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1. La ripresa di studi sul Portafoglio di un operaio Dopo l’iniziale successo ottocentesco, il Portafoglio d’un operaio di Ce- sare Cantù ha conosciuto un lungo oblio. 1 La prima, e unica, edizione no- vecentesca del romanzo si è avuta solo nel 1984 a cura di Carlo Ossola, 2 ma scarsa è stata anche l’attenzione della critica, che nelle poche occasio- ni in cui si è occupata delle opere narrative di Cantù ha ignorato il ro- manzo. Così è avvenuto per De Sanctis e poi per Asor Rosa, concordi nel LUIGI CEPPARRONE IL PORTAFOGLIO D’UN OPERAIO DI CESARE CANTÙ: MORALE CATTOLICA E SOCIETÀ INDUSTRIALE * * Matilde Dillon Wanke, Remo Ceserani, Mariella Colin, Claudio Milanini e Duc- cio Tongiorgi mi hanno fornito utili suggerimenti; Luca Bani e Simonetta Nibbi mi han- no aiutato a risolvere alcuni problemi legati alla consultazione dei testi manoscritti a tut- ti loro va il mio ringraziamento, naturalmente è solo mia la responsabilità di quanto è so- stenuto nel saggio. Nel 2007 sarà pubblicata a mia cura una nuova edizione dell’opera presso Carocci. 1 Dell’opera furono pubblicate quattro edizioni e una traduzione francese: CESARE CANTÙ, Portafoglio d’un operaio ordinato e pubblicato da Cesare Cantù, Milano, G. Agnelli, 1871; Portafoglio d’un operajo ordinato e pubblicato da Cesare Cantù. Nuova ed, Milano, Agnelli, 1872; Portafoglio d’un operajo ordinato e pubblicato da Cesare Cantù. 3. ed. milane- se, Milano, Giacomo Agnelli, 1877; Portafoglio d’un operaio ordinato e pubblicato da Cesare Cantù. 4. ed. milanese, Milano, G. Agnelli, 1883; C. CANTÙ, Le carnet d’un ouvrier. Ouvra- ge trad. de la 4e éd. Italienne par Régis Usannaz-Joris, Paris, Firmin-Didot, 1885. 2 C. CANTÙ, Portafoglio d’un operaio, a cura di Carlo Ossola, Milano, Bompiani, 1984, poi ristampato nel 1997. Le citazioni del romanzo si riferiranno a questa edizio- ne, indicata semplicemente con Portafoglio.
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Il Portafoglio d’un operaio di Cesare Cantù: morale cattolica e società industriale

Jan 19, 2023

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Alberta Giorgi
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1. La ripresa di studi sul Portafoglio di un operaio

Dopo l’iniziale successo ottocentesco, il Portafoglio d’un operaio di Ce-sare Cantù ha conosciuto un lungo oblio.1 La prima, e unica, edizione no-vecentesca del romanzo si è avuta solo nel 1984 a cura di Carlo Ossola,2ma scarsa è stata anche l’attenzione della critica, che nelle poche occasio-ni in cui si è occupata delle opere narrative di Cantù ha ignorato il ro-manzo. Così è avvenuto per De Sanctis e poi per Asor Rosa, concordi nel

LUIGI CEPPARRONE

IL PORTAFOGLIO D’UN OPERAIO DI CESARE CANTÙ: MORALE CATTOLICA E SOCIETÀ INDUSTRIALE *

* Matilde Dillon Wanke, Remo Ceserani, Mariella Colin, Claudio Milanini e Duc-cio Tongiorgi mi hanno fornito utili suggerimenti; Luca Bani e Simonetta Nibbi mi han-no aiutato a risolvere alcuni problemi legati alla consultazione dei testi manoscritti a tut-ti loro va il mio ringraziamento, naturalmente è solo mia la responsabilità di quanto è so-stenuto nel saggio. Nel 2007 sarà pubblicata a mia cura una nuova edizione dell’operapresso Carocci.

1 Dell’opera furono pubblicate quattro edizioni e una traduzione francese: CESARE

CANTÙ, Portafoglio d’un operaio ordinato e pubblicato da Cesare Cantù, Milano, G. Agnelli,1871; Portafoglio d’un operajo ordinato e pubblicato da Cesare Cantù. Nuova ed, Milano,Agnelli, 1872; Portafoglio d’un operajo ordinato e pubblicato da Cesare Cantù. 3. ed. milane-se, Milano, Giacomo Agnelli, 1877; Portafoglio d’un operaio ordinato e pubblicato da CesareCantù. 4. ed. milanese, Milano, G. Agnelli, 1883; C. CANTÙ, Le carnet d’un ouvrier. Ouvra-ge trad. de la 4e éd. Italienne par Régis Usannaz-Joris, Paris, Firmin-Didot, 1885.

2 C. CANTÙ, Portafoglio d’un operaio, a cura di Carlo Ossola, Milano, Bompiani,1984, poi ristampato nel 1997. Le citazioni del romanzo si riferiranno a questa edizio-ne, indicata semplicemente con Portafoglio.

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formulare un giudizio complessivo negativo su Cantù.3 Maggior fortunail romanzo ha trovato tra gli storici, i quali, spesso nell’ambito di studipiù generali, hanno richiamato l’attenzione sul Portafoglio d’un operaio. So-no da ricordare i testi di Ginzburg, di Lanaro e di Della Peruta.4

Proprio su sollecitazione di questi studi, dal 1984, anno della ricor-renza del centottantesimo anniversario della nascita dello scrittore, si ècominciato a registrare anche tra gli italianisti un certo interesse. Si se-gnalano soprattutto l’Introduzione di Ossola alla sua edizione del Portafo-glio, il saggio di Paccagnini Cesare Cantù e il mondo operaio e gli studi diAdriana Chemello.5 Grazie alle recensioni dell’edizione di Ossola e

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3 FRANCESCO DE SANCTIS, La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli, a curadi Carlo Muscetta e Giorgio Candeloro, Einaudi, Torino, 1953, pp. 213-229 (Gli studistorici di Cesare Cantù); pp. 231-245 (Cesare Cantù e la letteratura popolare); ALBERTO ASOR

ROSA, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Einau-di, 1988, pp. 39-42. Il romanzo continuò ad essere trascurato anche negli studi succes-sivi: VITO LO CURTO – MARIO THEMELLY, Gli scrittori cattolici dalla Restaurazione all’unità,Bari, Laterza, 1976, p. 100; MARINELLA COLUMMI CAMERINO, Idillio e propaganda nella let-teratura sociale del Risorgimento, Napoli, Liguori, 1975, p. 40; PAOLO PAOLINI, CesareCantù narratore, in “Italianistica”, a. XIV, n. 2, maggio-agosto 1985, pp. 203-220.

4 CARLO GINZBURG, Folklore, magia e religione, in AA.VV., Storia d’Italia, I. I carat-teri originali, Torino, Einaudi, 1972, pp. 666-670; SILVIO LANARO, Nazione e Lavoro.Saggio sulla cultura borghese in Italia. 1870-1925, Venezia, Marsilio, 19883; FRANCO DEL-LA PERUTA, Cesare Cantù e il mondo popolare, in “Storia in Lombardia”, III, 2 (1984), pp.5-38. Particolare importanza ha avuto, in questa rinascita di interesse sul Portafoglio ilrichiamo di Ginzburg che nel saggio citato lo definisce «l’incunabolo del populismoreazionario italiano», pur riconoscendo all’autore «la tempestività dello sguardo»nell’affrontare il tema dell’industrializzazione e la questione sociale, come anche la no-vità della proposta di istituire il cappellano degli operai. Anche Ossola nella sua Intro-duzione cit. (pp. 46-47, n. 8), dopo aver segnalato il lungo disinteresse sulla figura diCantù, riconosce a Ginzburg il merito di aver richiamato l’attenzione sul Portafoglio:«Per il Cantù assai maggiore è l’oblio, sebbene i pochi esegeti odierni raccomandino,per il fatto stesso di averne scritto, l’opportunità di un “ritorno” d’attenzione […]. Èmerito tuttavia di Carlo Ginzburg l’aver riportato vigorosamente l’accento, per il suovalore emblematico, sul Portafoglio d’un operaio nella cultura dell’Italia unita».

5 ERMANNO PACCAGNINI, Cesare Cantù e il mondo operaio, “Otto/Novecento”, a. XV,n. 3/4, maggio-agosto 1991, pp. 117-144; di PACCAGNINI anche un articolo per ricorda-re il centenario della morte dello scrittore: Cesare Cantù, scrittore guelfo, in “Studi catto-lici”, a. XXX, n. 418, dicembre 1995; ADRIANA CHEMELLO, La biblioteca del buon operaio.Romanzi e precetti per il popolo nell’Italia unita, Milano, Unicopli, 1991, passim, ma so-prattutto le pp. 91-98; EAD., Mutualismo ed associazionismo nella letteratura del “self-help”in Italia, in La scienza moderata. Fedele Lampertico e l’Italia liberale, a cura di Renato Ca-

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all’anniversario ricordato, l’interesse per Cantù guadagnò qualche spazioanche sulle pagine culturali di quotidiani e riviste.6

Gli studi sul Portafoglio d’un operaio sono stati però viziati da una ine-satta ricostruzione della sua genesi, determinata soprattutto dall’accessoai carteggi di Cantù. Non erano consultabili all’epoca dell’uscita del sag-gio di Ossola e successivamente sono stati utilizzati solo parzialmente:Chemello ha consultato solo le lettere dell’archivio Rossi e Paccagnini so-lo quelle del Fondo Cantù.

Ossola, cui va riconosciuto il merito di aver delineato il contesto cul-turale in cui il romanzo si inserisce, indicandone anche le novità intro-dotte all’interno del nuovo genere della letteratura per l’operaio che si an-dava affermando, si è basato per la genesi del romanzo sulla voluminosa,ma a volte inaffidabile, monografia su Alessandro Rossi scritta da CappiBentivegna.7 Quest’ultima – che era soprattutto una scrittrice e divulga-trice in forma narrativa di vari temi – ha raccontato la vita dell’indu-striale in modo a volte suggestivo, ma senza nessun riferimento a docu-menti, preferendo probabilmente attenersi a testimonianze orali di lonta-ni discendenti. A proposito del Portafoglio afferma che Cantù ebbe unavera e propria committenza da Rossi, il quale avrebbe addirittura fornitolo schema dell’opera,8 oltre a correggerne le bozze.

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murri, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 55-60; EAD., La filosofia del «buon operaio» neiprimi «romanzi industriali» della letteratura popolare tardo-ottocentesca, in Letteratura e indu-stria. Atti del XV Congresso A. I. S. L. I. Torino, 15-19 maggio 1994. I. Dal Medioevo al pri-mo Novecento, a cura di Giorgio Bárberi Squarotti e Carlo Ossola, Firenze, Olschki, 1997,pp. 363-397, cfr. anche PAOLO GETREVI, L’alfabeto corporativo: da Cantù a Cena, ivi, pp.399-414. I Saggi di Ossola, di Paccagnini e di Chemello hanno acquisito una particola-re rilevanza negli studi sul Portafoglio d’un operaio, per questo motivo sono richiamati ediscussi continuamente, anche criticamente, nel saggio.

6 GIUSEPPE CATTANEO, Quell’operaio fa parte della Crusca, in “La Repubblica”,28/3/1984, pp. 22-23; GIORGIO DE RIENZO, Il “buon operaio” di Cesare Cantù, in “Cor-riere della Sera”, 4 lug. 1984, p. 14; VITTORIO DORNETTI, Quando Cantù allungava lamano verso il portafogli d’un operaio, in “Nuova Rivista Europea”, a. VIII, n. 7/8, lug-ago, 1984, pp. 65-67; G.BARBERI SQUAROTTI, L’Italia dell’800 nel Portafoglio di un ope-raio, in “Tuttolibri”, a. 10, n. 419, 8 sett. 1984, p. 2; POMPEO GIANNANTONIO, Cantù,Portafoglio, in “Critica letteraria”, 12, n. 44 (1984), pp. 612-615; GABRIELE CATTINI,Cesare Cantù senza Manzoni, in “Studi cattolici”, a. 29, n. 288, feb. 1985, pp. 131-132.

7 FERRUCCIA CAPPI BENTIVEGNA, Alessandro Rossi e i suoi tempi, Firenze, Barbèra,1955.

8 Ivi, p. 161: «Mentre Alessandro Rossi e Luigi Luzzatti annunciano l’inchiesta in-dustriale del 1872, Cesare Cantù se ne tiene informato ed informa i due amici, espertis-

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Ossola – pur con le riserve dovute all’impossibilità di verificare idocumenti – accoglie la tesi della committenza, che era d’altra partecondizione preliminare al suo interesse per l’opera di Cantù, visto che ilsuo studio era finalizzato proprio a colmare la lacuna sulla “committen-za letteraria” dell’industriale, avendo già la critica ampiamente scanda-gliato la “committenza artistica”.9 Dalla ricostruzione della genesi delromanzo fa seguire una serie di valutazioni, alcune delle quali sono darivedere alla luce dei carteggi di Cantù con alcuni suoi corrispondenti.Innanzitutto vede nell’opera di Cantù una realizzazione in forma narra-tiva delle idee di Rossi e un aggiornamento della sua politica culturale,che con l’incarico allo scrittore avrebbe adeguato la letteratura deglioperai alle nuove esigenze sociali. Attribuisce, inoltre, all’inizio dellacollaborazione con Rossi il ritorno di Cantù alla letteratura popolare,ma più in generale nel suo saggio tutto il pensiero dello scrittore sullaquestione sociale risulta poco autonomo e schiacciato sulle posizionidell’industriale scledense.10 In questa direzione viene sottovalutato il

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simi e studiosi, solidali nel fine popolare e collettivo della funzione nazionale […] per-ché da Alessandro Rossi è stato invitato a scrivere in forma piana, esauriente, adatta al-la coltura degli operai ancora limitata e ristretta, dei problemi importantissimi dell’in-dustria nazionale fatta di tutto il loro lavoro e di tutti i loro interessi

Nasce così «Buon senso e buon cuore», libretto prezioso nel quale i concetti delrisparmio, del mutuo soccorso, del sistema di banche cooperative, son resi alla porta-ta degli operai e dei contadini, ed ancora col «Portafoglio di un operaio» per il qualeAlessandro Rossi stesso dà lo schema, egli stesso ne rivede le bozze, consiglia al Cantùle modificazioni necessarie; e lo storico, con la semplicità dei grandi spiriti nella ge-nerosità di un dovere spontaneamente imposto alla propria coscienza – la coscienzadell’io riflessa nella coscienza del noi – accetta le correzioni e ringrazia, sollecitandola revisione di altre pagine, di altre operette popolari, di collaborazioni giornalistiche[…]».

9 Nell’Introduzione l’interesse di Ossola è infatti focalizzato su Rossi più che suCantù, infatti a p. 46, n. 6, dopo aver constatato che la “committenza artistica” di Ros-si è stata abbondantemente studiata, afferma: «nulla è stato fatto sul versante della“committenza letteraria” di Alessandro Rossi, […] In questa direzione, focalizzata sul-la “produzione di testi” per la classe operaia, si muove il presente lavoro». Si capisceche la tesi della committenza non è elemento secondario dell’indagine, ma condizionepreliminare.

10 OSSOLA, Introduzione cit., p. 26: «Quando dunque ad Alessandro Rossi si presen-ta l’opportunità di far ridisegnare, in forma più attuale e più stringente, Il libro dell’ope-raio, tra il 1866 ed il 1868, sebbene su questo punto la inaccessibilità del carteggio Ros-si-Cantù renda il discorso congetturale, è quasi d’obbligo che la sua attenzione si rivol-ga al Cantù, già trent’anni prima efficace patrocinatore delle ‘cognizioni intorno all’in-

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significato della complessità della struttura del romanzo e la continuitàcon opere precedenti, dalle quali l’autore trascrive interi brani. Il Por-tafoglio è, infatti, sulla stessa linea di Del progresso positivo11 e di Buon sen-so e buon cuore,12 dai quali l’autore trascrive dei brani13.

Anche Chemello fa propria la tesi della committenza, mentre Pacca-gnini ne attenua la portata, preferendo parlare di collaborazione tra i due,pur non mettendo in discussione che venisse da Rossi il progetto e l’in-carico di comporre il romanzo, basandosi il suo studio su “una letturamonodirezionale del carteggio” tra lo scrittore e l’industriale.14

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dustria, alla proprietà, alle aziende’, e moderato mediatore di ‘economia e morale’, diFranklin e di Pestalozzi.

Il comune mandato parlamentare, esordiente il Rossi ed alla vigilia dell’ultimo an-no di mandato il Cantù, nel 1866, favorì un incontro che divenne presto, anche per lasintonia ideologica dei due deputati, collaborazione attiva ed anche, da parte del Rossi,vera e propria committenza culturale.

Non è improbabile che proprio alle sollecitazioni di Alessandro Rossi si debba il ri-torno del Cantù, oltre trent’anni dopo il fortunato trittico Il buon fanciullo – Il giovinetto– Il Galantuomo, alla letteratura pedagogico-popolare, se sono corrette le notizie fornitedalla Cappi Bentivegna.»

11 C. CANTÙ, Del progresso positivo memoria del cav. Cesare Cantù membro effettivo del R.Istituto Lombardo di Scienze e Lettere letta nelle adunanze del 4 e 13 marzo 1869, Milano, Tip.Bernardoni, 1869.

12 C. CANTÙ, Buon senso e buon cuore. Conferenze popolari, Milano, Agnelli, 1870.13 Era tipico di Cantù riutilizzare con disinvoltura parti di sue opere precedenti

ma anche di lavori altrui. I contemporanei criticarono più volte questo suo metodo dilavoro che Dossi stigmatizzò in forma lapidaria: «Cesare Cantù è un letterato ciabatti-no. Forbice e colla, ecco il suo stile» (CARLO DOSSI, Note azzurre, Milano, Adelphi,1964, n. 486. Molte note sono degli attacchi velenosi a Cantù). Utile su questo puntole osservazioni di Berengo: «Assuntosi il compito di divulgare criticamente le novitàletterarie, lo assolve assimilando, compilando e traducendo: è una tecnica che, speri-mentata ora, gli consentirà di condurre in porto l’immensa fatica della Storia universa-le. Le accuse di plagio da cui sarà, ora e più tardi / bersagliato, gli appaiono – in tuttacoscienza – calunniose. Il letterato, ai suoi occhi, ha pieno diritto di compiere con que-sto metodo il suo mestiere: i confini tra elaborazione propria e rielaborazione critica dellavoro altrui restano, per lui, labili ed arbitrari» (MARINO BERENGO, Intellettuali e librainella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1980, pp. 370-371). Cfr. anche PAO-LINI, Cesare Cantù narratore cit.

14 PACCAGNINI, Cesare Cantù e il mondo operaio cit., p. 123: «E sono proprio questiscambi [scil. di opinioni tra Rossi e Cantù contenuti nelle lettere] a ritenere azzardata –almeno quanto a formulazione dai caratteri romanzeschi, conseguente anche a una let-tura monodirezionale del carteggio – le agiografiche affermazioni di Ferruccia CappiBentivegna […] fin dall’inizio il terreno appare piuttosto quello della paritaria collabo-

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Il presente saggio vuole proporre una nuova ricostruzione della gene-si del romanzo, puntualizzare i rapporti tra Cantù e Rossi e studiarel’opera come autonoma espressione del pensiero del suo autore, indivi-duandone il nodo più significativo nel tentativo di conciliare la modernasocietà industriale con la morale cattolica.

2. La genesi del romanzo

La corrispondenza tra Cantù e Rossi,15 ma anche le lettere dell’aba-te Pietro Mugna a Cantù,16 chiariscono la genesi del Portafoglio e i rap-porti dell’autore con l’industriale scledense. In queste corrispondenzenon c’è traccia di committenza;17 c’è, invece, documentata, tra i due

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razione e di un reciproco sottoporsi i propri scritti». Sulla “ricostruzione romanzesca”della Cappi Bentivegna, cfr. Alessandro Rossi cit., p. 137, n. 20.

15 Le lettere di Cantù a Rossi sono conservate nell’Archivio Rossi, presso la BibliotecaCivica “Bortoli” di Schio. Si tratta di un gruppo di 58 lettere delle quali solo alcune datate.Le lettere sono numerate secondo il seguente ordine: prima le lettere datate, poi in ordinesparso le altre che hanno solo l’indicazione del giorno e del mese. Qui verranno citate dan-do l’indicazione “Archivio Rossi”, il numero della busta che le raccoglie, l’indicazione delnumero progressivo e della data; quest’ultima viene indicata dentro una parentesi quadraquando è stata individuata con controlli incrociati con le altre di Rossi o contestualizzandoi contenuti. Non darò spiegazioni, in questa sede, delle motivazioni che hanno portato allaricostruzione delle date: lo farò in occasione della pubblicazione delle lettere a cui sto lavo-rando. Una prima descrizione dell’archivio Rossi si trova in LUCIO AVAGLIANO, Nota archivi-stica, in ID., Alessandro Rossi e le origini dell’Italia industriale, Napoli, Libreria Scientifica Edi-trice, 1970, pp. 535-537 (alle pp. 355-520 pubblica un gruppo di lettere), e in GIOVANNI

LUIGI FONTANA, Archivi aziendali e archivi privati: il caso del lanificio Rossi, in “Archivi e Im-prese”, n. 4, luglio-dicembre 1991, pp. 3-17. L’archivio era stato ordinato da Cappi Benti-vegna all’epoca della scrittura della biografia di Rossi e successivamente da un gruppo di bi-bliotecari, resta comunque ancora in una situazione di disordine.

Le lettere di Rossi a Cantù sono conservate in più faldoni del Fondo Cantù della bi-blioteca “Ambrosiana” di Milano.

16 Le lettere di Pietro Mugna a Cesare Cantù si trovano nel Fondo Cantù della Bi-blioteca Ambrosiana di Milano. Qui abbiamo preso in considerazione quelle relativeagli anni 1869-1872.

17 L’esposizione della Cappi Bentivegna risultava comunque molto debole anchesenza la consultazione delle lettere. Infatti, lei afferma che Cantù seguiva nel 1872 i la-vori dell’inchiesta di Rossi e di Luzzati perché aveva avuto la commissione di descrivein forma narrativa la questione sociale e che da quest’incarico sarebbero nati Buon senso ebuon cuore e Il Portafoglio di un operaio, che risultavano però entrambi pubblicati primadel 1872, il primo nel 1870 e il secondo nel 1871.

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una collaborazione finalizzata alla raccolta delle informazioni necessarieallo scrittore per l’ambientazione del suo romanzo e un’articolata di-scussione sulla questione sociale, che trova una convergenza nel comu-ne retroterra cattolico, ma anche una serie di dissensi tutt’altro che se-condari.

Intanto sono necessari alcuni chiarimenti preliminari. Prima di tuttol’amicizia tra i due non risale al 1866 – come supponeva Ossola –18 ma al1869. È l’abate Pietro Mugna – amico e frequente ospite di Rossi, ma an-che corrispondente di Cesare Cantù – a sollecitare quest’ultimo ad entra-re in corrispondenza con l’industriale e a invitarlo a Schio nel 1869,quando Cantù effettua l’unica visita documentata in casa di Rossi.19 D’al-tra parte nemmeno si può parlare di collaborazione, se non per la raccol-ta di informazioni sulla realtà industriale che Rossi fornisce a Cantù.

