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IL PASSATO IN 35 mm. - Kaiak · messa alla prova, prima della Seconda guerra mondiale, la capacità di elaborare il passato nelle forme più sottili possibili per evitare la morsa

Jun 18, 2020

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IL PASSATO IN 35 mm.

LA RAPPRESENTAZIONE CINEMATOGRAFICA DELLA STORIA

di Giuseppe Russo

« La storia, se esiste, solo il cinema può mostrarla.

Il cinema è la sola traccia, l’unico testimone... »

( Jean-Luc Godard )

Basta dare un’occhiata ad un qualsiasi buon dizionario di cinema per farsi un’idea,

anche soltanto sommaria, dell’immensa mole di film basati su spunti storici che

hanno visto la luce in poco più cento anni di cinema: verosimilmente, superano il

migliaio. I criteri, i principî, le prospettive estetiche con cui sono stati realizzati,

pensati, prodotti, sono tali da far meritare, ad un simile argomento, studî accurati

ed approfonditi, ed infatti alcuni libri dedicati a questo aspetto dell’universo

cinema esistono1. Qui dunque ci limiteremo a delineare una panoramica su una

questione vasta e articolata.

1 AA.VV., La storia al cinema. Ricostruzione del passato, interpretazione del presente, a cura di G. Miro Gori, Bulzoni, Roma 1994. Cfr. anche P. Iaccio, Cinema e storia. Percorsi, immagini, testimonianze, Liguori, Napoli 1998.

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1.

La storia come soggetto non interessò subito la cinematografia. Occorse un po’ di

tempo per rendersi conto che riprendere tristi operaie che uscivano da ancor più

tristi fabbriche o treni polverosi che giungevano in stazioni incognite, sarebbe

servito assai poco alla diffusione di questa nuova forma di spettacolo e alla

proliferazione di sale o locali destinate ad accoglierla.

Fu l’emigrazione della cinematografia in America, ad imporre un’immediata

ridefinizione di un fenomeno nato come puro divertissement in una possibile

attività economica: la nascita di Hollywood, va ricordato, è datata 1907. Accanto e

parallelamente ai primi film di finzione dell’epoca del muto, affiorò così la figura

onnipotente del produttore cinematografico (uno fra i primi nomi famosi fu un

certo Joseph P. Kennedy, padre di John Fitzgerald e amante clandestino di una

giovanissima Gloria Swanson), il quale investiva dei soldi ed intendeva trarne un

profitto. Il passaggio al livello professionale fu immediato: gli attori iniziarono ad

esigere cachet sempre più onerosi, i produttori acquistarono potere decisionale, i

registi dovettero presto imparare a fare i conti con le bizze degli uni e il dispotismo

degli altri. Esisteva una sola strada, seguendo la quale diventava possibile

soddisfare tutti: trasformare l’invenzione dei fratelli Lumière (e degli

Skladanovsky) in un’industria moderna a tutti gli effetti; un’industria dello

spettacolo, ma comunque un’industria, nella quale chi aveva idee poteva esprimerle

e chi metteva mano alla borsetta per farle esprimere poteva guadagnarci.

Il primo passo da compiere su questa strada era, allora: abbandonare del tutto

la fase pionieristica di fine Ottocento, quando al centro della macchina da presa vi

erano signore passeggianti o palloni aerostatici svolazzanti, e dare in pasto al

pubblico qualcosa che potesse piacere, insomma generare la domanda preparando

l’offerta. Le pellicole iniziarono così a diventare sempre più lunghe (30, 50, poi 60

minuti, poi più di un’ora), gli attori sempre più professionisti, i registi sempre più

cineasti. Ne derivò l’esigenza, prima inesistente, della sceneggiatura: cosa mostrare

in sessanta minuti di pellicola? che tipo di storie potevano essere raccontate ad un

pubblico non ancora preparato a restare seduto tanto tempo davanti ad uno schermo

per vederle? cosa poteva piacere alla gente ed attrarla al punto da pagare un

biglietto, ma allo stesso tempo permettendo al regista di realizzare le proprie idee?

