IL PASSATO IN 35 mm.
LA RAPPRESENTAZIONE CINEMATOGRAFICA DELLA STORIA
di Giuseppe Russo
« La storia, se esiste, solo il cinema può mostrarla.
Il cinema è la sola traccia, l’unico testimone... »
( Jean-Luc Godard )
Basta dare un’occhiata ad un qualsiasi buon dizionario di cinema per farsi un’idea,
anche soltanto sommaria, dell’immensa mole di film basati su spunti storici che
hanno visto la luce in poco più cento anni di cinema: verosimilmente, superano il
migliaio. I criteri, i principî, le prospettive estetiche con cui sono stati realizzati,
pensati, prodotti, sono tali da far meritare, ad un simile argomento, studî accurati
ed approfonditi, ed infatti alcuni libri dedicati a questo aspetto dell’universo
cinema esistono1. Qui dunque ci limiteremo a delineare una panoramica su una
questione vasta e articolata.
1 AA.VV., La storia al cinema. Ricostruzione del passato, interpretazione del presente, a cura di G. Miro Gori, Bulzoni, Roma 1994. Cfr. anche P. Iaccio, Cinema e storia. Percorsi, immagini, testimonianze, Liguori, Napoli 1998.
1.
La storia come soggetto non interessò subito la cinematografia. Occorse un po’ di
tempo per rendersi conto che riprendere tristi operaie che uscivano da ancor più
tristi fabbriche o treni polverosi che giungevano in stazioni incognite, sarebbe
servito assai poco alla diffusione di questa nuova forma di spettacolo e alla
proliferazione di sale o locali destinate ad accoglierla.
Fu l’emigrazione della cinematografia in America, ad imporre un’immediata
ridefinizione di un fenomeno nato come puro divertissement in una possibile
attività economica: la nascita di Hollywood, va ricordato, è datata 1907. Accanto e
parallelamente ai primi film di finzione dell’epoca del muto, affiorò così la figura
onnipotente del produttore cinematografico (uno fra i primi nomi famosi fu un
certo Joseph P. Kennedy, padre di John Fitzgerald e amante clandestino di una
giovanissima Gloria Swanson), il quale investiva dei soldi ed intendeva trarne un
profitto. Il passaggio al livello professionale fu immediato: gli attori iniziarono ad
esigere cachet sempre più onerosi, i produttori acquistarono potere decisionale, i
registi dovettero presto imparare a fare i conti con le bizze degli uni e il dispotismo
degli altri. Esisteva una sola strada, seguendo la quale diventava possibile
soddisfare tutti: trasformare l’invenzione dei fratelli Lumière (e degli
Skladanovsky) in un’industria moderna a tutti gli effetti; un’industria dello
spettacolo, ma comunque un’industria, nella quale chi aveva idee poteva esprimerle
e chi metteva mano alla borsetta per farle esprimere poteva guadagnarci.
Il primo passo da compiere su questa strada era, allora: abbandonare del tutto
la fase pionieristica di fine Ottocento, quando al centro della macchina da presa vi
erano signore passeggianti o palloni aerostatici svolazzanti, e dare in pasto al
pubblico qualcosa che potesse piacere, insomma generare la domanda preparando
l’offerta. Le pellicole iniziarono così a diventare sempre più lunghe (30, 50, poi 60
minuti, poi più di un’ora), gli attori sempre più professionisti, i registi sempre più
cineasti. Ne derivò l’esigenza, prima inesistente, della sceneggiatura: cosa mostrare
in sessanta minuti di pellicola? che tipo di storie potevano essere raccontate ad un
pubblico non ancora preparato a restare seduto tanto tempo davanti ad uno schermo
per vederle? cosa poteva piacere alla gente ed attrarla al punto da pagare un
biglietto, ma allo stesso tempo permettendo al regista di realizzare le proprie idee?
La prima risposta fu: l’erotismo; uomini e donne che si baciano senza riserve, che
si sfiorano in vagoni di treni, che si accarezzano nascosti in un giardino. Gli uomini
affollarono le sale, ma i divieti censori in molti stati dell’Unione fioccarono
immediatamente2. Inoltre, in questo modo si lasciava fuori dalle sale il pubblico
2 Su questo argomento cfr. tra gli altri: G. Muscio, La Casa Bianca e le sette majors. Cinema e massmedia negli anni del New Deal, Il Poligrafo, Padova 1990.
femminile, che potenzialmente rappresentava la maggioranza. Allora si cercò
qualcosa di diverso, che potesse essere allo stesso tempo valido sul piano artistico,
inattaccabile su quello morale e remunerativo dal punto di vista economico: fu così
che “l’invenzione senza futuro”, come l’aveva definita Louis Lumière, cominciò ad
occuparsi del passato.