La corrispondenza tra i due inizia, dunque, nel gennaio del 1869quando lo scrittore scrive all’industriale per ringraziarlo di aver avuto indono il volume L’arte della lana,20 sul quale fa una serie di osservazionicritiche, dalle quali Rossi si difende dicendo che, come lo avrà già infor-mato Piero Mugna, ha scritto il testo in poco tempo. È probabile, quin-di, che sia stato Mugna a mandare il volume, proprio con l’obiettivo dimettere in contatto i due, non c’è infatti una lettera di Rossi che accom-pagna il testo. È sempre Pietro Mugna che in un primo momento fa datramite con Rossi, informandolo del progetto di Cantù di scrivere un li-bro per gli operai, e chiedendo per lo scrittore informazioni sulla vita difabbrica.

Nella sua lettera del 18 novembre 1869 afferma: «Aspetto dal nostroRossi le chieste notizie ad essere esatto, e appena ricevute, ve le manderò,se non si pregia di servirvi egli stesso».21 Le informazioni arriveranno poicon la lettera del 19 novembre 1869.22

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18 Cfr. infra nota 10.19 Mugna a Cantù, s.l., s.d., Fondo Cantù, R. 12 inf., ins. 2, Lettera 138, f. 143r:

«Mio caro Cantù vi scrivo dalla stupenda villa a S. Orso presso Schio dell’umilissimomio Rossi […] Voi conoscete già di nome il Rossi, ma andrete lieto di farne la sua co-noscenza personale, come egli godrà di conoscere voi. Son certo che vi troverete bene in-sieme». Del parere che sia stato Mugna a mettere in contatto Rossi e Cantù anche PAC-CAGNINI, Cesare Cantù e il mondo operaio cit., p. 123.

20 ALESSANDRO ROSSI, Dell’arte della lana in Italia e all’estero, giudicata all’Esposizionedi Parigi del 1867, Firenze, Barbèra, 1869.

21 Mugna a Cantù, Padova, 18 novembre 1869, Fondo Cantù, R. 12 inf., ins. 2. let-tera 116, f. 140r.

22 Mugna a Cantù, Padova, 19 novembre 1869, Fondo Cantù, R. 12 inf., ins. 2. let-

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Finalmente nel maggio del 1870 il Cantù espone direttamente a Ros-si il suo progetto:

L’editore mi scrisse e insiste perché io faccia un libro espresso per gli operai.Dovrei ripetere molte cose dette nel Buonsenso. Farei la storia dell’operaio, lafamiglia, la politica, la religione, la creanza, l’economia, i divertimentidell’operaio. Vi pare converrebbe?23

Già questa prima esposizione dei fatti ci fa capire come Rossi fu estra-neo all’ideazione del Portafoglio d’un operaio. Ulteriore conferma ci vieneda una lettera di Rossi a Pietro Mugna, dove leggiamo che, non solo Ros-si non è committente, e tanto meno redattore di una “schema” dell’ope-ra, ma in un primo momento è addirittura preoccupato del progetto diCantù, tanto da scriverne “spaventato” – come dice – al Tommaseo.24 Imotivi della preoccupazione del Rossi potrebbero essere determinati dal-le rigide posizioni politiche assunte da Cantù – soprattutto nel parla-mento, dove era appoggiato solo da Vito d’Ondes Reggio – in difesa del-le prerogative della Chiesa nell’ambito del nuovo Stato25. Riproposte nellibro rischiavano di suscitare dispute considerate pericolose nella situa-zione politica e sociale dell’Italia, a cui si aggiungevano le preoccupazio-ni di una possibile estensione dei disordini francesi che sfocerannonell’esperienza della Comune. Questa tesi trova conferma nelle racco-

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tera 117, f. 109 r: «Caro Cantù, vi scrissi jeri mandandovi finalmente il Rublo per casotrovato, ed oggi vi riscrivo per acchiudervi le notizie desiderate in lettera del mio Rossi».

23 Cantù a Rossi, Milano, 27 maggio 1870, Archivio Rossi, busta 7.2, lettera n. 3.24 Dopo aver fornito alcuni dati sulla sua fabbrica afferma: «Eccoti caro Piero alcu-

ni dati aggranditi dopo la pubblicazione del nostro libretto, per soddisfare le domandedell’illustre nostro amico Cav. Cantù. Se d’altro abbisogni scrivimi. […] Dal Pozzettospero dare per la seconda festa di natale il primo dramma.

Vedrò dunque sotto il loro vero aspetto i libri che mi mandasti e che consegnavosenz’aprirli a Teresina, e così farò de’ due favoritimi dal Sig. Cantù.

Quanto tu mi narri e lessi nella lettera di questo signore, Lampertico mi avea purqui riferito. Io ne scrissi al Tommaseo spaventato ma ragionevolmente.

Ebbimo il libro di Parolari. Avrò carissimo quello del Prosperini, lavoro tuo,com’ebbi tale quello del senatore Cittadella – e grazie» (Rossi a Mugna, s. l., s. d., Fon-do Cantù, R. 12 inf., ins. 2. lettera 135. ff. 111-112. La lettera è spedita a Cantù in al-legato alla lettera di Mugna del 19 novembre 1869).

25 Sulla posizione politica di Cantù rispetto al nuovo Stato e sulla sua attività par-lamentare cfr. FILIPPO MAZZONIS, Cesare Cantù e i “conservatori nazionali”, in “Trimestre”,XVII, 1-2 (1984), pp. 127-148, in modo particolare le pp. 138-139.

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mandazioni che già nel novembre del 1869 Mugna, probabilmente die-tro sollecitazione di Rossi, faceva a Cantù:

Godo che vi occupiate di un libro popolare, e farete cosa degna di voi tantoaddentro ne’ bisogni e nelle aspirazioni del popolo. Guardatevi, e scusatel’avvertimento, che la condizione de’ tempi non vi tiri a polemiche, cosa cheturberebbe la serenità necessaria del libro, acciò torni tranquillante utile edistruttivo senza irritare passioni pur troppo deste e vive.26

Rossi dà risposta a Cantù sul progetto del romanzo mentre si trova invacanza a Saint Moritz, dove, estasiato dal paesaggio, medita sulla picco-lezza delle azioni umane e sulla grandezza della natura; si capisce dal to-no della lettera che non è entusiasta, ma alla fine di una lunga lettera, do-ve parla di tutt’altro, dà il suo assenso e fornisce qualche consiglio che ri-sulta interessante per capire il punto di vista dell’industriale.

Per quanto valga la mia debole voce io v’incoraggio a fare il libro che vi sipropone. Certe cose non si ripetono mai abbastanza, e certi principi sonoimmutabili in qualunque tempo e per qualunque condizione di uomini.Solo io vorrei che prendeste per tipo dell’operaio quello delle grandi offici-ne; il tema un po’ che io avea proposto pei drammi. Perché la trasformazio-ne va operandosi anche da noi nelle industrie. Le leghe nei mestieri dellacittà, ove più dominano gli ozi e le impazienze, non ponno ancora da noiavere quelle intensità che hanno fuori ed io credo che l’esempio dei borghie delle campagne deve moralizzare le nostre città, illustri ma pitocche. Apoco a poco i garibaldini di campanile non sono più ascoltati; rimangonosoltanto quelli dei caffè e delle taverne. I libri delle inchieste inglesi, e quel-li di Reybaud possono darvi un indirizzo, ma per gli italiani occorre un li-bro italiano, e che si capisca subito. La grande maggioranza del paese ope-raia e non operaia v’applaudirebbe.27

Perplessità Alessandro Rossi manifestava ancora nel gennaio del1870, esprimendo la convinzione che questi libri rivolti agli operai inItalia «vengono innanzi tempo o vengono scompagnati dal più necessa-

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26 Mugna a Cantù, Padova 26. novembre 1869, Fondo Cantù, R. 12 inf., ins. 2, let-tera 118, f. 135 r.

27 Rossi a Cantù, S. Maurizio 18 Giugno 1870, Fondo Cantù, R. 12 inf., ins. 2. let-tera n. 140, ff. 125 bis. Significativamente si trova tra un gruppo di lettere di Mugna aCantù.

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rio», che era un solido insegnamento religioso.28 Probabilmente egli con-sidera più adatto il teatro del romanzo per l’educazione popolare e, infat-ti, in questo stesso periodo bandisce un concorso per la scrittura di un te-sto teatrale da rivolgere al popolo che abbia come protagonista l’operaiodelle grandi industrie.29 Sulla necessità di porre al centro dell’attenzionei problemi della grande industria, Rossi insiste anche con Pietro Mugna,che probabilmente pensa diversamente.

Caro Pieroè vero che la maggioranza è nella piccola non nella grande industria. Ma latrasformazione, avvenuta altrove in Europa, cioè in Inghilterra, Francia,Germania, Belgio ed Olanda, va sempre più operandosi anche in Italia in fa-vor di quest’ultima; anche le industrie così dette piccole tendono ad agglo-merarsi. […]. Laonde i pericoli temuti per le grandi si riferiscono anche al-le piccole industrie. […] Le condizioni nuove dell’industria moderna porta-rono seco uno stato sociale nuovo; volendo manifestarne il pericolo, convie-ne andarne alle fonti; e più che all’individuo parlare alle masse, la cui ag-glomerazione, dapprima usufruttate dai padroni inglesi, poscia dai dema-goghi politici, produsse tutti gl’inconvenienti che deploriamo e che ognigiorno più minacciano seri disordini e sventure. Prendendo un operaio isolato d’una piccola industria, se non è in rapportocostante colla classe operaia agglomerata si rischia di fare una pastorale o undramma. Nel primo caso il tempo attuale è troppo agitato per darvi retta, egl’italiani troppo nervosi per leggere in famiglia – nel secondo caso si giu-dica come cosa ipotetica e di entusiasmo. A me piace moltissimo, l’educa-zione personale di Channing, ma la trovo assai superiore all’intelligenza edall’istruzione dei nostri operai – pure ne vorrei seguite le trame. Stupendeverità dice il vescovo di Magonza Mr Ketteler nel suo libro “la Questioneoperaia e il Cristianesimo”. Certamente l’illustre Cantù non è uomo da cer-

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28 Rossi a Cantù, Schio 16 gennaio 1870, Fondo Cantù, R. 13. inf., ins. 8. lettera4. f. 6r: «Le associazioni operaie sono divenute una necessità; ma non è colla istruzionesola che d’un tratto saremo inglesi o americani. Se una democrazia veramente cristianapotesse fondarsi nelle classi del lavoro, ogni pericolo sarebbe tolto; perché quelle virtùmorali che ne devono essere la base avrebbero un punto di appoggio, come l’hanno glianglosassoni in una religione qualunque. Da noi invece è una confusione strana di tuttoe tutti questi libri, anche buoni, anche popolari, vengono innanzi tempo o vengonoscompagnati dal più necessario. Se mettessimo il catechismo di morale pel primo, l’al-fabeto farebbe poscia strada sicura durevole e breve».

29 CAPPI BENTIVEGNA, Alessandro Rossi cit., pp. 164 ss. Il bando del concorso si puòleggere ivi, p. 168.

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care circonlocuzioni per dedurre pubblicamente che, tutti dal primo all’ul-timo, i mali che deploriamo derivano dall’assenza di religione. Il primo li-bro prende l’operaio anche da solo, ma suppone una istruzione elementareed una prima educazione famigliare ben diverse da quelle che abbiamo noi.Noi si deve lavorare a rimorchio! […]Il proponimento dell’ottimo nostro amico mi sorride però moltissimo e l’in-tenzione mostrata a mio riguardo mi onora grandemente. Qualora Egli misottomettesse alcuni quesiti io vedrò di rispondergli come potessi.30

Come si vede, quindi, Cantù elabora il progetto in piena autonomia,forse, come dice egli, su una prima sollecitazione dell’editore. D’altraparte non bisogna dimenticare che Rossi, oltre a essere un industriale eun uomo politico, fu un intellettuale vivace, che più volte era intervenu-to su questioni politiche ed economiche, cimentandosi anche con la com-posizione poetica,31 e che quindi in questo campo non avrebbe avuto bi-sogno di ricorrere all’aiuto altrui. Infatti, sulla questione operaia avevapoco prima tradotto Della educazione personale o della coltura di se stesso diWilliam Channing,32 a cui aveva fatto precedere una sua prefazione. Sia-mo pertanto convinti che non esista da parte di Rossi una vera commit-tenza nell’ambito letterario, limitandosi egli alla promozione del premioletterario per la scrittura di opere teatrali da rappresentare a Schio.

Cantù aveva invece cercato l’appoggio di Rossi perché gli tornava uti-le per una serie di motivi. Innanzitutto aveva bisogno di una fonte diinformazioni sulla realtà industriale nella quale doveva ambientare il suoromanzo. Inoltre, una presenza forte nell’opera – attraverso la dedica, l’ar-tificio del manoscritto e l’ingresso come personaggio – dell’industriale

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30 Rossi a Mugna, s.l., s.d., Fondo Cantù, R. 12 inf., ins. 2, lettera 141, f. 124r. Peril riferimento alle traduzioni italiane dell’opera di Channing vedi infra nota 32; la tra-duzione del testo di Vetteler è la seguente: GUGLIELMO EMANUELE KETTELER, La questioneoperaia e il cristianesimo, Venezia, Tipografia Merlo, 1870.

31 Una bibliografia esauriente ma disordinata della vasta produzione di Rossi si tro-va in CAPPI BENTIVEGNA, Alessandro Rossi cit., pp. 377-388, dove vengono elencati 246testi. Ecco i titoli della sua produzione poetica: Schio artiera. Versi, Rovigo, Minelli,1866; A’ miei figli. Versi, Schio, 1877; Brindisi in versi Martelliani al banchetto sociale perla fondazione dell’Associazione Laniera Italiana, Biella, in “L’eco dell’industria”, n. 3(1877); La Torre Eiffel, ode saffica sui versi di Francesco Coppée, 1889; A Giacomo Zanella.Quartine, Vicenza, Tip. S. Giuseppe, 1893; La Massoneria: Poema comico-tragico di 33 stro-fe. 333 versi, Pistoia, Flori e Bigini, 1896.

32 Padova, Prosperini, 1870; l’opera ebbe altre due edizioni: Padova, Prosperini,1871; Schio, Tipografia Marin, 1884, 3. ed. con nuova prefazione di Alessandro Rossi.

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più prestigioso e rappresentativo del tempo legittimava e dava autorità aldiscorso di Cantù sulla questione sociale. Infine, lo scrittore, che vivevasolo dei suoi diritti d’autore, e che non avrebbe potuto contare sull’ac-quisto della sua opera da parte del governo come testo scolastico, nonavrebbe disdegnato una commissione di libri da parte dell’industriale peri suoi operai.

Avuto, comunque, l’appoggio del corrispondente, Cantù comincia alavorare al testo, partendo dall’intreccio:

Fingo che voi mi abbiate affidato le carte lasciate da un operaio, divenutocapofabbrica, e morto, ed io le rimpasto, e ne cavo il racconto della vitad’uno che tirava su vari mestieri, pizzicagnolo, filandiere, stradaiuolo, tessi-tore, agricoltore ecc. Son avventure morali insieme e (per quanto posso) in-teressanti, intrecciate alla quistione operaia, in grande e in piccolo, dal latointeresse e dal lato morale. Avrei voluto che l’eroe finisse nel vostro opificio,ma avrei dovuto dare a voi un altro carattere, e avventure ecc. Così lo gettoin un paese non nominato, sul finire va all’esposizione di Parigi ove vede ilbene e il male. Ma voi sapete che ne’ romanzi non fa l’intreccio generale,bensì i dettagli. E questi Dio sa se riusciranno.33

La trama piace all’industriale.34 Subito dopo Cantù comincia la fasedi documentazione sulla realtà industriale e sulla vita dell’operaio. Estraedati da L’arte della lana35 e sintetizza un intervento al senato di Rossi, alquale chiede informazioni sulla sua fabbrica e su molti aspetti della vitadegli operai.36

Già nel novembre del 1870 può mandare a Rossi «così per ozio» «lebozze scorrette delle prime pagine del noto libro».37 A febbraio lo infor-

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33 Cantù a Rossi, Coccaglio, 21 ottobre [1870], Archivio Rossi, busta 7.2, letteran. 57.

34 Rossi a Cantù, s.l. 31 ottobre [1870], Fondo Cantù, R8 inf., ins. 12, Lettera 42,f. 61r: «La tessitura del vostro racconto accorda anche le mie idee».

35 Cantù a Rossi, Milano, 28 novembre [1870], Archivio Rossi, busta 7.2, letteran. 34.

36 Riferimenti alle informazioni sulla realtà industriale che Rossi manda a Cantùpossono trovarsi nelle seguenti lettere del Fondo Cantù: s.l. 31 ottobre [1870] (R. 13.inf., ins. 8. Lettera 42, f. 61r-61v); s.l. s.d. (R. 13. inf., ins. 8. Lettera 41. f. 59); 3 no-vembre 1870 (R. 13. inf., ins. 8. Lettera 8. f. 11); Schio 9 febbraio 1871 (R. 13. inf., ins.8, Lettera n. 9, ff. 13r-14r).

37 Cantù a Rossi, Coccaglio, 10 novembre [1870], Archivio Rossi, busta 7.2, lette-ra n. 56.

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ma che il libro va avanti lentamente e che avrebbe introdotto lui comepersonaggio per parlare della questione operaia; gli avrebbe, però, man-dato le bozze per fargli controllare quanto avrebbe detto,38 cosa che effet-tivamente fa nel marzo del 1871.39

È questo un passaggio importante, perché da questo intervento cor-rettivo Ossola e Chemello deducono un’affinità ideologica tra i due corri-spondenti.40 In realtà le operazioni di revisione delle bozze fanno emer-gere un’articolazione delle rispettive posizioni e addirittura un dissensosu alcuni temi.

Apprendiamo dalla lettera di Cantù del 2 aprile 1871 che qualcosanon è andata come Rossi voleva:

Sta bene. Ma non ho potuto mettere le cose ultime perché il dialogo si rife-risce ad anni indietro, quando voi eri [sic] ancora un semplice cittadino. Al-tre cose trovansi dette altrove. Spero nel mese sarà compito.41

E ancora il 7 aprile:

La colpa è tutta vostra. Io non capivo che cosa indicassero i numeri sullebozze e i freghi supposi cancellature e poiché lo stampatore aspettava glidiedi subito a tirare quel foglio. Sol dopo arrivò la vostra colle postille. For-tunatamente non c’è alcuna differenza essenziale; le allusioni alle cose pre-

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38 Cantù a Rossi, Milano 8 febbraio [1871], Archivio Rossi, busta 7.2, Lettera 43:«Il libro va innanzi lentamente, causa altri lavori della stamperia. V’ho detto che, sul fi-ne introduco Voi pure per trattare la quistione operaja. S’intende che vi manderò le boz-ze, e se la parte non vi garbasse, non bastasse il modificarla, la torremo. Vedrete».

39 Cantù a Rossi, Milano 27 marzo [1871], Archivio Rossi, busta 7.2, Lettera 47:«Appena scrittomi, mi giunse la prima prova del capitolo ove parlate voi. Bisognereb-be aveste veduto i precedenti per non incolparmi del troppo che manca. Ora vedete so-lo se convengasi che queste parole vadano come dette da voi. Vi succede un vescovo, chesviluppa la parte morale. Non badate alle scorrezioni: ma se va, rimandatemi coi vostriappunti. Se no, dite francamente; e si cambierà l’attore».

40 CHEMELLO, Mutualismo ed associazionismo cit., p. 85: «Sappiamo che questo capi-tolo del Portafoglio Rossi lo corresse ed emendò di proprio pugno, pertanto è da rite-nersi lo specchio fedele del suo pensiero sull’argomento». E ancora nella nota di sup-porto al testo appena citato continua: «L’intervento personale di Alessandro Rossi sultesto elaborato da Cantù è ampiamente documentato dalla fitta corrispondenza Rossi-Cantù». OSSOLA, Introduzione cit., p. 32 e n. 110 si affida alla ricostruzione della CappiBentivegna (Alessandro Rossi cit., vedi infra, n. 8).

41 Cantù a Rossi, s.l., 2 aprile [1871], Archivio Rossi, busta 7.2, Lettera 46.

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senti non potevano starvi; alcun’altra cosa si fu in tempo a collocarla. Sol mirincresce del primo pezzo ove esponevate più in disteso le idee che avevo de-sunto dal vostro discorso al senato. Insomma il fatto è fatto ma ciò mi por-ge nuova occasione di augurarvi la buona Pasqua, a voi e vostri.42

Dalla lettura di questo brano si evince che gli interventi di Rossi so-no stati pressoché nulli, per un equivoco vero, oppure – molto più pro-babilmente – finto, con il quale lo scrittore evita di cambiare delle partidel testo a cui teneva. Appare, infatti, improbabile che Cantù, con la suaconsumata esperienza editoriale, non riuscisse a interpretare gli interven-ti correttivi del corrispondente, al quale fra l’altro avrebbe potuto chie-dere spiegazioni. Sta di fatto che la tanto citata correzione delle bozze siè risolta più che altro in un’operazione mancata.

D’altra parte Rossi preferisce trattare in prima persona la questionesociale. Infatti, comunica a Cantù che avrebbe potuto sviluppare alcuneparti del libro, ma alla fine decide, invece, di esporre le sue idee in duelettere pubbliche indirizzare la prima all’economista Pietro Sbarbaro e laseconda al deputato Pasqualigo.43

Ma cerchiamo di individuare i motivi di dissenso tra i due corrispon-denti, che spingevano Rossi a voler effettuare delle correzioni sul testopur senza riuscirvi.

Preliminarmente va notato un fatto curioso e non del tutto irrilevan-te: Rossi, che ha creato nella sua Schio il teatro “Jacquard”, per il quale,come si è detto, ha bandito un concorso di opere teatrali da rivolgere a unpubblico di operai, è introdotto come personaggio nel capitolo del ro-manzo intitolato «La questione sociale» con queste parole:

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42 Cantù a Rossi, Milano, 7 aprile [1871], Archivio Rossi, busta 7.2, Lettera 24.43 Rossi a Cantù, Schio 31 marzo 1871, Fondo Cantù, R. 13. inf., ins. 8, Lettera 11.

ff. 17-18: «Autorizzato dal vostro foglietto 27 corrente mi sono permesso di mettere lamano sulle parti dove ho qualche idea mia propria, mentre verso la fine mi fate vestirele piume di pavone.

Aveva allungato il tema a p. 3, ma una singolare combinazione mi fece trasfonderequelle identiche idee in una lettera che verrà pubblicata in questi giorni sulla questionesociale da un’umanista entusiasta, giovane di cuore e di fede, che fin l’altro dì ho credu-to un mago ed è… il prof. Sbarbaro.

Le lettere saranno anzi probabilmente due, una al Deputato Pasqualigo. Se si pub-blicano mi procurerò qualche copia, e ve la manderò. Intanto io vi devo ringraziare del-la onoranza che questa vostra citazione mi procura.»