La prima risposta fu: l’erotismo; uomini e donne che si baciano senza riserve, che

si sfiorano in vagoni di treni, che si accarezzano nascosti in un giardino. Gli uomini

affollarono le sale, ma i divieti censori in molti stati dell’Unione fioccarono

immediatamente2. Inoltre, in questo modo si lasciava fuori dalle sale il pubblico

2 Su questo argomento cfr. tra gli altri: G. Muscio, La Casa Bianca e le sette majors. Cinema e massmedia negli anni del New Deal, Il Poligrafo, Padova 1990.

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femminile, che potenzialmente rappresentava la maggioranza. Allora si cercò

qualcosa di diverso, che potesse essere allo stesso tempo valido sul piano artistico,

inattaccabile su quello morale e remunerativo dal punto di vista economico: fu così

che “l’invenzione senza futuro”, come l’aveva definita Louis Lumière, cominciò ad

occuparsi del passato.

2.

Sarebbe difficile, nonché poco rilevante, stabilire quale sia stato il primo film

storico mai realizzato. Più interessante è notare come questo nuovo terreno

cinematografico si tradusse immediatamente in un’ottima possibilità espressiva per

registi, produttori e sceneggiatori. Non a caso, la nascita del genere storico coincise

con il passaggio dal cinema dei divi (Rodolfo Valentino, Mae West, Greta Garbo)

al cinema dei registi (D.W. Griffith, S.M. Ejzenštejn, Erich von Stroheim, Raoul

Walsh), il che permise un’indiscutibile lievitazione del livello strettamente artistico

dell’opera filmica, ma congiunta alla dimensione squisitamente spettacolare, che

già allora piaceva molto al pubblico. Nascita di una nazione, forse il massimo

capolavoro di Griffith, che racconta la Guerra di Secessione e la fondazione del Ku

Klux Klan, è del 1915, e la sterminata produzione del regista inglese si svolse tutta

nel breve arco temporale compreso tra

il 1914 e il 1922.

Ma come viene trattata la storia dai

primi grandi registi del genere? In

effetti, in parte per il successo di queste

pellicole, in parte assai maggiore per il

valore che esse hanno avuto o che è

stato loro attribuito dalla tradizione,

lavori come Cabiria (1914) o

Intolerance (1916) divennero immedia-

tamente dei punti di riferimento decisivi

per intere generazioni di cineasti, ed il

modo in cui in questi film era utilizzato

il materiale storico intorno al quale

l’opera ruotava, venne presto elevato ad

autentico paradigma tecnico e stilistico.

Dal punto di vista tecnico, proprio il

suddetto The birth of a Nation inaugura

la stagione delle scelte vincenti:

alternanza di primi piani e campi panoramici, scene di massa ricolme di comparse,

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abbondanti giochi di luce e di ombre, montaggio parallelo della pellicola, etc. Sul

piano stilistico, ma strettamente connessa alle trovate di ripresa e montaggio, la

soluzione adottata da questi primi maestri (e che sostanzialmente aprì una strada

che non sarebbe stata più abbandonata) consisteva nel fare della Storia una cornice

di forte impatto visivo e di piena credibilità, all’interno della quale raccontare una

vicenda più o meno significativa, in genere inventata, ma in grado di catturare

l’attenzione più facilmente della cornice.

In altre parole, viene applicato il criterio estetico – parzialmente mutuato dal

teatro drammatico moderno, ma privo degli insormontabili limiti spaziali di questo

– dell’affresco tratteggiato tutt’attorno ad un soggetto centrale, che rappresenta

pertanto una storia nella Storia. Quanto più la cornice risulta ben dipinta e

finemente stilizzata, tanto più la vicenda in essa inscritta acquista efficacia e

potenza, e quindi potrà dirsi cinematograficamente riuscita: la maestà dello sfondo

al servizio del soggetto centrale. Con poche varianti tese ad arricchirlo, questo

cliché può in fondo ritenersi sopravvissuto fino ad oggi, e può ben essere

considerato il principio motore del “genere” storico della cinematografia. Il

successo di queste pellicole convinse produttori, autori e cineasti ad insistere in

questa direzione, fino alla nascita del “kolossal”, che forse ha per antesignano

proprio il film di Pastrone e D’Annunzio.