2.
Sarebbe difficile, nonché poco rilevante, stabilire quale sia stato il primo film
storico mai realizzato. Più interessante è notare come questo nuovo terreno
cinematografico si tradusse immediatamente in un’ottima possibilità espressiva per
registi, produttori e sceneggiatori. Non a caso, la nascita del genere storico coincise
con il passaggio dal cinema dei divi (Rodolfo Valentino, Mae West, Greta Garbo)
al cinema dei registi (D.W. Griffith, S.M. Ejzenštejn, Erich von Stroheim, Raoul
Walsh), il che permise un’indiscutibile lievitazione del livello strettamente artistico
dell’opera filmica, ma congiunta alla dimensione squisitamente spettacolare, che
già allora piaceva molto al pubblico. Nascita di una nazione, forse il massimo
capolavoro di Griffith, che racconta la Guerra di Secessione e la fondazione del Ku
Klux Klan, è del 1915, e la sterminata produzione del regista inglese si svolse tutta
nel breve arco temporale compreso tra
il 1914 e il 1922.
Ma come viene trattata la storia dai
primi grandi registi del genere? In
effetti, in parte per il successo di queste
pellicole, in parte assai maggiore per il
valore che esse hanno avuto o che è
stato loro attribuito dalla tradizione,
lavori come Cabiria (1914) o
Intolerance (1916) divennero immedia-
tamente dei punti di riferimento decisivi
per intere generazioni di cineasti, ed il
modo in cui in questi film era utilizzato
il materiale storico intorno al quale
l’opera ruotava, venne presto elevato ad
autentico paradigma tecnico e stilistico.
Dal punto di vista tecnico, proprio il
suddetto The birth of a Nation inaugura
la stagione delle scelte vincenti:
alternanza di primi piani e campi panoramici, scene di massa ricolme di comparse,
abbondanti giochi di luce e di ombre, montaggio parallelo della pellicola, etc. Sul
piano stilistico, ma strettamente connessa alle trovate di ripresa e montaggio, la
soluzione adottata da questi primi maestri (e che sostanzialmente aprì una strada
che non sarebbe stata più abbandonata) consisteva nel fare della Storia una cornice
di forte impatto visivo e di piena credibilità, all’interno della quale raccontare una
vicenda più o meno significativa, in genere inventata, ma in grado di catturare
l’attenzione più facilmente della cornice.
In altre parole, viene applicato il criterio estetico – parzialmente mutuato dal
teatro drammatico moderno, ma privo degli insormontabili limiti spaziali di questo
– dell’affresco tratteggiato tutt’attorno ad un soggetto centrale, che rappresenta
pertanto una storia nella Storia. Quanto più la cornice risulta ben dipinta e
finemente stilizzata, tanto più la vicenda in essa inscritta acquista efficacia e
potenza, e quindi potrà dirsi cinematograficamente riuscita: la maestà dello sfondo
al servizio del soggetto centrale. Con poche varianti tese ad arricchirlo, questo
cliché può in fondo ritenersi sopravvissuto fino ad oggi, e può ben essere
considerato il principio motore del “genere” storico della cinematografia. Il
successo di queste pellicole convinse produttori, autori e cineasti ad insistere in
questa direzione, fino alla nascita del “kolossal”, che forse ha per antesignano
proprio il film di Pastrone e D’Annunzio.