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Più che le sconvenienti emozioni del teatro, ho sempre amato la conversa-zione di persone oneste e che sanno. Pensate come fui beato allorché a far vi-sita al signor Edoardo venne Alessandro Rossi.44

L’idea che al teatro si potessero vivere «sconvenienti emozioni» eranient’altro che una sconfessione del programma culturale che Rossi sta-va sviluppando. Il capitolo contiene comunque più di un passaggio chepoteva suscitare le perplessità dell’industriale, che come personaggio af-fermava:

L’industriale indipendente, per quanto sia sottile, può ingegnarsi a miglio-rar condizione: ma v’ha paesi ove il giornaliero riceve un salario così limita-to che non farà tutta la vita se non lavorare pel capitalista, il quale lo sfrut-ta come un complemento delle macchine; e dove, senza speranza di miglio-rare, non può che mangiar pane e veleno, mormorare della società, sbigot-tirsi della famiglia, disamare i padroni, invidiare i capitalisti […].45

Difficile pensare che l’industriale – il quale aveva già fatto presente aCantù che “il tempo attuale è troppo agitato” e “gl’italiani troppo nervo-si” e si preoccupava, come diceva l’amico Mugna, di non «irritare passio-ni pur troppo deste e vive», con la rivoluzione sociale in atto a Parigi econ i problemi che il conflitto tra Stato e Chiesa apriva su un più ampiofronte ideologico – abbia potuto condividere queste frasi. Come è impro-babile che abbia potuto approvare l’attacco alla grande industria presen-te nello stesso capitolo,46 quando aveva raccomandato, sia a Cantù sia aMugna, che il libro si occupasse della grande industria e ne sostenesse leesigenze.

Il punto di maggior dissenso tra i due doveva essere però quello riguar-dante la partecipazione degli operai agli utili dell’impresa. Cantù facevasviluppare questo discorso proprio al personaggio Alessandro Rossi, il qua-le sentì il bisogno di prenderne le distanze pubblicamente, quando un gior-nale torinese sostenne che egli condivideva queste posizioni. Nel 1872 eglicoglie l’occasione della pubblicazione delle risposte fornite dalla sua azien-da all’inchiesta governativa sull’industria per inserirvi, come introduzione,una lettera indirizzata a Cantù in cui chiarisce la propria posizione.

IL PORTAFOGLIO D’UN OPERAIO DI CESARE CANTÙ 235

44 Cantù, Portafoglio cit., p. 281.45 Ivi, p. 283.46 Ibidem: «Questi mali si fanno peggiori quanto più si estende l’attività operaia,

quanto più la piccola industria soccombe alla gigantesca».

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Venerato Amico.Luciano, uno de’ miei migliori operai che si guadagnò una posizione similea quella del nostro Savino Sabini, col quale era in dimestichezza, sapendoora che si faceva una Inchiesta industriale, venne a pregarmi di pubblicarele Risposte che per l’industria della lana, come capo di fabbrica, io aveva for-nite agl’interrogatori del Comitato.Egli addusse a motivo della sua curiosità alcuni dubbi, che appunto Savinogli avea confidati alla fine della sua carriera. Nella questione sociale Savinonon ne conservava alcuno. […]No: i dubbi che ho detto di Savino cadevano invece sopra due punti contro-versi, la comunione assoluta, cioè a dire, degli utile del capitale e del lavo-ro, e le leggi moderne di scambio internazionale. In un giornale di Torinoche propugna la prima tesi egli avea visti chiamare noi due, voi ed io, pa-droni di vecchio modello, benché voi che inclinate a crederla cosa possibilein pratica mediante la libera adesione delle due parti lo abbiate scritto, ed ioche penso il contrario, o per meglio dire, assai immaturo il concetto, nonl’abbia né detto ancora, né scritto. Sul secondo argomento mi duole che Sa-vino non abbia potuto conoscere a tempo il mio discorso a Vicenza del 7maggio p. p. Di una nuova economia politica a voi noto. Sarei stato curioso disapere se i suoi dubbi si sarebbero dissipati od almeno diminuiti. […] Delresto mi accorsi che Luciano a leggere Il Portafoglio di Savino, e il raccontodi Andrea dello Scarabelli47, è divenuto pertinace in certe sue idee, soprat-tutto d’indipendenza personale. Figuratevi che, negli effetti, egli paragonaal Congresso Operaio tanto l’Inchiesta sulle classi lavoratrici quanto L’Inchiestaagraria.48

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47 IGNAZIO SCARABELLI, I padroni, gli operai e l’internazionale, Milano, Agnelli, 1872.48 Risposte alle domande dell’inchiesta industriale delle ditte Francesco Rossi ed Alessandro

Rossi e c. di Schio con una lettera a Cesare Cantù di A. Rossi e discussioni al senato sull’aumen-to di dazio alle macchine nella tornata del 18 aprile 1872, Firenze, Barbèra, 1872, pp. 5-9.Diversamente da quanto da noi sostenuto, in questa lettera Ossola (Introduzione cit., p.37) ha voluto vedere una manifestazione pubblica del compiacimento di Rossi per il la-voro svolto da Cantù e un «segno di riconoscenza». CHEMELLO, La biblioteca del buon ope-raio cit., pp. 139-140 segnala la lettera in un capitolo su “Le forme del racconto” «peril tacito “patto di funzione” che esso fonda». Scrive: «La finzione narrativa, che attra-verso sdoppiamenti tendenziosi attiva il consueto cerimoniale di sublimazione paradig-matica dell’eroe, è descritta ab origine nella lettera di Rossi, dove per un verso si vuol le-gittimare l’assunzione di tale modulo e per un altro verso enfatizzare il punto di vistadell’eroe, caricandolo di ragioni allotrope. La dinamica insidiosa della finzione, trapian-tata nella lettera dedicatoria, abdica ad una presunta funzione giocosa e, schermata die-tro la prepotente intrusione dell’eroe elevato al rango di protagonista, avvalora quelloscenario realistico che la scrittura aspira se non a riprodurre, almeno ad evocare. […] È

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Come si vede è una chiara e netta presa di distanza rispetto a quantoCantù gli aveva fatto dire nel suo romanzo dichiara, infatti, che pensavail contrario e che egli non aveva mai affermato né scritto quelle idee. Co-sa ancora più interessante, c’è qui una presa di distanza anche dal Portafo-glio, che insieme al libro di Scarabelli è inserito in un canone negativodella letteratura operaia, in quanto la sua lettura ha fatto diventare «per-tinace in certe sue idee» Luciano, l’operaio modello.

Sulla partecipazione dell’operaio agli utili dell’impresa Rossi scriveràampiamente nel suo volume Questione operaia e questione sociale, sostenendoche per la grande industria il modo migliore per realizzarla era quello dicreare «opere ed istituzioni capaci di produrre vantaggi materiali e mo-rali a tutta la classe operaia facente parte dell’impresa».49

Anche Cantù ritornò sul problema nell’opuscolo del 1884 Il socialistaonesto,50 ribadendo la sua posizione e spingendosi anzi a fare l’elogio diuna forma di socialismo cristiano; ma su questo torneremo più avanti, quici serve cogliere la distanza della posizione di Cantù da quella di Rossi,marcata ulteriormente dai due autori di riferimento scelti nell’affrontarela questione sociale: Channing per l’industriale e Ketteler per lo scritto-re. Questi due autori tornano continuamente nelle lettere dei due corri-spondenti a rimarcare distanze o avvicinamenti che però non porterannomai a un’affinità ideologica e politica tra i due corrispondenti.51

Nel maggio del 1871 finalmente il libro è stampato; Cantù informadei primi giudizi ricevuti e che qualcuno ha creduto vera la storia del ma-noscritto ritrovato,52 ma chiede anche notizie delle recensioni sui giorna-

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insomma il tradimento del reale che Rossi propone agli “artigiani della penna”, a colo-re che prefiggono di istruire ed educare il popolo. La sua lettera indirizzata allo scritto-re popolare per antonomasia, Cesare Cantù, diventa una esplicita scelta di campo dovel’autorevolezza dell’estensore interviene obliquamente nel contenzioso della “forma”idonea ai libri per il popolo e per la classe operaia.»

49 A. ROSSI, Questione operaia e questione sociale, Torino, Roux e Favole, 1879, p. 39.50 C. CANTÙ, Un socialista onesto, Firenze, Uffizio della Rassegna Nazionale, 1884;

pubblicò anche una seconda edizione con un poscritto, dalla quale si cita: Il socialista one-sto. Nota di Cesare Cantù, Milano, Agnelli, 1891.

51 Riferimenti significativi a Channing e a Ketteler nelle seguenti lettere di Rossia Cantù: s.l., 31 ottobre [1870] (Fondo Cantù, R8 inf., ins.12, lettera n. 42, f 61r); del26 dicembre 1870 (Ivi, R. 13. inf., ins. 8, lettera 8 bis, f. 12 r); nelle lettere di Cantù aRossi del 21 ottobre 1870 e del 21 dicembre 1870.

52 Cantù a Rossi, Milano 1 giugno [1871], Archivio Rossi, busta 7.2, Lettera 44:«E il nome vostro ormai è incatenato al mio, giacché di voi parlano tutti quelli che giu-dicano l’operajo, e i più credono proprio m’abbiate dato voi le carte. Possiate credere dinon esser in cattiva compagnia!».

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li veneti.53 Alla fine anche Rossi sembra più convinto,54 tanto che in unalettera di ottobre comunica che «se di Buon senso e buon cuore o del Portafo-glio vi riesce una edizione economica ne prenderò io 500 copie pe’ mieioperai».55

Stabilita l’assoluta autonomia dell’elaborazione del progetto del Por-tafoglio d’un operaio può essere utile individuare i motivi che spinseroCantù tra gli anni 1868-1871 a riprendere la produzione di testi rivoltial popolo.

L’interesse di Cantù per la questione sociale e l’idea di tornare a occu-parsi di letteratura popolare si devono far risalire alla visita dell’esposi-zione universale di Parigi nel 1867.56 A colpirlo sono le celebrazioni delprogresso tecnologico e le sue ricadute sociali, ma anche le possibili con-seguenze negative di tale processo. A questo si deve aggiungere una seriedi letture sui progressi della tecnica, degli autori che trattano la questio-ne sociale, Ketteler soprattutto, ma anche gli autori socialisti. In questianni Cantù è un informato e agguerrito ideologo, oltre che scrittore e sto-rico. Un documento importante per conoscere i suoi interessi sulla finedegli anni Sessanta è il testo della conferenza Del progresso positivo pubbli-cato nel 1869. In esso la celebrazione del progresso è accompagnatadall’angoscia dei pericoli legati alla questione sociale, che l’autore avver-te come urgenti, tanto da spingerlo a invitare i cattolici a un forte impe-gno. «Anziché disperare, poniamoci a vedere quante materie utili possa-no estrarsi da queste scorie di vulcani ardenti […]. Diciamo dunque co-me Ajace: facciasi la luce, e combattiamo».57

Un altro motivo, legato all’esposizione universale, sollecitava l’inte-resse di Cantù: la giuria aveva premiato il governo italiano per la produ-

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53 Cantù a Rossi, Milano 19 maggio [1871], Archivio Rossi, busta 7.2, lettera 32:«Il libro pare che piaccia, e godo che chi me ne scrive accoppi il vostro col mio nome.Due operaj. Nessun giornale del Veneto ne fe cenno?».

54 Rossi a Cantù, s. l., 3 giugno 71, Fondo Cantù, R. 13. inf., ins. 8, lettera 14, f.20: «L’operaio mi piace sempre di più. Per me poi l’amicizia che mi donate è una dellemie migliori consolazioni, ed anche delle mie ambizioni».

55 Rossi a Cantù, Schio 25 ottobre 1871, Fondo Cantù, R. 13. inf., ins. 8. lettera 21f. 32.

56 Del suo viaggio a Parigi in occasione dell’esposizione universale c’è traccia nellalettera n. 6 del 2 agosto [1871] a Rossi e in un gruppo di lettere in possesso degli ere-di. Un’eco ancora nella parte finale del Portafoglio (pp. 331 ss.) dove il protagonista de-scrive l’esposizione attraverso le lettere al suo padrone.

57 CANTÙ, Del progresso positivo cit., p. 20.

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zione di testi dedicati all’educazione popolare. «Ma – fa notare Cantù –la raccolta di libri popolari era più mercantile che assennata, né rispon-deva all’espresso desiderio dei direttori». E in una nota al testo afferma:«Questi requisiti di fatto trovavansi nelle Letture Giovanili di C. Cantù,che furono dimenticate dalla commissione».58 Erano queste probabil-mente le sollecitazioni che determinarono il ritorno di Cantù alla lettera-tura popolare e alla focalizzazione del nuovo tema di quel “blocco”59 diopere costituito da Buon senso e buon cuore, dal Portafoglio e da Attenzione,quando nel 1868 la partecipazione al concorso istituito dall’AssociazioneItaliana per l’educazione del popolo gliene darà l’occasione.60 Egli eraconvinto di avere le carte in regola per scrivere dei testi che avrebbero po-tuto svolgere una funzione importante nell’educazione del popolo. Inquesta autonoma maturazione di interessi per la questione sociale, cheCantù poi si sia scelto come interlocutore Alessandro Rossi, già citato nelProgresso positivo, è più che naturale se si pensa al grande prestigio inter-nazionale che godeva ormai l’imprenditore scledense, membro anche del-la giuria dell’esposizione universale.

Il romanzo ebbe, comunque, uno straordinario successo, documenta-to non solo dalle quattro edizioni e dalla traduzione francese, ma anchedal numero veramente rilevante di recensioni e dal dibattito che su-scitò61. Con il Portafoglio Cantù riuscì a superare perfino la diffidenza delgoverno nei suoi confronti: stando a quanto egli stesso afferma, infatti, ilministro Lanza gli ordinò seicento copie del romanzo da distribuire gra-tuitamente nelle scuole e lo nominò commendatore.62

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58 Ivi, nota 54.59 Prendiamo l’idea dei “blocchi” nella scrittura di Cantù da PACCAGNINI, Cesare

Cantù e il mondo operaio cit., p. 118: «Lo scrittore di Brivio si muove nel campo narrati-vo soprattutto per blocchi, e spesso omogenei».

60 Il bando del concorso si può leggere su “Annali universali di statistica, economiapubblica, legislazione, storia, viaggi e commercio”, lug. 1867, serie 4, vol. 31, fasc. 91,pp. 108-110.

61 Una raccolta di brani delle recensioni sono riportati in ALESSANDRO BRASCA, Sul Por-tafoglio d’un operajo di Cesare Cantù note e considerazioni, Milano, Giovanni Agnelli, 1880

62 Gabriele Fantoni il 30 maggio 1873 scriveva da Venezia a Fedele Lampertico:«Perfino Cesare Cantù mi scrive interessandomi pel premio del Concorso Pedagogico alui contestato pel libretto Portafoglio d’un operaio, benché tale premio, dice Egli, “aggiun-gerebbe poco assai alla mia gloria ed al successo del libro del quale il Ministro Lanza ac-quistò 600 esemplari da distribuire gratuitamente alle scuole, e pel quale mi fece darela croce di commendatore della corona d’Italia, d’un solo salto”», in FEDELE LAMPERTICO,Carteggi e diari. 1842-1906, vol. I, a cura di Emilio Franzina, Venezia, Marsilio, 1996,p. 402. Vedi anche più avanti la nota 156.

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3. La struttura del romanzo

Quando nel 1871 uscì il Portafoglio d’un operaio esisteva già una lette-ratura specificamente rivolta all’operaio, che cominciava a essere signifi-cativa dal punto di vista quantitativo e aveva delineato le linee di ten-denza del nuovo genere letterario.63

Si trattava di una letteratura popolare nata sull’esempio delle operedello scrittore inglese Samuel Smiles, che sullo sfondo di un’etica del suc-cesso, tendeva a legittimare la mobilità sociale e a celebrare l’uomo bor-ghese che si affermava grazie alle proprie capacità. Il popolo era invitatoall’azione per cercare il benessere, a non rassegnarsi, e le opere di caritàerano viste come dannose se non immorali perché indebolivano il carat-tere. C’era sullo sfondo, come si capisce, un’etica protestante,64 che mal siconciliava con il cattolicesimo ortodosso che Cantù cercherà di far preva-lere come base morale della nuova società industriale.

La struttura dei testi di questa letteratura popolare è molto semplice,basata sulla presentazione di personaggi esemplari, di cui vengono esal-tati le doti intellettuali, la perseveranza del carattere, il successo; tra tut-te è dominante la figura di Benjamin Franklin.65

Il Portafoglio d’un operaio si inserisce in questo filone letterario assu-mendovi subito un posto di rilievo, sia per l’autorevolezza dell’autore, siaper le sue novità strutturali e ideologiche.

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63 Interessante e sicuramente da approfondire la tesi di Paccagnini secondo cui l’ap-plicazione delle teorie di Smiles in Italia in funzione pedagogica fu dovuta ad un equi-voco di fondo perché la classe dirigente, formata prevalentemente da proprietari terrie-ri, non si rese conto che la questione sociale era un problema qualitativamente nuovo eche richiedeva adeguate riforme. Viene, invece, «sbrigativamente risolta come un sem-plice problema di mancanza di educazione; e che pertanto non di riforme sociali vi è ne-cessità, né del riconoscimento dell’esistenza di un reale contrasto di classe, ma solo del-la riproposizione degli eterni valori della carità cristiana da parte dei datori di lavoro, edella temperanza da parte dei lavoratori». (PACCAGNINI, Cesare Cantù e il mondo operaiocit., p. 119).

64 Non bisogna dimenticare che Samuel Smiles era un calvinista scozzese.65 Sulle caratteristiche di questa letteratura cfr. OSSOLA, Introduzione cit. e CHEMEL-

LO, La biblioteca del buon operaio cit. Il testo di Smiles, Self help, fu tradotto in italiano conil titolo Chi si aiuta Dio li aiuta ovvero storia degli uomini che dal nulla seppero innalzarsi aipiù alti gradi in tutti i rami della umana attività, Milano 1865.

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3.1. Per saggi o per narrazioniCome abbiamo visto, è nella lettera del maggio del 1870 che Cantù

comunica a Rossi l’intenzione di scrivere «un libro per gli operai», ma giàdal novembre del 1869 sta raccogliendo informazioni per quell’opera tra-mite Mugna. Il lavoro per il Portafoglio si incrocia, quindi, per tutto il1869 con quello per Buon senso e buon cuore, che, presentato in forma ma-noscritta nel 1868 al concorso bandito dall’Associazione Italiana per l’edu-cazione del popolo, fu poi pubblicato solo nel 1870.66 Questa circostanzaha portato alcuni critici a vedere nelle due opere un unico progetto, rea-lizzato in forma incompleta, cioè senza forma narrativa, nel 1870 e piena-mente con il romanzo del 1871.67 I motivi dell’assenza della forma narra-tiva di Buon senso e buon cuore, sono stati attribuiti alla fretta che Cantù di-ce di avere avuto per poter presentare in tempo l’opera al concorso e che loha costretto a «raccozzare» il materiale che aveva sotto mano. Cantù, in-vece, nell’introduzione a Buon senso e buon cuore giustifica l’assenza dellaforma narrativa con la necessità di trovare una forma adatta all’educazionepopolare, individuata poi nella serie di «conferenze».68 Certo è che dalla

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66 Sulla genesi di Buon senso e buon cuore cfr. CHEMELLO, La biblioteca del buon operaiocit., pp. 92-95.

67 Così Adriana Chemello che mette insieme la proposta dell’editore Agnelli aCantù di scrivere un libro sugli operai con quella precedente dello stesso editore di scri-vere un testo «come i Promessi sposi», riferita a Buon senso e buon cuore (ivi, p. V). Cfr. CHE-MELLO, La biblioteca del buon operaio cit., p. 94: «Ma l’indicazione di genere, nell’obliquitàdel discorso prefattivo attribuita all’editore, è precisa nel nominare la forma del nuovo“libro per gli operai”». Sulla stessa linea, anche se in modo meno esplicito, OSSOLA, In-troduzione cit., pp. 29-30, il quale avanza l’ipotesi che il progetto del Portafoglio sia da farrisalire al concorso dell’Associazione italiana per l’educazione del popolo: «Una buonaparte di questi manuali, se non proprio tutti, furono suscitati dal contemporaneo con-corso, lanciato a Firenze nel 1868 dall’Associazione per l’educazione del Popolo, per la reda-zione “con esempi italiani” di “un libro simile agli intendimenti dell’inglese” (come ri-corderà il Lessona); […] non è escluso che lo stesso Portafoglio d’un operaio del Cantù fos-se concepito in quel contesto, visto che la dedica ad Alessandro Rossi fu retrodatata, inoccasione dell’edizione 1883, all’anno 1868 (pur essendo il volume pubblicato nel1871)» (OSSOLA, Introduzione cit., p. 58, n. 91).

68 CHEMELLO, La biblioteca del buon operaio cit., pp. 92-93. La lettera a cui si fa riferi-mento è quella datata Milano 27 maggio 1870 (Archivio Rossi, busta 7.2, lettera n. 3),che viene citata da Chemello con la data della risposta di Alessandro Rossi, annotata inmargine alla lettera stessa: «So pur troppo che libri non si amano, e per ciò que’ discor-si popolari io avea cominciato a pubblicarli in foglietti staccati, col titolo Trattenimentidi Carlambrogio da Montevecchia. Si potea creder se ne venderebbero a migliaja – non sene vendeano 300: sicché non rifacendomi delle spese, e ch’è più, vedendo non si divul-

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fine del 1868, data della scadenza per la presentazione dei testi alla com-missione esaminatrice del concorso, alla primavera del 1870, quando il li-bro fu pubblicato, passa più di un anno, un tempo sicuramente utile perindividuare un intreccio per uno scrittore prolifico come Cantù. L’assenzadella forma narrativa di Buon senso e buon cuore perciò non è da attribuire al-la fretta, ma a una scelta dell’autore, il quale considera le opere a cui stavalavorando due progetti diversi, tanto che pur incrociandosi nel suo lavoroper tutto il 1869 saranno pubblicate separatamente.

Il problema della forma e della struttura dell’opera erano di una certarilevanza e Cantù lo affrontò nella piena consapevolezza degli obiettiviche voleva raggiungere. Intanto c’è da ricordare che sin dagli anni Qua-ranta dell’Ottocento, nella letteratura italiana si era posto il problemadell’opportunità di procedere nella educazione del popolo per saggi o pernarrazioni.69 Cantù aveva scelto la forma narrativa e, intervenendo nelladiscussione, aveva sostenuto la necessità di testi brevi e illustrati per aiu-tare la lettura dei ragazzi a cui i libri erano dedicati, ma la stessa struttu-ra era stata utilizzata per il testo che aveva rivolto agli adulti, il Carlam-brogio da Montevecchia.70 Quando, però, negli anni Settanta si era rivoltonuovamente agli adulti, con Buon senso e buon cuore e poi con il Portafogliod’un operaio, si lasciò alle spalle la semplice struttura di Carlambrogio e sifece sostenitore di una via mediana tra le due alternative.71

Lo scrittore trent’anni dopo si trovava di fronte uno scenario del tut-to cambiato che lo portava ad assegnare ai suoi testi nuovi compiti:«L’importanza delle classi operaje, e le promesse e le minaccie ch’esse re-cano alla società, – scrive Cantù – danno ora tutt’altro giro alla compas-sione che si professa per la gente che men possiede e meno sa».72

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gavano, interruppi. Saputo poi il premio di 5000 £ proposto da quella commissione, liraccozzai e compii, nell’idea che, se ottenevo il premio, l’avrei convertito nella stampa,e così potuto vender il libro a bassissimo prezzo».