L’avvento del sonoro3 (datato 1927 con Il cantante di Jazz, di Alan Crosland,

comunemente accreditato quale primo film 100% sonoro) favorì ulteriormente

questo processo: ormai il cinema, nato come gioco e ritrovatosi industria, stava

diventando a tutti gli effetti una forma d’arte, per di più in grado di raggiungere un

pubblico vastissimo. Hollywood si impadronì presto di questo criterio di

lavorazione e favorì il processo di sublimazione del fattore storico nel tessuto

filmico: la realizzazione di kolossal subì una brusca accelerazione; l’introduzione

del cinemascope prima, e l’utilizzo di pellicole da 70 millimetri poi, avrebbero un

po’ per volta trasformato le sequenze di guerra in scene di dimensioni sconfinate,

ecumeniche, maestose, tali da far sentire lo spettatore molto più piccolo di ciò che

vedeva; si cominciò a selezionare solo fra eventi solenni e vicende da raccontare;

gli incassi diedero ragione a queste scelte.4 Lo stile fino ad allora adottato per

3 Per i tanti stravolgimenti nei gusti del pubblico provocati da questa innovazione, cfr. A. Boschi, Avvento del sonoro in Europa. Teoria e prassi del cinema negli anni della transizione, Clueb, Milano 1994. 4 Basti come esempio, ancora una volta, il film di Griffith. La realizzazione di Nascita di una nazione costò 110.000 dollari (cifra enorme, alla metà degli anni Dieci), ma gli incassi superarono i 15 milioni di dollari in pochi mesi. Ancora oggi, non pochi produttori europei o americani venderebbero l’anima al diavolo per ottenere tanto! Avatar è ormai nel guinness dei primati come campione di incassi di tutti i tempi con 2,800 milioni di dollari

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raccontare il passato si era dimostrato vincente, e a nessuno venne in mente di

cambiarlo, finché non fu la storia stessa a volerlo. E ad imporlo.

3.

Mussolini, Hitler e Stalin e non erano certo degli esperti di cinema, solo Goebbels

ne percepì le potenzialità a fini propagandistici. Ma l’avvento del totalitarismo, con

le sue pretese di controllo costante e totale su tutte le attività (anche mentali)

dell’individuo, comprese le forme di svago, non poté non toccare anche questo

settore. Inoltre, per il linguaggio che utilizzava e per la constatata efficacia del

potere delle immagini, il cinema rappresentava un boccone troppo ghiotto per

restare fuori dalle grinfie del potere, e così si decise di fare della sala

cinematografica un ulteriore luogo di esibizione della propaganda di regime. La

fuga dei cervelli dall’Europa in America coinvolse anche i grandi registi del tempo:

ripararono oltreoceano, tra gli altri, il berlinese di impure origini Ernst Lubitsch,

l’austriaco poco compatibile con l’Anschluss Fritz Lang, il non più amato Joseph

von Sternberg e l’ebreo Max Ophüls. Marlene Dietrich, letteralmente adorata dallo

stesso pubblico che aveva votato per il NSDAP, era già negli USA da tre anni

quando fu raggiunta da Fritz Lang, che avevo finto di essere interessato all’offerta

di Goebbels di occuparsi del cinema di regime solo per avere un giorno in più a

disposizione per scappare all’estero.

La fuga di queste grandi firme permise il fiorire incontrastato del cinema di

regime, in massima parte formato da pellicole di scarso valore artistico e di infima

ispirazione, nelle quali pullulavano divise, donnine lacrimanti di fronte a plateali

atti d’eroismo di militari in posa plastica, gesta solenni – fin troppo solenni – dalle

quali la vita e la morte sembravano interamente dipendere. Ma questa parentesi

complessivamente infelice nella storia del cinema ebbe almeno il merito di

registrare la nascita di Cinecittà e di operare un recupero (sebbene non neutrale)

delle tradizioni nazionali ed una loro trasposizione su grande schermo, cosa che

non era mai avvenuta prima. L’elaborazione del materiale storico nel cinema si

alimentava adesso anche del patrimonio di leggende e di episodî prima ritenuti

dotati di insufficiente dignità artistica, o delle piccole storie sentimentali nate su

sfondi di imperi noiosi ma che potevano essere raccontate senza interrompere il

sonno del censore, preziosa lezione che non sarebbe andata perduta nel tempo.

Ed è forse nell’Unione Sovietica del primo stalinismo che viene maggiormente

messa alla prova, prima della Seconda guerra mondiale, la capacità di elaborare il

passato nelle forme più sottili possibili per evitare la morsa della censura politica.

di ricavi complessivi, ma è costato quasi 400, quindi il rapporto è di 7:1, mentre per Nascita di una nazione fu di 136:1.