L’avvento del sonoro3 (datato 1927 con Il cantante di Jazz, di Alan Crosland,
comunemente accreditato quale primo film 100% sonoro) favorì ulteriormente
questo processo: ormai il cinema, nato come gioco e ritrovatosi industria, stava
diventando a tutti gli effetti una forma d’arte, per di più in grado di raggiungere un
pubblico vastissimo. Hollywood si impadronì presto di questo criterio di
lavorazione e favorì il processo di sublimazione del fattore storico nel tessuto
filmico: la realizzazione di kolossal subì una brusca accelerazione; l’introduzione
del cinemascope prima, e l’utilizzo di pellicole da 70 millimetri poi, avrebbero un
po’ per volta trasformato le sequenze di guerra in scene di dimensioni sconfinate,
ecumeniche, maestose, tali da far sentire lo spettatore molto più piccolo di ciò che
vedeva; si cominciò a selezionare solo fra eventi solenni e vicende da raccontare;
gli incassi diedero ragione a queste scelte.4 Lo stile fino ad allora adottato per
3 Per i tanti stravolgimenti nei gusti del pubblico provocati da questa innovazione, cfr. A. Boschi, Avvento del sonoro in Europa. Teoria e prassi del cinema negli anni della transizione, Clueb, Milano 1994. 4 Basti come esempio, ancora una volta, il film di Griffith. La realizzazione di Nascita di una nazione costò 110.000 dollari (cifra enorme, alla metà degli anni Dieci), ma gli incassi superarono i 15 milioni di dollari in pochi mesi. Ancora oggi, non pochi produttori europei o americani venderebbero l’anima al diavolo per ottenere tanto! Avatar è ormai nel guinness dei primati come campione di incassi di tutti i tempi con 2,800 milioni di dollari
raccontare il passato si era dimostrato vincente, e a nessuno venne in mente di
cambiarlo, finché non fu la storia stessa a volerlo. E ad imporlo.
3.
Mussolini, Hitler e Stalin e non erano certo degli esperti di cinema, solo Goebbels
ne percepì le potenzialità a fini propagandistici. Ma l’avvento del totalitarismo, con
le sue pretese di controllo costante e totale su tutte le attività (anche mentali)
dell’individuo, comprese le forme di svago, non poté non toccare anche questo
settore. Inoltre, per il linguaggio che utilizzava e per la constatata efficacia del
potere delle immagini, il cinema rappresentava un boccone troppo ghiotto per
restare fuori dalle grinfie del potere, e così si decise di fare della sala
cinematografica un ulteriore luogo di esibizione della propaganda di regime. La
fuga dei cervelli dall’Europa in America coinvolse anche i grandi registi del tempo:
ripararono oltreoceano, tra gli altri, il berlinese di impure origini Ernst Lubitsch,
l’austriaco poco compatibile con l’Anschluss Fritz Lang, il non più amato Joseph
von Sternberg e l’ebreo Max Ophüls. Marlene Dietrich, letteralmente adorata dallo
stesso pubblico che aveva votato per il NSDAP, era già negli USA da tre anni
quando fu raggiunta da Fritz Lang, che avevo finto di essere interessato all’offerta
di Goebbels di occuparsi del cinema di regime solo per avere un giorno in più a
disposizione per scappare all’estero.
La fuga di queste grandi firme permise il fiorire incontrastato del cinema di
regime, in massima parte formato da pellicole di scarso valore artistico e di infima
ispirazione, nelle quali pullulavano divise, donnine lacrimanti di fronte a plateali
atti d’eroismo di militari in posa plastica, gesta solenni – fin troppo solenni – dalle
quali la vita e la morte sembravano interamente dipendere. Ma questa parentesi
complessivamente infelice nella storia del cinema ebbe almeno il merito di
registrare la nascita di Cinecittà e di operare un recupero (sebbene non neutrale)
delle tradizioni nazionali ed una loro trasposizione su grande schermo, cosa che
non era mai avvenuta prima. L’elaborazione del materiale storico nel cinema si
alimentava adesso anche del patrimonio di leggende e di episodî prima ritenuti
dotati di insufficiente dignità artistica, o delle piccole storie sentimentali nate su
sfondi di imperi noiosi ma che potevano essere raccontate senza interrompere il
sonno del censore, preziosa lezione che non sarebbe andata perduta nel tempo.
Ed è forse nell’Unione Sovietica del primo stalinismo che viene maggiormente
messa alla prova, prima della Seconda guerra mondiale, la capacità di elaborare il
passato nelle forme più sottili possibili per evitare la morsa della censura politica.
di ricavi complessivi, ma è costato quasi 400, quindi il rapporto è di 7:1, mentre per Nascita di una nazione fu di 136:1.
