rapporti sociali enucleati dai loro specifici contesti spazio-temporali. Il
nostro è ancora un “mondo di persone” [Giddens 1994]. Sul piano delle relazioni industriali e del
mercato del lavoro, vista la loro connotazione inevitabilmente embedded nei sistemi di relazioni
sociali [Granovetter 1985; 1998], a fianco dello sviluppo di un paradigma di sviluppo più flessibile
e contingente, emergono nuove “invarianti” [Butera 1990], distribuite su tre livelli: individuale,
d’impresa e istituzionale (o nazionale).
A livello locale, o d’azienda, nonostante la forte e generalizzata diminuzione della densità sindacale
nei paesi europei a partire degli anni ’80 [Visser 1996], proprio in questo periodo si sono sviluppati
modelli di relazioni industriali a livello d’impresa connotate in senso collaborativo o addirittura
partecipativo [Cella e Treu 1998b]. La motivazione risiede paradossalmente nella stessa logica del
nuovo modello di sviluppo: le nuove incertezze con cui si confrontano le imprese richiedono sì
maggiore flessibilità, ma allo stesso tempo maggiore fiducia nella forza lavoro e commitment della
stessa nei confronti dell’azienda, obiettivi difficilmente ottenibili tramite la repressione del lavoro
organizzato e un tasso di turnover incontrollato. La logica stessa delle nuove forme di lean
production, fondate sui principi del just in time (JIT) e del total quality management (TQM)
richiedono una manodopera poco propensa a interrompere il “flusso teso” della produzione tramite
il ricorso allo sciopero e personalmente coinvolta nel miglioramento continuo (kaizen) del prodotto,
condividendo con l’azienda astuzie e conoscenze tacite. Nel conseguire tale obiettivo risulterà
economicamente più razionale per il management coinvolgere le forme di rappresentanza
tradizionali, piuttosto che tentare di spiazzarle con un più smaliziato (e costoso) ricorso a tecniche
unilaterali di human resource management [Streeck 1987; Regini 2003]. Gli esempi in questa
direzione, a partire dagli anni ’80, non mancano, come i noti accordi General Motors-Saturn a
5
Spring Hill (USA) nel 1985 e della Nissan a Sunderland (UK) nel 1986 [Ichino 2006]. Per l’Italia,
invece, il protocollo IRI del dicembre 1984 [Negrelli 2001], l’accordo alla FIAT-SATA di Melfi del
giugno 1993 [Fortunato 2000], la formalizzazione del sistema di relazioni industriali partecipative
alla Electrolux-Zanussi col Testo Unico del 1995 [Perulli 1999] e la gestione partecipata dei
processi di outsourcing alla FIAT di Mirafiori e Rivalta sul finire degli anni ’90 [Pulignano 2003].
A livello individuale, un mercato del lavoro meno connotato in termini di classe e più
individualizzato permette alla parte della forza lavoro più forte sul mercato (i resource-rich
employees) una forma di economic reembedding [Haunschild 2004], cioè un’attivazione individuale
in senso quasi-professionale [Butera 1990] capace di ammortizzare gli svantaggi derivanti dalle
forme di lavoro contingente.
Infine, a livello istituzionale e nazionale, la riaggregazione del lavoro e delle relazioni industriali,
almeno nei paesi europei, sono avvenuti con lo sviluppo negli anni ’90 della prassi dei “patti
sociali”, fornendo la possibilità agli attori collettivi indeboliti dalla crisi del fordismo di collaborare
al rilancio economico del paese [Regini 2003].
Il cambiamento della struttura produttiva e la conseguente trasformazione del mercato del lavoro, i
cambiamenti istituzionali e le variazioni cicliche dell’economia risultano perciò gruppi di variabili
particolarmente utili nello studiare il cambiamento del comportamento dell’attore sindacale. In
particolare, cambiamenti come la globalizzazione della produzione, lo sviluppo delle tecnologie
dell’informazione, la ristrutturazione industriale verso sistemi di specializzazione flessibile, la
destabilizzazione dei mercati del lavoro e la disoccupazione di massa, il cambiamento delle strutture
e dei correlati di classe, la pluralizzazione degli interessi, il crescere di politiche neo-liberiste con
atteggiamenti anti-labour in molti paesi a partire dagli anni ’80 [Visser 1996], il sempre più
pressante trade-off tra uguaglianza e livelli di occupazione nelle società dei servizi [Esping-
Andersen 2000], portano una sfida sempre più dura nei confronti del lavoro organizzato, in primis
colpendo la sua consistenza numerica, ponendo sempre più in dubbio la sua rappresentatività,
incisività ed efficacia. Il recente declino della densità sindacale però, per quanto consistente, non
risulta necessariamente in relazione causale univoca col declino di influenza del sindacato come
attore collettivo presente sulla scena pubblica [Calmfors et al. 2002]: il tasso di sindacalizzazione
non costituisce un dato decisivo quando il sindacato tenta di rappresentare il lavoro nel suo
complesso o rappresenta effettivamente l’insieme dei lavoratori, o li rappresenta al di fuori delle
relazioni industriali. Considerando però le recenti difficoltà proprio in quest’ultimo settore, ove
effettivamente risulta decisiva la rappresentanza in termini di iscritti, è opportuno parlare di un
ripiegamento dell’attore sindacale, e non di un declino vero e proprio, non ricorrendo le condizioni
per un eclissi delle funzioni naturali e dei significati dell’esperienza sindacale [Baglioni 2008].
6
I.
IL SINDACATO
1.1 A che cosa serve il sindacato?
Il mercato del lavoro è un “mercato” del tutto particolare, in quanto la “merce” lavoro è «un bene
sufficientemente differente dai carciofi e dagli appartamenti da affittare, tale da richiedere un
differente metodo di analisi» [Solow 1994, 23]. Le relazioni di scambio tra imprese e lavoratori
risultano infatti viziate da un rapporto di forza strutturalmente asimmetrico, dovuto principalmente
al fatto che da parte del lavoro vi è una necessità (di sopravvivenza) di offerta continua di
manodopera, mentre da parte dell’impresa la domanda può variare con ampi margini di discrezione
(per maggiore riserva di capitale, disponibilità di tecnologie labour-saving, e capacità di definire e
rilocalizzare la domanda con più facilità) [Reyneri 2005a]. Il sindacato nasce perciò con l’obiettivo
di rovesciare tale asimmetria, in modo da «porre l’andamento dei salari e delle condizioni di
erogazione del lavoro al riparo dalla concorrenza, in primo luogo quella fra i lavoratori, ma anche
quella fra i datori di lavoro» [Cella 2004, 7]. Si tratta perciò di un istituzione di protezione e
conservazione tale da sottrarre il lavoro dal libero e incondizionato funzionamento del mercato,
riportando le relazioni sociali a una dimensione collettiva in contrasto con «le concezioni
individualiste che hanno permeato la società borghese a partire dalle rivoluzioni inglesi e francesi
del XVII e del XVIII secolo, quella che fonda e sviluppa il mercato, e quella che struttura il sistema
politico e istituzionale» [Cella 2004, 4].
Secondo Robert Solow [1994] il mercato del lavoro è un’istituzione sociale, regolata non dal
semplice livello dei prezzi, ma in misura notevole anche da norme sociali. In questo caso la norma
fondamentale sarebbe quella che sconsiglierebbe ai lavoratori di entrare in competizione per i posti
disponibili, abbassando i salari di mercato. Nonostante le norme siano interiorizzate
indipendentemente dalla loro razionalità, Solow dimostra, tramite il dilemma del prigioniero, come
su un numero infinito di partite la cooperazione (il non vendere forza lavoro al di sotto del salario di
mercato) risulti più remunerativa della defezione (che però comporterebbe un immediato
vantaggio), in quanto se tutti i lavoratori defezionassero si cadrebbe in una situazione di
“concorrenza hobbesiana” che presto porterebbe i salari di mercato a livello di quello di riserva. Si
darebbe così una spiegazione razionale alla norma tale per cui i lavoratori preferirebbero sopportare
un periodo di disoccupazione prolungato con la certezza che il prossimo lavoro avrà un salario più
elevato grazie alla cooperazione degli altri (in caso contrario il vantaggio iniziale presto diverrebbe
nullo, in quanto la defezione collettiva abbasserebbe i livelli retributivi). Non è difficile immaginare
7
il ruolo dei sindacati nel custodire e diffondere tale norma tra i lavoratori e nella società [Reyneri
2005a].
Lo strumento principale tramite cui il sindacato è in grado, a partire da certe condizioni di forza
numerica in termini di iscritti, di raggiungere gli obiettivi sopra illustrati, è la contrattazione
collettiva, cioè quel «processo di co-decisione basato su cooperazione conflittuale» [Visser 1996,
14] che la tradizione pluralista della scuola di Oxford definisce di “legislazione privata” condivisa
da imprenditori e sindacati, non ridotta alla semplice contrattazione economica, ma estesa
all’applicazione e gestione degli istituti salariali e normativi [Cella 2004]. Tramite la contrattazione
collettiva i sindacati perseguono obiettivi di equità distributiva, tendendo, nel livello a cui si esercita
la contrattazione, a «favorire una remunerazione unica e uguale per tutti piuttosto che un modello di
retribuzione individualizzata, una retribuzione legata alla specifica mansione piuttosto che alla
persona» [Calmfors et al. 2002, 86]. Laddove la contrattazione ha un’elevata estensione e
un’elevata centralizzazione la struttura salariale tenderà quindi ad essere più compressa, e le
disuguaglianze meno accentuate [Calmfors et al. 2002]. Colin Crouch [1982] afferma che
all’interno delle organizzazioni sindacali, nello svolgersi della loro ordinaria attività contrattuale, vi
è un pressante trade-off nella scelta tra obbiettivi “sostanziali” e “procedurali”, intendendo con i
primi la normale attività acquisitiva collegata agli incrementi salariali e alle condizioni di lavoro,
mentre coi secondi «il fine estrinseco di controllare i mezzi con cui assicurare i loro obbiettivi
intrinseci. In altre parole, parallelamente ai loro obbiettivi sostanziali potrebbero perseguirne uno
procedurale: il diritto di controllare, di co-determinare, o di contrattare ogni dettaglio di una
relazione di lavoro» [Crouch 1982, 149]. Non essendo possibile assicurare contemporaneamente
elevati risultati su entrambi gli obbiettivi, paradossalmente può risultare più conveniente sul medio-
lungo periodo puntare sugli obbiettivi procedurali a scapito di quelli sostanziali, in quanto un
maggiore controllo delle relazioni lavorative risulta necessario per continuare a garantire e
incrementare nel futuro le condizioni materiali del lavoro.
Il sindacato, come accennato sopra, non ha però esclusivamente la funzione di monopolio
sull’offerta di lavoro atta ad appropriarsi di rendite disponibili a livello d’impresa, ma rappresenta
anche il tramite dell’espressione collettiva di desideri e preoccupazioni tra lavoratori e impresa
[Calmfors et al. 2002]. Secondo Albert Hirschman [1970] gli individui partecipanti a un
organizzazione (un sindacato, un’impresa, un partito politico, ...) o a un mercato dei prodotti,
possono influire sul loro funzionamento tramite due vie: la defezione (exit), cioè abbandonare
l’organizzazione di cui si è membri (o smettere di acquistare un prodotto di cui non si è più
soddisfatti) e la protesta (voice), esercitata in maniera individuale o collettiva nei confronti
dell’organizzazione o dell’impresa le cui performance risultano in declino. All’interno di
8
un’azienda ove le condizioni di lavoro si trovino a declinare, la costituzione, l’adesione o la
partecipazione a un sindacato possono costituire un opzione di voice esercitata collettivamente. E,
visti i costi sia del cercare un nuovo lavoro (exit) ove esso sia un bene scarso, o i rischi connessi a
un’azione individuale, la contrattazione collettiva del sindacato in azienda risulterà l’opzione più
praticabile per migliorare le proprie condizioni lavorative [Calmfors et al. 2002]. O, per dirla nei
termini più generali di Hirschman, «questo è uno dei motivi per cui il meccanismo di voice gioca un
ruolo più importante nei confronti delle organizzazioni di cui un individuo è membro, rispetto alle
imprese di cui acquista i prodotti: le prime sono decisamente meno numerose rispetto alle seconde»
[Hirschman 1970, 40]. Il fight from within, rispetto alla più rapida e certa opzione di exit, dipenderà
quindi da: la dimensione in cui i membri siano disponibili a scambiare le certezze dell’exit con le
incertezze della voice; la previsione che i membri hanno della loro capacità di influenzare
l’organizzazione; il grado di istituzionalizzazione dei meccanismi di voice, per esempio incentivati
tramite una legislazione promozionale alla presenza sindacale sui luoghi di lavoro. Non è un caso
quindi che nei contesti ad alta mobilità job-to-job, come nei sistemi di piccola impresa o a economia
diffusa, il ricorso a meccanismi di voice, identificabili con una forte presenza sindacale a livello di
impresa, sia meno frequente. In Italia ad esempio (contrariamente alla maggior parte dei paesi
OCSE [Lee 2005]) la percentuale di lavoratori occupati nell’industria, a parità di altri fattori, risulta
associata negativamente al tasso di sindacalizzazione, vista la prevalenza delle piccole unità
produttive nel settore manifatturiero [Ballarino 2005b].
Il sindacato può inoltre contribuire a una serie di iniziative volte a facilitare il funzionamento
dell’impresa e incrementarne la performance economica. Contrariamente alla teoria economica
prevalente, che vede per lo più il sindacato come fonte di inefficienza allocativa, si può dimostrare
che in realtà esso possa contribuire ad aumentare l’efficienza delle imprese e dei mercati. Ad
esempio limitando le rendite da monopsonio in mercati con pochi datori di lavoro, evitando
un’aspra concorrenza tra imprese sui costi del lavoro, aumentando impegno e produttività dei
lavoratori fornendo sicurezza e protezione, incentivando le imprese a investire in capitale umano
abbassando il turn-over, diminuendo i costi di transazione per le imprese facenti parte di industrie in
corso di ristrutturazione fornendo un pratico ed efficiente canale per raggiungere e coinvolgere la
forza lavoro interessata [Calmfors et al. 2002].
Più recentemente, anche in reazione a una situazione di calo delle iscrizioni e conseguente perdita di
risorse finanziarie derivanti dalle minori quote associative raccolte, si è sviluppata una fiorente
economia dei servizi offerti direttamente dai sindacati [Calmfors et al. 2002], tracciando una nuova
possibile linea di tendenza per la loro evoluzione futura come “aziende di servizi” [Feltrin 2007]. La
prima tipologia di servizi offerti, ricalcante quelli storici, mette al centro la tutela dei diritti e
9
costituisce «lo strumento per rendere agibili i diritti individuali e, in senso lato, per rispondere ai
bisogni dei lavoratori e dei pensionati. In quest’ottica i servizi sono la traduzione sul piano
individuale delle conquiste della contrattazione collettiva. […] Secondo questa visione, i servizi di
tutela devono essere tendenzialmente universali e gratuiti» [Salvato 2001, 137]. Rientrano in questa
categoria i servizi di assistenza e tutela previdenziale e infortunistica, spesso svolta in regime di
sub-fornitura di servizi pubblici, la tutela sindacale nelle vertenze del lavoro [Salvato 2001] e
l’offerta di formazione e aggiornamento [Calmfors et al. 2002]. Una seconda e differente tipologia
di servizi, venuta a galla più di recente, riguarda invece quelli diretti specificamente all’associato,
offerti a condizioni particolarmente vantaggiose e utilizzati come incentivi selettivi atti a rendere
più appetibile l’iscrizione [Salvato 2001]. Secondo Gian Primo Cella «per alcuni aspetti tali
iniziative sembrano rispondere alle caratteristiche della nuova “individualizzazione” della forza
lavoro, e, in effetti, possono contrastare le tendenze alla uscita dall’associazione sindacale» [Cella
2004, 126]. I più noti ed estesi sono i servizi di assistenza fiscale, ma possono essere dei più diversi,
dalle convenzioni a prezzi agevolati con banche e compagnie assicurative o con agenzie di viaggio,
ai servizi finanziari, all’assistenza agli anziani e alle famiglie, etc…
E’ il caso solo di accennare (vista l’ampiezza dell’argomento) al ruolo del sindacato sull’arena
politica. I sindacati, al momento del loro emergere, hanno sempre ricercato rapporti con partiti
politici affini, in modo da assicurarsi una rappresentanza esplicitamente pro-labour nell’arena
politica (utile a svolgere un ruolo di sostegno promozionale alla presenza sindacale e ad assicurare
un livello di base di diritti sociali), seppur con fini e metodi diversi (andando dai rapporti di
dipendenza pura, all’interdipendenza paritaria, all’assenza di rapporti stabili) [Cella 2004]. Secondo
Colin Crouch [1982] esisterebbe una “inevitability of politics” delle organizzazioni sindacali
centralizzate, atta a contrattare coi governi nazionali una serie di provvidenze atte a proteggere i
lavoratori dalle fluttuazioni economiche e dal mercato, offrendo in cambio moderazione salariale (e
quindi complessivamente maggiore occupazione), tentando di contenere le rivendicazioni delle
rappresentanze di base, più particolaristiche e meno attente ai livelli occupazionali complessivi.
Questo avverrebbe, secondo Alessandro Pizzorno [1977], in una logica di “scambio politico”, nel
caso che il soggetto delle rivendicazioni sia abbastanza grande e rappresentativo e capace di
coordinare le rivendicazioni di un insieme di portatori di interessi potenzialmente contrastanti.
Tramite una «sottoutilizzazione del potere di mercato di breve periodo» [Pizzorno 1977, 414] può
instaurarsi un rapporto Stato-sindacato basato su obiettivi di lungo periodo, fondato sulla
cooperazione a mantenere il più ampio consenso sociale possibile. Questo rapporto può assumere
carattere continuativo e duraturo e riguardare un ampio spettro di questioni (come nei sistemi neo-
corporativi), oppure saltuario e limitato, teso più o meno esclusivamente ad assicurare le condizioni
10
per l’attività sindacale, rimandando la regolazione della maggior parte delle questioni economiche e
normative alla contrattazione collettiva, secondo un principio di maggior volontarismo (tipico delle
economie anglosassoni).
In definitiva si può concludere con Anna Grandori che «il sindacato è dunque un’organizzazione
“intermediaria”, per sua natura in “tensione di ruolo”: pur agendo come rappresentante di una parte,
la sua azione è efficace se si rende accountable anche verso altri stakeholders e su altri parametri»
[Grandori 2001b, 17]. Il problema dell’accountability, cioè della responsabilità verso i propri
referenti, è di centrale importanza per tutte le organizzazioni di grandi dimensioni, in quanto in esse
si presenta con più forza la tendenza alla “legge ferrea dell’oligarchia” di Roberto Michels, cioè, nel
caso del sindacato, il difficile dilemma del “rispecchiare o interpretare” i desideri della base [Cella
2003]. In effetti un’evoluzione gerarchica, con passaggio ai vertici dei poteri decisori a prescindere
dell’opinione della base, sembrerebbe occorrere nei sindacati con maggiore forza mentre si passa
dai livelli di contrattazione inferiori a quelli superiori: in particolare la responsabilità nei confronti
della base risulterebbe essere più forte e continuativa per le scelte compiute a livello di azienda
piuttosto che per quelle prese dalle segreterie confederali nazionali [Grandori 2001b]. In questo
risiede la “tensione di ruolo” con cui deve convivere l’attore sindacale, in quanto, per legittimare la
sua azione, deve risultare accountable principalmente sotto quattro diverse dimensioni: nei
confronti del gruppo di riferimento (gli associati o la generalità del lavoro, a seconda che si tratti di
un sindacato “associativo” o “di classe” [Della Rocca 1998]); nei confronti di terzi verso cui ha una
“responsabilità sociale” (ad esempio in relazione al frequente utilizzo dello sciopero nei servizi
pubblici); nei confronti delle controparti contrattuali (imprese, associazioni, Stato); nella fornitura
di servizi pubblici in caso gli vengano delegati dallo Stato (ad esempio i servizi di patronato o la
gestione dei sussidi di disoccupazione nei sistemi Ghent) [Grandori 2001b]. E’ evidente come
un’accountability continua nei confronti della base da parte delle centrali confederali risulterebbe
difficilmente compatibile con una responsabilità parimenti robusta sulle altre dimensioni (e
viceversa), ed è proprio nell’equilibrio tra queste che si giocano i dilemmi organizzativi che
determinano la struttura interna di un sindacato. In caso il divario interpretativo sugli obiettivi da
perseguire dei diversi stakeholders diventi troppo ampio, si crea una frattura tra rappresentanti,
rappresentati e detentori di interessi, portando al limite la tensione e dando spazio a nuove forme di
identità collettiva e a una ristrutturazione dei rapporti tra gli attori in gioco [Pizzorno 1977].
11
1.2 Chi e perché si iscrive al sindacato?
Prima di arrivare ad analizzare quali sono le variabili che influiscono sulle dimensioni del fenomeno
sindacale, è importante fornire un quadro teorico dell’azione collettiva, tale da spiegare i motivi per
cui gli attori corporati si formino e agiscano. E’ altresì importante analizzare le motivazioni che
spingono gli attori individuali ad agire in senso collettivo, cioè nel caso specifico ad iscriversi e/o a
partecipare a un sindacato. Nel primo dei seguenti paragrafi l’attenzione sarà sulle teorie dell’azione
collettiva, con particolare riferimento all’azione sindacale. Nel secondo verranno indagate a livello
empirico le caratteristiche e le motivazioni individuali che spingono i singoli attori a cercare
l’adesione agli organismi di rappresentanza dei lavoratori.
1.2.1 Logica dell’azione collettiva
Dal 1965, anno di uscita di The logic of collective action di Mancur Olson, ogni discorso sull’azione
collettiva si apre confrontandosi con un paradosso, il paradosso del free-rider (o dell’opportunista).
Tale paradosso si applica a quelle situazioni in cui un attore collettivo di grandi dimensioni (ad
esempio un sindacato) si muove per promuovere un bene pubblico, cioè un tipo di bene che è
consumabile liberamente da tutti gli appartenenti a un dato gruppo (ad esempio la totalità dei
lavoratori coperti da un contratto collettivo nazionale), che contribuiscano alla sua fornitura (in
termini monetari o di partecipazione) o meno. Secondo Olson un attore individuale che si muova
razionalmente non avrebbe alcun interesse a partecipare (in questo caso pagando la quota
associativa sindacale o partecipando a uno sciopero) all’azione collettiva orientata all’ottenimento
di un bene pubblico, in quanto «sebbene tutti i membri del gruppo abbiano un comune interesse
nell’ottenere tale beneficio collettivo, non hanno alcun interesse comune nel pagarne il costo.
Ognuno preferirebbe che gli altri pagassero l’intero costo, e solitamente riceverebbero qualsiasi
beneficio ottenuto, che si siano caricati parte del costo o no» [Olson 1971, 21]. Oltretutto il
contributo marginale di ogni individuo all’azione di gruppo risulterebbe sostanzialmente
insignificante, mentre comporterebbe un forte dispendio di tempo e risorse da parte del singolo che,
in caso di successo, otterrebbe una piccola parte del bene acquisito, parte che avrebbe ottenuto
anche se non si fosse sobbarcato i rischi e i costi del partecipare all’azione collettiva. Infine i costi
per organizzare grossi gruppi di interessi sono solitamente molto elevati, includendo anche la
difficoltà del portare a sintesi una serie di interessi eterogenei e in potenziale conflitto tra loro,
particolarmente difficili da coordinare [Olson 1982]. Olson definisce i grandi gruppi eterogenei
latent groups, per rimarcarne la dispersione ed eterogeneità e il conseguente minore controllo
12
sociale esercitato tra i membri. I piccoli gruppi (privileged groups), invece, non andrebbero incontro
allo stesso genere di paradosso (perlomeno non nella stessa dimensione), grazie alla loro minore
eterogeneità e dispersione (a cui conseguirebbe una maggiore pressione sociale e maggior controllo
tra i membri), i minori costi di organizzazione, ma soprattutto grazie al fatto che, dal momento in
cui il bene pubblico verrebbe spartito tra un ristretto numero di membri, il beneficio individuale
sarebbe di molto maggiore, rendendo razionale il fornire il bene pubblico in ogni caso, anche se
l’intero costo dovesse gravare su un singolo soggetto. In particolare i sindacati espressione di
piccoli gruppi di lavoratori (come i vecchi sindacati di mestiere o, oggi, quelli occupazionali e
particolaristici, fino ad arrivare ai sindacati “di qualifica”) avrebbero meno difficoltà
nell’organizzarsi e scoraggiare comportamenti opportunistici.
Olson quindi risolve il paradosso del free-rider in un’ottica utilitarista, affermando che i grandi
gruppi di interessi saranno in grado di portare avanti un’azione collettiva solo in presenza di
qualche forma di coercizione, o, in alternativa, fornendo dei benefici selettivi ai membri che
decidano di partecipare a tale azione. Con riferimento alla partecipazione al movimento sindacale
strumenti di coercizione possono essere considerate le clausole contrattuali di closed-shop o di
union-shop (tipiche dei sistemi di relazioni industriali anglosassoni); i benefici selettivi invece
riguardano qualsiasi tipo di servizio o beneficio la cui erogazione dipende in ultima analisi
dall’appartenenza al sindacato (in particolare l’assistenza legale gratuita nelle dispute di lavoro, i
sussidi di sciopero, i servizi forniti a condizioni agevolate, etc…) [Olson 1971].