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Dopo l’adozione del realismo socialista nel primo congresso degli scrittori e degli

artisti sovietici (1934), divenne infatti molto difficile utilizzare capitoli della storia

russa senza dare al potere la possibilità di intravedere allusioni ad un presente che

non poteva essere criticato per alcun motivo, né potevano esserci in circolazione

molto soggetti desiderosi di provarci. Per certi versi, la storia russa viene ritenuta

azzerata e ripartita dal momento della rivoluzione d’ottobre, e a questo ukaz si

adeguano più o meno entusiasti cineasti come Grigorij Kozincev (Novij Vavilon,

1928-1929; Odna, 1931) o Boris Svetozarov (Tan’ka traktirščica, 1929), e

ovviamente i registi di regime in senso stretto come Michail Romm (Lenin v

oktjabre, 1937) e Michail Čaureli. Se Ejzenštejn se la cava ancora senza problemi

col suo Aleksandr Nevskij (1938), è solo perché l’opera è totalmente esente da

attacchi; anzi è molto gradita al regime, visto che il protagonista viene palesemente

presentato come un araldico eroe della patria nei confronti di un nemico (i

Cavalieri dell’Ordine Teutonico, sostanzialmente proposti come i precursori storici

del nazismo) che ben si presta al gioco di rinvii tra il medioevo e i mesi della

profonda tensione politica e diplomatica fra il terzo Reich e l’URSS, prima

dell’accordo Ribbentropp-Molotov. Quanto più la Rus’ di Novgorod salvata da

Nevskij risalta con la sua maschia fermezza sulla Rus’ di Kiev caduta nelle mani

dell’invasore per le sue debolezze interne (chiara metafora del deviazionismo),

tanto più le dinamiche esaltative non possono che piacere sia a Stalin che ai suoi

uomini.

Ma le cose vanno molto diversamente con Ivan Groznij (1944-1946), e in

particolare con la seconda parte (La congiura di Boiari), le cui allusioni alla

violenza staliniana attraverso

una progressiva trasfor-

mazione dello zar in una

figura dispotica «disumana,

mostruosa, sola e crudele»5

sia tramite riprese laterali

molto ravvicinate che lo

reificano sia per alternanze

tricromatiche su pellicole a

colori Agfa che virano su un

rosso scuro da sangue

raggrumato, provocano

l’immediata ed irreversibile

5 S. Bernardi, L’avventura del cinematografo, Marsilio Editori, Venezia 2007, p. 93.

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precipitazione della reputazione di Ejzenštejn negli ambienti del PCUS e del SNK6,

allora presieduto da Ivan Bolšakov, un fedelissimo di A.A. Ždanov. Il 4 settembre

1946 la seconda parte di Ivan Groznij viene dunque proibita insieme ad una decina

di pellicole di altri registi. Ejzenštejn tenta di chiarire le sue intenzioni, anche

perché avrebbe voluto terminare l’opera con la terza parte, ed ottiene alla fine di

febbraio 1947 una convocazione al Cremlino insieme a Nikolaj Čerkasov, l’attore

protagonista che già aveva interpretato Nevskij e che a Stalin piaceva molto7. Gli

viene imposto di stravolgere totalmente La congiura di Boiari, seguendo le

direttive indicate da Bolšakov e Ždanov, il che avrebbe significato rinnegare la

concezione estetica alla base dell’idea stessa del film. Ejzenštejn non lo fece,

abbandonò anche il progetto di girare la terza parte, e l’11 febbraio 1948 un

provvidenziale infarto riuscì a precedere l’arresto del cineasta ormai deciso dalla

GPU.

4.

Sgombrate le città europee dalle macerie del conflitto, si entrò nella stagione aurea

del neorealismo, che ebbe il grande merito di spostare l’obiettivo della macchina da

presa verso luoghi e scenari della vita quotidiana prima mai visitati né mostrati, ma

per altri aspetti rappresentò un punto decisamente basso. Fra i suoi demeriti vi è

senz’altro una totale riduzione della storia a scenario dell’attuale, inevitabile per un

movimento il cui principio motore era la fotografia dell’individuo ripreso nella vita

quotidiana, senza nulla nascondere o alterare, e pertanto l’avvicinamento dell’opera

filmica al puro documento. Fu Rossellini stesso a dichiarare: «Mi sforzo di

rinunciare alle esigenze della grammatica tecnica per riferirmi all’istinto e ritrovare

per il mio film il sapore ineguagliabile del documento»8. Nulla di più lontano dalle

architetture barocche del cinema storico, come si può facilmente comprendere. Il

passato non era terreno fertile, in una simile prospettiva estetica. Contava solo il

presente, laddove il presente era costituito dalla precipitazione nella perdita della

