1 Il porfido nel Medioevo Università degli Studi Roma Tre, 2011 William Tronzo Stile, cronologia e il problema dello spazio: alcune osservazioni introduttive Percepiamo il tempo come lineare, e ho il sospetto che questa esperienza ha prepotentemente influenzato la nostra predisposizione a pensare all’esposizione storica del tempo, o cronologia, allo stesso modo, cioè come una direzione in avanti, come una linea lungo la quale i dati, di solito gli oggetti, possono essere schierati. In questo senso, la cronologia non ha una presenza visiva di cui si possa parlare. Ma se il nome di Albert Einstein è indissolubilmente legato ad un termine o concetto nella fantasia popolare, è la teoria della relatività, che si fonda sull'idea che il tempo e lo spazio sono uno - un continuum spazio-temporale - ma ancor più, che il tempo e lo spazio non sono fissi, ma in movimento, flessione, intreccio, torsione, come le molte dimensioni dell'universo cambiano. Vi prego di non chiedere altre spiegazioni, perché io non sono un fisico, ma come storico dell'arte, credo di poter dire che, se avessimo prestato attenzione, avremmo potuto desumere tutto questo dai protocolli stessi della nostra disciplina. Guardando indietro alla storia dell'arte, io non credo che ci sia stato mai un tentativo di costruire una cronologia, vale a dire una sequenza evolutiva di oggetti, in cui una precisa dimensione spaziale non fosse inerente, anche se difficilmente è mai stato articolato o osservato come tale. Tra i tanti esempi possibili, ne ho scelto solo uno, che io
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"Il porfido nel Medioevo," Università degli Studi Roma Tre, 2011
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Il porfido nel Medioevo
Università degli Studi Roma Tre, 2011
William Tronzo
Stile, cronologia e il problema dello spazio: alcune osservazioni introduttive
Percepiamo il tempo come lineare, e ho il sospetto che questa esperienza ha
prepotentemente influenzato la nostra predisposizione a pensare all’esposizione storica
del tempo, o cronologia, allo stesso modo, cioè come una direzione in avanti, come una
linea lungo la quale i dati, di solito gli oggetti, possono essere schierati. In questo senso,
la cronologia non ha una presenza visiva di cui si possa parlare. Ma se il nome di Albert
Einstein è indissolubilmente legato ad un termine o concetto nella fantasia popolare, è la
teoria della relatività, che si fonda sull'idea che il tempo e lo spazio sono uno - un
continuum spazio-temporale - ma ancor più, che il tempo e lo spazio non sono fissi, ma in
movimento, flessione, intreccio, torsione, come le molte dimensioni dell'universo
cambiano. Vi prego di non chiedere altre spiegazioni, perché io non sono un fisico, ma
come storico dell'arte, credo di poter dire che, se avessimo prestato attenzione, avremmo
potuto desumere tutto questo dai protocolli stessi della nostra disciplina.
Guardando indietro alla storia dell'arte, io non credo che ci sia stato mai un
tentativo di costruire una cronologia, vale a dire una sequenza evolutiva di oggetti, in cui
una precisa dimensione spaziale non fosse inerente, anche se difficilmente è mai stato
articolato o osservato come tale. Tra i tanti esempi possibili, ne ho scelto solo uno, che io
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conosco molto bene: lo studio di Ernst Kitzinger sull’arte del periodo tardo antico,
intitolato: Byzantine Art in the Making: Main Lines of Stylistics Development in
Mediterranean Art, 3rd
-7th
Centuries (La creazione dell’arte bizantina: linee principali di
sviluppo stilistico nell’arte mediterranea, dal 3° al 7° secolo).
Per molti versi questo è un saggio elegantemente articolato sulla tradizione di
analisi formale, con una grande attenzione riservata alla forma della figura umana e le
impostazioni in cui le figure si trovano, ma è anche ampliato per tener conto della
singolare varietà di contesti in cui le immagini si trovano, come sui lati di cofanetti di
avorio, sulle pagine di manoscritti o sulle superfici curve delle absidi e così via. Potete
notare come l'autore discute una grande varietà di media, e di soggetti e contesti
funzionali – un sistema operativo che uno storico dell'arte di un periodo successivo
sarebbe contrario ad usare, e non userebbe. Ma da tutta questa cacofonia spaziale,
l’autore riesce a produrre una narrazione che consiste di una sequenza di momenti
fermamente connessi l’uno all’altro - come i capitoli di una storia più grande – ciascuno
con il proprio carattere e impulso.
Per quanto riguarda questi aspetti, il carattere e impulso, ci sono in effetti due tipi
da mettere in risalto: il sorgere dell’astrazione da un lato, che assale e svuota i valori del
naturalismo classico (come nel quinto secolo, per esempio), e la riaffermazione del
naturalismo classico, dall'altro (come nel sesto secolo), che resiste l’astrazione ma non
riesce a liberarsi completamente della sua portata. La dinamica del periodo nel suo
complesso è costituita da ripetuti attacchi e riaffermazioni, che portano a profondi
cambiamenti in entrambi campi, e alla fine producono il riavvicinamento o la sintesi che
definisce “l’arte bizantina." Questo processo si presta naturalmente a una visualizzazione
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in un certo senso schematica, e un’analogia plausibile potrebbe essere qualcosa come una
curva sinusoidale con colline e valli, con le differenze tra le altezze e le profondità che
vanno via via attenuandosi fino a raggiungere un plateau. Questo tipo di visualizzazione è
anche una forma di spazializzazione, e ci permette di vedere graficamente esattamente
com’erano strutturate le osservazioni e il pensiero di Kitzinger.
Ma c'è un altro tipo di spazio che avevo in mente quando ho menzionato Einstein
un momento fa. Mi riferivo allo spazio che pone un problema reale per Kitzinger fin
dall'inizio. Per costruire questa “linea sinusoidale", Kitzinger deve concentrarsi
essenzialmente sull'arte del più alto ordine di patronato, quanto si potrebbe considerare
come lo strato superiore della società, vescovi e papi, principi, re e imperatori. Il termine
chiave qui è “superiore”. Questo è un termine con distinti sentori spaziali, e con questo,
Kitzinger incontra un ostacolo - un grande ostacolo - quasi dall'inizio. È l'Arco di
Costantino, con il quale il libro di Kitzinger, e il suo programma di illustrazioni, si apre.