L’argomentazione di Olson è indubbiamente di grande efficacia, e mette in luce alcuni dei dilemmi
fondamentali alla base delle organizzazioni costituite in funzione dell’ottenimento di beni pubblici,
come i sindacati. In particolare la spiegazione dell’adesione in termini di benefici selettivi trova
preciso riscontro empirico, qualora con ciò si intenda una protezione selettiva e preferenziale da
parte del sindacato nei confronti dei propri membri sulle dispute di lavoro: «mentre i sindacati
potrebbero trattare le rimostranze anche dei non membri, in parte per convincerli dell’utilità del
sindacato, il non membro sarebbe senza dubbio consapevole del fatto che la sua rimostranza contro
il management potrebbe prima o poi essere l’ultima ad avere un seguito se persistesse
indefinitamente a rimanere fuori dal sindacato» [Olson 1971, 73]. Diverse survey stimano infatti
come elemento decisivo per l’adesione al sindacato la possibilità di avere supporto in relazione a
problemi lavorativi [Waddington e Whitston 1997; Calmfors et al. 2002]. L’argomento però non
spiega diversi altri risultati empirici relativi alle stesse survey, cioè perché come spinta all’iscrizione
persistano con la stessa forza motivazioni collettive e ideali, o relative al miglioramento delle
retribuzioni e delle condizioni di lavoro (che data la natura di bene pubblico risulterebbero
disponibili a prescindere dall’iscrizione) [Paoletti 2001; Visser 2002]. Né spiega perché tutti gli altri
13
benefici selettivi (dall’assistenza legale, ai servizi, alle convenzioni a prezzi agevolati), altri dal
supporto nelle dispute, abbiano un ruolo del tutto marginale nelle motivazioni all’adesione, né come
possano persistere in diversi paesi alti livelli di densità sindacale in assenza di incentivi selettivi
sviluppati e in assenza di coercizione [Crouch 1982]. Infine non dà una spiegazione soddisfacente
dell’andamento ciclico della sindacalizzazione, evadendo la spiegazione di eventuali picchi di
mobilitazione con temporanee “motivazioni ideologiche” [Olson 1971]. In definitiva il modello di
attore ipotizzato da Olson corrisponde all’attore economico neoclassico definito da Amartya Sen
rational fool, per cui «una persona ha un ordine di preferenze, e come e quando nasce la necessità si
suppone rifletta i suoi interessi, rappresenti il suo benessere, riassuma le sue idee su cosa andrebbe
fatto, e descriva le sue scelte e comportamenti effettivi. […] Una persona così descritta potrebbe
essere “razionale” nel limitato senso di non rivelare incongruenze nel suo comportamento di scelta,
ma, se non ha alcuna utilità da queste distinzioni tra concetti abbastanza differenti, dev’essere un
po’ sciocco» [Sen 1977, 335-336].
Albert Hirschman [2003] propone uno schema dell’azione basato su un “ciclo privato-pubblico”. La
caratteristica che accomunerebbe la vita privata, basata sul consumo, e la vita pubblica, fondata
sulla partecipazione a movimenti collettivi, sarebbe la delusione e l’insoddisfazione. Ogni atto di
consumo ha in sé, inevitabilmente, una parte di delusione, derivante dalla naturale insaziabilità
dell’uomo e dalla non coincidenza tra aspettative e risultati effettivi. Lo stesso accadrebbe nella
partecipazione alla vita pubblica, a causa della sovente discrepanza tra ideali e loro realizzazione, e
all’eccessivo utilizzo di tempo richiesto sottratto ad affari privati. In tal modo, secondo Hirschman,
si alternerebbero periodi in cui la delusione crescente negli affari privati spingerebbe gli individui a
cercare le soddisfazioni, ormai carenti nel campo del consumo, nella vita pubblica. Similmente, al
crescere della delusione per gli affari collettivi, si tenderebbe a ritornare alle questioni private,
instaurando per l’appunto un ciclo che tenderebbe a spiegare il mutamento di preferenze degli
individui nell’allocazione del proprio tempo e nelle loro abitudini di consumo. In particolare
Hirschman contrasta la posizione olsonsiana in quanto stabilisce una differenza qualitativa, e quindi
una diversa interpretazione, dell’azione pubblica rispetto a quella privata: dal momento in cui
spesso l’azione collettiva si risolve in una forte delusione, è possibile che quanto più si possa
ottenere da questa sia niente più che la partecipazione stessa. Quindi «dalla fusione-confusione tra il
momento del perseguimento e il momento del raggiungimento dell’obbiettivo deriva che la
distinzione netta tra costi e benefici dell’azione compiuta nell’interesse pubblico scompare, poiché
la lotta, che dovremmo considerare dal lato dei costi, si rivela essere parte dei benefici. […] Il
beneficio dell’azione collettiva per un individuo non è dato dalla differenza tra il risultato atteso e lo
sforzo compiuto, ma dalla somma di queste due grandezze» [Hirschman 2003, 112]. In particolare,
14
rifacendosi a Sen [1977], Hirschman riprende l’idea che accanto allo schema di preferenza che
secondo la teoria economica descriverebbe il comportamento degli individui (come l’iscriversi a un
sindacato solo in presenza di benefici selettivi), esisterebbero degli schemi di “meta-preferenze”,
contenenti schemi di preferenza anche diversi da quelli propri del soggetto (ad esempio più
desiderabili socialmente, rappresentanti scrupoli morali, etc...). I cambiamenti di stile di vita, come
il passaggio dal privato al pubblico, consisterebbero perciò nel prevalere di una meta-preferenza
differente dallo schema di preferenze abituale, favorita da un concomitante evento catalizzatore, per
esempio una serie di esperienze deludenti (in campo privato o pubblico). In questo modo,
sommando costi e benefici nell’azione collettiva, e proponendo una teoria del ciclo privato-
pubblico, Hirschman spiegherebbe la scarsa diffusione del free-riding nei movimenti collettivi e
renderebbe conto del carattere ciclico (in termini di conflitto e di dimensioni numeriche) del
fenomeno sindacale.
Anche Claus Offe e Helmut Wiesenthal [1980] criticano l’approccio di Olson con particolare
riferimento al processo di calcolo dei costi-benefici nel partecipare all’azione collettiva. Questo si
baserebbe sulla dogmatica “equazione liberale” secondo cui “l’interesse di un individuo è
semplicemente ciò che dice esserlo”, un assunto eccessivamente ingenuo secondo i due autori. Tale
assunto risulterebbe veritiero per le aziende, singole o associate in organi di rappresentanza, in
quanto la loro logica di azione collettiva sarebbe di tipo “monologico”, cioè gli interessi delle
singole imprese risulterebbero meno in contrasto tra di loro, fornendo più facilmente una
concezione condivisa del loro interesse collettivo. Per i lavoratori la situazione sarebbe diversa, in
quanto l’auto-percezione dei propri interessi risulta difficilmente condivisa dalla totalità del mondo
del lavoro, e pertanto la loro logica di azione collettiva dovrà essere innanzitutto “dialogica”,
dipendendo comunque il successo della loro azione su una concezione comune e condivisa del loro
interesse. Così ogni azione collettiva in questo senso si baserà sulla concorrenza tra due tipi di
logica: la lotta per perseguire i propri interessi (di natura monologica) e la lotta nel definire quali
essi siano (di natura dialogica). La logica olsonsiana sarebbe infatti «incapace di includere e
descrivere il secondo livello di conflitto, ove i parametri diventano variabili, e l’azione collettiva è
tesa a una ridefinizione di cosa intendiamo con “costi” e “benefici”. […] L’obiettivo di questo
secondo tipo di conflitto non è “ottenere qualcosa”, ma di metterci in una posizione da cui possiamo
vedere meglio cosa sia in realtà ciò che vogliamo, e dove diventa possibile liberarci di nozioni
distorte e illusorie dei nostri interessi» [Offe e Wiesenthal 1980, 96]. Anche questo modello
risulterebbe pertanto ciclico, prevalendo la natura dialogica delle organizzazioni sindacali nei
periodi di definizione (o ridefinizione) delle identità collettive e degli interessi comuni, per poi
passare alla natura monologica nelle fasi di istituzionalizzazione del movimento. Nel primo stadio
15
prevarrebbe la partecipazione e la “volontà di agire” (willingness to act), ponendo un freno ai
comportamenti opportunistici, grazie al processo partecipato di definizione identitaria e degli
interessi da rappresentare. Nel secondo l’organizzazione diverrebbe più distaccata dalla base,
cercando altre fonti di legittimazione (come lo Stato nei sistemi neo-corporativi), determinando un
riflusso dell’azione collettiva.
Sulla linea tesa a spiegare la partecipazione ai movimenti collettivi in termini identitari, e in
contrasto con le formulazioni rigide della teoria della scelta razionale, si pone anche il contributo di
Alessandro Pizzorno. In una prima formulazione della sua teoria [Pizzorno 1977; 1978], tesa a
spiegare il ciclo di conflittualità sindacale 1968-1972 in Italia, anch’egli si poggia
sull’individuazione di due logiche dell’azione collettiva: quella legata alla militanza di base, alla
partecipazione diretta e al “ritiro della delega”; e quella legata al processo di scambio e
contrattazione con le controparti (governo e impresa), fondato su maggiore autonomia dei
rappresentanti dai rappresentati e connotata in senso più moderato e responsabile. In particolare, per
spiegare le fasi a elevata militanza, Pizzorno prende le mosse dal concetto di “formazione di nuove
identità collettive”, così qualificandone il processo: «quando una massa di individui, appartenenti a
una data categoria professionale, o frazione di classe, o in genere aventi interessi obiettivi comuni,
prima esclusi dal sistema di rappresentanza, vengono a trovarsi in condizioni favorevoli per
mobilitarsi, o essere mobilitati, e per condurre un’azione collettiva volta ad ottenere il
riconoscimento della loro identità e quindi il diritto di essere rappresentati, la conflittualità che ne
deriva tende ad essere più intensa che quella per le normali rivendicazioni di benefici, e ad
assumere forme e contenuti nuovi» [Pizzorno 1978, 13]. Secondo questa formulazione la
mobilitazione tesa alla costituzione e al riconoscimento di una nuova identità collettiva sarebbe fine
a sé stessa, costituendo la premessa a ogni possibile negoziazione. La partecipazione espressiva
tende a sostituirsi a quella strumentale. Perciò «condotte che possono sembrare irrazionali alla luce
dei benefici rivendicati, o di altri fini espliciti, appaiono razionali se si considera che il fine reale è il
costituirsi e raggiungere coesione della nuova identità» [Pizzorno 1978, 13], sviluppando nuovi
simboli (necessari al riconoscimento dell’identità, sia internamente che esternamente), reti di
relazioni interpersonali e solidarietà tra i partecipanti. Le spinte di partecipazione non si formano
necessariamente in modo spontaneo, ma si innestano su preesistenti tradizioni e modelli
organizzativi, venendo catalizzate da eventi contingenti. Una volta riconosciuta la nuova identità
collettiva però si pone il problema del riassorbimento del movimento, trasformando la
partecipazione espressiva in partecipazione strumentale, fondata sul calcolo dei costi e benefici
individuali. Così il movimento tenderebbe a spaccarsi in due: coloro per cui la partecipazione
espressiva continua ad avere un senso, e coloro per i quali tenderà a comportare un costo eccessivo,
16
ristabilendosi così il principio di rappresentanza e negoziazione [Pizzorno 1977]. La logica dello
standing for rifluirà nella logica dell’acting for [Cella 2003].
In una seconda formulazione, Pizzorno [1996; 2007] abbandonerà la logica duale dell’azione
collettiva, riconducendo la teoria a unità interpretativa e fornendo un «contributo a sostegno di un
approccio relazionale in grado di fondare in modo unitario il rapporto tra interessi e identità» [Mutti
2002, 107]. La ridefinizione teorica parte dall’analisi a livello micro del cambiamento sociale.
Viene in particolare criticata l’attitudine delle diverse teorie della scelta razionale ad assumere la
decisione come unità di analisi. Secondo Pizzorno sarebbero le interazioni tra individui, e non le
decisioni dei singoli, a costituire l’oggetto da spiegare. Tali relazioni sarebbero strettamente
correlate al concetto di identità, in quanto «il riconoscimento reciproco di una qualche identità fra
gli individui partecipanti a un’interazione sociale costituisce la condizione perché l’interazione
stessa sia possibile» [Pizzorno 1996, 118]. Il concetto di identità è centrale nel modello di Pizzorno,
ed è proprio in merito a questo che la teoria della scelta razionale risulterebbe fallace, in quanto
«una persona che sceglie “razionalmente” deve essere in grado di valutare le conseguenze della sua
scelta nei termini del suo stesso interesse. Ma, in primo luogo, gli interessi dell’io di ora non sono
gli stessi degli io futuri» [Pizzorno 2007, 55]. L’anticipare le conseguenze derivanti da una scelta
razionale presupporrebbe logicamente anche l’anticipazione parallela dei nostri “io futuri”, non
essendo l’identità di una persona fissa e stabilmente definita (rendendo non automatica la coerenza
delle scelte fatte oggi con le conseguenze valutate domani), gettando così ogni processo di scelta in
una condizione di persistente incertezza. Costituire un’identità stabile, tale da vincere questa
condizione d’instabilità, è possibile «solo grazie a qualche connessione interpersonale orizzontale
tra io individuali» [Pizzorno 2007, 57], cioè grazie alla partecipazione a una qualche cerchia sociale
di riconoscimento. Perciò «l’azione sociale non è il prodotto che risulta dagli io che massimizzino
soddisfazioni istantanee né di io che elaborino strategie atte a procurare vantaggi per io futuri o
future generazioni di io; risulta piuttosto da io che mirano ad assicurare legami orizzontali con gli io
di altre persone o legami verticali con gli io futuri» [Pizzorno 2007, 59]. In modo simile, nel campo
della teoria economica, anche Amartya Sen aveva già messo in luce le difficoltà inerenti al modello
di individuo razionale con riferimento alla coerenza individuale su una serie di scelte distanziate
temporalmente, in quanto «l’intervallo di tempo rende difficile distinguere tra incoerenza e
cambiamento di gusti» [Sen 1977, 325]. L’identità dell’individuo verrebbe quindi a formarsi
nell’interazione continua e giornaliera con gli altri, in un processo di comune riconoscimento,
laddove la partecipazione è immediatamente visibile e condivisa, e tesa alla condivisione di
un’identità collettiva. Perciò «l’azione collettiva, o la comunicazione intensificata, con il
conseguente formarsi e venir riconosciute di nuove identità collettive nel loro stesso svolgersi,
17
procurano ai partecipanti quella sicurezza di essere riconosciuti che sentivano come mancante»
[Pizzorno 1996, 123]. Intendendo l’azione in questo senso scomparirebbe il paradosso del free-
riding, in quanto non deriverebbe vantaggio alcuno dal non partecipare all’azione collettiva,
venendo meno lo scopo della stessa e cioè il riconoscimento degli altri e l’affermazione
dell’identità: «la motivazione a partecipare va quindi cercata in benefici che nascono dalla
partecipazione stessa» [Pizzorno 1996, 126]. Pertanto accettare un tale ordine di idee significa
abbandonare la prospettiva della decisione individuale, ponendo il fuoco sulle reti di relazioni (quali
il capitale sociale di una persona) e alla loro connessione con l’idea di “identità di lungo periodo”,
in quanto «la dinamica dell’identità precede logicamente e rende possibile il calcolo razionale
mezzi-fini» [Mutti 2002, 109]. Pizzorno quindi fa un passo avanti rispetto alla precedente
formulazione, in quanto interpretare il cambiamento sociale come mero affermarsi di nuove identità
collettive non spiegherebbe perché la società cambierebbe in un certo qual modo, tralasciando il
processo di formazione degli scopi collettivi. Tali scopi possono essere invece interpretati come
costituti e formati «piuttosto nel processo stesso tramite il quale si costituiscono le identità
collettive» [Pizzorno 1996, 130]. Pertanto un movimento collettivo, come un sindacato, stimola sì la
partecipazione per la ricerca di identità da parte degli individui: «per essere riconosciuti, però, e per
poter quindi offrire con efficacia tale identità, debbono presentarsi con scopi dichiarati» [Pizzorno
1996, 130]. E’ il contenuto di tali scopi che permette agli attori collettivi di distinguersi da altri,
quindi è la scelta degli stessi che possono meglio determinare l’identità offerta e cercata. Ed è
quindi l’atto di “nominare”, cioè il «fare esistere obiettivi e aspirazioni (con le connesse aspettative)
dei soggetti collettivi attraverso la apposizione di alcuni nomi invece che di altri […], che spesso si
traduce nella utilizzazione di nomi diversi per l’indicazione dello stesso obiettivo o della stessa
posta in gioco» [Cella 2003, 234], secondo Gian Primo Cella una delle dinamiche fondamentali
dell’azione collettiva.
E’ possibile ora trarre qualche conclusione a partire dagli assunti di alcune delle teorie presentate. Il
concepire l’azione come orientata a una ricerca di identità e riconoscimento a partire dalle cerchie
sociali di appartenenza fornisce una spiegazione dell’azione collettiva decisamente persuasiva, nel
momento in cui viene intesa a spiegare la formulazione di scopi collettivi fornendo la base per
l’orientamento dell’individuo nella società. Resta da tener presente che l’identità individuale è per
natura sociale, e pertanto è costituita dalla somma delle appartenenze dell’individuo a una pluralità
di cerchie sociali. Come sosteneva già Georg Simmel «da un lato l’individuo trova pronta per
ciascuna delle sue tendenze e aspirazioni una comunità che gli agevola il loro soddisfacimento, che
offre alle sue attività una forma di volta in volta sperimentata come conforme allo scopo e tutti i
vantaggi dell’appartenenza a un gruppo; d’altro lato l’elemento specifico dell’individualità viene
18
conservato dalla combinazione delle cerchie, che può essere in ogni caso diversa. Così si può
affermare che dagli individui sorge la società, dalla società sorge l’individuo» [Simmel 1989, 370].
Mentre, in un passaggio molto vicino a Pizzorno, si sostiene che «spesso l’assunzione di certi
contenuti di vita non è assolutamente comprensibile in base alla loro importanza oggettiva, ma
soltanto in base al soddisfacimento [trovato in essi …]. Il bisogno di una posizione chiara, di uno
sviluppo inequivocabile dell’individualità spinge l’individuo a selezionare certe cerchie nel cui
punto di intersecazione egli possa porsi e dal cui insieme – una cerchia offrendo essenzialmente la
forma dell’aggregazione, l’altra quella della concorrenza – egli possa acquisire un massimo di
quella determinatezza individuale» [Simmel 1989, 366]. Pertanto, una volta spiegata la logica
dell’azione collettiva in termini di interazioni e riconoscimento sociale, il compito successivo
consiste nello spiegare come i vari gruppi di appartenenza si alternino in importanza, e in che modo
l’azione in termini identitari si fondi su appartenenze diverse in periodi diversi. In questo senso
potrebbe essere interessante lo studio dell’alternarsi in importanza delle identità decisive in
relazione ai cicli della partecipazione sindacale. Indubbiamente l’argomentazione di Hirschman
[2003] offre un’ottima spiegazione di come la costruzione delle identità possa basarsi su assunti
periodicamente differenti a causa del fattore “delusione”. Più nello specifico un ulteriore elemento
teso a spiegare la recente disaffezione dal movimento sindacale potrebbe fondarsi sul cambiamento
dei presupposti su cui fondare le identità individuali nelle società post-fordiste, che tende a spostarsi
sempre più verso cerchie esterne all’attività lavorativa. Come nota Guido Baglioni «la questione del
lavoro salariato, del rapporto capitale-lavoro, dell’impiego del lavoro nelle strutture produttive
dell’economia capitalistica non è più, comunque, la questione sociale centrale nei paesi industriali»
[Baglioni 2008, 98], e di conseguenza la posizione lavorativa non definirebbe più l’individuo in
quanto tale inglobandone la maggior parte dell’identità e guidandone gli obbiettivi [Paci 1996].
1.2.2 Logica dell’azione individuale
Distaccandosi dall’analisi teorica dell’azione sociale, l’attenzione verrà ora posta, in un’ottica di
individualismo metodologico e con maggiore ancoraggio empirico, sulle motivazioni e sulle
caratteristiche dei soggetti che rendono più probabile la decisione di iscriversi a un sindacato.
Partendo dalle caratteristiche personali, è possibile riscontrare una serie di regolarità nelle diverse
strutture di adesione sindacale, tali da portare a un sufficiente livello di generalizzazione delle
conclusioni sulle categorie a maggiore propensione nel cercare adesione agli organismi di
rappresentanza collettiva dei lavoratori.
19
Innanzitutto il sesso è una discriminante importante nel predire l’iscrizione al sindacato di un
lavoratore. I differenziali di genere sono spesso comparativamente elevati. Vi è però una differenza
sostanziale nelle strutture di adesione per sesso tra i differenti sistemi di welfare. In particolare i
regimi “conservatori-familistici” [Esping-Andersen 2000], cioè fondati sul breadwinner come
principale percettore di reddito e sulla famiglia come principale fornitore di servizi sociali,
presenterebbero un’adesione maschile molto più consistente rispetto alla controparte femminile.
Negli anni ’90 paesi come Olanda, Germania, Austria e Italia (in questo caso nel 2004), presentano
differenze tra il tasso di sindacalizzazione maschile e femminile nell’ordine di 15 punti percentuali
[Calmfors et al. 2002; ISFOL 2006; Visser 2006]. Tale differenza invece si ribalta, pur riducendosi,
nei paesi scandinavi (Danimarca e Svezia hanno donne più sindacalizzate di 3-5 punti percentuali) e
quasi scompare in quelli anglosassoni (Regno Unito e Stati Uniti nel 2004-2005 presentano un tasso
maggiore per gli uomini di soli 1-2 punti percentuali, mentre il Canada non presenta differenze)
[Calmfors et al. 2002; Blanchflower 2007]. I divari, qualora esistano, vengono però meglio spiegati
dalla diversa composizione settoriale del mercato del lavoro più che da una diversa propensione di
genere nei confronti del sindacato, in quanto le donne lavorerebbero per la maggior parte in quei
segmenti del mercato del lavoro dove minore è la propensione generale ad iscriversi (in particolare
il lavoro part-time, a forte predominanza femminile, sarebbe caratterizzato da una minore
sindacalizzazione). Allo stesso modo nei paesi scandinavi la diversa composizione della
sindacalizzazione verrebbe spiegata dalla forte presenza femminile nel settore pubblico, dove la
propensione all’iscrizione al sindacato è generalmente maggiore che nel privato [Calmfors et al.
2002]. In controtendenza, David Blanchflower [2007] trova per 3 paesi anglosassoni (Stati Uniti,
Regno Unito e Canada), una maggiore propensione degli uomini (controllando per settore
d’impiego – pubblico o privato – e tipo di contratto – full-time o part-time) all’iscrizione al
sindacato, nell’ordine di 2-5 punti percentuali, differenza che si annulla o si riduce sensibilmente
nel settore pubblico. Altri studi (citati nello stesso Blanchflower [2007] e in Calmfors et al. [2002])
non trovano invece, a parità di condizioni, significative differenze nella propensione di genere
all’iscrizione al sindacato.
Come già accennato, una delle caratteristiche fondamentali nello spiegare la diversa propensione
dei soggetti a iscriversi a un sindacato è il tipo di relazione d’impiego. Tale differenza è solitamente
indagata differenziando i lavoratori con contratti full-time e part-time, ma più in generale è facile
percepire i motivi di una sindacalizzazione ridotta nella massa di lavoratori con contratti “atipici”
(sia flessibili, come i contratti a termine, interinali o di collaborazione, che stabili ma a tempo
ridotto), considerati tradizionalmente dai sindacati come “lavori di serie B” [Calmfors et al. 2002].
In particolare la discontinuità e temporaneità sul posto di lavoro e la presenza inferiore in termini di
20
orario creano un clima socialmente meno coeso e quindi meno favorevole alla costituzione di
strutture sindacali stabili e solide: più un lavoratore permane nella stessa impresa, più la sua
propensione all’iscrizione al sindacato locale aumenta [Ebbinghaus e Visser 1999]. Anche qui
troviamo delle forti differenze tra paesi con diversi regimi di welfare: nei paesi scandinavi, grazie
alla forte concentrazione dei lavori part-time nel settore pubblico [Calmfors et al. 2002], le
differenze nella sindacalizzazione tra lavoratori a tempo pieno e parziale è molto ridotta (in
Norvegia di soli 5 punti percentuali a favore del full-time, che presenta una densità sindacale del
62%, mentre in Svezia di 7 punti, ma con un tasso di sindacalizzazione dei lavoratori a tempo
parziale pari addirittura all’83%). Questo anche grazie alla “normalizzazione” del lavoro part-time,
«nel senso dell’essere coperti dagli stessi diritti, benefici e condizioni d’impiego che si applicano ai
lavoratori full-time» [Visser 2006, 47]. Non sono disponibili dati per i regimi “familisti” (se non per
l’Olanda, con una densità sindacale tra i lavoratori part-time del 19%, 8 punti percentuali inferiore
ai colleghi full-time), mentre nei paesi anglosassoni le percentuali per il tempo parziale sono
complessivamente inferiori, anche a causa della loro maggiore flessibilità e minore copertura da
parte di accordi collettivi sindacali: di 7 punti negli Stati Uniti (6,4%), 8 in Canada (23,6%) e 10 nel
Regno Unito e Irlanda (rispettivamente 21,1% e 29,2%). I lavoratori temporanei, poi, mostrano tassi
di sindacalizzazione ancora inferiori, rispetto ai colleghi con condizioni d’impiego standard: di 12
punti percentuali nel Regno Unito, di 19 in Irlanda, di 16 in Olanda e di 26 in Norvegia [Visser
2006]. I motivi per cui il lavoratori part-time risultano meno sindacalizzati rispetto alla loro
controparte a tempo pieno vengono sostanzialmente individuati nella minore attrattività di membri a
tempo parziale o flessibili per il sindacato [Ebbinghaus e Visser 1999], e nella «relativa incapacità
dei rappresentanti sindacali locali a mettersi in contatto coi lavoratori part-time in modo da
reclutarli» [Waddington e Whitston 1997, 537]. In una survey condotta nel Regno Unito, inoltre,
Jeremy Waddington e Colin Whitston [1997] notano come i motivi ideali all’adesione (del tipo
“credo nel ruolo dei sindacati”) siano molto meno diffusi tra i lavoratori a tempo parziale,
prevalendo motivazioni all’iscrizione più strumentali, come l’essere assistiti nelle dispute di lavoro.