6 Sigla del “Comitato per la Cinematografia presso il Soviet dei commissari del popolo”, organo che aveva un potere pressoché totale sulle realizzazioni filmiche nell’età staliniana e ovviamente era espressione fedele della volontà del partito. Boris Šumjackij, che lo aveva presieduto fino alla fine del 1938, per aver mostrato insufficiente rapidità nell’allinearsi alle posizioni di Stalin sulla funzione del cinema nella società socialista, era stato fucilato. Il suo successore (S. Dudel’skij) fece di tutto per riuscire ad essere sollevato dall’incarico pochi mesi dopo la nomina. 7 Cfr. O. Bulgakowa, Cinema sovietico: dal realismo al disgelo (1941-1960), in: AA.VV., Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, vol. III, tomo I, Einaudi, Torino 2000, p. 706. 8 Cit. in: G. Michelone, Invito al cinema di Rossellini, Mursia, Milano 1996, p. 170, corsivo mio.

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speranza (Ossessione, 1943), dall’arrivo di liberatori che dovrebbero rivelarsi amici

(Paisà, 1946), dalle rovine della guerra (Germania anno zero, 1948), dalle

miserevoli condizioni di indigenza dei sopravvissuti (Ladri di biciclette, 1948).

In questo modo, si passò dalla Storia come maestà alla storia come orrore, dalla

bella cornice in cui dipingere alla tremenda realtà di cui piangere. Ma questo

processo di svilimento del fattore storico ebbe, tutto sommato, delle conseguenze

abbastanza modeste. Ben presto si comprese che la grande lezione del neorealismo

non riguardava il ritratto di un’epoca ma quello della condition humaine in quanto

tale, e perciò fu possibile tornare alla “strada maestra” hollywoodiana, che col

tempo avrebbe registrato l’adesione degli stessi Visconti (da Senso in poi) e De

Sica (basti pensare a Il giardino dei Finzi Contini).

Dagli anni Cinquanta in poi si può parlare di vero e proprio “formalismo”

nell’uso dell’elemento storico all’interno del cinema, ed il maestro indiscusso viene

individuato in Jean Renoir, teorico del genere, maestro dello stesso Visconti ed

autore, per il solo indirizzo in questione, di capolavori assoluti come La

Marseillaise (1937) o Le carrosse d’or (1952). Ormai la lezione dei padri

fondatori – seppur

arricchita dagli elementi

figurali del cinema di

regime, delle cure della

parentesi neorealista e

dei metodi produttivi

hollywoodiani – sembra

universalmente digerita

ed accettata: nel 1959

Ben-Hur, kolossal della

Metro Goldwin Mayer

diretto da William

Wyler, nonostante le

sue interminabili tre ore e mezza e le anaforiche corse sulle bighe sotto gli occhi

dell’imperatore Tiberio, registra un successo pressoché assoluto di pubblico e di

critica, aggiudicandosi ben undici premi Oscar e facendo saltare tutti i record di

incasso.

A questo punto sembra che più nulla possa essere detto e che il genere storico

abbia raggiunto la piena maturità, tanto che neppure un gigante come Bergman si

dimostra capace di fare della storia qualcosa di diverso da una mera formula

alchemica per abbellire un soggetto secondo i meccanismi dell’incantesimo: basti

pensare a Det Sjunde Inseglet (Il settimo sigillo, 1956) o alla splendida

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Jungfrükallan (La fontana della vergine, 1960, che forse è anche superiore al

Settimo sigillo perché ha il valore aggiunto dell’elemento fiabesco). Insomma, il

cinema storico ha ormai il suo canone e non sembrano esserci ragioni valide per

attaccarlo. Eppure è proprio ciò che sta per accadere.

5.