Dopo l’adozione del realismo socialista nel primo congresso degli scrittori e degli
artisti sovietici (1934), divenne infatti molto difficile utilizzare capitoli della storia
russa senza dare al potere la possibilità di intravedere allusioni ad un presente che
non poteva essere criticato per alcun motivo, né potevano esserci in circolazione
molto soggetti desiderosi di provarci. Per certi versi, la storia russa viene ritenuta
azzerata e ripartita dal momento della rivoluzione d’ottobre, e a questo ukaz si
adeguano più o meno entusiasti cineasti come Grigorij Kozincev (Novij Vavilon,
1928-1929; Odna, 1931) o Boris Svetozarov (Tan’ka traktirščica, 1929), e
ovviamente i registi di regime in senso stretto come Michail Romm (Lenin v
oktjabre, 1937) e Michail Čaureli. Se Ejzenštejn se la cava ancora senza problemi
col suo Aleksandr Nevskij (1938), è solo perché l’opera è totalmente esente da
attacchi; anzi è molto gradita al regime, visto che il protagonista viene palesemente
presentato come un araldico eroe della patria nei confronti di un nemico (i
Cavalieri dell’Ordine Teutonico, sostanzialmente proposti come i precursori storici
del nazismo) che ben si presta al gioco di rinvii tra il medioevo e i mesi della
profonda tensione politica e diplomatica fra il terzo Reich e l’URSS, prima
dell’accordo Ribbentropp-Molotov. Quanto più la Rus’ di Novgorod salvata da
Nevskij risalta con la sua maschia fermezza sulla Rus’ di Kiev caduta nelle mani
dell’invasore per le sue debolezze interne (chiara metafora del deviazionismo),
tanto più le dinamiche esaltative non possono che piacere sia a Stalin che ai suoi
uomini.
Ma le cose vanno molto diversamente con Ivan Groznij (1944-1946), e in
particolare con la seconda parte (La congiura di Boiari), le cui allusioni alla
violenza staliniana attraverso
una progressiva trasfor-
mazione dello zar in una
figura dispotica «disumana,
mostruosa, sola e crudele»5
sia tramite riprese laterali
molto ravvicinate che lo
reificano sia per alternanze
tricromatiche su pellicole a
colori Agfa che virano su un
rosso scuro da sangue
raggrumato, provocano
l’immediata ed irreversibile
5 S. Bernardi, L’avventura del cinematografo, Marsilio Editori, Venezia 2007, p. 93.
precipitazione della reputazione di Ejzenštejn negli ambienti del PCUS e del SNK6,
allora presieduto da Ivan Bolšakov, un fedelissimo di A.A. Ždanov. Il 4 settembre
1946 la seconda parte di Ivan Groznij viene dunque proibita insieme ad una decina
di pellicole di altri registi. Ejzenštejn tenta di chiarire le sue intenzioni, anche
perché avrebbe voluto terminare l’opera con la terza parte, ed ottiene alla fine di
febbraio 1947 una convocazione al Cremlino insieme a Nikolaj Čerkasov, l’attore
protagonista che già aveva interpretato Nevskij e che a Stalin piaceva molto7. Gli
viene imposto di stravolgere totalmente La congiura di Boiari, seguendo le
direttive indicate da Bolšakov e Ždanov, il che avrebbe significato rinnegare la
concezione estetica alla base dell’idea stessa del film. Ejzenštejn non lo fece,
abbandonò anche il progetto di girare la terza parte, e l’11 febbraio 1948 un
provvidenziale infarto riuscì a precedere l’arresto del cineasta ormai deciso dalla
GPU.
4.