Tuttavia la proporzione di lavoratori che si siano attivati personalmente nel cercare l’iscrizione al
sindacato risulta sostanzialmente analoga tra i lavoratori appartenenti a diversi regimi di orario,
sottolineando quindi l’inesistenza di una maggiore attitudine anti-union tra i lavoratori a tempo
ridotto.
L’età è un altro fattore che discrimina diverse strutture di adesione sindacale. In generale i giovani
si iscrivono molto meno dei lavoratori di mezza età. Tra i 16 e i 24 anni il tasso di sindacalizzazione
è circa un terzo del totale negli Stati Uniti e nel Regno Unito, meno della metà in Olanda e
Norvegia, poco più della metà in Svezia e poco più di due terzi in Finlandia [Visser 2006]. In questo
21
caso una spiegazione possibile per la minore adesione giovanile potrebbe essere la
destandardizzazione del mercato del lavoro, che allocherebbe la maggior parte dei rapporti di lavoro
atipici in entrata alle nuove leve [Calmfors et al. 2002]. David Blanchflower [2007] trova in ben 34
paesi (27 membri dell’OCSE e 7 extra) che la relazione tra età e iscrizione al sindacato, tra i
lavoratori attivi, assume la forma di “U rovesciata”, massimizzando l’adesione intorno ai 50 anni,
pur con una discreta varianza tra paesi. In parte questo risultato sarebbe dato da un effetto coorte,
ma controllando per tale variabile la relazione inverted U-shaped rimane, per quanto i picchi di
adesione ora intervengano in fasce d’età complessivamente inferiori. Blanchflower formula diverse
ipotesi per spiegare tale relazione. Per esempio il declino del vecchio settore manifatturiero avrebbe
spostato una quota consistente di lavoratori anziani in posti a minore sindacalizzazione (come le
piccole imprese fiorite grazie ai processi di outsourcing nel processo di ristrutturazione del modello
produttivo). Oppure i settori fortemente sindacalizzati aumenterebbero la protezione per i lavoratori
maturi, riducendo il turnover, lasciando più giovani trovare lavoro nei settori meno sindacalizzati
(come i servizi a bassa qualificazione).
La scolarità poi è un’altra caratteristica che porta a propensioni differenti nella scelta di aderire a un
sindacato. Secondo Colin Crouch [1982] l’utilità, e quindi la propensione, nell’iscriversi a un
sindacato dipende da una combinazione tra l’agio con cui è possibile farlo e il grado di dipendenza
dall’azione collettiva nel perseguire i propri interessi. In particolare, perciò, i lavoratori più istruiti
(white-collars e professionals) risulterebbero più forti sul mercato del lavoro, avendo minore
necessità di aderire a un sindacato per tutelarsi. Effettivamente i lavori manuali (considerata come
proxy di livelli d’istruzione inferiori) in Europa risultano mediamente più sindacalizzati di quelli
non manuali [Ebbinghaus e Visser 1999], però, testando la relazione tra scolarità e
sindacalizzazione a parità di altri fattori, la relazione risulta più ambigua, non fornendo una
direzione causale netta [Calmfors et al. 2002; Blanchflower 2007]. Su un campione più piccolo
(Stati Uniti, Regno Unito e Canada) sempre Blanchflower [2007] trova correlazioni significative
per tutti e tre i paesi: il livello di istruzione è associato positivamente a una maggiore densità
sindacale solo nel settore pubblico, mentre nel privato è associato negativamente. Questo potrebbe
derivare dalla forte presenza di lavoratori ad alta qualificazione nelle pubbliche amministrazioni
(come medici e insegnanti) che, grazie all’appartenenza a un settore dove l’adesione al sindacato è
più facile e diffusa, risulterebbero quindi molto più sindacalizzati dei loro colleghi nel settore
privato [Checchi et al. 2007].
La dimensione dell’unità produttiva in cui si è occupati è inoltre un fattore importante nel
determinare una maggiore probabilità nell’adesione a un sindacato. La sindacalizzazione è correlata
positivamente con le dimensioni dell’impresa, assumendo dimensioni nulle o ridotte nelle micro e
22
piccole imprese [Ebbinghaus e Visser 1999]. Infatti «per i sindacalisti è molto più facile reclutare
nuovi membri, fornire servizi e mantenere un’organizzazione efficace all’interno di luoghi di lavoro
che concentrano grandi masse di lavoratori» [Calmfors et al. 2002, 41].
In ultimo ci si può domandare se a spiegare le variazioni tra paesi e nel tempo della propensione alla
sindacalizzazione possano intervenire elementi valoriali e culturali, che nel passaggio alle società
post-fordiste diverrebbero sempre meno orientati collettivamente e sempre più fondati in termini
individualistici, portando a una sorta di “Thatcher’s children effect” [Waddington e Whitston
1997]. Questo non sembrerebbe però il caso, in quanto moventi “egocentrici” all’adesione al
sindacato erano già preponderanti negli anni ’50 [Calmfors et al. 2002], mentre motivazioni relative
al mutuo supporto, all’attaccamento al ruolo sociale dei sindacati e al controllo dei colleghi
risultano ancora molto diffuse tra iscritti e non [Waddington e Whitston 1997; Calmfors et al. 2002;
Visser 2002; Feltrin 2007].
Passando quindi dalle caratteristiche individuali alle motivazioni dei soggetti all’iscrizione, una
delle spiegazioni fornite è data dalla Social custom theory [Visser 2002]. Secondo i fautori di questo
approccio l’iscrizione al sindacato sarebbe un costume sociale, derivante dal fatto che la mancata
adesione, in un ambiente con una densità sindacale al di sopra di un livello critico, comporterebbe
dei costi per il singolo superiore ai benefici “reputazionali” e di integrazione coi colleghi derivanti
dall’adesione e al supporto del sindacato locale. Tale costume sarebbe mantenuto dal controllo
sociale diffuso tra i lavoratori appartenenti a un’unità produttiva, e ciò avverrebbe anche nel caso di
grosse organizzazioni sindacali, in quanto, contrariamente a quanto ipotizzato da Olson [1971],
l’unità di riferimento tale da assicurare incentivi e disincentivi di carattere sociale sarebbero i
piccoli gruppi di lavoro, le corrispondenti sezioni sindacali e i gruppi di militanti locali,
contraddistinti da numerosi rapporti faccia-a-faccia tali da facilitare un controllo sociale diffuso
[Crouch 1982]. Jelle Visser [2002] trova diversi indicatori dell’esistenza di un costume sociale nelle
motivazioni all’adesione tra i lavoratori olandesi, essendo il livello di sindacalizzazione percepito e
la percezione di un clima pro-union fortemente correlati con l’appartenenza a un sindacato, oltre ad
esistere una correlazione significativa con l’appartenenza di uno o entrambi i genitori. L’uscita
dall’organizzazione, specularmente, è più probabile laddove meno colleghi siano membri e i
contatti coi sindacati siano meno frequenti.
Nella loro survey sui lavoratori inglesi anche Waddington e Whitston [1997] trovano indizi
dell’esistenza di un costume sociale, per quanto non risulti una delle ragioni fondamentali nel
decidere dell’adesione al sindacato (solo il 13,8% dei nuovi iscritti dichiara come motivazione
all’ingresso “la maggior parte dei colleghi sono membri”). Invece decisive risultano le motivazioni
collettive, nel senso del mutuo supporto in caso di problemi (citato dal 72,1% del campione),
23
migliori paghe e condizioni di lavoro (36,4%) e la credenza nel ruolo del sindacato (16,2%), per
quanto il supporto nelle dispute di lavoro, come già notato, possa essere considerato un incentivo di
Tab. 2.1. Tasso di sindacalizzazione netto in 17 paesi, 1946-2007, percentuali
Note: * Totale membri occupati; ** Tasso lordo (inattivi compresi) sul totale occupati; 1 Dal 1950 al 1990 dati relativi alla solaGermania Ovest; 2 1950-1955.
Fonti: 1946-1955 Ebbinghaus e Visser [2000]; 1960-1985, 2004-2007 OCSE; 1990-2003 Visser [2006]. Stati Uniti, Giappone,Canada: 1960-2007 OCSE; Irlanda: 1950-1985 Calmfors et al. [2002].
32
Anno Finlandia Svezia Norvegia Danimarca Olanda Belgio Spagna Svizzera Austria
E’ quindi ora possibile presentare i dati sulla sindacalizzione in Europa e in alcuni paesi
extraeuropei a partire dall’immediato dopoguerra, e discuterne brevemente le tendenze di breve e
lungo periodo che hanno portato allo stato attuale di relativamente bassa densità sindacale. Nella
tabella 2.1 vengono riportati i tassi di sindacalizzazione netti (tranne ove diversamente specificato)
a partire dal 1946, intesi come il rapporto tra membri del sindacato che ricevono uno stipendio o un
salario e il numero di occupati in posizioni dipendenti, per 17 paesi OCSE, di cui 12 membri
dell’Unione Europea. I dati sono riportati per quinquennio, mentre dal 1990 si è preferito riportare il
dato annualmente, vista la specifica attenzione sugli andamenti della sindacalizzazione negli ultimi
anni.
Innanzitutto si può notare come a partire dal 1946 abbia inizio un aumento pressoché generalizzato
della densità sindacale tra i paesi considerati, destinato a durare fino alle soglie degli anni ’80. Tra il
1946 e il 1955, tra i dieci paesi per cui vi siano dati disponibili la tendenza alla crescita non è ancora
maggioritaria, in quanto cinque paesi presentano un aumento del proprio tasso di sindacalizzazione,
in alcuni casi molto consistente (6,1 punti per la Svezia, 13 punti per l’Austria, 21,5 per il Belgio e
10 per la Danimarca, ma solo 1,5 per il Regno Unito), mentre altri cinque vedono tale valore
declinare (di soli 2 punti per la Germania, 5,4 per l’Olanda, 4,8 per l’Italia, 6 per la Finlandia e
addirittura di 20,3 per la Francia). Nel decennio 1960-1970, invece, la crescita dei membri del
sindacato in rapporto ai lavoratori salariati diventa pressoché generale, mostrando degli aumenti in
ben undici paesi sui quindici per cui vi siano dati disponibili per il periodo (declinano solo
Norvegia, Olanda, Stati Uniti e Germania). Nel decennio successivo, quindi, la tendenza si
mantiene costante, in quanto l’aumento della densità sindacale continua a toccare undici paesi,
mostrando un declino solo nei rimanenti cinque (tra i diversi casi solo in cinque la tendenza si
inverte: passano da declino a crescita la Norvegia e la Germania, mente il contrario avviene in
Giappone, Francia e Austria). Con gli anni ’80, invece, si ha un vero e proprio punto di svolta per
quanto riguarda la consistenza numerica dei sindacati. Le linee di tendenza maturate e rafforzatesi
nei trentacinque anni precedenti si ribaltano rapidamente in quasi la totalità dei paesi analizzati, nel
senso di un marcato quanto generalizzato declino della membership sindacale sul totale del lavoro
dipendente. Sul complesso dei diciassette paesi per cui risultano disponibili dati analizzabili (con
l’ingresso della Spagna a seguito dalla sua uscita dalla dittatura franchista nel 1975), ben quattordici
presentano un declino del tasso di sindacalizzazione, mentre il trend di crescita si mantiene solo nei
tre paesi scandinavi (Finlandia, Svezia e Norvegia, in crescita già nel decennio precedente). Il
declino è improvviso quanto forte, toccando o anche superando i dieci punti percentuali in Italia,
Regno Unito, Olanda e Austria, e fermandosi a una perdita di otto in Francia. Negli anni seguenti,
dal 1990 al 2003, la tendenza continua inesorabilmente nella stessa direzione: sempre quattordici
34
paesi perdono iscritti rispetto agli occupati dipendenti, mentre solo tre presentano un aumento. In
particolare la Svezia e la Norvegia passano a una diminuzione della densità sindacale dopo due
decenni di crescita (la Finlandia invece continua a crescere per il quarto decennio di fila), mentre
Belgio e Spagna, in lieve decrescita nel decennio precedente (-0,2 e -0,4 punti rispettivamente),
passano a un aumento della membership relativa. Per quanto gli anni dal 2004 al 2007 coprano un
periodo troppo ristretto per trarne delle tendenze ben definite, è indicativo il fatto che nei quattro
anni considerati nessun paese presenti più aumenti del tasso di sindacalizzazione netto, dopo il
quadriennio 2000-2003 ove la situazione sembrava in via di stabilizzazione, e in alcuni casi di lieve
recupero [Feltrin 2006]: in Belgio la densità rimane costante, mentre negli altri quattordici paesi per
cui siano disponibili dati vi è una riduzione ulteriore, con la diminuzione più consistente (-6,5 punti
percentuali) per la prima volta in un paese scandinavo, cioè la Svezia (che, comunque, mantiene la
densità sindacale più elevata tra i paesi considerati, pari al 70,8%).
E’ quindi opportuno scomporre la lunga stagione della sindacalizzazione del secondo dopoguerra in
due macro periodi per cui disponiamo di dati sufficientemente omogenei: il ventennio 1960-1980, e
quello successivo, 1980-2000. Come delineato in precedenza si tratta di due periodi
qualitativamente differenti per quanto riguarda la sindacalizzazione del lavoro dipendente. E come
riassunto dallo scatter diagram riportato in figura 2.1 (in cui non sono riportati i casi di Svizzera e
Fig. 2.1. Variazioni della sindacalizzazione, 1960-1980 e 1980-2000, percentuali Fonte: elaborazione su dati Visser [2006] Note: per l’Irlanda 1980-2001
y = 0,227x - 27,77 R2 = 0,228 Sig. = 0,072
35
Spagna, per mancanza di dati continuativi relativamente al ventennio 1960-1980), nel primo
periodo la densità sindacale aumenta complessivamente in nove paesi sui quindici per cui risultino
dati disponibili (in media del 41%), diminuendo in sei (mediamente del 10%). Nel ventennio
incominciato negli anni ottanta, invece, la sindacalizzazione netta aumenta in soli quattro paesi
(Finlandia, Svezia, Belgio e Spagna, mediamente del 9%), mentre diminuisce nei restanti tredici
casi (del 30%). L’inversione di tendenza è perciò duplice, riguardando sia estensione che intensità:
non solo la maggior parte dei paesi smette di crescere, passando in modo generalizzato alla
tendenza opposta, ma, qualora persista, anche la velocità della crescita diventa minimale, mentre la
diminuzione risulta a sua volta consistente. Inoltre per la quasi totalità dei paesi nel lungo periodo
del secondo dopoguerra l’andamento della sindacalizzazione si configura come un fenomeno ciclo,
mentre in soli due paesi (Stati Uniti e Olanda), dagli anni ’60 a oggi la relazione assume
sostanzialmente una forma monotonica decrescente. Sempre in figura 2.1 è riportata la retta di
regressione che approssima i casi considerati, così da stabilire se esista una qualche correlazione tra
0,0
10,0
20,0
30,0
40,0
50,0
60,0
70,0
80,0
90,0
1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005
Fig. 2.2. Trends di sindacalizzazione, 1960-2007, percentualiFonte: OCSE
Stati Uniti Giappone Canada Germania Francia ItaliaRegno Unito Irlanda Finlandia Svezia Norvegia DanimarcaOlanda Belgio Spagna Svizzera Austria
36
la crescita negli anni ’60 e ’70 e quella del ventennio successivo. In effetti si trova una discreta
correlazione positiva (con r = 0,478) tra la crescita nel primo periodo e quella nel secondo,
connotata da una buona, e quasi significativa, intensità (beta pari a 0,227, con p-value a 0,072),
mettendo in luce come, in una certa misura, i paesi che abbiano saputo approfittare della forte
crescita della sindacalizzazione nel secondo dopoguerra siano riusciti ad ammortizzare meglio gli
effetti negativi del periodo storico successivo, probabilmente riuscendo a consolidare le proprie
forze grazie all’ottenimento di un maggiore riconoscimento giuridico e sociale in un’ottica di lungo
termine, inserendosi in meccanismi di scambio politico a partire da un periodo caratterizzato da
rapporti di forza più sbilanciati verso le associazioni sindacali. Questa sembra essere l’opinione
anche di Bernard Ebbinghaus e Jelle Visser, che trovano una correlazione simile per il periodo
1950-1995, portandoli a concludere come «la sindacalizzazione è il risultato
dell’istituzionalizzazione. Mobilitazioni di successo nel passato costituiscono un acquis per il
futuro. Più alto il livello di organizzazione nel 1975, più basso il declino durante gli “anni di crisi»
[Ebbinghaus e Visser 1999, 148].
E’ ora possibile cercare di stabilire se esiste qualche trend generale che accomuni o differenzi
sistematicamente i diversi paesi. La figura 2.2 mostra l’andamento della sindacalizzazione netta per
tutti i diciassette paesi analizzati nel periodo 1960-2007. Come si può immediatamente notare le
differenze sono notevoli, ed emergono diversi percorsi specifici nella crescita e diminuzione della
densità sindacale. Prima di arrivare a formulare una tipologia è perciò interessante spostare lo
sguardo sui valori medi della membership relativa tra i paesi analizzati. Nel grafico rappresentato in
figura 2.3 è perciò riportato l’andamento del tasso di sindacalizzazione netto, calcolato come media
0,00
10,00
20,00
30,00
40,00
50,00
60,00
70,00
1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005
Den
sità
sind
acal
e ne
tta
%Fig. 2.3. Tasso di sindacalizzazione medio, 1960-2006Fonte: elaborazione su dati OCSENote: Svezia dal 1963, Austria dal 1968, Svizzera dal 1976, Spagna dal 1981
Fonti: 1950-1985 Della Rocca [1998], su dati Contabilità nazionale, ISTAT; 1986-2005 elaborazioni fornite da CISL suRTFL, ISTAT; 2006-2008 elaborazione su dati CIGL-CISL-UIL e RCFL, ISTAT; tasso di sindacalizzazione specificoper CGIL e CISL nel periodo 1970-1985 calcolato come rapporto tra membri attivi e occupati dipendenti, datifederazioni nazionali per i tesserati e Contabilità nazionale, ISTAT, per gli occupati
Note: iscritti al netto dei sindacati di seconda affiliazioni e del SILP per la CGIL; 1 1970-1980; 2 1986-2000
68
crescita della sindacalizzazione nel secondo dopoguerra che accomuna la media dei paesi europei,
per quanto, come riporta la tabella 2.4, con uno specifico crollo negli anni ’50 pari a 22,3 punti
percentuali, sconosciuto in quanto a intensità e rapidità agli altri paesi (cfr. tab. 2.1). Tra il 1960 e il
1980 la crescita è di ben 20,2 punti percentuali, mentre tra il 1980 e il 2000 la diminuzione risulta di
soli 14,4 punti, portando l’Italia nel 2008 ad avere una sindacalizzazione netta 4,5 punti percentuali
superiore al livello del 1960. Anche questo risulta un caso anomalo nel panorama europeo, in
quanto la densità media tra i paesi OCSE analizzati nel paragrafo 2.1, nel 2007 risulta (seppur di
poco) inferiore a quella del 1960. Inoltre, tra i paesi conservatori, l’Italia risulta essere l’unico
paese, oltre al Belgio, a presentare nel nuovo millennio un tasso di sindacalizzazione superiore a
quello del 1960.
La prima fase della storia della sindacalizzazione in Italia può essere compresa a partire dalla fine
della seconda guerra mondiale al 1967, ed è caratterizzata, dopo un breve inizio a forte
sindacalizzazione sotto l’egida della confederazione unitaria, da rilevanti difficoltà, non solo ad
espandere la propria influenza, ma nel trattenere i quasi sei milioni di iscritti dell’inizio degli anni
’50. E’ rilevante, però, come la quasi totalità della diminuzione di iscritti sia stata causata dal crollo
di aderenti alla CGIL, che tra il 1950 e il 1960 perde ben due milioni di membri, mentre la CISL
aumenta di più di centomila unità gli iscritti. La figura 2.6 mette in luce come, anche sul fronte
degli iscritti attivi (pensionati e disoccupati esclusi), nel primo periodo considerato il crollo della
densità sindacale netta sia da addebitare interamente alla CGIL, vista la relativa stabilità, tendente
alla crescita, della membership CISL. Tale crollo è da ricollegarsi sostanzialmente all’assenza di
meccanismi di protezione sindacale all’interno dell’impresa, unitamente a un’estrema
centralizzazione della contrattazione, combinazione che porta la CGIL, nella sua opera di
proselitismo, a fare un ricorso «pressoché esclusivo a incentivi di identità, fondati sul primato della
politica (del “dovere di classe”) rispetto agli “interessi di forza lavoro”» [Della Rocca 1998, 106-
Note: per i settori CGIL, CISL e UIL; per le categorie solo CGIL e CISLFonte: per i settori Della Rocca [1998] e Annuario CESOS 1997-1998; per le categorie Fetrin [2005]
Per le categorie è più difficile avere dati comparabili su un lungo lasso di tempo, in quanto per
calcolare il numero di occupati dipendenti rapportabile alle unità produttive coperte dalle diverse
federazioni è necessario fare riferimento al Censimento dell’industria e dei servizi dell’ISTAT,
condotto con cadenza decennale, e che solo dal 1991 riporta il numero di addetti in posizioni
dipendenti. Pertanto un confronto comprendente l’intero ventennio di crisi è stato condotto solo per
il settore metalmeccanico (riportato in tabella 2.6), in quanto settore storico di elezione del
sindacato. Per poter ottenere una serie più completa di dati il tasso di sindacalizzazione è stato
calcolato come rapporto tra il numero di tesserati delle tre principali federazioni metalmeccaniche
(FIOM, FIM e UILM) e il numero totale di addetti alle unità produttive di riferimento,
sottostimando così il dato in media di 5 punti percentuali rispetto a un confronto più corretto coi soli
addetti in posizioni dipendenti. In tal modo è però possibile trarre qualche conclusione sul trend di
sindacalizzazione dell’intero ventennio. Negli anni ’90, per le due principali confederazioni, le
categorie che riescono a mantenere un tasso di sindacalizzazione sostanzialmente stabile sono
quelle dell’istruzione e del commercio (dove all’aumento occupazionale del periodo corrisponde un
proporzionale aumento di membri attivi), e quella dei tessili (dove, di converso, alla diminuzione
dell’occupazione corrisponde una proporzionale diminuzione di iscritti), uniche categorie la cui
membership attiva sia stata determinata in modo proporzionale dall’incremento o decremento
occupazionale. Nei trasporti, invece, accanto a un sostenuto aumento dell’occupazione corrisponde
una forte perdita in termini di iscritti, tale da far calare di ben 13,2 punti percentuali il tasso di
73
Tab. 2.6. Iscritti e tasso di sindacalizzazione netto tra i metalmeccanici, 1981-2001
TOTALE
Anno Iscritti FIOM Densità % Iscritti FIM Densità % Iscritti UILM Densità % Densità %
Note: densità sindacale calcolata sul totale addetti settore metalmeccanico; 11980
CGIL CISL UIL
Fonte: elaborazione su dati federazioni per gli iscritti, VIII Censimento dell'industria e dei servizi, ISTAT, per gli addettimetalmeccanici
sindacalizzazione in un solo decennio, mettendo in luce gli effetti di una riorganizzazione intra-
settoriale tesa verso una maggiore «frammentazione del tessuto d’impresa, che assume inoltre una
configurazione diversa: si riduce, al suo interno, la quota di occupati nel ferrotranviario, che passa
dalla gestione pubblica a quella privata, e si eleva il numero di occupati nella logistica e nelle
imprese del trasporto su gomma» [Feltrin 2005, 55]. Nel settore creditizio si assiste invece al
fenomeno opposto, cioè a un aumento del numero di iscritti attivi nonostante la lieve flessione
occupazionale (con un tasso di sindacalizzazione in crescita di 4,2 punti percentuali), dimostrando
la capacità di CGIL e CISL di intercettare la nuova domanda adattandosi alle caratteristiche della
stessa [Feltrin 2005], nel caso specifico grazie al coinvolgimento del sindacato nella gestione dei
processi di outsourcing sviluppatisi nel settore bancario a partire dagli anni ’90 [Paparella 2004].
Agrindustria, comunicazioni, chimici e costruzioni perdono più iscritti attivi di quanto
fisiologicamente concesso dal calo occupazionale, mentre la pubblica amministrazione (istruzione
esclusa) viene a trovarsi in una condizione di sindacalizzazione confederale calante, rispetto alle
due principali organizzazioni (CGIL e CISL), nonostante l’aumento dei dipendenti nel decennio,
soprattutto a causa della forte perdita di iscritti della CISL-FPS (Federazione lavoratori dei Pubblici
Servizi). Il settore metalmeccanico presenta invece pienamente i tratti della crisi degli assetti
fordisti e delle strutture sindacali su di essi fondatesi. Nei vent’anni seguenti il 1980, la densità
sindacale, calcolata sulle tre principali confederazioni, risulta in constante declino, con una perdita
di ben dieci punti percentuali negli anni ’80 e di altri cinque nel decennio successivo. Il declino è
pesante per tutte e tre le confederazioni, ma, per quanto riguarda il numero di iscritti, colpisce
maggiormente la CGIL, storicamente più presente di CISL e UIL nel settore. Secondo i dati del
Censimento dell’industria e dei servizi dell’ISTAT, complessivamente gli addetti nel settore calano
di sole 150.000 unità nel ventennio, a fronte di una perdita di quasi mezzo milione di tessere per
FIOM, FIM e UILM. Parallelamente, però, la dimensione media per unità locale (se si escludono
74
dal computo le aziende artigiane), passa dai 46,9 addetti nel 1981, ai 23,6 nel 1991 e ai 22,5 addetti
nel 2001. Il calo di dieci punti percentuali nel tasso di sindacalizzazione avviene quindi
parallelamente a un dimezzamento netto delle dimensioni medie degli impianti, sottolineando come
la ristrutturazione del tessuto produttivo verso sistemi di specializzazione flessibile, fondati sulla
messa in rete di sistemi a piccola impresa, metta in crescente difficoltà le basi di reclutamento
storico del sindacato industriale anche in Italia.