La Nouvelle Vague rappresenta, probabilmente, l’unica grande rivoluzione teorica

nell’intera storia del cinema, di contro a quelle strettamente tecniche come il

sonoro, il colore e il cinemascope. Nata all’interno di un più vasto fenomeno di

effervescenza culturale che elegge Parigi a suo centro di riferimento, la Nouvelle

Vague sarebbe riuscita a dire la sua anche riguardo l’uso della Storia nel cinema,

esattamente come il Nouveau Roman avrebbe fatto nella narrativa, soprattutto con

Claude Simon. In realtà, la storia non è uno dei temi principali affrontati da questo

movimento cinematografico, decisamente orientato verso la penetrazione nel

presente e l’esibizione delle sue contraddizioni concettuali. Ma dal momento che il

genere storico rappresentava un baluardo del cinema tradizionale, e che questi

registi si proponevano (da buoni iconoclasti) di eliminare un po’ tutti i cliché della

cinematografia consolidata, finirono per toccare anche questo versante

stravolgendolo completamente. Con gli autori di questa generazione, la Storia

diventa un ingrediente qualsiasi da utilizzare come qualsiasi altro e senza tanti

scrupoli, proprio come la ripresa di pareti bianche – prima considerate un tabù –

oppure la sospensione della sequenza di immagini – prima ritenuta assolutamente

non interrompibile – con l’iniezione di scritte fuorvianti, cartelli da slogans,

citazioni colte. Per la prima volta in assoluto la Storia non fa paura, non se ne è più

ostaggio, e nei suoi confronti viene dismesso quell’atteggiamento eternamente

riverente che Nietzsche aveva auspicato quasi un secolo prima, nella seconda delle

sue Considerazioni inattuali.

Hiroshima mon amour (1959), di Alain Resnais, film precursore della nuova

ondata, parla dell’atomica sganciata dagli americani senza mai parlare dell’atomica

sganciata dagli americani9. Je vous salue, Marie (1985), di Jean-Luc Godard,

9 A questo accenno al film di Resnais si potrebbe obiettare che, nel 1959, Hiroshima rappresenta un avvenimento ancora troppo recente per poterlo definire “storico”. Ma l’uso dell’atomica contro esseri umani fu un autentico shock culturale, almeno per l’Europa, tanto che il filosofo Karl Jaspers pubblicò il suo lungo studio su Die Atombombe und die Zukunft des Menschen nel 1960, ossia solo pochi mesi dopo l’uscita a Cannes della pellicola di Resnais. Peraltro, il cinema americano si era occupato del problema fin dalla metà degli anni Cinquanta, con la proliferazione di B-movies di fantascienza che avevano come soggetto le conseguenze del nucleare (The Deadly Mantis: 1957; The Brain Eaters: 1958; Teenage Cave Man: 1958; Atomic Submarine: 1959), fermo restando che l’origine di questo particolare genere non può che essere il celebre Godzilla di Ishiro Honda, datato

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l’ultima ma probabilmente più significativa stazione di questo percorso, racconta la

maternità di Maria trasponendola nella Francia degli anni Settanta, e lo fa in

maniera scandalosa eppure straordinariamente carica di senso del sacro e di rispetto

per l’argomento trattato: rispetto ma non riverenza, rielaborazione ma non

soggezione. Con la distruzione del mito della Storia operata dai maestri francesi

della Nouvelle Vague, il soggetto cinematografico non è più vittima di questo

despota ma lo piega e lo ripiega a proprio piacimento, come materia grezza nelle

mani di un artigiano, ed in questo modo ne permette finalmente un

ringiovanimento. Di fatto, questo approccio al problema della storia ha

rappresentato finora l’unica alternativa al formalismo tradizionale. Di fatto, dopo la

lezione godardiana, ridiventa possibile fare film storici con maggiore libertà.

L’assimilazione dei due grandi insegnamenti – quello pittorico-tradizionale e

quello, per così dire, antipittorico e postmodernista – e la loro combinazione

permettono sia la sopravvivenza del genere che la nascita di una nuova stirpe di

pellicole, queste ultime forse più difficili da realizzare, ma certo più intense e più

mature, finalmente libere da ogni etichetta. I massimi risultati in questo senso sono

da ritenersi raggiunti da Tarkovskij con il

suo Andrej Rublëv (1969) e da Kubrick con

la sua personalissima versione di Barry

Lyndon (1975). Questi due film straordinari,

a prima vista molto diversi fra loro, sono

accomunati da un uso volutamente distorto e

distorcente del materiale storico.