Sgombrate le città europee dalle macerie del conflitto, si entrò nella stagione aurea
del neorealismo, che ebbe il grande merito di spostare l’obiettivo della macchina da
presa verso luoghi e scenari della vita quotidiana prima mai visitati né mostrati, ma
per altri aspetti rappresentò un punto decisamente basso. Fra i suoi demeriti vi è
senz’altro una totale riduzione della storia a scenario dell’attuale, inevitabile per un
movimento il cui principio motore era la fotografia dell’individuo ripreso nella vita
quotidiana, senza nulla nascondere o alterare, e pertanto l’avvicinamento dell’opera
filmica al puro documento. Fu Rossellini stesso a dichiarare: «Mi sforzo di
rinunciare alle esigenze della grammatica tecnica per riferirmi all’istinto e ritrovare
per il mio film il sapore ineguagliabile del documento»8. Nulla di più lontano dalle
architetture barocche del cinema storico, come si può facilmente comprendere. Il
passato non era terreno fertile, in una simile prospettiva estetica. Contava solo il
presente, laddove il presente era costituito dalla precipitazione nella perdita della
6 Sigla del “Comitato per la Cinematografia presso il Soviet dei commissari del popolo”, organo che aveva un potere pressoché totale sulle realizzazioni filmiche nell’età staliniana e ovviamente era espressione fedele della volontà del partito. Boris Šumjackij, che lo aveva presieduto fino alla fine del 1938, per aver mostrato insufficiente rapidità nell’allinearsi alle posizioni di Stalin sulla funzione del cinema nella società socialista, era stato fucilato. Il suo successore (S. Dudel’skij) fece di tutto per riuscire ad essere sollevato dall’incarico pochi mesi dopo la nomina. 7 Cfr. O. Bulgakowa, Cinema sovietico: dal realismo al disgelo (1941-1960), in: AA.VV., Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, vol. III, tomo I, Einaudi, Torino 2000, p. 706. 8 Cit. in: G. Michelone, Invito al cinema di Rossellini, Mursia, Milano 1996, p. 170, corsivo mio.
speranza (Ossessione, 1943), dall’arrivo di liberatori che dovrebbero rivelarsi amici
(Paisà, 1946), dalle rovine della guerra (Germania anno zero, 1948), dalle
miserevoli condizioni di indigenza dei sopravvissuti (Ladri di biciclette, 1948).
In questo modo, si passò dalla Storia come maestà alla storia come orrore, dalla
bella cornice in cui dipingere alla tremenda realtà di cui piangere. Ma questo
processo di svilimento del fattore storico ebbe, tutto sommato, delle conseguenze
abbastanza modeste. Ben presto si comprese che la grande lezione del neorealismo
non riguardava il ritratto di un’epoca ma quello della condition humaine in quanto
tale, e perciò fu possibile tornare alla “strada maestra” hollywoodiana, che col
tempo avrebbe registrato l’adesione degli stessi Visconti (da Senso in poi) e De
Sica (basti pensare a Il giardino dei Finzi Contini).
Dagli anni Cinquanta in poi si può parlare di vero e proprio “formalismo”
nell’uso dell’elemento storico all’interno del cinema, ed il maestro indiscusso viene
individuato in Jean Renoir, teorico del genere, maestro dello stesso Visconti ed
autore, per il solo indirizzo in questione, di capolavori assoluti come La
Marseillaise (1937) o Le carrosse d’or (1952). Ormai la lezione dei padri
fondatori – seppur
arricchita dagli elementi
figurali del cinema di
regime, delle cure della
parentesi neorealista e
dei metodi produttivi
hollywoodiani – sembra
universalmente digerita
ed accettata: nel 1959
Ben-Hur, kolossal della
Metro Goldwin Mayer
diretto da William
Wyler, nonostante le
sue interminabili tre ore e mezza e le anaforiche corse sulle bighe sotto gli occhi
dell’imperatore Tiberio, registra un successo pressoché assoluto di pubblico e di
critica, aggiudicandosi ben undici premi Oscar e facendo saltare tutti i record di
incasso.
A questo punto sembra che più nulla possa essere detto e che il genere storico
abbia raggiunto la piena maturità, tanto che neppure un gigante come Bergman si
dimostra capace di fare della storia qualcosa di diverso da una mera formula
alchemica per abbellire un soggetto secondo i meccanismi dell’incantesimo: basti
pensare a Det Sjunde Inseglet (Il settimo sigillo, 1956) o alla splendida
Jungfrükallan (La fontana della vergine, 1960, che forse è anche superiore al
Settimo sigillo perché ha il valore aggiunto dell’elemento fiabesco). Insomma, il
cinema storico ha ormai il suo canone e non sembrano esserci ragioni valide per
attaccarlo. Eppure è proprio ciò che sta per accadere.
5.