Un declino resistibile
L’Italia, in quanto a traiettoria della sindacalizzazione, presenta un caso particolare nel contesto
europeo. Come già accennato è l’unico paese (sistemi Ghent a parte), che nel 2008 presenta un tasso
di sindacalizzazione maggiore rispetto agli anni ’60. Dispone, inoltre, di una delle densità sindacali
più elevate nel primo decennio del 2000 (sempre escludendo i paesi scandinavi). Infine, la fase di
declino vero è proprio può considerarsi compresa tra gli anni ’80 e la fine dei ’90 (con la caduta più
critica della sindacalizzazione netta del lavoro dipendente concentrata soprattutto nel periodo 1980-
1985), mentre dall’inizio del nuovo millennio le tre confederazioni principali sembrano godere di
una certa stabilità rappresentativa, contrariamente alla maggior parte degli altri paesi (questa volta
nordici inclusi).
Paolo Feltrin [2005] individua tre principali “motori” che dagli anni ’70 hanno contribuito a
sostenere la sindacalizzazione in Italia, sia nel senso di favorirne la crescita nei periodi di forte
espansione, che di contenerne il calo nella fase di crisi cominciata negli anni ’80. Innanzitutto, con
lo Statuto dei lavoratori del 1970, diventa garantito per legge, anche nelle aziende non coperte da
contratto collettivo, il sistema di trattenuta diretta sulla busta paga delle quote sindacali (c.d. check-
off), negli anni ’60 regolato esclusivamente su base contrattuale [Giugni 2006], rendendone meno
difficile la raccolta e incentivando il mantenimento dell’iscrizione. In secondo luogo, negli anni ’80
si sviluppa la parallela tendenza (del tutto originale in Europa) ad esercitare la trattenuta sindacale
automaticamente, tramite l’INPS, anche sui redditi da pensione, fattore che spingerà ulteriormente
le confederazioni a far leva sulle tessere delle federazioni dei pensionati per contenere l’emorragia
degli iscritti attivi. Infine, il fattore più recentemente introdotto per sostenere il tesseramento risulta
lo sviluppo e la messa a regime dei Centri autorizzati di assistenza fiscale (CAAF), gestiti in larga
misura dai sindacati e affiancati al Ministero delle finanze nella gestione delle pratiche relative alla
dichiarazione dei redditi (in particolare i modelli 730 per lavoratori dipendenti e pensionati).
Quest’ultimo servizio agisce in maniera duplice rispetto alla sindacalizzazione, in quanto fornisce
sia un incentivo selettivo per i membri (visto il minore costo per gli iscritti al sindacato), atto alla
fidelizzazione dei già sindacalizzati e alla maggiore attrattiva per i non, sia in quanto viene a
75
costituire un canale fondamentale per le organizzazioni sindacali nell’entrare in contatto con
categorie di lavoratori solitamente lontane da ambienti sindacalizzati, creando un punto di contatto
utile nell’attirare membri difficilmente raggiungibili altrimenti. E’ possibile che a causa
dell’abrogazione della garanzia della trattenuta automatica in busta paga della quota sindacale
(tramite referendum nel 1995, che ne riporta l’applicabilità esclusivamente tramite contrattazione
collettiva [Giugni 2006]), e della saturazione del mercato dei moduli 730 gestiti dai CAAF
sindacali, in futuro sarà sempre meno possibile fare ricorso a tali strumenti nel sostenere la
sindacalizzazione, rendendo necessarie nuove aree di intervento [Feltrin 2005].
Il declino, in termini di iscritti attivi, non è però stato omogeneo all’interno delle principali
confederazioni. Come già mostrato in figura 2.6, la CISL è riuscita ad attraversare in modo meno
drammatico il ventennio di crisi, risultando la sindacalizzazione complessiva meno connotata in
senso ciclico rispetto alla CGIL. Anche la UIL dimostra una maggiore capacità di tenuta lungo gli
anni ’80 e ’90: mentre il tasso di sindacalizzazione della CGIL, tra il 1986 e il 2008, si riduce del
23% (passando dal 19,2% al 14,8%) e nella CISL del 14% (dal 13,4% al 11,5%), nella UIL la
diminuzione è solo del 4% (dal 7,1% al 6,8%). Le forti differenze tra il sindacato comunista rispetto
agli altri due, nella tenuta della sindacalizzazione durante il passaggio agli assetti produttivi post-
fordisti, possono forse essere ricondotte alla maggiore “razionalità organizzativa” di CISL e UIL.
Patrizio Di Nicola [1994], per tentarne una misurazione, propone la costituzione di un indice
alternativo al tasso di sindacalizzazione netto, in quanto «la rappresentatività di un sindacato, oltre a
dipendere dalla percentuale di forza-lavoro che si riesce ad organizzare, è legata anche alla coerenza
delle adesioni rispetto alla distribuzione settoriale dell’occupazione» [Di Nicola 1994, 62]. Tale
indice, denominato “indice di equilibrio della rappresentanza”1, assume un campo di variazione
compreso tra 0 e 1, indicando a valori più alti una maggiore coerenza organizzativa. Al valore
massimo è associata una distribuzione percentuale dei lavoratori dipendenti nelle diverse branche di
attività (agricoltura, industria e servizi) identica alla distribuzione delle tessere delle diverse
federazioni all’interno del tesseramento confederale del lavoro dipendente. Resta da tener presente,
comunque, come un valore maggiore sull’indice può derivare sia da un aumento del tesseramento in
un settore prima sottorappresentato (il che sottolineerebbe un maggiore sforzo organizzativo del
sindacato), sia dalla stagnazione delle iscrizioni in un settore in forte declino occupazionale e
precedentemente sovrarappresentato (il che invece metterebbe in luce una certa inerzia). Dalla
tabella 2.7 vediamo come, all’inizio del ventennio di crisi, le associazioni sindacali con una
struttura interna più coerente rispetto al tessuto produttivo risultino CISL e UIL, grazie alla già forte
1 IE = 1 – [ABS(Da – Ta) + ABS(Di – Ti) + ABS(Ds – Ts)], con Da, Di e Ds rispettivamente la proporzione di occupazione dipendente in agricoltura, industria e servizi, e con Ta, Ta e Ts la proporzione di tessere agricole, industriali e dei servizi rispetto al tesseramento totale tra i lavoratori dipendenti [Di Nicola 1994].
76
Tab. 2.7. Indice di equilibrio della rappresentanza, 1981-2008
Note: per le federazioni multisettoriali stime settoriali sulla base delle proporzioni dei tesserati per settore prima delle fusioni
Fonte: per il 1981 Di Nicola [1994]; altri anni elaborazioni su dati federazioni per gli iscritti e Contabilità nazionale, ISTAT,per gli occupati dipendenti
1981 1990 2000 2008
1981-1990 1990-2000 2000-2008
presenza, rispetto al totale degli iscritti dipendenti, nel settore terziario. Negli anni ’80, quindi, la
riduzione del tasso di sindacalizzazione sarà effettivamente più contenuta per la CISL e la UIL,
entrambe accomunate da un maggiore indice di equilibrio di partenza, rispetto alla CGIL. Negli
anni ’90 quest’ultima peggiora ulteriormente la propria razionalità organizzativa (a causa della
minore proporzione di tessere nel terziario e dell’ancora elevata presenza di tessere industriali sul
totale, rispetto a una struttura occupazionale dipendente sempre più terziarizzata), e tra il 1990 e il
2000 saranno ancora le confederazioni più aderenti alla struttura dell’occupazione a ridurre in modo
più contenuto il tasso di sindacalizzazione. Dopo il 2000, infine, la CGIL, grazie a un forte aumento
della proporzione di tessere nel terziario e a un’altrettanto forte riduzione nel settore industriale,
riesce a migliorare il proprio indice di equilibrio, arrivando a ottenere un calo percentuale nella
sindacalizzazione inferiore alla UIL, ma comunque di molto maggiore della CISL, che tra il 1981 e
il 2008 è riuscita a mantenere costantemente una certa coerenza nel tesseramento rispetto alla realtà
occupazionale, presentando così una minore volatilità nelle dimensioni della membership attiva. Tra
il 1986 e il 2002, inoltre, accanto all’andamento degli iscritti attivi sempre più simile per CISL e
CGIL, il tasso di dissimilarità relativo tra le due confederazioni (calcolato sulle differenze nella
composizione percentuale delle diverse federazioni sul totale) subisce una riduzione, confermando
l’esistenza di un avvicinamento della CGIL alla struttura del tesseramento della CISL, rispetto al
vecchio modello fortemente sbilanciato verso il settore industriale [Feltrin 2005]. Pertanto è
possibile concludere come quelle organizzazioni che negli anni ’80 hanno fondato la propria
struttura organizzativa in modo omogeneo rispetto alla struttura dell’occupazione (CISL e UIL),
sono riuscite a contenere in qualche misura l’erosione relativa degli iscritti, mentre quelle
organizzazioni, come la CGIL, con un tesseramento fortemente sperequato e fondato
77
principalmente su una categoria occupazionale (il settore industriale e manifatturiero), sono risultate
più vulnerabili ai cambiamenti ciclici e strutturali dell’economia, mostrando le perdite più
consistenti, e riuscendo a interrompere il riflusso solo a patto di razionalizzare maggiormente la
propria struttura associativa. Pertanto il tasso di sindacalizzazione netto risulta una misura
incompleta della forza e della rappresentatività di un sindacato, in quanto, anche in presenza del
tasso più elevato tra le principali confederazioni, «la forte localizzazione degli iscritti in un unico
settore di attività o tra un delimitato gruppo sociale non è mai un indicatore di forza né tantomeno di
razionalità organizzativa. E’ spesso, al contrario, un segnale di abdicazione ai propri compiti» [Di
Nicola 1994, 73].
Il sindacalismo non confederale
Il sistema di relazioni industriali italiano del secondo dopoguerra, assieme alla relativa legislazione
promozionale e di sostegno, si è delineato fondandosi su una rappresentanza del lavoro
sostanzialmente di tipo confederale, costruita su un criterio della rappresentatività di tipo “storico”,
in quanto «basata sul dato storico dell’effettività dell’azione sindacale svolta dalle grandi
confederazioni: al momento dell’approvazione dello Statuto dei lavoratori, che in tale nozione
aveva uno dei suoi perni, vi erano pochi dubbi sul fatto che la storia e la realtà del sindacalismo
italiano fossero una storia e una realtà di confederazioni» [Giugni 2006, 64]. Pertanto, almeno fino
alla seconda metà degli anni ’80, la selezione dei sindacati atti a contrattare o destinatari dei diritti
sindacali, veniva effettuata senza eccessivi problemi secondo il criterio di “sindacato maggiormente
rappresentativo”, fondato sul concetto di rappresentatività presunta (criterio per sua natura lontano
da misurazioni oggettive di tipo quantitativo), e tale da privilegiare il ruolo delle confederazioni
esistenti, CGIL, CISL e UIL [Giugni 2006]. La realtà sindacale italiana, però, non è mai stata
composta esclusivamente dalle tre confederazioni principali, bensì a queste nel corso del tempo si
sono affiancate una serie di sigle sindacali extra-confederali, i c.d. sindacati “autonomi”,
aggettivazione atta a rimarcarne l’estraneità dalla politica sindacale confederale. Domenico Carrieri
[1998; 2000] distingue tre tipi di sindacalismo extraconfederale. Innanzitutto vi sono i sindacati
autonomi classici, solitamente tesi a comportamenti rivendicativi più tradizionali, e orientati su
posizioni moderate o di destra sul piano politico-culturale, ma esclusi dal novero dei “sindacati
maggiormente rappresentativi” (ad esempio la CISNAL, oggi UGL, fondata nel 1950, e punto di
riferimento per i movimenti monarchici, conservatori e neo-fascisti, o la CISAL, presente dal 1957
[Visser 2000]). In secondo luogo vi sono i nuovi sindacati di mestiere, od occupazionali, incardinati
in specifici gruppi o sottogruppi sociali unificati da posizioni professionali omogenee, «spesso con
una storia lunga, ma rinnovati o rifondati negli anni Ottanta, caratterizzati da una ricerca
78
spregiudicata di benefici particolaristici per i loro membri» [Carrieri 2000, 768] (esempi ne sono la
CIDA, sindacato dei dirigenti, la Confedir, per le alte cariche del settore pubblico, o la FABI, per i
bancari). Infine vi è il variegato numero di esperienze definibili come “sindacalismo di base”,
materializzatosi più di recente (verso metà anni ’80), spesso su posizioni di sinistra o sinistra
estrema, «il cui radicalismo coincide con una vecchia storia, caratterizzata dalla pratica di classe e
dal valore finalistico del conflitto» [Carrieri 1998, 305] (ad esempio le varie esperienze dei
coordinamenti, dei Cobas, i Cub, le Rdb, etc…).
Complessivamente, ancora una volta, sono i fattori istituzionali ad avere maggiore rilievo nella
spiegazione dello sviluppo del sindacalismo autonomo in Italia, grazie alla loro capacità di
determinare gli esiti derivanti dalla ristrutturazione produttiva del paese [Cella 1991b]. Per quanto
molti dei sindacati extraconfederali abbiano lunga storia, solo verso la metà degli anni ’80 hanno
cominciato a venir messe in discussione le basi storiche della presunta maggiore rappresentatività
confederale, a causa dell’irruente ingresso di un gran numero di “nuovi attori” nelle relazioni
industriali italiane [Cella 1991a]. Tali nuovi soggetti vanno principalmente ricompresi nella seconda
e terza categoria del sindacalismo non confederale sopra citate, essendo solitamente fondati su
realtà occupazionali tanto omogenee quanto ristrette, e tesi a rivendicazioni occupazionali di tipo
particolaristico. Questi movimenti risultano accomunati da tre caratteristiche fondamentali: la loro
sostanziale concentrazione nei servizi pubblici e nel pubblico impiego, «il carattere anticonfederale
dei nuovi attori, nel duplice senso della opposizione alle confederazioni storiche e del rifiuto di una
logica di rappresentanza generale» [Cella 1991b, 23], e la loro disponibilità di un alto potere
vulnerante, tale da rendere la loro protesta molto efficace con costi relativamente contenuti. Il
“brodo di coltura” di tali movimenti di base o del sindacalismo occupazionale autonomo possono
essere ricondotti al processo di riorganizzazione delle relazioni sindacali nel settore pubblico a
cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Verso la metà degli anni ’70 le principali confederazioni si trovano al
culmine della propria forza, presentando la massima articolazione organizzativa possibile (nel 1977
la CGIL affilia 31 federazioni, la CISL 33 e la UIL 30, in confronto alle, rispettivamente, 16, 21 e
23 di vent’anni dopo [Visser 2000]). Nel gestire una situazione di rappresentanza tanto vasta e
variegata diviene così necessaria una strategia di razionalizzazione e coordinamento delle
rivendicazioni dei sindacati di prima affiliazione, linea poi formalizzata nella strategia dell’Eur
dell’inizio del 1978 (fondata su coordinamento confederale, unificazione dei contenuti rivendicativi
e contenimento responsabile delle rivendicazioni) [Bordogna 1991]. Tale strategia di
razionalizzazione e centralizzazione avviene a tappe forzate soprattutto nel settore pubblico,
registrandosi «tra la fine degli anni ’70 e primi ’80 il passaggio da una situazione di organismi
spesso ancora di qualifica alla costruzione accelerata di un sindacalismo industriale di massa, con
79
accorpamenti categoriali in federazioni molto comprensive» [Bordogna 1991, 83]. Nel 1980, ad
esempio, nasce la federazione della funzione pubblica della CGIL, seguita nel 1983 da quella della
CISL, ricomprendente sindacati dei dipendenti statali, parastatali e degli enti locali (nel caso della
CGIL anche dei lavoratori della sanità), prima disaggregati in federazioni specifiche [Bordogna
1987]. Tale processo di riorganizzazione sindacale avviene anche parallelamente al processo di
“contrattualizzazione” delle relazioni di lavoro nel settore pubblico, nel 1983 definito sulla base di
soli otto comparti di contrattazione stabiliti per legge (rispetto all’estrema frammentazione del
periodo di contrattazione informale e alla graduale estensione della contrattazione a un elevato
numero di categorie negli anni ‘70), rendendo necessaria una maggiore razionalizzazione della
struttura confederale del sindacalismo del settore pubblico [Bordogna 1991; 1998]. Al di sotto di
questa opera di centralizzazione delle relazioni di lavoro intrapresa dalle amministrazioni pubbliche
e dalle principali confederazioni si coltiva, perciò, il malcontento di quelle figure professionali che
sentono minacciata la propria autonomia e indipendenza, o le proprie posizioni di rendita. La
centralizzazione rappresentativa, infatti, tende a basarsi su una logica maggiormente encompassing
(definita da Olson [1982] come una linea di rappresentanza comprensiva di un largo numero di
interessi eterogenei, tesa a internalizzare i costi della propria azione, contenendo cioè le
rivendicazioni particolaristiche a favore di obiettivi più generali e moderati di cui possa godere, per
quanto in misura minore, la totalità dei propri membri), riducendo le possibilità di azione autonoma
dei gruppi occupazionali più settari, meno disposti a sacrificare le proprie istanze particolariste,
grazie spesso alla posizione di forza derivante dal «“potere vulnerante” di cui dispongono le figure
lavorative in questione, la capacità che hanno, per la “posizione strategica” che occupano nella
organizzazione del lavoro di un certo servizio (in genere esso stesso di importanza strategica per
l’economia e la società), di produrre o minacciare danni enormi» [Bordogna 1987, 138].
I motivi per cui tale esplosione di movimenti sia avvenuta per la quasi totalità nel settore pubblico
può essere ricondotta a tre motivazioni principali. Innanzitutto la quasi assenza (per lo meno fino
alle recenti riforme tese alla promozione della c.d. contrattazione integrativa) di una contrattazione
decentrata formalmente riconosciuta nel settore pubblico. Questo non permette che accanto a una
ricentralizzazione della contrattazione, concentrata su risultati macroeconomici generali, faccia da
contrappeso una micro-definizione di interessi più specifici più vicina al posto di lavoro, rendendo
la dissidenza da tale sistema il modo più efficace nel sostenere le proprie richieste. Una seconda
ragione, strettamente collegata alla prima, riguarda, a causa dell’elevata burocratizzazione della
relazione di lavoro, la carenza di politiche attive di amministrazione del personale, in grado di
motivare i lavoratori a più alta professionalità, che preferiscono così rivolgersi alle associazioni
autonome di mestiere. Infine, lo sviluppo della grande quantità di sindacati occupazionali e
80
autonomi, avviene grazie al loro operare in un settore protetto dalla concorrenza, azzerando così
quel grado di responsabilità derivante dalla necessità di mantenere competitiva l’impresa sul
mercato al fine di salvaguardare il proprio posto di lavoro [Bordogna 1991]. I piccoli gruppi
particolaristici, o addirittura single issue (destinati a nascere e sciogliersi in relazione a singoli
problemi), operanti nel settore pubblico, risultano perciò non soltanto deresponsabilizzati rispetto
alle performances macroeconomiche prodotte dal loro agire, ma addirittura indifferenti ai risultati
microeconomici causati dalle proprie rivendicazioni (situazione che invece non trova riscontro nel
settore privato) [Cella 1991b].
Più difficile risulta invece stimare la consistenza numerica dei sindacati autonomi, a causa della
poca trasparenza delle fonti sul tesseramento fornite dalle associazioni stesse, per la loro incredibile
numerosità e frammentarietà, le solitamente ridotte dimensioni, per la loro natura volubile e
l’elevata nati-mortalità. In relazione all’intera economia (settore pubblico e privato), si può stimare
che se si tenesse conto anche del sindacalismo autonomo e di base, il tasso di sindacalizzazione
netto sarebbe più elevato di circa il 10-20% rispetto a quanto stimato sulla sola base del
tesseramento di CGIL, CISL e UIL [Visser 2000; Calmfors et al. 2002]. Nel settore privato la stima
risulta particolarmente difficile, non esistendo sistemi pubblici di rilevazione del tesseramento, ma è
possibile stimare la consistenza del sindacalismo non confederale basandosi sulla proporzione di
voti ottenuti dalle diverse sigle alle elezioni aziendali delle Rappresentanze Sindacali Unitarie
(RSU, previste dall’accordo tripartito del 23 luglio 1993). Nel 1996, l’Osservatorio nazionale sulle
RSU promosso da CGIL, CISL e UIL stimava per l’industria uno 0,21% di voti ottenuti dalla
CISNAL, lo 0,07% dalle Rdb-Cub e lo 0,26% dalla CISAL. Per quanto la partecipazione alle
elezioni dei sindacali extra-confederali può risultare inferiore proprio a causa dell’opposizione degli
stessi agli strumenti di rappresentanza tipici dei sindacati confederali, tali stime indicano comunque
la scarsa rilevanza di tali sigle nel settore privato [Carrieri 1998]. Nel settore pubblico la situazione
risulta differente. Innanzitutto la stima della sindacalizzazione effettiva risulta più precisa e
completa, essendosi avviato, parallelamente al completamento della contrattualizzazione del
rapporto di lavoro pubblico negli anni ’90, un sistema di misurazione della rappresentanza effettiva,
misurata sia sulla base del numero di deleghe raccolte dalle diverse rappresentanze sindacali, sia
sulla proporzione di voti raccolti alle elezioni per le Rappresentanze Unitarie del Personale (RUP,
poi rinominate RSU in analogia col settore privato), accogliendo il c.d. criterio di maggiore
rappresentatività ponderata, come superamento della rappresentatività presunta [Giugni 2006]. Per
le ragioni sopra discusse, quindi, nelle pubbliche amministrazioni si trova, accanto a una
sindacalizzazione complessivamente più alta del settore privato, anche una più consistente quota di
sindacalizzazione proveniente da associazioni sindacali autonome e di base. Grazie ai dati raccolti
81
dal Dipartimento della Funzione Pubblica, nel 1996 è possibile osservare come per una
sindacalizzazione complessiva dei comparti pubblici (ministeri, parastato, enti locali, aziende
autonome, sanità, scuola, università e ricerca) pari al 44,48%, la sindacalizzazione derivante da
CGIL, CISL e UIL si fermasse al 30,44%, essendo il rimanente 14,03% (cioè il 31,6% delle deleghe
sottoscritte) raccolto da sindacati extra-confederali [Bordogna 1999]. Dieci anni dopo, nel 2006, la
situazione sembra però essersi resa più favorevole a CGIL, CISL e UIL, che infatti riescono ora ad
aggregare mediamente l’80% delle deleghe e dei consensi nelle elezioni per le RSU del personale
dei comparti (in una situazione di dominio associativo della CISL, elettorale per la CGIL e di
costante crescita in entrambi per la UIL) [Bordogna e Carrieri 2008], nel contesto di un tasso di
sindacalizzazione complessivo nel settore pubblico stimato dall’Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) pari al 50,08% (dato comunque sovrastimato, a
causa del fenomeno delle tessere doppie, sottoscritte cioè dallo stesso dipendente in favore di più
federazioni sindacali). Anche nel settore pubblico esistono però rilevanti differenze intra-settoriali.
In particolare le figure dirigenziali risultano complessivamente le più sindacalizzate in assoluto, con
una forte predominanza dei sindacati occupazionali e autonomi (sempre secondo l’ARAN, per il
2006 nel comparto scuola più del 90% dei dirigenti risultavano sindacalizzati, intorno al 70% per il
comparto sanitario, quasi il 98% per gli enti pubblici non economici, mentre intorno al 50% nei
rimanenti comparti, dati sostanzialmente stabili dal 1996 [Bordogna 1999]). I diversi comparti
risultano poi differenti rispetto ai rapporti di forza tra sindacati confederali e autonomi. Nel
personale della scuola risulta particolarmente forte la SNALS-CONFSAL (col 21,37% delle
deleghe, ma con una comunque robusta rappresentanza, mediamente del 10%, negli altri comparti),
che viene a porsi come una vera e propria quarta confederazione accanto a CGIL, CISL e UIL
[Bordogna e Carrieri 2008], e la Gilda degli insegnanti (col 6,18%), nata nel 1988 dal movimento
dei Cobas della scuola [Bordogna 1991]. Di minore ma non trascurabile importanza risultano poi le
Rappredentanze di Base (Rdb), che raccolgono una proporzione di deleghe tra il 2 e il 7% a seconda
del comparto, mentre di scarsa rilevanza risulta l’Unione Generale del Lavoro (UGL, filiazione
della CISNAL), che di rado supera l’1-2% delle deleghe (ma con un certo radicamento, intorno al
7%, nel nuovo comparto che raggruppa i dipendenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
La situazione di estrema frammentazione nel pubblico impiego risulta però in diminuzione nel
decennio 1998-2008. Nel 1996 nel settore pubblico esistevano ben 714 associazioni sindacali di
prima affiliazione (di cui il 52% raccoglievano meno dello 0,1% delle deleghe, l’11,5% con una
sola delega sottoscritta, e con una dimensione media, escludendo CGIL, CISL e UIL, di appena 565
membri), e 412 di seconda, con una particolare concentrazione nei comparti più piccoli e soprattutto
per le qualifiche dirigenziali [Bordogna 1999]. Un’opera di grande semplificazione viene perciò
82
operata dal Dlgs 396/1997, che fissa come soglia minima per la partecipazione alla contrattazione
nazionale di comparto una rappresentatività del 5% come media tra dato associativo e dato
elettorale. In questo modo «l’impianto legislativo, costruito in funzione della selezione dei soggetti
ammessi ai tavoli negoziali, ha operato una spinta culturale oltre che pratica verso meccanismi di
aggregazione del consenso. Le modifiche che ne sono derivate hanno spostato in molti casi la stessa
razionalità organizzativa in direzione della logica di intermediazione degli interessi e dei gruppi su
scala più larga che del passato. […] Questo incentiva le organizzazioni autonome a essere meno
specializzate e più trasversali nella loro logica di azione e di rappresentanza» [Bordogna e Carrieri
2008, 68]. Pertanto la principale evoluzione registrata nel decennio risulta una progressiva
“confederalizzazione” dell’azione sindacale nel settore pubblico (con la nascita della CGU,
Confederazione Gilda degli insegnanti-UNAMS, nel 2003, e un’azione dei principali sindacati
autonomi, UGL, CONFSAL e Rdb, sempre più affine a quella di CGIL, CISL e UIL), spinta anche
dall’azione dell’ARAN tesa a incentivare affiliazioni stabili tra i sindacati, riducendo i cartelli di
comodo nati al solo scopo di superare le soglie di rappresentatività minima [Bordogna e Carrieri
2008].