69 Cfr. OSSOLA, Introduzione cit., p. 25-26 e soprattutto il capitolo Il “conversar col po-polo” di CHEMELLO, La Biblioteca del buon operaio cit., pp. 13 ss. Il dibattito fu introdottoproprio dallo scritto Cantù, Della letteratura popolare, pubblicato prima in “Ricoglitoreitaliano e straniero”, Milano, dicembre 1835, pp. 769-813 e poi nelle varie edizioni delCarlambrogio.

70 Milano, Bernardoni, 1836, qui si utilizzerà l’undicesima edizione milanese rivedutadall’Autore, Milano, Stabilimento Librario Volpato, 1852.

71 CANTÙ, Buon senso e buon cuore cit., p. VII: «Ma, dopo che quei fratelli comparve-ro [scil. i precedenti romanzi popolari], tali cambiamenti avvennero della società, ched’insegnamento differente le fa bisogno».

72 Ibidem.

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Era cambiata la situazione sociale, ma anche quella politica. Cantù –da sempre nemico dell’intervento dello Stato in educazione – è partico-larmente critico con la politica dei governi postunitari che toglieva allaChiesa la sua tradizionale funzione educativa. In questa nuova situazione,in cui la Chiesa non poteva occuparsi di educazione e lo Stato non dove-va occuparsene per non far danno, cresceva per Cantù, il ruolo svolto dal-le iniziative provenienti dalla società civile, come quelle avviate da Rossia Schio, ma anche la funzione della letteratura popolare. Egli, infatti,s’interrogava continuamente sulle finalità e la struttura della letteraturarivolta ai ceti subalterni, sulle peculiarità di opere specificamente dedica-te al popolo e che non fossero un adattamento semplificato di modellidella letteratura alta.73 Nella sua riflessione c’era grande attenzione ancheper gli aspetti che avrebbero favorito il successo dei libri, per cui egli ècoscientemente e coerentemente uno scrittore popolare. In una lettera,anzi – a testimonianza che i fenomeni in atto erano l’abbrivo di quell’on-da lunga che doveva arrivare fino a noi – egli attribuiva alla sua produ-zione le caratteristiche della letteratura di consumo.

Mi ricordo che, meravigliandomi io di certe stoffe gialle che voi facevi [sic]per calzoni, mi rispondeste che le si usavano a Napoli. Si fabbrica di quelche si consuma. E così feci io. So pur troppo che i libri non si amano, e perciò que’ discorsi popolari io avea cominciato a pubblicarli in foglietti stac-cati, col titolo Trattenimenti di Carlambrogio da Montevecchia.74

Per Cantù, la letteratura popolare doveva farsi carico di una serie dicompiti che, come vedremo, ne renderanno complessa la struttura.75

Mentre nel Carlambrogio il compito di educare era affidato alla saggezzapopolare, che parlava attraverso i proverbi e si incaricava di garantire lacontinuità con le tradizioni, la nuova realtà industriale richiedeva unanuova fondazione ideologica della società, che veniva ora affidata soprat-

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73 Ivi, p. VI, scrive: «E appunto un libro pel popolo io voleva fare, in espiazione diquelli che ho fatto pei dotti». In Della letteratura popolare polemizza con chi vuole «stem-perare ad uso del popolo quel che prima era stillato pei pochi» (CANTÙ, Della letteraturapopolare, in ID., Carlambrogio da Montevecchia cit., pp. 117-170)

74 Cantù a Rossi, Milano, 27 maggio [1870], Archivio Rossi, busta 7.2, lettera n.3. I Trattenimenti di Carlambrogio da Montevecchia, sono dei fascicoli tematici che Cantùandava pubblicando nell’urgenza degli avvenimenti politici del 1848 a cui partecipava,cfr. DELLA PERUTA, Cesare Cantù cit., pp. 27 ss.

75 Cfr. Qui l’autore parla in propria testa, che fa da introduzione a Buon senso e buon cuo-re cit., pp. V-VIII.

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tutto a lunghi dialoghi tra personaggi dotati di grande esperienza e dispecifiche competenze. In questa forma venivano trattati gli argomentipiù spinosi del Portafoglio: la divisione del lavoro, lo sciopero, l’uso dellemacchine, le società di mutuo soccorso. Ai dialoghi si aggiungevano leconferenze, eredità di Buon senso e buon cuore: soprattutto quella di Ales-sandro Rossi sulla questione sociale e quella finale del vescovo.

Negli anni Settanta lo scrittore affidava ai suoi libri per il popolocompiti complessi. Essi dovevano narrare, per fornire ai lettori esempipositivi e suscitare orrore per quelli negativi, dovevano argomentare, pergiustificare il modello proposto di una società industriale fondata su unamorale cattolica, ma era necessario che avessero anche delle parti divul-gative per istruire il popolo. Si delineava così quel carattere polifunziona-le ed enciclopedico che prenderà forma nel Portafoglio d’un operaio e che irecensori dell’epoca sottolinearono.76

Nel romanzo Cantù fa corrispondere a ogni funzione una forma discrittura adeguata, creando un’opera composita, che contiene all’internodi un testo «con tratti significativamente romanzeschi»77 altri due gene-ri, che godono di ampia autonomia: il dialogo, a cui è affidato il compitodella fondazione ideologica della nuova società industriale, e il saggio,che si incarica dei momenti divulgativi sulla storia e le tecniche di moltilavori. Peraltro anche la parte narrativa dell’opera risulta composita, vistoche accanto al romanzo di formazione di Savino, che sostiene la fabula delracconto, c’è l’inserimento di ampie parti autonome, fino al caso limite diuna intera novella precedentemente pubblicata.78

Possiamo, quindi, affermare che il Portafoglio sia un romanzo atipicoin quanto mantiene una forma mista tra narrativa e saggio e che Cantùrinnova nel profondo il genere. Non più la semplice raccolta di esempipositivi e di storie esemplari in cui identificarsi, ma un’opera complessa,

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76 Sulla presenza di più generi nel romanzo e la difficoltà di Cantù a “cucirli” cfr.OSSOLA, Introduzione cit., pp. 31-32.

77 CLAUDIO MILANINI, La contraddizione nei romanzi di Cesare Cantù, in AA.VV., Ce-sare Cantù e il suo tempo. Incontro di studio n. 7, Milano, Istituto Lombardo di Scienze eLettere, 1996, p. 48; a p. 49 Milanini afferma: «le scansioni interne non sono tali daspezzare del tutto la trama, anche se le digressioni e le pause si fanno man mano più fit-te. Sussiste una tensione verso la totalità romanzesca…».

78 Si tratta della Setajuola, pubblicata nel 1841 e riedita in più occasioni. Cfr. il te-sto della relazione di SARA PACACCIO, Per una verifica dell’itinerario stilistico di CesareCantù: “La setajuola”, infra, pp. 499-575. Un’analisi delle varianti della novella tra il te-sto precedente e quello inserito nel Portafoglio in PACCAGNINI, Cesare Cantù e il mondo ope-raio cit., pp. 138-139, n. 31.

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polifunzionale, che corrisponda ai vari bisogni formativi dell’operaio.È a quest’ordine di problemi appena esposti che si devono far risalire

i dubbi esposti da Cantù nell’introduzione a Buon senso e buon cuore sullaforma migliore da dare alla letteratura popolare, non alla fretta.79 Egliera, quindi, veramente convinto che la pluralità delle esigenze a cui do-vevano dare risposta i libri per gli operai richiedevano una struttura taleda essere letti con attenzione e magari riletti nei momenti di bisogno, eche non dovevano presentare solo una storia da leggere piacevolmente.

un romanzo si legge, non si studia; è ciambella da lecornìa, anziché pasto ditutti giorni; si bada all’intreccio più che all’intenzione: mentre d’un libropel popolo si ha a leggere or questo capitolo, or quello, secondo i bisogni.80

D’altra parte non bisogna dimenticare che non era una narrazione chemancava allo scrittore per Buon senso e buon cuore. Cantù afferma, infatti,che aveva cominciato a lavorare proprio partendo da una trama, che rac-conta anche illustrando i personaggi e i luoghi, ma che ha dovuto poi«scompigliare quell’architettura» e scegliere la struttura delle conferenzeper meglio adeguarsi a quelle che riteneva essere le esigenze degli operai.Quello che gli mancava veramente – e che lo ha costretto a «raccozzare»il materiale in suo possesso in vista del concorso – erano adeguate infor-mazioni sulla società industriale, non un intreccio, ed erano quelle, infat-ti, che cominciò a cercare già dal 1869, prima tramite Mugna e poi ri-volgendosi direttamente a Rossi.

3.2. Il pubblicoLa complessità della struttura del romanzo è dovuta per molti aspetti

anche all’ampio pubblico a cui l’autore intende rivolgersi, con una sceltafunzionale all’ideologia interclassista cattolica che vuole promuovere. Infat-ti, il volume non si rivolge solo agli operai, ma anche a un pubblico di in-dustriali e di agricoltori, senza trascurare il pubblico popolare femminile.

Attraverso continui consigli, ammonimenti ed esempi di buoni im-prenditori, l’autore crea un dialogo con un pubblico di piccoli e medi indu-

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79 Su questa stessa linea PACCAGNINI, Cesare Cantù e il mondo operaio cit., p. 121:«Cantù, al momento di stendere Buon senso e buon cuore, non si allinea a quella scelta del-la biografia esemplare (salvo il caso citato di Franklin), ma resta fedele alla già sperimen-tata forma delle lezioni o conferenze supportate da esempi o da brevi racconti. Si tratta diuna scelta ben ponderata, e soprattutto giustificata nella introduzione al volume».

80 CANTÙ, Buon senso cit., p. VI.

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striali venuti su dal niente e che non hanno alle spalle la cultura di Alessan-dro Rossi. A questi industriali bisognosi di formazione Cantù intende rivol-gersi con gli esempi di piccoli imprenditori ora negativi, come il Cortesella,ora positivi, come il Bortolo Botrigari, proprietario di una fabbrica di pannidi lana a Gandino, nel Bergamasco, nei quali avrebbero potuto riconoscersi.

Ma Il Portafoglio si rivolge anche all’agricoltore, l’archetipo del lavo-ratore per Cantù, che trova nel romanzo molte occasioni per convincersidella superiorità del suo lavoro su quello industriale e della vita di cam-pagna su quella di città. Il pubblico femminile trova qua e là esempi eammonimenti, ma trova soprattutto l’esempio di dedizione alla famigliadi Laurina, protagonista della novella La setaiuola, che, come si diceva, èstata introdotta nel romanzo diventando il capitolo dal titolo program-matico «La buona moglie fa buono il marito».

La natura interclassista del pubblico a cui il Portafoglio si rivolge vie-ne segnalata da più recensori dell’opera.81

3.3. Il modello manzonianoPer la scrittura del Portafoglio d’un operaio Cantù ha presente come

modello I promessi sposi.82 Sono almeno due gli elementi riconducibili almodello manzoniano: il ricorso al topos del manoscritto e le caratteristi-che del protagonista del romanzo.

L’uso del topos di un manoscritto preesistente che lo scrittore si inca-rica solo di risistemare in bella forma non è un semplice omaggio a Man-

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81 “L’Italia Agricola” scriveva che «l’agricoltore che li tenesse sul tavolo ci farebbepensar molto bene di lui». Anche il “Corriere di Milano”, dopo aver auspicato di vede-re il libro in mano agli operai, afferma che «anche i non operai ci troverebbero da im-parare o da ricordare molto»; cfr. BRASCA, Sul Portafoglio d’un operajo cit., p. 2.

82 CANTÙ si era occupato in più occasioni di Manzoni, cfr. almeno le seguenti ope-re: Sulla storia lombarda del secolo XVII ragionamenti di Cesare Cantù per commento ai Pro-messi sposi di Alessandro Manzoni, Milano, Stella e figli, 1832; Manzoni e la lingua milane-se memoria di Cesare Cantù, Milano, Tip. Molinari, 1875; CESARE CANTÙ - BALDASSARRE

POLI, Manzoni e la filosofia. Le idee filosofiche di Manzoni. Rimembranze, «Ist. Lombardo.Rendiconti», s. II, 1881, vol. XIV; Alessandro Manzoni. Reminiscenze, Treves, Milano1882; da ricordare le velenose note di Dossi in Note azzurre cit., nota 3867: «… A prop.di Manzoni si potrebbe citare il Cesare Cantù, che pirateggiava ne’ suoi Ms. e venne poimesso alla porta»; nota 4217: «Manzoni aspetta ancora il suo pittore morale e il suo pit-tore corporale. […] Ora (1883) lo sta screditando Cantù colle sue pubblicazioni che mi-rano a farlo passare per austriacante e bigotto, evidentemente allo scopo di cucirsegli aipanni e di andare con esso alla posterità. Cantù, non potendo pareggiare l’ingegno e lavita di Manzoni, cerca di abbassarli alla propria viltà».

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zoni. A questo espediente Cantù aveva già fatto ricorso nel Carlambrogioda Montevecchia83 e gli serve per far emergere un punto di vista interno, alpopolo nel primo caso, e in modo più specifico alla classe operaia nel se-condo. In questo modo l’autore (fittizio) e il narratore appartengono allastessa categoria sociale del lettore e del pubblico a cui il romanzo si ri-volge, creando un sistema comunicativo circolare e chiuso che in qualchemodo simula l’ambiente educativo della famiglia, che per Cantù rimanela fonte principale e naturale dell’educazione. A rafforzare ulteriormentela circolarità di questo sistema Cantù aveva fatto inserire nell’antiportadel romanzo un suo ritratto con la didascalia “un operaio”, in modo cheanche il revisore del supposto manoscritto entrava all’interno del sistemacomunicativo descritto e diventava organico al suo pubblico.

Attraverso la voce di un narratore omodiegetico, che racconta i fattiin prima persona, si dà al testo la dimensione dello specchio, nel quale illettore può identificarsi. Il discorso morale che la storia ha il compito diesplicitare non deve venire dall’esterno, ma deve essere espressione diuna saggezza interna all’ambiente sociale al quale il testo si vuole rivol-gere, proprio perché il lettore deve essere formato attraverso quel sensodi continuità con la tradizione e la cultura della propria comunità, di cuii proverbi nel più semplice Carlambrogio da Montevecchia erano l’espres-sione più immediata.84 D’altra parte la scelta del racconto in prima per-sona era funzionale all’idea, già espressa da Cantù sin dal 1835, «che ilpresente non si possa scrivere come storia, ma soltanto come esperienzasoggettiva, come “memoria” organizzata secondo coordinate intrinsecheall’esperienza individuale».85

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83 CANTÙ, Carlambrogio da Montevecchia cit., pp. 22-23: «Il suo libro io andava ap-punto per restituirglielo, o, dirò meglio, per pregarlo a lasciarmelo rendere pubblico.Sono così pochi quelli che fanno libri per la povera gente, pei contadini, per gli artigia-ni! Noi altri letterati scriviamo per dar gusto e per procacciarci nome, quando anche nolfacciamo per fini più bassi […]. Il fatto è che, essendo morto lui, io interpreto il suoconsenso, e do fuori per le stampe queste carte.

In coscienza, io non ho fatto altro che raffazzonarle un poco dove erano scritte trop-po alla carlona: non sarebbe meraviglia se avessi fatto quel che succede spesso a noi chepretendiamo saperne più degli altri, cioè le avessi guaste e peggiorate».

84 Sull’omogeneità tra pubblico e personaggi dei racconti di Cantù osserva Che-mello: «I libri di Cantù sono “popolari” in quanto mimano le espressioni, i modi di di-re ed i moduli sintattici dei ceti subalterni ma soprattutto perché sono destinati al “po-polo”» (CHEMELLO, La biblioteca del buon operaio cit., p. 21).

85 MILANINI, La contraddizione nei romanzi di Cesare Cantù cit., p. 50.

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L’intento realistico di questo sistema comunicativo è moltiplicato nelPortafoglio dalla presenza di una serie di personaggi reali, o a cui l’autoreha conferito una particolare autorevolezza,86 che Savino incontra e cheprendono via via la parola per illustrare o sostenere aspetti importantidella nuova realtà industriale; tra questi, naturalmente, un posto privile-giato spetta ad Alessandro Rossi, chiamato ad interpretare se stesso nelruolo di industriale modello ed esperto della questione sociale, ma chenel romanzo ha anche un suo doppio nell’industriale Edoardo Pensabe-ne.87 In questi momenti il narratore-operaio Savino cede la parola ad al-tri personaggi e si mette da parte prendendo il posto di ascoltatore insie-me agli operai lettori che assistono allo svolgersi di lunghi dialoghi suiproblemi fondamentali del mondo industriale. Non è opportuno, infatti,

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86 Tra i personaggi storici merita ricordare il padre somasco Paolo Marchiondi, fon-datore del Pio Istituto di S. Maria della Pace per l’assistenza ai bambini “discoli”, che sa-ranno chiamati familiarmente “barabitt”, esempio di carità insieme a don Carlo Botta, ci-tato nella stessa pagina, cfr. Portafoglio, p. 83. Altri personaggi si presentano con tratti ta-li da far pensare a persone realmente esistiti, così sembra per l’imprenditore Botrigari, manon ci sono elementi per verificare. Sui personaggi storici del romanzo cfr. ARMANDO CO-MEZ, Il portafoglio d’un operaio, in “Laniera”, a. 71, n. 1-2 (1957), p. 118: «Nella descri-zione, questo Botrigari sembra di toccarlo con le mani, ma in effetto non è mai esistito.Sono veri però, in parte, e tutt’ora noti altri lanaioli del luogo, che il Cantù innesta allanarrazione, tra cui i Testa, i Campana, i Benoni identificabili in Renozzi (non erano peròfabbricanti questi Benozzi, ma armentari e mercanti di lana). Realmente eistito è pureFelice Botta che sin dal 1820, come esattamente riferisce l’autore, aveva messo in esserele miniere di lignite di Leffe presso Gandino»; a p. 121, n. 2 Comez afferma che la fab-brica dei Gavazzi a Bellano è identificabile con quella dell’imprenditore Mazza che pro-duceva lana rigenerata, ma non cita le fonti delle sue affermazioni.

Personaggi particolarmente autorevoli sono soprattutto l’industriale Edoardo Pen-sabene, il Pretore, il capitano Carenza e il Vescovo. A p. 172 del Portafoglio leggiamo:«Qui il signor pretore prese un tono magistrale, e proferì […]». Il corsivo è mio.

87 Che l’industriale Pensabene sia un doppio di Alessandro Rossi lo troviamo con-fermato nella descrizione della sua fabbrica (Portafoglio, pp. 237-238), che corrispondealle notizie che l’industriale scledense mandava a Cantù tramite Mugna sulla sua fab-brica. Rossi a Mugna, s. l., s. d., Fondo Cantù, R. 12 inf., 2. lettera 135. f. 111-112:Operai a Schio 1100; A Valdagno 220; Futuri a Piovene 900; Macchine a vapore n. 4;L’ultima di 140 cav. Vap., pari a 200 effettivi.

Produzione giornaliera 2500 metri di stoffe diversa. Consumo di gas 350 metri cu-bi giornalieri – nuovo sistema a residui di petrolio. Telai 400, di cui 130 meccanici divari sistemi, sassoni, inglesi, americani – anche per reps a damaschi, con jacquards, connavette a revolvers. Fusi a filare e ritorcere circa 10000. Fonderia per pezzi fino al pesodi 400 K l’uno, e tutti gli attrezzi automatici di fabro e falegname.

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secondo Cantù, che l’operaio discuta di problemi politici e sociali per iquali non ha competenze.88

3.4. Renzo padre di SavinoIl modello manzoniano è ancora più evidente nella creazione del per-

sonaggio Savino, che già Chemello aveva indicato come «esemplato sullafigura di Renzo».89 Tutte le vicende che il personaggio vive sono funzio-nali alla sua formazione e a fargli raggiungere quel grado di maturitàumana e professionale di cui la carica di direttore di fabbrica, conquista-ta alla fine del romanzo, sarà riconoscimento e premio.

Naturalmente il personaggio Renzo ha altro spessore rispetto a Savi-no, che in alcuni momenti si riduce a un semplice punto di vista dell’au-tore. L’esempio manzoniano viene comunque implementato su un im-pianto narrativo molto vicino al modello sterniano-foscoliano del Viaggiosentimentale, che sembra quello più adeguato a realizzare il percorso for-mativo del protagonista.

Cantù è fermamente convinto, come abbiamo visto, che lo Stato nondebba occuparsi di educazione, tanto da essere contrario anche all’istru-zione obbligatoria. Per lui l’educazione deve esser affidata alla società ci-vile e alla libera iniziativa dei cittadini, perché l’intervento dello Stato«snatura» le persone, mentre la società civile provvede alla loro educazio-ne inserendole all’interno di quel filo ideale che lega il presente alle tra-dizioni della comunità. Ecco, quindi, che per il suo operaio Savino Sabi-no, Cantù elabora un percorso formativo affidato alle esperienze di vita.90

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88 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 268: «D’altra parte trovo strano che un operaio intru-gli, parteggi pel tal ministero, pei tali deputati, per la destra, o per la sinistra, per la leg-ge A o l’emendamento B, secondo lo succhia dai giornali; mentre persone che consuma-rono tutta la vita in tali esami, ne capiscono sì poco, e non si vergognano di professareche quel che decide alla fine è l’accidente, è l’imprevisto». Cfr. anche ivi, p. 271. Un in-vito agli operai ad astenersi dalla politica Cantù aveva già rivolto nel Carlambrogio, cfr.DELLA PERUTA, Cesare Cantù cit., pp. 21-22.

89 CHEMELLO, La biblioteca del buon operaio, p. 97.90 C’è però una più generale diffidenza verso l’istruzione, che può corrompere i co-

stumi, al contrario degli insegnamenti impartiti dalla famiglia. Ecco quanto dice a pro-posito dell’imprenditore agricolo Castigliola, che il padre aveva voluto mandareall’Università: «Fortunatamente i professori, i libri e i compagni non distrussero quelche aveva attinto dalla famiglia, né giunsero a disamorarlo della campagna» (CANTÙ,Portafoglio, p. 202). Cantù è invece sostenitore di una scuola tecnica, perché utile nellasua praticità e non turba le coscienze: «Le scuole son buone quando danno poche cogni-zioni, ma chiare, sicure, sviluppate, soprattutto applicabili: quando s’uniscono coll’offi-

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Nella struttura della fabula del romanzo egli fa in modo che il protago-nista sia costretto a viaggiare, a conoscere la realtà e a incontrare una va-rietà di persone buone e cattive dalle quali imparerà la sua lezione di vi-ta. In questo progetto ha presente, in forma certamente riveduta e corret-ta dagli aspetti ironici e satirici, il Viaggio sentimentale di Sterne. Oltre al-la struttura del romanzo, impostata sul viaggio,91 ci riporta a Sterne la fi-gura dello zio Giampaolo, il quale, con i suoi continui inviti a contentar-si della vita, assume un ruolo simile a quello dello zio Tobia del romanzosterniano. Ma all’autore inglese ci riporta anche una frase del romanzoche è una parafrasi di quanto Didimo Chierico afferma nell’introduzionedel Viaggio sentimentale.