Nella pellicola di Tarkovskij, un

monaco incisore di celeberrime icone

vissuto in Russia a cavallo fra il XIV e il XV

secolo, ossia sotto il giogo tataro, riesce a

piegare le forze prorompenti del presente

filmico (che preannunciano il passaggio

dall’antica alla nuova ortodossia, anche in

seguito alla devastante invasione) perché

rispettino i propri capricci di artigiano

appartenente ad un mondo ormai in

decadenza, e alla fine vince la propria

battaglia.

1954 e subito messo sotto controllo per esigenze politiche dalla Paramount, che lo incorniciò con la voce di Raymond Burr e ne affidò la second hand direction a tale Terence Morse, un regista inventato per la circostanza.

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Nella rielaborazione del romanzo di Thackeray operata da Kubrick (quattro

premi Oscar, tra cui quello per la fotografia a John Alcott, semplicemente

eccezionale nell’individuazione dei punti utili a riprendere unicamente con la luce

naturale o con quella delle candele per gli interni tramite obiettivi Zeiss sviluppati

in realtà per la Nasa), addirittura, si assiste ad una vera e propria denigrazione

dell’affresco storico, pur rispettato dal punto di vista della forma fin nei minimi

particolari. Mentre infatti le sequenze relative alle dinamiche intersoggettive tra i

personaggi principali si svolgono con un’eccezionale attenzione ai dettagli, così

permettendo al

regista di sfogare le

sue nevrosi osses-

sive sulla precisione

dei particolari e

sull’uso della luce

naturale, le scene di

guerra – che, sulla

scia della tradi-

zione, dovrebbero

rappresentare il

momento più

solenne – diventano

delle gigantesche

farse in costume, e i direttori della maestosa offensiva contro Napoleone appaiono

tanto più ridicoli quanto più dimostrano di essere null’altro che riflessi moltiplicati

dell’antieroe Barry Lyndon, mediocre fra i mediocri, a sua volta riflesso del risibile

imperatore. Come è immensamente lontano, adesso, il Napoleon di Abel Gance, e

tutti i Napoleoni a lui seguiti.

6.

Nel cosmo cinematografico dell’Europa orientale, in particolare nel periodo

successivo alla caduta del realismo socialista come estetica di Stato, si assiste ad un

proliferare di elaborazioni di motivi storici, con episodi anche notevoli dal punto di

vista sia tecnico che stilistico, ma sostanzialmente privi di fattori di novità, salvo

rare eccezioni come il suddetto Tarkovskij. Tra gli anni Sessanta e Settanta, alcuni

tra i massimi talenti della cinematografia russa e polacca si misurano con opere

molto precise nelle ricostruzioni storiche e disponendo di finanziamenti pubblici

adeguati. Andrzej Wajda è fra i nomi che con maggiore frequenza hanno lavorato

in questa direzione, a partire almeno dal suo adattamento delle Wesele (Le nozze,

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1972) di S. Wyspiański, per proseguire con lo splendido affresco storico di Ziemia

obiecana (La terra della grande promessa, 1974, dal romanzo omonimo di W.

Reymont), quindi con il viscontiano

Danton (1983), fino al coraggioso

Pan Tadeusz (1998), interamente

recitato in dodecasillabi a rima

baciata nel più religioso rispetto del

testo di Mickiewicz, con interpreti

d’eccezione quali Daniel

Olbrychski, Krzysztof Kolberger e

Grażyna Szapolowska

In Unione Sovietica il primo

tentativo d’autore è probabilmente

quello di Andrej Končalovskij con

il suo adattamento di Nido di

gentiluomini (1969), piuttosto

scialbo e privo di fermenti vitali, in

buona parte a causa del fatto che il

regista sapeva bene di essere nel

mirino della censura dopo Istorija

Asi Kljačinoj (1966), bloccato dalle autorità per il modo in cui era stata presentata

la miseria umana nella vita quotidiana dei sovchoz in un periodo in cui era ancora

in vigore il reato di “scarso entusiasmo rivoluzionario”. Con Zio Vanja (1970) le

cose vanno meglio grazie all’abilità con cui il regista riesce a mostrare la

condizione di asfissia intellettuale in cui giace la parte più elevata della società : la

preparazione culturale dei censori era inadeguata a permettere loro di cogliere le

allusioni politiche della vicenda. Pochi anni più tardi, nel 1979, il fratello Nikita