L'Arco pone un grande problema per Kitzinger, come lo era per altri
commentatori quali, tra l’altro, il pittore Raffaello all’inizo del Cinquecento. Il problema
non è tanto nel palese e, a volte piuttosto goffo riutilizzo di rilievi precedenti, che, va
ricordato, sono tutti di origine imperiale e quindi del livello di patronato e di arte che
caratterizzano le opere su cui si concentra comunque Kitzinger. Il problema sta invece nei
rilievi scolpiti espressamente per l'Arco, come quelli che raccontano la vittoria di
Costantino su Massenzio e il suo ingresso trionfale a Roma. Questi rilievi sono
crudamente intagliati in modo estremo, senza neanche un segno dei delicati ed elaborati
dettagli tipici dei rilievi riutilizzati. Per Kitizinger questi rilievi costituiscono una frattura,
un’interruzione nel flusso di stile (la curva sinusoidale) che in ultima analisi va spiegata
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in termini di una intrusione nella "tradizione" di un elemento stilistico estraneo. Questo
elemento stilistico non viene dall’Oriente, come pensava Strzygowski nel saggio che ha
scritto sullo sviluppo della forma nel periodo tardo antico del Mediterraneo, ma dal
basso, letteralmente, dalle fascie più basse della società. Il termine che Kitzinger applica
a questo strato è sub-antico. In un certo senso il sub-antico è l'equivalente di quella che
Bianchi Bandinelli chiama arte popolare, ma nel dargli una designazione con una valenza
spaziale distinta, Kitzinger ci ha spinto a vederla come sotto la curva, in una sorta di
mondo amorfo che non è soggetto al processo di organizzazione, chiarimento e
strutturazione imposti dai poteri della storia.
Il punto è che, per Kitzinger, il sub-antico è senza forma, senza storia, a-storico, e
quindi senza cambiamenti. La sua sola importanza per lo storico si trova in quei momenti,
come per l'Arco di Costantino, in cui si stacca violentemente dal suo contesto ed entra
nella tradizione. Ciò di conseguenza suscita un problema importante. Tenendo conto del
fatto che la grande maggioranza della popolazione dell'Impero nella tarda antichità non
era di rango alto, la diffusione dello stile cosiddetto sub-antico deve essere stata molto
più diffusa rispetto agli stili d’elite su cui Kitzinger si è concentrato. Perciò ignorare il
sub-antico in questo ambito, significa escludere una gamma molto ampia della cultura
visiva della tarda antichità. Addirittura, pone in dubbio la validità di tutto il discorso.
Come si può dichiarare di scrivere le "linee principali" dello sviluppo stilistico nell’arte
tardo- antica, quando la preponderanza della cultura visiva ne è semplicemente esclusa?
I punti che vorrei concludere sono questi: la costruzione di uno sviluppo stilistico non è
un processo semplice e diretto; esso comporta l'inclusione di un certo aspetto, ma forse
ancora più importante, l'esclusione dal discorso di un altro aspetto, cioè, al di fuori
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dell’analisi di Kitzinger, vorrei suggerire che l'inclusione è concepita come un fenomeno
temporale - vale a dire una cronologia - ma che l'esclusione è concepita come un
fenomeno spaziale - in altre parole, che lo spazio è il problema con la nostra costruzione
dello sviluppo storico dello stile. Per la presente discussione e dibattito, vorrei proporre la
seguente formulazione: non abbiamo ancora il quadro concettuale per comprendere ciò
che chiamerei "eventi spaziali" nelle nostre formulazioni di stile.
L'elemento degli spolia è l’"evento spaziale" per eccellenza, io lo chiamerei il
distruttore dello spazio per eccellenza. Gli spolia vengono trasferiti forzatamente da un
contesto territoriale ad un altro. C’è una storia degli spolia, come alcuni recenti lavori nel
campo sembrerebbe implicare. Ancora più importante: si può parlare di stile e cronologia
degli spolia? L'utilizzo di spolia era molto diffuso nel Medioevo, a cominciare, in larga
misura con il periodo dell’Arco di Costantino, un tema questo troppo grande da discutere
in un breve seminario. Pertanto vorrei limitarmi a dei casi – due in realtà - che sono
legati, nel senso che coinvolgono lo stesso materiale, il porfido, considerato uno tra i più
pregiati doni che l'antichità ha tramandato al periodo post-classico, e da cui, credo, si può
ampliare un certo discorso. La semplice nozione "Arco di Costantino" in questa sala
richiama immediatamente una serie di immagini, fatti e interpretazioni, ma forse
soprattutto tutta la costellazione di ri-utilizzi di rilievi imperiali precedenti e di altri
marmi profondamente carichi di significati retorici. La retorica opera su un piano
intellettuale, e nulla potrebbe essere più lontano di essa dal significato di un materiale che
vorrei ora presentare. Offro ciò che segue molto nello spirito di ipotesi, come una serie di
proposte da discutere e domande aperte.
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Il porfido
Una delle imprese più rilevanti della spedizione francese in Egitto sotto
Napoleone nel tardo Settecento (1798-1801) è stata la ricerca della fonte del porfido - la
pietra color viola radiante ricercata per secoli dai costruttori e scultori d'Europa.
L'ubicazione della cava di questa pietra - Porphyrites Mons o Mons Porphyreticus - era
ben nota nell'antichità, come testimonia Plinio il Vecchio, Naturalis Historia XXXVI.57:
"Anche in Egitto vi è porfido rosso, di cui una varietà screziata di punti bianchi è nota
come 'leptosephos'. Le cave offrono masse da tagliare di qualsiasi dimensione". Ma a un
certo punto nella Tarda Antichità la produzione alla cava si estinse e perfino la
conoscenza del sito scomparve, in modo che l'unico inventario disponibile per nuovi usi
era il porfido già estratto, o che comunque era stato accumulato in magazzini in passato.
Gli scienziati di Napoleone non ebbero successo, tuttavia, e fu solo nel 1823 con gli
esploratori inglesi John Gardner Wilkinson e James Burton che il sito fu riscoperto nel
massiccio del Gebel Dokhan, nella zona desolata del deserto orientale.