L’affermazione di Foscolo che Sterne ha voluto «insegnarci a conosce-re gli altri in noi stessi» viene così parafrasata da Cantù:

Credo che il meditare sopra sé stesso frutti più che lunghi studi e che, chiabbia presente la storia della sua vita, ne sappia meglio d’un professore distoria greca e romana. Il proprio interno è un campo di riflessioni inesauri-bile: e poiché somiglia a quel degli altri studiando noi impariamo la società,conosciamo gli altri perché conosciamo noi stessi.

Savino, impegnato a conquistare la saggezza e la conoscenza della vi-ta viaggiando e conoscendo la realtà, si presenta come un personaggiocomplesso e del tutto originale nel panorama della letteratura per gli ope-rai, abituata a presentare personaggi semplici, dalla storia lineare ed edi-ficante. Egli è, infatti, impegnato a frequentare una serie di luoghi e dipersone che hanno il compito di formare aspetti fondamentali della suapersonalità e di mediare esperienze esemplari ai lettori. Le sue vicendenon sono sempre positive ed edificanti, anzi molto spesso sono disavven-ture, vere e proprie prove a cui è sottoposto, che gli fanno assumere in al-cuni momenti i tratti del picaro e che gli causano momenti di crisi anchegravi, tanto da indurlo persino a meditare il suicidio. Alla fine però tut-te le disavventure vengono superate e gli permettono di capitalizzareesperienza.

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cina, la penna colla lima, il compasso col subbio: rispettino gli umili mestieri, glorifi-chino la vita industriosa e contenta, e non facciano letterati indigenti, ma produttori av-vezzati a riflettere, a sperimentare, a conoscer la ragione del proprio lavoro».

91 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 104: «Presi dunque a girottolare e osservare. Non è an-che questa un’educazione?»; e a p. 243: «I viaggi che si fanno per acquistar cognizioni,trovare corrispondenti, riscuotere denari, sono lodevolissimi».

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L’operaio Savino Sabino è un personaggio curioso, vuole conoscereluoghi che non ha visto, è attratto dalle nuove tecnologie, desideroso diesperienze di lavoro sempre diverse, tanto che l’autore intitola un capito-lo «Irrequietudine nel proprio stato» e un altro «Savino girandola per di-versi lavori».92 Nel suo carattere è presente una certa irrequietezza che loporta a girovagare e a meditare lungamente anche il progetto di emigra-re in America.93 In realtà egli, provenendo dalla Campania e andando avivere nel Bergamasco, per poi spostarsi in tutto il Nord, è già un emi-grante; è anzi il primo emigrante interno, dal Sud al Nord, della lettera-tura italiana.

Ci si chiederà perché Cantù ha voluto per protagonista un emigrante.Certamente il girovagare di Savino è funzionale all’obiettivo di far cono-scere al lettore le bellezze e le risorse delle varie province italiane, ma an-che i problemi e il bisogno di riforme del nuovo Stato. Attraverso Savino,Cantù può dispiegare davanti al lettore una serie di dati, descrivere le cittàitaliane e suscitare in chi legge curiosità, orgoglio di far parte del nuovoStato, ma nello stesso tempo richiamare al senso di responsabilità che lacreazione della nuova realtà nazionale richiede, con tutti i problemi e i pe-ricoli che su di essa incombono. Si avverte, insomma, nel Portafoglio – unodei primi romanzi pubblicati dopo l’Unità e quindi uno dei primi a rivol-gersi al nuovo pubblico dell’Italia unita – l’esigenza di creare un immagi-nario nazionale, che fonda la varietà di città, di paesaggi e di popolazioniin un’unica entità politica.94 Se la scuola è luogo di formazione della nuo-va identità nazionale è utile che i libri pedagogici facciano riferimento al-

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92 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 96: «Io imparavo bene, e ottenni una certa quale supe-riorità fra i miei compagni; pure non mi sentivo contento del mio stato: mi sapeva dimeschino questo passar tutto il giorno, tutta la settimana in una specie di buca a girareun tornio e pasticare creta […]»; e a p. 106: «Così andereccio e disappensato, non sape-vo appigliarmi a un’occupazione seria: ne vedevo cento, e non mi fissavo su nessuna, ten-tennandole di qua, di là, pensavo a tutto e a nulla; stavo a chiacchierare, e il tempo pas-sava, e il peculio sfumava.»; ancora p. 199: «Ognuno di questi laboratori che vedessi, miveniva la voglia, il proposito di darmi tutto ad esso; ma nel vederne un altro mi inva-ghivo di quello, e così la speranza del meglio m’impediva d’appigliarmi al bene; e comeil ministero D’Azeglio, aspettavo e facevo niente».

93 Ivi, p. 231: «Allora mi rinacquero quelle fantasie, di cui da fanciullo mi cuculia-va mio padre, e pensai come tant’altri abbandonar la patria, e cercarne una nuova inAmerica».

94 Ivi, p. 103: «Intruppato a lavori di strade ferrate, ebbi occasione di conoscerequesto bel ricamo di monti, di fiumi, di città, che chiamasi Italia, una di lingua, di fe-de, di memorie, di speranze».

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la nuova realtà e forniscano materiale per studiarle; ma il romanzo annun-cia già la fabbrica come la terza istituzione, dopo la scuola e l’esercito, incui si realizzerà l’unificazione linguistica e di costumi degli italiani.

Poco a poco ci venne a conoscere a nome, e chi fosse di Treviglio, chi di Bob-bio, chi di Pederoba; e che l’uno aveva moglie; all’altro era morto un fi-gliuolo; il terzo era stato col muso alla ferrata; il quarto aveva militato inUngheria, e ch’io aveva un zio prete: ci facea raccontare dei briganti dellaCalabria, de’ pastori dell’Engandina, dei segatori del Trentino.95

Il girovagare di Savino per tutti gli angoli del nuovo Stato permette-re a Cantù di fare una ricognizione, un’inchiesta personale sullo statodell’industria e del lavoro in Italia, soprattutto nel Nord, e anche di ef-fettuare una prima presa di coscienza degli elementi sociali ed economicidi quella che diventerà la questione meridionale. Questi continui sposta-menti sono però funzionali anche a illustrare una nuova dimensione libe-ra del lavoro, non vincolata al territorio né alle corporazioni. L’ideologiadi Cantù prevede, infatti, che lo Stato non abbia l’obbligo di dar lavoroalle persone, ma che non ci siano vincoli alla libera iniziativa individualee che ognuno sia libero di cercare il lavoro dove e come gli piace.96 Lacondizione di emigrante di Savino è quindi anche legittimazione della li-bera iniziativa in uno spazio territoriale nuovo, il mercato unico creatodall’unità, nel quale persone e imprese possono muoversi liberamentesentendosi a casa.97

Ma per il suo carattere irrequieto Savino non è il lavoratore tranquilloe obbediente da individuare come modello, tanto che Cantù si sente in do-vere di giustificare questo aspetto della personalità del suo personaggio alquale però non può rinunciare.98 L’irrequietezza del personaggio è, infatti,

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95 Ivi, p. 101.96 Ivi, p. 232: «Sta bene l’amor della patria, ma patria è dove si vive meglio, ogni

paese è patria all’uom di garbo», dirà Savino, nel momento in cui medita di partire perl’America.

97 Su questo punto cfr. LANARO, Nazione e Lavoro cit., p. 100: «Cantù ribadisce l’op-portunità che gli ex-contadini trasformati in operai conservino attitudini “diverse da quel-le dei forestieri” e giunge a sdrammatizzare forse al di là delle sue intenzioni originarie laformazione di correnti migratorie interne e di un mercato nazionale della forza-lavoro».

98 Quando un amico presenta Savino all’industriale Edoardo Pensabene, il padrone-padre che segna il punto di arrivo della ricerca del protagonista, lo fa con queste parole digiustificazione: «Ella vede un uomo che ha capacità, onestà e buon senso, ma finora non

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l’elemento che mette in moto la macchina narrativa del racconto, che creale situazioni che Savino deve superare per forgiare il suo carattere.

Egli non si rassegna volentieri alle ingiustizie, e a volte sente il fasci-no di idee sovversive ed egualitarie.99 Tutto questo è funzionale al prin-cipio che è l’esperienza a insegnare e quindi Savino deve sperimentare leidee che Cantù vuole combattere, in modo che alla fine il suo personag-gio possa arrivare al «sugo di tutta la storia», cioè che per un operaio nonc’è cosa migliore che cercare di mettersi sotto un buon padrone.

Sono le difficoltà che formano l’uomo, come le tempeste formano il buonmarinaio. Uno che sbagli nelle proprie imprese, eppure non si scoraggi, dàa sperare più di colui che mai non fu messo alla prova delle contrarietà. […]Col vedere quel che non va, si capisce quel che va. Le imprese più grandi, lescoperte più insigni, le idee più belle maturano nelle contrarietà; né si giun-ge al monte Oliveto se non per la via del Calvario. Vincere senza lotta è vin-cere senz’onore.100

In quei tratti del carattere che portano Savino a opporsi alle ingiusti-zie e a rigettare le accuse che gli vengono rivolte si ritrovano aspetti del-la personalità di Cantù, il quale proietta sul suo personaggio esperienzeautobiografiche. La più dolorosa è quella che Savino vive nel capitolo «Lacalunnia. Il suicidio», dove si racconta come durante i moti del 1848 vie-ne isolato dagli amici che lo ritengono una spia al servizio degli austria-ci. L’accusa infamante, che tormenta il personaggio fino al punto di farglimeditare il suicidio, è la stessa che fu rivolta a Cantù sulla fine degli an-ni trenta e che continuò a circolare lungamente negli ambienti culturalie politici lombardi.101

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riuscì a fissarsi in un mestiere, in una professione ove potesse dire: “questa è la requie mia”.E lui: «Non bisogna scoraggiarsene. A buon conto avete seguita sempre la profes-

sione di lavorare. La vostra instabilità a quel che capisco, consiste solo nei modi, e nonabbandonate un proposito senza pigliarne un altro. Ora tentando e fallando s’impara»(Ivi, p. 236).

99 Ivi, p. 104: «Un po’ e un poco io tollerai: so ch’è il companatico dell’operaio,ma sfido io! Talvolta cadevo sfiduciato; tal altra riflettevo che tutti gli uomini siamoeguali; e credendo codardia il lasciarsi sopraffare, ai rabbuffi ripicchiavo, e così crescevoi disgusti e le occasioni d’averne: infine piantai impiego e padroni. Mi parea non avernebisogno. Ero riuscito a mettermi da banda un gruzzoletto di dumila lire, e a 24 anni sicrede che gli anni e i denari non finiscano mai».

100 Ivi, p. 237.101 Cfr. DELLA PERUTA, Cesare Cantù cit., pp. 24-25 e 34 e DOSSI, Note azzurre cit.,

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Nel suo itinerario formativo lungo e tormentato Savino è guidato dadue insegnamenti, profondamente radicati nella sua coscienza: quellodella mamma «ricordati che Dio ti vede» e quello del personaggio Medi-na Clara di essere economo. I due precetti alla fine lo porteranno al suc-cesso, ma già prima gli permetteranno una vita eccezionale: oltre a di-ventare direttore di fabbrica, avrà la possibilità di viaggiare e di andare aParigi, dove visiterà l’esposizione universale, e poi in Inghilterra; un iti-nerario davvero improbabile per un operaio del suo tempo che avrebbeviaggiato solo se costretto a emigrare.

Constatiamo, infine, che mentre Cantù predica continuamente la ras-segnazione e la stabilità sociale, crea un personaggio che è proprio il con-trario delle sue affermazioni. Savino è un personaggio costituzionalmen-te complesso, caratterizzato da un’identità sociale e culturale molto in-stabile che cerca continuamente di prendere forma senza mai riuscirci ve-ramente, perché la natura del personaggio è geneticamente ibrida. Il suostatuto di emigrante rimane indefinito tra le motivazioni politiche equelle economiche, mentre la sua identità etnica è in continua trasforma-zione (ex napoletano non si ferma in nessun luogo un tempo sufficienteper acquisire nuovi caratteri culturali) e quindi rimane indeterminata. Lasua identità di operaio è continuamente in divenire, allontanata dai suoiripetuti cambi di mestiere, ma di fatto non si realizzerà mai pienamente,così come la sua carica di capofabbrica. La notizia della promozione loraggiunge per lettera a Londra e noi sappiamo che assumerà quella cari-ca, ma non lo vedremo mai all’opera, in quanto il suo ritorno non vieneraccontato. L’autore ha deciso, infatti, di non concludere la storia e conuna lettera all’editore avvisa che il romanzo non avrà scioglimento, equindi la storia di Savino non si concluderà.

Il suo romanzo di formazione è identificato con un viaggio che ha unapartenza, numerose tappe, ma non un arrivo. Il viaggiare di Savino non è,pertanto, un classico viaggio, all’interno del quale rappresentare allegori-camente il suo percorso formativo, ma un vagabondare straordinariamen-te moderno le cui caratteristiche sono l’instabilità, l’inquietudine, il re-

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nota 4552. Ancora in una lettera del 18 gennaio del 1887 a Fedele Lampertico, Cantùricordava come la prima volta che fu proposto deputato «Finzi si alzò col tono rabbiosoche gli era consueto, e disse “Non dovete approvarlo perché fu fatto cavaliere dall’Au-stria”. E così fu fatto.

Io gli risposi che avea mentito, non avendo io mai dall’Austria avuto né decorazio-ni, né distinzioni di nessuna sorta» (LAMPERTICO, Carteggi e diari. 1842-1906, vol. I cit.,p. 443).

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stare sempre sospeso e non arrivare. Sembra, perciò, che il personaggio siasfuggito di mano all’autore e che alla fine, sotto il vestito di Renzo, Savi-no nasconda l’inquietudine del giovane ‘Ntoni.102

4. Il titolo del romanzo

Sull’idea che la forma migliore di educazione fosse quella di impara-re dalla vita Cantù aveva già costruito il suo Carlambrogio. Nel presenta-re il personaggio affermava:

…vecchietto già allora, ma rubizzo, allegro, spiritoso, mentre, con un ro-busto giumento, andava a vendere le sue mercanziuole. […]vendeva, com-prava, barattava: ma mentre faceva il mestier suo, con due buoni occhi e duebuone orecchie osservava quel che pochi osservano, gli uomini ed i loro co-stumi, e i vizj e le virtù. Onde, col piccolo suo commercio di ritaglio, miseda banda qualche danaro, e coll’osservazione acquistò molta esperienza.103

L’esperienza è quindi una ricchezza, anzi la vera ricchezza, quella cheil personaggio piano piano accumula nel suo portafoglio, mentre la verapovertà è l’ignoranza.104 A questo ambito di significati deve essere ricon-dotto il termine «portafoglio» presente nel titolo, che non ha a che farecon il problema del risparmio,105 poco rilevante nelle vicende di Savino,così impegnato ad accumulare esperienze e a trarre esempi dalle personeche incontra.

Questa interpretazione attribuisce al termine “portafoglio” il signifi-cato di “custodia per i soldi”, come avviene in alcune parti del roman-zo.106 In prima istanza, però, a esso deve essere attribuito il significato di

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102 Sul vagabondare come forma di viaggio del moderno cfr. ROMANO LUPERINI, Untema: il viaggio, la morte, in ID., Verga moderno, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 145 ss. GiàMilanini aveva segnalato la contraddizione tra i continui appelli dell’autore alla rasse-gnazione e l’inquietudine del personaggio (MILANINI, La contraddizione nei romanzi di Ce-sare Cantù cit., p. 50).

103 CANTÙ, Carlambrogio da Montevecchia cit., p. 12.104 Ibidem.105 CHEMELLO, La biblioteca del buon operaio cit., p. 115: «più castigato è il titolo me-

tonimico, Portafoglio d’un operaio, dove l’oggetto nominato, di per sé insignificante, s’in-veste di un valore simbolico in grado di emblematizzare le virtù ad esso contigue di ri-sparmio e previdenza, nonché la risultante finale di siffatte virtù».

106 Nel capitolo “Piccoli cominciamenti. Importanza delle cose piccole”, pp. 244

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“cartelletta”, quella in cui l’operaio teneva i suoi fogli d’appunti, quindiil manoscritto, che appunto Cantù nella finzione ha “ordinato e pubblica-to”.107 Con questa accezione la scrittrice Amable Tastu aveva usato il ter-mine “portefeuille” per la sua traduzione del Carlambrogio,108 a cui pro-babilmente Cantù si ispirò nella scelta del titolo del nuovo romanzo.

5. L’immaginario industriale e l’idea del progresso

Ma qual è l’immaginario industriale che Cantù consegna ai suoi let-tori? È un immaginario debolissimo in cui le fabbriche sono sempre ri-chiamate più che descritte da Savino, il quale le osserva sempre dall’ester-no, spesso in lontananza.

C’è un solo riferimento ai problemi degli operai, con la descrizione diun incidente sul lavoro, dato per altro come evento naturale e inevitabi-le.109 Non c’è nessuna descrizione dell’interno di una fabbrica, nessunarappresentazione realistica del lavoro. Troviamo una sola descrizione,molto idillica, del lavoro di una filanda.

Ho sempre amato tanto quella sollecitudine regolata, quella pulita atten-zione, quella fatica rallegrata da sufficiente guadagno, del quale vivono in-teri villaggi. Una comitiva di donne, zitelle le più o fresche spose, nella stagione più co-cente, dinanzi alle caldaiuole fumanti, stanno lavorando, che a svolgere gliaurei fili dai bozzoli, chi ad innasparli, mente altre vanno rattizzando lavampa, o sciacquattando la bacaccia, o levando il seggio col provino; e chi a

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ss., si racconta l’episodio del ritrovamento da parte del futuro industriale Edoardo Pen-sabene di un portafoglio che viene prontamente restituito al legittimo proprietario, ilquale riconoscente farà la fortuna del personaggio. L’episodio non è comunque collega-bile al titolo, in quanto nessuno dei personaggi coinvolti nel ritrovamento è un operaio;non il giovane Edoardo, che all’epoca è solo un lustrascarpe, e nemmeno il legittimoproprietario del portafoglio, che «era un mediocre negoziante di cotonerie» (p. 246).

107 Devo ad una discussione con Mariella Colin, che qui ringrazio, l’attribuzione delsignificato di manoscritto al termine “portafoglio”.

108 Éducation morale. Le Portefeuille d’Ambroise, lectures pour tous les âges, imitées de l’ita-lien de César Cantù, par Mme Amable Tastu, Paris, Didier, 1841. Nella traduzione citatadel Portafoglio si usa, invece, il termine «carnet».

109 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 280: «Avete visto l’altro giorno quella infelice, di cuila macchina afferrò il grembiule? Ben presto trascinò lei stessa sotto le sue inesorabiliruote e la stritolò».

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pesare, a rimondare, a distribuire. In luogo d’un dispettoso silenzio, d’unapazienza irosa, la gioia vivace signoreggia tra le foresozze atticciate e robu-ste: qui racconti, qui motti arguti, qui allegre canzoni, con quella serenitàche è prodotta dalla gioventù, dall’abitudine della fatica, dalla pace di chinel poco si appaga e credesi nato per lavorare.110

È significativa l’assenza non solo della città industriale, ma della cittàtout court, verso la quale Cantù nutre molta diffidenza;111 c’è, invece, mol-ta campagna ed è comprensibile, visto che il lavoro agricolo resta nel pen-siero di Cantù il modello ideale, perché considerato quello che meglioriesce a organizzarsi intorno alla struttura fondamentale della società: lafamiglia. Ci sono capitoli dal titolo significativo «Qui loda la campagna»e «L’idillio campagnuolo», mentre non c’è nessun idillio industriale.

Scrive Cantù:

L’agricoltura è veramente l’industria più morale come la più utile; i suoi in-teressi s’accordano meglio cogl’interessi generali; […] Essa attinge forza eprosperità dalla vita di famiglia; onde è l’elemento conservatore e riparato-re delle società, mentre la manifattura scompone la casa obbligando uscirneper imparare e per praticare.112

Questo elogio della campagna non è, comunque, da interpretare comesegno di arretratezza del pensiero politico di Cantù, quanto piuttosto il ri-chiamo – come suggerisce Della Peruta – all’ideologia della classe domi-nante nell’Italia del tempo, ancora molto legata agli interessi agricoli.113

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110 Ivi, p. 117.111 Ivi, p. 200: «I discendenti di Abele prosperarono al monte e al piano: son i figli

di Caino che fabbricarono le città e trovarono un Nembrot che si fece re».112 Ibidem. La mancanza di un’ideologia industriale è in Italia un fenomeno cultura-

le generalizzato, che non riguarda solo Cantù. Cfr. LANARO, Nazione e Lavoro cit., p. 101:«Il dualismo, la dicotomia specialmente profonda fra operaio di mestiere e operaio-mas-sa ancora legato all’habitat rurale […] si traduce infatti nell’assenza di un’ideologia del-la fabbrica come microcosmo sociale, isola felice, ordine perfetto, simbolo di rapportiumani gratificanti. Il dottor Ure, in Italia, non conosce discepoli. E neppure ne cono-scono – conferma in negativo – i romanzieri inglesi che descrivono gli inferni della ri-voluzione industriale, da Elizabeth Gaskell a Charles Dickens a George Eliot».

113 DELLA PERUTA, Cesare Cantù cit., p. 38: «L’insieme di queste concezioni di Cantùpotrebbe sembrare un’utopia in ritardo con i tempi; ma così facendo si commetterebbeun errore di prospettiva. Essa era piuttosto il rispecchiamento di un’ideologia diffusa neiceti medio-alti del nostro paese, che avevano costruito le loro ricchezze – grandi o pic-cole che fossero – sulla fatica dei contadini, ceti che alla terra erano ancora legati da va-

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C’è nel Portafoglio una sincera ammirazione per il progresso tecnolo-gico, che Cantù vede in armonia con il mandato cristiano assegnatoall’uomo di dominare il mondo. L’entusiasmo per l’azione umana che tra-sforma l’ambiente è il filo conduttore di tutte le parti divulgative del ro-manzo. Ecco la descrizione della costruzione del ponte sull’Adda vicino aCassano:

Quel gran movimeto di cose e di gente, quell’attività frettolosa e sistemati-ca, quel vedere deviato il fiume per gettar il magnifico ponte di cinque ar-chi da 25 metri di corda, colpirono la mia immaginazione.114

Più avanti afferma: «Che mirabile invenzione è questa delle stradeferrate!»;115 e ancora:

Col darsi mano la scienza e la pratica si riuscì a lavori stupendi, e a compiermeraviglie, qual fu il gittare sopra un braccio di mare fra l’Inghilterra e l’Ir-landa un ponte, fatto d’un tubo di ferro, dentro al quale scorre la locomoti-va. […] Io non avrei immaginato neppure la possibilità di artifizi così fini:e nel vederli messi in pratica e nel capirli mi pareva d’elevarmi sin alla con-dizione di scienziato.116

Ma l’entusiasmo è accompagnato dal timore che il progresso conflig-ga con la morale cattolica e che porti all’ateismo, associandosi a un’ideadi benessere solo materiale. Ecco con quale veemenza il capitano Carenzasi oppone a questa prospettiva:

Sta bene. Il progresso non consente più che si creda a un Dio fatto uomo pernoi, al paradiso e all’inferno, ai miracoli, all’efficacia della preghiera. Paese diiloti che agli oracoli del Vangelo sostituisce le ciarle del Pungolo o del Gaz-zettino. Oggi il simbolo è trasformato e porta: “Io credo alle lotterie e che conqueste potrò in quattro e quattr’otto diventar ricco senza merito e fatica”.117

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lori, comportamenti, tradizioni e che cominciavano a nutrire preoccupazioni per le ten-sioni sociali che avevano preso a percorrere la penisola; e a questi ceti, profondamenteconvinti della giustizia di una società stratificata in ricchi e poveri, umili e potenti, do-veva quindi riuscire bene accetto il messaggio di Cantù».