La Nouvelle Vague rappresenta, probabilmente, l’unica grande rivoluzione teorica
nell’intera storia del cinema, di contro a quelle strettamente tecniche come il
sonoro, il colore e il cinemascope. Nata all’interno di un più vasto fenomeno di
effervescenza culturale che elegge Parigi a suo centro di riferimento, la Nouvelle
Vague sarebbe riuscita a dire la sua anche riguardo l’uso della Storia nel cinema,
esattamente come il Nouveau Roman avrebbe fatto nella narrativa, soprattutto con
Claude Simon. In realtà, la storia non è uno dei temi principali affrontati da questo
movimento cinematografico, decisamente orientato verso la penetrazione nel
presente e l’esibizione delle sue contraddizioni concettuali. Ma dal momento che il
genere storico rappresentava un baluardo del cinema tradizionale, e che questi
registi si proponevano (da buoni iconoclasti) di eliminare un po’ tutti i cliché della
cinematografia consolidata, finirono per toccare anche questo versante
stravolgendolo completamente. Con gli autori di questa generazione, la Storia
diventa un ingrediente qualsiasi da utilizzare come qualsiasi altro e senza tanti
scrupoli, proprio come la ripresa di pareti bianche – prima considerate un tabù –
oppure la sospensione della sequenza di immagini – prima ritenuta assolutamente
non interrompibile – con l’iniezione di scritte fuorvianti, cartelli da slogans,
citazioni colte. Per la prima volta in assoluto la Storia non fa paura, non se ne è più
ostaggio, e nei suoi confronti viene dismesso quell’atteggiamento eternamente
riverente che Nietzsche aveva auspicato quasi un secolo prima, nella seconda delle
sue Considerazioni inattuali.
Hiroshima mon amour (1959), di Alain Resnais, film precursore della nuova
ondata, parla dell’atomica sganciata dagli americani senza mai parlare dell’atomica
sganciata dagli americani9. Je vous salue, Marie (1985), di Jean-Luc Godard,
9 A questo accenno al film di Resnais si potrebbe obiettare che, nel 1959, Hiroshima rappresenta un avvenimento ancora troppo recente per poterlo definire “storico”. Ma l’uso dell’atomica contro esseri umani fu un autentico shock culturale, almeno per l’Europa, tanto che il filosofo Karl Jaspers pubblicò il suo lungo studio su Die Atombombe und die Zukunft des Menschen nel 1960, ossia solo pochi mesi dopo l’uscita a Cannes della pellicola di Resnais. Peraltro, il cinema americano si era occupato del problema fin dalla metà degli anni Cinquanta, con la proliferazione di B-movies di fantascienza che avevano come soggetto le conseguenze del nucleare (The Deadly Mantis: 1957; The Brain Eaters: 1958; Teenage Cave Man: 1958; Atomic Submarine: 1959), fermo restando che l’origine di questo particolare genere non può che essere il celebre Godzilla di Ishiro Honda, datato
l’ultima ma probabilmente più significativa stazione di questo percorso, racconta la
maternità di Maria trasponendola nella Francia degli anni Settanta, e lo fa in
maniera scandalosa eppure straordinariamente carica di senso del sacro e di rispetto
per l’argomento trattato: rispetto ma non riverenza, rielaborazione ma non
soggezione. Con la distruzione del mito della Storia operata dai maestri francesi
della Nouvelle Vague, il soggetto cinematografico non è più vittima di questo
despota ma lo piega e lo ripiega a proprio piacimento, come materia grezza nelle
mani di un artigiano, ed in questo modo ne permette finalmente un
ringiovanimento. Di fatto, questo approccio al problema della storia ha
rappresentato finora l’unica alternativa al formalismo tradizionale. Di fatto, dopo la
lezione godardiana, ridiventa possibile fare film storici con maggiore libertà.
L’assimilazione dei due grandi insegnamenti – quello pittorico-tradizionale e
quello, per così dire, antipittorico e postmodernista – e la loro combinazione
permettono sia la sopravvivenza del genere che la nascita di una nuova stirpe di
pellicole, queste ultime forse più difficili da realizzare, ma certo più intense e più
mature, finalmente libere da ogni etichetta. I massimi risultati in questo senso sono
da ritenersi raggiunti da Tarkovskij con il
suo Andrej Rublëv (1969) e da Kubrick con
la sua personalissima versione di Barry
Lyndon (1975). Questi due film straordinari,
a prima vista molto diversi fra loro, sono
accomunati da un uso volutamente distorto e
distorcente del materiale storico.