Fossero vissuti secoli prima, gli uomini di Napoleone sarebbero riusciti a trovare
il porfido molto più facilmente direttamente a Roma. L’onnipotente e vorace capitale
dell’antico impero romano era un’avida consumatrice di pietre dure egiziane, il granito -
rosso e rosa, grigio e bianco - che veniva trasformato nelle belle colonne che
sorreggevano i tetti di magnifici edifici; il basalto, che veniva scolpito in seducenti
immagini delle divinità, ma soprattutto il porfido, che veniva usato per tutti gli scopi –
per colonne, vasi, figure umane - specie se aveva a che fare con l'imperatore o gli
apparteneva. Viola era il colore imperiale e la pietra lo rendeva permanente come nessun
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altro materiale.
Roma medievale era disseminata di resti monumentali di queste imprese,
diventando così un grande deposito che poteva essere sfruttato da un papa che voleva
ingraziarsi un principe potente o che semplicemente poteva rivenderlo per bilanciare la
situazione patrimoniale delle finanze ecclesiastiche. Colonne di porfido erano ricercate
per cappelle e chiese e, affettate a dischi, potevano essere riutilizzate per un pavimento di
effetti straordinari. Oppure una lastra di porfido poteva diventare una superficie brillante
per un altare e un vaso di porfido poteva diventare un vaso liturgico di scintillante
bellezza. Secondo A. A. Vasiliev, il porfido per la nuova basilica Santa Sofia di
Giustiniano, venne trasportato da Roma. Anna Comnena discusse i porfidi, la sala parto
del palazzo imperiale di Costantinopoli, le cui pareti erano rivestite di porfido, che non
era, usando le sue parole, "un marmo ordinario...ma non come una delle molte speci che
sono costose seppur non rare, ma come un genere molto ricercato già dai imperatori a
Roma dei tempi antichi.” È stato molto probabilmente a Roma, che i sovrani normanni di
Sicilia nel XII secolo trovarono i pezzi enormi di porfido, di cui avevano bisogno per
decorare le loro tombe. Il porfido usato per i sarcofagi imperiali dei Santi Apostoli a
Costantinopoli, probabilmente non proveniva da Roma, ma rafforza comunque un tema
antico romano. Si richiamava alla pratica di imperatori come Adriano, il cui sarcofago di
porfido fu poi rimosso dal suo mausoleo nel XII secolo da papa Innocenzo II, per la
propria tomba.
Anche se, per quanto sappia, nessun movente è stato enunciato per la ricerca della
fonte del porfido della missione Napoleonica, non vi può essere dubbio che la
spiegazione è intuibile. Il porfido aveva la capacità di evocare il tema dell'antichità come
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nessun altro materiale poteva, salvo forse il marmo e bronzo, ma in più aveva quel
collegamento potente con la carica imperiale, assumendone così in un certo senso
l’autorità. Non sorprende quindi che Napoleone sia stato sepolto in una tomba di porfido.
La riscoperta della fonte dunque avrebbe provocato un nuovo flusso di porfido in un
mondo che stava prendendo forma intorno all’immagine imperiale del sovrano e alle sue
ambizioni, e per le quali avrebbe fornito un sostegno notevole.
Ma nel Medio Evo, a fianco di queste connotazioni che la pietra chiaramente
possedeva, vi è l'indicazione di una valenza diversa, che sembra esistere a prescindere
dalla retorica ufficiale. Questa non si trova dove ci se lo potrebbe aspettare, cioè nelle
interpretazioni dei significati delle pietre, di solito ben codificate nei lapidari medievali.
Questi testi risalgono in un modo o nell'altro alla letteratura antica, come la Historia
naturalis di Plinio, già citata, dove i materiali naturali come le pietre, sono catalogati con
una discussione delle loro diverse proprietà, significati e simbolismo. La tradizione
continua nel De gemmis di Epifanio di Salamina, le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, il
De mineralibus di Alberto Magno, e lapidari medievali. Ma il porfido non figura in
maniera così prominente in queste opere.
Ciò appare ben al di sotto di questo livello di discorso intellettuale. Un esempio è
la storia citata da Josef Deér sullo spagnolo Abu Hamid al-Andalusi. Al-Andalusi si era
recato ad Alessandria all’inizio del XII secolo e descrisse la sala di ricevimento di un
vecchio edificio, che lui chiamò la Sala di Salomone, i cui pilastri erano fatti di "marmo
rosso tinto con colori di ogni specie". Deér, senza dubbio correttamente, considerò che
questo materiale fosse porfido. Ma, come al-Andalusi continua a riferire, questa
particolare pietra non era stata estratta e plasmata da mani umane, ma era stata messa a
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disposizione degli uomini da uno spirito (genio o jiinni) che "l’aveva lasciato sulle rive
del Nilo sul confine della terra d'Egitto". Invocando il concetto di fabbricazione umana, o
la sua mancanza, il testo richiama immediatamente alla mente l’acheiropoieton, o
immagine sacra o "non di fattura umana", esemplificata dal Mandylion di Edessa, che era
stato trasportato a Costantinopoli, o il velo di Veronica, che aveva raggiunto Roma.
Queste immagini sono state ritenute impronte miracolose del volto di Cristo e, come tali,
estremamente importanti manifestazioni materiali di Dio. Il porfido di Alessandria,
almeno nell’opinione di al-Andalusi, era allo stesso modo di una natura ultraterrena.
Trascendeva le limitate prerogative del simbolismo politico trasferendosi nella
dimensione dello spirito. Insomma, era miracoloso.