114 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 97.115 Ivi., p. 99.116 Ivi, p. 100.117 Ivi, pp. 132-133. A proposito della esposizione universale di Parigi, Savino scri-

ve al suo imprenditore «L’Esposizione pare un trionfo esclusivo della materia; eppure

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Dopo questa netta presa di posizione, apprendiamo con meravigliache il Portafoglio è stato accusato perché a

ogni tratto vi s’incontrano frasi e sentenze non conformi allo scrivere catto-lico, e che il pensiero ultimo del libro mena all’adorazione della divinitàmassonica, che è la grande industria, il lavoro, il progresso materiale, il gua-dagno strepitoso.118

6. Un’ideologia senza utopia

Per cogliere la complessità del programma ideologico che Cantù affi-da al suo romanzo è necessario ripensare l’anno di pubblicazione del te-sto. È il 1871, anno topico per un cattolico impegnato come Cantù. Siudivano ancora gli echi delle fanfare dei bersaglieri entrati a Porta Pia eintanto giungeva, roboante e preoccupante, il frastuono dei tumulti pari-gini, seguiti da Cantù con apprensione119 e destinati poi a sfociarenell’esperienza della Comune. I problemi politici e sociali erano tali datenere allertate le coscienze. Pure è da tenere presente l’importanza cheaveva avuto per Cantù la rivoluzione del 1848 in Francia e in Italia, so-prattutto nei suoi aspetti sociali: gli esperimenti sul lavoro della repub-blica francese e l’agitazione delle campagne italiane sono presenti all’au-tore che li discute ampiamente nel romanzo.120

Gli avvenimenti politici italiani del 1870 hanno spinto Cantù su unaposizione di opposizione verso il governo italiano, continuamente critica-to nel romanzo con toni aspri. I tre elementi principali sui quali si con-centra la sua critica sono: la coscrizione obbligatoria, che minaccia l’inte-grità della famiglia, l’aumento continuo delle tasse, che distrugge l’inizia-tiva privata, e l’espropriazione alla Chiesa della sua funzione educativa.121

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tutti i relatori hanno fatto sentire quanto importino i miglioramenti morali: che la pri-ma riforma è quella de’ costumi individuali…» (ivi, p. 337).

118 BRASCA, Sul Portafoglio d’un operajo di Cesare Cantù note e considerazioni cit., p. 4.119 Cantù a Rossi, Coccaglio 10 novembre [1870], Archivio Rossi, busta 7.2, lette-

ra n. 56; Milano 8 febbraio [1871], ivi, lettera n. 43.120 Cfr. nel Portafoglio i capitoli “Gli scioperi” e “Rivoluzione”, ma anche p. 268;

per i riferimenti agli avvenimenti francesi cfr. p. 284. Sull’attività politica di Cantù du-rante gli avvenimenti del 1848 cfr. DELLA PERUTA, Cesare Cantù cit., pp. 26-33.

121 Dice del sig. Arcangelo, proprietario terriero: «Egli ama la patria, ma gli duoleche un assortimento di nullità siasi infeudato il potere; sprezzando le istituzioni vecchie,incapace d’inventarne di nuove, abbia copiato un governo forestiero e dismesso, che at-tribuisce l’infallibilità a una Camera, eletta da pochi privilegiati e dall’intrigo, che ciar-

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La critica alla coscrizione obbligatoria, e più in generale alla politicamilitaristica del governo, non è frutto di una polemica contingente, maemerge da radicate convinzioni pacifiste di Cantù. Egli già nel 1867 a Pa-rigi, in occasione dell’esposizione universale, aveva dato vita a una serie dimanifestazioni pacifiste con un’associazione che aveva tentato poi, con scar-so successo, di introdurre in Italia. C’è una testimonianza di questo impe-gno pacifista in una bella lettera ad Alessandro Rossi, il quale l’apprezzòtanto da volerla tramandare ai suoi figli.122 Merita una lunga citazione:

[…] siamo alle presenti condizioni. La peggiore delle quali è, a veder mio,l’aver dovuto trasformare la società, fino a portarci alla nazione armata. Tut-ti soldati! Siamo tornati al medioevo più tosto. Anche ogni uomo doveva es-sere armato per difendere il suo cappello o la cassa o la chiesa sua dai Barba-ri, dagli Ungari, dai Catalani. […] quattro milioni d’uomini son sottratti allavoro, e consumano sempre crescenti imposte: eppure questa ruina non ba-sta a salvar la società dall’obbligo di esser tutti arrolati. Prima o seconda ca-tegoria, non m’importa: è sempre un milione d’uomini sottratte alle leggi ealla giustizia ordinaria, alla moralità domestica, alla paternità, alla sicurez-za e continuità del lavoro. Davanti a tale stato non può prevedersi che unabarbarie, peggiore dell’altra perché ipocritamente decorata.[…] Ma in un tempo in cui si propone come una necessità la nazione arma-ta; e un ministro la fa decretare, e i rappresentanti non solo l’approvano, mapretendono un’aggiunta ove non sia eccettuato dalla caserma neppure unVico, un Raffaello, un Gerdil, un Rossini, vi par egli pratico il concetto delP. Sbarbaro sulla lega della Pace? Noi l’avevamo messa in piedi al tempodell’esposizione parigina. Qual occasione più bella? Quando potersi megliosperare che le nazioni comprendessero la loro solidarietà e si accordassero avivere d’accordo? Avete veduto che bei nomi ci aderivano, e d’ogni colore.L’assassinio dell’imperatore del Messico e la mortificazione che ne prese laCorte parvero vieppiù favorire queste idee. Io aveva già prima pubblicato eripubblicato uno scrittarello sulla pace, che fu trasfuso nel Buonsenso e buoncuore. Secondavo, già prima, le quistioni non solo morali ma economiche cheavvicinassero le nazioni; e tra altre l’unificazione della moneta e delle misu-

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la di tutto fuorché dei veri interessi di noi popolo; che intacca i nostri diritti e viola lagiustizia distributiva, esagerando a flagello le imposte senza introdurre nuovi rinfran-chi; scompone le famiglie colla coscrizione, colle scuole turba la quiete e le coscienze»(Portafoglio cit., p. 228).

122 Schio 8 agosto 1871, Fondo Cantù, R. 13. inf., ins. 8. lettera 18, f. 26r: «vi rin-grazio di nuovo della importantissima vostra lettera de’ 2 del corrente – la quale rimarràfra i miei più cari documenti da trasmettere ai miei figliuoli».

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re, su cui ho pubblicato diverse memorie, ignorate qui, ma tenute in contofuori, e specialmente dal Parieu. In un’adunanza di giovani di cui m’aveanovoluto presidente, a Parigi stesso professai quelle dottrine della pace, sebbe-ne non vi facessero buon suono i nomi del p. Giacinto e del p. Gratry. Le siproclamarono in una riunione de’ più insigni economisti, in un de’ celebripranzi mensili.Ebbene: ho cercato diffondere quella lega in Italia: andarono in giro giova-ni valenti e volenti: che cosa conseguirono? Non parlo di coloro che da pertutto vedono framassoneria; non de’ giornali di sacristia che mi denunziaro-no ai pizzicagnoli loro lettori come aderente ai congressi di Ginevra ecc. magli altri sbadigliarono. Avran discusso del macinato, del 13%, della impo-sta sulle casse di risparmio, e della multa da infliggersi a chi lavora, col ti-tolo di ricchezza mobile.Seguirono poi i casi di Francia, e il trionfo della nazionalità, e l’idolatria dellaPrussia sostituita alla fornicazione della Francia. Il povero Passy non mi scri-ve più della Lega della Pace. Quando Cobden la invitava ai suoi convegni, noisi rispondeva, – Sì, quando avremo sgomberati gli Austriaci. Ora la Francia ri-sponderebbe “Sì quando avremo vendicato Sedan, recuperato il Reno.123

6.1. La mutazione antropologica indotta dalla rivoluzione industrialeMa per quanto fosse preoccupato per la situazione politica, era l’ur-

genza dei problemi sociali che catturava la sua attenzione e lo spingevaall’azione. Egli avvertiva con angoscia gli urti violenti che l’industrializ-zazione dava alla società tradizionale e sentiva la necessità di ricucire levecchie istituzioni con la nuova realtà attraverso il cemento di una orto-dossa morale cattolica. Il suo programma è chiaramente esplicitato dallafrase di Napoleone III, che mette in esergo al suo Buon senso e buon cuore:«Allions à la foi de nos pères le sentiment du progrès, et ne séparons ja-mais l’amour de Dieu de l’amour de la Patrie». Si impegnerà, pertanto, aimplementare la nuova civiltà industriale all’interno di un’antropologiacattolica dell’uomo, del lavoro e della società capace di salvaguardare lanatura spirituale dell’uomo e la sua finalità trascendente. Questo tentati-vo di accogliere la modernità all’interno dell’alveo della tradizione catto-lica era l’unico modo, per Cantù, di salvaguardare l’uomo dalle derive diun benessere meramente materiale o dalla sua riduzione a semplice mer-ce e a strumento di produzione.

Il suo ambizioso programma richiedeva una legittimazione di tutti gliaspetti della nuova società industriale, dall’accumulazione del capitale al-

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123 Cantù a Rossi, Milano, 2 agosto [1871], Archivio Rossi, busta 7.2, lettera n. 6.

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la divisione del lavoro, dall’uso delle macchine ai nuovi bisogni umani, at-traverso una rifondazione ideologica dell’intera società che coinvolgevaanche le antiche istituzioni. In questo bisogno di partire ab ovo non mera-viglia che nel capitolo «I salari. Le macchine, e cose simili», mentre defi-nisce il valore delle cose, faccia capolino la figura di Robinson Crusoè.124

La necessità di una radicale rifondazione etica e politica della societàderivava da una parte dall’esigenza di dare risposte alle incalzanti teoriesocialiste, che si diffondevano con l’affermarsi della condizione operaia,dall’altra dalle mutazioni antropologiche indotte dalla società industria-le, che rischiavano di cambiare non solo lo scenario dell’azione umana, male stesse finalità della vita, diffondendo la ricerca affannosa del benesseremateriale e trascurando i problemi della vita interiore come le esigenzetrascendenti dell’uomo.

L’urgenza di porre alle basi della nuova società industriale una rigi-da morale cattolica lo portava al rifiuto di qualsiasi principio di laicità.«La morale, indipendente da una fede, da una speranza, – scrive – è unmero calcolo del quanto io guadagno o perdo da un’azione. L’uomo è unessere decaduto dal cielo e che del cielo si ricorda».125 Questo lo spinsea una critica serrata dell’etica del successo, come della letteratura di ispi-razione smilesiana che la diffondeva in Italia,126 e a rivalutare il ruolodelle opere di carità, che sottolineavano la differenza dell’etica cattolicada quella protestante. Su questo punto la sua posizione è distante daquella di Rossi, che nel 1895 scriverà un testo intitolato L’etica del suc-cesso,127 con il quale giustifica l’ascesa sociale tramite il lavoro.

Alla base della sua costruzione ideologica Cantù pone il diritto diproprietà, che vuole assumere come assioma e mettere al sicuro da qual-

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124 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 155; alle pp. 284-285 scrive: «I savi vedono che laquestione operaia è la più grave del nostro secolo, giacché è lotta materiale e morale, nonsolo sull’esistenza d’un o d’un altro governo, ma sulle basi stesse della società, sul dirit-to della proprietà; se possa dirsi il mio e il tuo; se a ciascuno spetti una famiglia e la si-curezza di quel che acquista colla sua abilità, e il diritto di trasmetterlo ai figliuoli».

125 Ivi, p. 131.126 Ivi, p. 307: «Queste e ben altre istituzioni sono o contrarie o derise dai letterati

di baldacchino, i quali predicano la bugia che volere è potere, e che l’uomo può da sé so-lo formare il proprio destino». La polemica è chiaramente con la letteratura italiana del-la corrente smilesiana, di cui si richiama il titolo dell’opera più nota, quella di MICHELE

LESSONA, Volere è potere, Firenze, Barbèra, 1869. Anche in Buon senso e buon cuore cit., p.VI: «Qualche libro straniero che fece gran fortuna mi sembrò eccessivamente materiale,per quanto incoraggiante, e che non elevasse la mente e il cuore.»

127 Firenze, s. n., 1895.

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siasi critica;128 una posizione centrale occupa poi l’esaltazione dell’opero-sità umana, vista come condizione naturale ed espressione del più gene-rale movimento che anima l’intera materia; il riposo viene, invece, pre-sentato come uno stato patologico.129 Ricordandosi della lezione di Pari-ni, richiama l’ozioso ricco che «sbadiglia e s’annoia» e per questo è in-sonne, in opposizione al contadino che lavora e dorme in qualsiasi situa-zione, per concludere: «Il riposo è una condanna».130

La divisione del lavoro viene fondata sulla necessità di dare una rispo-sta adeguata alla complessità dei bisogni che caratterizza l’esistenzadell’uomo moderno, in opposizione all’uomo primitivo. «Il selvaggioche, spinto dalla fame, corre dietro a una lepre, se la mangia, poi sta a coc-colo sotto un albero finché gli rinasca il bisogno, non sarà mai il modelloche ci proporremo».131 Ed ecco la prodigiosa organizzazione che si dà lasocietà per dare risposta ai bisogni di tutti:

Appunto la magia della società sta nel poter suddividere il lavoro in modoche ciascuono, invece di eseguir tutto come gli toccherebbe se fosse solo,non faccia che un servizio unico. In questo piglia pratica, sicché fa presto efa bene; poi lo baratta con coloro che ne fanno un altro, e così egli ha tutto,purché concorra a far che gli altri abbiano tutto.132

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128 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 172: «È errore – afferma – il credere che la società creii diritti di proprietà, di testamento. Sono anteriori a tutti gli statuti civili: questi non fe-cero che formulare e garantire con leggi positive ciò ch’era diritto e bisogno dell’uomo».

129 Ivi, p. 143: «Assoluto riposo non si dà mai nella materia, dall’infimo vegetabi-le fino agli astri, grandi cento volte il nostro sole. La vita non è che moto. Il rallentarci-si d’un movimento, l’incepparsi d’un membro, ci mette in istato di malattia»; ivi, p.144: «Non è dunque in natura il riposo: è un nome inventato. L’infingardo è un mala-to; la sua non condizione normale».

130 Ivi, p. 144: «Nelle città un ricco, servito da venti domestici, che esce soltanto incarrozza, ha le imbandigioni più squisite, camere a tappeti e arazzi, letti morbidissimi,non può trovar molte volte il sonno, mentre il contadino o il cacciatore, che se lo gua-dagnarono col lavoro, dormono serrato fin sul lastrico d’una piazza, alla sferza del sole.Oppure di mezzo alle opere più pesanti, nelle posizioni più faticose, mettonsi a cantaregiulive canzoni, mentre il ricco sbadiglia e s’annoia. Il riposo è una condanna». Del Pa-rini Cantù si era occupato in L’abate Parini e la Lombardia nel secolo passato studj di CesareCantù, Milano, Gnocchi, 1854 ed aveva commentato un’edizione del Giorno: GIUSEPPE

PARINI, Il Giorno commentato da Cesare Cantu coll’aggiunta di alcune odi, Milano, Coopera-tiva editrice italiana, 1892; cfr. anche GUIDO BEZZOLA, Cesare Cantù all’ombra del Parini,in “Nuova Rivista Europea”, VIII, n. 1, gen. 1984, pp. 43-50.

131 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 140.132 Ivi, p. 142. sulla divisione del lavoro torna anche a p. 154 dove parla della teo-

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Nella stessa prospettiva scrive nel 1876 in Attenzione: «Il miglior mo-do di perfezionare il lavoro è la suddivisione. Se uno dovesse fare da sétutto il suo vestito, dalle scarpe al cappello, quanto tempo consumerebbee quanto riuscirebbero imperfetti!»133

La sua teoria della divisione del lavoro viene poi sviluppata nel suo ar-ticolarsi internazionale, arrivando a dare quella che, probabilmente, è laprima descrizione della globalizzazione: «Le famose nostre paste son fat-te con grano di Russia, e le mangiamo in piatti inglesi, con forchette te-desche»;134 e più ampiamente:

Poco meno si richiede per la tela della vostra camicia. La seta del vostro faz-zoletto viene da semi portati dalla Cina, educati in un paese d’agricoli; futessuta in un paese di operai, spedita da un paese di mercanti, consumata inpaesi di lusso. Il cotone crebbe in immense campagne di là dall’Oceano, col-tivate da gente trasportatavi da altre parti del mondo; con legname dellaDanimarca, ferro di Norvegia, canapa di Russia, pece della Svezia, rame delPerù si costruirono smisurate navi che, condotte da marinai della Dalmazia,vadano a caricarlo, profittando di tutti i perfezionamenti della meccanica,dell’astronomia, della fisica.135

Altri due elementi fondamentali della società industriale trovanogiustificazione nella teoria del lavoro: il capitale e l’ineguaglianza socia-le. Il capitale, «cioè la riserva», risulta necessario perché «può giovare acrescere i frutti, a perfezionare l’arte, a disporre meglio una produzione.Quanto più cresce il capitale, più cresce il lavoro, e perciò è a desiderareche s’accumulino questi mezzi di miglioramento».136 La disuguaglianza«viene dalla natura», infatti,

per natura ciascun uomo possiede in proporzione del lavoro che fa: ed è im-possibile che tutti lavorino con egual lena, con pari esito. […] Deve seguir-ne disuguaglianza di fortune, e da qui la gerarchia sociale, che è non solo op-portuna ma necessaria.137

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ria degli scambi commerciali: «Se gli uomini sono eguali di natura, sono diversi di at-titudine, e ciascuno produce cose differenti. Questa suddivisione perfeziona ciascun la-voro in particolare, ma fa che ognuno abbia bisogno dei prodotti dell’altro, dandogli incambio i suoi. Tale scambio si regola secondo il valore delle cose».

133 C. CANTÙ, Attenzione: riflessi di un popolano, Milano, Agnelli, 1876, p. 214.134 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 215.135 Ivi, p. 141.136 Ivi, p. 148.137 Ivi, p. 149.

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Un qualsiasi intervento egualitario sarebbe contro natura. Dalla si-tuazione di disuguaglianza nasce anche il lavoro salariato, come un primoatto di associazione del capitale con il lavoro per dare risposta all’esigen-za del lavoratore di garantirsi un guadagno stabile.138

6.2. Una visione paternalistica della società industrialeViene così a delinearsi il modello sociale ideale di Cantù, che culmi-

na in una visione interclassista e paternalistica della società, tendente adarmonizzare i rapporti sociali, saldamente fondati sulla morale cattolica.La teoria è esplicitata nel capitolo dal titolo programmatico «Lavoro.Produzione. Uno per tutti, e tutti per uno.»

Che cosa desidera l’operaio? Pace, giustizia, trovarsi con uomini di buonavolontà, convincere il ricco ch’egli pure è sotto l’occhio di Dio quanto il po-vero e sarà giudicato da Dio con eguale imparzialità; con esso pregar nellastessa chiesa, sullo stesso panco; colle parole stesse domandare il pane quo-tidiano al padre di tutti.139

I rapporti del nucleo fondamentale della società, la famiglia, sono sta-ti estesi a tutta la società, con gli industriali che assumono il ruolo di pa-dri e gli operai che collaborano al buon andamento di una azienda-fami-glia. Cantù avrebbe addirittura esteso anche in politica questo modellopatriarcale, assegnando ai capifamiglia la responsabilità della gestionedella cosa pubblica.140

Sia gli operai sia gli imprenditori sono considerati come facenti partedi un’unica categoria: gli industriali, legati da interessi comuni,141 equindi l’operaio non deve ricorrere allo sciopero, azione considerata un

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138 Ivi, p. 155.139 Ivi, p. 132; alle pp. 287-288 fa dire ad Rossi: «Questi atti di pietà e previdenza

vanno studiati con pazienza e con amore, chi voglia arrivare a stabilire l’accordo del pa-drone cogli operai e degli operai fra loro in una franca unione, ove, abbandonate le pue-rilità d’amor proprio, e peggio le quistioni politiche, si bilanci la solidarietà de’ salaricolla solidarietà de’ capitali».

140 CANTÙ, Il socialista onesto cit., p. 21: «Quando nel 1848 si trattava di uno statu-to per la Lombardia, che non fosse mero ricalco di quel che allora la Francia ripudiava,uno di noi proponeva di restituire consistenza alla famiglia, attribuendo il suffragio uni-versale ai capicasa. Fu un ghigno di tutti i sessantasette savi contro questo ritorno alletribù, ai patriarchi, al prepuzio». ID., Portafoglio cit., p. 299: «Corpo di me! Se deputa-ti fossero i padri di famiglia […]».

141 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 157: «Bisogna che questi agenti della produzionemantengano fra loro incessanti e pacifiche relazioni. Senza la mano, il capitale restereb-

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«delitto morale» che finisce sempre per ritorcersi contro i suoi interessi.Così Cantù fa rispondere dal Pretore a un operaio che propone di sciope-rare per rivendicare un aumento salariale:

Con ciò commettete un delitto morale e causate una perdita sociale. Per te-nue che sia la giornata, ricaverete sempre di più che a far nulla. Mentre il te-laio riposa, la borsa si vuota. Soffre il fabbricante, ma più l’operaio.

e più avanti per esplicitare ulteriormente il concetto:

Gli scioperi sono un’ostilità fra due specie d’industriali, che hanno più chemai bisogno di accordo; incagliano la destinazione umana; prendono il di-sordine e la perturbazione per ausiliarie e per mezzi di azione”.142

Rinunciando allo sciopero, nella prospettiva paternalistica illustratada Cantù, agli operai non resta altro che «mettersi sotto un buon padro-ne», restando così sicuri che le loro richieste saranno ascoltate «senza tur-bare l’ordine pubblico con coalizioni illecite».143 Un esempio concreto di«buon padrone» è rappresentato nel romanzo dall’imprenditore EdoardoPensabene, che utilizzando «la più maravigliosa» tra «tutte le invenzio-ni moderne», la fotografia, ha raccolto i ritratti di tutti i suoi operai,creando un album di famiglia; ma lo stesso Savino riconoscerà all’indu-striale il ruolo di padre.144 È in questa visione paternalistica, di assisten-

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be infruttifero; senza capitali, cioè materia e strumenti, non potrebbe adoprarsi l’abilità;né questa né quelli si utilizzerebbero senza l’ingegno che inventa e che applica». Da no-tare che Savino si considera un industriale: «Per quell’alterigia che a noi industriali fa pa-rer condizione inferiore quella degli zappaterra», il corsivo è mio (ivi, p. 225).