Nella pellicola di Tarkovskij, un
monaco incisore di celeberrime icone
vissuto in Russia a cavallo fra il XIV e il XV
secolo, ossia sotto il giogo tataro, riesce a
piegare le forze prorompenti del presente
filmico (che preannunciano il passaggio
dall’antica alla nuova ortodossia, anche in
seguito alla devastante invasione) perché
rispettino i propri capricci di artigiano
appartenente ad un mondo ormai in
decadenza, e alla fine vince la propria
battaglia.
1954 e subito messo sotto controllo per esigenze politiche dalla Paramount, che lo incorniciò con la voce di Raymond Burr e ne affidò la second hand direction a tale Terence Morse, un regista inventato per la circostanza.
Nella rielaborazione del romanzo di Thackeray operata da Kubrick (quattro
premi Oscar, tra cui quello per la fotografia a John Alcott, semplicemente
eccezionale nell’individuazione dei punti utili a riprendere unicamente con la luce
naturale o con quella delle candele per gli interni tramite obiettivi Zeiss sviluppati
in realtà per la Nasa), addirittura, si assiste ad una vera e propria denigrazione
dell’affresco storico, pur rispettato dal punto di vista della forma fin nei minimi
particolari. Mentre infatti le sequenze relative alle dinamiche intersoggettive tra i
personaggi principali si svolgono con un’eccezionale attenzione ai dettagli, così
permettendo al
regista di sfogare le
sue nevrosi osses-
sive sulla precisione
dei particolari e
sull’uso della luce
naturale, le scene di
guerra – che, sulla
scia della tradi-
zione, dovrebbero
rappresentare il
momento più
solenne – diventano
delle gigantesche
farse in costume, e i direttori della maestosa offensiva contro Napoleone appaiono
tanto più ridicoli quanto più dimostrano di essere null’altro che riflessi moltiplicati
dell’antieroe Barry Lyndon, mediocre fra i mediocri, a sua volta riflesso del risibile
imperatore. Come è immensamente lontano, adesso, il Napoleon di Abel Gance, e
tutti i Napoleoni a lui seguiti.
6.
Nel cosmo cinematografico dell’Europa orientale, in particolare nel periodo
successivo alla caduta del realismo socialista come estetica di Stato, si assiste ad un
proliferare di elaborazioni di motivi storici, con episodi anche notevoli dal punto di
vista sia tecnico che stilistico, ma sostanzialmente privi di fattori di novità, salvo
rare eccezioni come il suddetto Tarkovskij. Tra gli anni Sessanta e Settanta, alcuni
tra i massimi talenti della cinematografia russa e polacca si misurano con opere
molto precise nelle ricostruzioni storiche e disponendo di finanziamenti pubblici
adeguati. Andrzej Wajda è fra i nomi che con maggiore frequenza hanno lavorato
in questa direzione, a partire almeno dal suo adattamento delle Wesele (Le nozze,
1972) di S. Wyspiański, per proseguire con lo splendido affresco storico di Ziemia
obiecana (La terra della grande promessa, 1974, dal romanzo omonimo di W.
Reymont), quindi con il viscontiano
Danton (1983), fino al coraggioso
Pan Tadeusz (1998), interamente
recitato in dodecasillabi a rima
baciata nel più religioso rispetto del
testo di Mickiewicz, con interpreti
d’eccezione quali Daniel
Olbrychski, Krzysztof Kolberger e
Grażyna Szapolowska
In Unione Sovietica il primo
tentativo d’autore è probabilmente
quello di Andrej Končalovskij con
il suo adattamento di Nido di
gentiluomini (1969), piuttosto
scialbo e privo di fermenti vitali, in
buona parte a causa del fatto che il
regista sapeva bene di essere nel
mirino della censura dopo Istorija
Asi Kljačinoj (1966), bloccato dalle autorità per il modo in cui era stata presentata
la miseria umana nella vita quotidiana dei sovchoz in un periodo in cui era ancora
in vigore il reato di “scarso entusiasmo rivoluzionario”. Con Zio Vanja (1970) le
cose vanno meglio grazie all’abilità con cui il regista riesce a mostrare la
condizione di asfissia intellettuale in cui giace la parte più elevata della società : la
preparazione culturale dei censori era inadeguata a permettere loro di cogliere le
allusioni politiche della vicenda. Pochi anni più tardi, nel 1979, il fratello Nikita
Mikhalkov farà qualcosa di simile – e con notevole resa estetica – nella sua
versione falsamente idilliaca dell’Oblomov di Gončarov, romanzo tradizionalmente
inviso all’universo di valori del Politbjuro a causa del suo eccessivo indugiare
sull’inerzia atavica dell’uomo russo di buona estrazione sociale, ma che diventa
invece realizzabile senza incorrere nelle ire del partito pochi mesi prima che
Brežnev presenzi alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Mosca, in piedi
davanti ad una folla di piccoli Oblomov che sventolano i simboli nazionali. In ogni
caso, tutte queste opere hanno come modelli di riferimento prevalenti la scuola
italiana e quella anglo-francese (si pensi anche ai fratelli Korda), ma non hanno
fornito degli apporti innovativi sotto il profilo teorico o nelle tecniche di ripresa,
tranne forse che per l’introduzione dei processi di desaturazione dei colori, che
hanno avuto in Končalovskij un grande precursore.