Ho il sospetto che questa sfera di significati, in un modo o nell'altro, si stendeva
ben oltre i limiti del testo di al-Andalusi, cosa che si può percepire anche in documenti
come l'enigmatico e magico Parastaseis syntomoi chronikai ("Brevi note storiche"), che è
una descrizione delle statue di Costantinopoli compilata nel VII secolo, in cui il porfido è
menzionato solo brevemente. Ma questo è un contesto fragile ed è difficile capirne il
significato, ma come potrebbe essere altrimenti? Esso è composto da atteggiamenti e
modi di pensare che sono stati fin troppo pronti a scivolare sotto i discorsi formali di
politica e religione, e quando vengono a galla sotto forma di aneddoti nella letteratura,
come fanno nel racconto di viaggio di al-Andalusi, non possiamo fare altro che definirli
come frutto delle superstizioni popolari. Così facendo, tuttavia, abbiamo rischiato di
troncare una dimensione importante della cultura medievale. La storia di al-Andalusi
suggerisce che il porfido potesse avere un significato più profondo che la semplice
connotazione imperiale. Vorrei perseguire questo discorso su questa linea, presentando
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varie circostanze e ipotesi che riguardano un paio di oggetti. Io non ho intenzione di
avvalermi di aneddoti dell’ordine di al-Andalusi, che comunque non sono stato in grado
di trovare. Vorrei fare un tentativo diverso. Vorrei proporre che l'oggetto offre una chiara
indicazione di ciò che esso significa nella complessa rete di relazioni fisiche in cui è
inserito in un dato momento. Quelli che ho intenzione di elucidare, quindi, sono in realtà
solo due momenti, due micro-storie, per così dire, che sono certamente solo una parte, un
capitolo della storia più grande di questi singoli oggetti, una storia che continua fino ai
nostri giorni.
I Tetrarchi di San Marco
Il mio primo caso è uno degli oggetti più famosi di tutto il Mediterraneo. In
mostra al pubblico, ben fissate all’aperto in un angolo della parte esterna della Sala del
Tesoro, e visibili da gran parte della piazza, vicino alla chiesa si erigono quattro figure di
governanti romani, due coppie di due, comunemente noti come i Tetrarchi di San Marco.
Queste statue sono così conosciute dagli storici dell'arte, studiosi e studenti, come parte
del nostro mondo di studi del Mediterraneo e di Venezia che sembra quasi perverso
cercare di porre in dubbio la loro identità, ritenuta così auto-evidente. Ma c'è un punto
che vorrei discutere, e cioè la possibilità di comprendere il significato di queste statue nel
XIII secolo.
Paolo Verzone ha avanzato la convincente ipotesi che i Tetrarchi originariamente
fossero eretti nella grande piazza pubblica del Philadelphion a Costantinopoli. Anche se
questa identificazione topografica è stata contestata, non vi può essere alcun dubbio che
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le statue provenissero da questa città, come dimostrato dal ritrovamento, a Istanbul, di un
frammento del piede di una delle figure in uno scavo turco-tedesco nel 1965 (anche se è
possibile, come è stato sostenuto, che fossero state fatte originariamente per la capitale di
Diocleziano, Nicomedia, e da lì fossero state trasportate successivamente a
Costantinopoli). Le superfici curve del retro delle statue - oggi in gran parte danneggiate
- indicano che le statue erano applicate a delle colonne, come il gruppo analogo di
Tetrarchi ora custodito nei Musei Vaticani. I Tetrarchi rimasero a Costantinopoli fino al
tempo del sacco ad opera dei veneziani nel 1204, quando furono rimossi e trasportati, per
essere poi montati sulla facciata di San Marco.
Che le figure rappresentassero i tetrarchi è fuori dubbio. La tetrarchia fu fondata
dall'imperatore Diocleziano, che divise l'impero in due, ciascuno governato da un
reggente (Augusto), e accompagnato da un vice-reggente (Cesare), che dovevano
governare l'impero come un’unità. Nei due gruppi di porfido, le figure, senior e junior, si
abbracciano, ma ancor più, sono virtualmente identici nella loro forma e aspetto, cosa che
è stata interpretata come espressione estrema e completa della loro reciproca solidarietà.
Inoltre vanno notati dei tratti come il cappello a forma cilindrica che le statue portano, il
cosiddetto pannonicus pilleus, o lo stile stesso delle figure, che è stato studiato a fondo
altrove.
Ma come erano viste queste statue nel momento in cui furono installate a San
Marco? O forse più precisamente cosa aiutava ad identificare questa statue nel XIII
secolo? Non è così facile rispondere a questa domanda. Anche se concettualmente la
nozione dei Tetrarchi appare chiara, difficilmente questo concetto era conosciuto per
trasmissione scritta nei secoli. È poco probabile che le statue fossero pervenute con
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iscrizioni, nè pare ne avessero quando erano a Costantinopoli. Viene fatta menzione nel
Parastaseis di un monumento nel Philadelphion di Constantinopoli con statue di Elena,
Costantino e i suoi figli (il materiale non e` specificato), nonché di una statua a tre teste di
porfido dei figli di Costantino, forse situata nel Foro di Costantinopoli. Ma ci sono forti
dubbi sulla rilevanza di questi dati riguardo i Tetrarchi di San Marco, nella pubblicazione
scientifica di questo testo. Un altro studio ha offerto una rassegna delle varie
identificazioni delle figure presentate da diversi autori dal XVI and XIX secolo, quali
commercianti o assassini, come fratelli, o come Mori - anche se non vi è alcuna prova che
queste interpretazioni risalissero al Medioevo o rappresentassero il consenso generale in
qualche momento particolare.
In mancanza di testimonianze dirette, sotto forma di iscrizioni che
accompagnassero le figure o un riferimento ad esse che aiuti identificarli, altri fattori
devono essere usati per identificare il loro ruolo. Tali fattori includono le loro pose, gli
abiti e accessori, oltre al fatto che sono raggruppati in gruppi di due. Ma anche i dati
visivi sembrano altrettanto problematici su questo punto. Anche potendo supporre la
capacità nel XIII secolo di identificare il titolare di una carica imperiale sulla base di fonti
contemporanee o quasi, come immagini e descrizioni verbali, la veste più caratteristica e
di consuetudine dell'imperatore non era l’abito militare, ma il loros e la corona, che
queste statue non indossano. C'è anche la questione del raddoppio delle figure, così come
l'atto del loro abbraccio. Entrambe queste caratteristiche, infatti, sono state attribuite a
una tradizione visiva che ha riunito le vite dei santi Pietro e Paolo in una scena del loro
incontro, la cosiddetta Fratrum Concordia. C’è una serie di immagini che mostrano
Pietro e Paolo abbracciati in un modo simile ai Tetrarchi, ma questa tradizione non
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poteva essere servita come un indicatore di livello a posteriori per interpretare le figure di
porfido, le cui armi e armature non confermano ma anzi contraddicano il carattere
pacifico del soggetto sacro.