142 Ivi, p. 169.143 Ivi, p. 158: «Ciò dunque che importa all’operaio è di mettersi sotto un buon pa-

drone. Se è galantuomo e religioso, non vi abbandonerà negli scioperi o nelle malattie.Inoltre voi potete far rimostranze, esporre e discutere le vostre ragioni, intendervi anchecoi compagni per far valere la giustizia delle vostre domande, senza turbare l’ordinepubblico con coalizioni illecite. Ma se esigete un valore superiore al merito e repugnan-te alle leggi della libera concorrenza, il padrone o il committente troverà altri che lavo-reranno a miglior mercato, e voi resterete in piazza. Tristo rimedio in tal caso unirsi conaltri, combriccolare, levar un borbottio minaccioso, far una coalizione, uno sciopero, esbraveggiare che non vuole imitarvi!». A p. 293, Savino afferma: «Ho bell’e capito(diss’io guardando al signor Edoardo): quel che importa è l’aver un padrone che abbiacuore o coscienza, e con trattamento giusto ed umano affezioni allo stabilimento».

144 Ivi, p. 357: «Ma il signor Edoardo era il mio padrone insieme e il mio aiuto, ilmio consigliere, il mio padre, il mio tutto».

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za, ma anche di controllo, che nasce per l’operaio rimasto finora «non piùsorvegliato né assistito»145 la proposta di istituire la figura del cappella-no degli operai, che rivela una concezione degli operai vicina a quella deisoldati. «Vorrei istituire – dice – l’ordine de’ cappellani degli operai, cheli seguissero ne’ loro lavori come i cappellani d’armata».146 Non a casonel romanzo si afferma l’importanza che l’operaio apprenda sin da quan-do è fanciullo «l’abnegazione» e la «subordinazione».147

Coerentemente Cantù tenta, attraverso la sua opera, di far sì che i prin-cipi morali della nuova società siano introiettati nella coscienza degli ope-rai e non considerati dei semplici vincoli esterni dai quali si può derogareappena possibile. Il leitmotiv del romanzo è, infatti, il precetto «ricordatiche Dio ti vede», più chiaramente esplicitato nell’ammonimento «Rispet-tate l’autorità; lavorate e state fedeli; se anche non è presente il padrone, v’è in altoun occhio sempre aperto sopra di voi».148 Egli critica perciò la realtà della fab-brica che «alla probità supplisce la vigilanza»149 e non incentiva la mora-lità dell’operaio come dovrebbe, anche con aumenti salariali.

6.3. La figura dell’operaioNell’Italia di fine Ottocento, in cui ancora lo sviluppo industriale si

deve declinare con i verbi al futuro, la figura dell’operaio è alquanto inde-terminata. Nel Portafoglio sembra che la definizione di operaio si riferiscagenericamente al lavoro manuale, inglobando quindi tutti gli artigiani,tipiche figure di piccoli borghesi, e in questa prospettiva si può concepire

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145 Ivi, p. 283.146 Ivi, pp. 102-103 e a p. 238 afferma: «Questi capi [scil. di fabbrica] possono pa-

ragonarsi ai capitani dell’esercito: ai colonnelli certi superiori per la parte amministra-tiva e disciplinare, o per la parte tecnica, i quali ultimi sono per lo più stranieri». La pro-posta dell’istituzione del cappellano degli operai è comunque accompagnata da un ap-passionato invito al clero di occuparsi della questione operaia e di stare vicino al popo-lo: «E deh il clero capisse l’importanza della quistione operaia, e vi applicasse non solola carità, ma le più consentite dottrine; senza pregiudizi antiquati né utopie sovvertitri-ci, esaminasse la cagione dei mali e i rimedi; penetrasse nelle grandi fabbriche; ne trat-tasse in pulpito; ispirasse carità ai padroni, pace e accordo agli operai; il distacco dallefamiglie correggesse con istituzioni morali; e per quanto i governanti ne attraversino lasanta opera, perseverasse con zelo, rassegnandosi al nuovo martirio a cui lo sottopone ildominio d’una minoranza per niente nazionale, e imitatrice de’ forestieri» (ivi, p. 304).

147 Ivi, p. 78: Lo zio Giampaolo «ripeteva che ai fanciulli quel che importa inse-gnare è l’abnegazione e la subordinazione.»

148 Ivi, p. 132. Il corsivo è nel testo.149 Ivi, p. 283.

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anche l’idea degli «operai agricoli». Sembra poi affacciarsi l’idea di unoperaio come lavoratore privo di mezzi di produzione e che può vivere so-lo delle sue prestazioni lavorative, e a questo punto comprende anche gliintellettuali, che diventano «operai del pensiero». Sono tali i medicidell’ospedale di Modena, dove viene ricoverato Savino, ma sono tali anchegli scrittori e quindi lo stesso Cantù, e in quest’ottica anzi, chi più di lui,che viveva solo con il frutto del suo lavoro editoriale. Non è quindi così«poco verisimile» come sembrava a Ossola la didascalia che si trova sottoil ritratto di Cantù nell’antiporta del romanzo: «un operaio».150

Una distinzione tra intellettuali e operai Cantù stabilisce solo conl’intento di giustificare i maggiori guadagni dei primi, ma è una distin-zione tra «lavoro manuale» e «lavoro d’intelletto» all’interno della stessaclasse operaia.151

È però il vero operaio, la figura nuova e delicata del lavoratore di fab-brica, che Cantù pone al centro delle sue preoccupazioni e che cerca di di-

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150 La didascalia è presente nelle edizioni del 1871, del ’72 e del ‘77 venne toltanell’edizione del 1883, dove venne sostituita da quella “Cesare Cantù”, cfr. OSSOLA, In-troduzione cit., p. 65. Nella lettera a Rossi del 7 novembre [1872] (Archivio Rossi, bu-sta 7.2, lettera n. 31) si legge: «Nella vostra inchiesta avete dimenticato gli operai di li-bri. Chè poveri autori son proprio aux abois, se non siano giornalisti, ma il rimedio nonè meccanico». E ancora nella lettera n. 32 del 19 maggio [1871], ma qui con ironia: «Illibro pare che piaccia, e godo che chi me ne scrive accoppi il vostro col mio nome. Dueoperaj». Il riferimento ai medici operai nel Portafoglio è a p. 102: «Quivi [nell’ospedaledi Modena] ebbi campo di vedere quanto merito abbiano questi altri operai, i quali noisogliamo dire che guadagnano a macco; i medici e chirurghi». A proposito di ManfredoBruschi, direttore di fabbrica che si dava arie da intellettuale dice: «Ostentava di essereoperaio del pensiero» (Portafoglio cit., p. 129). Nel 1880 Cantù si rivolgeva con un mes-saggio Ai tipografi e agli operai di Milano in sciopero con queste parole: «Costui che ora viparla e che più volte scrisse a pro degli operai cominciò povero come voi, lavorò, lavoròsempre fra circostanze più dure delle vostre; potè procacciarsi una comoda vecchiaia,nella quale non smette il lavoro, da cui e per cui unicamente guadagna» (cit. in PACCA-GNINI, Cesare Cantù, scrittore guelfo cit., p. 784).

151 CANTÙ, Portafoglio cit., pp. 158-159: «Se noi professionisti siamo pagati più, ri-flettete che, per educarci, dovremmo impiegare un capitale, con cui voi sareste nonbraccianti ma padroni. Lo sareste se aveste la capacità di far il professore, il medico, l’av-vocato. E se l’avevate, potevi scegliere quella professione, invece della vostra. Nessunov’impedisce di voler diventare il primo cantante o il primo ballerino del teatro, come ilprimo pittore e scultore. […] Più penetrando poi, vedreste che chi lavora d’intelletto èmeno retribuito che non il manuale, qualora voglia conservarsi onesto e indipendente.Non vi dirò con quali spasimi uno arriva a render immortale il suo nome. Ma se sapestea quali prove si espongono questi gloriosi operai della scienza!». Il corsivo è mio.

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fendere con passione. Egli teme, infatti, che abolire tutti i vincoli e le for-me di protezione, così come togliere «ogni limite alla concorrenza,all’enormità de’ capitali, all’invasione delle macchine», finisca per peg-giorare la condizione dell’operaio, che viene considerato «come mer-ce»152 e ridotto a una macchina.

Quel che avrebbe a raccomandarsi è che l’operaio non si consideri né si lasciconsiderare come una macchina, destinata solo a far un certo numero di mo-vimenti o di sforzi: che l’educazione sua non si limiti a farne un fabbricatordi chiodi o di scarpe, sibbene a raffinarne l’intelligenza, elevarne le facoltà;e che egli al lavoro manuale annetta l’idea del dovere, del bene; col che eglisi disgusterebbe di ciò ch’è inesatto e imperfetto, e vorrebbe sempre far me-glio, perfezionarsi.153

Per questo è necessario che gli imprenditori

abbiano viscere, abbiano sentimento cristiano; si ricordino che il lavorante ècarne battezzata, e non meno della forza valutino la intelligenza e la con-dotta di lui; cerchino cioè di istruirlo, di migliorarlo, di farsene amare.154

In nome di una cristiana giustizia sociale, Cantù afferma che giusta-mente l’operaio desidera

sentire intimare al ricco: Paga la mercede a chi lavora per te, se no il gemitodell’operaio salirà al cielo gridando vendetta, e che al giudizio finale Iddio dirà“Ebbi fame e sete, e non mi saziaste; fui nudo e non mi copriste. Andate ineterno lungi da me.155

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152 Ivi, p. 307: «I governi si pigliarono que’ beni; quelle corporazioni di mestieri di-strussero in nome della libertà; se ne abbia vantaggio il povero operaio lo domanderò avoi. Erano abusate? Poteasi modificarlo togliendone i privilegi esclusivi, riducendolesemplici e volontarie, coordinandole alla parrocchie, al Comune, anziché proscriverle,togliere ogni limite alla concorrenza, all’enormità de’ capitali, all’invasione delle mac-chine: insomma considerando non il denaro ma l’uomo, e l’uomo non come merce, macome un essere sensitivo».

153 Ivi, p. 144-145; e a p. 283: «v’ha paesi ove il giornaliero riceve un salario cosìlimitato che non farà tutta la vita se non lavorare pel capitalista, il quale lo sfrutta comeun complemento delle macchine; e dove, senza speranza di migliorare, non può chemangiar pane e veleno».

154 Ivi, p. 158.155 Ivi, p. 132.

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6.4. Un modello produttivo cooperativoLa morale cristiana ispira a Cantù un interessante modello cooperativo

che, rifiutando la concorrenza tipica della società capitalistica, si basa su unsistema produttivo di proprietari responsabili,156 nel quale in alcuni mo-menti si può avvertire qualche eco leopardiana: «La concorrenza dunque, cheoggi è così viva nella società, non dovrebbe consistere nell’invidiarci l’un l’al-tro, ma nel cooperare tutti a domar la natura, a trarre frutti dalla terra».157

In questa prospettiva egli si fa sostenitore della richiesta degli operaidi partecipare agli utili dell’impresa, che avrebbe il vantaggio di «tradurla subordinazione in confederazione» e di conseguenza che l’operaio«s’attaccherebbe di più al suo posto, e armonizzerebbe col manifattore».Proposte coerenti con l’antica economia di villaggio in cui il padronemette il capitale e il contadino le braccia, in vista di una divisione delguadagno o con quella che si svolge sui laghi in cui un proprietario for-nisce il battello e un lavoratore la fatica, per ripartirsi i frutti della pe-sca.158 Cosciente che queste idee non incontreranno l’immediato favoredei suoi interlocutori, individua forme più o meno indirette di partecipa-zione agli utili dell’azienda e propone di trasformare gli operai in piccoliimprenditori, attraverso la diffusione dei lavori in appalto.

Talvolta agli operai si dà in appalto l’esecuzione di certi lavori […]. Perquesti modi il semplice giornaliero diventa un socio: cessa di trascinare daofficina a officina il suo malcontento; si tiene d’accordo coi compagni, e ve-de la possibilità di migliorare la propria condizione; oltreché si porta almassimo l’attività, si ispirano dignità, lealtà, amor dell’ordine.159

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156 In Buon senso e buon cuore cit., p. 239 aveva detto: «Che bella condizione poi quel-la del campagnolo proprietario, che senta la dignità sua, che cerchi il bene pel bene».

157 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 164; ma nel Socialista onesto parla di «beffarde iperbo-li del Leopardi», il quale è messo insieme a Marx e Bakunin, cfr. pp. 7-8.

158 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 292: «Invece d’imprecare al capitale e alle macchine, al-cuni vorrebbero fruttassero anche per l’operaio, e che questo potesse emanciparsi dal sala-rio per giornate, tradur la subordinazione in confederazione. Nell’agricoltura all’antica, ilpadrone mette il capitale, cioè il podere, case, bestiame, stromenti; il contadino le braccia:i frutti si dividono a terzo o a metà. Sui nostri laghi uno mette il battello e le reti, l’altrola fatica; e il pescato si divide a metà. Questa è la partecipazione alla quale ora spirerebbel’operaio, che cesserebbe d’esser puramente manuale, s’attaccherebbe di più al suo posto, earmonizzerebbe col manifattore». Già in Buon senso e buon cuore, p. 313 Cantù si era la-mentato perché «l’operaio invece [del campagnolo] trovasi diviso dal capitalista e dal pa-drone della manifattura […]; nol vede cooperare, non ha parte ne’ suoi guadagni».

159 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 293.

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Verso la fine del romanzo però scioglie le riserve e il suo discorso di-venta più esplicito. Infatti, di fronte ai problemi sociali creati dallo svi-luppo della grande industria che potrebbero sfociare nella rivoluzione,Cantù si pone la classica domanda “Che fare?” e si dà una risposta:

Che fare? Prepararvisi coll’avvicinar più che si possa il capitale al lavoro, as-sociare anche l’operaio negli utili, estendere le associazioni che utilizzino iminimi capitali ed elevino l’operaio ad imprenditore, l’affittuale a proprie-tario di casa, e leghino l’uomo alla famiglia, alla patria, allo stabilimento.160

D’altra parte allo stesso Savino, quando viene nominato direttore difabbrica, viene concessa «un’interessenza del 10 per 100 sui guadagninetti».161

Cantù sta attento però che questo discorso non si traduca in un limi-te al diritto di proprietà dell’industriale:

Altrove al fine della settimana l’operaio riceve il suo stipendio fisso: poi,prelevati gli interessi e tanto per l’ammortamento e la riserva, il resto, allafin d’anno, si divide in proporzioni convenute fra i capitalisti e tutti i colla-boratori fissi, compreso il capo. Ma tale partecipazione non può aver realtàche in una grande industria, già consolidata e capace di resistere a gravi ur-ti. Nelle aziende private il compenso sta al beneplacito del padrone; altri-menti questo si troverebbe legato a dirigere le imprese secondo la volontàdegli operai, a render i conti a questa.162

Le proposte canturiane susciteranno preoccupazione in alcuni im-prenditori veneti che vi vedranno l’affermazione di teorie comuniste ebloccheranno l’assegnazione di un premio al romanzo.163 Egli continuerà

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160 Ivi, p. 357.161 Ibidem.162 Ivi, p. 293.163 Cantù a Rossi, Milano, 13 gennaio 1873, Archivio Rossi, busta 7.2, lettera 8:

«Scusate un poco se vi devo levar fuori delle osservazioni, per una chiacchierata insulsaal Congresso Pedagogico di Venezia una commissione avea proposto di premiare il ns.operaio, ma la direzione negò perché vi sono frasi che mostrano poco rispetto per la ca-sa di Savoja! Stando però salda la Commissione si deferì e se ne nominò un’altra, che de-ve decidere il 21 del corrente. Io non so chi forma i membri né cosa pensino, ma mi siscrive che gli avversi imputano il libro di idee comuniste, e che gl’industriali veneti hanpaura che ne sieno guasti i loro lavoranti ecc.

Vedete bel frutto da libro che fu scritto a bella posta per combattere le idee comu-

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però coerentemente e coraggiosamente a sviluppare negli anni successiviil suo pensiero in questa prospettiva, fino a far propria una forma di so-cialismo cristiano dai tratti paternalistici, che egli chiama “socialismoonesto”, individuandone i rappresentanti negli intellettuali Pierre LePlay e Albert Schaeffle.

Il nome di Socialismo puzza per molti di eresia, di crimen laesae, di brigan-taggio. Possibile ciò con una dottrina, il cui principio suppone più d’ognialtra l’impero sopra se stesso, l’onestà, la sommessione, il sacrificio, l’amordel prossimo? Possibile che rappresenti il materialismo e l’odio alla religio-ne come estranei alle masse che guadagnano col sudore della fronte, e cono-scono la serietà della vita?164

E citando ancora quell’Alberto Federico Schaeffle che «alieno dalle ri-voluzioni o conquiste, personificate in Marx, a forza di studio e di lotte,come Stuart Mill e de Laveleye, arrivò al Socialismo»,165 continua:

Il vero programma del Socialismo sarebbe al capitale privato sostituire ilcollettivo, cioè un modo di produzione fondato sul possesso collettivo ditutti i mezzi di produzione per opera di tutti i membri della Società: dondeun organamento più unificato, sociale, collettivo, del lavoro internazionale.Questa produzione collettiva sopprimerebbe la sfrenata concorrenza, met-tendo quella parte di produzione di ricchezze che può eseguirsi collettiva-mente sotto agli organamenti professionali, e sotto questa direzione effet-

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niste! Ma qui siete implorato anche voi, che tanta parte vi avete, che entrate col vesco-vo a dir l’ultima parola, e che (inter nos) avete riveduto quel che vi si pone in bocca. Do-vreste dunque farne far parola a qualcuno di tal commissione? È inutile dirvi che delpremio me ne importa come d’un fico secco: ma d’essersi o esservi ingannati così digrosso!».

164 CANTÙ, Il socialista onesto cit., p. 28. All’inizio dell’opuscolo aveva esordito così:«Fu ripreso un deputato, che si annunziò alla Camera per socialista. Forse glielo impe-diva il giuramento o il luogo, ma io sciolto da questi legami, vengo a presentarvi un so-cialista. Vero è che questa parola è polisenso […] e richiede spiegazioni, distinzioni, re-strizioni, come le altre di cui si trastullano i partiti» (p. 7). Anche Mazzonis riconducela posizione politica di Cantù nel Portafoglio ad un socialismo paternalistico; cfr. MAZ-ZONIS, Cesare Cantù cit., p. 146: «Così di fronte alle minacce crescenti di un sovversivi-smo senza freni, agli occhi dei conservatori nazionali, il “socialismo” paternalistico delCantù (soprattutto quello del Portafoglio dell’operaio mantenne a lungo intatto il propriopotenziale di persuasione-discussione edificante […]».

165 Ivi, p. 27.

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tuando il riparto del frutto del prodotto di tutti in ragione del valore di usosociale del lavoro di ciascuno.Quando siam lontani dalle leggi che impacciano la stampa, le associazioni,le riunioni di scopo sociale, non meno che dal nichilismo di Bakonine! E co-me importa inculcarle in alto e in basso che la politica interna e la esterna diuna società sono connesse, e non può darsi miglioramento essenzialedell’una senza essenziale miglioramento dell’altra!166

6.5. Il rifiuto dell’utopiaCantù, che sin da giovane aveva guardato con interesse agli scritti di

Saint Simon,167 elabora un socialismo cristiano dai tratti paternalisticiche salvaguarda la libertà individuale e il diritto di proprietà, restandoperò estraneo a qualsiasi forma di socialismo che, abolendo la proprietàprivata, assegni allo Stato un ruolo centrale nei processi di produzione edi distribuzione dei beni di consumo.

Non è vero che il Socialista ricusi la proprietà in generale; che voglia l’asso-luta abolizione della proprietà privata; che voglia il lavoro senza i mezzi diproduzione; che si deva annullare il capitale nel senso tecnico; che escluda lagrande produzione; che necessariamente sia materialista; neghi il diritto dicambiare domicilio e di scegliersi una professione; neghi la libera determi-

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166 Ivi, p. 29.167 Lo stesso Cantù maturo lo ricorda facendo trapelare ancora una stima per il filo-

sofo francese (Cantù, Portafoglio cit., p. 13): «Come tanti ridono di noi quarantottisti,così non pronunziano che con beffa il nome di Saint-Simon. Spogliatelo delle esagera-zioni e del misticismo, ma quanta impressione su noi giovani faceva il costui propositodi migliorare la classe più negletta, e tutti spingere verso il lavoro, verso la trasforma-zione della natura mediante la scienza. Le macchine, l’affratellamento degli uomini e deicapitali!». Analizzando le posizioni dei socialisti utopisti, afferma che «talvolta le uto-pie non sono che verità anticipate» e che «gli utopisti sogliono eccedere nell’applicareun principio» (CANTÙ, Portafoglio, p. 171, n. 1). In una nota del Portafoglio, presenta leidee del filosofo francese in questo modo: «Saint Simon introduceva una nuova religiosociale, dove fossero messi in comune i beni e attribuitone a ciascuno secondo la sua ca-pacità, e ad ogni capacità secondo le sue opere, sotto l’ispezione d’un gran maestro chetariffava le capacità; e adoperando tutte le forze a sottomettere la natura, invece di usu-fruttare gli uomini». Si colgono subito le affinità con il programma che egli va espo-nendo proprio in questo romanzo. Sul Sansimonismo di Cantù cfr. RENATO TREVES, Ladottrina sansimoniana nel pensiero italiano del Risorgimento, Torino, Istituto Giuridico del-la Regia Università, 1931, p. 40; DELLA PERUTA, Cesare Cantù cit., p. 8, n. 11, ma anchePACCAGNINI, Cesare Cantù e il mondo operaio cit. p. 133.

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nazione dei bisogni individuali, e deva attuare il dispotismo dello stato cen-tralizzato.168

Nello stesso tempo è contrario a qualsiasi utopia che pretenda di cam-biare la natura umana o di trasformare radicalmente la società abolendola subordinazione sociale e la povertà attraverso l’istituzione dell’ugua-glianza tra le classi. Questi cambiamenti appaiano a Cantù velleitari e da-gli effetti pericolosi in quanto, con i loro esperimenti intellettualistici,portano alla distruzione delle istituzioni precedenti, creando dei danni lecui conseguenze alla fine saranno pagate solo dal popolo.

Non si tramuta impunemente dalle sue basi tutta una società, se anche fos-se per collocarla meglio: non si cangiano senza pericolo il sistema delle im-poste e le condizioni del lavoro. Eppure questi sovvertimenti sono predica-ti come un’era di felicità. Si fantasticano ordinanze dirette contro i ricchi,senza badare che ricadono sui poveri.19

Il nostro Savino, che attraverso le sue azioni e i suoi discorsi deve me-diare al lettore esperienze e riflessioni, guarda, osserva, riflette e impara:«Io […] non m’ero figurato che bisognasse riformar il mondo e che lo po-tessimo noi colla rivoluzione»;170 arrivando poi alla conclusione: «abbia-mo dunque eguaglianza civile, abbiamo eguaglianza politica; ma l’egua-glianza sociale, s’ha un bel dire, è un assurdo».171

Nessuna teoria politica, nessuna rivoluzione sociale può liberare l’uo-mo dal lavoro. Cantù elabora un’ideologia chiusa in un orizzonte privo diutopia, perché il lavoro e la fatica non sono il frutto della storia, ma fannoparte della natura ontologica dell’uomo, che non può e non deve esserestravolta.