7.
Difficilmente si assisterà nel breve periodo alla nascita di qualche nuova tendenza,
e probabilmente per molto tempo ancora l’uso dell’oggetto storico nel cinema
continuerà nel suo movimento pendolare fra il rispetto predicato dai canoni
formalisti e lo stravolgimento auspicato dalla rielaborazione postmodernista.
Anche un lavoro notevole come Il mestiere delle armi (2001) di Ermanno Olmi
tende sostanzialmente a ricadere nel perimetro della soluzione tradizionale, pur
dandole ossigeno vitale tramite un’opportuna accentuazione della dimensione
strettamente documentaristica.
Sull’altra sponda dell’Atlantico, il virtuoso Ridley Scott (inglese trapiantato
che già al suo esordio datato 1977 si era mirabilmente confrontato col genere in un
adattamento pittorico-morale del racconto di Conrad I duellanti) insegna a tutti col
suo Gladiatore (2000) che le nuove tecnologie CGI possono fornire il loro valido
contributo anche nel
mondo dell’ex
peplum, purché non le
si snaturi e restino
degli strumenti, come
ad esempio accade
per l’utilizzo dell’ot-
turatore ad alta velo-
cità nelle sequenze
dei combattimenti
nelle foreste. Ridley
Scott sa conservare il
giusto rapporto uomo-
mezzo senza alcuna soggezione: è la grafica elettronica a rimanere al suo servizio e
a venire impiegata per creare scene di massa su totali vuoti girati in panoramica,
oppure per ringiovanire il Colosseo e riempirne gli spalti senza usare attori La
tecnica non si impadronisce dunque del progetto filmico, ma occorre anche
aggiungere che tale progetto rimane sostanzialmente nel solco della tradizione
consolidata del genere storico, senza la formulazione di proposte
complessivamente nuove.
Forse l’introduzione e il perfezionamento del 3D può rappresentare, con i
dovuti accorgimenti, un’occasione utile a pensare soluzioni complessivamente
nuove per far vivere con una diversa intensità sensoriale l’esperienza della
partecipazione emotiva ai fatti storici attraverso il linguaggio filmico: in questo
caso, potrebbe rivelarsi l’inizio di una nuova stagione in questo genere
cinematografico. Dopo la recentissima riedizione in formato tridimensionale del
Titanic di Cameron, vedremo quali nuovi sviluppi potranno esserci e col tempo
capiremo davvero se, a partire da Avatar, si è prodotta «una cesura e un trauma che
probabilmente atrofizzerà i nostri usurati cinesensi evocandone altri (…) Ossia
James Cameron ipotizza un cinema che, come i mass media studiati da McLuhan,
anticipa i nostri sensi. Quelli che non abbiamo ancora»10.
È possibile, ma per il momento è prematuro darlo per già avvenuto. Di sicuro,
l’elaborazione di avvenimenti storici rappresenta uno dei territori che possono
beneficiare di un simile cambiamento: se ciò avverrà, forse inizierà davvero un
modo totalmente nuovo di rappresentare il passato e continuare a percepirlo come
cinematograficamente attuale.
10 G.A. Nazzaro, Avatar: il nuovo corpo dello sguardo, in: «Filmcritica», n. 601-602, 2010, p. 20.