È qui, tuttavia, che il contesto attuale ci può aiutare, a partire dal contesto fisico
reale delle figure che è degno di nota sotto diversi aspetti. Prima di tutto, qualunque parte
di supporto colonnare fosse rimasta dopo che le statue giunsero a Venezia, certamente è
stata rimossa in modo evidente allo scopo di preservare le statue soltanto, seppur nella
loro configurazione originale di due gruppi di due. Le figure poi sono state accuratamente
incastonate nella facciata, non, però su una superficie piana, ma su un angolo. Questa di
per sé è una posizione insolita per la quale non conosco confronti. Inoltre, le figure erano
chiaramente impostate in modo che si affacciassero in due direzioni allo stesso tempo, in
avanti e poi ad angolo retto verso destra. Ancora una volta, un posizionamento
inconsueto.
Spostando l'attenzione verso la facciata occidentale della chiesa nel suo
complesso, il raddoppio e di nuovo raddoppio delle cifre - i due insiemi di due -
assumono un nuovo significato, quasi come un principio nei confronti di un altro gruppo
di sculture trovate nei pennacchi delle arcate della facciata ovest. Qui sono presenti sei
figure, tre per parte - tutti scolpiti in rilievo - e anch’esse formano coppie sull'intera
facciata della chiesa: il gruppo più interno, a fianco del portale principale, mostra due
santi militari, Giorgio (a sinistra) e Demetrio (a destra ), i due successivi mostrano la
Vergine (a sinistra) e Gabriele (a destra), e gli ultimi due sono Ercole, impegnato nelle
sue Fatiche - a sinistra, con il cinghiale di Erimanto e sulla destra, con la cerva di Cerinea
e l’Idra di Lerna. Secondo Demus almeno due di questi pezzi erano importazioni
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straniere, forse da Bisanzio (Ercole e il cinghiale Erimanto e San Demetrio, quest'ultimo
chiamato da Demus bottino di Costantinopoli), mentre gli altri quattro furono scolpiti da
artisti veneziani. Queste coppie devono essere state create come gruppi di due, con i
rilievi occidentali creati apposta per complementare i loro omologhi stranieri.
Demus, chiaramente in maniera corretta, li ha intesi come apotropaia. I gruppi
furono installati in corrispondenza agli androni che si affiancano come elementi
decorativi che abbracciavano o proteggevano lo spazio intorno a loro, lo spazio critico di
passaggio per entrare in chiesa. Quindi queste immagini sono molto significative: i santi
soldati ed Ercole, come manifestazioni ben chiare di potenza spirituale e terrena,
rappresentano la potente minaccia di ritorsione per chi commette il male; la Vergine e
Gabriele, figure dell'Annunciazione, rappresentano l’incarnazione e la salvezza. Queste
figure rappresentavano esclusivi poteri fisici e spirituali che venivano raccolti proprio per
proteggere la Chiesa al punto cruciale di congiunzione tra il mondo sacro e il mondo
profano.
Si potrebbe ragionevolmente supporre che le figure in porfido funzionassero allo
stesso modo, dato il loro raddoppio e la collocazione in un angolo critico dell’edificio,
come a custodire/controllare i due lati dell’edificio come ha osservato Guido Tigler. E'
importante capire che questo angolo, proiettando leggermente in fuori rispetto al corpo
principale della chiesa, corrisponde all’interno alla Sala del Tesoro di San Marco, che
andava particolarmente ben protetta. Il che ci porta finalmente a considerare la natura di
queste stesse figure: è concepibile che alla figura di un imperatore - un sovrano straniero
non di meno - avrebbe potuto essere assegnato tale ruolo?
Non credo, e nel portare questa linea di pensiero a conclusione vorrei offrire un
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quadro totalmente diverso per l'identificazione di queste figure nel XIII secolo: quello del
soldato santo bizantino. Nel mondo cristiano tardo- medievale ci sono stati molti soldati
santi: oltre a Demetrio e Giorgio, già blasonati sulla facciata ovest di San Marco, c’erano
per esempio Sergio e Bacco e i due Teodori - il Generale e il Soldato - così come
Procopio e Mercurio, resi celebri dalla grande diffusione di immagini e culti in loro
nome, per non parlare dei meno noti Eustazio, Mena, Niceta e così via. Anche se, per
quanto ne sappia, nessuno tra questi è mai stato raffigurato con un copricapo
paragonabile nella forma al pannonicus pilleus, come le figure di porfido, essi erano
comunque spesso equipaggiati con corazza e clamide, e con la mano sulla spada, pronti a
sguainarla dal fodero per affrontare il nemico. Ci sono anche dei dettagli interessanti da
osservare. Ad esempio, Manuele Philes descrive Giorgio come un "uomo irrequieto in
armi, coraggioso contro i nemici, con il volto colorito" (bel tono), riprendendo l’elemento
del rossore alle guance come un segno di vigore giovanile. Esito a collegare direttamente
l’elemento del colore al complesso delle figure veneziane, dal momento che sembra
essere stato impiegato solo per quanto riguarda la carnagione. Ma Henry Maguire ha
ipotizzato che questo stesso concetto di robustezza fisica del santo soldato rende questa
figura più ideale per la scultura rispetto ad altri tipi di santi. Forse i punti più significativi
sono questi: che i santi soldati bizantini a volte sono rappresentati in coppia, ed in effetti
era abbastanza comune vederli giustapposti in questo modo, come sul trittico in avorio
del X secolo al Louvre e al Vaticano, e che potrebbero anche essere collegati per il loro
gesto. John Boswell ha citato immagini dei due Teodori abbracciati, anche se l'unico
esempio a me noto è un’opera del XIX secolo. Più rilevante è la pittura murale del XIV
secolo nel monastero di Zrze in Macedonia, dove i due Teodori si prendono le mani, un
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gesto di solidarietà equivalente a quella di un abbraccio.