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168 CANTÙ, Il socialista onesto cit., p. 28. Ecco i suoi interventi a difesa della libertàindividuale e della proprietà privata: «Oggi questa formola l’ha adottata il socialismo:cioè un sistema che diffida della libertà dell’uomo e dell’azione individuale, fin a cre-derlo incapace di provvedere da sé ai propri bisogni e al comune progresso: e perciò vor-rebbe fatto tutto dal Governo» (Cantù, Portafoglio cit., p. 168; cfr. anche ivi, p. 165); al-la proposta di Savino che: «tutti gli abitanti d’un Comune dovrebbero possedere e col-tivare insieme le terre di quel Comune. Tutte le braccia d’una fabbrica, compreso il pa-drone, dovrebbero lavorarvi a vantaggio comune e dividendo gli utili» fa rispondere alCapitano: «Queste osservazioni fan onore al vostro cuore torto al vostro senno. Rinasce-rebbero tutti gli svantaggi dell’abolire la proprietà» (Ivi, p. 169, ma cfr. anche p. 291).

169 Ivi, p. 172.170 Ivi, p. 174.171 Ivi, p. 175.

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Chi vuol migliorare le classi operaie non si propone certo di dispensarledall’operare: sarebbe un voler che il lume non illumini e il caldo non iscaldi.[…] Neppure sogneremo tali perfezionamenti di macchine che non sia piùbisognoso d’adoperare il martello e la scure, e facciasi domenica tutta la set-timana.172

La sua ideologia trova fondamento in una visione cristiana della so-cietà che considera il lavoro un bisogno naturale e uno strumento di per-fezione umana,173 rispondente al mandato divino di dominio sulla natu-ra, ma che nello stesso tempo è condanna, in quanto simbolo della cadu-ta originaria dell’uomo, e forma di riscatto e di rigenerazione morale, manon sociale:

La fatica è la più alta virtù sociale, la condanna nostra, ma insieme la nostrarigenerazione. […] È bontà di Dio l’averci collocato in un mondo ove pervivere bisogna lavorare. Pel lavoro la natura è sottomessa all’uomo; l’oceanoè solcato dalle navi; le montagne superate colle strade o forate; squarciate leviscere della terra per cavarne frutti e cibi, oppure carbone, marmi, metalli,i quali pel lavoro sono foggiati in forme graziose ed opportune.174

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172 Ivi, p. 140. 173 Ivi, p. 142: «Che mi state dunque lamentandovi del lavoro? Invidiando quelli

che non vi sono obbligati? Che mi state a discutere se sia un diritto o un dovere? È unbisogno della natura; un bisogno universale, che tutti li riassume, che negli animali èistinto, nell’uomo è mezzo di perfezionamento».

174 Ivi, pp. 139-140. Sulla concezione del lavoro di Cantù, SILVIO LANARO in Nazio-ne e Lavoro cit., p. 98-99 scrive: «Nell’universo “reazionario” di Cesare Cantù – un no-me che è tutto un programma – il concetto di lavoro occupa ancora una volta una posi-zione privilegiata. Ma il suo non è né il lavoro-work degli smilesiani laici, che interponefra l’uomo e la natura una catena di res, di frutti dell’alacrità e dell’ingegno; né il lavo-ro-job degli ergometristi della scuola positiva, che è una somma di gesti scomponibili emisurabili scientificamente in vista della massima economia di sforzo; né il lavoro-capi-tale dei socialisti della cattedra, impegnati a inseguire la forma ideale del salario per di-sperdere una “forza” – la classe operaia – già potenzialmente organizzata sul terreno so-ciale. Il suo è il lavoro-labour, l’attività motoria che si svolge sotto il segno della fatalitàe che è tipica delle “opere” della campagna, della routine domestica, delle prestazioni ser-vili: il lavoro-fatica, insomma, funzione del sostenziamento fisiologico, scandito dal rit-mo delle giornate e dal ciclo delle stagioni. Cattolicamente, una combinazione del lavo-ro. Condanna e del lavoro-riscatto applicata i bisogni delle macchine e del regime difabbrica». Mi sembra che qui si sottovaluta l’aspetto etico che il lavoro assume nellaconcezione di Cantù e il suo valore di riscatto morale, che dà dignità all’uomo e si legaal bisogno di formazione culturale. In questa direzione anche gli appelli agli industria-li a non considerare gli uomini come macchine.

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E ancora più esplicitamente: «È idea cristiana il considerare il lavorocome un’espiazione, talché cessa di essere segno di degradazione civile emutasi in dovere».175

Se il lavoro è consustanziato alla natura umana, la povertà lo è alla so-cietà e quindi è altrettanto ineliminabile, mentre la si può prevenire e at-tenuare.176 È in questa prospettiva che Cantù, opponendosi alla moraleprotestante sottesa all’etica del successo, riafferma e rilegittima la praticadella carità che aveva caratterizzato l’azione sociale della Chiesa cattolicasin dalle sue origini. Non è un caso che egli affidi le parole conclusive delromanzo a un vescovo che, nel rifiutare qualsiasi utopia, esalta le opere dicarità della Chiesa. Per questo alle «scuole economiche rivoluzionarie» nepreferisce «una detta cristiana, rappresentata da Villeneuve Bargemont eBlanc-Saint-Bonnet, che crede la povertà legge di natura, e suo corretti-vo la carità».177

Han predicato che la carità fomenta l’ozio, cresce i poveri, e toglie all’ope-raio la dignità e la vergogna; pertanto proscrissero la limosina, distrussero iltesoro della avita beneficenza, sovvertirono gli ospedali e ricoveri pe’ trova-telli, abolirono le doti, consigliarono la sterilità, alterarono coll’ingerenzaufficiale le istituzioni che la Chiesa aveva moltiplicate, e ciò intitolaronoprogresso, libertà, felicità. Lo sa il popolo se sia così. Sì: la carità crea scioperati quando è inconsulta: è vergognosa quando fattadal ricco con quella superbia, che eccita l’ingratitudine del povero, il qualeper superbia la pretende come un diritto, sebbene vizioso o infingardo. Lacarità cristiana produce anzi corrispondenza d’amorosi sensi fra il povero e ilbeneficante perché spontanea.178

Un altro aspetto della sua diffidenza verso l’etica del successo ri-guarda l’ottimismo che fa sperare a tutti un miglioramento economico eil passaggio alla classe superiore. L’«operaio del pensiero» Cesare Cantù

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175 Ivi, p. 302.176 Ivi, pp. 153-154: «Abolire la povertà è impossibile. Ad alcune cause di essa

l’uomo va sottoposto per necessità naturale. […] Quelli almanaccati per abolire la po-vertà son rimedi da quarta pagina. La carità, le associazioni, la previdenza, la mutualitàpossono alleggerirla, palliarla, ma toglierla no». Ancora a p. 168 afferma: «Avete unbello scatenarvi contro i padroni e i governanti; v’è miserie inseparabili dalla naturaumana; non v’è regolamento o legge che possa impedire che vengano momenti di di-soccupazione».

177 Ivi, p. 172 nota.178 Ivi, pp. 305-306.

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– esempio riuscito di promozione sociale – guarda con molta diffidenzala mobilità sociale e predica una cristiana rassegnazione a contentarsidella propria condizione, senza avere «l’ambizione di salire semprepiù»;179 invita i lettori a evitare «quella smania di tutti elevarsi, che tut-ti abbassa»180 perché «non è povero chi ha poco, ma chi desidera dipiù».181

L’invito alla rassegnazione – ricorrente in tutte le lettere che lo zioGiampaolo scrive a Savinio in quella forma criptica che impegna il gio-vane operaio in un lavoro di interpretazione, il cui esito alla fine risultasempre chiaro e sicuro – non deve essere inteso come adesione a una po-litica reazionaria e agli interessi della classe dominante. Cantù, infatti, sifa sostenitore degli interessi del popolo e assume nei suoi confronti unatteggiamento paternalistico teso a difenderlo dai danni causati dalla ri-voluzione industriale, che invece di essere strumento di palingenesi e diriscatto sociale delle classi subalterne, si rivelava un pericolo con il suototale sovvertimento dell’ordine sociale, soprattutto in quella forma chelo scrittore aveva chiamato “industrialismo”, identificabile nello svilup-po della grande industria. L’espandersi di quest’ultima aveva portato al-la distruzione non solo delle piccole imprese, ma anche degli artigiani ein generale della classe media, considerata “il nerbo dello stato” e avevaridotto tutti a “nullatenenti”.182

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179 Ivi, p. 154: «Fuggire l’intemperanza, che snerva ben più della fatica: tenersicontenti del proprio stato, perseverando modestamente senza l’ambizione di salir sem-pre più; acquistare il vero coraggio, che è quello di fare sempre il proprio dovere».

180 Ivi, p. 294.181 Ivi, p. 285.182 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 282: «[…] coll’associazione si costituirono gigante-

sche aziende, a fronte delle quali non potevano reggersi il piccolo industriale, né tam-poco il piccolo possidente. Costretti ad abbandonare la loro posizione indipendente,questi si ridussero anch’essi lavoranti a giornata, a cottimo, a opera, scomparendo cosìin gran parte, se favorevoli circostanze non s’accompagnino, la classe media, che dev’es-sere il nerbo dello stato, e crescendo quella de’ nullatenenti, il cui vivere dipende dallevicissitudini del commercio»; interessante anche quanto si legge a p. 357: «La grandeindustria giova a crear la ricchezza e perfezionare i metodi; la piccola assicura meglio lamoralità e l’indipendenza delle famiglie: ma nell’una e nell’altra dee cercarsi guadagnocon moderazione e giustizia, non con mezzi illeciti, con avidità, con inumanità. La pic-cola industria indipendente anche da noi va a soccombere alle vaste fabbriche; il Gover-no, falsamente democratico, combatte cole sue leggi o rovina il minuto trafficante, ilmugnaio, il fabbro, onde s’introdurranno i mali di cui già sentiamo i prodromi, aggra-vati da rivoluzioni e guerre e grossi eserciti, che sottraggono braccia al lavoro ed esage-rano le imposte».

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Da estimatore del movimento riformatore settecentesco, Cantù, nelmomento in cui condanna nettamente qualsiasi cambiamento sociale ra-dicale e veloce, come «le sovversioni di Baconine e di Marx»,183 si fa pro-motore di una politica di riforme e di miglioramento graduale della con-dizione degli operai. Nel Progresso positivo aveva affermato: «Dall’econo-mia politica i giovani, generosi sempre ma spesso utopisti, devono attin-gere i preservativi dal socialismo, che in somma è un confessare che si dif-fida della libertà; e insieme il coraggio alle riforme durevoli». Diventacosì sostenitore di un “lento progresso”, da realizzare «con pazienza e an-che con rassegnazione, senza affrettare troppo bruscamente la desiderabi-le congiunzione di religio e libertà, di morale e politica»184 perché leriforme non devono stravolgere la società, ma devono armonizzarsi con letradizioni e con le istituzioni precedenti.185

Infatti, l’invito a contentarsi della propria condizione è accompagna-ta dall’incitamento a lavorare per migliorarla, ma anche dalla denunciadella situazione sociale e morale in cui sono costretti a vivere gli operai,con i conseguenti ammonimenti a quegli imprenditori che hanno comeunico obiettivo quello di sfruttare gli operai. Contentarsi della propriacondizione e darsi da fare per migliorarla sembrano due cose inconcilia-bili e contraddittorie. Già in Buon senso e buon cuore si legge:

Qui due cose ho a raccomandarvi, cari amici, le quali a bella prima parreb-bero fare ai pugni, eppure derivano dalle regole medesime:La prima è di vivere contenti del proprio stato;La seconda, di cercar di migliorare il proprio stato.L’aspirare ad una condizione migliore è conseguenza di quel dovere di per-fezionarci sul quale abbiamo insistito. È della temperanza il non desideraretroppo, il contentarsi di quel che si ha.186

Si capisce, pertanto, che con il suo invito a contentarsi del proprio sta-to Cantù vuole convincere gli operai a migliorare lentamente la propriacondizione attraverso il frutto sicuro del proprio lavoro e a metterli inguardia contro i rischi che l’avventura di una scalata sociale comportava

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183 CANTÙ, Un socialista onesto cit., p. 8.184 DELLA PERUTA, Cesare Cantù cit., p. 7.185 CANTÙ, Portafoglio, p. 229: «Un paese che ha rotte le tradizioni di dottrine, di

storia, di costumi, di affetti, somiglia ad un malato che guarì, ma perduta la memoria ela favella».

186 CANTÙ, Buon senso e buon cuore cit., p. 219.

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in una situazione di capitalismo primordiale in cui erano poche sia le pos-sibilità reali di successo, sia le garanzie. «Vi ripeto – afferma in Buon sen-so e buon cuore – di non avventurarvi in speculazioni rischiose: meglio pic-coli guadagni, ma sicuri».187 Questa scelta viene esemplificate bene daSavino, che, quando il suo amico Menico Imbivere gli propone di met-tersi in società per diventare imprenditore, rifiuta il rischio della scalatasociale, del salto di classe, scegliendo la via lenta ma sicura del progressoall’interno della fabbrica del paterno industriale Pensabene.

«La proposta mi diè per lo genio: e quella notte ho fatto più castelli in ariache non ne faccia un giocatore del lotto […]. Quando però ne feci parola almio principale, egli approvò la cosa, ma conchiuse: “Voi peraltro farete me-glio se starete qui. Non ve ne pentirete.Questa parola mi tolse di bilico, e risposi a Menico ringraziandolo, ma cherimanevo. Poteva io desiderar di meglio che un buon padrone?»188

Nel valutare questi aspetti del pensiero di Cantù è opportuno nontrascurare l’importanza che per lui hanno avuto alcune esperienze legateal fallimento economico del padre. Queste vicende hanno segnato in mo-do indelebile la sua vita, coinvolgendolo ancora dodicenne in situazioniparticolarmente dolorose e costringendolo a lavorare precocemente. Di-ceva del padre «ecco un uomo che per diventare qualcosa di più dal pocoche era, divenne men che nulla».189 E ancora da adulto ricordava le scenedel pignoramento dei loro beni per pagare i debiti: «Ogni momento spa-venti di uscieri, di trombette, di appignoramenti; il padre cercato per es-sere arrestato da una furia di creditori, e vedemmo portati via tutti i mo-bili fuorché i letti onde neppur avevamo da sedere».190

Il punto di vista di Cantù nel romanzo non è organico agli interessidegli industriali che stanno cercando di catechizzare la nuova classe ope-

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187 Ivi, p. 220. Nella stessa pagina leggiamo: «Ora le barriere sono levate, ciascunodesidera essere qualcosa di più che non fu suo padre. Io non dico che ciò sia male; dicos’ingannano quelli che credono che in ciò consista il perfezionamento, il quale non è rea-le se non sia proporzionato alle proprie forze. D’un fanciullo che volesse sottoporsi al pe-so d’un facchino direste che tende a crescere le proprie forze? No: rimarrà schiacciato.Così avviene di chi mira a uno stato superiore alla sua abilità».

188 CANTÙ, Portafoglio cit., pp. 330-331.189 Il brano contenuto nel testo manoscritto Famiglia Cantù, conservato nel Fondo

Cantù, è citato da MARINO BERENGO nella voce Cantù, Cesare del Dizionario Biografico de-gli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, vol. XVIII, 1975, p. 336.

190 Ibidem.

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raia, ma è quello di un intellettuale particolarmente vicino al popolo, checerca di proteggere dai sovvertimenti sociali in atto e dai soprusi dei ric-chi. Ecco quanto afferma uscendo per un attimo fuori dalla finzione let-teraria e attribuendosene direttamente la responsabilità:

Sia permesso a me annotatore, per quest’unica volta, ripetere parole chestampavo nei tempi della schiavitù straniera:“Il buffone gaudente continui pure a ridere della compassione che mostria-mo pel povero popolo. Ma noi vorremmo che i ricchi, allorché vengono abearsi a questi soli, non isdegnassero volger l’occhio alle miserie ch’essi in-dorano, e guardassero ai villani e alle contadine, non per comandarli e se-durle, ma per riconoscerli fratelli e trasmettere loro un’idea buona, un sen-timento virtuoso, un concetto di miglioramento. […] Cotesti giovani ric-chi, canciuglianti di patria col sigaro in bocca nei caffè cittadini, perché nonaccorrono alle sane gioie ed alle intelligenti fatiche dei campi, facendosiscuola ed esempio, e raccogliendo qui armi ed ali alle nobili risoluzioni?[…] Signor sì, signor prefetto, signor sindaco, signor consigliere; io la lodoallorché promuove una larga piazza, un bel palazzo, un sonoro concerto, mala benedico allorché ad una casipola umida, afata, fumicosa, senza condottiper gli Dei inferi né pei superi, surroga un casolare, ancor rustico, ma aera-to, bianco, ben distribuito, con buon coperto di tetto e asciutto pavimento.La mi scusi; io son nato in campagna, son cresciuto fra popolani; amo il duo-mo e il giardino pubblico, il teatro ed il caffè, ma credo che sul libro dell’an-gelo buono si registri a migliori caratteri la fabbrica d’una cascina, il retti-filo d’un villaggio.191

Oltre a ergersi a difensore degli operai, e più in generale delle classisubalterne, Cantù individua nel popolo – identificato in una forma idea-lizzata di società agricola – i valori, ma anche le forme sociali ed econo-miche da porre alla base della società: «dalla sana popolazione della cam-pagna bisognerà prendere l’innesto per emendare le fiacche dellacittà».192 Elabora così una forma di populismo193 che lo porta a diffidare

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191 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 226-227, n. 1.192 CANTÙ, Buon senso cit., p. 222. 193 Il discorso di Cantù ha le caratteristiche tipiche individuate da Asor Rosa per-

ché sia legittimo parlare di populismo: ASOR ROSA, Scrittori e popolo cit., p. 19: «L’usodel termine populismo è legittimo solo quando sia presente nel discorso letterario unavalutazione positiva del popolo, sotto il profilo ideologico oppure storico-sociale oppu-re etico. Perchè ci sia populismo, è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un mo-dello».

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di tutte le teorie economiche più o meno intellettualistiche, a cui con-trappone una “giustizia popolare”, e a invitare la classe operaia a non spe-rare su aiuti esterni, ma a contare solo sulle proprie forze.194

L’operaio per lui [scil. l’industriale Cortesella] era mero strumento di pro-duzione: bisogna forzarne l’opera il più possibile, farlo lavorare più ore chesi possa e col minore stipendio, affine di produrre le stoffe a miglior merca-to, e così venderne di più: mandò via un lavorante che v’era da dieci anni,sol perché gli se ne offerse un altro a cinque soldi meno. Tutto ciò egli logiustifica con dottrine di economisti e di letterati, ma la giustizia popolaregli affigge il soprannome di avvoltoio”.195

7. Conclusioni

In conclusione possiamo affermare che sarebbe ingenuo voler appli-care al Portafoglio d’un operaio criteri estetici per collocarlo all’interno delcanone della letteratura alta. Il romanzo appartiene, come abbiamo vi-sto, dichiaratamente e intenzionalmente al panorama della letteraturapopolare del tempo, e si fa carico dell’urgenza di obiettivi divulgativi epedagogici dell’autore.

Il suo valore è piuttosto quello di documentare un tentativo coerentee interessante, nel momento della nascita del capitalismo in Italia, di con-trollare lo sviluppo industriale e di metterlo al servizio di un uomo nonridotto a macchina e a merce. Con il Portafoglio Cantù volle conciliare ilpunto di vista cattolico ortodosso con la modernità, accogliendo di que-sta i vantaggi del progresso tecnologico e i miglioramenti che può porta-re alla condizione sociale delle classi subalterne, di cui l’autore è sincerosostenitore e ammiratore, ma rifiutando la morale edonistica.

La corretta prospettiva di studio di quest’opera non è quella dellacommittenza industriale e dell’ideologia borghese protoindustriale, perriconoscere in essa l’attuazione del programma ideologico e culturale

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194 CANTÙ, Portafoglio cit., p. 168: «Io invece vi ripeto che dal governo chiediate edaspettiate il men che si può: fate da voi, cercate da voi. Il buon operaio non dee aver bi-sogno d’aiuti esterni né morali né materiali».

195 Ivi, p. 109; cfr. anche p. 282: «Le società imprenditrici non ebbero viscere pelpovero; calcolarono di smerciare col minor costo, e perciò pagare l’operario il meno chesi potesse; ridurlo al punto necessario per lui e la famiglia; poi cercare che s’acconten-tasse di men del necessario; e perciò adoprare i fanciulli e, ch’è orribile, le ragazze».

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della grande industria, ma è quella della storia del populismo cattoli-co.196 La soluzione che egli propone per governare la modernità e risol-vere la questione sociale è, infatti, quella di proporre come modello la ci-viltà contadina, che qui viene idealizzata.197 Pur in un ruolo di subordi-nazione, ogni individuo del popolo trova l’emancipazione non in una ri-voluzione che abbatta tutte le differenze, ma nella conquista del ruolo diproprietario, che gli permetterà di partecipare ai benefici e alle respon-sabilità della società in cui vive.

C’è, infine, una coincidenza interessante che va sottolineata. Nel1871 col suo Portafoglio d’un operaio il lombardo Cesare Cantù fa partiredalla Campania verso la Lombardia un giovane che avrebbe dovuto, at-traverso il suo romanzo di formazione, fondare l’ideologia del lavoro in-dustriale. Giusto cento anni dopo, nel 1971, un altro scrittore lombardofa compiere a un suo personaggio il medesimo tragitto: si tratta del pro-tagonista del romanzo di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto.198 Questa vol-ta, però, la formazione del giovane avrà come approdo il dissolversi diquella ideologia. Nell’arco di tempo compreso tra le date di pubblicazio-ne di queste due opere, l’ideologia del lavoro industriale in Italia svolge-va tutta la sua parabola, dall’inizio alla fine, dopo cento anni esatti avevaconcluso il suo ciclo.

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196 Sulla prospettiva populista delle opere di Cantù ha richiamato la sua attenzioneDELLA PERUTA, Cesare Cantù cit., p. 17: «Questa comprensione umana che Cantù dimo-strava per il mondo popolare, e in particolare per la gente dei campi […] gli ispiravauna larga tolleranza per i vizi e i difetti della plebe, la cui responsabilità era attribuitain primo luogo al contegno dei ceti dominanti. […] E del resto in questa visione popu-listica i pregi e le virtù degli umili superavano largamente i loro difetti, come gli sem-brava attestassero non soltanto la loro moralità e religiosità, ma anche la saggezza pro-fusa nei proverbi e la finezza del “buon senso” popolano»

197 DELLA PERUTA, Cesare Cantù cit., p. 21: «Le aspirazioni di Cantù a un mondo nonpercorso da tensioni sociali e da contrasti di classe si rispecchiavano nel vagheggiamen-to a tratti idillico di un mondo popolare dal quale erano espunti gli aspetti drammaticidi un’esistenza che troppo spesso doveva misurarsi con la miseria, la disoccupazione, lafame, la malattia».

198 NANNI BALESTRINI, Vogliamo tutto, Milano, Feltrinelli, 1971.