Mikhalkov farà qualcosa di simile – e con notevole resa estetica – nella sua

versione falsamente idilliaca dell’Oblomov di Gončarov, romanzo tradizionalmente

inviso all’universo di valori del Politbjuro a causa del suo eccessivo indugiare

sull’inerzia atavica dell’uomo russo di buona estrazione sociale, ma che diventa

invece realizzabile senza incorrere nelle ire del partito pochi mesi prima che

Brežnev presenzi alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Mosca, in piedi

davanti ad una folla di piccoli Oblomov che sventolano i simboli nazionali. In ogni

caso, tutte queste opere hanno come modelli di riferimento prevalenti la scuola

italiana e quella anglo-francese (si pensi anche ai fratelli Korda), ma non hanno

fornito degli apporti innovativi sotto il profilo teorico o nelle tecniche di ripresa,

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tranne forse che per l’introduzione dei processi di desaturazione dei colori, che

hanno avuto in Končalovskij un grande precursore.

7.

Difficilmente si assisterà nel breve periodo alla nascita di qualche nuova tendenza,

e probabilmente per molto tempo ancora l’uso dell’oggetto storico nel cinema

continuerà nel suo movimento pendolare fra il rispetto predicato dai canoni

formalisti e lo stravolgimento auspicato dalla rielaborazione postmodernista.

Anche un lavoro notevole come Il mestiere delle armi (2001) di Ermanno Olmi

tende sostanzialmente a ricadere nel perimetro della soluzione tradizionale, pur

dandole ossigeno vitale tramite un’opportuna accentuazione della dimensione

strettamente documentaristica.

Sull’altra sponda dell’Atlantico, il virtuoso Ridley Scott (inglese trapiantato

che già al suo esordio datato 1977 si era mirabilmente confrontato col genere in un

adattamento pittorico-morale del racconto di Conrad I duellanti) insegna a tutti col

suo Gladiatore (2000) che le nuove tecnologie CGI possono fornire il loro valido

contributo anche nel

mondo dell’ex

peplum, purché non le

si snaturi e restino

degli strumenti, come

ad esempio accade

per l’utilizzo dell’ot-

turatore ad alta velo-

cità nelle sequenze

dei combattimenti

nelle foreste. Ridley

Scott sa conservare il

giusto rapporto uomo-

mezzo senza alcuna soggezione: è la grafica elettronica a rimanere al suo servizio e

a venire impiegata per creare scene di massa su totali vuoti girati in panoramica,

oppure per ringiovanire il Colosseo e riempirne gli spalti senza usare attori La

tecnica non si impadronisce dunque del progetto filmico, ma occorre anche

aggiungere che tale progetto rimane sostanzialmente nel solco della tradizione

consolidata del genere storico, senza la formulazione di proposte

complessivamente nuove.

Forse l’introduzione e il perfezionamento del 3D può rappresentare, con i

dovuti accorgimenti, un’occasione utile a pensare soluzioni complessivamente

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nuove per far vivere con una diversa intensità sensoriale l’esperienza della

partecipazione emotiva ai fatti storici attraverso il linguaggio filmico: in questo

caso, potrebbe rivelarsi l’inizio di una nuova stagione in questo genere

cinematografico. Dopo la recentissima riedizione in formato tridimensionale del

Titanic di Cameron, vedremo quali nuovi sviluppi potranno esserci e col tempo

capiremo davvero se, a partire da Avatar, si è prodotta «una cesura e un trauma che

probabilmente atrofizzerà i nostri usurati cinesensi evocandone altri (…) Ossia

James Cameron ipotizza un cinema che, come i mass media studiati da McLuhan,

anticipa i nostri sensi. Quelli che non abbiamo ancora»10.

È possibile, ma per il momento è prematuro darlo per già avvenuto. Di sicuro,

l’elaborazione di avvenimenti storici rappresenta uno dei territori che possono

beneficiare di un simile cambiamento: se ciò avverrà, forse inizierà davvero un

modo totalmente nuovo di rappresentare il passato e continuare a percepirlo come

cinematograficamente attuale.

10 G.A. Nazzaro, Avatar: il nuovo corpo dello sguardo, in: «Filmcritica», n. 601-602, 2010, p. 20.