I santi soldati sono stati spesso invocati per il loro ruolo protettivo. In uno studio
suggestivo e di ampio respiro, Ernst Kantorowicz ha ricostruito l’eco culturale del santo
militare bizantino, collegando l’iconografia dei trittici bizantini del X secolo al Louvre (il
trittico Harbaville) e al Vaticano, che contengono rappresentazioni di santi soldati, con
versi delle Laudes regiae, che venivano recitati largamente in Occidente. Demus ha
paragonato la coppia veneziana di Demetrio e Giorgio ai gemelli celesti, i Dioscuri,
figure mitologiche note sia ai Veneziani che ai Bizantini. A sostegno della sua
interpretazione apotropaica dei rilievi, Demus cita Manuele Philes che discute un'icona di
San Giorgio - "Sul grande Giorgio seduto nella sua armatura di fronte alla città, con la
spada sguainata per metà" - in cui il poeta dichiara Giorgio protettore contro "il nemico
delle nostre anime". Anche Kantorowicz ha delineato il ruolo dei santi militari orientali
come protettori degli eserciti occidentali, e Monica White recentemente ha esteso questa
analisi ai principi di Suzdal, sottolineando l'importanza delle radici bizantine del culto dei
generali-martiri, i martyroi hoi stratelatoi ("in particolare Giorgio, Demetrio, Teodoro
Teron, e Teodoro Stratelates"), a partire dal X secolo.
Con queste circostanze, per quanto così diverse, si arriva comunque alle due
ipotesi con cui questa breve incursione si concluderà e che vorrei esporre per la nostra
discussione, vale a dire che le immagini di coppie di santi militari bizantini ha costituito
un quadro di riferimento per la comprensione dei Tetrarchi nel XIII secolo - anche se per
quanto riguarda la loro identificazione precisa, la questione deve rimanere aperta - e
quindi possono essere stati interpretati come tali dai veneziani.
Queste ipotesi, a loro volta, possono aiutarci a comprendere sia il furto delle
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statue da Costantinopoli e la loro collocazione in un angolo della Sala del Tesoro sulla
facciata di San Marco. Il potere apotropaico di queste figure aiuta a spiegare perché i
conquistatori di Costantinopoli nel 1204 avrebbe voluto rimuoverli dalla città: proprio per
privare tale antico ordinamento politico di un potere sacro che ne aveva garantito la
protezione. Niceta Coniata spiega in dettaglio come i conquistatori fossero alla ricerca
proprio di quei monumenti della città che si credeva avessero questo potere apotropaico,
a partire dalle mura della città (Annali, 643):
"I latini decisero di rovesciare i famosi antichi palladia della città, posti lungo le mura e i
fossati per tenere a distanza il nemico che si era schierato in falangi e aveva attaccato la
città. Tra le statue che raffiguravano figure umane e fatte in bronzo, che erano state
precedentemente rimosse dal loro piedistallo e gettate alle fiamme, esaminarono
attentamente lo zoccolo sinistro anteriore di un cavallo di bronzo che era eretto sulla base
quadrangolare di marmo bianco nel Foro del Toro; sulla schiena portava un eroe di
grande forza. Il cavallo non era di meno come meraviglia di perfezione artistica. Alcuni
sostenevano che il cavallo fosse Pegaso montato da Bellerofonte, altri sostenevano che
fosse Giosuè, figlio di Nave (Nun), montato a cavallo, e che questo era evidente dalla
composizione della figura che stendeva la mano destra in direzione del carro del sole e
sul corso della luna in processione e teneva un globo di bronzo nel palmo della mano
sinistra. Girando la base degli zoccoli del cavallo con martelli, vi trovarono sotto
l'immagine di un uomo trafitto con un chiodo e interamente coperto di piombo, che la
maggioranza speculò fosse della razza bulgara o rappresentasse un latino, come era stato
detto in precedenza. Anche questo fu usato nella fornace per l’argento. I Latini non fecero
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queste cose per vigliaccheria, come uno che li disprezza potrebbe pensare, ma prendendo
in considerazione ogni possibilità scatamantica che li aiutasse ad evitare di essere rimossi
dalla città che avevano conquistato, decisero di prendere sul serio anche tra le storie più
ingenue che spesso non si rivelavano infondate.”
D’altra parte l'installazione dei santi soldati (Tetrarchi) sulla facciata di San
Marco poteva garantire il potere apotropaico di protezione della chiesa e della città di
Venezia stessa.
Il Vaso Suger
Il mio secondo caso è forse altrettanto noto, il vaso aquila oggi al Louvre. Fu
creato da un anonimo artigiano utilizzando un antico vaso di porfido cui furono applicate
delle montature di bronzo dorato, che rappresentano la testa, le ali, e le zampe d'aquila.
Le circostanze della sua produzione sono ben noti: il suo patrono era l’Abate Suger di S.
Denis, che restaurò l'antica abbazia fuori Parigi, dove sono stati sepolti vari re di Francia.
Suger non solo parlò nei suoi scritti della ricostruzione della chiesa abbaziale, ma anche
raccolse attorno a sè una serie di oggetti e utensili religiosi - vasi liturgici, reliquiari e
altri tipi di ornamenti per la chiesa e l'altare - tanto che questi costituirono un vero
ensemble. Questi oggetti andarono poi dispersi, soprattutto a causa della Rivoluzione
Francese, ma non prima che fossero documentati in alcune serie di disegni e stampe,
come le cinque rappresentazioni del catalogo del Tesoro pubblicato da Michel Félibien
nel 1706. Non credo che sarebbe inesatto dire che l'esistenza stessa di queste fonti,
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verbale da un lato e visiva dall'altro, ha condizionato la nostra comprensione del vaso
aquila, con l'accento decisamente sull’aspetto verbale. A mio parere, tuttavia, dovremmo
completamente invertire quest’ordine.