Le determinanti della sindacalizzazione
In conclusione, resta da chiarire se, sottoposta a un’analisi multivariata, l’Italia presenti delle cause
differenti rispetto al resto d’Europa per quanto riguarda i livelli o l’aumento e la diminuzione del
tasso di sindacalizzazione netto. Nonostante i pochi studi condotti sul caso italiano, si possono
comunque trarre delle conclusioni non del tutto differenti da quelle riferite nei modelli presentati nel
paragrafo 2.2.
Cominciando dalle variabili cicliche (cfr. par. 2.2.1), un primo studio di Daniele Checchi e
Giacomo Corneo [2000], riferito al periodo 1951-1994, testa le possibili variabili esplicative della
sindacalizzazione in un’ottica di lungo (in relazione al livello complessivo del tasso di
sindacalizzazione netto, calcolato solo sugli iscritti a CGIL e CISL), e breve periodo (in relazione
alle variazioni del tasso). Viene innanzitutto trovata, per quanto riguarda i fattori relativi al ciclo
economico, una relazione positiva tra la partecipazione dei lavoratori dipendenti ad attività di
sciopero, relative a questioni di lavoro, e sia la densità sindacale complessiva che la sua variazione.
Anche Davide La Valle [2001], analizzando il periodo 1960-1999, trova un impatto positivo e
statisticamente significativo dell’aumento del numero di giornate perse per sciopero e la crescita del
numero di iscritti attivi di CGIL e CISL nell’anno successivo, per quanto tale effetto risulti sempre
più di scarsa intensità, a causa della odierna minore attività conflittuale rispetto agli anni ’60-‘70. In
particolare l’effetto risulta, disaggregando, significativo per la sindacalizzazione del settore
83
industriale, ma non per quella nei servizi. Una peculiarità riguarda, poi, il fatto che il numero di ore
perse in conflitti estranei dal rapporto di lavoro tenda a ridurre la sindacalizzazione della CISL,
probabilmente in quanto «la crescita dei conflitti estranei al rapporto di lavoro in genere è collegata
all’insediamento di un governo “non amico” [della CISL…], nella quale hanno maggiore peso gli
iscritti nel settore pubblico, ossia una categoria di lavoratori per i quali il rapporto fra sindacato e
governo ha particolare importanza» [La Valle 2001, 110-111]. Sempre da Checchi e Corneo [2000],
poi, viene trovato nel breve periodo un forte effetto della crescita dei salari reali (per la maggior
parte contrattati dai sindacati) sulla crescita della densità sindacale, per quanto è più probabile che
l’effetto causale funzioni all’inverso, risultando le due variabili determinate congiuntamente (una
maggiore forza sindacale determina salari reali più elevati, risultato che non costituisce un beneficio
selettivo utile ad attrarre nuovi membri, vista la sostanziale applicabilità erga omnes dei risultati
della contrattazione). Una congiuntura economica favorevole, inoltre, approssimata con la crescita
dell’indice della produzione industriale, determina un aumento degli iscritti attivi dei sindacati
confederali. Il ciclo economico positivo aumenta i costi per l’imprenditore nell’opporsi al sindacato
(potendo scaricare eventuali aumenti del costo del lavoro su un mercato in espansione), rendendo
più facile l’opera di proselitismo. In particolare risulta avvantaggiata la CISL, in quanto per la sua
natura di sindacato-associazione risulta più facilitata nel fornire ai potenziali membri incentivi
basati sull’aumento di risorse materiali disponibili agli iscritti, più che sull’unità di classe come per
la CGIL [La Valle 2001]. Anche la disponibilità di un crescente surplus (inteso come la quantità di
risorse disponibili per la contrattazione collettiva eccedenti il salario di riserva, calcolato come
salario medio dei settori non sindacalizzati), gioca un ruolo positivo sulla densità sindacale, in
quanto «i funzionari sindacali italiani sembrano comportarsi strategicamente, promuovendo più
attivamente campagne di reclutamento laddove più grande sia il surplus disponibile» [Checchi e
Corneo 2000, 172]. In analogia con la letteratura internazionale, poi, anche in Italia l’aumento della
disoccupazione risulta avere un effetto negativo sulla sindacalizzazione [Checchi e Visser 2005],
colpendo in particolare la CGIL, vista la sua presenza maggioritaria in settori più soggetti a
fluttuazioni occupazionali in caso di congiuntura negativa (come quello industriale), rispetto alla
CISL, più rappresentativa nei settori protetti (come la pubblica amministrazione) [La Valle 2001].
Per quanto riguarda il ciclo politico, infine, la percentuale di voti ottenuti dai partiti di sinistra alle
elezioni più vicine non risulta una variabile significativa nello spiegare i livelli e le variazioni della
sindacalizzazione in Italia [Checchi e Corneo 2000]. E’ comunque da rilevare come, tra gli iscritti ai
diversi sindacati in condizione di lavoro dipendente nel settore privato, risulti esservi una differente
propensione di voto: tra gli iscritti alla CGIL, nel 2006, il 70% ha votato per la coalizione di centro-
sinistra, mentre solo il 17% per il centro-destra. Nella CISL, fatto che sottolinea la maggiore
84
indipendenza della confederazione da logiche partitiche definite, gli iscritti si sono divisi
sostanzialmente a metà tra le due coalizioni (42% al centro-sinistra e 40% al centro-destra), mentre
la UIL risulta leggermente meno divisa e caratterizzata da una maggiore propensione verso il
centro-sinistra (per cui ha votato il 48% dei membri, contro il 37% di consensi per lo schieramento
avverso). Risulta, comunque, come la maggior parte dei lavoratori dipendenti del settore privato
iscritti ai sindacati confederali siano in misura non indifferente orientati politicamente verso i partiti
di centro-sinistra [Feltrin 2006].
Una prima variabile strutturale (cfr. par. 2.2.2) presa in considerazione per il caso italiano è la
proporzione della forza lavoro maschile sul totale del lavoro dipendente: un aumento di tale
proporzione risulta avere un effetto intenso e significativo sulla crescita della sindacalizzazione nel
breve periodo, per quanto tale risultato non tenga conto delle caratteristiche del posto di lavoro.
Anche una maggiore proporzione di dipendenti del settore pubblico rispetto al totale gioca un ruolo
positivo sui livelli di sindacalizzazione, per quanto non significativo, coerentemente con quanto
discusso nel paragrafo 2.2.2 [Checchi e Corneo 2000; Checchi e Visser 2005]. La proporzione di
lavoratori nell’industria, solitamente intensamente correlato con una maggiore densità sindacale
[Lee 2005], in Italia non risulta esercitare un effetto significativo [Checchi e Corneo 2000].
Addirittura, a un’analisi statica non basata su serie temporali, Gabriele Ballarino [2005b] trova
come l’effetto della dimensione dell’occupazione dipendente nel settore industriale risulti negativo,
per quanto non superando di poco il test di significatività, nei confronti della densità sindacale, a
causa della frammentarietà del tessuto produttivo industriale italiano. Un ruolo interessante nel
promuovere la sindacalizzazione, invece, risulta essere il tessuto associativo presente sul territorio.
Un maggiore livello di capitale sociale o senso civico, misurato come numero di associazioni ogni
10.000 abitanti, risulta essere correlato positivamente a un maggiore livello di sindacalizzazione
complessivo, ed esercitare un effetto positivo e significativo, a parità di altri fattori, sulla
membership della CGIL [Ballarino 2005b]. La correlazione ecologica tra voto e sindacato risulta
particolarmente forte e intensa per la CGIL, ma non per la CISL (che sembra sfuggire a una logica
di appartenenza guidata da fattori politico-culturali), per quanto, a partire dagli anni ’80, si assista a
un’ampia diminuzione nella forza di tale relazione, soprattutto tra il voto a partiti di sinistra e il
sindacato “rosso” [Feltrin 2006]. Paolo Feltrin rileva, però, come curiosamente la percentuale di
voti ottenuti dal PCI nel 1987 sia correlata positivamente e in modo robusto con la
sindacalizzazione della CGIL nel 2002, più di quanto non lo siano i voti per i partiti del centro-
sinistra nel 2001. Questo indicherebbe come, anche in passato, fosse «infatti la subcultura politico-
territoriale la variabile che spiegava bene l’adesione al sindacato “rosso”, e non, genericamente, il
85
voto a sinistra» [Feltrin 2005, 83], confermando l’importante ruolo di fattori legati al capitale
sociale e alla cultura associativa, per lo meno per il principale sindacato italiano, nell’adesione.
I fattori istituzionali (cfr. par. 2.2.3), infine, al pari della maggioranza dei paesi europei, risultano
essere di grande importanza per l’esperienza italiana. Checchi e Corneo [2000] trovano come
l’introduzione dello Statuto dei lavoratori, nel 1970, abbia giocato un ruolo di gran lunga superiore,
rispetto agli altri fattori ciclici e strutturali analizzati, sull’aumento della densità sindacale in Italia,
confermando il ruolo cruciale di una legislazione promozionale alla presenza del lavoro organizzato
sul posto di lavoro nell’incentivare la crescita delle associazioni sindacali. Tale variabile assume un
ruolo forte e significativo anche nel modello di Checchi e Visser [2005], qualora applicato alla sola
Italia. Un ultimo fattore, coerentemente con la teoria, utile nello spiegare la crescita della
sindacalizzazione, risulta la centralizzazione della contrattazione, in quanto utile nel ridurre
l’opposizione al sindacato in azienda da parte del management [Checchi e Corneo 2000].
In conclusione, l’Italia sembra presentare diversi tratti affini, per quanto riguarda il percorso della
sindacalizzazione, rispetto allo scenario europeo, pur con alcune peculiarità. Accanto a fattori
comuni (come il ruolo negativo della disoccupazione o quello positivo della crescita dei dipendenti
pubblici), vi sono delle differenze che tendono ad allontanarla da uno scenario condiviso,
primariamente la particolarità di un settore manifatturiero fondato sulla piccola impresa di difficile
sindacalizzazione, una discreta capacità nell’intercettare la nuova domanda in alcuni settori del
terziario privato (come il credito: contrariamente alla maggior parte dei paesi, la nuova occupazione
sembra avere un effetto positivo sulla densità sindacale, seppur non raggiungendo la significatività
[Checchi e Visser 2005]), e un buon rapporto del sindacato con la crescente immigrazione (cfr. par.
2.2.2). Inoltre, il relativamente tardo riconoscimento del sindacato sul luogo di lavoro, dopo una
strenua opposizione imprenditoriale durante gli anni ’50 [Pepe 1996], ha contribuito a creare una
cesura netta nel 1970, rendendo il trend di sindacalizzazione profondamente diverso dagli altri paesi
conservatori, e composto da due massimi (l’inizio degli anni ’50 e la fine dei ’70) e due minimi (gli
anni ’60 e gli anni dopo il 2000) molto distanziati tra loro (mediamente di venti punti percentuali),
invece che da un andamento più regolare, pur caratterizzato da oscillazioni (per quanto meno ampie,
cfr. par. 2.1). Anche la più elevata conflittualità (per quanto riguarda sia frequenza, partecipazione
che giornate di lavoro perse), esplosa negli anni ’60 e ’70 con non trascurabili strascichi negli anni
’80, rispetto agli altri paesi europei (anche particolarmente colpiti dall’ondata del ’68, come la
Francia), può aver contribuito a far assumere un andamento del tutto particolare alla
sindacalizzazione in Italia [Bordogna e Cella 2001].
86
III.
IL FUTURO DELLA PRESENZA DEL SINDACATO
3.1 L’attore sindacale
Declino o ripiegamento?
Il declino della sindacalizzazione nella maggior parte delle economie occidentali è un dato ormai
costante da circa trent’anni, e, per quanto i tassi di sindacalizzazione dei diversi paesi non abbiano
ancora cominciato a convergere, sembra poco probabile una ripresa della crescita, generalizzata o
anche localizzata in quei paesi che storicamente hanno costituito un terreno fertile per la presenza
sindacale (cfr. par. 2.1). Per quanto le differenze istituzionali contribuiranno a mantenere una
pluralità di livelli di membership sindacale estremamente differenziata, le associazioni di
rappresentanza dei lavoratori si trovano ora più che mai di fronte a sfide comuni di larga scala, con
caratteristiche difficilmente affrontate in precedenza [Calmfors et al. 2002]. I sindacati europei si
trovano in particolare di fronte a due importanti sfide: il rapido cambiamento tecnologico e
l’integrazione economica europea (intesa sia come controllo centralizzato della politica monetaria
che come allargamento a est dell’Unione) [Boeri 2003; Visser 2005]. Il mercato del lavoro delle
società dei servizi è sempre più caratterizzato da un generale upskilling delle competenze
occupazionali (pur con possibili effetti di polarizzazione a causa dell’espansione dell’occupazione
nei servizi a bassa qualificazione) [Reyneri 2005b], mentre cresce a un ritmo incalzante la
proporzione dei lavoratori della conoscenza rispetto alle occupazioni manuali: i knowledge workers,
cioè sostanzialmente gli scienziati, gli artisti, i manager, i professional e i technician, sono passati,
nel 2005, a rappresentare tra il 40 e il 50% dell’occupazione, rispetto al 30-40% di un decennio
prima in Italia, Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Germania, mentre in Spagna sono aumentati dal
20 al 30% [Butera 2008]. A ciò si accompagna un’espansione delle «opportunità di carriera
precedentemente sconosciute e maggiore responsabilità, potere e controllo sulla vita dell’impresa, a
quei lavoratori che sanno giostrarsi fra le diverse aree funzionali dell’impresa. Ma solo a loro»
[Boeri 2003, 118]. Se uno degli obbiettivi storici del sindacato è sempre stato quello di contenere i
divari retributivi, evitando la concorrenza tra i lavoratori e fornendo un’assicurazione ai dipendenti
anche di diversa qualificazione nel mantenimento del posto di lavoro e dei livelli retributivi, tale
evoluzione della società non può che rimettere in discussione tali obbiettivi. Laddove i sindacati
sono più deboli (ove, cioè, la sindacalizzazione è inferiore), i differenziali retributivi risultano più
elevati, e tale correlazione è diventata sempre più intensa nel passare dagli anni ’80 ai ’90 [Boeri e
Checchi 2001]. La crescita nella richiesta di professionalità elevate e la flessibilizzazione del
87
mercato del lavoro, portano sempre più a una situazione in cui «l’assicurazione offerta dal sindacato
costa troppo, nel senso che comporta rinunce a salari molto più alti e conta di meno la stabilità
dell’impiego, che peraltro il sindacato è sempre meno in grado di garantire» [Boeri 2003, 119].
Risulta, infatti, come l’aumento dei divari retributivi sia sistematicamente correlato a un declino
della sindacalizzazione nel periodo immediatamente successivo: tale effetto si eserciterebbe
nell’allontanarsi sia delle retribuzioni più alte che di quelle più basse dalla retribuzione mediana.
Questo effetto si eserciterebbe in quanto «da un lato, le prime trovano “troppo elevato” il costo
della protezione sindacale, dall’altro le seconde (su cui è aumentato significativamente il rischio di
disoccupazione) trovano la stessa protezione sempre meno “efficace”» [Boeri e Checchi 2001, 103].
Allo stesso tempo, se il nuovo proletariato è destinato a crescere nei servizi a bassa qualificazione e
basso salario, lontani dalle aggregazioni lavorative e produttive di massa [Paci 1996], vi è la
possibilità che venga meno anche la base sociale storicamente associata all’attività sindacale, cioè la
grande massa di lavoro a medio-bassa qualificazione. Il processo di globalizzazione e l’integrazione
europea, infine, «stanno rendendo più difficile e costoso in termini di performance economica la
fornitura di assicurazione contro il rischio di mercato con vecchi strumenti, quali regimi di
protezione dell’impiego molto restrittivi» [Boeri 2003, 119]. Le politiche monetarie vengono poi
sottratte agli stati nazionali e centralizzate nella Banca Centrale Europea, in un’ottica di
contenimento dell’inflazione. In tal modo l’offerta di moderazione salariale offerta dai sindacati,
sempre meno credibile anche a causa del crollo degli iscritti [Visser 1994], diviene soltanto una
second best (contrariamente alle precedenti prassi corporative), risultando più efficace un controllo
di tipo monetarista dell’offerta, sottraendo così sempre più ambiti d’azione alle organizzazioni
sindacali [Visser 2005; Streeck 2006].
Tuttavia, accanto alle seppur evidenti difficoltà di azione del sindacato, amplificate dal declino della
sindacalizzazione del lavoro dipendente, è possibile parlare di un declino del sindacato tout court?
Secondo Guido Baglioni [2008], più che di un declino vero e proprio (di cui si potrebbe parlare solo
in caso di scomparsa delle funzioni e dei significati dell’esperienza sindacale), si starebbe
assistendo a un ripiegamento, manifestatosi in una riduzione della presenza e del peso sindacale e
della conseguente capacità di perseguimento degli obbiettivi, e determinato da una situazione di
“accerchiamento”. Ad oggi le condizioni del lavoro dipendente non sarebbero più la questione
sociale decisiva, subendo la concorrenza di numerosi altri fattori, divenuti “problemi sociali più
rilevanti del rapporto di lavoro”. L’invecchiamento della popolazione sposterebbe l’attenzione dai
rapporti di lavoro agli aspetti previdenziali degli stessi, mettendo al centro della scena nuovi
problemi sempre più rilevanti, come l’assistenza agli anziani e la tutela della salute, a cui sarebbero
dedicate sempre più risorse. Inoltre, il processo di integrazione economica e monetaria europea e la
88
collegata lunga fase di moderazione salariale, hanno riportato al centro dell’attenzione politica e
sociale il tema della difesa del consumatore, la cui superiorità di «impostazione sarebbe ravvisabile
nel fatto che i consumatori sono meno tutelati dei lavoratori; il soggetto di riferimento diventa il
nucleo familiare; i provvedimenti assunti riguardano tutti i cittadini […]. Il lavoratore vede svanire
la sua identità collettiva per diventare una parte, una quota indifferenziata, nell’universo dei
consumatori. In più, una tutela del lavoro con obiettivi rivendicativi potrebbe essere un ostacolo ai
vantaggi prodotti dalla concorrenza» [Baglioni 2008, 96]. Infine, a causa della maggiore flessibilità
occupazionale richiesta dal sistema produttivo e la maggiore eterogeneità dei rapporti di lavoro, la
tutela tende a spostarsi sempre più dal rapporto di lavoro al mercato del lavoro, accerchiando la
tutela sindacale nell’impresa e spingendola verso l’esterno. Della stessa opinione sembrano essere
Philippe Pochet e Giuseppe Fajertag, secondo cui gli anni ’90 hanno visto l’emergere, accanto alla
tradizionale contrattazione degli interessi funzionali dei lavoratori, della rilevanza di nuove
questioni sociali relative alla qualità della vita, come la non discriminazione delle minoranze, lo
stress, l’esclusione sociale, la mobilità e i costi abitativi, tali da spiazzare le coalizioni di interessi
tradizionali. Infatti, «se le ore di lavoro sono ridotte ma i tempi di spostamento per lavorare
crescono, e se la crescita dei salari è assorbita dai crescenti prezzi di proprietà della casa, il risultato
netto è effettivamente meno favorevole di quanto le cifre implicherebbero. In questi campi la
legittimità dei sindacati non può essere data per scontata, e altri gruppi di pressione o associazioni
di cittadini prendono il centro della scena» [Pochet e Fajertag 2000, 37].
Una prova ulteriore contro l’ipotesi del declino del sindacato in generale può essere portata dal
consenso di cui ancora gode la sua azione, nella società in generale e tra i lavoratori in particolare.
Secondo una rilevazione del 2002 dell’European Social Survey, condotta su un campione
rappresentativo di oltre 40.000 cittadini europei, il consenso sociale all’azione del sindacato nella
difesa delle condizioni di lavoro sarebbe ancora molto elevato. Alla domanda “Secondo Lei i
lavoratori hanno bisogno di sindacati forti per proteggere le condizioni di lavoro e i salari?” si sono
dichiarati “d’accordo” o “molto d’accordo” sistematicamente più del 70% degli intervistati. Vi sono
naturalmente delle differenze di opinione tra paesi, con percentuali di accordo minime in Germania,
Regno Unito e Belgio (con valori comunque elevati, tra il 65 e il 68%), e massime in Grecia,
Ungheria e Polonia (tra l’83 e il 90%), mentre valori intermedi, comunque sempre molto elevati, si
trovano nei restanti paesi (tutti compresi tra il 70 e l’80%). La percentuale di intervistati favorevoli
si dimostra sistematicamente più alta tra gli iscritti al sindacato, mentre tra i non iscritti (né
attualmente, né in passato) l’accordo non scende comunque in nessun caso al di sotto del 60%
(spesso arrivando addirittura a superare il 70 o l’80%) [Feltrin 2007]. Anche la legittimità del
sindacato all’interno dell’impresa non sembra essere contestata. A metà degli anni ’90, la
89
partecipazione dei lavoratori alle elezioni per le diverse forme di work council risultava ancora
molto elevata, coinvolgendo il 65-80% degli aventi diritto al voto nei principali paesi europei. E,
nonostante l’appartenenza al sindacato non sia un prerequisito per l’elettorato passivo in tale
particolare forma di rappresentanza, il tasso di sindacalizzazione degli eletti oscillava tra il 65-75%
in Olanda, Francia e Germania, e l’80-100% in Belgio, Austria, Spagna e Italia [Calmfors et al.
2002]. Questi dati non confermano perciò l’ipotesi del netto declino dei significati dell’azione
sindacale, e, anzi, ne forniscono un’immagine di forza e legittimazione ben diversa da quella
registrata dalla misurazione meramente quantitativa della sindacalizzazione del lavoro dipendente.
Si starebbe, piuttosto, allargando la forbice tra “presenza e influenza”, ponendo indubbiamente dei
problemi inediti sulle possibilità rivendicative del sindacato, ma non minando necessariamente, «in
non pochi casi, il grado di coinvolgimento, il ruolo condizionante del sindacato sulle principali
scelte di politica economica [che] non sembra avere minimamente risentito della tendenza al calo
degli iscritti» [Boeri e Checchi 2001, 89].
Reazioni adattive
Le profonde trasformazioni del tessuto produttivo e della struttura di classe delle società occidentali
negli ultimi vent’anni del ‘900 hanno, inevitabilmente, indotto le associazioni sindacali a profonde
trasformazioni, sia di struttura che nei metodi di tutela del mondo del lavoro. Uno dei problemi
principali a cui si trovano a far fronte i sindacati riguarda le ristrettezze finanziarie causate dal
profondo declino degli iscritti. In diversi paesi europei il declino delle entrate è stato parzialmente
compensato dall’aumento del numero di tesserati ritirati del mercato del lavoro (come in Italia, con
le federazioni dei pensionati) [Visser 2006], ma il problema non può considerarsi risolto, a causa
dei solitamente inferiori costi di tesseramento richiesti a queste categorie di iscritti [Streeck e Visser
1998]. Una delle strategie seguite dai sindacati nel contrastare una situazione di risorse disponibili
decrescenti è quella dei mergers tra federazioni, tesi a sfruttare nuove economie di scale fondate su
nuovi sindacati inter-settoriali con un maggiore numero di membri e minori costi amministrativi.