Cosa dice Suger del vaso (De administratione)? "A servizio dell’altare abbiamo
adattato, con l'aiuto di materiale d'oro e d'argento, un vaso di porfido, reso ammirevole
dalla mano dello scultore e lucidatore, dopo che esso era rimasto custodito senza scopo
in una cassa per molti anni. Trasformando il vaso in un'aquila, abbiamo anche iscritto i
seguenti versi sul vaso: 'La pietra merita di essere racchiusa in gemme e oro. Era marmo,
ma così montato, è ancor più prezioso del marmo'. L'ultima frase in particolare, "più
prezioso del marmo", ha permesso agli studiosi, almeno implicitamente, di interpretare il
vaso aquila nell’ambito della corrente del pensiero neo-platonico che derivava da Dionigi
Pseudo-Areopagita che pare abbia influenzato tutto il lavoro di Suger di S. Denis, basato
sul concetto che lo splendore materiale si riscatta in quanto spinge l'uomo verso Dio.
Questa posizione era rafforzata nelle parole che lo stesso Suger fece iscrivere sulle porte
di bronzo d’entrata della chiesa di S. Denis (De administratione), "Il lavoro nobile è
luminoso, ma, in quanto tale, il lavoro / dovrebbe illuminare le menti, in modo che
possano viaggiare, attraverso le luci vere, / alla vera luce, dove Cristo è la vera porta".
Nell’ambito degli studiosi perciò il vaso aquila occupa un posto elevato.
Ma veniamo alla questione da un altro punto di vista: e cioè da quella rete di
rapporti tra oggetti commissionati da Suger insieme al vaso aquila in un ordine così
perfetto che –oserei dire – si rispecchia nel catalogo stampato di Félibien. Alcuni di
questi oggetti erano calici, come quello ora alla National Gallery of Art di Washington.
Come il vaso aquila, anche questo calice è un oggetto costruito utilizzando un vaso
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antico, una tazza di pietra sardonica scanalata, a cui sono stati aggiunti una base ed un
bordo d’oro. Ma a differenza del vaso aquila, che è unico nel suo genere, il calice
appartiene ad un gruppo più ampio, all'interno del quale il suo carattere specifico emerge
forse con maggior rilevanza. Il gruppo è composto da una serie di calici bizantini di
provenienze diverse, ma grosso modo dello stesso periodo, che comprendono anche tazze
antiche o ciotole lavorate in pietre semi-preziose, tra cui anche la pietra sardonica e la
calcedonia. È interessante notare in questo campionario piuttosto casuale di oggetti che i
fattori in comune sono l’uso di un vaso di pietra (a volte antico) e scelte determinate di
colore. In tutti questi casi – per lo meno quelli da me conosciuti - il materiale antico usato
per la coppa ha un fondo di colore rosso, o forse più precisamente un bruno-rossastro, a
volte striato o a tinta unita. A mio parere questo non poteva essere che il risultato di una
scelta consapevole, poichè coppe in altri colori devono essere esistite almeno a qualche
punto, e non fatte per una singola commissione, ma per richiesta di individui diversi.
Vorrei anche fare un chiarimento stilistico importante: i primi calici medievali erano
completamente diversi. Erano fatti con materiali preziosi come l'argento, e di una
materiale unico, cioè non incorporavano mai elementi estranei, come ad esempio vasi
antichi. Quest’ultimo è un aspetto importante di questo gruppo, che è fondamentalmente
caratteristico del Medioevo, e torneremo su questo punto.
Nella collezione Suger c'è un altro gruppo di oggetti, più grandi e un pò più
svariati nei singoli elementi, che importa notare prima di tornare al vaso aquila, perché ci
permettono di analizzare il concetto del materiale ulteriormente. Suger era anche un
appassionato collezionista di cristallo di rocca, un materiale molto prezioso in
circolazione nel Medioevo in diplomazia e per scambio di doni, e gli oggetti che egli ha
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acquisito, tra cui uno proveniente da Ruggero II di Sicilia – erano tipicamente allungati in
verticale. Erano tutti poi dotati di montature per farne bottiglie, caraffe o brocche. Come
il calice, questi erano anche chiaramente strumenti liturgici, usati per il rito, sia presso
l'altare che in altre funzioni ecclesiastiche quali il fonte battesimale. Qui risiede una
connessione potenzialmente critica. Da un lato, è indubbio che questi contenitori fossero
destinati a contenere liquidi e vi è un liquido, soprattutto, che si propone subito, e
chiaramente: l'acqua. L'acqua ha svolto un ruolo importante non solo nella celebrazione
dell'Eucarestia, in cui viene mescolata con il vino, ma praticamente in tutte le altre
liturgie sacramentali e in molti altri tipi di rituali sacri. Il lavaggio delle mani, per
esempio, era una caratteristica comune a molte di queste liturgie. Così è interessante
osservare, d'altra parte, che il Medioevo comunemente credeva che il cristallo di rocca
fosse acqua - congelata e miracolosamente conservata permanentemente nella sua forma,
come una manifestazione perfetta e incorruttibile della sostanza. Plinio dichiara questo in
modo succinto, e il suo testo fu spesso riproposto in testi medievali (Historia naturalis
XXXVII.viii.23): "Una causa contraria a quella menzionata è responsabile per la
creazione di cristallo di rocca, poichè questo è indurito da un gelo eccessivamente
intenso. In ogni caso, si trova solo in luoghi dove le nevi invernali si congelano più
intensamente, e che si tratti di un tipo di ghiaccio è cosa certa: i greci lo hanno chiamato
tale di conseguenza". Vorrei suggerire che molto probabilmente la connessione tra il
cristallo di rocca e l’acqua qui non è casuale, ma intenzionale, e che lo scopo era visivo e
protettivo allo stesso tempo. La funzione visiva è realizzata nel senso che l'oggetto
contenitore stesso veniva identificato con il sacro contenuto che il contenitore era stato
creato per contenere; i due divennero uno per così dire, e potrebbero essere visti come
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uno, simbolo per simbolo. La funzione protettiva deriva dal fatto che il cristallo di rocca,
come un incapsulamento dei contenuti santi in una forma perfetta e incorruttibile, li
conserva da misture e impurità, e quindi serviva come garante della loro efficacia.