Tra il 1980 e il 1995-97, il numero di federazioni affiliate alla confederazione principale in ogni
paese si è ulteriormente ridotto, passando da 15 a 14 nella Österreichischer Gewerkschaftsbund
(OGB) austriaca, da 18 a 12 nella Deutscher Gewerkschaftsbund (DGB) tedesca, da 17 a 15 nella
Federatie Nederlandse Vakbeweging (FNV) olandese, nella Landsorganisationen (LO) danese da 35
a 24, da 35 a 28 in quella norvegese e da 24 a 21 in quella svedese, mentre da 108 a 73 nel Trade
Union Congress (TUC) inglese [Streeck e Visser 1998; Ebbinghaus e Visser 2000]. Una teoria
economica della riorganizzazione del sindacato è elaborata da Wolfgang Streeck e Jelle Visser
[1998]. La spinta principale nel razionalizzare la struttura organizzativa tramite fusioni tra
90
federazioni è data dalle declinanti economie di scala dei sindacati settoriali: dal momento in cui il
calo della membership nei settori storicamente più sindacalizzati non viene compensato dalla
crescita, trainata dall’aumento occupazionale nel terziario, degli iscritti nei settori meno
sindacalizzati, il costo unitario per membro nel fornire servizi e attività si alza notevolmente, a
causa delle minori entrate assicurate da una sempre più ridotta base associativa. Inoltre, la tendenza
verso l’outosurcing e l’economia dei servizi, che sposta il baricentro del sistema dalla grande
azienda alla rete di piccole imprese, rende più costoso il mantenere il contatto coi membri ormai
dispersi sul territorio. Pertanto, «la pressione verso le fusioni è, ovviamente, più impellente se la
crescita naturale delle iscrizioni sta stagnando o è diventata molto costosa. Questo può sicuramente
essere il caso anche di molti sindacati tradizionali, che possono in passato essersi appoggiati
sull’organizzazione dei lavoratori delle grandi imprese, ma ora si trovano di fronte alla sfida non
solo di organizzare, ma anche di servire la dispersa e mobile popolazione impiegata nelle piccole
imprese e in relazioni d’impiego instabili» [Streeck e Visser 1998, 37]. Un altro punto tocca i
problemi di “malattia da costi” che possono sorgere nei sindacati come in qualsiasi altra
organizzazione distributrice di servizi labour intensive. L’aumento degli stipendi dei funzionari
deve essere compensato da un parallelo aumento delle entrate raccolte col tesseramento, e, inoltre,
vista la natura sempre più complessa del mercato del lavoro, i sindacati saranno spinti ad acquisire
personale sempre più professionale, specializzato e costoso (per funzioni di ricerca o di pubbliche
relazioni). In tal modo si rende necessaria una compressione dei costi del personale, ad esempio
accentrando le funzioni più specializzate in federazioni sindacali più encompassing, costituite dalla
fusione di più federazioni. Inoltre, l’aumento dei costi associativi rende, tendenzialmente, i membri
molto più esigenti rispetto ai servizi forniti dal sindacato, aumentandone la domanda soprattutto nei
momenti di crisi. Il paradosso risiede nel fatto che «l’economia dell’organizzazione sindacale
richiede che la maggior parte dei membri, la maggior parte del tempo, non abbiano bisogno del
sindacato e non richiedano i suoi servizi se non per la protezione collettiva offerta» [Streeck e
Visser 1998, 41]. Pertanto, secondo i due autori, un sindacato potrà mantenersi in vita e autonomo
solo in caso superi una “dimensione assoluta”, determinata «soprattutto dalle condizioni
geografiche, specialmente le dimensioni del territorio servito, la densità spaziale degli stabilimenti
sul territorio, e la distribuzione dei membri tra le unità lavorative» [Streeck e Visser 1998, 46]. Le
conseguenze di tale situazione si esplicano fondamentalmente nell’assorbimento di piccoli
sindacati, al di sotto di una dimensione assoluta di sopravvivenza, da parte delle grandi federazioni,
interessate a espandere la propria area di influenza: sacrificando l’omogeneità interna per una
ripresa delle economie di scala, «i conglomerati sindacali rappresentano un nuovo equilibrio tra le
considerazioni economiche e politiche delle organizzazioni sindacali» [Streeck e Visser 1998, 47].
91
In particolare, le vecchie federazioni dell’industria, con una base sempre più ristretta ma con una
forte struttura organizzativa, possono risultare interessate nell’associarsi alle più recenti federazioni
dei servizi, con una membership potenziale in forte espansione ma ancora pochi mezzi ed
esperienza [Calmfors et al. 2002]. Il risultato sarebbe un processo verso le conglomerate unions,
sempre più simili ai sindacati generali anglosassoni, risultanti in una fornitura di servizi sempre più
centralizzata e una rappresentanza e partecipazione più decentralizzata allo stesso tempo (a causa
dell’elevato numero di settori, e relativi contratti collettivi, entrati nel dominio del nuovo
conglomerato sindacale).
Secondo Paolo Feltrin il sindacato, a seguito della crisi degli anni ’80, ha risposto al declino della
sindacalizzazione concentrandosi principalmente su due arene: «l’arena delle relazioni sindacali
(negoziazione), trainata dalla logica della membership (più iscritti); l’arena politico-istituzionale,
trainata dalla logica dell’influenza (più voti)» [Feltrin 2006, 37]. Negli ultimi 15-20 anni la seconda
strategia sembra, però, essere stata preferenziale e strumento privilegiato nel tentare di compensare
le difficoltà esperite sul terreno delle relazioni industriali a causa del calo della militanza
complessiva. Il risultato sarebbe stato lo scostamento dell’attività sindacale, nella maggior parte dei
paesi occidentali, dai modelli prevalenti nella fase del capitalismo fordista: il sindacalismo di tipo
unionista, fondato sulla negoziazione a favore degli iscritti (tipico del mondo anglosassone); il
sindacalismo di classe, basato sull’incentivo identitario di unità della classe lavoratrice; il
sindacalismo corporatista, tipico dei paesi centro-nord europei, e costruito sulla concertazione delle
politiche economiche. Il sindacato del nuovo millennio rientrerebbe invece in una logica di social
coalition, sarebbe cioè fondato sulla tutela di interessi sociali generali, fortemente sbilanciato verso
l’azione politica e di lobbying parlamentare (per quanto in modo meno sistematico e strutturale
rispetto al modello corporativo), e altrettanto fortemente indirizzato alla fornitura di servizi ai
membri, sempre più intesi in una logica di incentivo selettivo in modo da contrastare il calo delle
iscrizioni, o di sub-fornitura di servizi pubblici a favore dell’intera collettività, in una logica di
influenza sociale. In particolare, le organizzazioni dei lavoratori si sarebbero convertite nell’ultimo
baluardo di difesa del welfare, supplendo ai vuoti di rappresentanza politica in tale ambito per cui
esiste ancora una forte domanda [Feltrin 2006]. Rispetto all’impegno profuso principalmente nelle
relazioni industriali, il modello politico agisce in un’ottica più difensiva che adattiva (cfr. par. 2.1),
«preferendo una tutela contrattuale o legislativa che preservi la relativa omogeneità dei trattamenti
piuttosto che la loro articolazione» [Baglioni 2008, 195]. Tale modello potrebbe anche essere
destinato ad avere più chances grazie alla molteplicità dei suoi obbiettivi (c.d. issue linkage, cioè
l’idea che l’allargamento delle negoziazioni a un numero elevato di oggetti renda più facile il
raggiungimento di un accordo [Acocella et al. 2006]), e al suo minore risentire della modestia dei
92
risultati conseguiti, rispetto ai risultati percettibili e misurabili, riguardanti un numero inferiore di
obbiettivi, tipici dell’agone delle relazioni industriali [Baglioni 2008].
Un altro problema di sempre maggiore rilievo per i sindacati europei riguarda la crescente
proporzione di lavoratori assunti con contratti atipici o non-standard (comprendendo, sotto questa
definizione in negativo, tutti i tipi rapporto di lavoro differenti dal contratto full-time in posizione di
dipendenza e stipulato a tempo indeterminato: part-time, lavoro parasubordinato, autonomo di
seconda generazione, interinale, a tempo determinato, etc…) [Cella 2001; Ballarino 2002]. Lungi
dall’aver soppiantato il lavoro full-time a tempo indeterminato, i lavoratori atipici rappresentano
comunque una quota non trascurabile dell’occupazione, in ulteriore aumento negli anni ’90 e nel
primo decennio dopo il volgere del secolo: secondo Eurostat la percentuale di lavoratori dipendenti
con contratto a tempo determinato, tra i paesi aderenti all’Unione Europea, è passata dall’11,2% nel
1992 al 14,5% nel 2007, mentre i lavoratori part-time, nello stesso periodo, sono passati dal 14,2%
al 18,2% dell’occupazione complessiva. Il lavoro autonomo non agricolo, dal 1980 al 2000, ha
subito un certo incremento, pur non uniformemente distribuito, aumentando in media dell’1,68%
nell’Europa a 15 più la Norvegia, aumento però sostanzialmente concentrato nei soli anni ’80 (nel
decennio seguente si è anzi assistito a una lieve flessione) [Eiro 2002b]. Il lavoro parasubordinato,
invece, per quanto di più difficile stima, non presenta cifre significative (essendo compreso,
all’inizio del nuovo millennio, tra meno dell’1% dell’occupazione non agricola in Danimarca,
Grecia, Portogallo e sotto il 3% in Belgio, Germania, Olanda e Austria), per quanto in alcuni paesi
risulti in rapida crescita (soprattutto Austria, Germania, Grecia e Portogallo) [Eiro 2002b; Pernicka
2005]. Ciò nonostante, vista la solitamente minore protezione legislativa e il più forte rischio di
disoccupazione, il lavoro atipico può presentare un ulteriore bacino di espansione del sindacato,
utile a compensare la perdita di adesioni nei settori tradizionali e in quelli in espansione. Secondo
Gian Primo Cella [2001], la protezione del lavoro non-standard non può più fondarsi sui
presupposti del lavoro tipico della cui protezione si sono fatti portatori i sindacati negli anni d’oro
del fordismo. La forte mobilità e l’elevato turn over di questi lavoratori rende, infatti, impossibile
un sistema di rappresentanza fondato sull’appartenenza continuativa a reti di solidarietà locali
costruite a livello di stabilimento. Il metodo della rappresentanza, invece, potrebbe giovarsi di una
ripresa di tecniche sindacali ormai appartenenti al passato, superate dal moderno sindacalismo
industriale. Si riproporrebbe, a un secolo di distanza, l’opportunità «di rappresentare i lavoratori
mobili del XXI secolo, per i quali si sono erose le chiare e tradizionali linee di demarcazione fra
lavoro dipendente e autonomo, attraverso modelli organizzativi e contrattuali tipici di quel
sindacalismo “occupazionale” (intesa come variante più aperta di quello di mestiere) che sembrava
inesorabilmente sconfitto dai trionfi del sindacato industriale […]. In contesti di alta mobilità del
93
lavoro, quello che sindacalmente più conta non è tanto la difesa e la rappresentanza di quanto
“dipendente” vi è nel lavoro, bensì il rafforzamento del potere contrattuale di ciascun lavoratore (o
di ciascun gruppo)» [Cella 2001, 209-210]. Il riferimento storico per eccellenza è il sistema di
“indennità di migrazione” diffuso nelle craft unions inglesi tra il settecento e l’ottocento, indennità
pagate agli artigiani organizzati, durante la loro ricerca itinerante di lavoro sul territorio nazionale:
«la migrazione aumentava molto il potere contrattuale degli operai […]. Col sistema di trasferire i
disoccupati via dalle zone morte e di tenerli in circolazione, la migrazione permetteva di contenere
l’offerta sul mercato del lavoro» [Hobsbawm 1972, 50]. Pertanto, in analogia con tale sistema, la
rappresentanza dei lavoratori atipici, per risultare più efficace, dovrebbe riprendere alcuni elementi
risalenti alla nascita del sindacalismo, puntando verso un «rafforzamento che si ottiene impedendo
la caduta della capacità negoziale dei singoli (attraverso benefici, assistenza, reti solidaristiche) e
controllando la concorrenza operante in una determinata occupazione» [Cella 2001, 210].
Le risposte dei sindacati europei rispetto all’organizzazione dei lavoratori atipici sono state diverse.
Per quanto considerati meno “appetibili” [Calmfors et al. 2002], e dopo una fase iniziale di rifiuto,
l’organizzazione di lavoratori a tempo determinato o part-time ha preso piede nelle federazioni
industriali in modo non troppo differente dalle forme classiche, grazie anche alla parità di
trattamento solitamente assicurata da leggi o contrattazione collettiva per lavoratori, per quanto
non-standard, rientranti nell’alveo del lavoro dipendente [Ballarino 2002; Pernicka 2005]. Di più
difficile soluzione è risultata la rappresentanza dei lavoratori parasubordinati (gli economic
dependent self-employed workers). A causa della loro natura formalmente autonoma, solo di recente
le strategie sindacali si sono mosse in controtendenza rispetto all’iniziale rifiuto della loro
rappresentanza (derivante dal considerare una distorsione e un indebolimento degli interessi
omogenei del lavoro dipendente l’assunzione della loro tutela). Le direzioni di azione più recenti si
sono suddivise, accanto a una sostanziale indifferenza delle confederazioni francesi, belga,
portoghesi e la CNV olandese, tra un intervento di integrazione dei lavoratori subordinati nelle
esistenti federazioni e la creazione di strutture ad hoc per tali posizioni. Nel primo caso rientrano,
tra le altre, la HK danese (sindacato del commercio e dei lavoratori white-collar), con la nascita di
una sezione apposita per i lavoratori freelancer nel 2001, la GPA austriaca (lavoratori dei servizi),
con il lancio del progetto “work@flex”, nel 2001, per attirare i parasubordinati, e la tedesca VerDi,
col progetto “connexx” partito nel 1999, prima ancora della sua costituzione a seguito della fusione
di cinque sindacati dei servizi. Nella seconda area di intervento rientrano l’Italia (vedi infra), la
Spagna, con la costituzione per la sola Catalogna di un sindacato nuovo dedicato esclusivamente ai
lavoratori economicamente dipendenti ma formalmente autonomi nel 2000 (TRADE, affiliato alla
CCOO catalana), e l’olandese FNV, con la nascita dell’FNV-Zelfstandigen nel 1999, dedicato ai
94
lavoratori autonomi [Eiro 2002b]. Esistono in realtà esperienze precedenti, rispetto
all’organizzazione dei lavoratori parasubordinati, per quanto solitamente limitate ai sindacati legati
ai settori dell’informazione e delle comunicazioni dove, ad esempio nel settore del giornalismo,
sono molto diffusi i lavoratori freelance (è il caso del Regno Unito, della Svezia, dell’Austria e
della Germania) [Eiro 200b; Pernicka 2005]. Le strategie più diffuse nella tutela del lavoro
parasubordinato riguardano, principalmente, l’offerta di protezione sociale e assicurativa atta a
coprire i rischi derivanti dallo statuto formalmente non dipendente del lavoro, la messa a
disposizione di servizi e supporto al collocamento e la fornitura di nuovi servizi orientati verso la
consulenza e la formazione professionale, oltre alla più classica assistenza legale nelle dispute di
lavoro [Eiro 2002b]. Allo stesso tempo è presente una crescente attività di pressione politica tesa a
garantire una maggiore tutela legislativa a tali categorie di lavoro (per esempio tramite una
parificazione al lavoro dipendente relativamente all’assistenza sociale), e diversi tentativi di
contrattazione collettiva, per quanto di non particolare successo al di fuori dei settori delle
comunicazioni dove era già precedentemente diffusa [Pernicka 2005].
Un caso sostanzialmente unico nel panorama europeo è quello italiano dove, da ormai circa un
decennio, esistono tre sindacati specifici, affiliati alle tre principali confederazioni, dedicati ai
lavoratori atipici: il NIdiL-CGIL (Nuove Identità di Lavoro, nata nel 1998), l’ALAI-CISL
(Associazione Lavoratori Atipici e Interinali, 1998) e il CPO-UIL (Coordinamento Per
l’Occupazione, 1997). Mentre il NIdiL associa soprattutto lavoratori autonomi (occasionali,
coordinati e continuativi, con partita IVA, soci di cooperativa) e interinali, «ALAI e CPO, pur non
trascurando quest’area di intervento, si rivolgono anche a quelle tipologie di lavoratori derivate
dalla legislazione a sostegno dell’occupazione e, ma ciò vale unicamente per il CPO, ai
disoccupati» [Vettor 1999, 626]. Una rappresentanza specifica per queste tipologie di lavoratori è
emersa anche in alternativa all’atteggiamento delle categorie tradizionali nei confronti di tali forme
contrattuali. Le strategie classiche del sindacato italiano, infatti, si configurano innanzitutto nel
rifiuto dell’introduzione in azienda di tali rapporti, o, laddove impossibilitati a impedirne l’accesso,
in varie strategie di stabilizzazione degli stessi: vengono solitamente richieste garanzie
sull’assunzione dei lavoratori non dipendenti, o, nei settori solitamente caratterizzati da ampie
sacche di lavoro nero o grigio come l’edilizia, si tenta di contrattualizzare la posizione lavorativa,
prendendo atto del continuum regolativo disponibile e tentando di avvicinare quanto più possibile i
lavoratori al sistema delle garanzie [Ballarino 2002]. La rappresentanza dei tre nuovi sindacati
atipici si differenzia in modo sostanziale dai modi e dagli strumenti delle federazioni, e questo non
avviene in assenza di conflitti con i sindacati storici. In particolare, mentre ALAI e CPO riescono a
muoversi in un’ottica territoriale contattando i lavoratori singolarmente, il NIdiL è costretto ad agire
95
con strumenti di “copromozione” in stretto coordinamento con i sindacati di categoria operanti in
azienda (i cui dirigenti siedono nel comitato direttivo del NIdiL) [Ballarino 2002; 2005a]. L’azione
di tutela, poi, raccogliendo alcuni dei suggerimenti di Cella sopra esposti, si delinea lungo tre
direzioni principali. Innanzitutto l’asse portante dell’intervento diventa la dimensione territoriale
piuttosto che quella settoriale: questo crea non pochi problemi, in quanto l’incontro tra i membri,
sparsi tra le diverse aziende della provincia e spesso in contesti di assenza sindacale, risulta
particolarmente difficoltoso, e non tutte le strutture territoriali confederali sono disposte a investire
tempo e risorse in tal senso. L’azione, poi, è improntata a un certo pragmatismo, che tenga conto,
anche nel definire gli obbiettivi, dei vincoli e delle opportunità offerte dal contesto. Infine, «l’azione
ha luogo in base a strategie diversificate, che comprendono iniziativa contrattuale, assistenza
associativa su base individuale, intervento istituzionale, a livello nazionale e a livello locale»
[Ballarino 2002, 243]. L’assistenza individuale, con la fornitura, oltre ai servizi tipici delle
organizzazioni sindacali, di strumenti mirati per i lavoratori non-standard (come i corsi di diritto del
lavoro, sui colloqui di formazione o sulla gestione della partita IVA forniti dal NIdiL), è finalizzata
in particolare a fornire ai lavoratori strumenti per aumentare la propria forza di mercato [Ballarino
2002]. Più modesti appaiono invece i risultati derivanti dall’attività di contrattazione collettiva, in
quanto «la contrattazione ha avuto esito positivo solo quando il datore si è reso disponibile: in molti
altri casi, l’opposizione del datore ha vanificato gli sforzi di lavoratori e dirigenti sindacali»
[Ballarino 2005a, 186]. Questo può derivare dalla ancora scarsa diffusione del tesseramento
sindacale e dalla inferiore mobilitazione del lavoro atipico, in particolare in riferimento alle tre
neonate strutture confederali. Tra il 1998 e il 2008 le tessere di ALAI e NIdiL sono passate da 3.600
circa a più di 65.000, un’espansione notevole, ma del tutto insufficiente rispetto alla base di
lavoratori autonomi o non standard potenzialmente sindacalizzabili. Dal punto di vista istituzionale,
infine, le pressioni politiche dei sindacati degli atipici sono dirette verso una riforma dello stato
sociale più favorevole agli stessi e tale da creare una cittadinanza sociale non sfavorevole al lavoro
autonomo, «nel senso di estendere la rete delle protezioni sociali mediante l’utilizzo, in particolare,
della leva della fiscalità generale, allargare le tutele del lavoro e predisporre per tutti, a prescindere
dalla qualificazione del rapporto, diritti generali indisponibili» [Vettor 1999, 628-629].
96
3.2 Il futuro dei sistemi di relazioni industriali
Posto l’ormai trentennale declino della membership sindacale nel mondo occidentale, pur
accompagnato, nella maggior parte dei casi, da una persistenza del ruolo politico degli interessi
organizzati all’interno della società, resta da chiedersi in che direzione si stiano evolvendo i sistemi
di relazioni industriali nazionali. Le posizioni non sono unanimi, e, ancora una volta, si dividono tra
le teorie che indicano come possibile evoluzione una crescente convergenza sistemica, e quelle che
prevedono una persistenza delle diversità istituzionali, o, eventualmente, un’ulteriore
differenziazione. Nella prima delle seguenti sezioni verranno perciò analizzate le direzioni
intraprese dai diversi sistemi di relazioni industriali a seguito del periodo di crisi del sindacalismo
degli ultimi trent’anni, mentre nella seconda verrà esplorata la particolare rinascita delle politiche di
concertazione nazionale negli anni ’90 tramite la prassi dei c.d. “patti sociali”.
Convergenza o divergenza?
A seguito della crescente liberalizzazione e integrazione dei mercati mondiali si assiste alla
possibilità che regimi, una volta protetti e differenziati tra loro, siano spinti ad assomigliarsi sempre
più, dovendo adattarsi, a causa della crescente competizione internazionale, a convergere verso un
unico modello economico e di relazioni industriali, potenzialmente più adatto nel rispondere alle
sempre più forti pressioni competitive. In quest’ottica, in analogia con quanto già ipotizzato da
Clark Kerr e colleghi negli anni ’60 rispetto a una necessaria convergenza istituzionale causata dalla
“logica dell’industrialismo” sempre più diffusa e omogeneizzante [Trigilia 2002], alcuni autori
ipotizzano per il futuro una crescente convergenza tra i regimi economici, «in cui il meccanismo
che genera l’omogeneità delle economie politiche nazionali non è più la tecnologia ma la
competizione economica in un mercato mondiale aperto» [Streeck 2006, 35]. Una versione più
“indiretta e sofisticata” [Regini 1999] di tale approccio è proposta da Colin Crouch e Wolfgang
Streeck [1997]. Secondo i due autori, l’accelerazione del mutamento tecnologico, la rinnovata
concorrenza sui prezzi e la globalizzazione dei mercati finanziari, sono una serie di elementi che,
combinati, tenderanno a favorire sempre più quelle economie dotate di una grande rapidità di
reazione, cioè «un veloce cambiamento dei prodotti e l’abilità di tagliare i costi nel breve periodo.
Ciò risulta vero al punto che tale situazione favorisce i decision-makers che possono agire senza
dover cercare l’accordo all’interno delle proprie organizzazioni» [Crouch e Streeck 1997, 10-11].
Una struttura istituzionale più “snella”, dove ogni cambiamento sostanziale di politica economica
non vada discusso preventivamente a livello nazionale con le associazioni dei lavoratori e dei datori
di lavoro, risulterebbero comparativamente sempre più avvantaggiate. A ciò si aggiunge la radicale
97
“scoperta”, degli anni ’80, di come la sopravvivenza dei governi democraticamente eletti può essere
assicurata anche con livelli di disoccupazione molto elevati, facendo apparire sempre più costose, in
un’ottica di mantenimento del consenso, generose concessioni ai sindacati: lo stesso elevato livello
di disoccupati, anzi, costituisce una potente arma per moderarne le rivendicazioni. Una seconda
“scoperta” fu quindi la possibilità dell’utilizzare le banche centrali indipendenti, sotto auspici
monetaristi, come strumento per contenere l’inflazione, piuttosto che dispendiosi accordi di tipo
corporativo [Streeck 2006]. Questo, però, non è significato necessariamente lo smantellamento di
qualsiasi tipo di regolazione sociale dell’economia: anche i mercati più deregolati (come
solitamente sono considerati gli Stati Uniti), presentano una serie di rigidità ed esperienze di micro-
regolazione tali da favorire quel clima di fiducia e quelle risorse creative che hanno un ruolo
fondamentale nello strutturare un’economia dinamica e competitiva, e la cui esistenza non può in
alcun modo essere assicurata dal semplice funzionamento del mercato (ad esempio l’utilizzo di reti
etniche e comunitarie negli Stati Uniti per il reclutamento di manodopera sulla base di estesi
rapporti di fiducia, o la densa rete di relazioni che unisce le imprese finanziarie, pur in concorrenza
tra loro, nella “City di Londra”). Piuttosto, le istituzioni formali largamente encompassing (come gli
organi corporativi di concertazione), «hanno maggiori probabilità di essere caratterizzate da un forte
potenziale di beni collettivi di quanto non siano i sistemi di mercato, ma ne hanno minori se si
considera la capacità di adattamento» [Crouch e Streeck 1997, 12]. In un contesto sempre più
competitivo, la globalizzazione economica crea una forte pressione a favore di politiche nazionali di
deregolamentazione e privatizzazione, ratificando la perdita di controllo degli stati sull’economia,
producendo tre effetti principali: la distruzione, o l’indebolimento, dell’insieme dei meccanismi
istituzionali atti ad assicurare una buona performance macroeconomica tramite il sostegno dello
stato alle organizzazioni di interessi (sindacati fortemente rappresentativi in primis); il crescente
vantaggio di quelle economie storicamente basate su un intervento dello stato relativamente
limitato; la convergenza delle economie capitaliste verso una “monocultura istituzionale” fondata su
mercati deregolamentati, causando una potenziale perdita della capacità complessiva di
performance. Perciò, riprendendo quanto sopra accennato, più che un avvicinarsi a una
regolamentazione di mercato pura basata su transazioni condotte da soggetti atomistici, «la
distruzione o la svalutazione della capacità statale provocate dalla globalizzazione svantaggiano le
economie istituzionali socialmente governate dalla politica a livello nazionale rispetto a quelle che
derivano i propri vantaggi istituzionali da costruzioni sociali di livello subnazionale-regionale o di
impresa» [Crouch e Streeck 1997, 23]. E’ quindi probabile che il processo di convergenza porterà
verso un sempre minore ruolo persuasivo e regolativo dello stato in modo generalizzato, ma
rimarranno delle persistenti differenze, relative però sempre più a «regioni subnazionali, settori
98
internazionali ed imprese istituzionali attive a livello globale» [Crouch e Streeck 1997, 25]: ad
esempio le peculiari forme di comunità aziendale giapponesi o i distretti industriali del centro Italia
e del Nord-Est. E’ altresì possibile una crescente associazione tra queste comunità locali e le forze
di mercato, tesa a spiazzare le istituzioni nazionali della contrattazione collettiva e la regolazione
governativa della politica sociale (un esempio di tale tendenza è fornita dal caso italiano, con
l’elezione di Antonio D’Amato alla presidenza di Confindustria nel 2000 a seguito di una stagione
di rinascita della concertazione, e «supportato da una larga coalizione di piccolo-medio imprenditori
delle regioni del nord-est, centrali e del sud, con un programma apertamente critico rispetto al
metodo della concertazione, considerato troppo rigido, istituzionalizzato e troppo spesso sottomesso
ai veti sindacali» [Pochet e Fajertag 2000, 33]).