Come il cristallo di rocca fosse per l'acqua, mi pare così i toni rossi della pietra
sardonica e calcedonia possano essere stati messi in corrispondenza con il vino. Ma non
solo vino, dato che la sostanza nel calice non rimaneva vino puro e semplice, mentre
l'acqua rimaneva immutata in tutti i suoi usi. Il vino diventava il sangue di Cristo. Il
calice, quindi, diventava l'incarnazione fisica di una miracolosa trasformazione - la
transustanziazione. A differenza dei precedenti calici fatti in argento, dunque, il miracolo
del sangue veniva messo in risalto, per così dire, nella forma stessa dell'oggetto, che
materialmente lo visualizzava e rappresentava. In effetti, è proprio in questi termini che
le pietre sarde, la corniola e le varie pietre sardoniche venivano spesso legate a questi
riferimenti dai commentatori medioevali. Per citare un solo esempio, Beda, nel
commentario all'Apocalisse: "il sardonico, che è il colore del sangue, indica la gloria del
martirio." Miracolo a miracolo.
Da qui ci vuole poco, infine, per chiarire le circostanze del vaso aquila. In primo
luogo il materiale, la pietra viola scuro, che nel colore corrisponde direttamente alle
proprietà di vino/sangue, e in effetti li rappresenta meglio che qualunque altro elemento
naturale. (per esempio, Ambrogio Autperto nel suo commentario all'Apocalisse, "vero
viola risplende come sangue.") La forma del vaso è un fiasco, come le brocche di
cristallo di rocca, perché la testa dell’aquila era fissata con un perno. La bottiglia di
porfido poteva contenere qualcosa, un liquido, e il liquido poteva versato dal vaso
girando sul perno la testa dell'aquila. E, infine, l'immagine stessa.
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L'aquila era naturalmente il simbolo dell'evangelista Giovanni, ma rappresentava
anche la figura di Cristo, come in questa spilla d’avorio del XII secolo a Firenze. Con
l’aura a forma di croce e attorniata dai quattro evangelisti, l'aquila non è altro che Cristo,
Cristo, addirittura trionfante, come Jeffrey Hamburger sottolinea, rafforzato dalla
presenza dell'agnello sul verso della spilla, che è l'immagine di Cristo come vittima
sacrificale. Il tema del sacrificio emerge più chiaramente in un'altra immagine dell'aquila,
tuttavia, su un folio datato intorno al 1400 circa che fu aggiunto ad un salterio del
tredicesimo secolo, in cui l'aquila è affiancata ad un calice. Hamburger interpreta questa
immagine come San Giovanni Evangelista in veste di Cristo, il logos. Il vaso aquila di
Suger può essere inteso come una immagine di Cristo nel punto di intersezione di questi
due momenti, il sacrificio e il trionfo. Così si può identificare lo scopo del vaso aquila. Fu
utilizzato come bottiglia che conservava il vino che veniva versato nel calice con l'acqua
il momento prima della benedizione.
Conclusione
Quali conclusioni permettono le osservazioni presentate? Ovviamente abbiamo
discusso soltanto un filo dell’esteso tessuto del Medio Evo, e così tutte le ulteriori
osservazioni che potremmo fare devono tener conto dei limiti di questo quadro.
Permettetemi di portare avanti un punto che è rilevante per il problema generale di
cronologia e stile nel concludere questa breve presentazione. Quello che voglio dire, in
sostanza, è che non esiste una storia unitaria degli spolia, o spoliazioni, almeno per il
periodo medievale, né dovremmo tentare di scrivere tale storia, perché, ciò che è simile in
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superficie è di fatto diviso decisamente in almeno due parti.
Come ho accennato di sfuggita all'inizio del mio intervento, l'Arco di Costantino
costituisce un caso esemplare di riutilizzo, considerato da alcuni come l'inizio di una
tradizione, che potrebbe utilmente essere pensato in termini di retorica. Lungo le linee
delle argomentazioni esposte da Paolo Liverani, per esempio, si potrebbe suggerire che i
rilievi più antichi applicati all'Arco rappresentavano le virtù imperiali, come queste stesse
venivano recitate in quel periodo con enfasi nei discorsi in lode dell'imperatore, o
panegirici, virtù quali la pietà, generosità, il valore in battaglia e così via. Così, si
potrebbe dire che gli spolia funzionavano come una forma di comunicazione politica, di
persuasione o di propaganda, vale a dire, erano messaggi che venivano concepiti per
essere assorbiti e compresi intellettualmente, e che la loro forma materiale, in un certo
senso, era quasi irrilevante per il processo di apprendimento.
Nel caso del vaso Suger, invece, la situazione era completamente invertita. Il
materiale, il porfido, che era servito come punto di partenza per la forma del vaso, è stato
fondamentale e ha portato dentro di sé, quasi come una forza vitale, ciò che il vaso
rappresenta. Affermare che il porfido simboleggiava il vino che si trasforma in sangue di
Cristo non mi pare corretto: il simbolismo è troppo semplicistico e tale relazione troppo
diretta per descrivere in modo accurato la funzione del porfido. In questo caso il
materiale non si presenta come un’immagine, con un riferimento alle sue spalle che
doveva essere compreso attraverso dei processi mentali, intellettualmente, ma come
personificazione, il vino / sangue, congelato in pietra, esternalizzato e perfezionato, e
concepito per essere compreso in modo fisico e viscerale, da chi lo vede e ne fa uso.
Questa è una modalità che non appartiene al periodo tardo-antico in origine, bensì a
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quello medievale.
A mio avviso, anche le figure dei Tetrarchi sono saldamente inserite nelle
predisposizioni medievali e modi di pensare, come esse furono comprese e utilizzate nel
XIII secolo, sulla facciata di San Marco a Venezia. Queste figure furono asportate da
Costantinopoli dai veneziani vittoriosi dopo il 1204 perché erano ritenute le figure di
santi guerrieri, come appaiono nei pannelli che ora decorano la facciata dell'atrio della
chiesa. Siccome venivano visti come dotati di poteri protettivi nella capitale bizantina,
dovevano ora trasferire le loro qualità a protezione di Venezia. Il loro uso era coerente
con quello di molte altre sculture saccheggiate dalla capitale bizantina e inserite nella
facciata. La loro funzione era apotropaica. Il punto è che in entrambi i casi, il vaso aquila
e i Tetrarchi, l'oggetto spolia non era un ricettacolo inerte di significato, come è stato
nella tarda antichità, ma era dotato di potere, il che significa che era fondamentalmente