L’internazionalizzazione dei mercati, con la conseguente convergenza delle politiche economiche e
del ruolo delle istituzioni, non significa però necessariamente de-nazionalizzazione. Riguardo al
processo di integrazione economica europea, sempre secondo Streeck, continuerà a esistere una
certa varietà di arrangiamenti istituzionali nella regolazione del mercato, dipendenti dalle specificità
nazionali. Piuttosto, una «accelerata convergenza funzionale sotto la pressione della competizione
tra regimi – cioè una crescente equivalenza funzionale – coincide con una lenta, o nulla,
convergenza strutturale, a causa della persistenza delle istituzioni nazionali e la limitata capacità di
intervento della governance sovranazionale» [Streeck 1998, 17]. Questo deriverebbe
fondamentalmente da un paradosso: il processo di integrazione europea si baserebbe sulla creazione
di istituzioni sovranazionali di mero coordinamento tra paesi, ma atte alla liberalizzazione dei
mercati, lasciando agli stati nazionali la responsabilità delle politiche sociali. In questo modo si
creerebbe uno spazio economico sempre più competitivo, ma, a causa della gelosia dei singoli stati
rispetto alle proprie prerogative politiche, verrebbe preclusa la costituzione di organismi di ri-
regolazione dell’economia a livello europeo realmente efficaci. Perciò, «in assenza di alternative
sovranazionali, le politiche nazionali e le relazioni industriali rimangono il luogo privilegiato per le
risposte ri-regolative all’espansione dei mercati. Questo a prescindere del fatto che i sistemi
nazionali dell’Europa odierna debbano operare contemporaneamente sotto le restrizioni istituzionali
di un regime di competizione sovranazionale e le restrizioni economiche della competizione
internazionale tra regimi» [Streeck 1998, 18]. L’interzia dei sistemi di relazioni industriali europei,
storicamente tesi ad assicurare sia l’espansione del mercato che la correzione delle sue inefficienze,
farebbe in modo che le stesse istituzioni si spostassero sempre più verso l’obiettivo di costruire
mercati competitivi, abdicando però alla funzione della loro correzione (un esempio ne sono i “patti
sociali” degli anni ’90 atti a rendere più competitive le economie nazionali senza pretendere le
contropartite caratteristiche dei patti corporativi dei decenni precedenti). Pertanto, un’inversione di
99
tendenza rispetto alla convergenza funzionale delle istituzioni di regolazione del mercato potrebbe
avvenire esclusivamente se, a fianco delle forti istituzioni di integrazione del mercato, si
affiancassero istituzioni di ri-regolazione dello stesso dotate di sufficiente forza. Un’evoluzione in
senso corporativo dell’Unione europea (ben oltre il semplice Dialogo sociale) risulta però
estremamente improbabile, secondo Philippe Schmitter e Jürgen Grote [1997], fondamentalmente a
causa della mancanza da parte dell’Europa istituzionale di una capacità redistributiva autonoma e di
un equilibrio relativo delle forze di classe, per non parlare della possibilità di un’ulteriore crescita di
poteri analoghi a quelli degli stati nazionali. Tali sviluppi sembrano oltretutto essere costantemente
frenati in quanto «la maggior parte delle organizzazioni degli interessi nazionali non sono
disponibili a “sopranazionalizzarsi” ed a spostare la propria attenzione e la propria lealtà
esclusivamente a Bruxelles. I costi sono troppo elevati e l’incertezza di dipendere dalla
cooperazione di altri è troppo grande – specialmente quando ulteriori ampliamenti significano un
numero crescente di altri meno conosciuti e più variegati» [Schmitter e Grote 1997, 211].
Autori meno pessimisti, come Marino Regini o Franz Traxler, ritengono che, pur mutandosi e
riadattandosi alle nuove condizioni economiche, i sistemi di governo del mercato e le relazioni
industriali di tipo corporativo, lungi dal perdere le loro funzioni, stiano giocando e continueranno a
giocare in futuro un ruolo di primo piano, per quanto evolvendosi in direzioni differenti rispetto al
passato. Contrariamente a quanto sostenuto dalla “tesi della disorganizzazione” (cioè la previsione
del declino dei sistemi corporativi a causa della dannosità per la loro sopravvivenza delle imperanti
forze di mercato), Traxler [2003] rileva come tra il 1970 e il 1996 sia avvenuto uno spostamento
solo limitato, nella maggior parte dei paesi occidentali, dai sistemi di coordinamento volontario dei
salari nel rispetto dei requisiti macroeconomici (ragion d’essere del corporativismo) ai sistemi
pluralisti (ovvero del tutto non coordinati). Mentre tra il 1970-73 poco più del 10% dei 20 paesi
OCSE analizzati da Traxler assumevano forme non coordinate di politica salariale, nel 1994-96 tale
percentuale sarebbe salita al 30%. Contrariamente a quanto ipotizzato da Streeck, secondo Traxler
le funzioni corporative di coordinamento rimarrebbero maggioritarie (per quanto distribuite in modo
sempre più variegato tra diverse modalità possibili), mentre ne cambierebbero sempre più le forme:
si avrebbe in particolare un passaggio dal corporativismo classico di tipo scandinavo, alle forme di
coordinamento sostenute o imposte dallo stato, sempre più diffuse a partire dagli shock petroliferi
dei primi anni ’70, o a forme di pattern bargaining (in cui contratti di settore o d’azienda chiave
servirebbero a coordinare le rivendicazioni negli altri settori-aziende). In particolare l’autore
sostiene la non coincidenza tra funzioni e strutture del corporativismo: le funzioni di coordinamento
permarrebbero, mentre le strutture (identificate principalmente nel livello di contrattazione della
politica salariale e nel grado di governabilità del sistema, cioè il riconoscimento legislativo degli
100
effetti salariali della contrattazione collettiva e l’obbligo di pace durante la vigenza di un contratto)
subirebbero una generalizzata evoluzione verso il decentramento contrattuale. La crescente
disoccupazione degli anni ’70 e ’80 avrebbe infatti spinto sempre più verso un maggiore ruolo della
contrattazione aziendale: ma «il fatto che un livello di contrattazione cresce in importanza, non
significa necessariamente che prenda spazio a spese degli altri livelli […]. Questo segue dalla
complessa interazione delle multiformi questioni di contrattazione, dei sistemi di contrattazione
multi-livello e dall’interdipendenza degli agenti contrattuali, che aprono molteplici opzioni nel
distribuire gli obiettivi contrattuali tra i differenti livelli e attori» [Traxler 1995, 9]. Pertanto, più che
muoversi in un’ottica di decentralizzazione disorganizzata, i sistemi di relazioni industriali europei
starebbero subendo un processo di organized decentralization: vista la forza e il ruolo dei sindacati
ben oltre i confini delle singole imprese nella maggior parte dei paesi europei all’inizio degli anni
’80, un processo di decentramento tendente a eliminare completamente le precedenti forme di
contrattazione centralizzata sarebbe risultato addirittura controproducente rispetto alla performance
economica complessiva [Traxler 1995]. In particolare, negli anni ’80 il decentramento organizzato
si sarebbe volto alla devoluzione di un maggior numero di questioni ai livelli di contrattazione
settoriale, pur in un quadro di coordinamento centralizzato, mentre negli anni ’90 sarebbe cresciuto
il ruolo della contrattazione aziendale all’interno di una struttura di norma fissata a livello di settore
[Traxler 2003]. Il risultato sarebbe quindi il passaggio da forme di corporativismo classico a forme
di corporativismo “snello”: la crescente pressione competitiva internazionale e il concomitante
passaggio all’ortodossia economica, hanno alleggerito il “fardello” portato dai sistemi di
concertazione di interessi inclusivi e centralizzati nell’imporre la disciplina macroeconomica ai
gruppi di interesse, rendendo possibile un equipaggiamento meno pesante, fondato su una rete di
soggetti e livelli contrattuali differenti e più articolati. In questo modo «le forze di mercato vengono
deliberatamente utilizzate come veicolo per far corrispondere le politiche salariali coordinate
(incorporate nella contrattazione pluriaziendale e nella partecipazione associativa alle politiche
pubbliche) alle esigenze macroeconomiche» [Traxler 2003, 466].
Anche secondo Marino Regini [1999] i sistemi economici europei si starebbero muovendo in
maniera ambigua tra esigenze di mercato ed esigenze di coordinamento, non privilegiando una
direzione univoca, e facendo emergere, accanto ad aree effettivamente sottoposte a una crescente
deregolazione, un’alternativa concertativa, caratterizzata dalla «ricerca di un maggiore
coordinamento salariale per controbilanciare gli effetti del decentramento, di un maggiore controllo
per garantire il carattere selettivo e sperimentale dei processi di flessibilizzazione, e di un
coinvolgimento delle parti sociali per rendere il welfare compatibile con le esigenze di competitività
senza pregiudicarne la fondamentale funzione di consenso» [Regini 1999, 19]. La direzione
101
intrapresa dai diversi sistemi nazionali risulterebbe condizionata, ma non determinata, dai vincoli e
dagli incentivi offerti dal contesto istituzionale. Infatti, lungi dall’agire in perfetta coerenza con tale
contesto, «gli attori nazionali possono essere indotti a dare priorità a quella condizione che nel
proprio sistema è meno presente, [ad esempio decentralizzando laddove la contrattazione è molto
centralizzata], anche a costo di mettere a rischio i tradizionali vantaggi competitivi di cui godono
[…]. E’ altrettanto possibile che gli attori imprenditoriali siano determinati a sfruttare i vantaggi
competitivi di cui già godono, quanto invece che siano preoccupati di colmare le debolezze di cui
soffre il sistema in cui operano» [Regini 1999, 24]. Mentre in alcuni contesti la direzione del
mutamento può essere stabilita più facilmente e, spesso, consensualmente (a causa di un eccessivo
sbilanciamento di partenza verso il polo della coordinazione o del decentramento), nei sistemi già
vicini, o vicini in misura crescente, a una situazione intermedia tra i due poli (come nel caso
tedesco), tenderebbero a crescere le situazioni di incertezza, le ambiguità e le difficoltà degli attori a
concordare al proprio interno le priorità collettive. Pertanto, le diverse risposte tenderanno ad essere
in misura maggiore determinate dall’assenza o dalla presenza di vincoli e incentivi atti a mantenere
una situazione di equilibrio tra le esigenze di deregolazione e concertazione: «ciascuno degli attori
trova minori incentivi a rimettere in discussione i punti di convergenza già raggiunti se anche gli
altri continuano a sostenerli con convinzione» [Regini 1999, 28]. In situazioni di incertezza, la
cooperazione degli attori può rompersi molto più facilmente «in assenza di vincoli esterni, o di
regole del gioco modificabili solo con costi molto elevati ed effetti sistemici» [Regini 1999, 29], e i
mutamenti derivati tenderebbero a dipendere sempre meno dalle istituzioni preesistenti, e sempre
più dall’interazione strategica degli attori, determinando una varietà di risposte possibili sempre più
difficili da determinare a priori (in particolare dividendosi tra spinte di deregolazione o
decentralizzazione come principio generale o in un contesto di coordinamento centralizzato).
Un’evoluzione sempre più frequente delle vecchie strutture corporative centralizzate potrebbe
consistere nel crescente sviluppo di un corporativismo decentrato, basato su concertazione a livello
meso o micro [Streeck 2006]. Secondo Marino Regini [2003] i sistemi corporativi si starebbero
muovendo, in un’ottica di decentramento organizzato, in due direzioni principali: dalla
contrattazione collettiva centralizzata tra imprese e lavoratori come principio generale alla
contrattazione individuale (spinta dalla crescita dei lavoratori ad alta qualificazione e dalla
frammentazione del lavoro), e dalla contrattazione collettiva alla concertazione istituzionale tramite
patti sociali. Questo, come già messo in luce da Crouch e Streeck [1997], aprirebbe spazi per forme
concertative a livello inferiore, regionale o di impresa. Pertanto, se c’è un futuro «per il
collettivismo politico istituzionalizzato dopo la sterzata neo-liberale, molti credono sia nella
disposizione di beni collettivi richiesti per la competitività delle comunità locali, nel tentativo di
102
realizzare una visione negoziata di vantaggi competitivi nazionali o regionali» [Streeck 2006, 30].
Se gli accordi a livello nazionale sono sempre più caratterizzati da un coordinamento senza
contropartite sostanziali per le associazioni dei lavoratori e una crescente devoluzione della
decisione degli standard a livelli inferiori, «una diffusione della concertazione a livello territoriale
può favorire lo sviluppo locale e contribuire a plasmare le istituzioni sociali necessarie perché si
sviluppino forme di “solidarietà competitiva”» [Regini 2003, 103]. Uno degli strumenti a sostegno
di una “localizzazione” della concertazione previsti dalla contrattazione collettiva in misura
crescente negli anni ’90 è la prassi delle c.d. opening clauses. Queste sono clausole di apertura,
solitamente contenute nei contratti collettivi negoziati a livello di settore, che permettono di
derogare in pejus, solitamente a livello di singola impresa o di area territoriale e sotto determinate
condizioni, ai minimi contrattuali negoziati ai livelli superiori. Possono essere distinte in clausole
d’uscita di emergenza, che permettono deroghe solo in determinate e temporanee condizioni di
particolare difficoltà economica, e clausole di deroga specifiche per particolari tipologie di imprese,
solitamente medio-piccole, che non riuscirebbero a rimanere sul mercato senza condizioni salariali
più favorevoli [Visser 2005]. Tale strumento normativo rientra pienamente nelle forme di organized
decentralization ipotizzate da Traxler, in quanto le modalità della deroga in pejus sono stabilite
categoricamente nei contratti di settore o nazionali, evitando così una deregolamentazione
incontrollata. Esperimenti di questo tipo si sono sviluppati con grande forza in Germania negli anni
’90, al fine di fronteggiare situazioni contingenti di crisi e assicurare la conservazione dei livelli
occupazionali. Sempre più contratti di categoria demandano la possibilità di derogare ai minimi
salariali, o alla contrattazione collettiva aziendale svolta dai sindacati, o al contratto d’azienda
stipulato dal betriebsrat; in casi “patologici” la flessibilità salariale o di orario è ottenuta tramite un
accordo informale tra il consiglio d’azienda e l’imprenditore, senza che vi siano disposizioni in
merito nel contratto di settore [Santagata 2005]. Attualmente, circa il 40% delle imprese tedesche
sotto la giurisdizione dell’IG-Metall presentano accordi di deroga al contratto di settore. Clausole
simili sono comparse anche in Danimarca, mentre in Olanda, Belgio e Austria, per venire incontro
alla richiesta di flessibilità delle le imprese, i contratti di settore hanno stabilito la possibilità di
scelta da parte dei lavoratori di diverse strutture salariali e di orario à la carte [Visser 2005]. In
Francia, già dagli anni ’80 sono state previste possibilità di deroga, contrattate collettivamente, a
norme di legge in ambito lavorativo, mentre con la legge Fillon nel 2004 si è arrivati a un maggiore
livello di flessibilità: sono aumentate le possibilità per cui un contratto d’impresa può derogare a
norme di legge, mentre, pur non potendo derogare ai minimi salariali disposti ai livelli superiori,
viene abolita la gerarchia normativa tra contratti di diversi livelli, rendendo valida per il lavoratore,
tranne nei casi in cui sia esplicitamente impedito dalla contrattazione collettiva condotta a livelli
103
superiori, la norma negoziata al livello più vicino [Supiot 2005]. Infine, in Italia, clausole di
apertura soft sono state recentemente negoziate nel CCNL del settore chimico nel 2006, per quanto
solo in relazione agli aspetti normativi e fatti salvi i minimi salariali e i diritti individuali
irrinunciabili [Cella e Treu 2009], mentre nella direzione dell’introduzione di opening clauses alla
tedesca va il recente accordo interconfederale (firmato dalle sole CISL e UIL da parte sindacale il
15 aprile 2009), attuativo dell’Accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio
2009, laddove viene prevista (art. 5.1) la possibilità che «il contratto aziendale – se stipulato dalla
coalizione sindacale maggioritaria – deroghi al contratto nazionale, sia in materia retributiva, sia in
materia “normativa”; e questo sia in situazioni di difficoltà economica, dove è necessaria una
riduzione dello standard retributivo, sia, al contrario, nelle situazioni in cui la deroga è necessaria
per introdurre un’innovazione nell’organizzazione del lavoro non compatibile con il modello fissato
dal contratto nazionale» [Ichino 2009].
Patti sociali
Una delle particolarità del periodo di crisi del sindacato è stato, dopo il disorientamento portato
dagli anni ’80, la riscoperta delle pratiche corporative a partire dagli anni ’90 in quasi tutti i paesi
europei [Schmitter e Grote 1997]. In particolare, hanno guadagnato terreno quelle forme di
coordinamento e concertazione tra le parti definiti “patti sociali”, fondati su accordi tripartiti
(associazioni sindacali, imprenditoriali e stato), e tendenti sempre più a soppiantare le forme
corporative fondate sull’autonomia interassociativa di capitale e lavoro, con l’attore statale in
posizione di mediazione o di semplice supporto [Acocella et al. 2006]. I patti sociali possono venire
definiti analiticamente come «contratti formali tra il governo e le parti sociali, pubblicamente
annunciati, sulle linee di intervento riguardanti il reddito, il mercato del lavoro o le politiche di
welfare, che identifichino esplicitamente questioni e obiettivi di intervento, i mezzi nel conseguirli e
i compiti e le responsabilità dei firmatari» [Visser 2008, 6]. Tale definizione esclude, pertanto, gli
accordi taciti non pubblicizzati, le intese bilaterali senza un ruolo del governo e le dichiarazioni
d’intento generiche che non pongano particolari compiti o responsabilità (per quanto includa,
invece, anche gli accordi bipartiti in cui il governo abbia un ruolo determinante, per quanto
indiretto, per esempio tramite la minaccia di agire per via legislativa in caso di mancato accordo).
Per quanto i patti sociali facciano parte da tempo delle prassi corporative, pur con una distribuzione
irregolare e una diversa incidenza nel tempo, è possibile distinguerne due tipologie: i patti di prima
e di seconda generazione [Acocella et al. 2006]. La prima generazione, tipica degli anni ’60 e ’70,
era ispirata a principi keynesiani, cioè fondata su politiche monetarie accomodanti, espansione del
welfare state e redistribuzione del reddito, in un quadro di moderazione salariale assicurata dalla
104
social partnership, di piena occupazione e maggiore regolazione del mercato del lavoro. Dagli anni
’90 (pur con qualche anticipazione negli ’80), la situazione risulta profondamente cambiata, e la
concertazione risulta sempre più mirata alla restrizione delle politiche sociali, a una moderazione
salariale atta a sostenere la competitività delle imprese e alla flessibilizzazione del mercato del
lavoro, in condizioni di crescente globalizzazione, alta disoccupazione e politiche monetarie
restrittive [Pochet e Fajertag 2000]. In pratica, «i patti nazionali degli anni novanta, a differenza
dello scambio politico degli anni settanta, hanno operato sotto gli auspici monetaristi piuttosto che
quelli keynesiani ed erano finalizzati, se non vincolati, a conformarsi ai mercati piuttosto che a
correggerli» [Streeck 2006, 25]. In una forma intermedia tra centralizzazione e
decentralizzazione\deregolamentazione (contrariamente alla solitamente elevata centralizzazione
degli accordi precedenti), i nuovi accordi tripartiti sarebbero tesi a mantenere quella “soglia sociale”
minima tra le esigenze di flessibilità e solidarietà, equità ed efficienza, inscrivendosi nel solco delle
tradizioni neo-corporative della maggior parte dei paesi europei [Negrelli 2000]. In contrasto con le
precedenti forme di coordinamento, le nuove prassi concertative possono essere ridefinite come
“corporativismo competitivo”: tratti caratterizzanti ne sarebbero la minore routinizzazione, la
relativa instabilità dovuta ai minori costi di uscita dall’accordo e il ruolo sempre più presente dello
stato direttamente nelle negoziazioni (rispetto alla consultazione periodica, gli elevati svantaggi
derivanti dalla defezione e il ruolo dello stato come mediatore esterno, tipici del corporativismo
classico scandinavo). Nella sostanza, invece, i nuovi patti sociali sarebbero tesi a perseguire due
classi principali di obiettivi: obiettivi distributivi, cioè relativi alle politiche dei redditi, alla riforma
dei sistemi di sicurezza sociale e al riavvicinamento, a un livello intermedio, delle protezioni tra
lavoratori centrali e marginali; obiettivi di produttività, cioè tesi a costruire un clima cooperativo
all’interno delle imprese, implementando la flessibilità funzionale del lavoro, contrattandone la
gestione il più vicino possibile al luogo di produzione [Rhodes 2001].
Tra il periodo ’70-’80 e il successivo ’90-’07, il numero di negoziazioni tentate nel concludere un
patto sociale, in un campione di 26 paesi OCSE, è aumentato, passando da 62 tentativi nel primo
periodo a 80 nel secondo. Anche la probabilità che i negoziati si concludessero positivamente con
un accordo è aumentata, passando dal 56% al 64%. Inoltre, col passaggio al ventennio ’90-’07, la
probabilità che fossero aperti dei negoziati è aumentata solo leggermente in aggregato, ma di molto
in alcuni singoli paesi (come l’Irlanda, la Finlandia e l’Olanda) [Visser 2008]. Anche i contenuti
sono variati notevolmente: i patti di seconda generazione tendono, una volta raggiunto l’obiettivo
della moneta unica, a riguardare sempre meno le politiche salariali, mentre entrano a far parte
dell’agenda della concertazione soprattutto la riforma del mercato del lavoro, dei sistemi di
sicurezza sociale e del loro finanziamento, anche spostando l’attenzione sui costi complessivi del
105
lavoro, in buona parte derivanti dai contributi per le assicurazioni sociali [Pochet e Fajertag 2000;
Regini 2007]. In particolare, accordi tripartiti sui livelli salariali si sono diffusi nei primi anni ’90 in
un’ottica di contenimento dell’inflazione in vista dell’introduzione dell’Euro, per poi dedicarsi
principalmente ad altri temi negli anni successivi [Visser 2008]. La crescita dei patti sociali negli
anni ’90 ha, per molti paesi (soprattutto mediterranei), costituito un’importante possibilità
nell’istituzionalizzare una prassi concertativa tra le parti sociali e lo stato, partendo da una
situazione di sua sostanziale assenza (come in Spagna, Portogallo, Italia, Grecia e Irlanda). La
contemporanea assenza, l’instabilità o la sporadicità di tale prassi in Austria, Germania e Belgio (in
cui sono falliti diversi tentativi di patto sociale), pone invece dei problemi di de-
istituzionalizzazione di una prassi concertativa precedentemente presente, mentre in Olanda la
riscoperta della concertazione ha riportato a una re-istituzionalizzazione della stessa, già a partire
dall’accordo di Wassenaar del 1982, che anticipava i contenuti poi diventati tipici dei patti di
seconda generazione (riforma del welfare e rigore di bilancio, moderazione salariale, convergenza
delle tutele tra lavoratori centrali e marginali, decentramento della contrattazione) [Schmitter e
Grote 1997; Rhodes 2001]. Nei paesi scandinavi, con l’eccezione della Finlandia, non si è invece
assistito a una crescita della contrattazione tripartita, rimanendo i sistemi fondamentalmente basati
in modo volontaristico sulla concertazione tra associazioni dei lavoratori e delle imprese, per quanto
sempre più caratterizzata da una crescente articolazione dei livelli contrattuali, a favore di quelli
inferiori [Visser 2008].
Le motivazioni alle spalle della rinascita delle prassi concertative in Europa risiedono
sostanzialmente nella necessità, percepita dagli stati nazionali e spesso dalle associazioni dei
lavoratori e delle imprese, del rilanciare la competitività complessiva del sistema economico. In un
contesto di crescente globalizzazione, i mercati nazionali diventano meno appetibili in caso di
elevata inflazione o eccessiva tassazione delle rendite, il che spinge verso l’austerità monetaria e al
riaggiustamento della spesa sociale. L’evoluzione delle strutture socio-economiche verso la
specializzazione flessibile e l’economia dei servizi, inoltre, spinge verso una ristrutturazione dei
sistemi di lavoro, rendendo necessario una correzione dei presupposti del sistema fordista. Infine,
«sia la competizione da costi che la stabilità richiede un mezzo per prevenire lo slittamento salariale
e le pressioni inflazionistiche» [Rhodes 2001, 174]. In modo particolare, la crescente
disoccupazione e la scarsa crescita e produttività, hanno spinto innanzitutto i governi (da cui il loro
accresciuto ruolo di parte negoziale), nel cercare delle soluzioni negoziate con le parti sociali. La
possibilità di accordi tripartiti deriva principalmente dall’emergenza di «un’analisi consensuale tra
le parti delle implicazioni del cambiamento del sistema di produzione e la formulazione di
preferenze comuni per un basso livello di inflazione e un sistema di tassi di cambio stabili» [Pochet
106
e Fajertag 2000, 18]. In particolare, l’interesse a partecipare dei sindacati può essere ascritto al
tentativo di mantenere (o creare ex novo) una certa influenza sul policy making e assicurare la
propria sopravvivenza come attori collettivi (ad esempio rafforzando il riconoscimento reciproco tra
le parti) [Regini 2003], mentre, in diversi casi, la condivisione degli obbiettivi dell’unificazione
monetaria hanno spinto le organizzazioni del lavoro ad accettarne i sacrifici necessari (in termini di
riduzione del deficit e del tasso di inflazione). Allo stesso modo, da parte delle associazioni degli
imprenditori, in una situazione di crescente incertezza può aver giocato a favore di una prassi
concertativa la ricerca di accordi con un ampio consenso, utili a stabilire un clima di fiducia e
cooperazione, piuttosto che puntare a un incerto e rischioso processo di decentramento sul modello
inglese [Pochet e Fajertag 2000], soprattutto in paesi in cui il sindacato è ancora un attore
particolarmente forte sia dentro che al di sopra delle singole imprese [Traxler 1995]. La crescente
integrazione economica, a livello europeo e globale, può poi portare a una «ridefinizione
“nazionalistica” degli interessi all’interno di un mercato internazionale, [e] può aprire opportunità
politiche, per quanto strettamente circoscritte possano essere, per i sindacati e i governi nel
negoziare patti sociali che sfruttino la dialettica dell’efficienza e dell’equità nella zona grigia tra
l’ampliamento e la distorsione del mercato» [Streeck 1998, 19]. In questo contesto, la necessità di
rispettare i criteri stabiliti per la partecipazione al sistema monetario europeo (bassi livelli di deficit,
debito pubblico e inflazione), è risultato, in paesi come Italia, Belgio, Grecia, Spagna e Portogallo,
uno stimolo particolarmente forte nello stabilire o nel riscoprire le prassi concertative [Rhodes
2001; Acocella et al. 2006], mentre specularmente l’assenza di patti sociali tripartiti negli anni ’90
nei paesi scandinavi è in parte riconducibile alla loro decisione di non aderire all’UME (oltre alla
disponibilità di un sistema di relazioni industriali ben collaudato) [Visser 2008]. La comunanza di
vedute su una situazione di forte crisi produttiva e occupazionale, invece, è stato un potente
incentivo nello stimolare l’inizio di una lunga stagione di patti sociali e concertazione in Olanda e
Irlanda già negli anni ’80 (a partire dal 1982 e dal 1987, rispettivamente), quindi ben prima che il
rispetto dei criteri di Maastricht si facesse pressante [Rhodes 2001]. Di contro, uno stato incapace di
sottrarsi al veto delle parti sociali (anche a causa di una struttura statale di tipo federalista), e meno
efficace nel suo ruolo di contrattazione con gli interessi sociali, può essere stato uno dei motivi dei
fallimenti dei tentativi di concertazione tripartita in Austria e Germania [Streeck 2004]: infatti
«l’implementazione, la continuazione e la reiterazione dei patti sociali può dipendere da un
intervento dello stato che “premi” la cooperazione e renda le strategie alternative costose per gli
attori. Questo presuppone che lo stato sia sufficientemente potente e abbia la capacità di minacciare
in modo credibile gli altri attori nei loro domini di pertinenza» [Visser 2008, 17].
La prassi dei patti sociali, in conclusione, non può essere considerata la “fine della storia” delle
107
relazioni industriali europee. Nati in situazioni di emergenza, o in previsione del raggiungimento di
obiettivi contingenti (la partecipazione all’UME), i patti sociali «diventano sempre più difficili via
via che l’emergenza si allontana, a meno che tutti gli attori coinvolti abbiano nel frattempo
sviluppato capacità di apprendimento strategico. In assenza di nuovi e forti vincoli esterni […], la
capacità degli attori delle relazioni industriali di perseguire beni collettivi, o semplicemente i loro
interessi di lungo periodo, non si può affatto dare per scontata» [Regini 2007, 121]. Come nota Jelle
Visser, per quanto in un’ottica più ottimistica sulla persistenza di sistemi istituzionalizzati di
cooperazione tra le parti sociali, «tali investimenti in interdipendenza tendono ad avere effetti
cognitivi su come gli attori definiscono i loro interessi […]. Essi imparano a capire cosa non
chiedere [… Però] i risultati necessitano non solo di essere percepiti come un successo, in
qualunque modo, ma necessitano anche di essere visti come equi e giusti sul piano distributivo»
[Visser 2008, 20]. Quindi, mentre una prolungata (ormai lunga un ventennio) interazione strategica
tra i tre attori delle relazioni industriali spinge certamente verso una persistenza nella cooperazione,
«se nell’agenda della concertazione rimangono solo la deregolazione del mercato del lavoro e la
riforma del welfare, appare chiaro che acquisire influenza non porta più risultati apprezzabili, e i
sindacati sono tentati di passare dalla partecipazione a rapporti più antagonistici» [Regini 2003,
102-103]. Questo potrebbe portare a una impasse definitiva, in quanto, una volta persa la forza
associativa basata sul numero degli iscritti, perdere anche le capacità di influenza istituzionale sulla
regolazione dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rivelarsi il colpo di grazia per il
movimento sindacale. Molto del suo futuro, pertanto, dipenderà da come sarà capace di intercettare
le nuove domande di tutela provenienti da un mercato del lavoro in rapido cambiamento, in
particolare rendendosi appetibile per la crescente proporzione di lavoratori qualificati. Questo non
può avvenire in assenza di cambiamenti delle strategie sindacali. In particolare, non può avvenire se
la tutela rimarrà centrata esclusivamente su una base sociale che viene sempre più a mancare (il
lavoro full-time a tempo indeterminato nella grande impresa), e non si estenderà invece verso la
crescente proporzione di outsiders (i lavoratori marginali, flessibili e meno tutelati, localizzati in
piccole unità produttive), allontanandosi dalla tutela del posto e ampliandosi verso la tutela del
potere di mercato del lavoratore (cfr. par. 3.1). Allo stesso modo, una presenza più capillare a
livello di impresa, in grado, oltre che di fornire una protezione più vicina alle esigenze del
lavoratore, di giocare un ruolo positivo nella performance aziendale in un’ottica di condivisione dei
risultati della maggiore produttività, aiuterebbe a coinvolgere un maggior numero di lavoratori,
riportando a salire il numero di iscritti, e fornendo più garanzie di quelle che, con sempre maggiore
difficoltà, vengono fornite dai welfare states nazionali [Regini 2003; Ichino 2006]. Probabilmente
un sindacato “post-moderno” non assomiglierà al sindacalismo industriale affermatosi nel secondo
108
dopoguerra. E’ però possibile, paradossalmente, che il sindacato torni a riscoprire le proprie radici,
recuperando vecchi strumenti ormai dismessi «del suo ricco patrimonio passato, proprio nel
momento nel quale a esso si rivolgeranno richieste pressanti di accettazione delle esigenze più
innovative dell’economia globalizzata e della produzione ad alta tecnologia. Anche da questi motivi
contrastanti nasceranno i suoi caratteri di post-modernità. Se il sindacato saprà interpretare questi
caratteri con coraggio e saggezza, con lungimiranza e passione, la speranza di continuare a giocare
ruoli di protagonista non sarà del tutto infondata. E il pericolo di perdere con il sindacato molti dei
tratti fondativi della democrazia pluralista potrà essere evitato» [Cella 2004, 130-131].
109
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Accornero, A. 1985 La “terziarizzazione” del conflitto e i suoi effetti, in Cella, G.P. e Regini, M. (a cura di), Il
conflitto industriale in Italia. Stato della ricerca e ipotesi sulle tendenze, Bologna, Il Mulino.
Acocella, N., Di Bartolomeo, G. e Papa, S. 2006 L’evoluzione dei patti sociali in una prospettiva analitica, in «Quaderni rassegna sindacale.
Lavori», 4. Baglioni, G. 1998 Il sistema delle relazioni industriali in Italia: caratteri ed evoluzione storica, in Cella e Treu
[1998a]. 2008 L’accerchiamento. Perché si riduce la tutela sindacale tradizionale, Bologna, Il Mulino. Baglioni, G. e Paparella, D. 2007 (a cura di) Il futuro del sindacato, Roma, Edizioni lavoro. Ballarino, G. 2002 Contrattare l’eterogeneità: Il sindacato lombardo e la rappresentanza del lavoro atipico, in
Checchi, D., Perulli, P., Regalia, I., Regini, M. e Reyneri, E. (a cura di), Lavoro e sindacato in Lombardia. Contributi per interpretare il cambiamento, Milano, Franco Angeli.
2005a Strumenti nuovi per un lavoro vecchio. Il sindacato italiano e la rappresentanza dei lavoratori atipici, in «Sociologia del lavoro», 1.
2005b La densità sindacale nell'Italia contemporanea. Fattori economici, sociali e politici: un'analisi empirica, Presentazione del seminario di Gabriele Ballarino, Milano, Dipartimento di studi del lavoro e del welfare, 22 febbraio.
Beck, U. 2000 La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci. Blanchflower, D.G. 2007 International patterns of union membership, in «British journal of industrial relations», 1. Boeri, T. 2003 Il sindacato: un declino davvero resistibile?, in «Stato e mercato», 1. Boeri, T. e Checchi, D. 2001 Recenti tendenze del sindacato in Europa: la forbice fra presenza e influenza, in Ninni, A.,
Silva, F. e Vaccà, S. (a cura di), Evoluzione del lavoro, crisi del sindacato e sviluppo del paese, Milano, Franco Angeli.
Bonazzi, G. 2001 Sociologia della Fiat, Bologna, Il Mulino. 2002 Come studiare le organizzazioni, Bologna, Il Mulino. Bordogna, L. 1987 L’azione sindacale nell’amministrazione: quadro di riferimento – 4. La sindacalizzazione,
in ISAP, Le relazioni fra amministrazione e sindacati. Vol. I, Milano, Giuffrè editore. 1991 Il caso italiano, in Cella [1991a]. 1998 Le relazioni sindacali nel settore pubblico, in Cella e Treu [1998a]. 1999 Tendenze e problemi della sindacalizzazione nei servizi pubblici, in Commissione di
garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, Sciopero e rappresentatività sindacale. Atti del convegno, Roma, CNEL, 17 settembre 1998, Milano, Giuffrè editore.
2007 Tendenze della rappresentanza sindacale in Italia e in Europa, in Baglioni e Paparella [2007].
Bordogna, L. e Carrieri, D. 2008 Le dinamiche delle Relazioni industriali in Italia, in CNEL-CESOS, Le relazioni sindacali
in Italia e in Europa. Retribuzione e costo del lavoro. Rapporto 2006-2007, Roma.
110
Bordogna, L. e Cella, G.P. 2002 Decline or transformation? Change in industrial conflict and its challenges, in «Transfer»,
4. Brugiavini, A., Ebbinghaus, B., Freeman, R., Garibaldi, P., Holmlund, B., Schludi, M. e Verdier, T. 2002 Quale impatto hanno i sindacati sullo stato sociale?, in Boeri, T., Brugiavini, A. e Calmfors,
L. (a cura di), Il ruolo del sindacato in Europa, Milano, Egea-Università Bocconi editore. Butera, F. 1990 Il castello e la rete. Impresa, organizzazioni e professioni nell’Europa degli anni ’90,
Milano, Franco Angeli. 2008 Chi sono, perché sono tanti e così importanti i lavori e i lavoratori della conoscenza: il più
grande cantiere di cambiamento economico e sociale dell’Occidente, in Butera, F., Bagnara, S., Cesaria, R. e Di Guardo, S. (a cura di), Knowledge working. Lavoro, lavoratori, società della conoscenza, Milano, Arnoldo Mondadori.
Calmfors, L., Booth, A., Burda, M., Checchi, D., Naylor, R. e Visser, J. 2002 Il futuro della contrattazione collettiva in Europa, in Boeri, T., Brugiavini, A. e Calmfors, L.
(a cura di), Il ruolo del sindacato in Europa, Milano, Egea-Università Bocconi editore. Carrieri, D. 1998 I sindacati non confederali, in CNEL-CESOS, Le relazioni sindacali in Italia. Rapporto
1994-95, Roma, Edizioni lavoro. 2000 I sindacati non confederali, in CNEL-CESOS, Le relazioni sindacali in Italia. Rapporto
1997-98, Roma, Edizioni lavoro. Castells, M. 1989 The informational city. Information technology, economic restructuring and the urban-
regional process, Oxford-Cambridge, Blackwell. Cella, G.P. 1991a (a cura di) Nuovi attori nelle relazioni industriali, Milano, Franco Angeli. 1991b Attori collettivi e istituzioni delle relazioni industriali, in Cella [1991a]. 2001 La rappresentanza dei lavoratori atipici: un ritorno al passato?, in Cella, G.P. e Provasi, G.
(a cura di), Lavoro, sindacato, partecipazione. Scritti in onore di Guido Baglioni, Milano, Franco Angeli.
2003 La rappresentanza attraverso soggetti collettivi: rispecchiare o interpretare, in «Stato e mercato», 2.
2004 Il sindacato, Bari, Laterza. Cella, G.P. e Treu, T. 1998a (a cura di) Le nuove relazioni industriali, Bologna, Il Mulino. 1998b La contrattazione collettiva, in Cella e Treu [1998a]. 2009 Relazioni industriali e contrattazione collettiva, Bologna, Il Mulino. Checchi, D., Bratti, M. e Filippin, A. 2007 Diseguaglianza e sindacalizzazione, in Dosi, G. e Marcuzzo, M.C. (a cura di), L’economia e
la politica. Saggi in onore di Michele Salvati, Bologna, Il Mulino. Checchi, D. e Corneo, G. 2000 Trade union membership: theories and evidence for Italy, in «Lavoro e relazioni
industriali», 2. Checchi, D. e Visser, J. 2005 Pattern persistence in european trade union density: a longitudinal analysis 1950-1996, in
«European sociological review», 1. Clasen, J. e Viebrock, E. 2008 Voluntary unemployment insurance and trade union membership: investigatine the
connections in Denmark and Sweden, in «Journal of social policy», 3.
111
Clegg, H.A. 1986 Sindacato e contrattazione collettiva. Una teoria basata sull’analisi comparata di sei paesi,
Milano, Franco Angeli. Crouch, C. 1982 Trade unions: the logic of collective action, London, Fontana press. Crouch, C. e Streeck, W. 1997 Il futuro della diversità dei capitalismi, in «Stato e mercato», 1. Della Rocca, G. 1998 Il sindacato, in Cella e Treu [1998a]. Di Nicola, P. 1994 La misurazione della rappresentatività del sindacato. Tasso di sindacalizzazione e indice di
“equilibrio”, in «Economia & Lavoro», 4. Ebbinghaus, B. e Visser, J. 1999 When institutions matter: union growth and decline in Western Europe, 1950-1995, in
«European sociological review», 2. 2000 A comparative profile, in Ebbinghaus, B. e Visser, J., Trade unions in Western Europe since
1945, London, MacMillan. Eiro 1999 Employment relations bill published, Dublino. 2002a Union recognition under new statutory procedure examined, Dublino. 2002b “Economically dependent workers”, employment law and industrial relations, Dublino. 2005 Changes in national collective bargaining systems since 1990, Dublino. Elster, J. 1989 Social norms and economic theory, in «Journal of economic perspectives», 4. Esping-Andersen, G. 2000 I fondamenti sociali delle economie postindustriali, Bologna, Il Mulino. Feltrin, P. 2005 La sindacalizzazione in Italia (1986-2004), Roma, Edizioni lavoro. 2006 Il sindacato tra arene politiche e arene delle relazioni industriali: equilibri instabili o
sabbie mobili?, in «Quaderni rassegna sindacale. Lavori», 4. 2007 La silenziosa ascesa di un diverso equilibrio, in Baglioni e Paparella [2007]. Fortunato, V. 2000 Il caso Fiat-Sata di Melfi, in Negrelli, S. (a cura di), Prato verde prato rosso. “Produzione
snella” e partecipazione dei lavoratori nella Fiat del Duemila, Soveria Mannelli, Rubbettino editore.
Freeman, R. e Pelletier, J. 1990 The impact of industrial relations legislation on British union density, in «British journal of
industrial relations», 2. Gallino, L. 2006 Globalizzazione, in Gallino, L., Dizionario di Sociologia, Torino, UTET. Giddens, A. 1994 Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino. Giugni, G. 2006 Diritto sindacale, Bari, Cacucci editore. Grandori, A. 2001a (a cura di) Responsabilità e trasparenza nelle organizzazioni sindacali, Milano, Egea. 2001b Introduzione. Luci e ombre dell’accountability sindacale, in Grandori [2001a]. Granovetter, M. 1985 Economic action and social structure: the problem of embeddedness, in «American journal
of sociology», 3.
112
1998 La vecchia e la nuova sociologia economica: storia della disciplina e sue attuali prospettive, in Granovetter, M., La forza dei legami deboli e altri saggi, Napoli, Liguori editore.
Haunschild, A. 2004 Contingent work: the problem of disembeddedness and economic reembeddedness, in
«Management revue», 1. Hirschman, A.O. 1970 Exit, voice, and loyalty. Responses to decline in firms, organizations, and states, Cambridge-
London, Harvard university press. 2003 Felicità privata e felicità pubblica, Bologna, Il Mulino. Hobsbawm, E.J. 1972 Gli artigiani migranti, in Hobsbawm, E.J., Studi di storia del movimento operaio. Classi
lavoratrici e rivoluzione industriale nell’Inghilterra del secolo XIX, Torino, Einaudi. Ichino, P. 2006 A che cosa serve il sindacato?, Milano, Arnorldo Mondadori. 2009 Note tecniche sull’accordo interconfederale del 22 gennaio, in «Lavoce.info», 30 gennaio,
<http://www.lavoce.info/articoli/-relazioni_industriali/pagina1000909.html>. ISFOL 2006 Sindacalizzazione, in ISFOL, Organizzazione, apprendimento, competenze: indagine sulle
competenze nelle imprese industriali e di servizi in Italia, Roma. Lange, P. e Scruggs, L 1999 Where have all the members gone? La sindacalizzazione nell’era della globalizzazione, in
«Stato e mercato», 1. La Valle, D. 2001 La partecipazione sindacale in Italia: la sindacalizzazione e i giorni persi per sciopero dal
1960 al 1999, in «Polis», 1. Lee, C.S. 2005 International migration, deindustrialization and union decline in 16 affluent OECD
countries, 1962-1997, in «Social forces», 1. Machin, S. 2000 Union decline in Britain, in «British journal of industrial relations», 4. Miller, K. e Steele, M. 1993 Employment legislation: Thatcher and after, in «Industrial relations journal», 3. Mutti, A. 2002 Sociologia economica. Il lavoro fuori e dentro l’impresa, Bologna, Il Mulino. Negrelli, S. 2000 Social pacts in Italy and Europe: similar strategies and structures; different models and
national stories, in Fajertag, G. e Pochet, P., Social pacts in Europe – New dynamics, Bruxelles, ETUI.
2001 Il “protocollo IRI”: una eredità per la via italiana alla partecipazione, in «L’impresa al plurale», 7-8.
Offe, C. e Wiesenthal, H. 1980 Two logics of collective action: theoretical notes on social class and organizational form, in
«Political power and social theory», 1. Olson, M. 1971 The logic of collective action. Public goods and the theory of groups, Cambridge-London,
Harvard university press. 1982 The rise and decline of nations. Economic growth, stagflation, and social rigidities, New
Haven-London, Yale university press. Paci, M. 1996 I mutamenti della stratificazione sociale, in Barbagallo, F. (a cura di), Storia dell’Italia
repubblicana, Vol. 3.1, Torino, Einaudi.
113
Paoletti, F. 2001 La dimensione organizzativa dell’accountability nei sindacati: la voce degli iscritti, in
Grandori [2001a]. Paparella, D. 2004 I processi di outsourcing, in CNEL-CESOS, Contrattazione, retribuzioni e costo del lavoro
in Italia nel contesto europeo. Rapporto 2002-2003, Roma. Pepe, A. 1996 Il sindacato nell’Italia del ‘900, Soveria Mannelli, Rubbettino editore. Pernicka, S. 2005 The evolution of union politics for atypical employees: a comparison between German and
Austrian trade unions in the private service sector, in «Economic and industrial democracy», 2.
Perulli, A. 1999 Il Testo Unico sul sistema di relazioni sindacali e di partecipazione della Electrolux-
Zanussi, in «Lavoro e diritto», 1. Pizzorno, A. 1977 Scambio politico e identità collettiva nel conflitto di classe, in Crouch, C. e Pizzorno, A. (a
cura di), Conflitti in europa. Lotte di classe, sindacati e stato dopo il ’68, Milano, Etas libri. 1978 Le due logiche dell’azione di classe, in Pizzorno, A., Reyneri, E., Regini, M. e Regalia, I.,
Lotte operaie e sindacato. Il ciclo 1968-1972 in Italia, Bologna, Il Mulino. 1996 Decisioni o interazioni? La micro-descrizione del cambiamento sociale, in «Rassegna
italiana di sociologia», 1. 2007 Fare propria un’altra alterità, in Pizzorno, A., Il velo della diversità. Studi su razionalità e
riconoscimento, Milano, Feltrinelli. Pochet, P. e Fajertag, G. 2000 A new era for social pacts in Europe, in Fajertag, G. e Pochet, P., Social pacts in Europe –
New dynamics, Bruxelles, ETUI. Pulignano, V. 2003 Relazioni sindacali e contesti “multi-impresa”: l’esperienza del settore dell’auto in Italia, in
Bonazzi, G. e Negrelli, S. (a cura di), Impresa senza confini. Percorsi, strategie e regolazione dell’outsourcing nel post-fordismo maturo, Milano, Franco Angeli.
Regini, M. 1999 L’Europa fra de-regolazione e patti sociali, in «Stato e mercato», 1. 2003 I mutamenti nella regolazione del lavoro e il resistibile declino dei sindacati europei, in
«Stato e mercato», 1. 2007 Concertazione e relazioni industriali, in Baglioni e Paparella [2007]. Reyneri, E. 2005a Sociologia del mercato del lavoro. Vol. I – Il mercato del lavoro tra famiglia e welfare,
Bologna, Il Mulino. 2005b Sociologia del mercato del lavoro. Vol. II – Le forme dell’occupazione, Bologna, Il Mulino. Rhodes, M. 2001 The political economy of social pacts: “competitive corporatism” and european welfare
reform, in Pierson, P. (a cura di), The new politics of the welfare state, Oxford, Oxford university press.
Salvato, M. 2001 La responsabilità sociale del sindacato, con particolare riferimento ai servizi, in Grandori
[2001a]. Santagata, R. 2005 La contrattazione collettiva in Germania: tecniche di decentramento e vincoli costituzionali,
in «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 4.
114
Schmitter, P.C. e Grote, J.R. 1997 Sisifo corporatista: passato, presente e futuro, in «Stato e mercato», 2. Sen, A.K. 1977 Rational fools: a critique of the behavioral foundations of economic theory, in «Philosophy
& public affairs», 4. Simmel, G. 1989 L’intersecazione di cerchie sociali, in Simmel, G., Sociologia, Milano, Edizioni di comunità. Solow, R.M. 1994 Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Bologna, Il Mulino. Streeck, W. 1987 The uncertainties of management in the management of uncertainty, in «International
journal of political economy», 3. 1998 The internationalization of industrial relations in Europe: prospects and problems, Working
paper series in European studies 1/1, Max Planck Institute for the Study of Societies, Colonia.
2004 La debolezza dello stato da risorsa a vincolo: il corporativismo dello stato sociale e l’uso privato del pubblico interesse, in «Stato e mercato», 1.
2006 The study of organized interests: before “The Century” and after, in Crouch, C. e Streeck, W. (a cura di), The diversity of democracy. Corporatism, social order and political conflict, Londra, Edward Elgar Publishing.
Streeck, W. e Visser, J. 1998 An evolutionary dynamic of trade union systems, Max-Planck-Institut für
Gesellschaftsforschung Discussion Paper 98/4, Colonia. Supiot, A. 2005 La riforma del contratto collettivo in Francia. Riflessioni sulle trasformazioni del diritto, in
«Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», 2. Taras, D. e Ponak, A. 2001 Mandatory agency shop laws as an explanation of Canada-U.S. union density divergence, in
«Journal of labor research», 3. Traxler, F. 1995 Farewell to labour market associations? Organized versus disorganized decentralization as
a map for industrial relations, in Crouch, C. e Traxler, F. (a cura di), Organized industrial relations in Europe: what future?, Aldershot, Avebury.
2003 Le metamorfosi del corporativismo: dai modelli classici ai modelli snelli, in «Stato e mercato», 3.
Treu, T. 2007 Legge e contratto nel riequilibrio delle tutele, in Baglioni e Paparella [2007]. Trigilia, C. 2002 Sociologia economica. Vol. II – Temi e percorsi contemporanei, Bologna, Il Mulino. Vettor, T. 1999 Le ricerche empiriche sul lavoro autonomo coordinato e continuativo e le nuove strutture di
rappresentanza sindacale Nidil, Alai e Cpo, in «Lavoro e diritto», 4. Visser, J. 1994 Mutamenti sociali ed organizzativi del sindacato nelle democrazie avanzate, in «Giornale di
diritto del lavoro e di relazioni industriali», 2. 1996 Traditions and transitions in industrial relations: a european view, in Van Ruysseveldt, J. e
Visser, J. (a cura di), Industrial relations in Europe. Traditions and transitions, Beverly Hills, Sage publications.
2000 Italy, in Ebbinghaus, B. e Visser, J., Trade unions in Western Europe since 1945, London, MacMillan.
115
2002 Why fewer workers join unions in Europe: a social custom explanation of membership trends, in «British journal of industrial relation», 3.
2005 Beneath the surface of stability: new and old models of governance in european industrial relations, in «European journal of industrial relations», 3.
2006 Union membership statistics in 24 countries, in «Monthly labour review», January. 2008 The institutionalisation of Social Pacts, New modes of governance project, 18a/D11. Waddington, J. e Whitston, C. 1997 Why do people join unions in a period of membership decline?, in «British journal of